giovedì 20 novembre 2025

IL VILLAGGIO TEDESCO Boualem Sansal

 


IL VILLAGGIO TEDESCO

Boualem Sansal

Ed. Einaudi, 

Recensione 

Boualem Sansal, lo scrittore autore del romanzo "Il villaggio del tedesco", è stato rilasciato dopo un anno passato a marcire in prigione in Algeria. 

Deve la sua libertà all'intervento del governo tedesco; la Francia, oltre a qualche dichiarazione di circostanza, non ha mosso un dito per liberare il suo illustre cittadino, che ha settantasei anni e necessita cure mediche.

In Italia, in questo lungo anno della vicenda ha parlato solo il Foglio.


    [...] Resterà il capitolo delle circostanze attenuanti, ma ho riflettuto sulla questione e credo di essere giunto alla conclusione che un uomo fagocitato dal Male che non si suicida, non si ribella, non si costituisce per chiedere giustizia in nome delle vittime, ma anzi fugge, si nasconde, organizza l’oblio per i suoi, non ha diritto alla compassione, a nessuna circostanza attenuante.[....]


Due fratelli  alla ricerca della conferma, passo dopo passo, che il padre è stato un criminale di guerra, uno degli artefici dell’Olocausto, è il tema del romanzo di Sansal.

Boualem Sansal non è sulle tracce del suo vero padre, ma quanto racconta dell’ufficiale delle SS che è riuscito a fuggire dalla Germania in macerie, è plausibile. È quanto accadde a moltissimi criminali nazisti supportati da varie organizzazioni finanziate da governi di destra. Hans Schiller, ingegnere chimico (facile intuire quale fu il suo ruolo nei campi di sterminio), era riuscito ad arrivare in Algeria: quale nascondiglio più introvabile di uno sperduto villaggio non raggiunto neppure dalle corriere? Lì era diventato una sorta di eroe, partecipando alla guerra per l’indipendenza, organizzando addirittura la lotta, forte della sua esperienza e delle capacità organizzative tutte teutoniche 

 

IL VILLAGGIO DEL TEDESCO

 

 

 

Diario di Malrich Ottobre 1996.

 

Sono sei mesi che Rachel è morto. Aveva trentatre anni. Un giorno, due anni e mezzo fa, gli si è scassato qualcosa nel cervello, ha cominciato a scorazzare tra la Francia, l'Algeria, la Germania, l'Austria, la Polonia, la Turchia, l'Egitto. Tra un viaggio e l'altro leggeva, rimuginava per conto suo, scriveva, delirava. Ci ha rimesso la salute.

Poi il lavoro. Poi la ragione. Ophélie l'ha lasciato. Una sera, si è suicidato. E successo il 24 aprile di quest'anno 1996, verso le undici di sera. Io non sapevo niente dei suoi problemi. Ero giovane, avevo diciassette anni quando quel qualcosa gli si è scassato nel cervello, stavo prendendo una brutta strada. Rachel lo vedevo poco, lo evitavo, le sue prediche mi stufavano. Mi spiace dirlo, è mio fratello, ma quel genere di cittadino modello ti manda in paranoia. Lui aveva la sua vita, io la mia. Era dirigente in una grossa azienda americana, aveva una moglie, una villetta, una macchina, una carta di credito, il suo tempo era tutto organizzato al minuto, io mi sbattevo ventiquattro ore su ventiquattro insieme agli altri disastrati del quartiere. E classificato zusi, zona urbana sensibile di prima categoria. Non c'è un attimo di tregua, esci da una catastrofe e sprofondi in un'altra. Una mattina ha telefonato Ophélie comunicandoci la tragedia. Era passata alla villetta per avere notizie del suo ex. Avevo un presentimento, ha detto. Ho preso il motorino di Momo, il figlio del macellaio baiai, e mi sono precipitato. Davanti alla villetta c'era della gente, la polizia, l'ambu lanza, i vicini, i curiosi. Rachel era nel garage, seduto per terra, con la schiena appoggiata al muro, le gambe distese, il mento sul petto, la bocca aperta. Sembrava che dormisse. Aveva la faccia sporca di nerofumo. E rimasto per tutta la notte immerso nel gas di scappamento della macchina. Portava uno strano pigiama, un pigiama a righe che non gli avevo mai visto addosso, e aveva la testa rasata come i prigionieri, così, alla buona. Che strano. Ho incassato senza fare una piega; Ancora non mi rendevo conto. Il dottore mi ha detto: E tuo fratello? Ho detto: Sì. Ha detto: Tutto qui l'effetto che ti fa? Ho alzato le spalle e sono andato in salotto. Ophélie era con Com'Dad, il commissario del quartiere. Lei piangeva. Lui prendeva appunti. Quando mi ha visto, ha detto: Vieni un po' qui! Mi ha fatto delle domande. Ho risposto che non sapevo niente. E' vero. Rachel, non lo vedevo. Sospettavo che covasse qualcosa ma pensavo: Lui ha i cazzi suoi, io ho i miei. E' triste dirlo ma è così, nel quartiere il suicidio è normale amministrazione, uno rimane sorpreso un attimo, rimane triste per un giorno o due, e una settimana dopo non ci pensa più. Dice: E' la vita, e continua per la sua strada. Ma lì si trattava di mio fratello, mio fratello maggiore, dovevo capire. Non avevo la più pallida idea di cosa poteva essergli successo e non immaginavo fino a che punto fosse stato grave per lui e lo sarebbe stato per me. Avrei pensato a qualunque cosa, e ci ho pensato per dei giorni interi: una questione di cuore, una questione di soldi, una questione di Stato, una malattia incurabile, che è il peggio in questa cazzo di vita, ma quello no. Ah, no, mio Dio, quello no! Non credo esista al mondo una persona che ha conosciuto un dramma del genere. Dopo il funerale Ophélie se n'è andata in Canada, da sua cugina Cathy che è sposata con un tagliaboschi pieno di soldi. Mi ha lasciato a sorvegliare la villetta dicendo: Poi vediamo. Quando le ho chiesto perché Rachel si era suicidato, mi ha risposto: Non lo so, non mi ha mai detto niente. Le ho creduto, vedevo da come tremava che non lo sapeva, Rachel non diceva mai niente a nessuno. Mi sono ritrovato nella villetta da solo, col morale a terra. Mi rimproveravo di non esserci stato quando Rachel sprofondava nella depressione. Ho girato a vuoto per un mese. Stavo male, non riuscivo nemmeno a piangere. Raymond, Momo e gli altri amici mi tenevano compagnia. Passavano a fine giornata, fingevamo di parlare del più e del meno scolando birra. Tiravamo tardi. E' a quel punto che ho cominciato a lavorare nel garage del padre di Raymond, Il signor Vincent. Il paradiso dei motori, si chiama così. Contratto da apprendista, più le mance. A stare solo andavo fuori di testa. Lavorare ha questo di buono, che dimentichi. Un mese dopo Com'Dad ha telefonato al garage per dirmi: Passa al commissariato, ho una cosa per te. Ci sono andato dopo il lavoro. Mi ha guardato a lungo rigirandosi la lingua in bocca, poi ha aperto un cassetto, ha preso un sacchetto di plastica e me l'ha dato. L'ho preso. Dentro c'erano quattro grossi quaderni tutti stropicciati. Mi ha detto: E' il diario di tuo fratello. Non ci serve più. Mi ha ficcato un dito sotto il naso e ha aggiunto: Leggilo, ti darà da pensare. Tuo fratello era un tipo a posto. Poi ha parlato delle cose che gli stanno a cuore, il quartiere, il futuro, la repubblica, la retta via. Lo ascoltavo spostando il peso da un piede all'altro. Mi ha guardato e ha detto: Togliti dai piedi, su! Appena ho cominciato a leggere il diario di Rachel mi sono sentito male. Dentro mi bruciava tutto. Mi stringevo la testa perché non scoppiasse, avevo voglia di urlare. Non è possibile, mi dicevo a ogni pagina. Poi, quando ho finito di leggere, mi sono calmato di colpo. Dentro ero ge lato. Volevo solo una cosa: morire. Mi vergognavo di vivere. Dopo una settimana ho capito, la sua storia è la mia storia, la nostra storia, è il passato di papà, dovevo viverla anch'io, seguire lo stesso percorso, farmi le stesse domande, e mentre mio padre e Rachel hanno fallito, tentare di sopravvivere. Sentivo che era una cosa troppo grossa per me. Ho anche sentito, con grande forza, senza sapere perché, che dovevo raccontarlo alla gente. Sono storie di ieri, ma la vita è sempre uguale e perciò questo dramma senza paragoni può ripetersi.

 

Prima di raccontare, qualche informazione su di noi. Rachel e io siamo nati laggiù in Algeria, in un donar in capo al mondo, non so esattamente dove. Si chiama Ain Deb. Una volta zio Ali mi aveva spiegato che voleva dire la Fonte dell'asino. Mi era venuto da ridere, immaginavo un asino che montava la guardia tutto fiero davanti al rubinetto sfregandosi egoisticamente la pancia. Siamo figli di madre algerina e padre tedesco, Aicha e Hans Schiller. Rachel è arrivato in Francia nel 1970, aveva sette anni. Dai suoi due nomi, Rachid e Helmut, è saltato fuori Rachel: è rimasto così. Io sono sbarcato qui nel 1985, avevo otto anni. Dai miei due nomi, Malek e Ulrich, è saltato fuori Malrich: è rimasto così. Ci ha ospitati zio Ali, un brav'uomo che aveva sette figli maschi e un cuore grande come un camion. A casa sua, più gente c'è, meglio è. Un compaesano, un amico di papà, che di disgrazie ne ha avute tante ma è riuscito a farsi un nido per la vecchiaia. Non ne ha per molto, poveraccio, non ci sta più con la testa. E' un immigrato della prima ondata, uno shibani, che muore nel silenzio. Per lui sono stato un bel peso. Non si è mai lamentato, diceva sorridendo: Un giorno sarai un uomo. I suoi figli sono tutti scomparsi, uno dopo l'altro, quattro sono morti, di malattia, di incidenti sul lavoro, e gli ultimi tre sono in giro, un po' laggiù in Algeria, un po' altrove, nel Golfo o in Libia, nei cantieri, a tirare la vita coi denti. Si può dire che sono dispersi, non vengono mai, non scrivono, non telefonano. Forse sono morti anche loro. In fin dei conti, zio Ali ha soltanto me. Non ho più rivisto mio padre. Io non sono tornato in Algeria e lui non è mai venuto in Francia. Non voleva che andassimo al paese, diceva: Più avanti, vedremo. Nostra madre è venuta tre volte per quindici giorni, e lì ha passati a piangere. Non ci capivamo, è pazzesco, lei parlava berbero mentre noi masticavamo un po' di arabo dei quartieri di periferia e un tedesco improvvisato, lei ne conosceva solo qualche parola e a noi restavano solo vecchi brandelli scuciti. Ci sorridevamo ripetendo Ja, ja, gut, labesse, azul, tutto bene, genau, fantastico, e tu? Rachel è tornato al paese una volta, per portarmi in Francia. Mio padre non ha mai messo piede fuori dal villaggio. Sembra strano, ma le storie di famiglia sono sempre strane, uno non le sa, perciò non ci fa caso. Dopo il liceo, dove ha scelto tedesco per spirito di famiglia e inglese perché era necessario, Rachel ha fatto Ingegneria a Nantes. Io non ho avuto questa fortuna, non sono andato più in là della quinta elementare.

Mi hanno appioppato una storia, lo scasso dell'armadietto del direttore, e mi hanno espulso. Ho seguito la mia strada, il vagabondaggio, l'apprendistato, i lavoretti precari, la rivendita di merce rubata, la moschea, il tribunale. Con gli amici eravamo come pesci nell'acqua, seguivamo le correnti e le fantasie del momento. A volte ti beccano, ma per lo più ti rilasciano subito. Ne approfittavamo, prima dell'età per la galera. Sono passato davanti a tutte le commissioni e alla fine mi hanno dimenticato. Non mi lamento, quel che è stato è stato. E' il destino, il maktub come lo chiamano i vecchi arabi del quartiere. Fra amici, ci diciamo cose del tipo: L'avversità è una buona scuola, il rischio fa l'uomo, le palle ti vengono a furia di sbatterti... A venticinque anni Rachel ha ottenuto la nazionalità francese. Ha organizzato una festa galattica. Ophélie e sua mamma, la signora Wenda, una fanatica del Front National, non avevano più scuse per rimandare il matrimonio. Algerino e tedesco, ma comunque francese e per di più ingegnere, hanno risposto a chi chiedeva informazioni. Altra festa. Va detto che Rachel e Ophélie era una storia che andava avanti dall'infanzia, la brava signora Wenda lo ha tenuto d'occhio e ha visto come cresceva serio e beneducato. Oltretutto era biondo, e con gli occhi azzurri, più biondo di Ophélie, che era castana, e con gli occhi scuri.

Il resto l'hanno fatto il lato tedesco di Rachel, che ha preso tutto da nostro padre, e il lato ape operosa di Ophélie. La loro vita funzionava come un orologio, bastava ricaricarlo. A volte li invidiavo, a volte avevo voglia di ammazzarli per abbreviargli le sofferenze. Li evitavo, per restare in buoni rapporti. Quando andavo a trovarli, si guardavano intorno come se un tornado minacciasse il loro nido. Appena mi muovevo, Ophélie mi precedeva e poi passava di nuovo a controllare. Dopo aver ottenuto la naturalizzazione mi ha detto: Adesso mi occupo della tua, non puoi rimanere così, come un cane sciolto. Ho alzato le spalle: Me ne frego, fa' come vuoi. L'ha fatto. Un giorno è venuto a farmi firmare delle carte e un anno dopo è tornato a dirmi: Benvenuto fra noi, il decreto è firmato. Mi ha spiegato che il suo capo ci aveva dato una spintarella in alto loco. Mi ha invitato in un bel ristorante di Parigi, dalle parti di place de la Nation. Non per festeggiare i documenti, ma per leggermi i doveri annessi e connessi. Così, appena finito il dolce, ho tagliato la corda. Mi sono messo d'accordo col signor Vincent, ho preso un mese di ferie pagate. E' stato un bel gesto da parte sua, avevo lavorato solo tre giorni una volta, cinque giorni un'altra e non avevo nemmeno finito la macchina che stavo riparando. Mi ha coperto le spalle con i servizi sociali del Comune che pagavano per il mio tirocinio.

 

Avevo bisogno di starmene per conto mio. Avevo raggiunto lo stadio in cui uno può sopportare il mondo solo allontanandosene e annegando nel proprio dispiacere. Ho letto e riletto il diario di Rachel. Era una cosa talmente enorme, talmente orrenda che non riuscivo a raccapezzarmi. E di colpo, io che scrivere mi faceva schifo, mi sono messo a scrivere come un pazzo. Poi ho cominciato a correre di qua e di là. Quello che ho passato non lo auguro a nessuno.

 

Diario di Malrich

Novembre 1996.

 

Ho fatto fatica a leggere il diario di Rachel. Il suo francese è diverso dal mio. E il dizionario non mi aiutava, mi rimandava da una pagina all'altra. Una vera trappola, ogni parola è una storia a sé, inserita in un'altra storia. Come fare a ricordarsi tutto? Mi è tornato in mente quello che diceva il signor Vincent: L'istruzione è come tirare i bulloni, troppo è troppo, troppo poco è troppo poco. Comunque ho imparato tanto e più imparavo, più volevo imparare. Tutto è cominciato lunedì 25 aprile 1994, alle otto di sera. Un dramma che se ne tira dietro un altro, che ne rivela un terzo, il più grosso di tutti i tempi.

Rachel ha scritto:

Non sentivo di avere dei veri legami con l'Algeria ma tutte le sere, alle otto in punto, ero davanti al televisore ad aspettare le notizie di laggiù. C'è la guerra. Una guerra senza volto, senza pietà, senza fine.

Hanno raccontato tante di quelle cose, una più terribile dell'altra, che ho finito per convincermi che un giorno o l'altro, dovunque ci fossimo trovati, qualunque cosa avessimo fatto, in qualche modo quella mostruosità ci avrebbe colpiti. Avevo paura per quel paese lontano, per i miei genitori che erano là quanto per noi che eravamo qui, al riparo da tutto. Nelle sue lettere papà parlava solo del villaggio, del suo tran tran, come se stesse in una bolla fuori dal tempo. A poco a po co, nella mia mente, l'Algeria si è ridotta al villaggio. Me la figuravo così: una vecchia borgata di un vecchio racconto ormai dimenticato da tutti; i suoi abitanti non hanno nome, non hanno volto, non parlano, non si muovono; li vedevo in piedi o accovacciati o sdraiati su una stuoia o seduti su uno sgabello davanti a una porta chiusa o a un muro pieno di crepe, imbiancato a calce; i loro gesti sono lenti, senza uno scopo preciso; le strade sono strette, le case basse, i minareti storti, le fontane asciutte, e la sabbia estende vertiginosamente le sue onde da un capo all'altro dell'orizzonte; nel cielo, una volta l'anno, passano delle nubi come pellegrini incappucciati che borbottano fra sé e sé, non si fermano, vanno lontano a immolarsi nel sole o a gettarsi in mare; a volte fanno penitenza sopra la testa della gente ed è il diluvio della Bibbia; qua e là sento dei cani che abbaiano a vuoto, da tempo non ci sono più carovane ma, come in tutti questi paesi abbandonati, autobus scheletriti che traballano su piste disastrate fumando come demoni; vedo bambini nudi che corrono a gambe levate, sembrano ombre in una nube di polvere, troppo veloci perché si capisca a cosa giocano, quale finn li insegue; li accompagnano risa, pianti, grida, che si perdono nell'aria impregnata di luce e di cenere e diventano un frastuono che si mescola ai suoi stessi echi. E più mi dicevo che tutto questo era un film che mi raccontavo io, la paccottiglia della nostalgia, dell'ignoranza, dei cliché visti alla televisione, e più il quadro sembrava autentico al cento per cento. In compenso, papà, mamma, li vedevo distintamente, udivo la loro voce, sentivo il loro odore, e al tempo stesso sapevo che era tutto finto, sono creazioni mentali, immaginette della mia infanzia che il ricordo rinverdisce di anno in anno. Mi dicevo anche che in quel paese la vita era dura, che probabilmente lo era ancora di più in quel villaggio in capo al mondo, e allora il velo sereno si strappava e vedevo un vecchio invalido che tentava di stare ben dritto per stupirmi e una vecchia tutta gobba che cercava di alzarsi per me appoggiandosi al muro scrostato, e mi dicevo: Ecco papà, ecco mamma, ecco come li hanno fatti diventare il tempo e la fatica di quella vita. Quello che so dell'Algeria, lo so dai media, dalle letture, dai discorsi con gli amici. Quando abitavo nel quartiere, da zio Ali, ne avevo una percezione troppo vera perché fosse reale. Le persone recitavano la parte dell'algerino, più di quanto il realismo potesse tollerare. Non li obbligava nessuno, ma si sforzavano al massimo di rispettare il rituale.

Uno, emigrato è ed emigrato resta per l'eternità. Il paese di cui parlavano con tanta emozione e tanto calore non esiste. E ancor meno quell'autenticità che considerano la stella polare della memoria.

L'idolo porta in fronte un marchio di conformità, troppo visibile, si capisce subito che è un prodotto da bazar, contraffatto, artificiale, e quanto mai pericoloso da usare. L'Algeria era diversa, aveva la sua vita, ed era già risaputo in tutto il mondo che i suoi grandi dirigenti l'avevano saccheggiata e la preparavano attivamente alla catastrofe definitiva. Il paese vero è quello dove uno vive; gli algerini di laggiù lo sapevano benissimo. Del dramma in cui si dibattevano conoscevano l'alfa e l'omega, e se fosse dipeso solo da loro, i torturatori sarebbero stati le uniche vittime delle torture. L'hanno detto in apertura del tigi, il 25 aprile 1994, alle otto: «Nuovo massacro in Algeria. Ieri sera un gruppo armato ha assalito un villaggio chiamato Ain Deb e ha sgozzato tutti gli abitanti. Secondo la televisione algerina, anche questo ennesimo massacro è opera degli integralisti del jijad...» Sono balzato in piedi con un grido: - Dio mio, non è possibile! - Quello che temevo è successo, la barbarie ci aveva colpiti!

Sono ricaduto a sedere intontito, sudavo, rabbrividivo, tremavo. Ophélie è uscita dalla cucina gridando: - Che succede?... Cos'hai?... Di' qualcosa, per la miseria!... - L'ho cacciata via. Avevo bisogno di starmene da solo, per convincermi, per risvegliarmi. Ma la realtà era lì, avevo davanti agli occhi, in fondo al cuore, il volto dei miei genitori, vecchissimi, terrorizzati. Mi chiedevano aiuto, mi tendevano le braccia mentre ombre arcaiche li trattenevano con violenza, li gettavano a terra, gli premevano un ginocchio sul petto, gli piantavano il coltello nella gola. Vede vo le gambe sussultare mentre la vita abbandonava atterrita il loro vecchio corpo. Credevo di conoscere l'orrore, lo vediamo ovunque nel mondo, ne sentiamo parlare tutte le sere, i suoi meccanismi ci sono ben noti, ogni giorno esperti ci spiegano la sua tremenda logica, ma in realtà l'orrore lo conosce solo la vittima. E in quel caso io ero una vittima, la vittima, figlio di vittime, il dolore è autentico, profondo, misterioso, indicibile.

Devastante. Accompagnato da un interrogativo atroce. L'indomani, prestissimo, ho chiamato l'ambasciata algerina a Parigi per sapere se i miei genitori fossero tra le vittime. Hanno trasferito la chiamata da un interno all'altro, ho atteso in linea col fiato sospeso e, alla fine, si è manifestata una voce cortese: - Che nomi ha detto? - Schiller... s, c, h, i, doppia I, e, r... Aicha e Hans Schiller. Mentre lui frugava tra i suoi fogli, supplicavo Dio di risparmiarci. E la voce cortese si è manifestata di nuovo per dirmi con un tono di sollievo: - Stia tranquillo, non sono nel nostro elenco... Ehm... - Sì, cosa? - Però ho una Aicha Majdali e un Hassan Hans detto Si Mourad... Le dicono qualcosa? - E' mia madre... e mio padre... - ho risposto trattenendo le lacrime. - Le porgo le mie condoglianze. - Perché non figurano con il loro nome, Aicha e Hans Schiller? - Non saprei, l'elenco ci arriva da Algeri, dal ministero dell'Interno. Rachel non mi aveva detto niente. Io non guardo mai la televisione e i miei amici non sanno nemmeno che esiste. Stare seduti a seguire delle immagini, ad ascoltare dei discorsi, non è il massimo. O se ho sentito parlare del massacro, è stato per caso, non ho fatto attenzione. Ain Deb, l'Algeria, non mi dicevano granché. Si sapeva della guerra in quel paese, ma a grandi linee, se ne parlava come di qualunque altra guerra, in Africa, in Medio Oriente, a Kabul, in Bosnia. I miei amici vengono tutti da qualche parte dove impazza la guerra, dove imperversa la carestia, si chiacchiera in generale senza soffermarsi sul particolare. La nostra vita è il quartiere, la noia, la cappa di piombo, le liti tra vicini, la guerra tra clan, le incursioni degli integralisti, le irruzioni della polizia, le risse, l'andirivieni degli spacciatori, le lavate di testa dei fratelli maggiori, le manifestazioni, i funerali. Ci sono le feste di famiglia, simpatiche, ma è roba da donne, gli uomini restano giù in strada a guardare i muri. Se uno ci va, è per dire che c'è andato. Per il resto si crepa di noia, si sta per conto proprio e si aspetta che il tempo passi. A volte vedo arrivare Com'Dad, il commissario Daddy. Fa finta di niente: To', siete qui, non vi avevo visti, passavo... Poi si avvicina, si appoggia alla ringhiera e, come tra vecchi compagni di sventura, ci parla del più e del meno, cominciando dal calcio. Noi ci chiediamo: Vuole sapere qualcosa o farci un pistolotto? Tutte e due le cose, fratelli. A volte gli diamo delle informazioni, gli rifiliamo delle dritte già decotte, a volte facciamo finta di sognare ad alta voce una vita tutta al servizio dell'umanità e dell'ambiente. Ci divertiamo un sacco e ci separiamo con una stretta di mano all'americana. E capitato che ci invitasse a bere un tè nel locale di Da Hocine o un caffè al bar della stazione. Pensa che sia una buona tecnica per spremerci, poveraccio. Per noi è un disonore, ma nello stesso tempo facciamo credere agli amici che Com'Dad lo manipoliamo alla grande, lo indirizziamo su false piste, ce lo lavoriamo per dare una mano ai clandestini. Lui invece non si fa mai problemi a invitarsi, partecipa a tutte le feste del quartiere, matrimoni, circoncisioni, escissioni, contratti di apprendistato, rilascio dei carcerati, ritorno degli hajj dalla Mecca, concessione del permesso di soggiorno, e ogni anno non si perde mai il grande massacro di pecore dell'Aid. Ai funerali, apre il corteo. E della nuova scuo la di polizia: Per capire il nemico, bisogna vivere con lui, come lui. Nel garage della villetta ho trovato i giornali che avevano parlato del massacro di Ain Deb, giornali di qui e di laggiù, «Le Monde», «Liberation», «El Watan», «Liberté»... Ce n'era un fascio. Rachel aveva sottolineato i passi che ci riguardano.

Leggendoli, avevo il cuore a pezzi. Ma ero anche indignato, i giornalisti parlavano del genocidio come di un fatto di cronaca e nello stesso tempo sembravano sottintendere: Ve l'avevamo detto, questa guerra non è chiara. Ma quale guerra lo è, porca miseria, quella lo è meno delle altre, tutto qui! E allora, ti immagini subito delle porcherie, delle schifezze, che ti fanno stare ancora peggio. Per giorni interi mi sono rivisto quel film nella testa, avevo la nausea. Un vecchio villaggio in capo al mondo, addormentato sotto la sua trapunta, un cielo senza luna, cani che cominciano ad abbaiare, occhi stralunati che sbucano dalle tenebre, ombre che si intrufolano qua e là, vengono a origliare alle porte, le sfondano con una pedata, grida disumane, ordini lanciati nel buio, gente terrorizzata trascinata in mezzo alla piazza, bambini che piangono, donne che urlano, ragazze stravolte dalla paura che si aggrappano alle madri coprendosi il seno, vecchi inebetiti che implorano Allah, che supplicano gli assassini, uomini lividi che borbottano tra sé e sé. Vedo un gigantesco barbuto bardato di cartucciere che arringa la folla in nome di Allah e decapita un uomo con una sciabolata. Poi è la mischia, il carnaio, pianti, urla, sussulti, risate selvagge. Poi torna il silenzio. Ancora qualche rantolo, piccoli rumori che si spengono uno dopo l'altro, poi una specie di tranquillità pesante, vischiosa, che piomba sul vuoto. I cani non abbaiano più, guaiscono con il muso tra le zampe. La notte si richiude su se stessa, sul suo segreto. E il film ricomincia con più particolari, più grida, più silenzio, più oscurità. E sento l'odore della morte che prende la gola e l'odore del sangue che si mescola alla terra. E vomito. Di colpo mi rendo conto che sono nella villetta, da solo. Fuori è buio pesto, c'è un silenzio enorme. All'improvviso, un cane abbaia. Immagino delle ombre che circondano il quartiere. Mi faccio coraggio e mi addormento come un sasso.

 

Rachel ha scritto: Ho deciso, vado a Ain Deb. E' un dovere, un'assoluta necessità. E' la mia via di Damasco. Che importano i rischi. Non è una cosa semplice. Al consolato algerino di Nanterre mi hanno accolto come se fossi un dissidente sovietico. L'addetto mi ha fissato negli occhi fino a farmi star male, poi ha girato & rigirato il mio passaporto, letto e riletto la mia domanda di visto, e improvvisamente si è appoggiato allo schienale e, con gli Occhi socchiusi, ha fissato un angolo del soffitto così a lungo che ho creduto stesse morendo di apnea del sonno. Non saprei dire se sentiva che lo chiamavo e se capiva che ero preoccupato. Poi, di colpo, si è chinato verso di me per dirmi tra i denti, quasi in confidenza: -Schiller, cos'è... inglese... ebreo? - E' un passaporto francese, quello che ha in mano. - Perché vuoi andare in Algeria? - Caro signore, mio padre e mia madre sono algerini, vivevano in Algeria, a Ain Deb, fino al 24 di questo mese, giorno maledetto che ha visto il loro villaggio scomparire dalla carta geografica per volontà degli integralisti. Vado a visitare la loro tomba e a tentare di consolarmi della mia perdita, lo capisce questo? - Ah sì, Ain Deb!...

Dovevi dirlo prima... ma non è possibile, non concediamo visti agli stranieri... - E allora a chi li concedete? - Se ti fai assassinare laggiù, diranno che ti abbiamo ammazzato noi. Del resto, il tuo governo vi proibisce di andare in Algeria, non lo sai o ci provi? - E allora come si fa? - Prendi un passaporto algerino, visto che sei figlio di algerini. - Come? - Chiedi allo sportello passaporti. Dopo tre mesi di andirivieni infernali l'ho avuto, quel prezioso documento. Ottenere dei certificati dall'Algeria è di sicuro la missione più difficile al mondo.

Rubare la Torre Eiffel o rapire la regina d'Inghilterra nel suo palazzo è un giochetto in confronto. Hai voglia a suonare, non risponde nessuno.

La posta si smarrisce sopra il Mediterraneo o viene intercettata dal Grande Fratello e depositata in un silo nel Sahara, fino al giudizio universale. Solo per il certificato di nazionalità algerina di papà ci sono volute cinque raccomandate e due mesi buoni di folle attesa. Munito dei miei documenti, mi sentivo un eroe, avevo conquistato l'Annapurna.

Sono tornato di corsa al consolato. L'addetto ai passaporti ha cercato di fare il furbo come il suo collega dei visti ma alla fine la legge ha trionfato. Dio, come deve essere umiliante e rischioso essere algerini a tempo pieno! All'agenzia di Air France mi hanno guardato come se fossi arrivato con il cappio al collo per impiccarmi davanti a loro. - La compagnia ha soppresso le rotte per l'Algeria, - mi ha liquidato l'impiegata facendomi segno di sgomberare. Mi sono rivolto a Air Algerie. L'impiegata non ha trovato niente da rimproverarmi, mi ha restituito il passaporto nuovo di zecca dicendomi: - Torni un altro giorno, il computer non funziona, o vada a comperare il biglietto altrove. Quando ho avuto tutto in tasca, ho detto a Ophélie che partivo.

Come mi aspettavo, è esplosa. - Dai i numeri, cosa ci vai a fare? - E' per affari, l'azienda mi manda a sondare il mercato. - Ma c'è la guerra!

- Appunto. - E hai accettato? - E' il mio lavoro... - Perché me lo dici solo adesso? - Non era ancora sicuro, cercavano una buona entratura.

-Va' pure a farti ammazzare laggiù, non me ne frega niente! Quando Ophélie mette il muso, è la fine. L'indomani, all'alba, sono sgattaiolato via come un ladro. Il viaggio fu più tranquillo di quanto non avessero pronosticato il consolato, le compagnie aeree e Ophélie.

Sono arrivato ad Algeri come una lettera imbucata in Svizzera. Nessuna sorpresa, l'aeroporto internazionale di Algeri era ancora lì dove lo avevo lasciato nel 1985, quando ero venuto a prendere il piccolo Malrich, assolutamente identico. La differenza sta nel clima, allora c'era un'aria di vago sospetto gratuito, adesso di terrore generalizzato. Hanno paura della loro ombra. Sono successe delle cose ultimamente, l'aeroporto ha subito un attentato, all'ingresso c'è ancora il buco e sui muri si vedono le tracce di sangue. Mi sono ritrovato fuori nella ressa, sotto un sole implacabile. Che fare, dove andare? Con il mio look da straniero al cento per cento, non passavo inosservato. Il tempo di pensarlo ed ero circondato da tizi equivoci che mi parlavano senza muovere le labbra, chi con gli occhi rivolti al cielo, chi senza alzare lo sguardo: «Ehi, signore!... taxi!... non caro... prezzo di favore». Degli abusivi ventriloqui. Capita l'antifona, ho adottato la stessa tattica: - Quanto, per Ain Deb? - Dov'è? - Dalle parti di Sétif.

Mi si è fatto il vuoto intorno. Troppo lontano... troppo pericoloso.

Certi mi hanno voltato le spalle senza commenti, altri mi hanno lanciato un'occhiata sferzante. Sembrava che il mio viaggio dovesse concludersi lì quando è comparso un tipo strano. Scambio di bisbigli a distanza. Ci stava. Chiedeva una cifra con parecchi zeri. A quella tariffa, uno si può permettere Parigi - New York in cadillac, ma insomma, il rischio ha il suo prezzo. Ho accettato con un impercettibile battito di ciglia. Il benefattore mi ha ordinato di seguirlo a distanza, con aria indifferente. L'auto era parcheggiata fuori dal complesso dell'aeroporto. Mi sono fermato a guardarla. Stava per rendere l'anima.

- Niente paura, è per tener lontano il malocchio, - ha detto lui. Si è messa in moto appena ha inserito la chiave. L'uomo si chiamava Omar. Con tre accelerate eravamo fuori città. L'ho soprannominato Schumacher e gli ho detto che desideravo arrivare vivo a destinazione. - Eh, signore, dobbiamo essere a Sétif prima di sera, è l'ora dei falsi posti di blocco. Dormirai tranquillo in albergo e domani prenderai un taxi per il tuo douar. Io dormirò a casa di qualcuno, se trovo un vero musulmano...

- E così, devo prendere un taxi quando ne ho sotto mano uno che ho pagato a peso d'oro? - Eh, signore, io non vado in un posto che non conosco, dove i banditi hanno sgozzato tutti gli abitanti! Lo capisci, no? - Capisco soprattutto che mi sono fatto fregare. D'accordo, non voglio avere la tua morte sulla coscienza, mi basterà la mia, a Sétif ci salutiamo. La paura mi attanagliava le viscere. La strada era deserta da ghiacciare il sangue. Non un'anima. Non un rumore. Solo il vento che fischia intorno all'auto e gli pneumatici che stridono come serpenti schiacciati. Sorpassavamo veicoli militari pieni di ragazzini in armi, che procedevano a passo d'uomo. Avvicinandosi, Omar rallentava, guardava a destra, a sinistra, davanti, dietro, tirava su col naso, o la va o la spacca, cambiava marcia e accelerava a tutta forza. Poi sorrideva: Sono veri, stai tranquillo -. Era darmi il colpo di grazia. - Se ci imbattiamo in quelli finti, che succede? - ho domandato stupidamente. Niente, - ha risposto passandosi il pollice sotto il mento, da un orecchio all'altro. E ha sorriso. Ci concedevamo qualche sosta, per la benzina, per il caffè, per la pipì. All'ingresso di ogni villaggio, un posto di blocco della gendarmeria. La procedura era standard: ci puntavano contro la mitragliatrice pesante, ci intimavano di spegnere il motore, scendere con le braccia alzate, lasciare le por tiere aperte e dirigerci verso la casamatta, uno dopo l'altro, a una certa distanza.

Poi venivano il controllo dei documenti, il breve interrogatorio, la perquisizione personale, quella del veicolo e alla fine ci fornivano raccomandazioni per il viaggio. «Nel tal posto, state in campana... se vedete un bambino o una donna spaventata che fanno l'autostop o un ferito che si torce in mezzo alla strada chiedendo aiuto, pigiate sull'acceleratore, sono trappole». Omar le conosceva, me le ha raccontate durante il tragitto. Mai viaggio fu più affannoso, benché avessimo incontrato solo bravi gendarmi e buoni soldati, tutti quanti impauriti. Ci siamo fatti i trecento chilometri tra Algeri e Sétif in meno di quattro ore come succede normalmente in Francia. All'ingresso di Sétif, il sole stava tramontando ma picchiava ancora duro come una pressa idraulica. Omar ha sfoderato il suo migliore sorriso per dirmi: Vedi, signore, il viaggio è andato bene -. Ho ribattuto: - Mi chiedo perché mi è costato così caro. A questa tariffa, uno ha diritto almeno a qualche morto, che muoia il sole al tramonto non basta.

 

Non me lo facevo così, Rachel. E sempre stato serio, distante, chiuso.

Con me prendeva un'aria da fratello maggiore che mi metteva la morte addosso. Va detto che nel quartiere era come un pesce fuor d'acqua, poveraccio, con il suo fisico da svedese ben nutrito, supereducato, i suoi titoli di studio, il suo lavoro in una multinazionale, la sua villetta fiorita nella zona snob. Al quartiere non piacciono queste cose, uno che ce la fa: nascono delle gelosie, si agitano le acque, si risvegliano un sacco di frustrazioni. Ero in imbarazzo, agli occhi di certa gente passavo per un privilegiato. Dicevano: Chiedi a tuo fratello. Era meglio se Rachel andava a vivere a Parigi. Non ho mai capito perché è rimasto fra noi. Oltretutto, Ophélie era la più sexy del quartiere. I ragazzini l'avevano soprannominata Tettabella, tanto per chiarire com'era fantastica. Quando Rachel l'ha sposata, ho fatto girare il messaggio: Il primo che la chiama Tettabella è morto. I ragazzini l'hanno sopran nominata Rachella. Sono cresciuti, conoscono la regola: con le donne del quartiere, niente sgarri. Qui, nel suo diario, Rachel è fico, simpatico, divertente. Umano, insomma. Il dolore lo ha reso umile, lo ha avvicinato alla gente. Almeno credo, ma non sono sicuro; nel quartiere sono tutti dei poveracci, ma non tutti sono umili e quelli davvero umani come zio Ali e zia Sakina, sua moglie, li conti sulle dita di una mano. Forse il vero motivo sta nel farsi delle domande. Lui se ne è fatte tante, di domande, nel suo diario. Credo anche che aver preso la decisione di andare a Ain Deb, nonostante i rischi e il colpo che aveva avuto, gli ha tolto un peso dalle spalle. Dicono che fare il proprio dovere è una grossa soddisfazione. Rachel non racconta come se l'è cavata a Sétif e con che mezzo ha raggiunto Ain Deb. Probabilmente ha contrattato con un abusivo e la tariffa comprendeva il pericolo di inoltrarsi nell'interno. Lui, che con me non scuciva un soldo, in Algeria ha trovato chi gli teneva testa. Secondo Momo, i cui genitori vengono dalla Cabilia, a Sétif c'è tutto, case, strade, caffè, garage quanti ne vuoi, e una famosa fontana al centro di una piazza chiamata piazza della Fontana. Giura che è la più bella città del mondo. Dice anche che gli abitanti sono come i cowboy che non scendono mai da cavallo: tutti camionisti o taxisti, di padre in figlio, fieri di esserlo, e che per loro morire al volante è un onore a cui non rinuncerebbero mai. Riferisco l'informazione come l'ho avuta. Ognuno ha le sue stranezze. Rachel è arrivato a Ain Deb verso le tre del pomeriggio. Ha scritto:

Mio Dio, e dire che sono nato qui, così lontano da tutto! Ain Deb, la Fonte dell'asino, non è segnato su nessuna carta geografica. E non è probabile che uno ci capiti per caso, non c'è un motivo al mondo che possa spiegare la presenza di qualcuno da queste parti. Nemmeno se si è smarrito o sta fuggendo: avendo diritto più di altri a un'occasione per cavarsela, taglierebbe la corda il più velocemente possibile. Lasci la strada asfaltata a qualche chilometro da Sétif e ti inoltri su piste in una regione spoglia, tormentata, silenziosa, aperta su orizzonti interminabili. Ti senti subito a disagio, ti senti piccolo, sperduto, condannato. In molti punti non c'è una linea di confine fra cielo e terra, e dovunque posi lo sguardo vedi solo il vuoto e il color ocra. Ti sembra di avanzare verso un muro di sabbia infinita e sfuggente, e all'improvviso sei sconvolto all'idea che lo sfondo si stia chiudendo alle tue spalle. Come spiegarlo in parole povere? Un matematico direbbe che sei entrato quanticamente in uno spazio non euclideo; non ci sono punti di riferimento per noi esseri umani, nessun segno, nessuna nozione di tempo, nessuna piacevole distrazione, solo un brusio lancinante che sembra l'eco di cataclismi antidiluviani. Stremato dal caldo mi chiedo: Da che pericolo fuggivano i primi uomini per decidere di isolarsi qui?

Perché i loro successori sono rimasti? Quale sortilegio li ha incatenati a questa terra? E' atroce, ma ho pensato addirittura che il massacro del 24 aprile fosse nella logica delle cose. Questa terra è fatta per rimanere vuota, tollera l'uomo solo il tempo di escogitare come sbarazzarsene. Eppure io sono nato qui, ho passato qui l'infanzia, ho giocato qui. Devo averla amata, a quell'età tutto ti incuriosisce, oppure trasformi la noia in sogno e te lo godi. Se me ne sono andato, è perché l'ha deciso mio padre, anticipando il verdetto della terra e quello dei pazzi di Allah che, venticinque anni dopo, troveranno nel loro cervello vuoto l'idea di cancellare le ultime tracce di vita. Il villaggio è annidato in una stretta valle chiusa tra due colline spelacchiate. E' evidente che i primi a stabilirsi qui volevano nascondersi. Risale alle origini, le tribù si dissanguavano in guerre ancestrali. I deboli si mettevano al riparo e coltivavano la povertà per scongiurare la razzia. Oppure, forse, la regione era prospera e benevola per tutti, e si è vuotata dopo, in seguito a qualche immensa sciagura, una maledizione, una strana malattia, un mistero senza nome. Poi può essere arrivata la siccità distruggendo le ultime illusioni. Forse i suoi figli se ne sono andati verso altri luoghi, altri cieli, portando con sé un ricordo tormentoso in cui, con una sorta di prosopopea circolare della quale erano il soggetto e l'oggetto, hanno cercato invano la spiegazione della loro condanna, e così, per stanchezza, per paura o per bisogno di espiazione, non sono riusciti a vivere serenamente la loro nuova vita. Per chi fugge, l'idea stessa di una tana equivale a un pericolo, vede la trappola in cui si ritroverà con le spalle al muro. Ain Deb ha resistito per miracolo, aveva la sua fonte e la voglia di vivere radicata nel corpo. E dove nasce il miracolo, a segnalarlo c'è sempre un bravo asino. E' pazzesco come uno non conosca la storia del proprio paese. Mi domando quanti al mondo siano capaci di raccontare dalla a alla z, senza perdersi in qualche bella fantasia di ripiego, la storia del loro villaggio, del loro quartiere, della loro casa. E senza dubbio pochissimi conoscono la storia della loro famiglia, Io non lo sapevo ancora; la storia della nostra, sovrumana e folle, mi sarebbe ben presto scoppiata in faccia e mi avrebbe ucciso.

 

Mi sono fermato in cima alla collina. Non mi sentivo la forza di proseguire, avevo la nausea, mi pizzicavano gli occhi, il sudore mi bruciava la schiena. La morte era nell'aria, ne sentivo l'odore. Nello stesso tempo, avvertivo una persistenza che segnalava la vita e il bisogno di eternità che l'accompagna. Il cuore mi batteva all'impazzata, accompagnava con grandi colpi di tamburo una melopea che veniva da lontano, dalle profondità della terra, o le pulsazioni del sole o le grida di aiuto di una memoria imprigionata nella pietra. In quella bellezza selvaggia, in quella tormenta minerale, in quella luce cruda, la vita e la morte erano tutt'uno. Qui vivere e morire si confondevano, il problema non si poneva, il tempo era ciò che è sempre stato, un silenzio senza fine, un'immobilità inaccettabile, e la luce che cresce e che declina, il susseguirsi delle stagioni come fratelli e sorelle, esprimono soltanto le immutabili peripezie del ciclo solare. Mi sono seduto su un sasso, con il fazzoletto in testa, e come un vecchio che torna nel suo continente, ho frugato tra i ricordi, ho esumato delle immagini. La realtà le ha ben presto spazzate via, non quadrava niente.

Avevo trovato in un angolo del cervello il ricordo di un grosso paese vivace e allegro, che troneggiava in cima a una montagna, allungando avidamente i suoi tentacoli verso il basso, in direzione dello uadi, e avevo davanti agli occhi uno spettacolo di desolante verità: un misero villaggio che sembrava aver esaurito ogni energia nel lungo e vano tentativo di radicarsi sulle alture. Tutto era assolutamente infossato.

Un paio di case partite all'assalto del cielo erano rimaste lì, a mezza strada, incompiute, abbandonate alla rovina. C'era dell'acqua nello uadi, e dei rospi pustolosi che molestavamo durante la stagione degli amori, adesso c'era solo una minuscola palude in un letto polveroso cosparso di legna secca levigata dal tempo. Vedevo un'allegra foresta, c'era un boschetto agonizzante. Le strade erano piene di vita e di confusione, ed ecco che, riparandomi gli occhi con la mano, scorgevo dei vicoli deserti, dei muri pieni di crepe, un cane che vagabondava con le sue pulci, una gallina che andava e veniva tristemente, un asino meditabondo, e... ma si... laggiù... e laggiù, in quel cortile, su quella terrazza, nell'ombra della moschea, delle persone, delle donne, dei bambini! Sono scattato in piedi e sono sceso dalla collina, a balzi, come un muflone. Ah, come riesce a conservarsi, la vita, è straordinario! Molti erano scampati al massacro, erano fuggiti nell'oscurità fitta, si erano nascosti come potevano, altri avevano finto di essere morti, alcuni non sapevano per quale miracolo fossero riusciti a salvarsi. Mi avevano riconosciuto alla prima occhiata. «E' Rachid, il figlio dello sceicco Hassan!» gridavano da ogni parte. Erano accorsi tutti e mi si erano affollati intorno. Già i bambini mi frugavano nelle tasche come con un vecchio zio di ritorno dalla città.

Ero incapace di uscire dal mio riserbo, me ne stavo impettito, la testa rigida, lo sguardo incerto, balbettavo delle formule di cortesia la cui incongruenza in quei luoghi suonava orribile alle mie stesse orecchie.

Stupidamente, mi ero messo a declamare: «Salam! salam!» Ah! Come fui salutato, coccolato, ringraziato, elogiato. I ruoli si erano invertiti, i paria festeggiavano il privilegiato, ero sbalordito. Non ho riconosciuto gli amici d'infanzia, erano invecchiati con la rapidità del fulmine, erano malmessi oltre il limite del sopportabile, a un passo dal diventare dei vegliardi invalidi che vengono portati al sole la mattina e riportati in casa tremanti al calare della notte. Ero a disagio di fronte alle loro venerabili bocche mezze sdentate, ai loro capelli stopposi, alle loro rughe profonde, alle loro schiene curve. Le mani erano spesse e pietrificate, si poteva leggere con una sola occhiata la loro breve storia nei meandri delle callosità. Quanto ai vecchi di un tempo, erano tali e quali, forse più arzilli dei nipoti. Quando la fine bussa alla porta, c'è come una ripresa di vitalità. Poi abbiamo parlato, e parlato, per tre giorni di fila. Il mio arabo approssimativo delle periferie francesi non mi serviva a niente. Ho mescolato quello che sapevo, francese, inglese, tedesco, qualche parola di arabo, di berbero, e così, rapidamente, si è instaurato un ponte, ci capivamo alla perfezione. Per la verità, avevamo poco da dirci, bastava il sorriso, e qualche gesto e brevi convenevoli pronunciati con emozione. Si svolge tutto nella testa, ci si parla e ci si risponde da soli, lo sguardo e il gesto riassumono per gli altri il nostro soliloquio. In realtà, si dice solo: «Bene, grazie, Allah è grande», e lo si ripete alla persona successiva bevendo caffè. Passavo da una casa all'altra. Ritrovavo luoghi, odori, e tutto il mistero dell'infanzia che improvvisamente veniva a risvegliare in me la voglia di correre, ficcare il naso dappertutto, rubacchiare, complottare, e crearmi nuovi grandi segreti con l'impegno di non cedere mai alla tentazione di rivelarli a qualcuno.

Rievocavamo la notte fatale. Tutti avevano perduto una persona cara, un genitore, un amico, un vicino. Si', le cose sono andate come avevo pensato. Il delitto è cosi' semplice da capire, è la cosa che conosciamo meglio, che immaginiamo con più facilità, è quanto ci fanno vedere, sentire, leggere, tutti i giorni. E' il nostro totem piantato al centro della terra, visibile dalla luna. E' la storia di questo mondo. E lì, tutto diceva che l'Algeria aveva appena scritto un capitolo speciale per Ain Deb e per i suoi abitanti.

 

Venivano continuamente a trovarmi nella casa della mia famiglia dove regnavano il vuoto e tanti ricordi comuni, di cui conoscevo solo una minima parte. Come sono potenti, tuttavia, quei ricordi d'infanzia! La gente mi dava da mangiare, si privava per me, si preoccupava che stessi comodo, vegliava sulla mia tranquillità nelle ore grevi della siesta, e quando la notte cominciava a pesarmi sulle spalle gli ultimi se ne andavano senza far rumore portandosi via i bimbi addormentati.

Constatavo felice che mio padre era venerato e mia madre era considerata una santa. Ne ero lusingato. Si dice che i defunti lascino dietro di sé una reputazione e un popolo per giudicarla implacabilmente. I miei genitori avevano ricevuto l'avallo. Le vittime del massacro sono state sepolte in una zona del cimitero delimitata con pietre pitturate a calce, e assurta così al rango di campo dei martiri, caduti per Dio e per la Repubblica. Lo proclama solennemente un'iscrizione in arabo su una lapide di marmo cementata nel terreno. Ho contato trentotto tombe perfettamente allineate. Per un villaggio così piccolo, è un'amputazione enorme. Incisi sulle pietre tombali, il nome del defunto, un versetto del Corano e una piccola bandiera. E' stato il capoluogo a organizzare e finanziare l'operazione. La cerimonia ha fatto accorrere le autorità civili, militari e religiose del dipartimento, nonché una troupe della televisione nazionale. Tutta quella gente è arrivata in corteo ed è ripartita in corteo avvolta in una bella nuvola di polvere, restituendo al villaggio lo scenario e le comparse che gli aveva momentaneamente preso a prestito. Temevo che mio padre, cristiano, fosse sepolto separatamente, mi sarebbe dispiaciuto. La sua tomba era nel campo dei martiri, e accanto c'era quella della mamma. Sulle lapidi, i nomi di Aicha Majdali e Hassan Hans detto Si Mourad. Di nuovo quella stranezza.

Apprendevo che papà si era convertito all'islam nel 1963, al momento dell'indipendenza, proprio a Ain Deb dove un giorno era venuto a stabilirsi. Era sembrato strano e addirittura disdicevole che a un tedesco, a un cristiano, fosse venuta l'idea di andare a vivere tra loro, ma poiché aveva partecipato alla guerra di liberazione, si fregiava del prestigioso titolo di ex mujahid ed era di nazionalità algerina, si rallegrarono per quell'onore. Tre mesi dopo, conquistato dalla giovane e bellissima Aicha, la figlia dello sceicco del villaggio, per sposarla si convertiva prendendo il nome di Hassan. Lui aveva quarantacinque anni, lei diciotto. Alla morte del vecchio capo, il villaggio gli attribuì il titolo di sceicco. Era una semplice conferma, lo chiamavano già sceicco Hassan, venivano a consultarlo, ad ascoltarlo, aveva una soluzione per tutto, ammiravano con stupore i cambiamenti che le sue idee apportavano al funzionamento del villaggio. Gli stranieri di passaggio, per la verità più rari della pioggia, ripartivano sbalorditi e quasi convinti che quel posto non appartenesse all'Algeria. Le sue conoscenze, la sua esperienza, le sue capacità organizzative, la sua naturale autorità avevano parlato per lui senza bisogno di ulteriori perorazioni. Un'altra cosa che non sapevo. Durante l'infanzia, l'ho sempre sentito chiamare Si Hassan, credendo che lo avessero soprannominato così per comodità, oppure Si Mourad, che era il suo nome di battaglia durante la guerra di liberazione, e poi sceicco Hassan, interpretandolo come un nuovo segno di rispetto dovuto all'età. Poiché avevo compiuto il pellegrinaggio ed ero stato accolto fraternamente, ben presto ho sentito tornare la pace nel mio cuore. Il respiro si è calmato, era un alternarsi di inspirazioni piene di coraggio e di sospiri pieni di nobile rinuncia. Ogni uomo, ogni donna che incontravo mi dicevano quelle parole che pacificano, che fanno riferimento all'immemorabile condizione tragica riservata all'uomo, senza la quale del resto egli non sarebbe nulla, un robot che cammina nel deserto, che arrugginisce senza rendersene conto: «A Dio apparteniamo, a Dio ritorniamo... Polvere siamo, che il vento si porta via... Nessuno sa su che cosa si apre la morte... Credi in Dio, è la vita e la resurrezione... Allah non abbandona mai i suoi...» In quell'atmosfera di devozione, in quel luogo dove la morte è passata come un vento apocalittico, quelle formule suscitavano in me una strana eco. Così lontano da tutto, in quella nudità opprimente, e vivificante, tramandate da un tempo che passa senza fretta e da una memoria infallibile, quelle parole che hanno attraversato i secoli, interrogato e umanizzato l'insondabile, inducono alla pazienza, infinita e incrollabile, all'accettazione, alla trascendenza. Non ti rendi conto del percorso verso quella forma di beatitudine, d'improvviso sei diverso, uno che si guarda serenamente intorno, senza farsi domande, senza spaventarsi. E' meraviglioso e al tempo stesso terrificante. Rifiuti la vita, ti metti al di sopra, considerandola poca cosa, comunque effimera e traditrice, mentre lei ci schiaccia come granelli di sabbia, imperturbabile, grandiosa, imperitura, e ci toglie di mezzo. Queste pagine del diario di Rachel mi hanno impensierito. Ho riassunto, ho preso il meglio, il resto è un autentico bla bla da moschea. Di questi discorsi ne ho fin sopra i capelli. Per un certo periodo avevo frequentato la cantina della torre 17 dove i fratelli avevano aperto una moschea. Uno non se ne rende conto, diventa dipendente dopo tre sedute. E ce ne sono cinque al giorno, e non un giorno di tregua in tutto l'anno. Si parla solo di quello, la vera vita, il paradiso, la jannah come dicono loro, le uri, i compagni del Profeta, i santi dell'Età dell'oro, la civiltà di Dio, la fraternità, poi ci si sorride cavallerescamente scambiandosi l'abbraccio degli antichi combattenti delle guerre sante e pensando intensamente a Gerusalemme, al-Quds come la chiamano. All'inizio non era male, si cantava per il piacere di farlo, poi è arrivata altra gente, capeggiata da un imam del già, e la tranquilla routine facoltativa è diventata un incubo senza fine, una pazzia così grossa da lasciarci imbambolati. Non si parlava d'altro, la jihad, i veri martiri, i miscredenti, l'inferno, la morte, le bombe, il diluvio di sangue, la fine del mondo, il sacrificio di sé, lo sterminio degli altri, e fuori, dopo la moschea, si ricomin ciava anche peggio. Quando, all'appello successivo del muezzin, scendevamo di nuovo in cantina, con una sciarpa nera intorno alla testa, eravamo pronti a passare all'azione. Quando la scuola mi ha ingiustamente cacciato, l'imam era entusiasta: la scuola è un crimine di quei cani di cristiani, il futuro è la moschea. A me la scuola stava sulle palle, però non ho niente contro. Ha aggiunto: Ti insegnerò quello che Allah si aspetta da te per aprirti le porte del paradiso. Ho trovato delle scuse, un tirocinio da cominciare, e me la sono svignata. Momo ha continuato fieramente, ma arrivato al livello talebano, ha capito in che guaio si era cacciato. A quello stadio, andarsene significa disertare. I fratelli lo hanno preso e riempito di botte, sapeva troppo. A salvarlo è stato l'ospedale, è rimasto due settimane buone rintanato a letto.

Abbiamo detto che era finito sotto un camion. I fratelli hanno cercato di tagliargli la gola fra le lenzuola, poi, per mancanza di tempo, lo hanno dimenticato. Quanto a Raymond, che si faceva chiamare Ibn Abou Mossab, è stato il suo vecchio a recuperarlo in extremis, c'era dentro fino al collo, aveva già il biglietto e il manuale per i campi della morte di Kabul. Aveva diciassette anni ma, sui nuovi documenti, ne aveva dieci di più e una bella barba. Il signor Vincent ha organizzato un comitato di vigilanza e ha fatto scoppiare un casino pazzesco. Alla fine, la cantina è stata chiusa, per inagibilità. La moschea si è ricostituita nel retrobottega del marocchino. Com'Dad non lo molla, è diventato suo amico. Rachel dice che al ritorno dall'Algeria era un altro uomo. Parla di un pranzo a cui mi avrebbe invitato in un ristorante per gente seria. Non me ne ricordo. E stato lì che ha deciso di non dirmi niente del massacro, della morte dei nostri genitori, del suo viaggio in Algeria, dei segreti che ha portato indietro, del dramma che cominciava a scatenarsi nella sua testa. Devo essergli sembrato insensibile e scemo, come ha sempre pensato di me, oppure temeva che la notizia mi destabilizzasse ancora di più. Ha scritto delle parole gentili, di quelle parole che si dicono a chi gentile non è per fargli capire che non capirà mai.

 

Povero Malrich, il tuo nomignolo ti calza proprio a pennello. La vita non è stata generosa con te. Mi sento colpevole, mi rendo conto di non aver fatto niente per starti vicino. Non voglio trovare facili scuse, gli studi, gli esami, i quattro anni a Nantes, il lavoro massacrante in una multinazionale che si preoccupa solo del suo bilancio, i viaggi di lavoro, la vita con Ophélie che, come sai, non ha un bel carattere, gli obblighi che la società ci impone. Le ho già usate per giustificare la mia indifferenza verso di te, verso il povero zio Ali che ci ha aperto la sua casa e il suo cuore, e verso i suoi figli che la vita ha emarginato prima ancora che vedessero com'era fatta, verso i nostri genitori che ho relegato nel dimenticatoio senza pensarci su. Mi rendo conto che pontificavo stupidamente quando credevo di dirti delle cose intelligenti e che ti umiliavo quando pretendevo di edificarti. La cosa più tremenda è sapere che tu non me ne vuoi. Anzi, pensi che sono un tipo a posto e mi difendi con gli stessi argomenti che io ho usato per svicolare. Ti dici: E' serio, sgobba, ha gli esami, si sbatte per il lavoro, viaggia per l'azienda, si prende cura della sua Ophélie, sta in un mondo che ha le sue regole. Il male è fatto e quando è fatto non si riesce a rimediare. Se ne avessi il coraggio, verrei a dirti che ti voglio bene e che ti ammiro. Uscito dal ristorante, mi vergognavo così tanto di me, del mio silenzio, della mia vigliaccheria. Non cerco un'altra scappatoia, ma volevo davvero evitarti questa sofferenza, i nostri genitori sono morti in condizioni atroci. E quello che so adesso, che mi mina nel profondo, ti avrebbe causato un dolore tremendo che con il tempo ti avrebbe distrutto.

 

Nota: 1 Malrich suona come l'aggettivo riche, ricco, preceduto da un prefisso con valore negativo [N.d.T].

 

Mi sembrava importante tenerti lontano da me. Un giorno leggerai il mio diario e capirai e certamente mi perdonerai, il tempo sarà passato e avrà fatto il suo lavoro.

 

Con Ophélie le cose sono peggiorate. Il suo Rachel non era più lo stesso, rimuginava, leggeva come un pazzo, era sempre in viaggio e ogni volta tornava più abbattuto. Lei è così, Ophélie, vuole che nel suo nido tutto sia perfetto. Rifiuta tutto quello che compromette la sua felicità, che scombina le sue abitudini, che rannuvola il cielo sul suo giardino. Quella che ha in testa è una vita da Barbie. E un po' un'arrivista. Il povero Rachel, lo perseguitava: domande, scenate, osservazioni, crisi di nervi, musi lunghi, porte sbattute, fughe improvvise da casa. E' un tipo nervoso. Una volta su due corre da sua madre e torna solo dopo mille trattative. E stupido e pericoloso, l'amore. Sua mamma l'ha viziata troppo, non poteva diventare una vera donna che sa cosa sono la miseria, le disgrazie, le preoccupazioni della vita, la pazienza. Nello stesso tempo la capisco, Rachel non le diceva niente, non diceva niente nemmeno a me, si teneva tutto dentro. A nessuno piace vedersi trattare come se non esistesse. Tanto meno a Ophélie. Quando penso che mi ha tenuto nascosto l'assassinio dei nostri genitori, ce l'ho a morte con lui. Avrei tanto voluto accompagnarlo a Ain Deb e visitare le loro tombe. Ci saremmo anche riavvicinati, finalmente.

 

Ecco, è la prima parte del nostro diario. Rachel è tornato dall'Algeria che era un'altra persona. Fisicamente era cambiato. Allora lo vedevo poco, viaggiava sempre e io ero in una brutta situazione, convocato davanti a una nuova commissione, la minaccia diventava più concreta.

Però avevo notato il cambiamento. Un paio di volte l'ho visto, al supermercato, trascinarsi stancamente dietro a Ophélie, elettrizzata come un'ape che sente il reparto fiori a portata di ali. Io mi defilavo, non sopporto le discussioni da supermercato. Vedere quelle cavie girare in un labirinto gelido dietro ai loro carrelli, parlando seriamente delle loro questioni di drogheria, mi ammazza. Io passo di volata, prendo quello che mi serve e sparisco dall'uscita di sicurezza. I supermercati sono una tale stronzata che mi sembra normale non pagare.

Ricordo di essermi detto ghignando: E proprio invecchiato, Rachel, la sua multinazionale deve essere fiera di ammortizzarlo così in fretta. Il declino era appena cominciato. Il motivo sta tutto nella valigetta spelacchiata che ha portato indietro da Ain Deb. Contiene l'archivio di papà. L'archivio racconta il suo passato. In parte: il resto, Rachel è andato a cercarlo nei libri, nei suoi giri in Germania, in Polonia, in Austria, in Turchia, in Egitto, un po' dappertutto in Francia. Ho tentato di capire cosa può essergli successo nel cervello quando nella vecchia casa di famiglia, nel nostro donar in capo al mondo, passava in rassegna il contenuto della valigetta. Secondo me, le cose sono andate così: è notte, il sonno lo ha mollato per strada, allora si alza, si fa il tè, se lo beve pensando ai nostri genitori, al dramma del 24 aprile, o alla sua Ophélie che lo aspetta fedelmente, e di colpo gli torna in mente quella storia dell'elenco delle vittime manipolato dal ministero.

Se lo era chiesto e lo aveva chiesto all'ambasciata. Me lo chiedo anch'io. Perché i nostri genitori figuravano nella lista con dei nomi diversi, anche se autentici? Majdali è il cognome da ragazza della mamma e Hassan è il nome che papà aveva preso convertendosi all'islam. Perché hanno messo il nome al posto del cognome? Anzi, semplicemente, perché il cognome Schiller non compare? Questa stranezza torna anche sulle lapidi, chi ha deciso così? Una pensata da burocrate? Una decisione politica, come credeva Rachel? Temevano che la presenza di uno straniero fra le vittime scatenasse un trambusto diplomatico? La stampa europea, e quella tedesca in primis, se ne sarebbe impadronita, avreb be interpellato il governo algerino, che non godeva di una gran bella fama nel mondo, sospettato com'era di genocidio, di crimini contro l'umanità, di tortura, di saccheggio sistematico, e non so che altro ancora. Quella faccenda lo tormenta. Si alza, gira per casa, si ritrova nella stanza dei genitori, cerca senza sapere bene cosa e per caso trova la valigia, sopra l'armadio o sotto il letto. Dentro gli è suonato un campanello d'allarme. L'ho sentito anch'io quando l'ho avuta in mano. Rachel l'aveva nascosta nell'armadio degli attrezzi, in garage, l'unico posto della villetta dove Ophélie non guarda mai. E ho ripetuto i gesti che aveva fatto lui due anni prima. Uno resta intimidito di fronte a un oggetto che sa pieno di segreti. Per Rachel era facile, non si aspettava niente di straordinario. Tutte le famiglie hanno qualcosa del genere, una scatola da scarpe, una cartella, una valigetta, ci tengono carte, foto, lettere, gioiellini, portafortuna. Zio Ali ha la sua, gigantesca, una vera valigia da emigrato con delle corde e dei nodi, contiene centinaia di attestati di lavoro e tutte le scartoffie che può procurare una vita di schiavitù precaria, più qualche talismano fatto venire dal paese e una ricca collezione di amuleti comperati dal griot, il senegalese della torre 14. Io sapevo dal suo diario cosa mi sarei trovato davanti e che sofferenza mi aspettava. Ho esitato a lungo, poi ho aperto di colpo. Carte, foto, lettere, ritagli di giornale, una rivista. Ingialliti, pieni di orecchie, di macchie. Un vecchio orologio di acciaio temprato, risalente al secolo scorso, fermo sulle sei e ventidue. Tre medaglie, Rachel si era documentato, una è il distintivo della Hitler-jugend, la Gioventù hitleriana, la seconda è una medaglia della Wehrmacht, ottenuta sul campo, la terza il distintivo delle Waffen ss. C'è un pezzo di stoffa con un teschio, l'emblema delle ss, il Totenkopf. Nelle foto, scattate in Europa, probabilmente in Germania, è in uniforme, da solo o in gruppo. E giovanissimo, insieme a commilitoni del reggimento con una corporatura da atle ti, fieri della loro divisa, felici di vivere. In altre è più vecchio, porta l'uniforme nera delle ss, ha la faccia severa. E' appoggiato a un carro armato, in piedi in mezzo a un grande cortile, o seduto sui gradini di una baracca. In una è in abiti civili, vestito di bianco, elegantissimo, bellissimo, con dei bei baffi, è in Egitto, ai piedi della grande piramide, e sorride di sottecchi a delle vecchie mummie inglesi che gli sorridono a trentadue denti. In foto più recenti è con alcuni partigiani algerini, porta un'uniforme da combattimento e un cappello mimetico. Ha preso dei chili, è superabbronzato, gli dona. In una è di fronte a giovani guerriglieri seduti per terra in una radura. Ci sono armi sparpagliate su una coperta. Li addestra a usarle. In cima a un pennone improvvisato sventola la bandiera algerina. In un'altra è vicino a un tale in battle dress, alto, magro come un chiodo, con lo sguardo allucinato, che sorride come se avesse il mal di denti. Rachel l'ha riconosciuto, lo chiama Boumedienne, è il capo dei partigiani. I ritagli di giornale sono in inglese, francese, italiano. L'articolo in francese è un dossier della rivista «Historia». L'ho letto. Parla del processo di Norimberga contro i dignitari nazisti, Bormann, Göring, von Ribbentrop, Dönitz, Höss, von Schirach e compagnia bella. Parla di quelli che sono stati trovati dopo, Adolf Eichmann, Franz Stangl, Gustav Wagner, Klaus Barbie... Parla di quelli che si sono dispersi per il mondo, che hanno trovato rifugio in tanti paesi, in America del Sud, nel mondo arabo, in Africa. Cita il Brasile, l'Argentina, la Colombia, la Bolivia, il Paraguay, l'Egitto, la Turchia, la Siria, la Nigeria, l'Etiopia, la Rhodesia e altri. Ci sono varie lettere in tedesco e una in francese firmata Jean 92, datata 11 novembre 1962. Ci vuole la chiave per capirla, sembrerebbe la lettera di un ricettatore a un rigattiere.

Grosso modo, tra una cosa e l'altra, Jean 92 parla di oggetti preziosi che sarebbero stati ritrovati, di altri che sarebbero stati localizzati e che dovrebbero essere recuperati a breve, e conclude che questi ultimi, di cui per il momento non si sa niente, solo vaghi indizi, starebbero certamente meglio in un posto più sicuro. Parla di un investigatore accanito indicato con le lettere sw, di un gruppo indicato con le lettere bj e di un altro indicato con la lettera n, affiliato a un'organizzazione iperpericolosa chiamata: il m. Parla anche di una signora di cui dice il nome, Odessa, che si occupa di nasconderli e trasferirli in posti sicuri. Rachel ha capito tutto, ha fatto delle ricerche. Il misterioso Jean 92 chiudeva con questo saluto: hh, la tua stella dei giorni di gloria. E' stata questa lettera, credo, a farlo girovagare per le strade d'Europa e poi fino in Egitto. Ne parla a lungo nel suo diario. Ma non dice tutto. Oppure, per capire, ci vogliono delle conoscenze, e io non ne avevo. Ci sono due documenti algerini. Delle delibere. La prima, datata 17 giugno 1957, firmata dal colonnello Boumedienne, capo di stato maggiore dell'esercito delle frontiere, dice questo:

Il signor Si Mourad è destinato al centro di formazione dell'emg in qualità di consulente in logistica e armamenti. Per conoscenza: be, sbla, responsabile del cfemg, capi delle unità tecniche e operative della wilaya 8 (trasmissioni, trasporti, genio...)

 

La seconda, dell'8 gennaio 1963, firmata dal segretario generale della Scuola dei quadri dell'esercito, a Cherchell, dice:

Art. 1: Presa di servizio del signor Mourad Hans, istruttore civile temporaneo.

 

Art. 2: L'esecuzione della presente delibera compete al capo dell'ufficio del Personale. Per conoscenza: Vicedirezione del personale del ministero della Difesa, ufficio della Sicurezza militare della regione militare di Algeri.

 

C'è un libretto tutto stropicciato, il libretto militare di papà. I caratteri a stampa sono in gotico, fa una bellissi ma impressione. Sulla prima pagina le generalità: Hans Schiller, nato il 5 giugno 1918 a Uelzen, figlio di Erich Schiller e Magda Taunbach. Indirizzo: 12b, Millenstrasse, Landorf, Uelzen. Titolo di studio: laurea in Ingegneria chimica, università Johann Wolfgang Goethe di Frankfurt am Main. In un rettangolo, la matricola. In fondo alla pagina ci sono il nome, la firma e il timbro dell'autorità che ha rilasciato il libretto: Obersturmbannführer Martin Alfons Kratz. Le pagine successive sono delle tabelle complicate con annotate le destinazioni, i gradi, gli encomi, le decorazioni e le ferite durante tutta la carriera. Sono cosparse di timbri. Papà ha raggiunto il grado di capitano, era qualcuno! E un eroe, più volte ferito, encomiato, decorato! Le sue destinazioni, in Germania, in Austria, in Francia, in Polonia e altrove, per lo più non mi avrebbero detto niente senza i commenti di Rachel: Frankfurt, Linz, Grossrosen, Salzburg, Dachau, Mauthausen, Rocroi, Parigi, Auschwitz, Buchenwald, Gand, Hartheim, Lublin-Majdanek. Certi sono campi di sterminio. E in quei luoghi tenuti segreti che i nazisti facevano sparire gli ebrei e gli indesiderabili. Rachel parla di varie centinaia di migliaia di morti e «Historia» di milioni. Cazzo! mi sono detto prendendomi la testa fra le mani. Avevo letto e riletto il diario di Rachel, e ho capito parecchie cose, ma tenere in mano quel libretto, quelle medaglie, vedere con i miei occhi quei nomi, quei documenti, quei timbri, è stato un brutto colpo. Mi sentivo male. Tutta quella roba significava che mio padre era un criminale di guerra nazista, che sarebbe stato impiccato se la giustizia gli avesse messo le mani addosso e, nello stesso tempo, non significava niente, io la rifiutavo, mi aggrappavo a qualcos'altro, più vero, più giusto, è nostro padre, siamo i suoi figli, portiamo il suo nome, era un tipo formidabile, che si è dedicato al suo villaggio, che era amato e rispettato dagli abitanti, che ha contribuito all'indipen denza di un paese, alla liberazione di un popolo. Mi dicevo: era un soldato, ha obbedito agli ordini, degli ordini che non capiva, che disapprovava. I colpevoli sono i capi, loro sanno cosa combinano e come manovrare di modo che gli esecutori non si accorgano di niente, non riflettano. E poi, perché rimestare il passato?

Papà è morto, assassinato, sgozzato come una pecora, e la mamma anche, e i loro vicini, da veri criminali, i più scellerati che la terra abbia mai visto, che sono lì, vivi e vegeti, in Algeria, dappertutto nel mondo, appoggiati, incoraggiati, elogiati da molti, che stanno all'Onu, che sono sempre in televisione, che chiamano in causa chi vogliono, quando vogliono, come quell'imam della torre 17 che ha sempre il dito puntato verso il cielo per terrorizzare la gente, per impedirle di pensare. Capisco il dolore di Rachel, ti crolla intorno tutto un mondo, ti senti colpevole, sporco, ti dici che qualcuno deve espiare. Rachel ha pagato, lui che non ha mai fatto del male a nessuno. E' pazzesco, ma non sapevo niente di quella guerra, di quella faccenda dello sterminio. O vagamente, quello che diceva l'imam nelle sue prediche contro gli ebrei e brandelli colti qua e là. Nella mia testa erano leggende che risalivano a secoli fa. In realtà, non ci avevo mai pensato, me ne fregavo, eravamo giovani, ragazzi senza arte né parte, conoscevamo solo la galera quotidiana. Rachel ha scritto pagine così terribili. Quella storia gli ribolliva nella testa. Tornavano spesso parole, espressioni che sentivo per la prima volta: Soluzione finale, camere a gas, forni crematori, Sonderkommandos, campi di concentramento, Shoah, Olocausto.

C'è quella frase in tedesco, non so cosa significa, lui non l'ha tradotta, che suona come una condanna: Vemichtung lebensunwerten Lebens.

E quell'espressione, Befehl ist Befehl, che ho riconosciuto immediatamente. Vuole dire: un ordine è un ordine. Durante la mia infanzia al villaggio, papà la borbottava spesso fra i denti quando discutevamo troppo con lui. Cos'è questa baraonda? gridava poi in francese o in berbero. Mi ha ricordato quello che diceva il signor Vincent quando uno cercava un po' troppo di imbonirlo: Fa' quello che ti dico io, la tua opinione la discutiamo dopo, se c'è tempo. Immagino che, dopo, Rachel è rimasto sveglio fino al mattino. Quello che ha scritto fa venire le vertigini. Lui era istruito, vedeva tutto subito e vedeva lontano. Io ho bisogno di spiegazioni e di tempo per inquadrare le cose.

Al suo posto, il contenuto della valigetta non mi avrebbe detto niente se non la triste realtà: i miei genitori sono morti assassinati e non li vedrò più. Avrei pensato: Papà era un soldato nel suo paese, poi è venuto ad addestrare i partigiani algerini, punto. Quello che stupisce in questa faccenda è che con simili referenze sia venuto a seppellirsi a Ain Deb. Io sarei andato in California, avrei fatto lo stuntman a Hollywood o il bodyguard di una ricca ereditiera. Era così, papà, un poeta un po' strampalato come quei poveri dementi di città che un bel mattino abbandonano il loro appartamento con ascensore e se ne vanno tra le montagne ad allevare pecore che i lupi mangeranno prima di loro. Ha scelto Ain Deb, è più lontano. Infatti era il posto ideale, nemmeno gli algerini lo conoscevano. Non lo conoscevano prima del 25 aprile 1994.

Termino con questa frase di Rachel, ci penso continuamente, mi ossessiona: «Eccomi di fronte a una domanda vecchia come il mondo: Siamo responsabili delle colpe dei nostri padri, delle colpe dei nostri fratelli e dei nostri figli? Il dramma è che siamo un'unica catena, non si può uscirne senza spezzarla e scomparire». E con questa risoluzione che ho preso: All'imam della 17, bisogna tagliargli la gola prima che sia troppo tardi.

 

DIARIO DI RACHEL.

 

Martedì 22 settembre 1994.

 

Con la faccia incollata al finestrino, guardo la coltre di nubi. Tutto è bianco, le nubi e il cielo, immobile, così scintillante da farti svalvolare. Chiudo gli occhi. Ritrovo i miei pensieri, sono lì, lugubri, pronti a sommergermi. Sono stanco. Apro gli occhi e mi guardo intorno.

L'aereo romba a regola d'arte, è pieno come un uovo, e la luce è gradevole e la temperatura ancora più gradevole. I passeggeri sono immersi nelle loro letture, si parlano all'orecchio o dormono con un occhio solo. Tedeschi, per lo più. Clienti abituali della linea. L'ho notato all'imbarco a Roissy, non hanno bagagli, un trolley o una grossa cartella in mano, e riviste sotto il braccio. Potrebbero spostarsi a occhi chiusi, il solco è tracciato. Tutti inappuntabili e pazienti come bonzi. Sono stanchi morti ma non lo danno a vedere. Abitudine, e duro addestramento. C'è sotto qualcosa che fa paura, quel lato tutto casa e lavoro che a Parigi e dintorni è sinonimo di vita quotidiana. Con l'aereo è più triste, con quegli aeroporti a forma di termitaio del terzo millennio, quei collegamenti internazionali sotto stretta sorveglianza, quegli alberghi per commessi viaggiatori che assomigliano a prigioni di vetro, quegli altoparlanti incomprensibili che snocciolano delle controfatwa elaborate nella pancia di computer onnipotenti. E ci sono le navette che collegano ai trasporti pubblici, e i metrò e i treni e i taxi in fila indiana, e tutta quella gente cammina e scompare dietro a muri ermetici. L'anonimato è grandioso e totale, su scala planetaria e a misura dei movimenti di capitali. Loro arrivano la mattina, fanno il loro business a Parigi, riprendono l'aereo la sera o l'indomani. E all'arrivo li aspetta già un altro volo. In quegli andirivieni serve solo lo spazzolino da denti, Io viaggio cosi' per la mia azienda, un automa a cui basta l'oliatore e una presa di corrente per radersi.

Sbarco, faccio il mio business, passo in albergo a ritirare il nécessaire da viaggio e prendo un taxi per l'aeroporto. A volte si festeggia. Con gli italiani, gli spagnoli, i greci, viene spontaneo, qualunque sia la situazione dei nostri affari. Tra latini e assimilati ci permettiamo battute spinte e qualunque discorso, è rilassante. Con i tedeschi, gli austriaci, gli svizzeri, gli inglesi, il lavoro serve anche da svago e da religione. Ci si concede pause caffè per parlare un po' del tempo che fa fuori. I paesi più stimolanti sono quelle dittature incancrenite dalla burocrazia, dalla corruzione e dalla violenza. Vado matto per l'atmosfera da film poliziesco in bianco e nero. Hanno conservato il meglio del socialismo di una volta, il modo di esprimersi e gli intrallazzi, e hanno assorbito il meglio di questo buon vecchio capitalismo che uccide con la massima naturalezza. E tutta quella gente sfinita che cammina a passetti o rincorre voci pressanti che le danno tregua solo al momento di morire. Che nefandezza, che mistero, che frenesia, che tristezza. E che gioia quando, per un caso straordinario, ci si imbatte in un usciere qualunque o in un tizio insignificante che si trova a passare di lì, inatteso come un messaggero celeste, e lui, come un prestigiatore, soltanto sollevando il telefono, sistema una questione di finanza pubblica che fino a un attimo prima sembrava impossibile risolvere in tempi umani. Allora si festeggia, si moltiplicano le cerimonie per celebrare non la stipula di un onesto contratto o lo sblocco miracoloso di un bonifico, roba volgare, ma l'amicizia tra i nostri due popoli e la perfetta intesa tra i loro sommi dirigenti. Al ritorno, uno ha tante cose da raccontare ai colleghi e può tranquillamente esagerare senza paura di nuocere alla verità: una spia qui, un tipo strano là, un attentato sventato in albergo, un ministro che strangola la segretaria nel bel mezzo delle trattative perché ha dimenticato uno zero nel memo, un altro che tratta a pesci in faccia i postulanti che non appartengono alla sua cricca, un rais che gassa un villaggio ribelle e tutto in ghingheri se ne va difilato a caldeggiare in altre sedi il pentimento e un nuovo ordine mondiale. In realtà, le cose, più che vederle uno le sente. In quei luoghi dolorosi il sentito dire è la vera vita di tutti i giorni, di ogni istante. Non ho mai capito come i nostri boss riuscissero a guadagnare dei soldi con quei mostri di avidità che volevano solo intascarne per sé. E' vero però che vendiamo cose di cui nessuno riesce a fare a meno, pompe e saracinesche idrauliche, e che il prezzo lo stabiliamo noi, sarà sempre più consistente del loro appetito. Ne abbiamo per tutti i gusti, di tutti i colori, orizzontali e verticali, manuali e telecomandate, da quelle grosse come una biglia a quei giganti spaventosi che prima li installi e poi ci costruisci intorno il capannone. La mia azienda è leader mondiale di questo mercato. Il suo catalogo riesce a sedurre i clienti più esigenti. La mia Ophélie, la donna più difficile del mondo, mi manca.

Vorrei tanto riconquistarla e ritrovare le nostre piccole abitudini di gente dei sobborghi avida di tranquillità. Deve essere in lacrime dalla sua cara mammina, raggomitolata sul divano, intenta a processarmi e, già che c'è, a processare gli uomini, algerini e tedeschi oltretutto, che sanno per nascita ciò che significa stupidità e tortura. So che su questo tema è molto creativa, e la suocera ancor di più. A quest'ora ci hanno scorticati fino all'osso, nemmeno Dio può più salvarci. Abbiamo smesso di parlare, lei tiene il muso nel suo angolino, io medito nel mio. Abbiamo superato lo stadio di quel primo passo che ci avrebbe riconciliati nel fuoco della passione, la distanza aumenta da sé, automaticamente, freddamente. La guerra sta per concludersi e la finta pace che si instaura sul silenzio è il prodromo della rottura. Forse è meglio così, non sarò mai più un uomo normale, né un marito piacevole da comandare. Le ho lasciato la camera da letto e il salotto. Dormo in un angolo del soppalco e passo le serate in garage, dove ho sistemato l'attrezzatura da campeggio e un ripiano per i libri. E' tutto lì, in una trentina di volumi, lo sterminio del mondo e i grandi silenzi gelidi che sono venuti dopo. Non so dire perché l'ho tenuta all'oscuro del mio problema. La vergogna, forse, il fatto di non sapere io per primo, la paura delle conseguenze. Dirsi: «Sono figlio di un criminale di guerra» non è come sentirsi dire: «Sei figlio di un criminale di guerra!

Colpevole di genocidio!!» Non volevo ritrovarmi a parlare di me, di noi, dei nostri piccoli problemi domestici, di ciò che si deve fare per essere responsabili, mentre avevo di fronte qualcosa che è più grande di me, che è più grande di noi, che sarà sempre più grande di noi. Ophélie è così brava a sostituire un problema con un altro, senza tener conto né del tipo né della gravità. Salta di palo in frasca con la disinvoltura di una cavalletta. Alla fine riporta tutto a se stessa. Ma io ho di fronte l'Olocausto, una faccenda capace di dannare Dio stesso, sul serio, e mio padre ne è l'artefice. Mentre volavo nei miei ricordi professionali e nelle mie preoccupazioni familiari, l'aereo era arrivato a destinazione. Rullavamo sulla pista di Amburgo. L'ho attraversato così tante volte, questo aeroporto, che non lo vedo più. Dopotutto è solo vetro e alluminio che scintillano sotto la luce dei neon. Nella folla, passo inosservato, passeggero fra i passeggeri, tedesco fra i tedeschi.

Se mi individuano è perché, come ogni buon francese all'estero, mi faccio notare. Siamo fatti così, ci incavoliamo quando in un altro paese le cose vanno per le lunghe. In quel caso ero sotto pressione, mortalmente preoccupato, camminavo con passo incerto. Mi urtavano, mi fucilavano con gli occhi, borbottavano alle mie spalle in tedesco, in inglese, in giapponese. Alcuni si permettevano di essere sprezzanti, per dire quanto fossi d'impiccio. Ho sempre viaggiato per lavoro, guidato dal planning, spinto dal timing, ricevuto a tempo e luogo, oppure a rimorchio di Ophélie, che pensa a tutto, prima ancora che le cose succedano. Ero perso: cerco me stesso, risalgo il corso del tempo, frugo nell'oscurità, mi accingo a sondare la sciagura più grande del mondo e tentare di capire perché ne porto il peso sulle mie spalle. A dire il vero, è perché so che si rivelerà una faccenda dolorosa. Non potrei mai afferrare l'immensità del dramma e tornare indietro indenne. Ho talmente paura di incontrare mio pa dre dove non si dovrebbe, dove nessun uomo può rimanere un uomo. Era in gioco la mia stessa umanità.

Indiscutibilmente, Amburgo scoppia di salute. Una salute tutta germanica. Dietro alla bella facciata, c'è roba solida e gradevole.

Visto dalla Germania, il nostro dolce Frankreich ha un po' l'aria del campeggio improvvisato. Sulla salute noi abbiamo le nostre idee, la consideriamo un peccato, per via delle sue connotazioni di ricchezza, accaparramento, lotta di classe, petulanza dei parvenu. Se ci curiamo tanto, è probabilmente per punire noi stessi delle nostre malattie borghesi. Come sarebbe possibile immaginare dei rivoluzionari di antica tradizione come noi con le idee chiare, qualche chilo in più, un viso paffuto, lo sguardo limpido? Con la mia aria disfatta, la faccia grigia e la barba del giorno prima, era come se portassi all'occhiello la bandiera del mio paese, che faceva a pugni con il mio fisico da nordico totalmente sano di corpo e di mente. Gli sforzi per controllarmi furono inutili, non riuscivo più a essere stanco senza darlo a vedere, a spazientirmi senza irritarmi, a esitare ma con un'andatura decisa. Ho noleggiato un'auto e mi sono messo in viaggio. Ecco cosa volevo: essere solo. Solo come nessun altro al mondo.

 

La Germania profonda è davvero profonda, più di quanto non lo sia la nostra povera Francia aperta ai quattro venti, circondata dai mari e dalle montagne, dove quel po' di profondità che resta è stata sfruttata fino all'osso dai tour operator e dai commercianti. Che dramma, essere un paese turistico. Profondità vuol dire solitudine e silenzio, altrimenti è un fondale di cartapesta da teatro all'aperto. Nella profondità tedesca, che è autentica, che è vasta, e in più luterana, c'è un'immobilità che affascina, un'angoscia che riporta alle epoche primordiali quando tutto stava nel mistero delle pietre e nel raccoglimento degli animi. Capisci che tutto ciò è messo lì per l'eternità, prospettiva tremenda per noi che abbiamo paura del domani.

Ho attraversato periferie immobili, villaggi immobili, campagne immobili e ho visto persone immobili davanti alla loro porta, nel loro campo, chini su motori immobili. Ho visto corvi compassati in cima ad alberi ieratici e ho scorto in lontananza, nella foschia, strade deserte scomparire nell'aldilà. Il movimento si concentra tutto sull'autostrada ma, lo intuisci, chiaro come il sole, l'autostrada non fa parte del paese, è un pezzo di riporto, chiuso ai due lati, una concessione allo straniero e anzitutto un modo per tenerlo a distanza. Venivo a guardare la Germania dritto negli occhi e tutto mi sembrava già infinitamente lontano, irrimediabilmente segreto. Poi mi sono imbattuto in gente che si muoveva, chiacchierava, rideva ad alta voce, mangiava con appetito, camminava di buon passo, sgridava bambini imbronciati o gli impartiva una ramanzina in un tono non minaccioso ma semplicemente inappellabile.

E' anche perché la lingua si presta, ti riempie subito le orecchie, «Befehl ist Befehl». Come è vivo, tutto ciò, familiare, quotidiano, colorato, e conforme a quel che sapevo di questo paese dove sono venuto tanto spesso per conto della mia azienda. Ma appena fuori dall'area di ristoro e dai suoi negozi, ritrovavo l'immobilità, la profondità, il silenzio. Ce l'avevo un po' con quei crucchi che, per un momento, il tempo di un pasto, mi avevano dato l'impressione che tutto fosse normale, banale, chiaro, mentre loro, era evidente come il grosso naso da birra che sfoggiavano, non la pensavano affatto così. Si domandavano cosa cavolo ci facesse così lontano dalla sua base uno spocchioso Franzose solitario mentre io mi domandavo perché fossero così naturali in uno scenario così denso di significato. E poi ho capito, lo sapevo ovviamente, il mistero stava in me, portavo l'interrogativo nel mio modo di presentarmi, ero un interrogativo, l'interrogativo. Inevitabilmente, osservavo quel paese e i suoi abitanti con gli occhi di un uomo ferito, minacciato nel suo essere dalla loro storia. Il mio sguardo deve proprio averli lasciati perplessi. Amburgo, Harburg, Lüneburg, Soltau, Uelzen.

Un tragitto da niente per un viaggiatore qualunque, ma un abisso per uno zombie sfinito che risale il corso del tempo alla ricerca della propria umanità. Dio, che fatica andare avanti! Stentavo sempre più a respirare.

Entrando a Uelzen, la città natale di papà, ho avuto un tuffo al cuore.

Mi ero preparato allo choc fin da Amburgo ma, come verificavo ancora una volta, nella vita più uno si prepara e meno è pronto. Ci si fanno così tante idee che poi la sorpresa è totale. Fuori dalla routine, siamo come ciechi senza bastone. Uelzen assomiglia a tutte le città della Germania e dell'Europa. Quell'aria di déjà-vu mi segue ovunque come la mia ombra, mi fa fischiare le orecchie. L'uniformità è il futuro del mondo, da bravo commesso viaggiatore lo sospettavo da tempo, non era il caso di ricamarci su, ma mi sentivo comunque bidonato, non c'era nessuna somiglianza con ciò che mi ero immaginato nel mio sgomento. Mi aspettavo un vecchio paesino degli anni Trenta, coperto di fuliggine e pieno di collera, dissanguato dalla disoccupazione, tormentato da demoni di prima di Cristo, e immaginavo scorazzare propagandisti imbevuti della loro croce uncinata come il Diavolo si contorce nell'animo dell'uomo. Uelzen è perfetta, è bella, è calda, è piacevole per il turista, niente da dire, e i suoi abitanti sono affabili come bravi artefici soddisfatti del proprio destino. Papà è nato in una città che è scomparsa, portata via dalla guerra, liquidata dalla ricostruzione. Ciò che vedevo era l'espressione del nuovo mondo, scintillante e orgoglioso, il posto ben progettato che viene abbellito man mano che il tempo passa e impone le sue novità, man mano che le amministrazioni comunali si succedono e lasciano le loro belle pensate. La sua periferia è una periferia, il suo centro pedonale un centro pedonale, e là dove batte il suo cuore, il quartiere degli uffici, si vedono uomini d'affari in abito scuro e guardie giurate dallo sguardo inespressivo. Potevo trovarmi ovunque e in nessun posto, tutto si somiglia, lo tsunami della globalizzazione ha distrutto il nostro retaggio, ha cancellato le nostre caratteristiche intrinseche, non riconosciamo né le nostre né quelle altrui. La città è il risultato dell'urbanistica del dopoguerra, la Millenstrasse non esiste più e Landorf, che doveva essere un angolo di campagna in città o un pezzo di città in campagna, somiglia al mio quartiere nei dintorni di Parigi, due volte più piccolo ma dieci volte più solido. E' la stessa cosa, stradine tranquille, alberelli allineati, graziose villette così simili che potresti scambiare te stesso per il tuo vicino, un opulento centro commerciale tutto plexiglas e colori vivaci che danno a noi poveri stacanovisti l'illusione di essere sulla strada giusta e che la fortuna ci attende al termine della vita, quando avremo finito di rimborsare la banca fino all'ultimo centesimo. Com'era Landorf quando papà si consumava le suole nelle sue strade? Coperto di fuliggine e pieno di collera o imbrigliato in una bucolica routine? Ho gironzolato, ho annusato l'aria come potevo nella speranza che l'intuizione mi rivelasse qualcosa, ho abbordato delle persone per strada, nei bar, e anzitutto i vecchi che si portano dietro i propri ricordi come una biblioteca. Fiasco. «Millenstrasse? Mai sentita». Il nome Schiller non evoca niente, tranne, per alcuni, il grande Schiller. Lusinghiero, ma inutile per i miei scopi. I tedeschi sono servizievoli, troppo, vanno in crisi quando si sentono disarmati, non poter essere di aiuto li umilia.

Ma non demordono, ti dirottano verso chi ne sa di più. Insistono: «Provi alla posta, lì hanno gli indirizzi», oppure: «Andiamo a chiedere alla salumiera, lei sa tutto». Scacco matto: l'impiegata della posta mi ha invitato a presentare subito domanda scritta e la salumiera del quartiere mi ha caldamente consigliato di rivolgermi alla polizia.

Proprio la cosa da evitare, ricorrere alla burocrazia: avrei dovuto rispondere alle sue domande, e non ne avevo la forza. In Francia uno non ci prova nemmeno, potrebbe pentirsene per tutta la vita e anche oltre.

Cercavo mio padre e nessuno poteva aiutarmi. Ero un bambino smarrito.

Inutile rimanere lì. Inutile girare per la Germania, quello che cerco, la nostra terribile storia, è cancellato, dimenticato, insabbiato. Mi apprestavo a ripartire, non ero attrezzato per quell'indagine, come guida avevo solo il mio dolore e un libretto militare ingiallito. Avevo fatto i conti senza il caso. Che in questo frangente superò se stesso.

Con il panino comperato dalla salumiera per esprimerle in modo tangibile la mia gratitudine, sono arrivato in un giardinetto pubblico riservato alle mamme e ai bambini di Landorf. Deserto. Meno male, avevo bisogno di stare solo e già lo ero come nessun altro al mondo. Ed ecco che si avvicina un vecchietto in babbucce e berretto, il mento ispido. Cercava compagnia, poveraccio. Sono uguali dappertutto, gli anziani, sempre alla ricerca di un orecchio disponibile e imbattibili nell'individuare chi ha del tempo da perdere. Aveva pronta una frase per attaccare discorso: Guten Appetit, Danke, - ho risposto con lo stesso tono allegro nella speranza che si levasse dai piedi. Si è seduto alla mia destra e si è arrotolato una sigaretta con una lentezza da lumaca. Il tempo di finire, io il mio spuntino e lui la sua cicca, e sapevamo tutto l'uno dell'altro, cioè niente. Sembravamo due barboni che hanno trovato una panchina da condividere. Abbiamo passato in rassegna il tempo, la vita e l'asse franco-tedesco. Semplicissimo, lui non ci ha mai creduto, a quelle storie. Per lui il franco è carta straccia, rimpiangeva amaramente il grande marco, artefice della potenza della madrepatria, e ancor di più lo amareggiava l'avvento dell'Europa che sta minandola lentamente ma inesorabilmente. - Ci guadagnano solo i profittatori e i disoccupati, - ha concluso. E' un discorso di estrema destra, me ne intendo. La mamma di Ophélie me li propina continuamente. Ho preso un'aria razzista e ho rincarato la dose: - E gli stranieri! - Quando gli ho detto che ero tedesco, francese e algerino, e che la cosa non mi creava problemi in nessun posto, è rimasto a bocca aperta. Di quale colore si parla con un camaleonte, senza offenderlo? Si parla del più e del meno, come brava gente che non ha i minuti contati. Mi ha informato che era in pensione da tempo, che la sua cara Hilda era morta nel sonno a settant'anni e che il suo sogno era rivedere il castello di Versailles prima di morire. L'ho informato che ero in missione ad Amburgo per la mia azienda e ne avevo approfittato per realizzare il sogno di vedere Uelzen, e specialmente quel bel quartiere di Landorf dove è nato mio padre, Hans Schiller, settantasei anni fa. In quel momento, è scattato qualcosa. Ha sobbalzato e il suo volto si è illuminato. - Hans Schiller, dice? - Quell'uomo mi è stato mandato dal cielo, ne sono certo come che due più due fa quattro. Conosce papà e anche la sua famiglia e tutti i suoi amici, fra i quali c'era anche lui. E per colmo di fortuna aveva una bella memoria, vivace e precisa. Quell'uomo, non avevo il diritto di farmelo sfuggire. L'ho portato in un caffè e l'ho abbeverato di domande.

In realtà, le domande era lui a farle, io traccheggiavo, non volevo prenderlo di petto e rivelare il passato di papà. Aspettavo di vedere da che parte stava, ex nazista, vittima dei nazisti o povero diavolo che l'ha scapolata senza saperlo, e quali erano le sue simpatie attuali.

Facevo quello che ascolta il nonno sgranando gli occhi. Bisogna sempre cominciare dal più semplice e lasciar venire le cose. Con qualche spintarella lo incoraggiavo a perdersi nei ricordi, a confidarsi. Gli ho presentato un quadro incantevole della famiglia Schiller, autentica e perfetta sintesi di Germania, Algeria e Francia, tre paesi amici che si sono abbondantemente massacrati fra loro. Mi hanno dato mio padre, mia madre, mia moglie e tutte le mie convinzioni. Ci ho messo un po' di poesia e tutto l'esotismo possibile. Una pennellata e ho trasformato la periferia di Parigi in un incomparabile rifugio e Ain Deb in un'oasi prodigiosa dove era così bello sentir cantare il vento del sud e veder danzare le libellule mentre i vecchi si arrostivano al sole tra le lucertole. Nei miei ricordi era così prima della carneficina del 24 aprile 1994. Lui ripeteva continuamente, dandomi delle pacche sulla schiena e sulle ginocchia: - E' un vero miracolo, lei è il figlio di Hans! - Il miracolo è che lei è un suo amico d'infanzia e che io l'ho incontrata su quella panchina. Chi lo crederebbe? Dopo di che, e dopo un altro giro di cioccolata cremosa, riannodavamo il filo della conversazione. -Ah, quel bravo Hans!... Com'è morto, a proposito? Off... sa, l'età... voglio dire, era molto malato... è... è morto improvvisamente. - Ach, che tristezza! Avrebbe dovuto rimanere in Germania, la nostra aria buona è un toccasana. Cos'è andato a fare in Africa?... Che paese ha detto? - L'Algeria. Era nella cooperazione.

Addestrava militari. -Ach... non va bene... quei paesi non hanno bisogno di militari, gli succhiano il sangue. Del resto, c'è la guerra laggiù, no? - Proprio così, una sporca guerra, ma fatta in nome di Allah e di Sua Santità il Rais, il che giustifica tutto, gli stermini e il resto.

Mi racconti com'era Landorf a quel tempo, mio padre, la sua famiglia, i vostri amici. - Quando? - Quando c'era la guerra. - Ach, è passato tanto tempo. Non rimane niente, niente di niente, io sono l'ultimo della banda e come vede, ragazzo mio, la vita non è certo emozionante. Silenzio.

Sguardo annebbiato su un'amnesia deliberata. Era chiaro, l'uomo e i suoi amici avevano seguito la stessa strada di papà. Oppure il contrario.

Forse poteva essere andata diversamente, i giovani sono così, seguono gli altri, li precedono, saltano sul primo treno che passa senza guardare dove va. La nostra zus è così, una stazione abbandonata a se stessa, chiunque può salire liberamente, tutti i treni portano l'indicazione per il paradiso e vanno all'inferno. Bisogna essere furbi per scendere senza pagare. - Diceva? - Hans era un tipo in gamba, molto impegnato, ha fatto il suo dovere come tutti noi... ecco. - Papà ci parlava molto di quel dovere, raccontava del periodo nella Hitler-jugend, gli scherzi dei bravi commilitoni, le riunioni notturne con grandi bevute, le grandi adunate al lume delle fiaccole, poi il servizio nella Wehrmacht, la partenza per la guerra... e il resto. Da piccolo, a Ain Deb, io sono stato nella gioventù dell'fln, la Fln-jugend, nel paese, era obbligatorio, e mi sono sbattuto un bel po'.

Qualche volta mi manca, eravamo assatanati, insultavamo tutti, sfilavamo dalla mattina alla sera, epuravamo i ranghi con entusiasmo e celebravamo le vittorie ululando coi lupi... -I lupi? Così per dire. - Cos'è l'fln?

- Il Fronte di liberazione nazionale, il Partito nazionalsocialista del Grande Rais, non lo sapeva? Be', torniamo a noi, al Terzo Reich. - Non c'è niente da dire, figliolo, è il passato. La guerra ci ha separati, a ognuno è toccata la sua razione, ecco. - E poi? - Non ho più rivisto tuo padre, l'ho perso di vista a Parigi... nel giugno del '41. Ci eravamo divertiti un po' con i commilitoni e ognuno ha raggiunto la sua unità.

Alla fine della guerra, quando sono tornato, Uelzen era una distesa di macerie. La mia famiglia, la tua e altre erano scomparse sotto i bombardamenti. - Come nel mio villaggio di Ain Deb, e in Algeria la guerra è appena cominciata. - Hans è sepolto là? - Sì, con la mamma e tutti i nostri vicini. Silenzio. Annuiva. Era immerso nei ricordi, era il momento di toccare il tasto giusto. - Dopo la Wehrmacht mio padre è entrato nelle ss e si è ritrovato nei campi, Dachau, Buchenwald, Auschwitz... Lo sapeva? Mi ha guardato a lungo, poi ha scosso la testa.

Era un sì o forse un no. Ho mormorato: - C'era anche lei? Silenzio. Faceva parte del dovere? Silenzio. - Per favore. Silenzio. Sottolineato da un gesto di irritazione. Non so a che impulso ho obbedito. Ho tirato fuori il libretto militare di papà e gliel'ho porto. Non capiva cosa volessi. Dopo un'esitazione l'ha preso, l'ha girato, rigirato, poi l'ha appoggiato sulle ginocchia per mettersi gli occhiali, e l'ha sfogliato con una lentezza da lumaca. Le mani gli tremavano. Le labbra anche.

Avevo fatto un errore, ho capito che non avrebbe detto più niente. Ho ripetuto: - Per favore. Silenzio.

 

- Parlavamo del dovere... - Il dovere... uno lo fa, ecco. - In qualunque circostanza? Si alzò e mormorò in tono stanco: - E' ora di tornare a casa. Guardò davanti a sé, il cielo azzurro, verso l'antica terra dei Germani, come se vi cercasse una risposta adeguata, poi mi fissò di nuovo negli occhi per dirmi: - Tuo padre era un soldato, tutto qui. Non dimenticarlo, ragazzo mio. E se ne andò. Camminava come un vecchio che ha paura della sua ombra. Mi ha fatto pena, lo vedevo tornare a casa, mettersi a letto da solo e morire quella notte stessa di un accesso di febbre. Cosa intendeva dire invocando il dovere come unica spiegazione di come va il mondo? Parlava per mio padre o per se stesso? O per me?

Sotto quella parola, dovere, ci si fa stare di tutto, si possono mobilitare interi popoli e gettarli nell'abisso. Ecco! Sono sceso alla toilette, ho pisciato e mi sono lavato le mani a lungo guardandomi nello specchio: «E' proprio quello che ti vai ripetendo da Ain Deb in poi. No: papà ha obbedito agli ordini, ha fatto il suo dovere di soldato». Fino in fondo. «Meine Ehre heisst Treue, il mio onore si chiama fedeltà».

Avevo voglia di vomitare.

 

SE QUESTO E' UN UOMO

 

Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case,

Voi che trovate tornando a sera Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango

Che non conosce pace

Che lotta per mezzo pane

Che muore per un si o per un no.

Considerate se questa è una donna,

Senza capelli e senza nome

Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo

Come una rana d'inverno.

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi.

Primo Levi

 

Alla poesia Rachel ha aggiunto questi versi:

I figli non sanno;

Vivono, giocano, amano.

E quando ciò che fu gli viene incontro;

I drammi eredità dei genitori;

Hanno davanti a sé strane domande,

Gelidi silenzi,

E ombre senza nome.

La mia casa è crollata e il dolore mi opprime;

E non so perché.

Mio padre non mi ha detto niente.

 

DIARIO DI MALRICH.

 

Mercoledì 9 ottobre 1996.

 

Momo e Raymond sono passati alla villetta e mi hanno raccontato una cosa tremenda, ma quei bastardi ne parlavano come di un fatto di cronaca visto alla tivù. Avrei potuto non ascoltarli, e invece era un vero dramma. E del dramma, io ne so qualcosa, ci sto dentro fino al collo, immerso come sono nel diario di Rachel. Me lo dite solo adesso? ho esclamato. Il motorino era rotto, rispose quel bugiardo di Momo. E la storia di Nadia, una ragazza di sedici anni figlia di immigrati, apprendista parrucchiera da Christelle, Le forbici d'oro, sta di fianco alla stazione della rer. E scomparsa. La conoscevo di sicuro, ma quelle ragazze si somigliano tutte, più o meno, non riuscivo ad abbinare una faccia a quel nome. Dovrebbero obbligarle a distinguersi una dall'altra, non si sa mai, come questo caso ha dimostrato. Chi è Nadia? ho domandato. Pff, una donna! ha risposto quell'asino di Momo, e Raymond ha aggiunto: Abita nella 22, suo padre è Moussa, il metalmeccanico, quello che ha una Ami 6 verde. Anche loro si assomigliano tutti, Moussa, Abdallah, Arezki, Ben Tal dei Tali, e del resto non li si vede mai, non li si sente mai. Il loro tran tran casa-lavoro-casa comincia all'alba e finisce la sera tardi, tranne la domenica, il giorno del Signore, che passano in qualche bar lontano, distrutti dalla nostalgia, chi a giocare al lotto, chi a scommettere sui cavalli. Quando li vedi passare, sono ombre piegate in due che entrano nella notte o che ne escono. Il quartiere si è precipitato in blocco alla ricerca di Nadia, genitori, vicini, ragazzini, polizia, pompieri. Correvano di qua e di là. Le donne stavano al balcone, a piangere, a pregare, a incitare gli uomini. Hanno parlato di fuga, poi di rapimento, e da ieri parlano di omicidio. Sono arrivate le televisioni e si sono imboscate negli angoli più schifosi, le no man's land dove non andiamo mai nemmeno noi abitanti del quartiere. Si è saputo che la ragazza era stata aggredita da un barbuto, un ragazzo della 11, un astro in ascesa, famoso per i suoi soggiorni a Kabul, Londra e Algeri, che si è attribuito il titolo di Epuratore per conto di Allah. Le rimproverava il suo modo di vestirsi, i capelli fluorescenti, e di frequentare i ragazzi, e per di più degli infedeli, dei kuffar, come dicono loro. L'ha presa a schiaffi, le ha sputato in faccia e, strappandole i capelli, le avrebbe detto: Ultimo avvertimento!

La scena si è svolta sulle scale della 22. Testimone un bambinetto che scendeva in quel momento. L'ha raccontato agli amici e un po' per volta l'informazione è arrivata a Moussa che, in quattro e quattr'otto, ha preso un coltello e si è precipitato a cercare il barbuto. In strada, i vicini lo hanno bloccato, disarmato e accompagnato, con discrezione, da Com'Dad. L'incontro si è svolto senza testimoni, al supermercato, tra due scaffali in fondo. Il barbuto è stato arrestato e rilasciato ventiquattro ore dopo. Niente cadavere, niente reato, niente colpevole.

Il suo avvocato, un altro barbuto in giacca, cravatta e berretto bianco, sapeva come vanno le cose, ha aizzato le associazioni, le cancellerie islamiche, le confraternite, i marabutti, le cellule dormienti e ha dato la sveglia al ministro dell'Interno. Il cielo era coperto di fax, saturo di decibel. Com'Dad era verde di rabbia: era pregato di rilasciare l'assassino e riaprire la moschea della 17. Niente storie, Parigi si attiene alla tesi della fuga. L'Epuratore si dava un sacco di arie, si era guadagnato il biglietto per il paradiso, la jannah, come dicono loro; per di più metteva in ridicolo la polizia e confermava eroicamente il suo status di emiro del quartiere. E stamattina, fulmine a ciel sereno, L'orrore assoluto: la povera Nadia è stata ritrovata nella cantina di un negozio chiuso da tempo, completamente nuda, legata con del filo di ferro, il corpo e la faccia bruciati dalla fiamma ossidrica.

I genitori l'hanno identificata senza esitazione. E la loro figlia, se lo sentivano. L'emiro è stato beccato all'uscita della moschea. Pare che abbia detto a Com'Dad, sputando fuoco: Allah akbar, arriverà la tua ora.

L'imam ha subito decretato una messa solenne sullo spiazzo per onorare l'eroe, aiutare i suoi degni genitori e raccogliere fondi per la causa.

Si terrà venerdì a mezzogiorno e mezzo. Ha lanciato una fatwa: Gli assenti saranno colpevoli, Allah li punirà senza misericordia. Non solidarizzare con un fratello nell'islam aggredito dai kuffar è il massimo dei peccati. Ci sarà folla. Io parteciperò. La mia decisione non era per niente spontanea, mi ero ripromesso di tagliargli la gola, a quell'ss che vuole trasformare il nostro quartiere in un campo di sterminio, era arrivato il momento. Siamo usciti e abbiamo fatto il giro del quartiere per riunire gli amici, Cinque Pollici, Bidochon detto Barista, Togo al Latte, il Monco e Idir che Dici, il nostro balbuziente, e siamo saliti a fare le condoglianze alla famiglia Moussa. C'era folla davanti alla 22 e sulle scale. Abbiamo aspettato il nostro turno. Porca miseria, se è dura! La mamma ci ha stesi. Non diceva niente. Si guardava le mani posate sulle ginocchia e gemeva come un gatto messo sotto da un'auto. E Moussa la guardava scuotendo la testa. E noi li guardavamo trattenendo il fiato. Poi siamo andati a salutare la datrice di lavoro di Nadia. Vedendoci, ha sobbalzato e si è subito avvicinata al telefono.

Dato che sono il biondino della banda, sono entrato da solo e le ho spiegato perché eravamo lì. E venuta alla porta e ci ha ascoltati borbottare a bassa voce. Non sapevamo cosa dire. E comunque lei singhiozzava, non ci sentiva. Fa uno strano effetto simpatizzare con persone che non conosci. Veden dola piangere, abbiamo pianto anche noi.

Avevamo un'aria da perfetti coglioni. Be', basta piagnistei. Siamo andati al bar della stazione. Riunione al vertice in fondo alla sala.

Bisognava reagire, tirare fuori le palle, salvare il nostro quartiere.

Vedendoci arrivare sparati, una coppietta che si sbaciucchiava in un angolo ha tolto rapidamente le tende. Eravamo in otto e avevamo un'aria poco raccomandabile. Il padrone si è avvicinato con il suo sorriso innocente da informatore della polizia, ci ha serviti, e si è piazzato vicino al pulsante d'allarme. Fra noi, l'atmosfera si è subito scaldata.

Alcuni, come quel deficiente di Momo, non avevano idea di cosa si potesse fare, mentre gli altri, Raymond in testa (quando dice cazzate lo chiamiamo Rammollito), erano tutti per la contro-jihad. Da un estremo all'altro, sempre da un estremo all'altro. Gli ho detto: - Bisogna tagliare la testa, e la testa è l'imam. Silenzio. Mormorii. Be', proprio l'imam... - Cazzo, siete scemi per caso, ci ha fottuti fino all'osso, me, te, Momo, e te, Rammollito dei miei coglioni, che ti facevi chiamare Ibn Abou Merda ed eri pronto ad andare a sbudellare tutti gli afgani come se fosse un affare di famiglia, e te, Cinque Pollici, che facevi il baciapile in moschea dalle quattro del mattino a mezzanotte... - Iiiiio ddddico ccccche dobbiamo aaaa avvertire i ge i gege i genitori...

 

- Idir, se è solo per dire stronzate, è meglio che stai zitto. I genitori dicono che bisogna avvertire la polizia, la polizia dice che bisogna avvertire i giudici, i giudici dicono che bisogna avvertire il governo, il governo dice che bisogna avvertire i sindaci e i sindaci sai cosa dicono: Basta! - Quindi tocca a noi. - Bravo, Barista! Non avvertiamo nessuno, sarà tanto di guadagnato. - Non c'è niente da fare, sono dappertutto, i barbuti, hanno la grana, gli avvocati, le armi, le cellule, amici che contano, ambasciatori... - La contro-jihad: è l'unica, usare le stesse tecniche, infiltrarsi nelle cellule, infiltrare... - D'accordo, la facciamo noi otto. E con che religione, la tua contro-jihad, hai un'idea? - Ehi, Monco, sei qui per parlare o per pensare al tuo braccio? Che ne dici? Be', mi fermo qui, era solo per dare un esempio della nostra discussione. Abbiamo tolto la seduta su tre conclusioni, quella degli amici di Momo: Siamo fottuti e qualunque cosa facciamo saremo fottuti; quella degli amici del Rammollito: Alla jihad contrapponiamo la contro-jihad; e quella dei miei amici: L'imam, bisogna farlo fuori. E quest'ultima che intendo portare avanti. Poi, siamo tornati alla villetta con delle confezioni di birra prese al supermercato. La veglia d'armi sarà lunga.

 

Giovedì 10 ottobre.

 

Abbiamo passato la giornata a girare a vuoto. Il quartiere era in lutto.

Gli uomini se ne stavano appoggiati ai muri. Gruppetti che volevano dimostrarsi solidali nel dolore e nella passività. Di cosa parlavano? A cosa pensavano? A quello che gli capitava, a Nadia? A niente, forse.

Sembravano dei deportati che aspettano che passi il tempo, che compaia qualcosa all'orizzonte, che gli si apra la terra sotto i piedi o che gli dicano di tornarsene di corsa a casa a vedere la soap opera in tivù.

Avevano l'aria così abbacchiata, così avvilita, ero indignato. I barbuti stavano nella moschea a fare progetti e i loro kapò pattugliavano il territorio in lungo e in largo guardando la gente come se fossero prigionieri inutili. Davanti alla 17 stazionavano varie macchine.

Elegantissime, quindi estranee al quartiere. Stavamo per cambiare angolo quando, sorpresa sorpresa, ecco Com'Dad che esce dalla cantina, insieme a diverse persone, tizi del Comune, gente che lavora nelle asso dazioni e perfetti sconosciuti. C'era quel diavolo di imam che Com'Dad teneva per il braccio come uno fa con un amico per ricordargli le cose essenziali. Puttana Eva, la Francia che negozia con le ss! E nel loro bunker! Un gran bello spettacolo! Perché è di questo che si tratta, Com'Dad lo conosciamo, è della nuova scuola di polizia: Il nemico, bisogna farselo amico e lavorarselo garbatamente. Porca miseria, siamo morti, la repubblica arretra, con il bastone in culo!

 

Venerdì 11 ottobre. 7 del mattino.

 

Ragazzi, una roba mai vista! Il quartiere, deserto. Lo spiazzo, le strade, i balconi, i parcheggi. Non un'anima. Nemmeno l'ombra di un passante. Nemmeno i vecchi africani in babbucce di zebù che vanno sempre in giro tutto il giorno, con la pioggia o col bel tempo. Se uno vuole girare un film sulla fine del mondo, questo è il posto giusto. Non immaginavo che il nostro quartiere facesse così schifo, fosse così tristemente freddo, così disperatamente malandato. Prima tutto mi sembrava normale. Ci piaceva, il quartiere. Andavi, venivi, senza vedere niente. Quando sentivo qualcuno lamentarsi della sporcizia e del rumore, mi veniva voglia di dargli fuoco. Ci insultava, per caso? Avevamo proprio un'aria da furbi, noi otto moschettieri. Venivamo a vendicarci e, in giro, nemmeno un gatto. Eravamo sicuri del colpo, sappiamo come vanno le cose. Quando i barbuti organizzano una manifestazione, lo fanno da professionisti, cominciano al mattino presto, dopo la prima preghiera, del fajr come dicono loro, poi corrono come invasati da un negozio all'altro, da una torre all'altra, per strappare la gente dalle sue incombenze e portarsela dietro. Un'ora dopo, è tutto pronto. Li riuniscono sullo spiazzo, li circondano, li accatastano come legna da ardere, e li incendiano a colpi di Allah akbar e di megafono. Quando li mollano, non c'è più modo di recuperarli.

 

Ore 8. Piene le palle di aspettare. Siamo piombati sulla moschea.

Chiusa. Che delusione vedere che i barbuti avevano calato le brache.

Forse la paura aveva cambiato fronte? Li ha smontati la portata della mobilitazione per Nadia e per i suoi genitori? Il loro servizio di spionaggio funziona meglio della Cia, hanno capito che questa volta la gente non li avrebbe seguiti. Onorare un assassino, celebrare il delitto e lodare Allah in un colpo solo non funziona, al quartiere non piace.

Questione di dignità. C'era un'altra spiegazione per l'assenza dei barbuti: i reparti antisommossa. Erano dappertutto e non li avevamo visti! Chiusi nelle loro camionette ai confini del quartiere. Bastardi, ci rubavano la nostra vendetta: o noi o i barbuti, era così che doveva andare! Il silenzio del quartiere diceva che l'avevamo spuntata noi.

Adesso potranno atteggiarsi a uomini di pace, giurare che si sono astenuti per non dare ai teppisti, ai provocatori, ai nemici dell'islam e della repubblica, l'occasione di approfittare della loro riunione a favore delle vittime. Sono dei campioni a rivoltare la frittata. Hanno una faccia tosta, quelle iene. Stavo per lanciarmi all'inseguimento dell'imam per incidergli una croce uncinata sulla fronte quando una voce mi chiamò per nome: Malrich!... Malrich!... Vieni un po' qui... Vieni, ti dico! Era Com'Dad. Scendeva da un'auto civetta. Mi sono fatto avanti, con le mani in tasca. Vieni qui! mi dice prendendomi per un braccio. Poi mi tasta qua e là per vedere se ho un coltello o un bazooka. Un'occhiata agli amici basta a immobilizzarli dove stanno. - Inutile fare il furbo, so cosa progettavi con i tuoi delinquenti da strapazzo. - Ma niente... andavamo all'agenzia a vedere se per caso... - Chiudi il becco! - Le giuro, signor commissario. - Ascoltami bene, dell'imam ci occupiamo noi, non tu, e non fartelo dire due volte. Se solo gli rivolgi la parola, ti sbatto dentro per tentato omicidio. E ti proibisco di girare intorno alla moschea come stai facendo da ieri con i tuoi amici balordi. Capito?

- No, non capisco! Adesso, uno non ha più il diritto di camminare? Mi ha riafferrato per il braccio e mi ha incollato al muro. - Ascolta, ragazzo, so da dove ti vengono queste idee, è il diario di tuo fratello, ma non hai capito niente, lui non è uscito ad ammazzare la gente perché lo avevano fatto altri, ha cercato di capire... - Ed è morto. - Forza, su, su, torna a casa, su!... e portati via quei balordi! Stasera alle sei ti voglio nel mio ufficio... e con le mani fuori dalle tasche!

 

Siamo andati a Parigi. Piene le palle del quartiere. Abbiamo girato a vuoto allo Chàtelet, al Beaubourg e ci siamo fatti metà di boulevard Sebastopol per dare una ripassata a un cugino di Togo al Latte che vende porta a porta fregature e prodotti di bellezza cancerogeni. Un affare di famiglia. Poi abbiamo mangiato qualcosa sul lungosenna. Poi ci siamo spostati verso gli Champs-Elysées, è un altro mondo, viene da chiedersi se uno è in Francia. Poi abbiamo ripiegato sulle Tuileries per parlare seriamente. Avevo una domanda da fare: - Fra noi c'è un traditore.

Vorrei sapere chi è. Sei per caso tu, Momo? O tu, Togo al Latte, che stavi come lui con i vigliacchi? Dopo un'ora di ping-pong sono arrivato alla conclusione che poteva essere chiunque, loro, gli amici ai quali abbiamo raccontato della nostra riunione al vertice, il padro ne del bar della stazione che teneva le orecchie dritte. Non ho scartato l'ipotesi che Com'Dad abbia intuito le nostre intenzioni semplicemente vedendoci alle sette del mattino davanti alla moschea. Noi siamo gente della notte e lo sanno tutti. - Be', si gela, io torno a casa, il signor commissario mi aspetta per il tè.

 

Ore 18.

 

Il commissariato è un baraccone di blocchi di calcestruzzo e vetro blindato piantato sul confine del quartiere. Un muro nel nostro territorio e un muro nella zona di Rachel. I poliziotti mi conoscono.

Babar, che era di turno allo sportello informazioni, mi ha fatto un gesto col pollice. Indicava il corridoio. Lo so, l'ufficio del capo è in fondo. Porta imbottita. Com'Dad è qui da una decina d'anni. Sono arrivato nel quartiere insieme a lui, io dall'Algeria, lui da un'altra periferia, un posto su al nord. Specialista delle zus. Non so se da noi ha fatto carriera. Secondo me no, la situazione è sempre la stessa, a parte che i piccoli teppisti sono cresciuti, quelli grandi sono ingrassati e i vecchi sfregiati si atteggiano a padrini tornati dalla guerra. Quanto agli altri, le famiglie, la gente, vivono la loro vita come prima, un po' il lavoro, un po' la disoccupazione, un po' l'ospedale. I giovani sono nel giro dei servizi sociali o nel giro della scuola, o fra l'uno e l'altro, tirano a campare. In dieci anni non è cambiato niente, a parte l'arrivo degli integralisti, negli ultimi tempi. Sembra per via della guerra in Algeria, a Kabul, laggiù in Medio Oriente e non so dove. A quanto pare, hanno scelto la Francia come base nelle retrovie, come centro di raccolta. In ogni caso ci hanno fottuto l'esistenza, è colpa loro se siamo a terra che di più non si può.

Potessero crepare, in quattro e quattr'otto hanno arruolato delle truppe e preso il potere. Neanche il tempo di rendersi conto e tutto era cambiato, la moda e il resto. Ben presto si è creato il vuoto.

L'economia si è delocalizzata, i negozi, gli uffici, i piccoli traffici che aiutavano i disoccupati a tener duro. E' la loro tecnica, fare terra bruciata, confondere il nemico per attaccarlo di sorpresa e impoverire la gente per avvicinarla al paradiso. Pecore, che pilotano con un gesto e con un'occhiata. Ci siamo passati anche noi, io e i miei amici, il Rammollito e Momo soprattutto, un po' perché ci eravamo bevuti il discorso del loro Führer: Arruolatevi, avrete tutto, i soldi e la jannah, un po' perché ci stavano incollati alla gellaba, non si poteva mettere il naso fuori senza vederli arrivare con passo ginnico e recitarci i dieci comandamenti del kamikaze. Potessero crepare, come jannah abbiamo avuto il commissariato, il tribunale, i tirocini forzati.

Mancava solo il bagno penale. Eravamo marchiati a vita. Com'Dad ci è stato addosso, poi quando ha visto che mollavamo quella religione alla Mad Max, ci ha aiutati con il Comune. Ci siamo sciroppati corsi, apprendistati, visite guidate, conversazioni con i deputati. Non portano a niente ma aiutano a passare il tempo.

 

- Entra. Siediti. Vuoi un tè? - No. Così, abbiamo chiacchierato: parlava solo lui girellando per l'ufficio e io lo ascoltavo con mezzo orecchio.

Come al solito, ha cominciato da quello che gli stava a cuore, il quartiere, il futuro, la repubblica, la retta via, poi ha continuato parlando di noi, con l'aria dell'amico che vuole il tuo bene. -... Devi saperlo, ragazzo mio, tuo fratello era un tipo veramente a posto. Di fronte a quello che sai... riguardo a tuo padre, ha avuto l'unico atteggiamento degno di un uomo: ha cercato di sapere. Che sia per i crimini di ieri o di oggi, è la prima tappa: prima di tutto bisogna capire, - e ha staccato le parole scandendo le sillabe, - non si giudica tutto in blocco. Quando portavi il kamis e la barbetta, avrei potuto dire: è un integralista, un terrorista, lo frego io. Be', no, ci ho pensato su e ho capito, tu non sei uno di loro, sei Malrich, un tipo in gamba, e hai voglia di vivere la tua vita come tutti. Niente è semplice, il suicidio di tuo fratello lo dimostra. Ha cercato di capire ma purtroppo a poco a poco si è lasciato andare, ha finito per sentirsi colpevole di quello che i nazisti e tuo padre hanno fatto agli ebrei durante la guerra, ce l'aveva con lui ma nello stesso tempo era suo padre, voleva considerarlo come qualunque uomo vuole considerare il proprio padre ed esserne fiero. E tanto più lo voleva in quanto non avete vissuto con lui, vi mancava, e oltretutto è morto in un modo orribile, sgozzato dagli integralisti, e vostra madre anche e tutta quella povera gente che per vedere il giorno aveva soltanto il sole. Più procedeva nelle sue ricerche, più lo scopriva e più soffriva. Nella testa gli è successo qualcosa, una cosa strana, il meccanismo si è invertito, se l'è presa con se stesso. Suo padre, lo considerava un criminale di guerra, ma soprattutto un padre, un uomo che si è battuto per la libertà in Algeria, che nel suo villaggio era amato e rispettato, una vittima degli integralisti e in un certo senso del sistema politico algerino che ha creato quei mostri. Era troppo, è arrivato a colpevolizzarsi per la sua affermazione sociale, per quello che reputava il suo egoismo nei tuoi confronti e nei confronti della vostra famiglia, per la vita comoda che faceva. Ecco cosa spiega, forse, perché si è isolato da voi, da te, da sua moglie, dai vostri genitori adottivi, era il suo modo di proteggervi. In fin dei conti si è accollato tutto, si è giudicato al posto di suo padre. E allora il suicidio era l'esito fatale, l'unico modo che aveva di conciliare l'inconciliabile. Capisci?

Non so cosa ho risposto. Niente. Ero in un buco nero. Vedevo delle ombre... mio padre, mia madre, Rachel che sprofonda nella follia, quella povera Nadia che urla a morte, l'imam che le si avvicina con una torcia, l'ombra dell'imam che plana sul quartiere, pensavo al genocidio di Ain Deb, a... io... Non lo so più. Ricordo di aver gridato: - Perché mi parla di questo, cosa c'entra? Si è chinato per dirmi: - C'entra eccome!

So cosa ti passa per la zucca. Tu metti insieme ieri e oggi, Rachel e te, tuo padre e l'imam, tu pensi ai nazisti che ti hanno rubato tuo padre, che hanno fatto di lui lo strumento di un genocidio, pensi agli integralisti che hanno ucciso i tuoi genitori e quella povera Nadia, vuoi vendicarti, a cominciare dall'imam perché è il capo, il Führer, perché hai fatto parte anche tu di quella banda di stronzi che vogliono eliminare l'umanità e perché questo per te è un modo di riscattarti, di considerare tuo padre diversamente, di perdonarlo. Capisci? - Tutte storie. Posso andarmene? - Puoi. Ma rileggi bene il diario di tuo fratello e forse vedrai quello che lui non ha visto anche se aveva capito tutto: non si cancella il crimine col crimine né col suicidio.

Per questo c'è la legge e per il resto uno ha la propria memoria di uomo e il proprio buonsenso. E soprattutto: noi non siamo responsabili dei crimini dei nostri genitori. - Posso andarmene? - La porta è aperta, torna quando vuoi.

 

Sono salito da zio Ali e zia Sakina. Stanotte dormirò da loro. Mi sentivo in colpa, è da più di un mese che li ho abbandonati. Davvero, stavo male, avevo paura di rimanere solo nella villetta, non so cosa avrei fatto. C'era un altro motivo: volevo chiedere qualcosa a zia Sakina. Non me lo ero mai domandato, e d'altronde nemmeno Rachel, nel diario non c'è niente su questo: Quali erano i veri rapporti fra papà e zio Ali? E pazzesco quante cose uno non sa, non vede, mentre fanno parte di noi, della nostra vita quotidiana. Dieci anni che vivo da loro, e di loro non so niente, niente del loro rapporto con papà. Zio Ali e zia Sakina sono come uno può immaginarseli: emigrati che sono rimasti emigrati. Non è cambiato niente, vivono in Francia come avevano vissuto in Algeria e come vivrebbero su un altro pianeta. Dicono che è Allah a decidere, e questo basta. Sono brave persone, non chiedono niente alla vita, il pane, un posto per dormire, la tranquillità, e di tanto in tanto qualche notizia dal paese. Adorano le lettere. Ero io a leggergliele e a scrivergliele. Un'incombenza alla quale oggi penso con affetto. Papà mandava lettere per emigrati: «Caro Ali, ti scrivo queste poche righe per farti sapere che sto bene e così tutta la famiglia.

Spero che stiate bene, tu, tua moglie e i figli. Vi abbraccio». Poi parla un po' del villaggio e del tempo che fa. E loro rispondevano: «Caro Hassan, abbiamo ricevuto la tua lettera e ti ringraziamo. Siamo contenti di sapere che state bene. Allah sia lodato. Qui va tutto bene, i figli vi abbracciano. Dateci presto vostre notizie. Che la pace di Allah sia con voi. Ti ho mandato le medicine che mi hai chiesto, spero che ti arrivino. Se hai bisogno di qualcos'altro, fammelo sapere». Poi parlano un po' del quartiere e del tempo che fa. Ne ho scritte a decine così. Cambiavo solo la data, la temperatura e il nome delle medicine. Al momento di parlare con loro mi sono reso conto che non potevo. Ci siamo sempre scambiati solo frasi fatte. Io dicevo: Buongiorno, buonasera, ho fame, esco, e loro mi dicevano: Buongiorno, buonasera, hai fame? Vuoi un caffè? Copriti, fa freddo, Dio ti protegga. Il resto era silenzio, modi di comportarsi, gesti che si fanno in famiglia. - Zia... come si sono conosciuti zio Ali e papà? Non ho mai visto zia Sakina stupirsi per qualcosa. Mi rispose tranquillamente. - Si sono conosciuti nella resistenza, erano grandi amici, fratelli. - Tutto qui... e dopo? - Con l'indipendenza, la vita era difficile, la miseria ci mangiava vivi, la gente dormiva per strada mentre i capi festeggiavano nei palazzi dei grandi coloni e si ammazzavano tra loro per il potere. Tuo padre e Ali erano disgustati. Ali è emigrato in Francia per non vedere più quelle cose. Non appena ha trovato un lavoro, è tornato a chiedere la mia mano e io l'ho seguito. Allah ha vegliato su di noi, non ci è mai mancato niente. -E mio padre? - So che ha avuto dei problemi con i suoi capi.

Certi volevano che se ne andasse dall'Algeria e minacciavano di ucciderlo, altri volevano tenerlo per continuare ad addestrare ufficiali. - Perché ce l'avevano con lui? - Non so. Ali potrebbe dirtelo ma non ci sta più con la testa, poveraccio. So che ha nascosto tuo padre per diversi mesi nel nostro villaggio in Cabilia, poi quando noi siamo venuti in Francia tuo padre è andato a nascondersi a Ain Deb, da un altro amico della resistenza. Si chiama Tahar, è tuo zio. Tuo padre ha sposato la sorella minore, Aicha. E morto tanto tempo fa, non eravate ancora nati, tu e tuo fratello. - Perché papà non è mai venuto in Francia? - Non so, figlio mio. Ha fatto la guerra contro la Francia al tempo della Germania e in Algeria aveva paura che lo arrestassero. - Lo zio Ali ha combattuto contro la Francia, eppure vive qui e non ha mai avuto problemi. - Allora, deve aver avuto le sue ragioni, non so quali.

- Perché ci ha mandati in Francia, da voi, invece di tenerci con lui, con la mamma, è normale? - Non giudicare tuo padre, figlio mio. Pensava al vostro futuro, voleva vedervi fare studi seri, riuscire nella vita, vivere tranquilli. Perché me lo chiedi? - Così, zia... così. - Non stai bene, figlio mio, dalla morte di tuo fratello non sei più lo stesso. Hai perso l'allegria, pensi troppo. Ma non è grave, sei giovane, Allah veglia su di te.

 

Quella notte ho dormito come un sasso. Era la prima volta da tanto tempo.

 

DIARIO DI RACHEL.

 

Marzo 1995.

 

E' la discesa agli inferi. Va tutto male. Ophélie mi rompe le scatole, non mi dà tregua, vuole che torni come prima, come mi ha conosciuto, punto e basta. Capisco il fascino che esercitano sulle casalinghe le soap opera tipo Febbre d'amore e compagnia bella, raccontano la stessa storia, con le stesse parole, nello stesso scenario, con gli stessi attori, che in vent'anni e passa di riprese invecchiano solo di qualche giorno, senza mai cambiare carattere, cosa che nessuna vera casalinga è in grado di notare. Forse è il loro modo di prendersi una rivincita sulla vita. Ma io la capisco, la mia Ophélie, la sua vita è stata stravolta, si ritrova con uno sconosciuto, un intruso malridotto, un estraneo tutt'altro che divertente, un malato che rimugina su abomini di un'altra epoca, di un altro mondo. Quello non è il suo uomo, non c'entra un cavolo nella sua vita, nella nostra soap opera, lo cercavo di controllarmi, ma ci riuscivo sempre meno. Mi nascondevo dietro al lavoro, inventavo crisi e tracolli, le cose che vanno a rotoli, il ristagno degli affari di cui parlano gli esperti, le trattative sempre più spietate, i musi gialli, gli indù, i dragoni, dei pezzenti che ci attaccano ai fianchi e saccheggiano i nostri mercati, la riunionite acuta che ha colpito lo stato maggiore, gli ordini che partono a raffica, i seminari che si susseguono in fila indiana, i sindacati che temono per i loro privilegi e lavorano per mandare tutto in malora. Le racconto i nostri presunti problemi come uno racconta un film di guerra a un pacifista o a un obiettore di coscienza, ci metto la suspense e quel tanto di morale positiva che basta a legittimare la violenza delle nostre reazioni. Combattiamo per i nostri posti di lavoro, per noi, per lei. A lei non importa un tubo. Ai suoi occhi niente giustifica il mio silenzio, le mie assenze, le mie occhiaie, il mio scarso appetito a tavola, la mia indolenza a letto, e niente giustifica la presenza in casa di quei libri, schifosi, come dice lei, sulla guerra, le ss, le deportazioni di massa, i campi di sterminio, l'industria della morte, i processi che sono venuti dopo, la caccia ai criminali di guerra in tutto il pianeta, di cui facevo un consumo costante. Un giorno ha minacciato di scaraventarli nel caminetto ma ha visto il mio sguardo e ha intuito che era proprio la cosa da non fare. Li ho trasferiti in garage e ho messo un lucchetto all'armadio degli attrezzi. A volte le sfuggivano parole che mi facevano un male cane. Sapevo che andavano al di là di quello che pensava davvero, le venivano da sua madre. Un giorno mi ha detto: - Voi caffelatte siete tutti uguali, se non è pan bagnato è zuppa, e oltretutto imprevedibili! - Al che le ho risposto: - Di' a tua madre, che pure di cucina dovrebbe intendersene, che si dice: se non è zuppa è pan bagnato, non è la stessa cosa, anche se significa appunto che è la stessa cosa -. Per questa insignificante osservazione ha tenuto il muso una settimana e sua madre mi ha telefonato per dirmi con voce stridula che non si lasciava dare lezioni di francese da uno straniero.

Visto che non capivo di cosa parlasse, ho risposto: - Tutto è relativo, mamma, sa, lo straniero è straniero solo per lo straniero. In termini assoluti, è un uomo come tutti gli altri e niente vieta che gli piacciano Molière e Maupassant -. Mi ha sbattuto giù il ricevitore. Una sera che tornavo a casa con dei nuovi libri sotto il braccio, Ophélie mi ha detto con un tono indifferente che mi ha distrutto: - Non li abbiamo mica ammazzati noi quegli ebrei, perché ti interessano tanto? - La goccia che ha fatto traboccare il vaso. Le ho risposto, con lo stesso spaventoso distacco: - Appunto, non siamo stati noi ma avremmo potuto essere noi! - Non ho tentato di spiegarle altro, aveva cambiato argomento: - Stasera viene a cena la mamma, fammi il piacere di smetterla con quella faccia. Mia suocera è un caso clinico. Che sia grassa, brutta, inopportuna e stupidamente sofisticata non è di per sé scandaloso. Anzi, è divertente vederla fare la gran dama nel suo castello. Il problema è la sua lingua, ucciderebbe una vipera. Per non parlare dello sguardo, paralizzerebbe una famiglia di crotali. Con lei nei dintorni, non si può fare un respiro senza aspettarsi il peggio. Come sei abbacchiato Rachel, mi deludi. Ti stai lasciando andare, caro mio. A casa nostra, non si... - Lei invece, mamma, è sempre la stessa, fa piacere. Comunque, questa è casa mia. La cena è finita lì. Lei si è alzata da tavola con un singulto. Sua figlia mi ha scaraventato in faccia il tovagliolo e l'ha seguita. Un minuto dopo la porta d'ingresso ha sbattuto come se fosse passato un uragano tropicale. La villetta ha tremato fin dalle fondamenta di cemento. Ho continuato a mangiare con il piacere inebriante di aver salvato la vita a qualche nostro amico rettile. L'indomani mi aspettava un problema in ufficio. Un altro.

Quando le cose vanno già male, succede di peggio. Il capo voleva vedermi. Dal tono della segretaria, ho capito: dovevo prepararmi a una lavata di testa. Sapevo perché. Era nell'aria, da un po' si chiacchierava alle mie spalle. Quando apro una porta, tutti cambiano argomento. Ero preoccupato ma non troppo, il signor Candela è un amico, un fratello. E' stato lui ad assumermi, ad addestrarmi, a insegnarmi i trucchi del mestiere e a rimettermi in pista ogni volta che la nostra meravigliosa macchina per far soldi mi metteva in ginocchio. Abbiamo due cose in comune, la facoltà di Ingegneria di Nantes, dove per un certo periodo ha insegnato Meccanica dei fluidi, e l'Algeria, dove è nato con tutta la sua tribù, dall'antenato basco in poi. Quando ha visto il mio curriculum, pum, ha avuto un tuffo al cuore. Ero assunto. Aveva bisogno di avere un condiscepolo e un vero compatriota accanto a sé, nel suo regno, la prestigiosa direzione vendite Europa-Africa. E un ingegnere efficiente, come credevo di poter diventare ben presto. Avevo ventiquattro anni, ero fresco di laurea e con la testa piena di idee nuove. Che fortuna avere un caro amico e la prospettiva di un sacco di bei viaggi. Sei mesi dopo traslocavo nella nostra villetta da sogno e sposavo la mia Ophélie di sempre con il consenso e le moine della sua mamma. Furono tempi felici, toccavamo terra con i piedi solo perché dovevamo pur camminare. Il capo aveva l'aria del boss che riceve un sottoposto che ha preso in antipatia. Tetro, sprezzante. E' un meridionale espansivo, non gli va di fare la parte del duro che viene dal nord. Non avevo ancora chiuso la porta che già mi investiva: - Hai intenzione di continuare così per molto? - E' il suo modo di parlare sul lavoro, all'americana, niente preamboli, si comincia dalla fine. Non ha tutti i torti, in fin dei conti siamo lì per guadagnare soldi, non per perderli. La religione dell'azienda si riassume in tre parole: Time is money, e il suo Dio è Mister Dollar. La nostra multinazionale è americana al cento per cento, di straniero ha solo il mercato, e noialtri, il personale, i dipendenti, piccoli Frenchmen chiacchieroni e scialacquatori, fortunatamente retribuibili in franchi correnti, considerati alla stregua di Infedeli. - Sto attraversando un brutto momento. - Molto originale. Con Ophélie? - Non esattamente. - Il signore ha forse dei patemi d'animo? Allora gli ho detto tutto. Il massacro del 24 aprile e il passato di papà. In meno di cinque frasi, come nelle riunioni di debriefing. Ho tralasciato i patemi d'animo. E lui lo stupore e ogni genere di domanda. - Andiamo a parlarne al bar. Ma te lo dico subito, il boss vuole la tua pelle, o la mia testa. Negli ultimi sei mesi i tuoi risultati sono stati catastrofici. Ed evidentemente il suo servizio segreto ha rilevato le tue assenze giorno per giorno, ora per ora. Hai battuto tutti i record, bravo! Ho interceduto, ma insomma, siamo in una multinazionale, non all'oratorio. Quindi mettiti in riga, e subito. Altrimenti alla fine del trimestre fai i bagagli. Chiaro?

Chiaro, ero liquidato. Il timing dipendeva da fattori collaterali: il sindacato che non bisogna mettere in allarme a nessun costo, la normativa, la trafila delle scartoffie da un ufficio all'altro.

L'azienda stava da Dio, ma il rendimento prò capite è il rendimento prò capite. Si tiene a mente questa legge come un malato tiene in bocca il termometro. La filosofia aziendale è semplice come un'esortazione biblica: «Se un albero è malato, tagliamolo prima che contagi la nostra bella foresta». Il noi va inteso alla lettera, la truppa fa propria la decisione del boss e se ne addossa la responsabilità. Così impone il nostro sistema di compartecipazione aziendale. Come dirlo a Ophélie? Non vorrà crederci. Zitto e mosca, domani è un altro giorno, lasciamole qualche sorpresa. Il capo ha la sovrana capacità di comprendere senza bisogno di spiegazioni. E' stato conciso, nei suoi occhi socchiusi ho visto tutta la saggezza del mondo ma anche tutta la prontezza con cui i vecchi saggi si arrendono di fronte al Male. Mi ha detto, rimescolando freneticamente il suo caffè: - Da' retta a uno che sa di cosa parla.

Nella mia famiglia abbiamo conosciuto di tutto, la miseria, la guerra, la deportazione, e poi ancora la guerra e l'esilio e il disprezzo, la solitudine e il resto. Quindi ascoltami. Metti subito fine a questa storia, altrimenti ti distruggerà. Prima di tutto, rassegnati alla perdita dei tuoi genitori. Non li resusciterai compiangendo te stesso.

Ogni anno, da bravo figliolo, andrai a visitare la loro tomba e pregherai per il riposo della loro anima. Li ringrazierai di averti dato la vita e dirai loro che ne godi per quanto possibile, senza follia né arroganza. Quanto al resto, l'Olocausto e tutte le barbarie di questo mondo, prega Dio che non si ripeta mai più. E' tutto quello che puoi fare. Leggi, impegnati se vuoi, dai il tuo piccolo contributo, ma nient'altro. Tutto quello che farai di più verrà dal demonio, significherà che sei scivolato nell'odio, che ti sei lasciato dominare dallo spirito di rivalsa. Guai a te se ti cattura il fascino del Male.

Diventerai un mostro senza rendertene conto. E adesso, torniamo in ufficio, il lavoro fa parte della terapia. Anche questo è metodo americano, si sgombra il tavolo, ci si sputa sulle mani e si riparte. In altre parole, si cura il male con l'oblio, che è il male assoluto. Ero deluso. Ma non molto. E' bene che le cose vadano anche in questo modo.

Dal signor Candela mi aspettavo che mi illuminasse, mi ha illuminato. Ma è abbastanza, la luce? Poi, nel pomeriggio, mi ha telefonato per dirmi che potevo contare su di lui per qualunque cosa e ha riagganciato come fa un vero capo quando ha finito di parlare. Avrei voluto ringraziarlo ma non me ne ha dato il tempo e devo dire che quanto a effusioni sono piuttosto favorevole al metodo buddista: meno si dice, meglio ci si intende. Dopo il lavoro sono passato in libreria. Dovevo ritirare un libro. L'ultimo. La disoccupazione non dà da mangiare, nemmeno con un'equa indennità e un po' di azioni da parte. Il libraio, con cui ho delle affinità segrete, me lo porse con un pizzico di malizia nello sguardo: - E' il libro dal quale doveva cominciare le sue ricerche, - mi ha detto. Era vero. Non ci avevo pensato. Incalzato com'ero dall'orrore, ho cominciato dalla fine, il processo di Norimberga, e una cosa tira l'altra, sono risalito alle origini: la caccia ai criminali di guerra, la scoperta dei campi, lo sbarco, la guerra, la crisi politica, ecc.

Fino all'inizio. E l'inizio era proprio quel libro. Quando glielo avevo chiesto, quindici giorni prima, il libraio aveva scosso la testa e mi aveva detto: - Mmm! Difficile trovarlo, è proibito. Tenterò, altrimenti bisognerà cercare sulle bancarelle... le darò degli indirizzi -. Alla fine l'ha scovato, quel libro a causa del quale il più grande dramma del mondo si è abbattuto su di noi. Su di me. Mein Kampf.

 

Non so quante volte l'ho letto. Prima con rabbia e bulimia, poi con calma, una calma piena di crescente tensione. Volevo trovare la chiave, la magia grazie alla quale uomini sani di corpo e di mente come mio padre hanno accettato di spogliarsi della propria umanità e trasformarsi in macchine di morte. Non c'è niente: brodaglia, discorsi da piccole carogne sul piede di guerra, pretese da capetti che immaginano di essere dittatori eterni, slogan da manifesto elettorale di una repubblica negriera: «Uccidete un ebreo, Dio ve ne renderà merito», «Un ariano vale tutti i buoni a nulla del mondo», «Preservate il nostro sangue, attenti alla contaminazione», «Il vostro vicino è malato, deficiente?

Abbattetelo». Se il Male ha preso solo questa strada per aver ragione dei tedeschi e trasformarli in nazisti, complimenti! Mi aspettavo una dimostrazione inconfutabile, un'alchimia di parole di enorme complessità, rivelazioni folgoranti sul complotto mondiale contro il popolo tedesco, grandiose reazioni a catena da un capitolo all'altro, circostanze fuori dal comune abilmente articolate, immaginavo che Satana in persona avesse scritto certi passi e fornito l'inchiostro per il resto, i dettagli, l'aneddotica. Niente affatto. Sono bastati un caporale imberbe e magniloquente, uno scribacchino sifilitico incline alla depressione, un cumulo di formule ben costruite con un titolo virile, La mia lotta, e un contesto socio-economico che favoriva il piagnisteo, la vendetta, l'accusa, l'esasperazione. C'è anche il resto, certo, in primo o in secondo piano, la storia del paese, agganci con remote sette che sono sopravvissute nei secoli, leggende antidiluviane piene di un esoterismo fumoso, curiose risonanze e dissonanze con questa o quella cosa, teorie dimenticate, mitologie recuperate, nuove filosofie nate nel fuoco dell'azione, sogni febbrili usciti dritti dritti dal vicino manicomio o dal bar all'angolo, e la fame di potenza che il progresso tecnico e le rivoluzioni scientifiche possono suscitare in una società minata dal malessere. Ma significa cercare troppo lontano. Quale paese non ha dei vecchi demoni nei suoi vecchi sotterranei, quale paese non ha i suoi mercanti d'armi e di sogni d'eternità, quale popolo non ha nelle ossa due o tre geni ammaccati dalla storia, quale popolo non è esposto ai movimenti caotici della vita, e quale chiesa non è stata folgorata da lumi scientifici inattesi? L'umanità è una sola, non ce ne sono trentasei, e il male è in lei, nel suo midollo.

 

Sprofondavo, me ne rendevo perfettamente conto. E oltretutto mi dibattevo nelle contraddizioni mentre ci si deve aggrappare alla cosa più semplice. Ciò che accade non ha un motivo. Cercare un'origine del male è un'assurdità, il male esiste, da prima della creazione.

Immaginare dei processi meccanici e delle spiegazioni automatiche non serve a niente, e a mettere tutto sulla bilancia si finisce per sfondarla, per falsarla. Mi attengo a questo: il male è un incidente perpetuo che manda a sbattere contro un muro chi è bravo a guidare come chi non lo è. Il bene vige soltanto ai funerali, sono gli unici momenti della vita in cui vediamo con i nostri occhi ciò che siamo: polvere che la prima corrente d'aria spazzerà via. Perché, e ne sono convinto, proprio di questo si tratta: vedere la propria vita in quella degli altri. Non c'è niente di più dissuasivo, di più benefico. Se loro muoiono, noi moriamo, è tutto qui. Ma il bene non esiste, il male regna sovrano. Quello che è successo a mio padre è successo ad altri, in Germania, altrove, ieri, l'altro ieri, e succederà ancora e ancora, domani e dopodomani. Finché la terra girerà intorno al sole, finché la vita, questa pazzia tranquilla, e l'uomo, il suo antidoto, questa pazzia furiosa, si frequenteranno, ci saranno crimini, criminali e vittime. E lutti a non finire. E complici. E spettatori. E despoti che se ne lavano le mani delle nostre sofferenze. Non importa, questo crimine non è come gli altri, ed è questa estraneità assoluta che ho di fronte. Solo. Solo come nessun altro al mondo.

 

Rileggendo quello che ho appena scritto, mi rendo conto che ho eluso l'essenziale, che ho avviluppato il problema in un gergo filosofico da strapazzo. Bisogna guardare le cose in faccia. Sono come sono, niente e nessuno, nemmeno Dio, può tornarci sopra e cambiare la situazione: mio padre ha agito da sé, in tutta consapevolezza, e la prova è che altri si sono rifiutati di farlo, hanno accettato di pagare con la vita o sono emigrati per tempo. Un'altra prova, chiara come il sole, è che ha conservato il suo archivio come una reliquia, ha conservato quel libretto militare come un atto di nascita, le sue medaglie come dei sacramenti e quel maledetto Totenkopf come una consacrazione. Quando uno non può nulla contro la macchina totalitaria e le sue infamie, quando è in trappola e non c'è più speranza, resta sempre un'estrema risorsa per salvarsi: il suicidio. E' l'ultimo bastione della nostra umanità, il nostro jolly, invisibile, invincibile. E' quello che fa il lupo, un animale straordinario: quando una zampa resta imprigionata nella trappola, la rosicchia, la stacca e recupera la libertà, completa, integra, inebriante, o si dibatte fino all'ultima goccia di sangue e muore di sfinimento e di straordinario sollievo. Una volta compiuto il crimine, papà aveva ancora questa possibilità, costituirsi ed esigere giustizia in nome delle sue vittime, per ritrovare se stesso, per ritrovare la sua dignità. E' fuggito, si è nascosto, ha dissimulato, in fin dei conti ha rinnegato se stesso, e così ha lasciato impunito il crimine, lo ha protetto con il suo silenzio. Lo ha sancito. Avrei voluto che seguisse i suoi capi, i Bonzen del Terzo Reich, gli Heß, i Ribbentrop e compagnia bella, davanti al tribunale degli uomini. Il giudizio solenne restituisce all'orrore tutta la sua ignominia e rida al colpevole un po' della sua umanità perduta. Il silenzio è la perpetuazione del crimine, lo relativizza, gli sbarra la porta del giudizio e della verità e gli spalanca quella dell'oblio, della recidiva. Questa domanda mi fa impazzire: papà sapeva quello che faceva a Dachau, a Buchenwald, a Majdanek, ad Auschwitz? Non posso più credere che sia stato una vittima, un giovane innocente e fragile che il Male ha catturato a sua insaputa, o contro la sua volontà. Anche se così fosse, c'è sempre un momento, una frazione di secondo, c'è sempre una circostanza, per quanto insignificante, l'accostamento improvviso e fugace di immagini intollerabili che fanno scattare la rivelazione, il dubbio, la rivolta. In quel momento qualcosa grida in noi, non può essere altrimenti, oppure non esiste nulla, né Dio né uomo né verità.

Come non reagire, anche solo con un impercettibile senso di sgomento, di fronte allo sguardo allucinato di un bambino gracile che trema di freddo nella solitudine di un campo della morte, di fronte a una donna nuda che si copre il pube mentre la portano al forno crematorio, una donna senza capelli e senza nome, senza più forza di ricordare, vuoti gli occhi e freddo il grembo, come una rana d'inverno, di fronte a un uomo che si aggrappa a una dignità ormai distrutta da tempo mentre gli strappano gli ultimi brandelli di umanità, un uomo che muore per un sì o per un no. Mi dico questo: se un solo crimine resta impunito sulla terra e il silenzio ha la meglio sulla collera, allora gli uomini non meritano di vivere. In un mondo diverso, mi sarei costituito. Avrei indossato l'abito scuro, mi sarei presentato davanti al giudice e gli avrei detto: «Mio padre ha torturato e ucciso migliaia di poveracci che non gli avevano fatto nulla e se l'è cavata. Oggi so che cosa ha fatto ma lui è morto, perciò vengo a costituirmi al posto suo. Mi giudichi, mi salvi, per favore». In questo mondo, non li farò nemmeno ridere, mi daranno un'ammenda per oltraggio alla corte, mi cacceranno via, mi faranno una paternale. Mio Dio, forse mi strizzeranno l'occhio! Non posso far altro che gestire questa faccenda da solo. Ma io non so, tutto è improvviso, tutto è segreto, tutto è immondo, tutto si confonde nelle scappatoie e nei rinvii che hanno fatto seguito alla fine del mondo, si crede di nuovo che la menzogna sia una buona salvaguardia sociale per i popoli, un dono efficace per i figli ribelli, uno stile di vita tranquillizzante per chi si preoccupa. Mi dico delle sciocchezze, sono invischiato, trascinato nella fantasmagoria, non vedo un'ancora a cui aggrapparmi. Sono solo.

Solo come nessun altro al mondo; quel mondo che mi sembra così lontano, così pieno di false preoccupazioni, ripiegato su se stesso, sulle sue velleità, sui suoi piccoli godimenti, sulle sue follie, delle quali si nutre come un cannibale si nutre di se stesso, probabilmente obnubilato dal suo tempo, dal suo dramma, dai suoi sogni, dalla sua impotenza, Io reagisco, certo, non sono di quelli che si crogiolano nella sofferenza e odio le fissazioni. Mi dico che tutto questo è storia, e che la storia appartiene al passato, e che il passato è morto con chi l'ha vissuto, abbiamo dimenticato, non sappiamo più, abbiamo relativizzato, oggi abbiamo i nostri problemi ed è già fin troppo, è spaventoso, non si vedono soluzioni, mentre domani la nostra unica scelta nella vita arriva a tutta velocità con le sue crudeltà e le sue disperazioni. A me è piombato in testa un mondo intero, tutto il Male dalle origini a oggi mi guarda negli occhi, mi fruga nel cuore, nelle viscere, fa appello al mio ricordo, mi prega di ricordarlo, mi parla continuamente di ciò che fu, di ciò che fummo. Questa immagine mi tortura, la nebbia mi soffoca, il cranio mi fa male... ronza... c'è come un clamore... vedo un campo lugubre... una processione di ombre... uomini, donne, bambini, un'infinita moltitudine, nudi, scheletriti, che avanzano ordinatamente sotto lo sguardo gelido di un ss verso un immenso braciere, che... aiuto!... sprofondo nella fantasmagoria... Chiedo aiuto... cerco mio padre... Dove sei, papà, cosa fai? Voglio trovarlo, svegliarlo... svegliarmi... salvare mio padre... mio padre che si è perduto, che ci ha perduti... La mia casa è crollata e il dolore mi opprime e non so perché, mio padre non mi ha detto niente... Ah! Eccolo, impeccabile nella sua uniforme nera, ravvivata da un ben noto bracciale rosso... Mi sorride... con quel bel sorriso paterno, affettuoso e severo... Non so come sia successo, sono con lui, come a casa, a Ain Deb, abitiamo in un grazioso villino ai margini del... il campo... davanti c'è un bel boschetto, fiori e colori vivaci, e dietro la collinetta laggiù si trova... quel luogo tutto nero, tutto grigio, dove non ho il diritto di andare... Gioco con altri bambini, figli di ufficiali e alcuni che vengono da quel luogo per completare i nostri giochi, tenerci compagnia, servire da diversivo, da sfogo dei nostri scatti d'ira, dei nostri capricci... ma ci annoiano, sono magri, ammalati, pidocchiosi, scrofolosi, non hanno capelli, non hanno denti, non sanno giocare, sono silenziosi, stupidi, non li capiamo, pensano solo a mangiare, a scaldarsi, a dormire... li insultiamo, li picchiamo, ma non capiscono, si appallottolano come ricci... Intorno, nel nostro piccolo villaggio fiorito si aggirano degli stracci d'uomo che non hanno nulla di umano, con gli occhi infossati, fanno finta di sarchiare la terra, di rastrellare la ghiaia, di verniciare le recinzioni. Sono i nostri prigionieri, selvaggi che hanno danneggiato la nostra nazione, irritato il nostro Führer, portano dei brutti pigiami a righe, sono brutti, puzzolenti, perfidi, ossequiosi, ingrati, rubano tutto quello che trovano in giro, non gli sfugge niente, cicche di sigaretta, pezzi di carta, vecchie croste, strabuzzano gli occhi davanti a un chiodo arrugginito, vedono un osso e si avventano come cani, frugano nelle pattumiere, ci osservano con invidia... Di tanto in tanto smettono improvvisamente di far finta di lavorare, alzano la testa e guardano lontano, al di là del campo, dietro la collinetta... laggiù... un'immensa colonna di fumo denso e nauseabondo che sale al cielo... Ah, quel grido!... corvi, cornacchie che si levano in volo tutti insieme, il loro sinistro gracchiare riempie l'aria... Andatevene!... Anche voi, giudei... i prigionieri osservano il cielo... Sempre, cattura la loro attenzione quel rombo improvviso che a volte ci sveglia in piena notte, all'alba, nel freddo, un tuono preceduto da indistinti rumori metallici, che schioccano nel vento, chiavistelli che vengono tirati, pesanti porte stagne che vengono chiuse, sibili ritmici di macchine di pompaggio che provocano abbassamenti di tensione e fanno vacillare la luce delle lampade... forse grida... un fantomatico clamore che sale, sale, poi a poco a poco si spegne in un silenzio lancinante... mio Dio, quel silenzio, com'è strano, come fa male... gente che... altre teste rasate che sbucano ai piedi della collinetta... un'altra colonna che avanza pesantemente... viene dalla notte, attraversa il grigiore del giorno e scompare nella notte... è lontano... il vento soffia nell'altra direzione... I tizi si perdono nella contemplazione, allora i nostri kapò accorrono a scuotergli di dosso le pulci a furia di bastonate e grida gutturali... «Arbeiten!... Arbeiten!... Schnelll... Schnell!» Si ride da rotolarsi per terra: ah ah ah!... ah ah ah!... E' strano, per quanto spellati vivi, non provano niente, non dicono niente, non si muovono, certi ridacchiano con tutti i loro denti guasti guardando il cielo, avrebbero quasi voglia di cantare... sono affascinati. Poi, quando lo decidono loro, si rattrappiscono miseramente, riprendono gli attrezzi e fanno finta di sarchiare la terra, di pareggiare il tappeto di ghiaia, di verniciare le recinzioni, di controllare che tutto sia pulito. Automi esasperanti, si direbbe che lo abbiano fatto per tutta la vita, con gli stessi gesti, che siano nati così. A volte ne restano a terra due o tre, i compagni non li vedono o, come al solito, fanno finta di non vederli. I kapò gridano ordini, li portano via sulle carriole, laggiù, attraverso il campo, oltre la collinetta... Alcuni ufficiali sghignazzano o si arrabbiano, il frustino sibila, schiocca sugli stivali... i kapò si torcono dal ridere e fanno degli inchini... sono detenuti privilegiati, si sono un po' rimpannucciati a spese dei loro fratelli di sventura... parlano una lingua che non capisco o capisco a malapena: «Gut, gut, Juden kaput, finito, Konetz, danke, dekuye, grazie mille, dobryden!» Papà mi chiama per la merenda... io... io... il vento è girato, puzza, appiccica... Si rientra in casa, si chiude la finestra.

 

Ho voglia di urlare, ho voglia di strapparmi la pelle. Non so, non so cosa fare, sono oppresso dal silenzio, quel silenzio così spaventoso, non distinguo niente, il sogno, l'incubo e la realtà sono inestricabilmente mescolati. Niente scappatoie. Mi sono svegliato in un bagno di sudore. Era... non so, notte, giorno. Ho chiamato Ophélie. Ho chiamato di nuovo: - Ophélie... Ophélie! - Ho sentito un rumore in cucina, un lieve ronzio... un sibilo di gas che si espande... è il frigo. - Ophélie... Ophélie! - Non c'era. Non è tornata a casa. Se n'è andata. Il silenzio ha un che di soprannaturale... lo sento, sa di bruciato, si appiccica alla pelle. Dal divano è caduto qualcosa. Mio Dio, quel rumore! Un libro... Mein Kampf. Sono andato nel garage e l'ho bruciato.

 

DIARIO DI RACHEL Aprile 1995.

 

Ho ritrovato Jean 92. E' stato semplice come bere un bicchier d'acqua.

Mi sono presentato all'indirizzo riportato sulle lettere che papà ha ricevuto da lui. L'uomo abita in una casetta fatiscente in fondo a una stradina un po' tetra in un angolo miserabile di un villaggio minato dall'abbandono, nei dintorni di Strasburgo. Passando da quel capolavoro urbanistico che è Strasburgo a quel villaggio ignorato dalle carte geografiche di cui tacerò il nome per misericordia, confesso che mi sembrava di arrivare in capo al mondo e di rimpiangerlo amaramente. In Francia ci sono ancora dei posti sperduti, ci si chiede dove siano andati a cacciarsi. Quello, la Renault 4L che avevo noleggiato non lo conosceva, eppure viene da Strasburgo e deve aver girato un bel po' per le campagne intorno. All'ingresso del villaggio un contadino burbero ha indicato l'altra estremità come tutta risposta alla mia domanda: «Per favore, saprebbe dirmi dove posso trovare Ernest Brucke?» Inutile ringraziarlo, ha perso la lingua, non sarebbe nemmeno capace di rispondermi: «Non c'è di che». Il tempo di spaventare tre vecchiacce aggrappate alla loro scopa e far abbaiare una muta di cagnetti e sono arrivato a destinazione. Era l'ultima casa del villaggio. Oltre non c'è niente, solo una muraglia di vegetazione selvatica. Mi aspettavo un vecchio e mi domandavo angosciato se gli fosse rimasto abbastanza comprendonio per capire le mie domande. Avevo davanti un uomo di mezza età, vestito malamente, con un bel pancione e in faccia tutta la collezione di venuzze e fistole a cui può aspirare un alcolizzato cronico. Aveva la patta aperta come la bocca, segno che se ne fregava di tutto. Stava seduto in un giardinetto ingombro di ciarpame ammuffito, in realtà un terreno abbandonato grande come un fazzoletto da taschino, davanti a uno zoppicante tavolo di metallo su cui troneggiava una bottiglia di acquavite; c'era un bicchiere incrinato ma privo di un'esistenza autonoma, saldato com'era al tavolo, e pieno di un liquido appiccicoso in cui maceravano foglie, aghi di pino e mosche morte; e qualcosa che sembrava un portacenere sepolto sotto un mucchietto di cenere, mozziconi, insetti carbonizzati. L'uomo guardava davanti a sé e non diceva niente. Non mi aveva visto da lontano. Ho provato una grande compassione. L'uomo era un rottame che stava ormai per cadere in pezzi.

Ho immaginato la scena e mi sono subito persuaso che si sarebbe avverata presto: quell'uomo morirà così, avviluppato nel suo muschio, incollato alla sedia, con la bottiglia a portata di mano, senza pensare a niente, senza dire niente, senza vedere niente di ciò che gli sta intorno. Non riuscivo a concepire che papà, l'incarnazione del rigore, un rigore tutto germanico, avesse fatto comunella con un simile personaggio. Be', è passato del tempo e probabilmente lui ha avuto il suo momento di gloria. Un rapido calcolo mentale mi portò a concludere che papà e quell'uomo non si conoscevano, non era possibile. Questione di età e di circostanze, papà non ha mai messo piede fuori dall'Algeria dopo il 1962 e a quella data l'uomo doveva giocare agli indiani con le bambinette del posto o a nascondino nei boschi con le sue pecore, prima di passare alle bevute con gli amici. In quel momento era sulla cinquantina, palesemente una cinquantina portata male, ma ben lontano dai settantasei anni che aveva mio padre quando è morto. Non intendevo nemmeno considerare l'ipotesi che quell'uomo fosse andato in Algeria a trovare mio padre.

Laggiù non si scherza, c'è una frontiera, ci sono guardie terrificanti e leggi straordinarie, le visite sono proibite e non c'è ragione che tenga. Esistono dei posti così, non si può né entrare né uscire né sapere perché. Quell'uomo di mezza età aveva forse trovato nell'alcolismo il modo di ringiovanire o di invecchiare precocemente, o di farsi passare per un altro. Mi sfuggiva qualcosa. Finalmente l'uomo mi vide. Aveva lo sguardo torvo e il labbro spugnoso, stile vecchiaccio libidinoso, che mi ha messo a disagio. Mi sono sentito come un bambino preso in trappola. Ho fatto un respiro profondo e ho assunto l'aria del tizio che sa come far paura alle bambine con le trecce. Non me lo sarei fatto sfuggire come il povero pensionato di Uelzen, bombardandolo di domande più imbarazzanti che intelligenti. - Se lei è Ernest Brucke, alias Jean 92, vorrei stringerle la mano a nome di mio padre, Hans Schiller, e ringraziarla. L'uomo si è smarrito in una vaga riflessione, poi, stremato dallo sforzo, mi ha teso faticosamente un braccio al di sopra della bottiglia e con voce rauca mi ha detto: - Schiller?... Chi è?... Sei suo figlio? - Può dirlo forte, sì! Sul letto di morte mio padre mi ha chiesto di andare a salutare i suoi amici, quelli che lo hanno aiutato nella difficoltà, quelli... - Ferma il treno, ragazzo, non sono Jean 92... - Ma allora lei chi è, caro signore? - Il figlio, Adolphe... il vecchio ha tirato le cuoia da un bel pezzo. -Ah! - Che volevi dal genitore... a parte congratularti? - Rievocare dei ricordi...

-Ah si!... e perché? - Ehm... cerco delle testimonianze, dei documenti... scrivo un libro su mio padre e sulla sua lotta per la salvezza dell'umanità, l'hitlerismo non è morto, che io sappia. - Sì, hai proprio la faccia di uno che scrive dei libri. - Se vuole, raccoglierò la sua testimonianza, scriverò un capitolo su di lei e su suo padre. Tombola! L'ubriacone si vedeva già nelle vetrine delle librerie. Si è raddrizzato, si è schiarito la voce e mi ha guardato con aria amichevole. Non ci avevo pensato, uno tende a dimenticarsene, esiste ancora quella malattia, la vanità, e la buona vecchia carota con cui si fanno correre le lepri verso la casseruola. Non lo avrei più mollato, lo straordinario Jean 92 bis. - Sai, caro Adolphe, ho già un editore e paga bene... avrai la tua parte. - Quanto? - Dipende dalle vendite, può essere parecchio. Ecco un centone di anticipo. Sistemata questa cosa, ci siamo messi comodi e abbiamo chiacchierato come soci in un affare succulento. Per non ricavarne nulla, in fin dei conti. Ed è stato laborioso, l'ubriacone non la smetteva di spingere da parte il papà per mettersi in primo piano. Voleva tutto il capitolo per sé. Mi ha raccontato la sua infanzia, la sua giovinezza, la nonna Gertrude che parlava solo tedesco, il servizio militare in quel cazzo di esercito francese, le guerricciole in Africa dove ha fatto fuori dei negri come indennizzo per aver servito la Francia, quella puttanella di Greta che gli ha rovinato la vita, il cugino Gaspard, o Hector, che lo ha truffato alla grande, la zia Ursula che vive in Brasile con un trafficante di smeraldi o di diamanti, un certo Felix, la casa che va in rovina, il paese che è minacciato dalla ristrutturazione, il sindaco che gli rompe le palle, ecc. E mi ha detto tutto del lavoro che ha fatto per quel nazista di suo padre, prima un po' di segretariato, la sorveglianza dei vicini, l'andirivieni tra la posta e la cassetta delle lettere, le piccole prestazioni da chierichetto in misteriose cerimonie e poi, crescendo l'età e calando il buonsenso, le riunioni a non finire, i conciliaboli fra poveracci, le urlate contro i traditori e i revisionisti, i pestaggi dei teppistelli in città, gli scontri con la polizia, le bevute invernali fra veterani afflitti dalla baraonda dei tempi moderni. Insomma, proprio una vita squallida. E mi ha mostrato il loro archivio. Ero stupito che riuscisse ad alzarsi e camminare. Un intero armadio su cui mi sono gettato come un invasato. Un'ora dopo ero coperto di polvere e puzzavo di carogna. E mi vergognavo di essere una creatura umana. Ho frugato in un guazzabuglio come se ne trovano nei solai degli ex torturatori quando finalmente rendono l'anima al diavolo.

Roba che sa di vecchio, di emarginato, di umido, di pazzia furiosa, di inutile, di schifoso. Morto o vivo, un torturatore è un torturatore.

Quel povero Jean 92 avrebbe dovuto mori re prima di nascere, e comunque nel momento in cui si trasformò in lupo mannaro del Terzo Reich.

Manifesti unti, libri rappezzati, un messale nella sua custodia di stoffa, cataloghi per cacciatori con i bordi sbrindellati, gagliardetti scoloriti, lettere desolanti, foto ancora più desolanti, quaderni rigurgitanti di fiele, volantini nauseabondi. Mi ha offerto il tutto per duecento franchi. Era pagare cara l'immondizia, ma ero venuto per conoscere l'origine del Male. C'erano anche una grossa pistola e qualche pallottola ossidata. - Una Luger, l'arma migliore del mondo! - ha precisato impugnandola fieramente. Ho confermato: - L'hai detto, caro amico, il mio vecchio si fidava solo di questa -. Tra tutti e due, il mio Adolphe con la sua Luger puntata a braccio teso e io con i miei volantini e i miei gagliardetti, sembrava davvero che volessimo ripulire il mondo. Se dei giovani esaltati ci avessero visti, si sarebbero immediatamente uniti a noi. Indagare sulle guerre del passato è una faticaccia, non porta molto lontano. Vicoli ciechi, strade che si perdono nel buio, cloache che suppurano nella nebbia, polvere che si alza come una cortina di fumo man mano che uno annaspa nel vuoto. Mi rendo conto della difficoltà di chi ha dovuto indagare sui crimini di guerra sepolti nel silenzio, nell'oblio e nella connivenza. E' una missione impossibile, la verità si è smarrita fra le erbacce, avviluppata in una massa di storie principali e secondarie mille volte sotterrate, mille volte rimestate, altrettante volte manomesse. E ci sono i silenzi, le amnesie, le bugie, le lezioni imparate a memoria, le arringhe degli avvocati del diavolo, i discorsi sui discorsi, le carte rosicchiate dalle tarme. E al di sopra di tutto, a spazzar via le velleità, soffia quel vento di vergogna che fa chiudere gli occhi e chinare la testa. Le vittime muoiono sempre due volte. E sempre i carnefici vivono più a lungo di loro. - Papà ha dimenticato di spiegarmi cosa significa 92, cos'è? - E' il codice dell'organizzazione che capeggiava il vecchio, l'Unità 92, i suoi membri avevano degli pseudonimi, Jean 92, François 92, Gustave 92. C'era da stare in campana, i gaullisti ci tallonavano, i giudei, i... - 92, che vuol dire? - E'...

Hitler ha preso il potere nel '33, Pétain ha firmato la collaborazione nel '40 e a quella data mio padre, che aveva diciannove anni, si è arruolato nella Gestapo... il totale fa 92. Era furbo, il vecchio! E' questa l'unità, la fedeltà al Terzo Reich. - Meine Ehre heisst Treue. Sì, proprio così, lo sai anche tu! Quando ho preso in mano la cosa alla morte del vecchio, nel '69, l'ho battezzata Unità 134... io sono nato nel '42, capisci?... 92 più 42 fa 134, l'Unità 134, chiaro? Be', ma il lavoro era finito, gli amici erano tutti al riparo, se la spassano a Santiago del Cile, a Rio o a Bangkok là in Cina... sai? - Sì, lo so, è vicino alla Thailandia. Quindi è la nostra Unità 92 che... con mio padre? - Certo. Al momento della disfatta, quando non c'erano pili speranze, mio padre e altri hanno creato l'Unità per far uscire i commilitoni dalla Germania e mandarli in paesi amici. In seguito si è affiliato all'organizzazione Odessa, la conosci? - Figurati! Odessa, l'organizzazione francescana, i covi del Vaticano, gli amichetti della Croce rossa, la via etiope, la via turco-araba, e il resto. - Noi, i 92, ci occupavamo in particolare delle ss dei campi. E' l'elite, capisci, gente da preservare per il futuro. Bisogna dirlo nel libro, il vecchio ha fatto un bel lavoro, ha salvato decine di eroi dalle loro grinfie.

Trovi i nomi nel taccuino nero. Deve esserci anche tuo padre... come hai detto che si chiama? - Schiller. Le grinfie di chi? -I popov, gli yankee, quelle baldracche di English, i gaullisti dei miei coglioni, e quella teppaglia dei giudei.Ti rendi conto, ce n'erano ancora! Il vecchio ne ha passate di cotte e di crude con il loro Naqam, con il loro Congresso ebraico che ha approfittato dello sconquasso per impadronirsi della Palestina e della Francia, con il loro Mossad e quel brutto bastardo di Wiesenthal che ha fatto i soldi... per non parlare dei vicini che hanno cambiato casacca come un sol uomo, compresi certi 92.

Non si sapeva più dove sbattere la testa, bisognava scoprire cosa stavano tramando, continuamente, avvertire i compagni, trovare degli intermediari, proteggere le vie di fuga, procurarsi dei soldi, falsificare i documenti... Come puoi immaginare, ho dato una mano, ho sgobbato come un pazzo... mi manca tutto questo, lavoravamo per l'onore... Oggi... Lo ascoltavo senza ascoltarlo. Su quella faccenda ne sapevo cento volte più di lui. Ma a vederlo, a sentirne l'odore, a sguazzare nella sua melma, ero in pieno nel clima del dopoguerra, al centro di quel cataclisma senza paragoni, distese di macerie a perdita d'occhio, moltitudini stravolte, morti viventi inebetiti, Himalaya di cadaveri che si affrontavano con i bulldozer, pazzi che vagavano per i campi devastati, scene deliranti, i venti che trasportavano la putrefazione, i menefreghisti che già mercanteggiavano, intrallazzavano, giuravano solennemente, preparavano il futuro, e su tutta quella babele, a farti star male, a farti impazzire, un silenzio ossessivo, e quella nebbia che oggi mi soffoca. - E adesso... a che punto siamo, zio Adolphe? - Pff!... E' finita, ragazzo, gli ebrei hanno vinto. - Hitler tornerà... o un altro più... altrettanto in gamba. - Boh, se ti va di sognare. - Forse sarà francese come noi. - Mi fai ridere, hai mai visto un francese con le palle? - Pétain ne aveva un bel paio, no? - Sì ma non aveva il genio di Hitler. Quel tipo d'uomo può nascere solo in Germania.

- Comunque ci sono stati Stalin, Pol Pot, Ceausescu, Mao, Kim LI Sung, Amin Dada... ehm... e l'altro baffuto, com'è che si chiama... quello che ha gassato i... - Feccia, tutti comunisti, negri, musi gialli, non contano. - Un americano andrebbe bene, sono riusciti a sterminare i pellerossa, un po' meno i neri, te lo concedo, e poi hanno sganciato due bombe atomiche sui gialli. - Dai i numeri: sono ebrei, gli yankee, bisogna sterminarli. - Forse gli arabi... Che ne pensi? hanno il dono della retorica... - La cosa? - Una parlantina eccezionale, le idee chiare. - Giudei come gli altri, puoi farne carbone, tutto qui, e nemmeno del migliore. -To', a pensarci bene, il problema dell'energia con cui ci rompono le palle è risolto per sempre. C'è qualcosa a buon mercato, rinnovabile a gogò. - Ah ah ah! Sei proprio il figlio di tuo padre! Ah ah ah! Ah ah ah! In altre circostanze mi sarei pazzamente divertito a esplorare il suo cervello. Avrei scoperto delle grotte e dei precipizi che quel povero diavolo ignora, il cretinismo non si limita a ciò che è visibile, c'è la parte sommersa. Avevo voglia di... di... niente. Non si uccidono i pazzi, non si giustiziano gli incurabili, si prega per loro. Ma comunque mi ha fatto male. Dall'alto della sua pazzia mi ha assassinato con una frase: «Sei proprio il figlio di tuo padre».

E' stata una specie di scarica elettrica al cuore, lo lo vedevo come il figlio di suo padre, quel Jean 92, il sanbernardo dei fuggitivi, il salvatore degli assassini, lui mi ha ricordato sghignazzando che anch'io ero figlio di mio padre, Hans Schiller l'ss, l'angelo della morte.

 

Sul treno che mi riportava a Parigi ci pensavo continuamente. Sono il figlio di mio padre... sono il figlio di mio padre... Me lo ripetevo sul ritmo monotono delle ruote fino a stordirmi, fino ad annientarmi, fino ad addormentarmi. Credo di averlo detto ad alta voce, forse di averlo persino gridato. Ero tra due incubi, due spasmi, due voglie: morire su quel sedile oppure dopo, una volta inghiottita la feccia. Mi dibattevo nel buio. Comunque, ho udito distintamente qualcuno, nello scompartimento, mormorare al vicino: - Dirlo significa dubitarne -. E l'altro ribattere: - Ma suo padre lo sa? Questo è il problema! - E allora tutta quella brava gente in viaggio di piacere si è messa a ridacchiare, a ghignare, chi nascondendosi dietro la mano, chi dietro al giornale, chi silenziosamente. Ho riso anch'io, era una bella battuta, fra gente cordiale, ma al momento buono, mentre il riso si spegneva nella sua sciocca vacuità, mi sono alzato e, come un profeta indignato, ho bisbigliato, senza rivolgermi a nessuno in particolare: - Chi sa dov'è suo padre alzi la mano! - Nella carrozza è calato il gelo. E questo mi ha rinvigorito. Ho pensato non so perché, a quella barzelletta ebraica: Il povero Moshe, a letto, geme come un diavolo nell'acquasantiera, è mezzanotte passata e il giorno dopo, a mezzogiorno in punto, deve pagare un debito all'amico Jacob, che abita al piano di sopra. Quel mese gli affari sono andati male, Moshe non ha un soldo, già si vede disonorato, scacciato dalla comunità dei commercianti, segnato a dito dal rabbino. Si tormenta tanto, e così rumorosamente, che sua moglie si sveglia e gli fa il terzo grado. Non ha l'abitudine di rivelare i suoi segreti, e per di più a una donna, ma sfinito da tanto lamentarsi, cede e le spiega. «Tutto qui?» dice lei. Poi si alza, spalanca la finestra e grida con tutto il fiato che ha in gola: «Jacob, Jacooob, Moshe non può pagarti, non ha un soldo!» Poi si rimette sotto le coperte e dice al marito esterrefatto: «Adesso dormi, tocca a lui preoccuparsi!»

Il resto del viaggio fu quanto mai tranquillo. Ho aperto il giornale e ho letto le notizie dal mondo: ovunque la guerra avanzava a passi da gigante.

 

DIARIO DI MALRICH.

 

31 ottobre 1996.

 

Rachel, non sempre lo capisco. Mi fa venire i nervi. Parla di nostro padre come di un assassino, insiste, lo accusa, roba da pazzi. Papà era un ss, d'accordo, si è fatto i campi di sterminio, d'accordo, ma niente ci dice che abbia ammazzato qualcuno. Stava di guardia ai prigionieri, tutto qui. Anzi, non era nemmeno compito suo, per quello c'erano i kapò, criminali tedeschi e anche prigionieri passati al nemico, è proprio Rachel a dirlo, sono dei cani, erano loro a sorvegliare i deportati, a picchiarli, a derubarli, a violentarli, a sfinirli di lavoro, a massacrarli a colpi di manganello, a trascinarli per i piedi e gettarli nel forno. Papà era un ingegnere chimico, non un boia. Lavorava in laboratorio, lontano dal campo, preparava delle misture, punto e basta.

Non sapeva come le avrebbero usate gli altri, non doveva saperlo, le camere a gas erano una faccenda dei Sonderkommandos, i commando del gas, gli Einsatzgruppen, non del laboratorio. La responsabilità di papà cessava alla piattaforma di carico, non andava oltre. I camion arrivavano, prelevavano i fusti, si firmavano le carte e gli autisti partivano per i loro giri, Dio sa dove, scortati dai motociclisti. Come ha fatto Rachel a immaginare, lui che si meravigliava tanto dell'organizzazione tedesca, che i grandi capi, i Bonzen, dessero a uno scienziato come papà il ruolo di volgare boia che rifornisce di carbone i forni, di gas le camere, che chiude le porte, aziona le manopole, sorveglia i quadranti? Lo sappiamo bene, Rachel e io, che siamo degli Halbdeutsche, quando i tedeschi fanno una cosa, fanno quella, non mescolano mai mele e pere. Papà era così, con lui non si scherzava, tranne quando era ora di scherzare. Rachel ha perso la bussola, ha dimenticato la nostra educazione di base. S'immaginava delle cose perché stava male, esagerava, si tormentava come faccio io quando penso a noi, ai nostri genitori sgozzati nel sonno dagli integralisti di Algeri, al nostro quartiere abbandonato a se stesso, ai suoi abitanti tiranneggiati dall'imam, circondati dai barbuti in gellaba e giaccone nero, umiliati dai kapò che gli girano intorno come pitbull, a zio Ali moribondo come un ex deportato, a zia Sakina che aspetta senza mai stupirsi di nulla, a quella povera Nadia carbonizzata dall'emiro. Penso a mio padre. Papà... ma cosa cazzo hai combinato? Sapevi qualcosa? I confini non sono stagni, nel campo si vive insieme, si mangia alla mensa, si parla di lavoro, ci si racconta le difficoltà della giornata, i successi. Ci sono le riunioni ufficiali, si ascoltano i discorsi del Führer, i comunicati del comando, di Himmler in persona, si parla di planning, di risultati, di inconvenienti tecnici, si segnano a dito i fannulloni, ci si congratula con i più efficienti, si prendono gli ordini della settimana. Ci sono gli altoparlanti, quelle maledette trombe appese sopra la testa che incalzano gli internati fino alla pazzia, e quella voce meccanica che sovrasta addirittura l'ululato del vento, che impone senza tregua di riunirsi, di sottomettersi, di abbandonarsi, che articolo dopo articolo, versetto dopo versetto, dettaglia il terrore e fa del crimine un semplice atto di polizia. E alla sera, dopo la cena e il brindisi regolamentare al Führer, ci si mette intorno alla stufa, ci si rilassa, si ascolta musica, si gioca a carte, si beve fantasticando, si pensa alla famiglia, alle battute di caccia e di pesca con gli amici, alle grandi battaglie in corso laggiù, ai confini del mondo. Ci si racconta il Lager, le sue storie, le sue barzellette, i suoi intrallazzi, i suoi pettegolezzi, le sue orrende malattie, le sue penose astuzie, si parla dei nuovi arrivati con il treno del mattino, accolti in pompa magna con solennità militare, ancora pieni di speranze, ancora muniti della loro dignità e del loro piccolo bagaglio, diffidenti sì, ma non più di tanto, credono ancora in Dio, nella ragione, nell'impossibilità dell'inverosimile. Riflettono ancora, va tutto bene, il tempo di allinearsi all'ingresso del campo e già gli è venuta in mente quell'idea vecchia come il mondo che essere remissivi li preserverà, li metterà in buona luce con i padroni; sembrano così forti, così potenti, quei Bonzen, che uno non può immaginarli privi di grandezza e nobiltà. E poi, ecco, l'ordine perfetto del campo e la vista delle moltitudini disciplinate che lo abitano li hanno definitivamente rassicurati, la morte non è così certa come pensavano i pessimisti durante il lungo e terribile viaggio nei carri bestiame, è solo un'ipotesi che si può gestire, con un po' di fortuna, di astuzia, e rinunciando al proprio orgoglio. Il peggio è passato, sono stati separati senza difficoltà, in gruppi omogenei, gli uomini, le donne e i neonati, i bambini, i vecchi, gli handicappati, le belle ragazze come Nadia. Non si ribelleranno quando, fra poco o domani all'alba, dopo la disinfestazione, porteranno le lebensunwerte Lebens, gli inutili, alla camera a gas, e i validi al loro destino, gli Arbeitkommandos e il loro corrispettivo, gli Strafarbeitkommandos, i bordelli per kapò, i non so cosa. Come nel quartiere, uno sa benissimo cosa succede, cosa fanno, pensano, nascondono tutti quanti. Ci si parla, ci si sorveglia, ci si dà consigli, ci si riunisce per le feste, i funerali, per sbrigare le pratiche in Comune, per organizzare i turni di pulizia delle scale, il giro di sorveglianza nei parcheggi. Si sa chi è integralista e cosa sta macchinando, e chi non lo è e di cosa ha paura. Si sa tutto. Ma nello stesso tempo non si sa niente, ci si passa semplicemente vicino, si crede di sapere, ognuno sta dentro la propria testa, non dentro quella degli altri, segue la propria idea, quelle degli altri non gli arrivano o gli arrivano deformate dal sentito dire. Nel quartiere, come nei campi, si parlano almeno quindici lingue e altret tanti dialetti, uno non può conoscerli tutti. Fa finta, si arrangia. E poi, cosa abbiamo da dire, a parte il tempo che fa e i soliti vecchi discorsi, gli stessi di ieri che si ripetono continuamente, che torneranno moltiplicati per trenta a fine mese? Gli abitanti del quartiere conoscono Parigi, la loro capitale, e i parigini conoscono la loro periferia, ma cosa sanno esattamente? Niente. Siamo ombre, voci, gli uni per gli altri. Fra loro, fra noi, c'è un muro: filo spinato, torrette, campi minati, pregiudizi radicati, realtà inconcepibili. Papà sapeva senza sapere, ecco la verità. Rachel è mio fratello, eppure di lui non sapevo niente, e il suo diario, qui, è come uno schermo che mi impedisce di vederlo. Mio povero Rachel, chi sei, chi è nostro padre? Chi sono io? Mi stringo la testa fino a urlare per la rabbia, piangere. Sono in trappola, tutto mi nausea, ho la nausea di me stesso. Divento matto anch'io. Non esco più dalla villetta, leggo e rileggo il diario di Rachel, i suoi libri, mi lascio abbrutire dalla tivù, giro a vuoto, non combino niente. E di notte vago per le strade, lontano, lontanissimo. Solo. Solo come nessun altro al mondo. Come Rachel. Mio povero Rachel.

 

Ho voluto sapere anch'io. Rachel ha commesso uno sbaglio, si è focalizzato sul suo dolore, il dolore l'ha distrutto. Come aveva previsto il suo capo, il signor Candela. Bisogna guardare le cose con l'idea di capire, come mi consigliava Com'Dad: «Prima di tutto bisogna capire». Pensava che Rachel fosse su questa strada, ma si sbagliava, Rachel cercava di capire per trovare il bandolo del suo dolore. O per alimentarlo. Il Male lo aveva ipnotizzato, lo aveva messo contro se stesso. Si è fatto talmente coinvolgere che si considerava colpevole al posto di papà. Si vedeva nel campo, figlio di ss tra altri, a distribuire le botte e la morte a poveri bambini che non gli avevano fatto niente. La trappola più pericolosa sarebbe, perciò, quella che uno tende a se stesso. E' arrivato a considerare la possibilità di presentarsi davanti al giudice in abito scuro e con fessare tutti i crimini del Terzo Reich. Credo che quel Primo Levi gli abbia dato il colpo di grazia con la sua poesia che comincia colpevolizzando i lettori: «Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo...» Era proprio il caso di Rachel, lui viveva tranquillo, serio ma senza pensieri, quando all'improvviso viene a sapere del massacro di Ain Deb, della morte dei nostri genitori e subito dopo che papà era un ss che aveva scorazzato per tutti i campi di sterminio del Terzo Reich. Invece io sono andato al nocciolo della questione, mi sono chiesto: Perché il passato di papà deve riguardare noi? Era la sua vita, noi abbiamo la nostra. Perché dobbiamo essere responsabili di quella guerra, di quella tragedia, l'Olocausto, come lo chiamano, la Shoah? Ophélie non aveva torto: Non li abbiamo ammazzati noi, quegli ebrei. E' la storia. Passa come un rullo compressore, non risparmia nessuno, è orribile, è deplorevole, ma che possiamo farci? Non risusciterai i tuoi genitori lamentandoti della tua sorte, diceva il signor Candela. Io non posso rifare la storia, piangendomi addosso non risusciterò nessuno, né i miei genitori, né Rachel, né quella povera Nadia, né quei milioni di gassati di cui non so niente. Devo reagire.

Agire. Ma come? Leggi, impegnati se vuoi, da' il tuo piccolo contributo, ma nient'altro, tutto quello che farai di più verrà dal diavolo, diceva il signor Candela che ne aveva viste tante, al punto da credere più al diavolo che a Dio. Penso anche a quello che diceva il signor Vincent quando ci grattavamo la testa davanti a un motore scassato: Smetti di pensare, ti si chiariranno le idee. E in realtà, bastava spingere la macchina per farla partire. Uno si crea un sacco di problemi e si stupisce di avere il mal di testa. Mi chiedo continuamente: dove sta mio padre, quello che conosco, l'unico che conosco, papà, il marito della mamma, lo sceicco di Ain Deb, l'uomo che tutti amavano e rispettavano, il vecchio e fedele amico di zio Ali? Quell'uomo, quel padre che ci è mancato per tanto tempo, è esistito per davvero e noi siamo i suoi figli, sani di corpo e di mente, oltretutto uno superintelligente, come Rachel, e uno non tanto sveglio, come me, ma abbastanza per distinguere il bene dal male. Quell'uomo fa tutt'uno con il capitano delle ss? Come si può condannare uno e onorare l'altro, odiare il boia di ieri, uno sconosciuto per me, e amare il padre, papà, la vittima di oggi, vittima di quelli che ora ce l'hanno con noi? Mio padre ha pagato per i suoi crimini? E noi, noi paghiamo perché siamo i suoi figli? Sarebbe dunque il destino, la Provvidenza, la Maledizione? «Scolpitele nel vostro cuore stando in casa andando per via, coricandovi alzandovi; ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi». E' quello che dice Primo Levi, i figli sono già condannati perché i genitori non gli rivelano mai i crimini che hanno commesso, ma come fa a non capirlo: se i genitori dicono tutto ai figli, non gli lasciano scampo. E' pazzo, questo Primo Levi. Mi rifiuto di credere che Dio è più cattivo degli uomini e che i figli sono condannati alla fatalità. Di tanto in tanto passano a trovarmi gli amici. Potrei dire che vengono per il piacere di disturbarmi. In realtà, si preoccupano per me, pensano che sto andando fuori di testa. Lo dicono chiaramente, ma dato che io me la prendo, fanno finta di sparare cazzate, parlano tutti insieme tirandosi per la manica, per il colletto, per il pisello, dandosi del matto fra loro. Più pazzi ci sono e più si ride, dicono sghignazzando. Ognuno ha gli amici che ha. Fingo di partecipare al casino per farla finita. Poi, quando tutto è sottosopra, sprofondiamo in poltrona e chiacchieriamo. Per ore.

Sempre uguale. Cominciano da me. Vogliono sapere perché non esco più, perché ho quella faccia da funerale, perché leggo dei libri e cosa ho da scrivere sul mio quaderno. Poi mi fanno delle domande sceme, cosa man gio, chi mi lava la roba, chi fa le pulizie in casa, chi porta fuori la spazzatura, chi paga la luce. Non rispondo, sono cose troppo complicate per loro, hanno delle mamme e delle sorelle che si occupano di loro senza che se ne accorgano. Non vedo come Barista, che in tutta la sua esistenza ha lavorato per tre giorni come cameriere in un bar, e soprattutto Momo, che vive a scrocco sulla carne baiai di suo padre, potrebbero capire cosa significa un estratto conto, lavarsi le mutande, farsi una frittata, tagliare il pane, passare lo straccio, tirare lo sciacquone. Non hanno mai saputo far altro che prendere l'esistenza come veniva. A vivere di rendita così, uno muore tranquillo. L'unica testa pensante è Idir che Dice, ma non riesce a esprimersi, la balbuzie lo blocca non appena apre bocca, e poi si incasina. Quanto a Togo al Latte, meglio non parlarne, dato che è nero come il carbone e coi capelli afro si crede furbo come una volpe. Solo a vederlo strabuzzare gli occhi davanti a un punto interrogativo uno capisce che non sa cosa siano, le volpi: ce ne sono anche di spaventosamente sceme. Il Rammollito ha nella testa due cervelli che non comunicano tra loro: quello di suo padre, pieno di buonsenso operaio, e il suo, che del buonsenso fa polpette.

Tutto dipende da con chi parli, se col padre o col figlio. O con lo Spirito Santo. In fin dei conti, si salva solo Cinque Pollici: quando uno ha cinque pollici per mano è qualificato per definizione. E' l'unico che si sia sbattuto, ha lavorato nell'edilizia con suo padre e ha provato tutte le specialità del mestiere, da cui il suo soprannome. In fondo alle braccia non ha delle mani ma dei coltellini svizzeri.

Davvero, uno ha gli amici che ha. Ma a me piacciono come sono, matti, stupidi, insopportabili, inutili, turbolenti, noiosi, scombinati, sempre alla frutta in tutti i campi. Dei veri deportati. Sì, mi piacciono. Oggi sono arrivati con delle notizie. Una buona e altre cattive. Quella buona è che l'imam della 17 è stato arre stato per complicità nell'omicidio di Nadia. Ci vuole una birra, ho detto. Però, hanno aggiunto loro, il quartiere è sottosopra, ti gira la testa, soffochi. Ecco perché sono venuti a trovarmi, là non riuscivano a respirare. Da una parte, gli abitanti non danno segni di vita, prima di muoversi aspettano di vedere, dall'altra c'è gente che corre da tutte le parti, i kamikaze dell'imam e le sue cellule dormienti, gli informatori di Com'Dad, i poliziotti, i reparti antisommossa, i tizi delle associazioni, i reporter, gli intellettuali, i curiosi, i consiglieri del sindaco, gli ambasciatori di tutte le zus di Francia e di Navarra, e persino alcuni emissari dei quartieri operai belgi. Alla tivù si parla solo di noi. Quando il quartiere prende un raffreddore, la Francia sputa sangue. Non puoi fare un passo senza cadere in un'imboscata. I miei amici sono stati fermati e perquisiti trenta volte, intervistati quindici volte, filmati sette volte, chiamati a dare manforte tre volte e solo una volta sono riusciti a passare fra le maglie della rete. Per sbarazzarsi dei giornalisti mandavano avanti Idir che Dici e loro restavano dieci passi indietro per sghignazzare in libertà. - Arrestato quando, come? - ho gridato.

Qualcuno, Momo credo, ha risposto: - Ieri, da un commando antiterrorismo venuto da Parigi. - Non è messo bene, ne avrà per dieci anni, Babar del commissariato l'ha detto a Rabah del supermercato. - Errore! Mio padre dice che ci si metterà di mezzo la politica, gli daranno una medaglia, aspettate e vedrete, - disse il Rammollito. -Togo al Latte ha saputo da uno dei suoi tremiladuecento cugini, che fa le pulizie in un ministero, che l'imam verrà rilasciato presto. Secondo lui, sbattere dentro un imam è come introdurre uno fuori di testa in un collegio femminile e poi spararsi in un piede. In cella quello ti fabbrica dei kamikaze a raffica e per telefono ti risveglia tutte le cellule dormienti di Francia e te le sistema per le stra de come cinghioni chiodati ai posti di blocco.

Vero che hai detto così, Togo al Latte? - insistette il Monco. - Giuro, mio cugino ha sentito il ministro dirlo al telefono. Parlava a un tale, chiamandolo signor guardaimbecilli e caro amico, lo supplicava di fare un gesto di conciliazione. - Che significa? - domandò Momo. - Significa quel che significa, - spiegò il Monco. - Basta farlo fuori, - concluse Momo. - Sono d'accordo, Momo, hai proprio preso da quel macellaio di tuo padre, è sempre un piacere fare quattro chiacchiere con te. Insaabbbieranno lala laf lafac lafacc... - La faccenda? - Ssssi. Succederà un casino. L'hanno arrestato, che lo tengano dentro. - O lo rimandino al suo paese con un occhio di meno. - O un braccio, come il Monco. - Se le cattive notizie sono come quella buona, domani scoppia la guerra civile. Quali sono, insomma? - ho domandato per darci un taglio.

- La prima è che abbiamo un nuovo emiro, si chiama Feccia. - Il reclutamento va forte. - E abbiamo un nuovo imam. Si chiama il Guercio.

Sembra che portino ale, i guerci. - Ti confondi con i gobbi. - Errore, quelli portano bene. - Fantastico, degli handicappati che gettano il malocchio. Nessun altro? - Sono dei duri, dei già, degli assi della clandestinità, arrivano da Boufarik, è il feudo dei talebani, a quanto pare. Il giorno stesso hanno lanciato una fatwa. Uno: chi non è con noi è contro di noi, quindi passibile di morte. Due: niente più ragazze per le strade. Tre: è proibito avvicinare gli ebrei, i cristiani, gli animisti, i comunisti, i finocchi, i giornalisti. Quattro: sono proibiti lo sniffo, la canna, la sigaretta, la birra, il flipper, lo sport, la musica, i libri, la tivù, il cinema... Non mi ricordo il resto. Menarselo in pubblico. - Anche in privato. - Scoreggiare in direzione della moschea. - Radersi il... - Vi divertite, razza di deficienti! Be' sì, tanto per ridere! - E la gente che dice? - Come al solito, non dà segni di vita. - E voi? Silenzio. Borbottii. E voi? - insistetti. Che vuoi che facciamo? - si innervosi il Rammollito. - Niente, come al solito. - E tu, che non esci dal tuo buco, tu come la vedi? Adesso toccava a me parlare. Gli ho detto tutto quello che pensavo. Non ci credevo: mi hanno ascoltato dall'inizio alla fine, tranne Momo che a un certo punto si è pre so la pancia dicendo: - Aspetta, vado a pisciare, fermati, torno subito. E' tornato di corsa, con in mano il pistolino ad acqua tutto sgocciolante e mi ha detto: - Ecco fatto, continua. Avevo cominciato con una domanda: - Sapete chi è Hitler? Silenzio. Sguardi.

Borbottii. - Be', non lo sa nessuno, il che semplifica le cose.

Continuo. Ai suoi tempi noi non esistevamo. I nostri genitori non erano nati o erano appena nati, tranne il mio che era già un ragazzone di una quindicina d'anni. Hitler era il Führer della Germania, una specie di grande imam con berretto e giubbotto nero. Arrivando al potere, ha porta to una nuova religione, il nazismo. Tutti i tedeschi avevano al collo la croce uncinata, un coso che significava: Sono un nazista, credo in Hitler, vivo grazie a lui e per lui. Significava anche che chi non aveva al collo la croce uncinata andava eliminato. Ha proibito ai tedeschi un sacco di cose, come ha appena decretato l'imam del quartiere, poi quando li ha addestrati per bene, quando sono diventati dei veri nazisti, invasati dalla loro religione e dal loro Führer, ha decretato che gli ebrei, gli stranieri, gli emigrati, i malati, i mutilati come te, Monco, i furbi come Togo al Latte, i fenomeni come Cinque Pollici, i chiacchieroni come Idir che Dici, i sanguemisti come me, i figli di macellai baiai come Momo, le zucche vuote come il Rammollito dovevano scomparire. Erano degli impuri, la razza inferiore, non meritavano di vivere e i loro genitori che li avevano fatti così dovevano perire nel fuoco. Hitler ordinò a tutti gli ebrei d'Europa, compresi quelli da noi in Francia, di portare sul petto una stella gialla perché i gendarmi potessero rastrellarli facilmente. Tutta quella gente, milioni di persone, l'ha ficcata negli inceneritori per la spazzatura. Non piccoli come quello vicino alla stazione, ma giganteschi, più grandi del nostro quartiere e nettamente meglio organizzati. Rendo l'idea? Milioni di uomini, di donne, di bambini raccolti per le strade come conigli, parcheggiati negli stadi, marchiati a fuoco, trasportati come bestiame in camion, in treno, per spedirli nei campi di sterminio dove aspettano in piedi per giorni e mesi, nella neve, che vengano a bruciarli. Ogni giorno ne prelevano un gruppo a caso, li spogliano, li legano con del filo di ferro, poi li sdraiano sui tapis roulant che li trasportano alla meglio verso la bocca dell'altoforno. Sono così spaventati che non riescono a gridare o se lo fanno non importa, non c'è nessuno a sentirli, a parte loro stessi.

Quelli che li maneggiano come fascine di legno sono dei banditi tedeschi ma anche dei prigionieri bizzarri, gente tosta, ragazzi come noi. Li chiamano kapò. Nell'attesa di sparire anche loro, fanno i guar diani, riforniscono di carbone il forno, aprono le valvole, spingono le carriole, manovrano il tapis roulant, tengono il conto dei morti e degli arrivi, recuperano le loro poche cose, gli strappano i capelli, i denti, e sapete cosa fanno con le loro ceneri? Sapone e lucido da scarpe per i soldati! E così via, giorno e notte, tutto l'anno. Borbottii.

Cambiamenti di posizione. Colpetti di tosse. Non sono mai stati così quieti. - Tutto quello che vi dico è vero, è lì, nei libri, vi farò vedere le foto se mi promettete di guardarle solo per una frazione di secondo. Altrimenti, siete fregati, starete male per il resto della vostra vita. Non potrete più credere di essere degli uomini, che i vostri genitori sono degli esseri umani, che i vostri amici sono dei veri amici, dei tizi simpatici come noi. Rachel ha verificato tutto, ha cercato, è andato in Germania, in Polonia, ha visitato gli inceneritori, ha visto con i suoi occhi. Una domanda di Idir che Dici, che trascrivo in chiaro: - Perché lo ha fatto, Rachel? - Ci sto arrivando, - ho risposto. - Un giorno, il mondo intero si è mobilitato contro questa pazzia, hanno ucciso l'imam in capo, il Führer, e tutti i suoi emiri, e hanno occupato la Germania. E li hanno scoperto i campi di sterminio. Ce n'erano decine, i morti si contavano a milioni e i sopravvissuti assomigliavano talmente a cadaveri che non sapevano come parlargli.

Quando i miei genitori e i loro vicini, al villaggio, sono stati sgozzati dagli integralisti, Rachel ha cominciato a riflettere. Ha capito che l'integralismo e il nazismo erano la stessa solfa. Ha voluto rendersi conto di quello che ci aspetta se lasciamo correre come hanno lasciato correre in Germania, a Kabul e in Algeria dove i massacri degli integralisti non si contano più, come si lascia correre da noi, in Francia, dove la Gestapo integralista è ormai dilagante. Alla fine, ha avuto così paura che si è suicidato. Pensava che era troppo tardi, si sentiva responsabile, diceva che il nostro silenzio era complicità, diceva che siamo in trappola e che a forza di tacere facendo finta di discutere da intelligentoni finiremo per diventare dei kapò senza rendercene conto, senza vedere che gli altri, intorno a noi, lo sono già. - Non dire stronzate, noi non siamo dei kapò! - esclamò il Rammollito. - Devo forse ricordarvi che non molto tempo fa eravamo come loro e non lo sapevamo? Non ho dovuto insistere, si ricordavano benissimo, c'erano stati dentro abbastanza. - Cosa proponi, di suicidarci come Rachel? - domandò. - Faremo il contrario, vivremo, ci batteremo. - Come? - Non so, bisogna vedere. - Cazzo, tutto 'sto discorso per dire che non lo sa! - Creiamo una lega anti-islamica, propose Barista. - Islamica o islamista? - chiese il Rammollito. - E' secondario, chi se ne frega. - Non dire stronzate, non è lo stesso, l'islam è la religione dei miei genitori, è la migliore del mondo! esclamò Momo. - Mia madre fa la preghiera, non ammazzerebbe una mosca, aggiunse Idir che Dici. - Sono i musulmani che diventano islamisti, no?

- domandò il Monco. - Ci sono anche i cristiani come il Rammollito, precisò Idir che Dici. - Vabbè, Momo, guarda sul dizionario, dicci la differenza. - Secondo me, non c'è, - insistette Barista. - Guarda lo stesso, Momo... no, non qui, questa è la j, guarda alla i... no, è prima, non dopo. Guarda tu, Idir. Idir che Dici se la cava meglio con lo scritto che con la chiacchiera. In due secondi aveva trovato, ma ci ha messo dieci minuti a leggerci le informazioni. Sopprimo un po' di sillabe: - Islamico vuol dire che appartiene all'islam... e islamista... ehm... dov'è? Ehm... non esiste... che significa? - E' un dizionario vecchio, di prima degli integralisti. - Aspetta un po'... è del '90, i barbuti li avevamo già. - E' una cosa seria, il dizionario, non accetta qualsiasi cosa. - Vabbè, diremo islamista. - E cosa farà, la tua lega? Bloccherà gli islamisti! - E come? - Li cacciamo dal quartiere! - Come?

 

Un'ora dopo eravamo allo stesso punto. Le abbiamo pensate tutte senza venirne a capo. Avevamo il problema, non la soluzione. Fermare l'integralismo è come voler catturare il vento. Ci vuole ben altro che un cesto bucato o una banda di svitati come noi. Sapere non basta.

Capire non basta. Volere non basta. Ci manca una cosa che gli integralisti hanno fin troppo e che noi non abbiamo, non ne abbiamo nemmeno un grammo: la determinazione. Noi siamo come i deportati di una volta, intrappolati nella macchinazione, invischiati nella paura, ipnotizzati dal male, aspettiamo con la segreta speranza che essere remissivi ci salverà. Non gli ho detto niente di papà, del suo passato.

Sono i miei amici, non volevo che avessero paura di me e mi abbandonassero. E poi, loro sono come sono, creduloni e incazzosi, potrebbero sospettare ingiustamente i loro padri di nascondergli qualche cupo sterminio di gioventù. Togo al Latte rischia di ricordarsi che il suo bisnonno era cannibale e che suo padre non lo è solo perché l'hanno allevato dalla nascita a bistecche e patatine, ci rimarrebbe secco. Mio padre non mi ha detto niente, diceva Rachel. A volte, è vero, i padri non hanno niente da dire. Momo, che è sempre più curioso del dovuto, mi ha guardato strano: Di', tuo padre era tedesco... era nazista? Gli ho risposto: Assolutamente no, era emigrato in Algeria, era con i combattenti della libertà per liberare il tuo paese... ed è morto da martire. Quando se ne sono andati era mezzanotte. Dall'aria che avevano si capiva che la nostra discussione li aveva scossi, erano silenziosi, trascinavano i piedi, lo sguardo sfuggente. Si sono stretti la giacca sul petto e si sono tuffati nell'oscurità gelida. Mi hanno fatto pena, mi sembravano dei prigionieri che tornano al Lager dopo una breve evasione senza futuro. Stanotte faranno conoscenza con l'incubo che mi ossessiona da quando è morto Rachel. In pochi mesi mi ha invecchiato di cent'anni. Non gli auguro l'incubo che facevano i deportati ogni momento della loro povera e interminabile vita. Non lo auguro a nessuno, fuorché all'imam del Block 17 e al suo emiro.


 


DIARIO DI MAlrich. Sabato 2 novembre 1996.


 


Stamattina, all'alba, ho ricevuto la visita della signora Karsmirsky, Wenda Karsmirsky, la mamma di Ophélie. In un'altra vita è stata una russa bianca e in questa vita è una francese bella colorita che ha dimenticato le sue origini. Non lo sapevo: ha un modo di suonare il campanello che risveglia i morti. Un richiamo brutale, incessante, pieno di rimprovero. Solo la polizia scampanella così. Dormivo come un sasso e, non so come, mi sono ritrovato alla porta in stato di incoscienza. Un riflesso da dormiente in preda al panico. Avevo ancora gli occhi chiusi quando sono riuscito ad aprirla. Una voce stridula mi ha investito dicendomi: Giovanotto, potrebbe anche guardarmi quando le parlo! Era proprio la signora Karsmirsky, la gran dama, come la chiamava Rachel.


Sfregandomi gli occhi le ho detto: Buongiorno, signora! Ha alzato le spalle ed è entrata provocando una corrente d'aria intensamente profumata. Non so come, mi sono ritrovato in salotto a fissare il soffitto, mentre lei ficcava il naso dappertutto al piano di sopra, più veloce di un tornado precipitoso. La seguivo con l'orecchio, sentivo i tacchi tamburellare dovunque poteva entrare la sua corporatura. Poi è venuta a piantarmisi davanti per strillarmi nelle orecchie: Ma questa è una stalla, davvero! Tralascio i particolari. Mi ha concesso la mattinata per mettere tutto in ordine e sgomberare. Mi è parso di capire dal suo discorso confuso che Ophélie aveva deciso di stabilirsi definitivamente in Canada, che chiedeva a sua mamma di mettere in vendita la villetta e spedirle i soldi. Ha tirato fuori dalla borsetta un documento e me l'ha sventolato fieramente sotto il naso: Ho la procura! Dovevo crederle sulla parola. Le ho detto: Posso prendere i libri di Rachel? Mi ha schiacciato con il suo disprezzo come se fossi stato uno scarafaggio che cerca la luna: Buon prò le faccia! Sono andato in garage, ho riempito uno scatolone, me lo sono messo in spalla e mi sono diretto alla porta. Lei ha gridato: E le pulizie? Le ho detto: Per me è pulito, non vedo cosa potrei fare di più. E me ne sono andato. Mi ha raggiunto per dirmi: Se vuole, può prendere la macchina di Ophélie.


Le ho risposto: Non so guidare, non ho la patente. L'ho ringraziata e me ne sono andato. Non l'ho più rivista. Era la terza e ultima volta che la incontravo. La prima era stata quando Rachel ha festeggiato la sua naturalizzazione, la seconda quando ha sposato Ophélie; e adesso avevamo appena girato insieme una pagina di storia in cui lei e io avevamo ruoli importanti ma di secondo piano, quello della suocera importuna e quello del fratellino che ha preso una brutta piega., Mi ha chiamato di nuovo per dirmi, frugando nella borsetta: Dimenticavo, non credo che sia importante, Ophélie le manda una lettera. Come vede, è chiusa, non l'ho letta. Le ho detto: Grazie, signora, e me ne sono andato. Sono tornato al quartiere. Con lo scatolone in spalla e quella faccia smorta avevo l'aria del ladro che rientra da una lunga notte di lavoro. Se adesso passa la volante, sono nei guai, farò fatica a spiegare la mia passione per i libri e per lo sterminio degli ebrei. Be', mi sono detto per farmi coraggio, i poliziotti mi conoscono, passeremo un quarto d'ora a filosofeggiare e poi ci saluteremo. Eccomi arrivato al confine del quartiere. Vedendo le torri contro il cielo, ho avuto un giramento di testa, mi so no sentito male. La mia vita da eremita era finita. Ero come il vecchio carcerato che ritrova la libertà quando ormai non gli interessa più e capisce di colpo che a casa sua, fra i suoi, sarà un estraneo. Avevo paura, sospettavo che niente sarebbe più stato come prima, né io né il quartiere. Forse avrei dovuto vivere altrove, come un vero emigrato senza passato né futuro. I libri pesano e dieci piani a piedi stroncano. L'ascensore ha reso l'anima da un bel pezzo, di lui non ci ricordiamo nemmeno più. Viviamo come montanari, ci arrampichiamo, e durante la scalata gettiamo la corda ai vecchi bloccati sulle sporgenze di roccia. Sono arrivato in ginocchio. Ho suonato nel modo più educato possibile. Zia Sakina mi ha detto: Siediti, ti porto un caffè. Ho posato lo scatolone e sono crollato in poltrona. Zio Ali era sulla sua sedia, di fronte alla finestra, guardava davanti a sé, fissando qualcosa all'interno della sua testa. Ho pensato che comunque era bello tornare a casa e vedere i propri cari vivere come se niente fosse. Ho aperto la busta di Ophélie. C'erano un cartoncino e... una banconota da mille dollari! Sopra c'è scritto: «In God we trust». Ho letto il biglietto bevendo il caffè. Un vero caffè, ne avevo dimenticato il sapore. Ophélie ha scritto:


Caro Malrich, Spero che tu stia bene e così pure la tua famiglia. Ho deciso di restare in Canada e ho chiesto alla mamma di mettere in vendita la villetta. Ti ringrazio di averla sorvegliata per tutto questo tempo. Spero che tu non ti sia annoiato e che non abbia avuto troppa paura di notte. Spero anche che tu abbia annaffiato le piante. Ti mando una banconota da mille dollari americani per ricompensarti della corvée che ti ho imposto. All'ufficio Cambi ti daranno 5162 franchi. Se è di meno, chiedi in banca, il tasso è più vantaggioso. Vorranno un documento d'identità, non dimenticare di portartelo. Se vuoi prendere qualcosa da casa, come la tivù, i vestiti di Rachel o la nostra auto e gli attrezzi, fa' pure, ho avvertito la mamma. Ti abbraccio, caro Malrich. Fai il bravo. Trovati una ragazza e sii felice.


 


Ophélie


P. S. Preferisco dirtelo, ho conosciuto una persona, ci sposeremo.


 


Ho avuto un pensiero per Rachel: Povero vecchio mio, sei appena morto per l'ennesima volta.


 


DIARIO DI MALRICH.


 


Dicembre 1996.


 


Questa pioggia di dollari è una manna. Finalmente posso andare a Ain Deb. Anch'io risalirò alla sorgente, ritroverò la mia infanzia, la nostra casa, i miei genitori. Ritrovare mio padre. Visitare le loro tombe. Ho una paura pazzesca. Ma sono al settimo cielo. Questo viaggio mi sembra una necessità, una cosa che devo fare prima o poi. Ho bisogno di sentirmi sotto i piedi quella terra, di sentire che mi sostiene come un piccolo insetto insignificante. Non solo perché ci ho passato l'infanzia, non solo perché ci sono nati mia madre e i miei nonni, e mio padre ci ha passato la maggior parte della sua vita. Credo che questo conti meno del fatto che ci sono sepolti i miei genitori. Non so come spiegarlo, maneggiare frasi è così complicato, non so, vedo che il risultato non dice cosa provo per davvero. Non sono istruito, ecco perché. Quello che voglio dire è che la morte esprime meglio della vita la verità delle cose. Mi sembra che niente lega un uomo a una terra quanto la tomba dei suoi genitori e dei suoi nonni. L'ho appena scoperto, ci rifletterò, perché comunque è pazzesco dire che la morte ci lega alla vita mentre sappiamo per certo che è la fine di tutto. Rachel diceva: Il vero paese è quello dove vivi. E giusto, ma lo diceva per quegli emigrati che si condannano a rimanere a tutti i costi degli emigrati, senza godersi in fin dei conti né un paese né l'altro. Non aveva torto, Rachel, è una cosa che ha a che fare con la psichiatria.


Quelle persone pensano a se stesse, alla propria morte, alla tomba che le aspetta al paese, mai ai loro figli che resta no pericolosamente sospesi nel vuoto. Quindi, è naturale, quando cadono si spaccano il muso. Non riesco a immaginare dove sarebbe Togo al Latte se i suoi genitori avessero avuto la brillante idea di allevarlo come il suo bisnonno, ci avrebbe mangiati tutti e senza pensarci su due volte. Il vero paese è anche quello dove sono sepolti i nostri genitori. A me sembra che sia così, ecco perché sento la necessità di andare a vedere quella terra, di camminarci sopra, di prendere un po' della sua anima, che le deriva da tutte le anime che l'hanno nutrita durante i secoli. Un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma, diceva un certo Churchill che secondo Rachel era il grande eroe della guerra contro i nazisti. Deve essere questo, un paese: un rebus. Nello stesso tempo, mi domando: perché non sono attratto dalla Germania? Ci è nato mio padre, ci sono sepolti i miei nonni paterni, perciò una parte della mia anima è laggiù, in quella Germania profonda che Rachel descrive come un mistero insolubile. Che sia la guerra? Il passato di papà? Che sia perché non ci sono mai stato? Rachel dice che è bello, superorganizzato e che la gente è molto cortese. Un giorno ci andrò. Lo so dal diario di Rachel, gli impiegati del consolato algerino di Nanterre sono un osso duro. Non mi fiderò. Vedrò se conosco qualcuno del quartiere che conosce qualcuno che se la fa con l'addetto ai passaporti. Risparmierò tempo e soldi.


 


Alla fine è andato tutto bene. Momo mi ha indirizzato dalle persone giuste, suo padre aveva avuto a che farci quando era entrato nel business, nel periodo del boom dei passaporti, quando l'Algeria usciva dal terrore socialista e gli emigrati cominciavano a credere di poterci tornare e poi andarsene quando volevano. Si vendevano come panini, uno pagava la mattina e alla sera aveva il suo Ausweis, consegnato al bar di Da Hocine. Ma è durata pochissimo, la fabbrica ha chiuso i battenti, la dittatura socialista è tornata in buona salute e si è alleata con altre due dittature, il bazar e la religione, e così il padre di Momo ha lasciato perdere i passaporti, non reggeva la concorrenza dei nuovi banditi. Con tutti quei soldi si è lanciato nella macelleria baiale, ben presto è diventato un impareggiabile squartatore di bestie nel rigoroso rispetto del Corano e delle norme di qualità. L'Aid è la sua festa, ci dà dentro a sgozzare da un capo all'altro della zus e si inebria di sangue ovino per un mese. Eccomi con un passaporto algerino tutto verde, nuovo di zecca, ottenuto in giornata in cambio di soli cinque chili di bistecche. Il povero Rachel è diventato matto per avere il suo. Mi è venuto da ridere, mi sembrava di essere un francese clandestino. E il problema dei sanguemisti, non ci sono scarpe della loro misura. Quello che mi ci vorrebbe è un passaporto comune ai tre paesi, Francia, Algeria e Germania. Uno lavora con quello che ha sottomano, ripeteva il signor Vincent quando ci vedeva incantati davanti ai nostri bei dépliant a sognare l'ultima novità in fatto di attrezzi. Per la prima volta ho visto zia Sakina stupirsi di qualcosa. Quando ho annunciato che avevo deciso di andare al paese, ha aggrottato le sopracciglia e di colpo ha fatto finta di non aver capito. Dove vai? mi ha detto con voce fioca. Ho proseguito, come se non mi fossi accorto che era preoccupata: A Ain Deb, per una settimana, a vedere com'è, a visitare la tomba dei miei genitori, a ritrovare i compagni d'infanzia. Ci ha pensato su e ha detto: Ho un po' di soldi da parte, comprerò delle cose per i bambini del villaggio, devono aver bisogno di tutto. Poi ha preparato una valigia, la più grossa che ha scovato. Una valigia da emigrato che torna al paese a fare il Babbo Natale dei poveri. Quando ho annunciato che partivo agli amici, rintanati per il freddo nella tromba delle scale di un edificio del quartiere, ne ho sentite di tutti i colori.


 


- Sei pazzo, quelli ti sgozzano! - Hai dimenticato cosa hanno fatto ai tuoi genitori! - Cazzo, non dire stronzate, resta con noi! - Non sai l'arabo e il cabilo, come farai a parlare con quella gente? - Fai finta di essere sordomuto. - Vestiti da talebano, passerai inosservato. Evita i quartieri caldi. - Soprattutto le periferie. - Occhio agli sbirri, pare che siano una mafia. - Evita i barbuti. - Ti arrostiranno come un ebreo. - Non ti faranno più tornare indietro, di sicuro. - Ti arresteranno, non gli piacciono i francesi. - Loro odiano i figli di immigrati, ti bloccheranno alla frontiera. A questo e ad altro ho risposto una cosa sola: - Adesso che mi avete rincuorato, vi saluto. Ci vediamo fra otto giorni. Aspettatemi a Orly. La serata è stata lunga.


Zia Sakina andava, veniva, verificava che la valigia fosse chiusa, poi la apriva, aggiungeva una cosa, ne aggiungeva un'altra, la richiudeva, stringeva bene la corda, poi tornava in salotto, ci pensava un po' su e andava a verificare tutto di nuovo. Zio Ali era a letto, guardava il soffitto, con gli occhi fissi su qualcosa dentro la sua testa. In camera mia ho letto e riletto il diario di Rachel, le pagine del suo viaggio al paese, l'aeroporto, i poliziotti che squadravano chi sbarcava e facevano uscire dalla fila i sospetti schioccando le dita, l'atmosfera da campo di sterminio che regna per le strade di Algeri, i taxi clandestini che abbandonano i clienti in aperta campagna, i finti posti di blocco, i gendarmi rintanati nelle loro casematte, la natura martirizzata. Strana sensazione: invece di scorag giarmi quel quadro a tinte fosche mi ha incoraggiato. Non ho mai pensato che risalire alla sorgente delle cose fosse uno scherzo. Tutto ha un prezzo. Io ero pronto a pagarlo. Rachel parlava della via di Damasco, non so che significa ma deve essere questo: la via di Algeri. Zia Sakina non ha chiuso occhio per tutta la notte. Non si è mossa dal salotto. Rimuginava. Sono il suo ultimo figlio, quando zio Ali non ci sarà più, lei avrà solo me. Devo tornare.


Nemmeno io ho chiuso occhio per tutta la notte. Ho letto, poi ho spento la luce e, con gli occhi fissi sul soffitto, tentavo di riflettere.


Tante cose mi assillavano. Seguivo le idee che mi venivano in mente, e più le seguivo più ne arrivavano. Alla fine, mi sono assopito nell'ingorgo. Ero in stato di incoscienza, e di colpo mi sono visto in un corridoio lugubre, agitato come un condannato a morte. Mi dibattevo contro non so cosa, una forza che mi spingeva nel vuoto, ed ecco che due uomini incappucciati, sbucati dall'oscurità, si gettavano su di me, mi afferravano per le braccia e mi portavano via ansimando. Io scalciavo nel vuoto. Mi scaraventarono in mezzo a uno stadio con le gradinate piene zeppe di prigionieri stranamente lividi e silenziosi, e mentre pensavo a come alzarmi e scappare, dal sotterraneo sbucarono degli uomini spaventosi, mi circondarono e si misero a scandire il mio nome con una specie di estasi gutturale nella voce: Schiller!... Schiller!...


Schiller!... e continuarono con il braccio teso verso di me: Sieg Heil!... Sieg Heil!... Sieg Heil!... Sulle gradinate scese un silenzio così totale che piansi di dolore. Mi sono svegliato di colpo e ho acceso la luce. Mamma, dove sono? Mi sono preso la testa fra le mani. Ho visto la valigia in mezzo alla stanza. Non mi ricordavo di averla lasciata lì.


Che cretinata, roba da inciamparci, dovevo accostarla al muro, infilarla sotto il letto, posarla sulla sedia. Non smettevo più di guardarla. Mi affascinava, mi spaventava, e nello stesso tempo sorridevo fra me e me: è un oggetto, una scatola di cartone, una valigia da emigrato che bisogna legare se no si sfascia. Ti verrebbe mai in mente di portarti dei vestiti quando non vai da nessuna parte, o vai solo per otto giorni a casa di amici, come fosse casa tua? Dice qualcos'altro, quella valigia: a me, che sono immerso nello Sterminio, dice la deportazione, dice la vita che uno si lascia dietro. Non era il momento di farmi prendere dalla paura: tra poco decollo per un paese dove infuria la guerra, dove nessuno è sicuro di arrivare a fine giornata. Su col morale, porca miseria, sono un figlio del quartiere, ne ho viste abbastanza da poter affrontare il diavolo in persona! Invece, il tempo di rincuorarmi e tutto ricominciava. Leggo, spengo, fisso il soffitto, deciso a non pensare. Mi trovo a riflettere sul modo migliore di non riflettere, e si ripresentano le stesse idee. Di nuovo, ero drogato e spedito in quello stadio dove i fantasmi scandivano sempre il mio nome.


Un girone infernale. Mi sono alzato per davvero, ho spinto la valigia sotto il letto, mi sono seduto per terra sotto la finestra, con la schiena appoggiata al muro, e ho montato la guardia fino alle prime ore del mattino. Ho tirato un sospiro di sollievo soltanto quando nel palazzo è ricominciato il solito frastuono. Erano le quattro, i vecchi africani in babbucce di zebù si accingevano coraggiosamente alla loro migrazione diurna attraverso la brousse, i credenti si dedicavano con impegno alle loro abluzioni, e la tribù dei bambini, risvegliata bruscamente dai suoi incubi notturni, strillava da perforare i timpani a un sordo. Poi sono partite a tutta birra le tivù e le radio. Zia Sakina non batteva la fiacca, aveva messo zio Ali sulla sua sedia davanti alla finestra, fatto le pulizie, preparato la colazione. Ho verificato cinque volte i documenti e ho aspettato l'ora bevendo un caffè dopo l'altro.


Tremavo. Era la prima volta che prendevo l'aereo da quando ero arrivato dall'Algeria, la prima volta che lasciavo la Francia, la prima volta che affrontavo l'ignoto. La prima volga che sentivo la morte così vicina. E sarebbe stata la prima volta nella mia vita che portavo una valigia.


Un'angoscia tremenda!


 


DIARIO DI RACHEL


 


Giugno, luglio 1995.


 


E' da più di un mese che vago per l'Europa. Sempre sulle tracce di mio padre. Risalivo il corso del tempo. Era la storia della mia vita. Non sopportavo più la Francia, Parigi, la villetta, le piccole attese quotidiane. Troppe cose tutte insieme, l'azienda mi aveva liquidato, Ophélie mi aveva lasciato, e la salute mi aveva abbandonato. Era accaduto senza che potessi reagire. Davvero, me lo aspettavo e non mi muovevo, lasciavo che succedesse. Su un campo di battaglia, crivellato a quel modo e stoico fino a quel punto, sarei diventato una leggenda vivente ma qui, nella mia camicia di forza, muoversi non serviva a niente, il male proveniva dall'interno. In me tutto aveva smesso di funzionare. Ero come quelle persone definitivamente stroncate, vedove di un grande amore o scampate a un disastro totale, che entrano in un lutto interminabile. Avevo perduto il mio posto nella società e nella vita, ero un paria, ero il figlio di mio padre, diceva uno di quei relitti che avevo per amici, il fantastico Adolphe, alias Jean 134, figlio del non meno notevole Jean 92. Sul lavoro fingevano che non esistessi, niente missioni, niente riunioni, niente telefonate, e io non protestavo. I documenti proseguivano la loro trafila, erano quasi pervenuti al vertice, bisognava aspettare. Per forza, l'amministratore delegato era in giro per monti e valli, alla ricerca di un nuovo eldorado. Quando sono arrivati, me ne sono andato come se non avessi mai lavorato in quell'azienda. Un'ultima firma è bastata a cancellare dieci anni di onorato e leale servizio. Mi hanno versato solo gli ultimi sei mesi; è vero che erano stati disastrosi rispetto ai miei brillanti risultati in quegli ultimi nove anni e mezzo. Il buon signor Candela mi ha stretto la mano, mi ha dato una pacca sulla spalla e ha detto: - Vieni a trovarmi a casa quando vuoi -. Da buon meridionale, gli è spuntata una lacrimuccia.


Ho promesso e me ne sono andato. Avevo chiuso con le pompe e le saracinesche idrauliche, e con i problemi di cavitazione dovuti a un difetto di fabbrica e non a un uso scorretto da parte dei clienti o alla pessima qualità della loro acqua, del loro petrolio o del loro latte: posso confessarlo, ora che non ho più obblighi di lealtà aziendale.


Ophélie era arrivata al punto di non ritorno, nella sua mente la decisione era presa, respirava di nuovo, un po' per volta metteva in ordine le sue cose come una brava donna di casa che prepara il trasloco.


E io non dicevo niente. Di tanto in tanto mi guardava, con la testa gettata all'indietro, gli occhi socchiusi, poi alzava le spalle e ricominciava ad armeggiare. E' il suo lato ape operosa, è più forte del suo lato donna. Un giorno se n'è andata. Mi ha lasciato una lettera sul tavolo della cucina. L'ho letta e l'ho messa nel cassetto. Avevo capito benissimo che si era decisa a fare quello che a rigor di logica doveva fare, non ce l'avevo con lei. Non si vive con uno sconosciuto, un essere così scorbutico. E per altro non sapeva niente, povera cara, lo sconosciuto era il rampollo di un mostro che in qualsiasi momento poteva trasformarsi in capo ss e arrostirla nella cucina a gas. Il mio corpo aveva smesso di inviare segnali d'allarme, il livello di allerta era superato, a quello stadio non senti niente, tranne di tanto in tanto una piccola sclerosi e il vago impulso di strapparti la pelle. Ero assente dalla vita, la distanza fra il mondo e me era diventata troppo grande, si era offuscato tutto, il silenzio si era fatto più profondo, le ore passavano a vuoto e il vuoto si allargava da sé. Ero come lo straniero del nostro perspicace Camus, un extraterrestre sulla terra, le cose sono lì, ma manca il significato. Forse ero morto e non me ne rendevo conto.


Come avrei potuto saperlo? Ero in uno stato in cui tutto è relativo, quindi senza importanza. Così si verificano le grandi catastrofi, covano nelle viscere della terra, un giorno si forma una crepa in un angolo, una sera si sente uno scricchiolio nell'edificio, si considera l'eventualità di un disastro, si comincia a pensare che possa esplodere da un momento all'altro, il tempo di trovare un motivo di speranza e d'improvviso, patatrac, è crollato tutto. E un'immensa colonna di dolore sale al cielo. Poi scende il silenzio, e qualcosa che somiglia a un vuoto gigantesco. Si rimane inebetiti, schiacciati, sfiniti, amputati della propria dignità, poi si sprofonda nella prostrazione, nell'autismo, sempre più prossimi alla fine, lo ero a quel punto e anche oltre, nel buio assoluto, il nono grado della scala Richter, e ammesso che sia possibile vedere qualcosa nei grandi abissi, ero solo. Solo come nessun altro al mondo. Nei momenti di lucidità mi dicevo che il mio tormento veniva dal fatto che ero uno strano visionario, un povero mentecatto sbarcato in un mondo di incubi senza fine, con l'idea di una vita semplice, elegante, eterna. Ma per lo più, proprio come quel caro Adolphe davanti al suo liquore mortifero, non mi dicevo niente: per me il sogno, la vita, l'armonia, la semplicità erano parole prive di significato. Avevo forse il diritto di usarle sapendo quanto ci aveva riso sopra mio padre? La mia è una situazione strana. E quanto mai dolorosa. E quanto mai devastante. Ero nei panni e nella scheletrica quotidianità di un deportato che aspetta la fine ed ero nei panni di mio padre, geloso del suo sacerdozio, che dispensa la fine. I due estremi erano riuniti in me in modo nefasto. Come le ganasce di una morsa.


 


E' passata l'avvocatessa di Ophélie. Una tizia carina e grassottella con l'aria di avere dei problemi d'asma. Oppure le piaceva ansimare per impressionare le clienti e in certo qual modo innervosire la controparte. Aveva le guance del più bel rosa e il seno così candido da abbacinare chi le andava incontro. Mi ha fatto un sorriso da vera professionista e, con aria indifferente, mi ha chiesto di firmare delle carte. Ho obbedito senza leggerle e le ho detto: Non valeva la pena aggiungerci anche il silenzio, è giusto che vada tutto alla mia futura ex moglie. La pregherei di intercedere per me, vorrei rimanere a casa sua finché non trovo un monolocale lontano da qui. Me lo ha promesso e mi ha rivolto un sorriso molto compassione vole. Poi ci siamo congedati con grande soddisfazione reciproca.


 


Devo aver fatto tutto meccanicamente. Non ricordo nulla. Una mattina mi sono ritrovato a Roissy con in mano una carta d'imbarco per Francoforte.


Come bagaglio, soltanto uno zaino. Biancheria di ricambio, il libretto militare di papà, e quel grosso quaderno che non ho più abbandonato da... sì, dall'aprile del '94, o un po' dopo, a Ain Deb, quando la Cosa mi è entrata dentro. Mentre superavo i controlli, mi domandavo: Perché Francoforte? Solo in aereo mi è tornata la memoria. Sul libretto militare è annotato che Hans Schiller ha studiato alla facoltà di Ingegneria chimica dell'università Johann Wolfgang Goethe di Frankfurt am Main. Il resto è venuto per deduzione, dalle mie ricerche. Avevo letto da qualche parte che erano stati i laboratori del gruppo chimico industriale IG Farben a mettere a punto lo Zyklon B, il gas della morte, in collaborazione con l'università jwg, sotto la direzione del sinistro Nebe, capo dell'Einsatzgruppe B. Quindi non potevo scartare l'ipotesi che papà, che a quell'epoca terminava gli studi, fosse implicato in un modo o nell'altro in quelle ricerche e nelle interminabili discussioni che il progetto di gassare i deportati aveva suscitato fra i dignitari del Reich, i suoi intellettuali e le sue anime pie. La questione che li assillava era la seguente: se si decide di gassare le lebensunwerte Lebens, gli ebrei e altri minderwertige Leute, gli idioti, i malati, gli zingari, gli omosessuali, bisogna agire con umanità o conta soltanto il risultato? Il primo approccio, la soluzione umana, humanste Lòsung, implicava l'uso di un gas inodore o meglio ancora dell'acido prussico, che ha un odore dolciastro, fabbricato in quantità industriale dalla IG


Farben per uso agricolo e domestico, l'eliminazione dei parassiti dei magazzini e degli insetti di casa. I gassati non avrebbero sentito niente, non avrebbero assistito alla propria morte. A un certo punto, sarebbero caduti come mosche e tutto sarebbe finito. Il che è senza dubbio il modo più umano di uccidere, eine der humansten lòtungsarten. E in più avrebbe alleviato l'orrore del compito dei carnefici. Ma c'era il fatto che quel metodo comportava un serio rischio per i soldati tedeschi e in via subordinata per gli addetti alle camere a gas, i Sonderkommandos, deportati costretti alla tortura di raccogliere i cadaveri dei loro fratelli e trasportarli ai crematori, i quali, dopo una prima infornata, potevano entrare innocentemente nelle camere a gas ed essere decimati senza neppure accorgersene. Alcuni, e furono quelli che prevalsero, erano favorevoli a rendere il gas fortemente irritante mediante un additivo di avvertimento, un Warnstoff, per segnalare la presenza di residui nelle camere e le esalazioni durante la manipolazione delle bombole naturalmente soggette a fughe. Bisognava scegliere fra il soldato e il condannato, era il loro argomento decisivo, fra la sicurezza dell'uno e il disagio dell'altro. Si optò per la soluzione più saggia, la questione era posta in termini tali da indurre nel modo più ovvio a privilegiare i propri soldati. I gassati avrebbero sofferto atrocemente, ma poiché lo scopo era ucciderli e bruciarne i cadaveri, quell'inconveniente contava poco e poteva essere moralmente accettato. Per soddisfare gli animi sensibili, si fece ricorso a uno stratagemma: ai condannati che vengono condotti alla camera a gas si dirà che vanno a fare una doccia, saranno felici e riconoscenti. Ma è il tipo di espediente che si può usare una volta sola, nei campi si viene a sapere tutto cosi' in fretta. Alla fine, lo si riserverà ai nuovi deportati che per loro natura sono indesiderabili nei campi: gli Inutili, i vecchi, i bambini, le donne incinte, i malati, gli handicappati. Ci crederanno con grande piacere.


 


Avevo letto che erano stati effettuati molti test su cavie umane, a Francoforte o in una località in periferia, oggi scomparsa. Venivano trattate a gruppi di cinque, di dieci, sia per lotti omogenei, donne, uomini, bambini, malati, sia eterogenei, sia per famiglie, padre, madre, figlio, figlia, nonna e cameriera, se anche lei è ebrea o un po' idiota, allo scopo di determinare le quantità di gas necessarie e sufficienti, in un caso e nell'altro, per ucciderli tutti in un ragionevole lasso di tempo. Poiché la capacità respiratoria differisce da un soggetto all'altro, è comprensibile che abbiano stabilito una relazione fra le due cose, il volume d'aria inspirata per unità di tempo e la velocità del decesso, e abbiano tenuto conto delle naturali distorsioni, come il fatto che un neonato ingoia nettamente meno aria di un adulto ma è enormemente più fragile, basta un niente a ucciderlo. E' la storia di Galileo, quando, di fronte a un pubblico di prelati esterrefatti, dimostrava sperimentalmente che i corpi, leggeri o pesanti che siano, cadono al suolo alla stessa velocità, e quindi indipendentemente dalla loro massa. Un adulto è robusto, ma inspira più aria, mentre un neonato ne inspira meno, ma è più sensibile. Alla fine, tra una cosa e l'altra, arrivano al decesso contemporaneamente. Quegli esperimenti hanno dimostrato soltanto che si potevano infornare degli esseri umani senza tener conto del sesso, dell'età, delle condizioni di salute. Che si usi una pallottola, una corda o un bagno di gas, muoiono allo stesso modo.


Non era necessario fare una cernita, il che costituiva un sicuro vantaggio nel quadro di uno sterminio di massa. Tuttavia il problema resta ancora complesso, ci sono tanti parametri che entrano in gioco, lo stress, il dosaggio, le modalità stesse dell'esecuzione, la forma delle camere a gas, il comportamento degli addetti, ecc. C'è stato chi si è interessato dell'aspetto paranormale e religioso, perché la vita e la morte sono astrazioni che a volte escono dall'ordinario e possono sconvolgere la mente degli addetti; si è parlato di maledizione dei rabbini, di fantasmi vendicativi, di miracoli terribili e si è arrivati alla conclusione che un'automazione radicale avrebbe tolto di mezzo quelle fanfaluche, in quanto la catena di montaggio dà a ogni operatore l'impressione di assolvere il compito più innocente nel processo di sterminio. Così come nei plotoni di esecuzione ogni soldato è libero di credere di aver sparato la famosa pallottola a salve. Questa impostazione tayloristica è stata applicata a tutta la procedura, dal censimento degli ebrei a piede libero fino all'incinerazione dei loro cadaveri nei campi passando per l'arresto e il trasferimento. L'anello non deve sapere che la catena tiene proprio grazie a lui. Di fronte alla morte non siamo uguali, uno muore per uno spiffero mentre un altro, non necessariamente più ro busto, più alto o più furbo, può sopravvivere a un terremoto. Tocca alla macchina livellare il nostro rapporto con la morte. Perciò bisogna fissare delle medie, tenendo conto dei parametri più importanti. Furono messi a punto degli abachi per consentire una gestione meccanica nei campi di concentramento, dove la manodopera non brilla per intelligenza. L'abaco è una specie di regolo calcolatore facile da usare. Si sposta l'indicatore centrale dello strumento sulla cifra corrispondente al numero di persone ammassate nella camera, si posiziona il cursore sul volume della camera espresso in metri cubi, e con una semplice lettura si ha la quantità di Zyklon B da iniettare nell'ugello. Il risultato viene corretto riposizionando l'indicatore sulla cifra corrispondente alla temperatura della camera e il cursore sulla cifra corrispondente alla quantità di Zyklon B ottenuta inizialmente. Se c'è bel tempo, con una temperatura ambiente di venticinque gradi centigradi per esempio, la morte è garantita per il novantacinque per cento dei soggetti entro un lasso di trenta minuti. Se fa freddo, sotto i cinque gradi centigradi, la massa d'aria è per così dire rappresa, il gas stenta a diffondersi, il rendimento ne risente.


Può essere necessario ripetere l'operazione o aumentare la quantità di fluido. In entrambi i casi, tempo e denaro sprecati. Perdere dieci minuti e tre Reichsmark per soggetto non è niente, ma in un'ottica di dieci milioni di individui destinati al decesso, l'insuccesso significa cento milioni di minuti e trenta milioni di Reichsmark: pura follia per un paese per altro impegnato in una guerra mondiale ben più proficua.


 


In seguito si scoprirà che la teoria era sbagliata. Vale soltanto nelle condizioni ideali della sperimentazione in laboratorio, su piccola scala. Nella realtà è diverso. Poiché quello delle fughe di gas era un problema non insignificante, calafatare uno sgabuzzino per due o tre cavie in cattive condizioni di salute e rendere stagno un hangar per duemila persone indurite dalla detenzione ventiquattro ore su ventiquattro sono due cose ben diverse. Ma stavo parlando dell'influenza della temperatura in condizioni di funzionamento reale. Si dimostrò che con il caldo il rendimento era pessimo, ed era invece ottimale con il freddo. Più d'uno rimase scosso da questa aberrazione, ma il mistero fu rapidamente svelato mentre ne sorgevano altri, poiché nella realtà niente è mai conforme a ciò che si sostiene sulla carta. Così, lo Zyklon B non aveva tutte le caratteristiche che gli attribuivano le avvertenze del produttore e il contenuto dei fusti, duecento litri stando all'etichetta commerciale, presentava variazioni volumetriche tali da compromettere un'operazione di gassazione su tre. Uno penserebbe ovviamente alle inevitabili fughe, ma innanzitutto c'è la manipolazione effettuata dalle aziende vicine al Reich, IG Farben in testa, per truccare le statistiche destinate agli uffici statali di riferimento. E' una storia di grossi interessi finanziari e di backhanders, le bustarelle agli amici. Torniamo alla temperatura; questo parametro ha creato una certa quantità di problemi, e merita qualche chiarimento.


Quando fa caldo, i gas si espandono, salgono e vanno a concentrarsi nella parte alta della camera. E' il principio stesso dei gas. Le vittime lo hanno capito rapidamente: non appena si manifestano i primi disturbi, si gettano a terra, chiudono gli occhi e rallentano la respirazione. Alla fine, quando le porte della camera venivano aperte, trenta minuti dopo, stupore, i soggetti erano sdraiati, in cattive condizioni ma per la gran parte vivi. Era lecito pensare che i morti fossero vittime più del panico, dello schiacciamento e del soffocamento che dell'effetto del gas. Con il freddo, invece, i gas rimangono al livello del suolo, ben concentrati, e il risultato è ottimo. Ci sono stati casi di sopravvissuti, è vero, bambini che i genitori avevano tenuto sulle spalle il più a lungo possibile, ma quelle eccezioni confermavano semplicemente la regola. I poveri piccoli erano in condizioni così pessime che in realtà spiravano durante il tragitto verso il Krema, il forno crematorio. Non era necessario gassarli una seconda volta, prospettiva raccapricciante per gli addetti. Anche la forma e le dimensioni delle camere avevano una grande importanza. Con una camera stretta e dal soffitto basso il rendimento è notevole, ma è difficile indurre i soggetti a entrarvi, di fronte a quella che bisognerebbe piuttosto definire una cantina si fanno prendere dal panico. Non si potevano escludere rivolte, e quindi disordine, il più grave dei peccati previsti dal regolamento, in terra germanica. Accadde in parecchi campi, dove alla fine fu necessario costruire camere più grandi. Una camera vasta con il soffitto alto li rassicura. Va' a sapere perché. La natura umana è incomprensibile, tenuto conto che il risultato è il medesimo e i condannati lo sapevano. I Sonderkommandos preferivano ovviamente le camere di grandi dimensioni. Meno sforzi, più morti: risultato che mandava in crisi gli addetti ai Kremas quando la capacità dei loro forni non era adeguata ai quantitativi consegnati. I cadaveri si ammucchiano un po' dappertutto, marciscono, attirano i topi, le mosche e via dicendo, il che costituisce il massimo del disordine.


Insomma, gestire un'azienda di questo genere non è facile come sembrerebbe. E' industria su vasta scala, con tutte le grane che si possono immaginare, i problemi di manodopera, fra cui la sottoqualificazione e l'assenteismo, le interruzioni di corrente elettrica, l'esaurimento delle scorte, lo squilibrio tra l'offerta e la domanda delle camere e dei Kremas, che sconvolge il planning, spezza i ritmi di lavoro, crea strozzature e cassa integrazione. C'è il management, come si dice oggi per lasciar intendere che è una faccenda più complicata della gestione, con tutto ciò che lo caratterizza, i criteri di performance irragionevoli ma diventati vangelo, le zizzanie, le comunelle, i conflitti di competenza, le beghe per i posti, le bucce di banana. I campi erano gelosi gli uni degli altri per qualunque cosa, le attrezzature ricevute, i budget assegnati, i bravi esperti destinati dove non c'era una comprovata necessità; gareggiavano in savoir faire, entusiasmo, inventiva, a tutti stava a cuore accattivarsi il Führer, tutti tremavano all'idea di deludere il tenebroso Himmler. Ma insomma, non si può tener d'occhio tutto, e quando qualcosa non funziona in un punto, ne risente tutta la catena produttiva. Come individuare un responsabile in quelle condizioni? Non appena si risolveva un problema, ne spuntavano altri trentasei. Può trattarsi di tremende catastrofi, un incendio, un'esplosione, una pandemia brutale, un'evasione, un sabotaggio, con tutto ciò che ne consegue in termini di scombussolamenti a catena, rappor ti da redigere, stress da tenere sotto controllo, sanzioni da comminare che in definitiva assottigliano i ranghi e fanno crollare il sacrosanto rendimento. Ci volevano degli specialisti in pianta stabile per gestirli in tempo reale. Il dilettantismo e l'improvvisazione erano proscritti, il Terzo Reich li aveva inclusi fra i sette vizi capitali. Non ci vogliono più di cinque minuti per convocare il plotone di esecuzione e anche meno per firmare un trasferimento sul fronte russo. Per il settore gas occorreva un ingegnere chimico con esperienza e per il settore forni uno specialista di combustione! E medici, tecnici di laboratorio, contabili, furieri, insomma personale specializzato ovunque, il campo non si riduce alle camere a gas e ai Kremas, c'è il resto dell'azienda, e innanzitutto le fabbriche di ogni tipo nonché le aziende agricole, a cui spettava l'onore di soddisfare al miglior costo il fabbisogno di prodotti industriali e naturali del Reich. Un campo di discrete dimensioni comporta in ogni caso trecento, quattrocentomila internati, in costante rotazione, un personale di sorveglianza proporzionato, decine di servizi e una rigorosissima organizzazione del lavoro. Chiedete a qualunque sindaco o amministratore delegato e ve lo dirà, gestire una città o un'azienda di queste dimensioni non è una passeggiata. Un genocidio industriale non è alla portata di qualunque serial killer. E coordinare venticinque campi di sterminio disseminati in vari paesi è un'impresa titanica che farebbe cadere più di un governo dei giorni nostri. Si pensi soltanto alla questione della logistica ferroviaria e si vedrà con spavento il gigantesco cumulo di compiti precisi da assolvere in base a una programmazione blindata. Con i treni non si scherza. Quei milioni di persone, prima di gassarle, bisogna innanzitutto individuarle, identificarle, censirle, catturarle, ammassarle, trasportarle, inoltrarle in base a criteri plurimi e talvolta contraddittori, registrarle di nuovo, nutrirle, vestirle, curarle, farle lavorare secondo le norme del Reich, sorvegliarle, punirle, e infine distruggerle, e tutto ciò doveva essere compiuto a tempo e luogo, e nel massimo segreto. Non dimentichiamolo: il segreto era la chiave di volta della Macchinazione, il congegno senza il quale non poteva funzionare.


Era, per la Soluzione finale, ciò che l'invisibilità è per Dio; eliminate l'uno o l'altra e tutto crolla. Ho letto da qualche parte che al massimo livello di perfezionamento del sistema, il campo di Auschwitz bruciava da solo fino a quindicimila anime al giorno. Immaginate che ritmo infernale. Papà c'è stato per un po', deve aver sgobbato non poco.


Ma visto che aveva girato per tutti i campi della Germania e della Polonia, l'esperienza l'ha aiutato a tener duro. E' pensando a lui, al suo lavoro così faticoso, così poco gratificante, che ho raccolto tante informazioni sulle camere a gas e sui forni crematori. Volevo sapere in cosa consistesse la sua quotidianità al servizio dello sterminio. Ho anche pensato che giudicare il proprio padre esigesse conoscere in dettaglio i suoi crimini, definirne ogni tappa e ricostruirne lo svolgimento il più esattamente possibile. Resterà il capitolo delle circostanze attenuanti, ma ho riflettuto sulla questione e credo di essere giunto alla conclusione che un uomo fagocitato dal Male che non si suicida, non si ribella, non si costituisce per chiedere giustizia in nome delle sue vittime, ma anzi fugge, si nasconde, organizza l'oblio per i suoi, non ha diritto alla compassione, a nessuna circostanza attenuante. I figli sono sempre spietati nei confronti dei padri, ma è perché li amano, li ammirano più di chiunque altro al mondo. Pensavo anche e in primo luogo alle vittime di quel gigantesco inferno e mi dicevo che tutto il significato del mondo se n'è andato in fumo con loro. Noi ci troviamo in una nuova era, l'impossibile è quanto di più possibile esista. Con l'informatica, l'automazione e i metodi moderni di manipolazione delle masse, il grande Miracolo è alla nostra portata.


Basta pensare a tutto ciò che è stato inflitto a tanti popoli rispettabili grazie a breviari inconsistenti come Mein Kampf e a strumenti grotteschi degni di paesi piuttosto sottosviluppati, come il «Libretto rosso» di Mao, quello verde di Gheddafi, quello di Kim Li Sung, quello di Khomeini, quello del «Turkmenbashi» Saparmurat, basta pensare anche a quei milioni di disgraziati distrutti da squallide sette del tutto prive di idee e di mezzi. Ho studiato tante altre cose. Per esempio, quel problema mai risolto davvero, intendo in modo generale, applicabile a tutti i campi: Quali sono le condizioni di salute dei deportati più adeguate alla vita del campo, quelle che meglio conciliano le esigenze della produttività con gli imperativi della sicurezza?


Ammalati, troppo indeboliti, non combinano un accidente, danneggiano il Reich; in buona salute sono pericolosi, pensano, si ribellano, fomentano ammutinamenti, organizzano evasioni, sabotano gli impianti, ingannano i kapò, bruti troppo stupidi per diffidare di ciò che non vedono, minano il morale dei giovani soldati che non sono rodati al male. Semplice da formulare e difficile da risolvere, questo problema è stato oggetto di una quantità di studi e di moltissime sperimentazioni. Innanzitutto, i malati non sono tutti dei veri malati. E' stato ampiamente accertato: chi diceva di essere in punto di morte ha visto morire molti suoi correligionari prima di cedere a sua volta; e molti di quelli che sostenevano di essere nelle migliori condizioni avevano in realtà un atteggiamento suicida, volevano letteralmente uccidersi sul lavoro; sono i più pericolosi, la disperazione li rende astuti, ostinati, malvagi, sono capaci di qualunque cosa, impadronirsi di una mitragliatrice e sventagliare in tutte le direzioni fino all'ultima pallottola, appiccare il fuoco alle baracche, scagliarsi su una guardia e sgozzarla o sbatterla contro la recinzione elettrificata finché le loro carni bruciate non si fondono insieme nella morte. La consegna costantemente rinnovata è di scovarli in tempo ed eliminarli per dare l'esempio oppure, se è possibile, visto che si tratta comunque di forza lavoro, riportarli alla speranza; le ricette non mancano, a volte basta un gesto amichevole per spegnere la febbre suicida, spesso la soluzione sono le maniere forti. Nel linguaggio di oggi si direbbe che è un problema di ricerca operativa, un caso terribilmente complesso che tiene conto di parametri quantificabili, misurati dai medici, e di altri parametri che quantificabili non sono, come l'influenza dei lunghi inverni sul comportamento, il fetore che fa raccapricciare e sconquassa l'animo, la tremenda e infinita solitudine dell'individuo, i battibecchi fra internati, il peso delle voci che girano, l'arrivo di nuovi deportati, che ravviva l'attenzione o al contrario la ottunde, la annienta, che so, il morale di un uomo è come fumo, basta un'inezia a trascinarlo da una parte o dall'altra e alla fine si dissolve e si perde nella follia. Solo il fiuto e l'esperienza di vecchie volpi dei campi hanno permesso di superare questi problemi. Le soluzioni sono state trovate sempre nei campi, in modo empirico, mai nei laboratori della capitale dove ci si dilettava con le elucubrazioni intellettuali e le sperimentazioni in vitro. Come per tutte le cose, le soluzioni scaturiscono dal lavoro sul campo più che dalle asettiche simulazioni destinate a impressionare le autorità, i Bonzen, e a ottenere fondi, galloni, promesse. Al diavolo i modelli in scala ridotta, sono la negazione della realtà, l'orrore non è un parametro marginale dell'esperimento ma il nocciolo della questione.


Sul campo si affondano le mani nel sangue e nella merda, ci si gioca l'anima, ci si dà da fare, nell'emergenza si scommette su tutto, sul morale degli internati, sulle loro zizzanie, si organizzano feste, gare, conflitti, si fanno circolare informazioni allo scopo di ingigantire certe cose, una liberazione imminente, una grossa distribuzione di patate, di pane, di stufe, l'ampliamento del campo, la riorganizzazione del lavoro, l'installazione di vere docce, l'apertura di biblioteche, la possibilità di inviare posta, perché no. Nel vuoto si può dire di tutto, ci sarà sempre un'eco. Si può anche fare il contrario, ridurli in briciole, privarli di tutto, batterli come tappeti, seminare il terrore, tenerli sotto pressione giorno e notte, per riportarli con i piedi per terra. Quando li visita la speranza, si eccitano, si ostinano, diventano audaci, basta una scintilla. Ingannandoli, alternando il caldo e il freddo, al momento giusto, si corregge il tiro, si interrompe il processo, si disorganizzano i clan, si guadagna tempo, si preserva il rendimento, lo si migliora. E' il buon vecchio sistema che si usa con le reclute, le fai marciare senza motivo, per sfinirle, le fai schierare ogni cinque minuti e ordini la conta senza motivo, perché si abbrutiscano, le fai sgobbare dall'alba al tramonto senza motivo, perché perdano ogni speranza di libertà, organizzi degli allarmi senza motivo, perché stiano sempre sul chi vive, le punisci senza motivo, perché capiscano che la loro vita è appesa a un filo, e un bel mattino le butti fuori dalla caserma senza motivo, per mandarli a morire altrove. L'unica differenza è che, nei campi, il lavoro è la morte, la punizione è la morte, le sevizie sono la morte, le cure sono la morte, il permesso è la morte, lo svago è la morte, il rancio è la morte, l'allerta è la morte e il congedo è la Morte immediata. Un uomo che muore per un sì o per un no. La ricetta migliore è ovviamente togliere di mezzo i veterani prima che ci facciano troppo il callo e rovinino le reclute. D'altro canto, sono i veterani, i volponi, ad assicurare il rendimento, perché i nuovi arrivati sono troppo spaventati per applicarsi al lavoro. La paura dilaga, non ci vuole niente perché si trasformi in panico. Anche qui, ci si trova di fronte a un arduo problema di ricerca operativa, bisogna trovare un equilibrio, bisogna mantenerlo costantemente perché il sistema duri, funzioni in modo efficiente, in sicurezza. Non dimentichiamo che la finalità dei campi è lo sterminio e che, se tutti lo sanno, nessuno però lo dice, nessuno lo pensa davvero, né il condannato, perché ha bisogno di sperare, né il carnefice, perché si preoccupa della produttività. Si fa finta che la morte sia una semplice sanzione grave fra le altre, e questo fa sì che i loro rapporti di lavoro siano straordinariamente complessi. La gestione di quei campi è tutt'altro che facile. Quando mi metto nei panni di papà e mi convinco delle incredibili difficoltà che doveva affrontare e le paragono a quelle che può avere una multinazionale come la nostra, anche al livello più basso della congiuntura economica, sotto il fuoco implacabile della stampa, il bombardamento degli speculatori, la rivolta dei clienti, gli ukase dei funzionari, il terrorismo dei sindacati, sghignazzo. Le prodezze della formidabile organizzazione militare-industriale nazista sono ineguagliate, ineguagliabili.


 


Questo viaggio era necessario? Sul piano tecnico certamente no. Quello che c'era da sapere lo sapevo. Ciò che volevo era essere là dove è stato mio padre e parlargli al di sopra della barriera del tempo. Altrimenti, chi mi dirà ciò che voglio sapere di lui, quale fu il suo percorso, in che stato d'animo era quando dispensava la morte in tali proporzioni? Si è ribellato, godeva del suo potere? Perché quell'odio nei confronti dell'ebreo, perché un odio così totale, cosa si aspettava di ricavarne?


Quando il Terzo Reich è crollato, a cosa pensava, alla fine del mondo, alla fine di un mondo? Quali furono i suoi sentimenti quando, scoperti i campi di sterminio, l'umanità intera ha levato un grido di spavento che deve essersi sentito all'altro capo dell'universo? Si è risvegliato? Si è irritato, si è detto che l'umanità non aveva capito niente, e che all'altro capo dell'universo la fine dei mondi è una banalità, una fatalità iscritta nell'ordine eterno delle cose? Il caos viene dal caos e torna al caos, è matematico, lo si legge nel cielo come in un libro aperto. Tante civiltà, tanti imperi colossali e popoli illustri sono scomparsi, dov'è la novità, bisogna pure che il vecchio muoia perché appaia il nuovo. Queste domande mi fanno impazzire, perché conosco la risposta: papà non si è suicidato, non si è costituito, è fuggito, ha taciuto, ha dimenticato. Non mi ha detto niente.


 


Ho preso una stanza in un minuscolo hotel pittoresco, luminoso come un solicello di primavera. Dalla finestra vedevo l'università, situata in un meraviglioso scenario dove il verde regna sovrano. Prati ben tenuti, alberi centenari, siepi potate con il laser, vasche contenenti, suppongo, pesci ben nutriti da mani invisibili animate dalle migliori intenzioni, e comunque attente alla puntualità, alla misura e alla qualità. Al centro, su una collinetta tondeggiante, sua maestà l'università Johann Wolfgang Goethe. Oh che bell'edificio! Nobile, straricco, e così gradevole con le sue sfumature rosee. Ho pensato con tristezza alla mia facoltà di Nantes, che mi sembrava una brutta sguattera immusonita, con la sua scopa e i suoi secchi. Qui, l'impressione di tempio della scienza balza agli occhi. Gli studenti, innumerevoli e disciplinati, a gruppetti o in fila indiana, hanno un'aria da vecchi studiosi austeri, al tempo stesso pensosi e distratti, ma anche scapigliati, ridenti e graziosamente sbrindellati, come tutti gli studiosi della loro età. I professori sono la nota stonata, hanno la goffaggine del brav'uomo anacronistico ma fondamentalmente inoffensivo, sbarcato dalla campagna a fare compere nel posto sbagliato. Portano un cesto, una sporta, una borsa di tela o una reticella vecchio stile. Mi sono ricordato che la Germania era in piena crisi di coscienza ecologica, il che andava perfettamente d'accordo con il suo formidabile tessuto industriale. Quest'anno, la buona vecchia cartella di cuoio o similpelle non era di moda all'università di Francoforte. Ai miei tempi, a Nantes, usava lo zaino da globe-trotter, resistente a tutto, e ricordo che il signor Candela, da buon sessantottino narcisista, mi ha detto che quando era studente lui si arrivava all'università a mani vuote e si ripartiva con una studentessa sottobraccio. Altri tempi, altre usanze. Fino a quel punto potevo riconoscere al mio futuro padre qualche circostanza attenuante, vedere in lui il bravo studente, l'allegrone, il cittadino formattato per decreto, la recluta coraggiosa che vive divertendosi spensieratamente, che va incontro al fuoco senza preoccuparsi troppo. E' giovane, non sa, la Soluzione finale è un segreto di Stato, una faccenda straordinariamente privata tra il Grande Führer, appollaiato nel suo nido d'aquila, l'inespugnabile Berghof, e il piccolo deportato affamato, laggiù, da qualche parte nel cuore dell'Europa, in un campo isolato dalle bufere di neve. Si sospettava, se ne parlava in termini allusivi, si vedeva che quelli con la stella, gli ebrei e altri minderwertige Leute, si facevano sempre più rari per le strade, che molti negozi restavano desolatamente chiusi, che le Judenhàuser avevano cambiato inquilini e le sinagoghe erano state destinate ad altri usi, ma la guerra è guerra, per prima cosa bisogna farla, solo dopo si contano i morti e i dispersi e i segreti di stato tornano a galla come i cadaveri.


Ho girovagato nei dintorni dell'università. Uno studente passa la vita nei caffè e nelle osterie, è lì che si parla, si rifa il mondo, è lì che si covano le delusioni. Cos'altro ho fatto a Nantes, per quattro anni?


Li ho visitati tutti. Ma non riuscivo a percepire il clima opprimente, arrogante e febbrile della Germania nazista. In questa Germania odierna, liberale ed europea fino alla punta dei capelli, moderata all'eccesso, tutto è lustro, scintillante, cordiale, giovanile, anche se la popolazione visibile è media mente più che mai di età avanzata. Avrei voluto essere un mago e ringiovanire tutto con un colpo di bacchetta magica, dipingere tutto di nero, di grigio, di fumoso, all'antica, restituire alla strada il suo lastricato, agli edifici il loro fatiscente aspetto anteguerra, alle signore quel fascino borghese in bilico fra dignità e spudoratezza, alle ragazze quel look da campionesse olimpiche, agli impiegati statali la rigidità da automi pericolosi, agli operai l'aria da signorotti di campagna sfruttati fino all'osso, ai demagoghi gli accenti da invasati. Non riuscivo a raffigurarmi il giovane Hans Schiller, troppe immagini mi si sovrapponevano nella testa, quella dell'ufficiale delle ss irreprensibile nella sua uniforme nera, quella dello sceicco di Ain Deb della mia infanzia, avvolto in un burnus candido, quella dell'uomo d'affari tedesco in completo scuro, il rigoroso Homo oeconomicus che incontro in tutti gli aeroporti d'Europa, che ha costruito la potenza pacifica della Germania contemporanea, e quella dei brillanti studenti prematuramente condannati alla serietà.


Sì, quel giovane Hans che non riesco a visualizzare ha diritto alla simpatia, è giovane, non sa. E' stato tra le braccia muscolose della Hitler-jugend, la Gioventù hitleriana, e ha perso quel po' di buonsenso che l'infanzia lascia in eredità all'adolescenza. Ci sono passato anch'io: la Gioventù dell'fln, la Fln-jugend, non era granché, robetta da poveri dilettanti, ma so cosa rimane, un ronzio in testa, degli slogan provocatori in bocca e un sacco di brutti piccoli riflessi nelle mani. Quanto a Hans, gli anni all'università non l'hanno bonificato, il profilo era ormai delineato, e l'epoca era quella della propaganda intensiva, della vigilanza ferrea e, ben presto, della Blitzkrieg, la guerra lampo. E' comprensibile che fosse difficile pensare con la propria testa. Perciò, il suo reclutamento da parte delle équipe di ricerca che lavoravano sullo Zyklon B rientrava semplicemente nel gioco delle probabilità. Era lì, avevano bisogno di uno in camice bianco per occuparsi delle provette, tenere d'occhio l'alambicco, fare delle misurazioni. Credendosi riconosciuto, eletto, onorato, si è compiaciuto, il giovane ingegnere Hans. Probabilmente pensava che il gas da inventare fosse destinato, come si diceva, a eliminare i pidocchi dai campi. «Che campi?» può aver domandato. «I campi di lavoro del Grande Reich!» gli hanno forse risposto con il tono con cui si difende l'idea di una crociata urgente contro la povertà e l'umiliazione. La vera domanda: «Mein Gott, Was ist das, che cos'è?» se l'è posta quando un bel giorno, alla sera o all'alba, fra due fiochi lampioni, in un sobborgo lontano di Francoforte, e in un'atmosfera da tagliare col coltello, assisté alla sua prima sperimentazione in vivo, la gassazione di una famiglia ebrea troppo sbigottita per proferire una sola parola o di qualche vagabondo avvinazzato, troppo abbrutito per indovinare a cosa andava incontro; e tutte le altre domande che ovviamente si affollano nel cervello: Che ci faccio qui? E' possibile? A che scopo? Preferisco credere che abbia puntato i piedi, ma essendosi reso conto di aver messo un dito nell'ingranaggio di un enorme segreto di Stato, non abbia potuto più tirarsi indietro. Conta soltanto il primo passo, e in quel caso ne aveva fatti parecchi in un colpo solo. Il resto viene da sé, uno cova il dolore per conto proprio, si lecca la ferita e va avanti, dissimula i pensieri, li dimentica, ogni giorno un po' di più, poi adotta quelli di tutti quanti e ogni giorno ci crede più energicamente; e ci sono i grossi vigliacchi, gli sbruffoni, che stanno in prima fila, a uccidere con entusiasmo, è rassicurante, si va nella direzione giusta, l'unica possibile. Papà è arrivato rapidamente al sancta sanctorum dell'orrore, doveva pur avere qualche dote. Un'incorreggibile ingenuità? Una buona dose di vigliaccheria? Un po' di convinzione? Forse molta. Forse addirittura una vera rabbia contro l'ebreo e altri minderwertige Leute.


Mio Dio, chi mi dirà chi è mio padre? Sono ripartito da Francoforte come ci sono arrivato. Come sono tornato da Uelzen e come sono tornato da quel buco, vicino a Strasburgo, dove sta rintanato il figlio di suo padre, il mio amico e socio Adolphe. Dovevo continuare la mia strada.


Fino in fondo. Fino alla fine.


 


DIARIO DI RACHEL.


 


16 agosto 1995.


 


Se c'è mai stato un tentativo inutile è proprio questo: ho scritto al ministro degli Esteri algerino. Lo so, la mia missiva non gli giungerà, sarà intercettata in tempo e distrutta, o trasmessa alla polizia segreta che la userà come vuole. Non importa, mi sono detto che bisognava farlo, e l'ho fatto. Al momento giusto, consulterò un avvocato sulle eventuali iniziative legali. E anche in questo caso andrò fino in fondo. Egregio signor Ministro, il 24 aprile 1994, verso le ore 23, i miei genitori e trentasei loro vicini, uomini, donne e bambini, sono stati brutalmente assassinati nel loro villaggio, Ain Deb, nel dipartimento di Sétif, da un gruppo armato non identificato. Secondo la televisione francese, che riferiva la conclusione a cui è pervenuta quella algerina, il gruppo armato non identificato è senza alcun dubbio un gruppo di terroristi islamici ben noto alla polizia. Penso che Lei non sia all'oscuro di quel dramma, ne è stato certamente informato. Gli osservatori stranieri e le Ong impegnate nella difesa dei diritti umani devono averglielo ricordato più volte e forse hanno persino preteso delle spiegazioni. Nell'elenco delle vittime stilato dai servizi del ministero dell'Interno algerino e trasmesso con il Suo avallo all'ambasciata algerina a Parigi, mio padre e mia madre figurano sotto un'identità che non è quella dell'anagrafe. Mia madre è identificata con il suo cognome da nubile, Aicha Majdali, e mio padre con uno pseudonimo, Hassan Hans detto Si Mourad. Le trasmetto in allegato copia delle loro carte d'identità, da cui vedrà che mio padre si chiama Hans Schiller e che mia madre è registrata come Aicha Schiller nata Majdali, entrambi di nazionalità algerina. Sembra del tutto normale che i cittadini di un paese vivano e muoiano con la loro identità ufficiale e che solo con riferimento a tale identità siano di vulgate le informazioni che li riguardano. Non credo che le leggi algerine in materia differiscano molto da quelle vigenti nella quasi totalità dei paesi del mondo. Le sarei quindi infinitamente grato se informasse i servizi competenti affinché provvedano a iscrivere i miei genitori nell'elenco delle vittime con il loro vero nome e a inoltrarmene ufficialmente copia. In caso contrario, egregio signor Ministro, mi vedrò purtroppo costretto a considerarli dispersi e a intraprendere tutti i passi necessari per ritrovarli e, in particolare, ad avviare un'azione legale presso le istituzioni competenti, algerine, francesi, tedesche nonché presso la Corte internazionale di giustizia. Come Lei comprenderà, non posso non considerare che lo Stato algerino sia coinvolto nell'assassinio e non vedere nell'elenco da esso compilato la prova che ha qualcosa da rimproverarsi, o almeno da nascondere riguardo ai miei genitori. Qualora Lei ritenesse che sia impossibile procedere a tale rettifica, La prego di comunicarmene il motivo. Posso comprendere certe necessità.


 


Colgo l'occasione per domandarLe a che punto siano le ricerche per catturare i colpevoli di questo crimine orrendo e trascinarli davanti alla giustizia. Sono trascorsi oltre quindici mesi e ad oggi non è stata fornita al pubblico né ai parenti delle vittime alcuna informazione sullo stato delle indagini. Anche su questo punto mi vedrò costretto a fare tutti i passi per perseguirLa legalmente e accertare se Lei sia coinvolto in un'operazione di insabbiamento della verità. Distinti saluti.


 


E' troppo tardi, la lettera è partita ma, rileggendo la mia copia, me la prendo con me stesso: ha un tono conciliante. Poiché mi rivolgo a un ministro, ho stupidamente assunto il ruolo del postulante, del debole che manifesta remissività, pazienza, comprensione civica per i Bonzen, con i minuti contati, assediati dalle richieste e dagli obblighi protocollari. Considero umiliante che le vittime debbano sempre chiedere, supplicare, aspettare. E' insopportabile.


 


Quando sarà il momento di insistere, mi esprimerò come deve esprimersi una vittima: la vittima pretende, esige, non tollera rinvii e comunque rifiuta ogni forma di burocratese. Quella gente è al nostro servizio, non il contrario.


 


DIARIO DI MALRICH.


 


15 dicembre 1996.


 


E' un miracolo che sia arrivato a Ain Deb. Dio mio, che storia, che avventura! All'atterraggio, all'aeroporto internazionale Houari Boumedienne di Algeri, siamo stati bloccati ai piedi della scaletta, ammassati e parcheggiati in mezzo alla pista, tutti i passeggeri, uomini, donne e bambini, e abbiamo aspettato più di un'ora sotto una pioggia battente e un vento glaciale che ci sferzava di traverso. Gli uomini tossivano, i vecchi e i malati si sono accasciati, i neonati urlavano, le donne li supplicavano di tacere, li distraevano come potevano, poveracce. La gente borbottava, eravamo bagnati fradici. Non basta leggerlo o sentirlo dire, bisogna immaginare duecento persone cariche di bagagli, profondamente angosciate, ferme su una pista con quel tempaccio, sotto lo sguardo indifferente di una muta di poliziotti avvolti nelle mantelle di tela cerata. Un'ora dopo sono arrivati su un'auto nera quattro poliziotti in uniforme verde scuro e occhiali da sole. Ciac, ciac, ciac, ciac, sono scesi. Agenti speciali. Stava per succedere qualcosa, la nuova squadra faceva davvero paura. Il capo ha sollevato il colletto dell'impermeabile, ha tirato su gli occhiali sopra la fronte e si è messo a girarci intorno in silenzio, lentamente, molto lentamente, squadrando ora l'uno ora l'altro, e senza che capissimo perché, a certi diceva: Tu, esci, vai laggiù... anche tu... e tu... tu, vieni avanti... anche tu... e tu, con loro... tu, inutile che ti nascondi, vieni avanti. Squadrava anche le donne; a una ha detto: Togliti gli occhiali. A un'altra ha detto: Via il cappuccio. A un vecchio malato caduto a terra, ha detto: Alzati. La sua voce mi metteva una fifa blu, era piatta, meccanica, neutra a un punto che non si può immaginare. Intuivo che a quell'uomo nessuno aveva mai disobbedito.


Avrebbe potuto restare a casa, a letto o seduto dietro la scrivania, e in tutto il suo territorio la gente avrebbe eseguito i suoi desideri senza fare una piega. Quando penso che Com'Dad è obbligato a negoziare prima di fare appello al giudice, mi dico che in Algeria c'è qualcosa che non funziona. Oppure in Francia. Ero il sedicesimo a uscire dalla fila. Mi ha guardato senza batter ciglio e mi ha detto a mezza voce: Va' a metterti con gli altri. Dopo di me ne hanno scelti altri cinque. In totale eravamo ventuno sospettati. Giovani per lo più. Gli altri passeggeri sono stati accompagnati verso uno squallido edificio con un'enorme insegna luminosa che proclamava in tre lingue: «Arrivi.


Benvenuti in Algeria». Arrivai. Welcome in Algeria, e lo stesso in arabo, che io non so né leggere né scrivere. I nostri compagni di viaggio avevano già dimenticato la disavventura che avevamo vissuto insieme, non uno si è voltato per salutarci o compatirci, sorridevano, si spintonavano per allontanarsi più in fretta. Avevano una bella fortuna. Dopo un po', quando ormai avevamo l'acqua fino alle caviglie, ha inchiodato davanti a noi un camion militare col telone. Per ordine del capo gli agenti speciali ci hanno preso i passaporti, i biglietti, il bagaglio a mano e i sacchetti, e ci hanno ordinato di salire sul camion. Non ci credevo, tremavo di paura, sapeva di deportazione. Gli sbirri non mi hanno mai impressionato, anzi mi piaceva da matti sfidarli in pubblico e vederli esitare sul comportamento da tenere. Ero impietrito, non riuscivo a pensare, sentivo che sarei rimasto lì, paralizzato, anche se mi avessero giurato che era tutto un bello scherzo per una candid camera. Poi il camion è partito a tutta birra verso quella che una volta doveva essere una zona di carico. Immensi hangar arrugginiti, viali larghi cento metri, roba abbandonata qua e là, la pavimentazione di cemento sollevata, un blindato parcheggiato sotto un serbatoio d'acqua, dappertutto nidi di sacchetti di sabbia con in mezzo due soldati aggrappati a una mitragliatrice. Non un'anima, non un movimento, tranne il vento che ulula, l'acqua che scorre a fiumi e i cartelli di metallo divelti che cigolano da far venire i brividi. Il risultato era un'atmosfera da torcersi di dolore. Il camion è entrato in un hangar e si è fermato nel bel mezzo. I freni hanno espulso i gas a tutta forza. L'autista ha fatto rombare a lungo il motore, accelerando a fondo, poi lo ha spento di colpo. Per poco l'hangar non è esploso sotto lo spaventoso silenzio che gli è piombato addosso all'improvviso. Un silenzio come quello ha davvero un'eco terrificante, non avrei mai creduto che l'assenza improvvisa di rumore potesse essere così assordante. E pazzesco, come dire che una persona è viva e morta nello stesso tempo. Del resto, eravamo a quel punto, più morti che vivi. Certi tossivano da staccarsi i polmoni, altri erano pallidissimi, io piangevo acido. Mi sono chiesto se l'autista non volesse sterminarci con i suoi gas di scappamento, ma visto che era nell'hangar con noi, ho concluso che era innocente, ripuliva il motore, non si può essere così stupidi da gassarsi da soli, i gas di combustione hanno un odore particolare, si sentono da lontano, non ci si può immergere il naso come se fossero fiori. Non dura a lungo un Sonderkommando che non fa attenzione nella camera a gas. L'hangar è così grande e così sconquassato che ci sarebbero voluti trenta camion e una settimana intera per portarci al decesso, come diceva Rachel. Avremmo avuto il tempo di morire di fame. O di pazzia. Ho avuto un pensiero per mio fratello, il mio povero Rachel, morto a quel modo, con i polmoni disseccati, il cuore ferito, il corpo sfinito. Solo nel suo garage, solo come mai era stato prima. Poi tutto si è svolto molto in fretta, ci hanno fatti scendere, il camion è ripartito e le immense porte dell'hangar si sono subito richiuse su di noi con un rumore da esplosione atomica. Ci hanno abbando nati al buio, senza una parola, senza uno sguardo. Per un momento ci è preso il panico poi, vedendo che non succedeva niente, se non che il vento scuoteva l'hangar e l'acqua scendeva a cascata dal tetto, ci siamo calmati e ammassati in un angolo per scaldarci fra noi. Certi si sono messi a fumare avidamente, come se fosse la loro prima sigaretta della giornata, o l'ultima. Un'ora dopo eravamo morti di freddo, di fame, di sete. Ed era solo l'inizio. Ho fatto amicizia con un mio compagno di sventura, Slim, uno studente che tornava a casa per passare le feste di Natale in famiglia. Gli ho chiesto se era al corrente di cosa ci sarebbe successo, ha risposto che non ne sapeva niente. Mi ha spiegato che viaggiava spesso tra Parigi e Algeri ma era la prima volta che gli toccava la lotteria. Ha aggiunto ghignando: Forse adesso ho un'aria da terrorista.


E' un ottimista. Abbiamo parlato del più e del meno. Studia Informatica all'università, abita nel sedicesimo arrondissement da uno zio che è professore all'ospedale della Pitié-Salpètrière. Figlio di ricchi. Mi ha detto che invece era in miseria, aveva una borsa della Cooperazione, suo zio poteva dargli solo vitto, alloggio, la tessera dei mezzi pubblici e una mancetta. Nel weekend gli presta la Mercedes 300 decappottabile con un pieno di gasolio e qualcosa per le piccole spese. Ha aggiunto che era costretto a fare uno stage retribuito come assistente di direzione nella banca d'affari di un grande amico di suo zio per finanziarsi la settimana bianca in Svizzera. Poi si è lamentato della Francia, del freddo, della discriminazione, dell'insicurezza, del costo della vita, della sporcizia delle strade, dell'arroganza dei poliziotti e dei funzionari, e del resto, della prefettura che gli rifiuta un permesso di soggiorno decennale senza nessun valido motivo. Uno che fa il difficile.


Mi ha raccontato che progettava di stabilirsi a Londra, dopo la laurea, e mettere su un ufficio di consulenza internazionale con i suoi cugini per fare soldi con l'Africa. Lo ascoltavo, lo capivo, ma è così, io non sopporto i ragazzi viziati, gli ho detto quello che zia Sakina mi ha ripetuto per anni: Non è bello essere ingrati. L'ha presa bene, mi ha risposto: Io non sono ingrato, lo è la Francia. Uno che fa davvero il difficile. Ecco uno che se la tira, diceva il signor Vincent quando vedeva arrivare sparato un tizio in Ferrari che butta li le chiavi guardando il soffitto e dicendo: Me la controlli! Con quei tipi, montavamo un bel teatrino, spingevamo in un angolo il cocchio e ci prendevamo tutto il tempo che ci voleva per preparargli una fattura degna di un re. Abbiamo parlato ancora del più e del meno e abbiamo progettato di rivederci ad Algeri e a Parigi. Né lui né io pensavamo che saremmo rimasti in quell'hangar a tempo indeterminato. Nell'incertezza, è meglio essere ottimisti.


 


Un'ora dopo sono tornati gli agenti speciali. Ci hanno allineati davanti al capo che ci ha interrogati uno dopo l'altro. Toccava a me, voleva accertarsi che mi chiamavo effettivamente Malek Ulrich Schiller, che avevo ottenuto il passaporto legalmente, che venivo proprio a trovare la mia famiglia a Ain Deb, che nella vita non facevo niente di illegale e non avevo cattive intenzioni. Il mio cognome lo ha lasciato perplesso, ripeteva: Tuo padre è tedesco e tu sei algerino? Gli ho spiegato chi era mio padre: uno scienziato, un musulmano, un eroe, un ex mujahid, un grande sceicco e uno shahid. Mi ha detto: Vai a metterti là. Indicava la sinistra. Ben presto il mio amico Slim mi ha raggiunto. Un'ora dopo aspettavamo divisi in due gruppi, uno a destra, l'altro a sinistra. Ci guardavamo con angoscia, e con un po' di astio, ognuno si diceva: Se il mio gruppo è qui, è per colpa dell'altro gruppo. Finita la cernita, il gruppo di destra è stato imbarcato sul camion e sono partiti. Per dove, non lo so. Un poliziotto è venuto verso il mio gruppo e ci ha detto: Seguitemi. L'abbiamo seguito come pecore. Ci ha portati verso l'edificio con la scritta «Arrivi. Benvenuti in Algeria». Ci ha detto: Toglietevi dai piedi! Non ce lo siamo fatti ripetere due volte. Abbiamo pas sato i controlli per uscire tremando: polizia di frontiera, dogana, perquisizione dei bagagli e personale, piccolo interrogatorio di routine, dichiarazioni varie, cambio obbligatorio, pagamento di tasse, e ci siamo ritrovati fuori, morti di stanchezza, di fame, di sete, di freddo, di umiliazione, bagnati fradici, ma liberi e felici di esserlo.


Avevo l'impressione di aver scontato trent'anni in un bagno penale. La luce del giorno mi ha accecato e la valigia di zia Sakina mi staccava il braccio. Mi sono chiesto a lungo cosa ne era stato di quelli dell'altro gruppo. Mi rifiutavo di pensare che li avessero torturati, uccisi, deportati o chissà cosa. Preferisco credere che li hanno semplicemente sbattuti in prigione e che i parenti non si saranno preoccupati. Un giorno, quando la guerra sarà finita e i campi verranno aperti agli inquirenti, si saprà cosa gli è capitato.


 


Slim ha telefonato a casa perché venissero a recuperarlo: hanno pensato che ero stato respinto o assassinato. Il vecchio stava telefonando a Parigi, in preda al panico, mi ha detto ghignando. E davvero un ragazzo viziato, mi sono detto io. Abbiamo aspettato, osservando cosa succedeva in aeroporto. Regnava un grande silenzio. La gente andava e veniva con aria indifferente o forse con molta prudenza. A un certo punto abbiamo visto un poliziotto tirarsi dietro un gruppo di ragazzi ammanettati a due a due che credevano di potersene andare dall'Algeria come se niente fosse. Sono messi male, lasciare il paese è come insultarlo. Verranno certamente gassati. Noi invece arrivavamo, e abbiamo avuto diritto al regime speciale. Un po' dopo ho visto che i nostri agenti, che erano seduti al bar, si alzavano bruscamente, si abbottonavano l'uniforme, si abbassavano sul naso gli occhiali da sole e si allontanavano in fretta.


Ci sono passati davanti, ci siamo nascosti in tempo. In confronto a questo aeroporto, la mia periferia è una casa di riposo, uno ha tutto il tempo di annoiarsi. Dovrei dire aveva, perché da quando sono arrivati il nuovo imam e il nuovo emiro, il Quarto Reich avanza a passi da gigante.


Quando sono partito, lo scenario era già pronto: la propaganda funzionava a pieno regime, si organizzava la vigilanza ferrea e la Blitzkrieg era nell'aria. Mi chiedo come troverò il quartiere al mio ritorno e se la mia famiglia e i miei vicini ci saranno ancora. Ne sentivo già la mancanza. Non riesco a immaginare il futuro senza di loro, senza gli amici, Momo il figlio del macellaio baiai, il Rammollito, figlio del garagista, Togo al Latte, Idir che Dici, Cinque Pollici, il Monco, e Bidochon il Barista che fa il caffè così male, figlio di poveri lavoratori di un'ingenuità totale. Slim il Viziato mi ha raccontato della sua vita a Parigi, gli amici, le amiche, e poi mi ha raccontato della sua vita ad Algeri durante le vacanze, le lunghe giornate a guardarsi dei video, i pasti in famiglia a orari fissi, le festicciole a casa, le sorelle che invitano le amiche per ripassare le lezioni. Mi domandavo di cosa parlasse. Gli ho raccontato del quartiere.


Mi ha guardato come se abitassi in un altro paese. Poi è arrivato suo padre, felice e spaventato. E' un professorone all'ospedale di Algeri, un ex degli ospedali di Parigi. Lungo la strada, mi hanno lasciato alla stazione degli autobus. Slim il Viziato mi ha detto con una strizzata d'occhio: Fai un salto da noi quando torni dal tuo buco, ripasseremo le lezioni. Anche Rachel aveva dei gusti da ricco. Che bisogno c'era di pagare un taxi un occhio della testa quando ci sono gli autobus. Per due soldi ti portano in capo al mondo con i tuoi fagotti e tutta la famiglia. All'ingresso della stazione, un terreno abbandonato tutto allagato, recintato alla buona, dove un centinaio di autobus scassati lottavano per entrare, strapparsi i clienti e filarsela, stava una specie di spaventapasseri che dava indicazioni per rimettere sulla giusta strada chi si era perso. Gli ho spiegato il mio problema. Per cinquanta dinari mi ha detto, mentre rispondeva contemporaneamente ad altra gente disorientata: Sì, sì, proprio così, prendi l'autobus numero 12 per Sétif... tu l'8 per Orano... e tu il... ehm... il 36 per Sidi Bel Abbes... eh, cosa? Sì, quando arrivi a Sétif, prendi l'autobus per Borj Kedir... e tu... aspetta un po'... sì, tu prendi quello per Tiaret o Mascara, è lo stesso... e tu quello per Ouargla e da lì prosegui con la carovana che va a El Golea... e tu, tu fai l'autostop per arrivare a casa... dove hai detto che è? Ho ripetuto scandendo le parole.


Precipitandosi a litigare con un altro spaventapasseri che veniva a fargli concorrenza, ha risposto: Ain cosa... Deb?... sì, sì, è come ti dico. E mi ha piantato nel fango e nella ressa. E' andato tutto come ha detto lui e come ha raccontato Rachel nel suo diario. I convogli militari, i posti di blocco, i gendarmi, le strade deserte, il silenzio sbalorditivo, l'autista che va a tutta birra senza guardare, i viaggiatori che vomitano per la paura. La differenza era che diluviava e un vento siberiano ci sferzava di fianco. A ogni curva l'autobus sfiorava il precipizio. Se non ci ammazza il terrorismo, ci ammazzerà l'autobus. O il freddo. Ci siamo concessi una sosta in un villaggio che sembrava morto dai tempi dell'ultimo dinosauro. Non un uomo, non un'anima, solo dei trogloditi iperimbacuccati. Il barista ci ha servito un caffè bollente, ha incassato i soldi ed è corso a imboscarsi. Ho cambiato a Sétif. Sono organizzati meglio che ad Algeri, il tizio che dà le informazioni mi ha detto, e per soli cinque dinari: Tutti i minibus di colore azzurro vanno a Borj Kedir, non puoi sbagliare. A Borj Kedir ho trovato un abusivo che ha accettato di portarmi vicino a Ain Deb senza spendere tanto. La sua Peugeot 403 non somigliava a nessuna macchina conosciuta. Mi ha detto: Da quelle parti va male, c'è un andirivieni di gente, è strano. Gli ho domandato chi era quella gente e cosa voleva. Mi ha guardato e non ha risposto. Forse non si fidava di me, forse non mi capiva, usavo il mio francese approssimativo e tutto l'accento arabo delle periferie che riuscivo a tirar fuori. Confesso che anch'io non lo capivo molto, ho supposto che era di questo che parlava, i terroristi, lo vedevo lanciare continuamente occhiate a destra, a sinistra, come se temesse un attacco ai fianchi. Mi ha mollato alla biforcazione di due sentieri allagati, a malapena visibili nell'oscurità. Indicandomi la pista a sinistra, in salita, mentre quella a destra è in discesa, mi ha detto: E per di là... circa tre chilometri.


Ho capito dal gesto del braccio e dalle tre dita che mi agitava sotto il naso. Chilometri è una parola internazionale, non c'è bisogno di traduzione. L'abusivo è subito scomparso nel buio, a fari spenti. Ho tirato un bel respiro profondo e ho marciato sotto una pioggia battente, con un vento che per fortuna mi sferzava da dietro. Insomma, per farla breve, miracolo, sono arrivato a Ain Deb. Morto di fatica, di fame, di sete, bagnato fradicio, coperto di fango, e con le braccia a pezzi per la valigia di zia Sakina. E mi ero beccato un raffreddore. Se nei campi era così tutti i giorni, preferisco essere gassato subito, ho pensato mentre la notte diventava sempre più nera e lassù, sulla collina, là dove un giorno Rachel si era fermato come un uomo smarrito, la violenza del vento raddoppiava. Per poco non mi ha fatto precipitare nel vuoto ma, zavorrato dalla mia valigiona da emigrato, ho solo barcollato. E di colpo mi è venuta in mente la domanda cruciale: Come sarei stato accolto? Non avevo scritto, non avevo telefonato. Per dirla tutta, non ci avevo pensato, avevo deciso quel viaggio impulsivamente, grazie al regalo di Ophélie. Che importa, mi sono detto, con la morte di papà, mamma e Rachel, il contatto con Ain Deb è spezzato. Ero uno straniero che sbarcava per caso. Ma ero anche il figlio del villaggio, tornato sulle tracce di mio fratello, alla ricerca di nostro padre, di nostra madre, della nostra verità. Dalla collina il villaggio si vedeva a malapena. Aspettavo il lampo successivo per individuare dei punti di rife rimento. Procedevo a salti come un paracadutista. A un certo punto, mentre il cielo si infuocava in un diluvio di luce e rumore, ho visto del fumo serpeggiare sopra dei comignoli. Finalmente ero arrivato. Un ragazzo del quartiere non è mai a corto di idee. Trascinando la valigia, sono andato a bussare alla porta di Mohamed, il figlio del calzolaio, un amico d'infanzia. Mi sono ricordato che lo chiamavano Mimed e che a quell'epoca le sue scarpe non erano meglio delle nostre. Era il sistema migliore per entrare nel villaggio senza scatenare il panico generale.


Dovevano essere ancora ossessionati dal ricordo del massacro. Avanzando a passi felpati, pregavo Dio che Mimed fosse ancora vivo. A quell'ora tarda, erano le otto passate, la brava gente aveva recitato l'ultima preghiera e dormiva il sonno dei giusti. Tralascio i particolari, ho fatto la cretinata di grattare alla porta invece di bussare risolutamente, il che ha provocato dei movimenti furtivi dentro casa, seguiti da un conciliabolo terrorizzato, poi da un accenno di panico quando, invece di pronunciare chiaramente il mio nome, ho bisbigliato fra le mani a coppa: Mimed, apri, sono io, Malrich... Malrich è il mio soprannome in Francia, qui non lo conosce nessuno, hanno pensato che fosse una parola d'ordine o chissà che. Poi tutto si è risolto, ho parlato chiaramente, ho fornito le mie generalità: Sono Malek, il figlio di Hassan e di Aicha, il fratello di Rachid, apri, accidenti! Mohamed non mi ha riconosciuto e io non ho riconosciuto lui. C'è voluto un po' di tempo, per richiamare alla mente dei ricordi d'infanzia, per riuscire a dirci: Sei tu, Malek, il figlio dello sceicco Hassan, ma non è possibile! Sei tu, Mimed, il figlio del calzolaio Tayeb, ma non è possibile! Loro si aspettavano di vedere un vecchio e avevano di fronte un ragazzo, io mi aspettavo di vedere un ragazzo e avevo di fronte un vecchietto con una folla di bambini che urlavano dietro di lui aggrappandosi disperatamente ai suoi polpacci. I poveretti se la facevano ad dosso dalla paura. Mi ha abbracciato e mi ha fatto entrare.


I bambini sono scomparsi magicamente, li sentivo scalpicciare dietro la tenda. Sua moglie, una vecchia ancora giovane e in buona salute, mi ha offerto un avanzo di couscous, dei datteri e del latte, poi, dopo essere sparita un attimo, è tornata con un tappeto, una coperta, un cuscino e mi ha preparato un giaciglio davanti al camino. Ho mangiato come un lupo. Da uno spiraglio della tenda i bambini mi osservavano stravolti.


Non avevano mai visto dei forestieri, poveretti, non sapevano nemmeno che esistessero. Mohamed mi ha messo sulle spalle un burnus bianco e poi ha riattizzato il fuoco. In poco tempo sono tornato alla vita. Dato che per loro era spaventosamente tardi, le nove, e io ero stanco morto, mi hanno augurato la buonanotte e sono tornati nella loro stanza. Ho spento la fiamma della lampada e mi sono infilato sotto la coperta che profumava di pecora delle steppe e di spighe di grano. Nel camino, il fuoco ronfava, crepitava, spargeva scintille. Era bello. Vicino, in un vecchio cesto abbrustolito dalle fiamme, abitava una gatta con i suoi micini. Credo che mi abbia sorriso, i suoi occhi brillavano nell'oscurità. Era troppo bello. Fuori, il vento soffiava a tutta forza, la pioggia cadeva a raffiche e i cani del villaggio che avevano annusato un odore sconosciuto, il mio, abbaiavano con tutto il fiato che avevano in gola. Lo sapevo, me lo ricordavo: erano i figli dei nostri cani di una volta, avrebbero smesso solo all'alba, non prima di vedere le capre uscire e correre allegramente verso il fondo della valle e verso lo uadi in piena. All'improvviso mi sono sentito felice. Tutto questo è così innocente, così fantasticamente eterno, che uno dimentica tutto, le proprie disgrazie e quelle del mondo.


 


Quella notte ho dormito come un bambino. Non succedeva da tanto tempo.


 


DIARIO DI MALRICH. 16 dicembre 1996.


 


E' stata una giornata dura. Mi sono sorbito quello che si era sorbito Rachel, sono passato da una casa all'altra, ho bevuto un caffè dopo l'altro, ho biascicato tutte le lingue che sapevo e alla fine, un po' per non farmi soffocare, un po' perché la visita alle tombe non aspetta, non si fa al tramonto, Mimed mi ha portato al cimitero. Il sole che era ricomparso all'alba stava tramontando, circondato da grosse nubi ma ancor ben visibile, e non c'era più vento. E l'aria era gelida al punto giusto, pizzicava i polmoni come se fosse un'agopuntura. E così, eccolo, il campo dei martiri dove riposavano i miei. Era cresciuta l'erba, la calce sulle pietre era scomparsa e le pietre affondavano nel fango. I martiri erano dei morti come tutti gli altri, niente li separava, il loro spazio si era unito a quello dei morti normali. O forse, più giustamente, i morti normali si sono avvicinati a quelli assassinati per condividere la loro sofferenza. Ben presto saranno polvere insieme. La piccola lapide deposta dalle autorità non si vedeva più, i defunti subivano la stessa legge, quella del tempo che cancella tutto. Mimed si è allontanato e mi ha lasciato solo. Recitava delle preghiere per conto suo e io, per conto mio, davanti alle mie tombe, tentavo di raccogliermi in pace, di pensare ai giorni felici dell'infanzia, tra mamma e papà.


Non ci riuscivo, ma mi dicevo che ben presto avrei ceduto al fascino della meditazione come era successo a Rachel, al punto da ritrovarsi a filosofeggiare come un'intera assem blea di imam. Improvvisamente ho sentito una fitta. Un male atroce. Un dolore che mi ha straziato il ventre. Ciò che era lontano, che avevo appreso in differita leggendo il diario di Rachel, che ho interiorizzato, rimosso, relativizzato, era davanti a me, sotto i miei occhi, le tombe dei miei genitori, quella di papà, della mamma e le altre, i nostri vicini, i nostri amici, i miei compagni d'infanzia e i bambini che non ho visto nascere né crescere, ammazzati come cani da chissà chi. Mi è esplosa la testa, mi sono messo a singhiozzare, a urlare, mi si è appannata la vista, sono caduto in ginocchio e ho battuto la fronte per terra. Era tutto troppo ingiusto, troppo misterioso, troppe cose venivano taciute e l'impunità se ne stava lì, intorno a noi, trionfante, a rigirare il coltello nella piaga. Non sapevo che fare. E di colpo la pazzia si è impossessata di me, avevo voglia di distruggere, ero pieno di odio, ce l'avevo con me stesso, ce l'avevo con il mondo intero, ce l'avevo con Rachel, ce l'avevo con quel paese, ce l'avevo con quella povera gente. Le cose non dovrebbero andare così, ce l'avevo con loro perché vivevano nel silenzio, perché lo alimentavano a ogni costo, come un fuoco sacro, come un bastione che consolidavano contro se stessi, e perché si comportavano come se la verità, la vita fossero beni da nascondere, da tacere, e perché lasciavano crescere i figli nella menzogna, nella dissimulazione, nell'ignoranza, nell'oblio. Io ne pago il prezzo. Papà non ci ha detto niente e nemmeno Rachel mi ha detto niente, e le autorità non ci hanno informati di niente, hanno distrutto la nostra volontà. Eccoci qui, indifesi, miseri e fragili, e già pronti a qualunque concessione, a qualunque silenzio, a qualunque viltà. Siamo dei morti, poveri noi, delle pecore, dei deportati. Ce l'avevo con mio padre che aveva fatto di noi dei paria. Ce l'avevo con Dio che ha voluto che fosse così, lui che spazia come vuole nel suo universo, nell'invisibilità e nella tranquillità, che non sente le nostre grida e non risponde mai alle nostre preghiere. E poi, di lui non mi frega niente, la sua verità non è la nostra e la nostra verità non è la sua. Non è dei nostri. Ecco perché voglio, desidero che il mio diario sia letto dovunque nel mondo da persone come me, come noi. Non ho niente da nascondere, non voglio nascondere niente, mi vedano pure come sono, sappiano pure chi sono e da dove vengo. Mi sono alzato e con le braccia sollevate ho gridato: Sono Malrich, figlio di Hans Schiller, ss, colpevole di sterminio, porto in me il dramma più grande del mondo, ne sono il depositario e mi vergogno, e ho paura, e voglio morire! Imploro il vostro aiuto, non mi hanno detto niente, tutto è ricaduto sulla mia testa e non so perché. Mio fratello si è suicidato, i miei genitori e i nostri vicini sono stati assassinati e io non so perché né da chi, sono solo, solo come nessun altro al mondo! E a quel punto la vera ira, l'ira nera, mi ha afferrato al ventre: uno non ha il diritto di lamentarsi, di vero c'è una cosa sola, la vendetta, Naqam, ce l'avevo con gli integralisti, con quei cani, con quei nazisti, volevo ammazzarli tutti, fino all'ultimo, ammazzare le loro donne, i loro figli, i loro nipoti, i loro genitori, volevo distruggere le loro case, le loro moschee, le loro cantine, le loro cellule dormienti e inseguirli fin nell'aldilà e continuare a schiacciarli davanti a Dio in persona, quel Dio che loro proclamano di avere in franchising. E volevo festeggiare la loro morte come un 14 luglio, per salutare la nostra rinascita. Perché sono così, mio Dio?


Perché li hai fatti così? Chi può salvarli? Chi salverà le loro donne e i loro figli? Chi ci salverà da loro? Tremavo, sono caduto a terra e mi sono rotolato nel fango. Volevo morire, volevo morire. Lo gridavo con tutte le mie forze. Mohamed mi ha preso per le spalle e mi ha riportato al villaggio, come si accompagna un cieco. Dato che non capisce il francese, ha creduto che le mie grida fossero una rivolta contro Allah, ripeteva in tono di rimprovero: E il maktub, Malek... è il maktub, dobbiamo accettarlo. Allo ra mi è venuta voglia di uccidere anche lui, mi sono divincolato e gli ho detto: Il maktub, il maktub, è colpa sua se siamo così, dei pavidi e dei vigliacchi che si lasciano sgozzare come pecore? Mi sono subito pentito, mi vergognavo, per tutto il giorno gli agenti speciali dell'aeroporto ci avevano trattati come cani, come deportati, eravamo spaventati, affamati, intirizziti, bagnati fradici, ci avevano preso i bagagli a mano, i documenti, l'identità, ci avevano avvelenati con i loro gas di scappamento e abbandonati al buio, in quello squallido hangar, senza una parola, senza uno sguardo, e nessuno, né io né gli altri, aveva reagito, chiesto, preteso che ci venissero letti ad alta voce i nostri diritti prima di farci portare via. Ognuno diceva a se stesso: E' così, non possiamo farci niente. E tutti, in silenzio, già sollevati, abbiamo visto i nostri compagni salire di nuovo sul camion e andarsene verso l'ignoto. Gli ho detto tra i singulti: Mimed, non è il maktub, siamo noi il problema. Avevo bisogno di stare solo. Solo per sempre.


 


Sono andato nella casa dei miei genitori. La mia casa, adesso. Ero l'ultimo degli Schiller. Sapeva di abbandono e di muffa. Ho dato aria alle stanze e ho acceso un bel fuoco nel camino. Poi mi sono cambiato, mi sono messo il burnus bianco e mi sono seduto sullo sgabello della mamma; e ho cominciato a scrivere quello che mi passava per la testa.


Avevo bisogno di essere felice e spensierato per un paio d'ore, per ricaricare le pile, per non sprofondare nella follia. Ho scritto come mi veniva, piccole cose, la vita di tutti i giorni. Ho detto che zia Sakina e zio Ali sarebbero stati meglio qui, a Ain Deb. L'aria è buona, c'è un silenzio riposante. Nel quartiere sono prigionieri, lassù nella torre 13, al decimo piano, non escono mai, se non per la spesa che zia Sakina va a fare con la vicina di ballatoio, la vecchia Maimouna, sempre alla stessa ora, sempre le stesse cose, pasta, riso, salsa di pomodoro in scatola e un filone di pane bianco. Qui avrebbero tutta la campagna per sé e dei vicini che si aiutano fra loro, che non si rompono le palle con le scartoffie e i rumori della città. Avrebbero delle galline e qualche capra e il resto verrebbe da sé. Gli anni passano uno dopo l'altro, ti abitui, ti regoli sulle stagioni e un giorno muori senza che sia un dramma ma anche senza che passi inosservato. E il cimitero è lì vicino, è la stessa famiglia, ritrovi i parenti e continui con loro nell'aldilà.


Ho pensato ai miei amici e mi sono detto che al ritorno gli avrei raccontato tutto quello che gli ho nascosto, hanno vissuto fin troppo nel silenzio e nell'ignoranza. Forse è tardi e sapere li farà soffrire molto, ma forse guarderanno la vita con speranza, una vera speranza, quella che ti dà le ali e la voglia di usarle. Anch'io ne avevo bisogno, di vivere e di voler aspettare il domani. Ho pensato al quartiere e mi sono detto che potremmo cambiarlo. E' facile, non ci vuole niente, dobbiamo solo parlare e dire tutto ai figli. Il resto verrà da sé, e la disgrazia se ne andrà a gambe levate, non avendo più dove aggrapparsi.


Le autorità saranno obbligate ad ascoltarci, vedranno nel nostro sguardo fino a che punto sappiamo quello che vogliamo, la verità e il rispetto.


Gli integralisti non oseranno più avvicinarci, sloggeranno da soli, testa bassa, coda fra le gambe, barba a mezz'asta. Il diavolo se li porterà via, li divorerà e sarà tutto finito. Volteremo pagina e faremo una festa da sballo.


 


Ho pensato a Rachel e mi sono ripromesso di andare sulla sua tomba e di dirgli tutto, dirgli che so tutto, e che grazie al nostro diario il mondo intero saprà chi siamo e quello che abbiamo subito. Non dovremo più nasconderci, arrossire, mentire.


 


Questa notte non ho dormito, l'ho passata a parlare con i miei genitori come facevo una volta, con Rachel come non abbiamo mai fatto, con i miei amici come faremo presto. E come se fossi già felice.


 


Nota sull'organizzazione dei capitoli successivi e sulla scelta dei resoconti di Rachel, per le quali ho seguito i suggerimenti della professoressa Dominique G.H.


 


Il viaggio di Rachel a Istanbul e al Cairo si è svolto nel mese di marzo 1996, quindi dopo la sua lunga indagine in Germania, Austria e Polonia.


E cominciata a Francoforte nel giugno 1995, come si è visto in un capitolo precedente, e si è conclusa ad Auschwitz nel febbraio 1996. Un percorso logico, salvo per un particolare, che è essenziale. Rachel ha seguito fedelmente l'itinerario di nostro padre, come lo si ricava dal suo libretto militare, che parte da Francoforte, continua per vari campi della Germania e dell'Austria e si conclude in Polonia, a Lublin-Majdanek e non ad Auschwitz. Sul libretto sono annotate altre destinazioni, in Francia, in Belgio, ma Rachel ha pensato che non c'entravano con lo sterminio, erano missioni di breve durata, probabilmente di carattere scientifico in posti, Parigi, Rocroi, Gand e altri, dove il Reich non aveva dei campi. Papà era specializzato in chimica industriale, può darsi che lo avessero chiamato in questa veste in una fabbrica, in un centro di addestramento o in un laboratorio del Reich. Per un motivo che ignoro, Rachel ha lasciato Auschwitz come ultima tappa del suo giro, mentre nostro padre ci era stato a metà carriera. E perché, agli occhi della pubblica opinione, Auschwitz è l'emblema dello sterminio? Non credo. Rachel si era documentato bene, sapeva che l'orrore era uguale in tutti i campi e comunque, lo dice nel suo diario, i deportati venivano continuamente trasferiti da un campo all'altro, a seconda delle esigenze: quello che non subivano in un cam po lo subivano in un altro. Il fatto è che quella visita, più delle altre, lo ha terribilmente sconvolto. Credo che proprio lì, in un momento ben preciso, come vedremo, ha deciso di suicidarsi, di gassarsi, per l'esattezza, non appena tornato a Parigi. Forse l'idea l'ha avuta prima, fin dall'inizio, a Ain Deb, a Uelzen, a Francoforte, o altrove, a Buchenwald, a Dachau, o durante la sua lunga solitudine nella villetta dopo il licenziamento e la partenza di Ophélie. Auschwitz potrebbe essere stato solo il rivelatore, il detonatore. Forse a farlo decidere è stata anche, in modo molto particolare, quella strana scena che lo aveva così colpito ad Auschwitz e che racconta a lungo. Stando al libretto, al momento del tracollo nazista papà si trovava a Lublin-Majdanek. Le truppe sovietiche erano entrate in Polonia e puntavano su Berlino come un rullo compressore. Da quel momento si perdono le sue tracce. E' tornato in Germania con i suoi amici per difendere l'ultimo bastione, sono fuggiti in Austria, si sono imboscati in Polonia? Rachel non lo sa.


C'era un tale scompiglio tra le file naziste e una tale confusione in Europa che si possono fare tutte le ipotesi. Di sicuro c'è che a un certo momento, in Polonia o in Germania, si è stabilito un contatto con l'Unità 92, e così è riuscito ad arrivare in Turchia e poi in Egitto. Mi sono permesso qualche libertà nell'organizzazione dei capitoli e nella scelta dei resoconti di Rachel. Ho messo nel prossimo capitolo il suo testo su Istanbul e sul Cairo, e del suo lunghissimo giro tedesco e polacco attraverso i campi di sterminio ho tenuto solo il testo su Auschwitz che leggerete in un altro capitolo. Se avessi riprodotto tutti i suoi resoconti, il nostro diario sarebbe stato troppo lungo, troppo spaventoso da leggere. Un giorno ne farò un libro ma non so se molti riusciranno ad arrivare fino in fondo. In quel viaggio nelle profondità dell'orrore Rachel ha scritto centinaia di pagine, fitte di dettagliatissime informazioni tecniche sui campi e di storie incredibili quanto sconvolgenti, raccolte qua e là, alcune raccontate dalle guide che fanno visitare i campi, altre da ex deportati che ha incontrato, venuti in pellegrinaggio in questo o quel campo. Il contatto con quei sopravvissuti è stato straordinariamente doloroso per lui. Ha scritto delle pagine strazianti. Li avvicinava spacciandosi ora per uno studioso ora per il parente di un deportato. Li faceva parlare e li spingeva a entrare nei dettagli più precisi e più intimi di quello che hanno subito. Annotava anche i nomi. Eppure sapeva già tutto, era andato alla ricerca dei particolari in tutti i campi e si era fatto delle schede su tutto, spesso illeggibili, per la verità, sono appunti di lettura zeppi di formule, di simboli, di disegni, di scarabocchi, di citazioni: l'alimentazione dei deportati, la lavanderia, le fabbriche, i servizi ospedalieri, i centri di cernita dei vestiti, le cliniche sperimentali, il funzionamento delle famose commissioni di selezione, il mercato nero, l'avidità delle ss sempre a caccia di un gioiello nascosto, di una bella Nadia, di una buona bottiglia, una costosa pelliccia, una rissa sanguinosa da fomentare, le cerimonie militari, le commemorazioni civili e religiose, le grandi ispezioni dei Bonzen, i bordelli per kapò, gli harem degli ufficiali. Conosceva a memoria i suoi libri, ma voleva sentir raccontare quelle cose da chi aveva vissuto il Lager dall'interno, da chi aveva dimenticato che fuori esisteva un mondo, un mondo dove si vive, si balla, si legge, si impara, si ama, si comperano fiori, si allevano figli, si ringrazia Dio per i suoi doni. Era una cosa imbarazzante, lo ammetteva, ma agiva con tatto, faceva domande solo quando qualcuno sentiva il bisogno di parlare, e taceva, guardava davanti a sé annuendo quando improvvisamente quella persona era soffocata dai singhiozzi. Chiedeva, senza insistere, se si ricordavano dei loro carnefici, dei nomi, dei gradi, se avevano dei vizi particolari, dei comportamenti più duri di quanto imponeva il regolamento e se alcuni avevano dimostrato un po' di uma nità. Riportava sempre il discorso alle camere a gas, ai Sonderkommandos, agli Einsatzgruppen e ai soldati che sorvegliavano le colonne di condannati a cui toccava fare la doccia, e a quell'uomo discreto, il chimico del campo, che preparava l'immissione dello Zyklon B, e domandava se non gli tornasse alla mente un nome. Si colpevolizzava da morire, continuava a ripetersi: Quest'uomo conosce mio padre, non l'ha dimenticato, non lo dimenticherà mai, devo dirglielo, è la sua verità quanto la mia.


Signore, glielo devo dire, sono il figlio di Hans Schiller. Credo che non l'abbia mai detto, a nessuno, comunque nel suo diario non ne parla.


Non sarebbe stato bello, non si deve aggiungere sofferenza alla sofferenza.


 


Lasciando Dachau, Rachel si era ripromesso di andare un giorno a Gerusalemme a rendere omaggio allo Yad Vashem, il complesso commemorativo dell'Olocausto. Ha scritto: «Le vittime sono nei campi, la loro polvere, le loro ceneri sono in terra tedesca e polacca per l'eternità, è qui che devo chiedere loro perdono, davanti alla camera a gas, davanti al Krema, dove mio padre ha tolto loro la vita. Ma laggiù, allo Yad Vashem, potrò dare un nome a ogni vittima, è importante pronunciare i nomi di quelli che per mio padre sono sempre stati solo gente con la stella e matricole tatuate nella carne». Non è andato a Gerusalemme, allo Yad Vashem. Se un giorno me lo potrò permettere, ci andrò io per lui. E per me. E leggerò tutti i nomi ad alta voce, e a ognuno chiederò perdono a nome di mio padre. Ho pensato ai miei genitori che sono stati spogliati del loro nome e sepolti sotto falsa identità.


E' un bene, è un male, non lo so. Per Rachel era un punto essenziale, mentre a me sembra secondario. Sulla tomba della mamma c'è il suo nome da ragazza, Aicha Majdali, come se fosse morta nubile, senza figli, come una donna impura che nessuno ha voluto, e sulla sua tomba mio padre non ha un cognome, solo dei nomi propri e un soprannome: Hassan Hans detto Si Mourad, come se fosse un bastardo, figlio di padre ignoto. Non so cosa bisogna pensare, la storia è stata scritta così. Per il villaggio, Hassan Hans detto Si Mourad è lo sceicco, il mujahid, l'uomo dal grande cuore, lo shahid, e Aicha è la figlia di suo padre, il venerabile sceicco Majdali. Credo che davanti a una tomba con la scritta «Hans Schiller» sarebbero rimasti perplessi come capita di fronte a qualcosa che non si capisce. Mi pongo delle domande: le autorità conoscevano il passato di papà? Di sicuro durante la lotta clandestina e al momento dell'indipendenza, ma da allora ne è passata di acqua sotto i ponti, giurerei che i piccoli Bonzen di adesso non sanno niente, sono stati allevati nel culto della menzogna e nella disciplina dell'oblio. Con questo sistema, uno ha delle certezze e, eventualmente, delle vecchie prescrizioni vaghe che servono egregiamente per cavarsela. Per loro, Ain Deb è il villaggio del tedesco e quel tedesco si chiama Hassan Hans detto Si Mourad. E gli abitanti del villaggio? Lo sanno? Fanno finta di non saperlo? Papà è stato uno di loro per trent'anni filati, non ha mai raccontato niente, non gli hanno mai fatto delle domande, si sono capiti al volo, si sono tacitamente astenuti? E' brava gente, per loro l'ospitalità è un dovere sacro, a chi bussa alla porta non si chiede niente, ci si mette al suo servizio e se vuole fermarsi, gli si dà in moglie la ragazza più nobile e lo si integra. Hanno mai sentito parlare dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti? Oppure sono all'oscuro di tutto, come lo ero io, e sanno solo quello che può avergli detto l'imam? Ma anche lui, quel pappagallo da minareto, che cosa sa? Non penso che il governo insegni queste cose a scuola, i bambini potrebbero commuoversi, provare simpatia per l'ebreo, e allora comprendere certe realtà. Credo piuttosto che insegni l'odio per l'ebreo e tenga le menti ben chiuse a qualsiasi luce. Ricordo che quando ero nella Gioventù dell'fln, la Fln-jugend, come la chiamava Rachel, non si lesinava sull'argomento, gli istruttori avevano in bocca so lo questa parola, l'Yehudi, lo sporco ebreo, che sputavano per terra pronunciando la formula rituale per sciacquarsi la bocca: Che Allah lo maledica e lo faccia scomparire! Le cose devono comunque essere cambiate, penso che le abbiano impanate per bene o coperte di noce moscata. L'Algeria fa parte dell'Onu, è soggetta a degli obblighi formali, se non sostanziali, e ai Bonzen sta benissimo. Il paese è blindato come una cassaforte e il motivo è lo stesso: più la gente è povera, razzista e arrabbiata e più facile è governarla. Rachel ha scritto: «Non è con gente illuminata che si commettono dei massacri, ci vuole odio, accecamento e sensibilità alla demagogia. Quando nascono, gli Stati vengono sempre costruiti con dei pazzi e degli assassini. Uccidono i buoni, cacciano gli eroi, imprigionano il popolo e si proclamano liberatori». In fin dei conti, direi che nessuno sa. Un giorno, quando ci sarà di nuovo la pace, tornerò a Ain Deb con zia Sakina, e racconterò la storia di Hans Schiller a Mohamed, il figlio del calzolaio, lasciando a lui il compito di raccontarla al villaggio. Saprà rivolgersi a loro meglio di me.


Daranno i numeri, si rifiuteranno di crederci, litigheranno, mi malediranno, ma la verità è la verità, bisogna conoscerla. Si farà strada nella mente dei bambini.


 


Il viaggio di Rachel a Istanbul e al Cairo non aveva nessun valido motivo, lui sapeva tutto sulle organizzazioni che hanno permesso agli ufficiali nazisti di defilarsi e sfuggire alle azioni giudiziarie. A


Istanbul non è nemmeno uscito dall'albergo. Ci ha passato una giornata, sdraiato sul letto, a rimuginare davanti alla finestra, a scribacchiare, e l'indomani ha preso l'aereo per Il Cairo. Laggiù voleva capire come papà, dopo il colpo di stato militare contro la monarchia, fosse stato preso in carico dai Mukhabarat, i servizi segreti di Nasser, e poi inviato nella resistenza algerina come istruttore o con chissà quale missione. Ma chi può saperlo, i servizi segreti sono segreti e quello che com binano è segreto. Al Cairo Rachel ha fatto una cosa che mi ha divertito e mi ha dimostrato fino a che punto fosse arrivata la sua follia. Credo che questo giro in Turchia e in Egitto non avesse nessuno scopo. Passava il tempo, si decomprimeva dopo l'immersione negli abissi, faceva qualcosa aspettando il momento di morire. Quel momento, lo aveva scelto con grande precisione: il 24 aprile 1996 alle undici di sera. Il 24 aprile 1994 verso le undici di sera c'era stato il massacro di Ain Deb. Le vittime erano papà, la mamma e i nostri vicini, ma in quel momento anche Hans Schiller, l'ss, lo sterminatore, l'usurpatore, ha concluso la sua esistenza, portandosi nella tomba il suo segreto. Per Rachel, non era stata fatta giustizia. Ne ha portato il peso fino alla fine e adesso lo porto io.


 


DIARIO DI RACHEL. Istanbul, 9 marzo 1996.


 


Non c'è gente più irritante dei Turchi. Convinti della propria fama di popolo più intelligente degli altri, si ritengono in obbligo di dimostrarlo. Basta guardarli camminare, sembra che vadano a demolire muri a testate o a domare un ariete in calore. In linea generale, i popoli che vogliono essere all'altezza della propria fama mi scocciano.


Gli italiani fanno gli esuberanti e insistono quando nessuno gli chiede niente, gli spagnoli sentono di doversi adombrare solo perché uno gli chiede come sta la sorella, i polacchi ne bevono altri sei quando uno gli grida stop, gli arabi si inalberano e sguainano la sciabola mentre li si elogia per la loro leggendaria sobrietà, e che dire degli inglesi, che si ammantano di flemma quando uno gli fa notare che gli stanno andando a fuoco i vestiti. Degli algerini, a cui appartengo per metà, mi dà fastidio quel loro modo di atteggiarsi a re dell'ospitalità mentre hanno fatto del loro bel paese il posto più inospitale del mondo e del loro governo il più disgustoso che esista sotto il sole di Satana.


Quanto a noi francesi, meglio non parlarne, siamo un miscuglio di tutti questi difetti. E' il nostro lato universalista, per così dire.


All'estero, quando i disgraziati dicono «francesi» sanno di cosa parlano, i compatrioti che ci hanno preceduto gli hanno dato motivo di riflettere a lungo per misurare l'ampiezza delle nostre pretese.


Bisognerebbe tracciare la mappa delle reputazioni nazionali e darla in omaggio insieme alle guide turistiche, il viaggiatore modesto saprebbe dove andare e che argomenti evitare. A questi rinomati popoli bisognerebbe dire che si tratta solo di reputazione, possono sbarazzarsene e vivere in pace. Niente fama, poche storie e vivi la tua vita, ecco una regola da insegnare. Insomma, dallo sbarco in aeroporto all'hotel del Bosforo, nascosto in un ripido vicolo all'ombra della Grande Moschea, tutti i turchi che ho incontrato mi hanno guardato storto. Nessuno mi ha detto «Merhaba, Selam», e tanto meno «Günaydin» o «iyi günler» o «Guie guie», espressioni cortesi che si scambiano generosamente fra loro. E' vero che ispiravo paura e disgusto, con il mio aspetto cadaverico e il mio sguardo allucinato. Ero un morto, un morto che ne aveva viste troppe. Il poliziotto dell'aeroporto mi ha guardato come se fossi un trafficante di droga strafatto della sua merce, un tassista ha rifiutato di prendermi a bordo sostenendo che ero un malato contagioso e l'albergatore ha tanto esitato a rispondermi che ho creduto stesse per afferrarmi alla gola e chiamare i giannizzeri. Ma la verità è un'altra. Li ho trattati con arroganza, per me la Turchia era il paese che a suo modo, politicamente neutrale, ha legittimato l'Olocausto. Ha firmato un trattato di amicizia con il Reich, era vicina all'Asse, ha offerto una via di fuga agli ufficiali nazisti, ha nella propria storia un genocidio tanto più duro da sopportare in quanto ha l'orribile indecenza di non riconoscerlo. Perché non prende esempio dalla Germania, il cui crimine è di gran lunga il più grande di tutti i tempi? Ma che diritto ho io di scagliare la prima pietra, io che mi domando sino alla follia perché mio padre non si è fatto carico del proprio? Mi piaceva la Turchia, è un bel paese, l'aria è buona. La mia ex multinazionale ha una fabbrica di montaggio in partnership con un grande gruppo turco. Ci venivo spesso. Conosco bene la loro cucina. E tutti quegli intrallazzi di cui si dilettano, visto che tengono il piede in due scarpe, anzi in due babbucce, quella orientale e quella occidentale, prendendo un po' qui un po' là con un'aria così misteriosa da far nascere il sospetto che ci guadagnino su entrambi i fronti. Devo dire che mi irrita quel loro modo di essere laici la mattina e tenebrosi la sera, mentre uno gli sta di fronte tutto d'un pezzo, trasparente come il cristallo. Domani prenderò l'aereo per Il Cairo. L'aria è meno salubre ma lì, da quel che ho visto nei miei numerosi viaggi di lavoro, la gente tiene i due piedi nella stessa babbuccia. Osservavo dalla finestra quel mondo ambiguo, scuotendo il capo. A un certo punto, non so per quale ragione, forse perché ho scorto un giovane europeo seguire circospetto un vecchio ottomano con un paio di sarwal sbrindellati, ma solido come una quercia, e li ho visti scomparire tutti e due in un vicolo buio, mi sono calato d'improvviso nei panni di papà. L'ho preso come un modo per conoscerlo meglio, entro nei suoi pensieri, calco le sue orme e seguo il suo spaventoso itinerario. Sono contemporaneamente Jekyll e Hyde. Dopo uno straordinario giro per la Polonia, la Slovacchia, l'Ungheria, la Romania e la penisola balcanica a ferro e fuoco, più di notte che di giorno, più per campi e boschi che per città, immaginavo di raggiungere la Bulgaria, strettamente pattugliata dai sovietici, e da lì entrare di nascosto a Istanbul, dove dei turchi dovevano farmi passare clandestinamente la frontiera. Erano girate delle voci, ed erano arrivate nei campi proprio quando cominciava la liquidazione prima della chiusura, segnata ad Auschwitz dalla tremenda Notte degli zingari e in tutti i campi dal Massacro dei Sonderkommandos.


Sono state condotte delle trattative segrete fra la ReichssicherheitsHauptamt, i servizi di sicurezza militare tedeschi, che agivano per conto della Wehrmacht, delle Waffen ss e della Gestapo, e i servizi segreti turchi, in vista di un accordo che permetteva alle organizzazioni che facevano evadere gli ufficiali tedeschi di usare il territorio turco come zona di passaggio, almeno finché l'Europa fosse stata in preda al caos. Era l'unica via di scampo possibile, perché i paesi europei erano tutti occupati da qualche esercito e si ricercavano attivamente i collaborazionisti e i criminali di guerra. Grandi somme sono state versate su conti turchi in Svizzera per salvare l'elite dell'esercito tedesco. In seguito, nel '47, quando si instaurerà l'organizzazione Odessa, verranno aperte altre vie, in particolare attraverso la Svizzera, l'Italia e l'Austria. L'improvvisazione dei primi giorni era finita, si inaugurava una nuova era, quella del business, si parlava di milioni di dollari, di tesori nascosti, di preziosissime collezioni di quadri, di documenti di estrema rarità, di oggetti mitici che valevano il loro peso in diamanti, di fascicoli ultrasegreti, si negoziava con Stati, organizzazioni segrete di primo piano, emissari prestigiosi, si combattevano formidabili guerre sotterranee, si riattivavano ideologie a forte potenziale esplosivo.


Nessuno si ricordava più del deportato e del suo dramma senza capo né coda, come se fossimo già in un'altra guerra mondiale. La domanda aumentava, tutti volevano il loro tedesco, il loro esperto in missili, carburante solido, armi chimiche e atomiche, medicina e genio militare, organizzazione militare-industriale, codici cifrati e decodificazione, propaganda, opere d'arte, gestione delle minoranze. Chi non ha fatto affari con Odessa? Immaginavo di inoltrarmi nei vicoli della medina, come quell'europeo furtivo in cerca di un'avventura inconfessabile, e scomparire in un caravanserraglio di dubbia fama. E li aspettavo, come faccio in questo alberghetto, passando le giornate a tener d'occhio i dintorni attraverso una mashrabeya sconquassata, scuotendo il capo.


Immaginavo di ascoltare, sobbalzando al minimo rumore, la Bbc che annunciava trionfalmente la fine del mondo, la fine del nostro mondo, il bombardamento delle nostre città, una dopo l'altra, le truppe alleate e russe che si contendevano il Reich e la nostra cara Berlino, l'arresto dei nostri grandi dignitari, il suicidio del nostro Führer, la resa di intere divisioni del nostro magnifico esercito, la popolazione affamata che vagava per le strade devastate. Pensavo a Uelzen e sentivo i miei vecchi genitori gemere sotto le macerie. Mi immaginavo prostrato, con la testa fra le mani, incerto se suicidarmi, continuare la lotta o fuggire.


Poi una mattina, all'alba, sono venuti a dirmi che la via era libera, che dovevo sbrigarmi e non parlare in tedesco. Mi hanno vestito alla turca, consegnato dei documenti falsi, forse trasmesso un messaggio del mio lontano benefattore, il famoso Jean 92, e spinto su un camion che risaliva alla Prima guerra mondiale. C'erano anche altri ufficiali tedeschi? Perché no, probabilmente, erano migliaia a tentare di salvarsi la pelle. Nonostante le grida e le minacce, mi sono rifiutato di abbandonare la mia sacca, conteneva ciò da cui un ufficiale del Reich non poteva mai separarsi, il libretto militare e le decorazioni. E poi la guerra non era finita, poteva incanalarsi su altre strade, quella della resistenza, della clandestinità; quando si programma la vittoria, si prevede necessariamente la disfatta, senza dubbio lo stato maggiore aveva elaborato dei piani per far fronte a una simile ipotesi. Era quello che erano riusciti a fare i francesi dopo la rotta, e pur non essendo i migliori strateghi del mondo, erano partiti alla riscossa da Londra e da Algeri. Il viaggio fu lungo, duro, inframmezzato da allarmi, e un giorno mi hanno bisbigliato all'orecchio che la frontiera era al di là dell'orizzonte dove mi aspettava una guida siriana. L'Egitto era ancora lontano, ma l'Oriente era già lì, con il suo sole, i suoi deserti, le sue carovane, il suo disordine incredibilmente variopinto.


Non era certo lì che avrebbero trovato un ago nel pagliaio. L'anonimato è garantito quando tutti indossano la gellaba e portano una kefiah in testa. L'Egitto era sotto il controllo della Gran Bretagna ma la situazione era così complessa, e la confusione così grande, che era consentito sperare, tutto era possibile, si poteva scomparire e ricomparire a piacimento. Re Faruq era per così dire finito e nessuno poteva dire cosa sarebbe successo dopo. C'erano solo voci, indiscrezioni cosmopolite che si neutralizzavano a vicenda, si compenetravano, si spintonavano in una spirale informe. Le spie del mondo intero avevano piantato le tende in Egitto, travestite da sorridenti diplomatici, pensosi archeologi, avidi mercanti, appassionati dell'islam, turisti pecoroni, con un occhio sulle torri di perforazione del canale di Suez e l'altro sulla spia di fronte a loro. E' il Medio Oriente, qui niente è chiaro fin dalla notte dei tempi. Avevo studiato tutti gli itinerari possibili per raggiungere l'Egitto e avevo concluso che mio padre ci era andato via terra. Per mare era più breve ma più pericoloso, la marina americana e quella inglese erano ovunque, in stato di allerta permanente, la guerra era finita ma le ceneri non si erano ancora raffreddate del tutto, le loro navi pattugliavano, effettuavano ispezioni in alto mare, controllavano, requisivano, il Mediterraneo era il cuore di più mondi, il crocevia di tutti i traffici, oppio, sigarette americane, alcol, armi, carte segrete, documenti falsi, oggetti d'arte, tratte di ogni tipo, compresa la pirateria ai danni dei pellegrini dell'Europa e del Maghreb diretti alla Mecca, a Najaf, Qom, Kerbala, Gerusalemme. Gli inglesi erano particolarmente incavolati con gli ebrei, decisi a impedirgli a qualunque costo di raggiungere la Palestina, dove volevano fondare uno Stato in Galilea e nel deserto del Negev, lo Stato di Israele, un'iniziativa destinata a mandare su tutte le furie gli arabi che già si accapigliavano con chiunque fiatasse, minacciavano, sognavano l'indipendenza, intrallazzavano con il comunismo, il socialismo, il panarabismo, il fondamentalismo, e quella ridicolaggine, oltretutto giudaico-cristiana, che è la democrazia, e alla fine non hanno combinato niente, essendo troppo divisi, troppo ricchi per i loro sogni, troppo poveri per realizzarli, il che alla fine li ha spinti fra le braccia tentacolari di Mosca. Come spesso accade, la via più lunga è quella meno pericolosa. Sono giunto alla conclusione che mio padre e le sue guide sono passati da Adana, Dòrtyol e Hassa nella Turchia orientale, sono entrati in Siria da Afrin da dove hanno raggiunto Aleppo e Damasco, poi alMafraq, in Giordania, e da lì Amman e Ramm, a sud del regno. A quel punto non restava che attraversare il golfo di Akaba, sbarcare nel Sinai e superarlo a dorso di cammello fino a Suez e al Cairo, il capolinea del viaggio. Un viaggio di molte migliaia di chilometri sotto il sole più antico e più implacabile che esista. Sono uscito spossato da quel viaggio lungo quanto noioso attraverso tutti quei deserti d'Oriente. Ho fatto una doccia, mi sono buttato sul letto e mi sono addormentato.


 


VIAGGIO DI RACHEL AL CAIRO. 10-13 aprile 1996.


 


Sono stato spesso al Cairo all'epoca in cui facevo il commesso viaggiatore per una multinazionale. Mi piaceva da morire, ci andavo come si va a un appuntamento con il sole e con il sogno, impaziente di immergermi in autentiche folle variopinte, lasciarmi trasportare dall'atmosfera caotica che esiste solo in questi paesi del sud pieni delle più insensate contraddizioni, come l'Egitto, caparbiamente abbarbicato al passato ma lontano dalla sua storia plurimillenaria, aperto sul mondo ma soltanto attraverso la finestrella del turismo, riposante ma unicamente nei suoi monumenti funebri. E' così, ci attrae ciò che è strano, ciò che è conforme a noi ce lo lasciamo alle spalle, a casa. Questo paese è un miracolo, vive solo grazie al suo delta, quindi ai suoi miseri orti e ai suoi vecchi fellah che sembrano usciti da un bassorilievo, ed è davvero poco. Ma chi dice agricoltura dice irrigazione e da noi, nella nostra multinazionale, significava pompe, saracinesche idrauliche e piccole prestazioni chiavi in mano, pagabili in dollari. Vedevamo le cose in quest'ottica perché non ce ne sono altre, un mercato ha bisogno di mercanti. Noi eravamo mercanti e conoscevamo le loro esigenze, le loro incommensurabili debolezze e i loro drammi in forma di racconti senza capo né coda più di quanto sarebbero mai riusciti a conoscerli loro. Si chiama analisi di mercato, the market analysis, e produce una strategia di conquista, a global marketing strategy. Al via libera dei boss, siamo piombati su questo disgraziato paese come avvoltoi, come una maledizione biblica. Il tempo di sollevare la testa e dire «Allah akbar» ed era già rifornito di tutto punto e indebitato per il resto dei suoi giorni, non poteva più sperare di ve dere l'acqua del suo mitico fiume giungere serenamente al vecchio mare come aveva fatto per millenni, accompagnata dalla straziante cantilena dei timonieri dei sambuchi e dall'assurdo verso dei gabbiani, e talvolta, in circostanze particolarmente favorevoli, dal tenero balbettio di un neonato paffuto che si agita nella culla di giunchi trasportata pian piano dalla sacra corrente. Quell'acqua sarebbe stata intercettata, deviata, trattenuta, frullata, filtrata, canalizzata, pompata, fertilizzata, sfruttata fino all'ultima goccia, e soltanto dopo riversata nel vecchio Nilo traumatizzato che la portava al capolinea, sporca e nauseabonda. Insomma, era la fine delle leggendarie piene del Nilo, attese come un gesto degli dèi e festeggiate come l'anno nuovo. Lo abbiamo fatto, per trenta denari e un bakshish del cinque per cento: cambiare il corso di una storia antica come il mondo. Dovranno aggiornare i loro geroglifici. Dopo il business, il bagno di folla, la comunione con i fratelli della medina. Appena usciti dagli uffici con aria condizionata scorazzavamo nei quartieri poveri, autentici come sa immaginarli solo la miseria del sud. Sopravvivono per miracolo, respirano per misericordia divina. Cercavamo le strade più sinuose, i vicoli più stretti, l'autentica confusione dei miracolati, il vero diluvio di colori, di rumori, di odori, il sorriso disordinato dei poveri, i masakin, gli instancabili imbonimenti dei bottegai che hanno un modo arcaico e cosi' improvviso di abbandonarsi alla fiducia da ingannare parecchi truffatori internazionali, gli slanci lirici degli straccioni, gli assalti delle orde di bambini, i Bounayes, i waled, le sceneggiate dei ladri da suq, i sirakin, le geremiadi degli uscieri, ciccioni che piangono miseria e prosperano come zecche sulla sventura degli innocenti, le bestemmie dei carrettieri, le invocazioni dei mendicanti, i tullab, così patetiche che nessuno le sente, le declamazioni oniriche degli scrivani pubblici le cui orecchie sono così piene di confidenze che l'uomo più devoto perderebbe la fede solo avvicinandovi il naso, e dietro a tutto ciò cercavamo, attenti come aquile, lo sguardo delle egiziane in tunica aderente e con la fronte ornata di fiocchetti multicolori. Se i mariti sono nei paraggi, alla loro ricerca, stan no perdendo tempo, non sono in grado di dominarle checché ne dica il loro sguardo fulminante e lo schiocco del bastone. Le donne dispongono di tanti stratagemmi per sviare quei potenziali assassini. Ed eccole, come uscite da un sogno clandestino, la malizia fatta demone, scivolano con passo ondeggiante, le braccia a ventaglio, il seno opulento, il sorriso sbarazzino, e tra il naso e la fronte due occhi magici. Questo cercavamo attraverso di loro: lo sguardo vivente della Sfinge che dardeggiava al di là dell'Aldilà. E' furtivo e ammaliante come l'immortalità vissuta alla giornata, un lampo dopo l'altro, e ben più pericoloso di una maledizione del faraone, fosse anche Tutankhamon. In ognuna di loro vedevamo una Cleopatra rediviva, una malika degna dei califfi, una uri cara ad Allah, una principessa delle Mille e una notte, una meravigliosa sirena scaturita dall'universo inquietante dei jinn. Tra noi che avevamo viaggiato e visto molto, ci dicevamo che su questa terra niente incoraggiava l'indolenza quanto lo sguardo scintillante di un'egiziana arricchito dal khol, illuminato dal più vecchio mistero del mondo.


 


Compiuto il pellegrinaggio, e chiuso in valigia il piccolo scarabeo di ebano o la piccola mummia di argilla per Ophélie, si tornava alla tristezza dei nostri paesi lontani, terrorizzati alla prospettiva di ritrovare l'implacabile realtà del mondo moderno. Ma questi sono ricordi di un'epoca ormai lontana, operosa e spensierata. Eccomi prigioniero del passato, sprofondato nella spaventosa guerra, schiacciato sotto il più grande dramma di tutti i tempi, e oltretutto torturato dal mio stesso padre. Perciò non posso più guardare l'Egitto come uno sogna davanti a una cartolina. Mio padre ci è arrivato con i suoi crimini chiusi in valigia e, a quanto pare, è riuscito a spassarsela, a rifarsi una verginità, a ottenere un posto fra gli spioni egiziani. E' questo che devo verificare: com'è possibile, uscendo dall'inferno che ci si è costruiti con le proprie mani, da quella vita intensamente lugubre dei campi, vivere in un fantastico paradiso dove il sole è re, l'umiltà regina, la miseria piacevolmente disordinata, il narghilè e il tè bollente a portata di mano, l'ombelico delle danzatrici ad altezza d'occhio, il letto spalancato sulle stelle? A cosa si pen sa, quali rimpianti si nutrono, quale piacere può far dimenticare il dolore dispensato a piene mani in un'atmosfera così densa, così cupa, in un balletto meccanico ritualizzato fino all'assurdo, prigionieri di una pazzia senza fine e di una quotidianità che si riduce al nulla, a sentire trasudare la sofferenza dalle pareti e contemplare fumi neri che si levano in cielo? L'uomo è abbastanza malvagio da perdonare tutto a se stesso, lo capisco benissimo, ma nessuna compassione, nessuna ebbrezza, nessuna autocommiserazione può toccare questi vertici di infamia. O altrimenti, quest'uomo non è un uomo, nemmeno un sottoprodotto, è il diavolo in persona. Mio Dio, chi mi dirà chi è mio padre? Si fa presto a constatarlo, per poco che uno si guardi intorno, il vecchio Egitto, l'Egitto felix, l'Egitto cosmopolita, chiassoso e romantico di Nagib Mahfuz non esiste più. L'Egitto moderno, Misr, è schiacciato da due colossi imponenti come le grandi piramidi: la Polizia e la Religione.


All'uomo libero non rimane un centimetro quadrato su cui poggiare i piedi. Se non lo richiama all'ordine il poliziotto, lo shurti, lo fa il fanatico, l'ihrabi. Polizia del Rais e religione di Allah si sono alleate per rendere la vita su questa terra disumana per chiunque.


Sofferenza e disonore sono i due binari di questo triste destino. Non credevo che in questi paesi sfiancati dalla fede e dal bastone le cose evolvessero così in fretta. La mia ultima visita al Cairo risale a due anni fa, avevamo consegnato la nostra ultimissima megapompa, la H56, dove H sta per orizzontale e 56 per il diametro di uscita espresso in pollici, e da quel che avevo visto, scortato dalle guide ufficiali, preceduto da un'avanguardia di premurosi shurti, la pressione era piacevolmente poetica, uno poteva avere la tentazione di convertirsi e cantare a squarciagola la propria felicità. I nostri accompagnatori erano addestrati per ingannarci, lo sapevamo, ma adesso saltava agli occhi che la garrotta era stata ulteriormente serrata. Quelli che girano per le strade non sono uomini, ma perseguitati in cerca di un rifugio per la notte, lontano dal commissariato e dalla moschea. Questo paese è invivi bile, non è fatto per gli uomini, né per i santi, e tutte le cartoline del mondo non cambieranno questa realtà. Compiango l'egiziano che non è né un poliziotto né un fanatico. Ho girato per la città con molta ansia. Mi controllavo. Niente gesti inopportuni, niente sguardi smarriti, niente brutti pensieri. Sono passato davanti al ministero dell'Interno e alla sede del Mukhabarat. All'epoca, mio padre ha frequentato questi posti, gli hanno fabbricato dei documenti, l'hanno costretto ad assumere certi impegni in cambio dell'ospitalità del re, al quale sarebbe poi subentrato Nasser. Che cosa possono avergli chiesto se non di infiltrarsi negli ambienti europei del Cairo, decodificare documenti segreti procurati sul mercato nero, preparare un gas bellico, e in seguito fare da consulente ai rivoluzionari algerini insediati in un modesto stabile del centro? Mi sono rapidamente accorto che mi avevano individuato: sgherri che strisciavano lungo i muri, ferrivecchi indistruttibili che fingevano di essere in panne, marinai che leggiucchiavano il giornale sottovento. Me la sono svignata in tempo.


Dal '45, le cose sono cambiate, le tende alle finestre, le auto di servizio, l'abito degli impiegati, la geremiade dei piantoni all'ingresso, il suono delle sirene, ma il clima è il medesimo. Hans Schiller, l'ss, era a suo agio, nel suo elemento. Poi mi sono ricordato che l'Egitto non è mai uscito dalla guerra, se non la faceva, gliela facevano gli altri. Una litania: la guerra contro i mamelucchi, contro i turchi, contro il re, le guerre contro gli inglesi e i francesi, la guerra all'imperialismo americano, le guerre contro Israele, la guerra al terrorismo islamico, la guerra ai copti, la guerra ai miscredenti, la guerra contro il Grande Satana, e la peggiore di tutte: la guerra contro il popolo. Avendo fatto tutte le guerre, il che è un prezioso vantaggio, gli resta da fare una cosa, la pace con se stesso, per ritrovare la felicità di un tempo, quella del grande Egitto, placido ed eterno.


 


Sono tornato indietro, mi sono mescolato ai turisti. Loro non sanno niente, non sospettano niente, se ne fregano, della storia come di tutto il resto, sono qui per il sole e per la foto ricor do. Sono poco impegnativi. E quanto mai arroganti: com'è possibile farsi filmare accanto alla grande piramide, come se fosse una vecchia conoscenza, un'amica! Lei è eterna, e loro quanti anni hanno vissuto e quanti gliene restano da vivere prima di scomparire sottoterra? Mi domando perché, fuori dal proprio paese, il turista dimentichi di essere una creatura umana, un mortale. Foto ricordo, dicevo. Ne avevo una in tasca che mi assillava, quella di papà all'ombra della piramide di Cheope, trovata nella sua valigia, nella casa di Ain Deb, una sera di solitudine assoluta. Ed eccomi di nuovo in pieno delirio, a frugare nel male, a guardare papà vestito da gentleman della Belle Epoque, in posa davanti a un gruppo di lady sotto la piramide. Ci voleva un po' di spensieratezza e delle risorse finanziarie per dedicarsi al turismo, a quei tempi era un'occupazione da ricchi abituati alle crociere, avvezzi alla villeggiatura. Non so a quando risalga la fotografia, probabilmente all'epoca di re Faruq, tra il '45, quando papà è arrivato in Egitto, e il '52, quando il sovrano è stato deposto dal generale Neguib.


Pensandoci, direi fra il '46 e il '47. L'estate del '46 o quella del '47. Nel '48 in Medio Oriente la situazione era così tesa, a seguito del conflitto in Palestina, che in Egitto il turismo è cessato per parecchi anni. Le lady e i loro abiti eleganti fanno pensare a stili di vita come quelli della monarchia. Non credo che papà si sarebbe vestito da dandy, in completo e cappello bianchi, sotto il regime dei colonnelli, Nasser aveva fatto dell'austerità rivoluzionaria la sua virtù e intendeva imporla a tutti. Immagino la vita a quei tempi monarchici, i ricevimenti fastosi nelle missioni diplomatiche, le lussuose navi e le grandi dimore di pascià e visir, le passeggiate a cavallo nei vasti possedimenti degli effendi, le visite erudite al favoloso museo del Cairo, le indolenti crociere sul Nilo, da un sito archeologico all'altro, dal delta a Karnak e Assuan, le salutari incursioni di quei signori nei piccoli hammam thailandesi, negli harem clandestini e nelle fumerie delle catacombe.


Nessuno ha saputo rendere efficacemente quell'atmosfera lieve, raffinata, cinica e tesa quanto Agatha Christie, la regina del crimine civilizzato. Papà ha vissuto alla grande, era istruito, parlava varie lingue, possedeva una vasta cultura come molti ufficiali tedeschi, era bello, elegante, e soprattutto aveva un'enorme esperienza della morte, che conferisce al cinismo cospiratorio indispensabile nei salotti importanti un'autentica profondità, tragica, spietata, affascinante.


Deve aver fatto una gran bella figura con quelle dame e con i loro influenti protettori, il che ha facilitato il suo lavoro di spia al servizio del re e, perché no, di altre potenze. Penso ai sovietici, che certamente hanno scoperto il suo passato nazista e gli hanno proposto un contratto che non poteva rifiutare. Israele non è lontano, potevano spedirgli una valigia piena di ceneri ebraiche e disegnare una stella gialla sulla porta di Hans Schiller, l'ss. E poiché ho inforcato i pensieri di papà e calcato le sue orme, anch'io mi darò come lui alla bella vita. Vedremo cosa salterà fuori. Non mi restano più molti soldi ma l'Egitto è in miseria, con i miei ultimi dollari, cambiati al suq mi potrò permettere a sufficienza quei piaceri insipidi che assapora il visitatore micragnoso. Mi sono mescolato alla folla dei turisti da viaggio organizzato e, tutti eccitati come esigeva la nostra cara guida, abbiamo scorazzato per Il Cairo by day e by night, attraversato il museo, disturbato abitudini, saccheggiato il suq, pisciato nel Nilo, passeggiato sui grandi viali, e ci siamo rumorosamente accampati in quei mitici caffè per i quali la città era così famosa un tempo, all'epoca del grande cinema egiziano, delle grandissime dive e delle leggendarie spedizioni archeologiche internazionali. Quello splendore non c'è più ma, facendo buon viso a cattivo gioco, ci si può adattare alla miseria se ci si limita a sfiorarla: abbiamo bevuto tè appiccicoso invece di champagne, usato autobus sgangherati invece di carrozze e limousine, camminato molto sotto il sole arido invece che all'ombra dei parasoli sorretti dai domestici, e commentato baldanzosamente i misteri ciclopici dei faraoni. Poi siamo andati a Giza e, come tutti, ho pensato di farmi scattare una fotografia ai piedi della grande piramide. Ma la volevo un po' speciale. Insieme a delle vecchie lady. Mi sono guardato intorno e ho scovato un gruppetto come me lo immaginavo, alcune inglesi rosee, rotondette al punto giusto, con le braccia nude, e fra loro, miracolo, una spigolosa come una selce, avvolta in uno scialle ispido, una sosia della terribile Vittoria. Per realizzare il mio progetto, mi restava solo ottenere la loro collaborazione. Quelle vecchie gatte si sono subito leccate i baffi. Ho chiesto in prestito il panama a un turista olandese ammirato, ho voluto un fotografo professionista, ho messo in posa le mie lady come su un palcoscenico, ho sorriso loro di sottecchi e ho gridato al fotografo: - Maestro, a lei! - Cinque minuti dopo avevo la mia istantanea. Un duplicato perfetto dell'originale, a parte il mio aspetto da deportato. Dietro ho scritto: «Helmut Schiller, figlio di Hans Schiller. Giza, 11 aprile 1996». Tra le due foto c'è mezzo secolo, e alcuni milioni di morti andati in fumo. Per concludere, mi sono congratulato con me stesso: non mi ero tirato indietro di fronte a niente per andare al fondo delle cose. Al Cairo non avevo più nulla da fare. Né altrove. Torno a Parigi, ho un appuntamento a cui non posso mancare. Al punto in cui sono, può essere solo la fine. E' il 24 aprile che i miei genitori sono morti, è quel giorno che Hans Schiller si è sottratto per sempre alla giustizia degli uomini. Ma essa è necessaria affinché l'uomo che io sono continui a credere, per il tempo che gli resta da vivere, che in noi esiste un atomo di bene. La giustizia di Dio non mi interessa, non ci penso. Quaggiù ha fallito, perché dovrebbe avere successo lassù? Farò io giustizia, posso farla meglio di lui.


 


DIARIO DI MALRICH. Gennaio 1997.


 


Inutile dirlo, uscire dall'Algeria non è uno scherzo. Mio Dio, quanto ci è voluto, quei documenti, quegli Ausweise, quei controlli, quelle attese, quei cavilli, sembra che non pensino ad altro, i Bonzen di Algeri, che a torturare la gente. Una vera Gestapo. Avevo i nervi a fior di pelle, e una gran paura che mi mettessero dentro. Quando, a un certo punto, appena superato l'ultimo controllo, un graduato in giubba blu è venuto a dirci: Tu... tu... tu e tu, seguitemi!, ho creduto che fosse arrivata la fine. Per fortuna non era niente, gli servivano quattro ragazzi robusti per scaricare da un camion una grossa cassa e trasportarla in un ripostiglio nel seminterrato. Ancora non ci credo, ci ha detto grazie e ci ha offerto una sigaretta ciascuno. Ho cominciato a respirare solo quando l'aereo è decollato e ha superato il punto di non ritorno. Mi sono addormentato subito. Dovevo recuperare le forze per affrontare il quartiere. Ero teso, avevo un brutto presentimento. Mi aspettavo sconvolgimenti straordinari e in effetti, tra Orly e il quartiere, gli amici, venuti ad accogliermi come un eroe, mi hanno raccontato abbastanza da convincermi che non lo si riconosceva più. Tra quello che uno si aspetta e quello che uno trova c'è differenza. Bisogna relativizzare. Il quartiere era il quartiere, identico e fedele a se stesso. La differenza stava nella sensazione, credevo di essermene andato da tanto tempo e, davanti ai soliti muri, mi pareva di essere sempre rimasto lì. Il tempo non scorre alla stessa velocità se uno è in treno o sulla banchina. Ero scosso. Non avevo esperienza di lunghi viaggi e dei disagi che causa la relatività. Otto giorni sono tanti e sono pochi. In Algeria, avevo l'impressione di averci passato un anno intero tanto ogni secondo era stato pieno di significato per me, e di ritorno in Francia, di fronte a queste torri, avevo l'impressione di essere stato via al massimo per qualche ora. E mentre gli amici, che non si sono mossi di un centimetro, erano convinti che su di loro fosse passato un secolo, io li vedevo come li avevo lasciati poco prima. Ben presto, il tempo di fare un giro di ricognizione, salire a dare un bacio a zia Sakina e a zio Ali perso nella sua nebbia, e di ritrovarci al bar della stazione, tutto è andato a posto, ero sincrono, soffocato come loro dal clima pesante del quartiere in sintonia con il suo integralismo conquistatore. Bisognava fare il punto della situazione. Un'analisi obiettiva, possibilmente. Da cui emerge che il regresso è continuato al ritmo abituale, così così, con un po' più di intensità e nervosismo da quando ci sono Feccia, l'emiro, e il Guercio, l'imam. Il tasso di violenza è aumentato di vari punti ma non siamo alla guerra civile; qualche ferito ma niente morti; minacce di morte a palate ma nessuna concretizzata; per il commerciante musulmano l'imposta della jihad è aumentata vertiginosamente, ma il racket è crollato; per i non musulmani la confusione è totale, giurano che non bastano più due tasche per far fronte alla domanda, minacciano di delocalizzare, di protestare contro il fisco, di occupare il commissariato; certi ragazzi hanno lasciato la scuola per la moschea, certe ragazze hanno indossato il velo, alcune si sono chiuse in casa, degli uomini sfiniti dalle prediche somministrate con le maniere forti si sono messi un berretto in testa e una kefiah sulle spalle e hanno cominciato a predicare anche loro, gli ultimi irriducibili del bar sono astutamente passati al rosario, gli spacciatori della porta sud sono scomparsi ma non è detto che siano morti, forse sono emigrati, si nascondono, torneranno. Nel complesso, la struttura sociale è cam biata senza fratture clamorose. In settimana abbiamo pianto trenta traslochi, compensati però da trenta nuovi arrivi, dei maghrebini, uno del Mali, un pakistano, un somalo, un sudanese, uno di Capo Verde, un rumeno. La consistenza della popolazione è rimasta stabile ma la sua gamma etnica e confessionale si è un po' ridotta. Sono comparsi dei nuovi kapò, più agguerriti, al posto di quelli vecchi, congedati per lassismo e comunella. E Com'Dad? ho domandato. Non si capisce quale sia la sua strategia, mantiene il livello di allerta 4, aspetta di vedere. Comunque fa la sua maratona quotidiana due volte più in fretta del solito. E la gente? Be', aspetta di vedere. Non era molto ma mi sono cascate le braccia. Come si poteva fermare il treno? Visto da Ain Deb, tutto mi pareva semplice, immaginavo che in un attimo il quartiere si risvegliava dall'incubo, mi dicevo che bastava che la gente si parlasse e dicesse tutto ai figli. In preda all'emozione, immaginavo di superare la mia timidezza, salire sul tetto di una macchina e parlarle di fraternità, di verità, di raccolti futuri. E invece sono stati gli emissari del Guercio, l'imam, a venire a parlarmi. Ha saputo dalle sue spie che i miei genitori sono stati assassinati dagli integralisti e che sono stato al paese a visitare la loro tomba, ci teneva a benedirmi e a rivelarmi che cosa è veramente successo. Senza esitare, ho detto che sarei andato. Mi offriva l'occasione di ucciderlo al posto dei suoi amici algerini, non l'avrei sprecata. Quando uno non può fare niente, la vendetta è l'unica risorsa. Anzi, che dico, è un dovere.


 


Sono stato nella zona delle villette. Gli amici mi hanno informato che quella di Rachel aveva trovato un acquirente. Fa male vedere la sua casa occupata da estranei. Mi sono avvicinato con le mani dietro la schiena come uno che va a spasso. Ufficialmente non avevo più motivo per gironzolare da quelle parti. La villetta era tutta illuminata da cima a fondo. Tende alle finestre, un cane che abbaia, una tivù che canta, un trapano che stride, colpi di martello, risa di bambini. Nel garage, spalancato, scatoloni, mobili. I nuovi inquilini erano in pieno trasloco, stavano cancellando le nostre tracce e imprimendo le proprie.


Fa male vedersi raschiare via a questo modo. Sanno che in casa c'è stato un suicidio? Non credo, gli agenti immobiliari non ci guadagnano niente a dire la verità ai clienti. Se si danno da fare così rumorosamente, significa che sono felici, e quindi non lo sanno. Lo sapranno quando si saranno sistemati e i vicini cominceranno a farsi vivi. Poi apprenderanno che i genitori dell'ex proprietario sono stati sgozzati nel loro villaggio in Algeria. C'è da rimanere terrorizzati. Spero che la prendano bene, Rachel era un tipo formidabile, un cittadino modello, non è mai stato scortese con nessuno, il suo fantasma non farà del male a una mosca. Ma mi rendo conto che il morale può risentirne, la villetta, come la nostra casa a Ain Deb, custodisce un terribile segreto sul più grande crimine di tutti i tempi, alla lunga c'è qualcosa che trasuda dalle pareti, che ti attanaglia le viscere, ti fa marcire la testa, ti fa impazzire, ti consuma a fuoco lento. Rachel è morto per questo e tutti quelli che si avvicineranno al mistero ne moriranno.


Quando stavo nella villetta, non ho mai smesso un solo istante di pormi delle domande, di gemere, di tremare, di farmi prendere dal panico, e più mi dibattevo, più fantasmi vedevo sorgere all'orizzonte e venire a fissarmi con le loro orbite vuote. Quando mi rifugiavo nel buio, i loro rantoli mi perseguitavano finché la luce del mattino non asciugava le mie lacrime. Sono andato al cimitero come mi ero ripromesso al villaggio. Mi sono seduto sulla tomba di Rachel e gli ho parlato a lungo. Ero sicuro che mi sentiva. Gli ho detto: Ciao, fratellino, non lo sai ma io torno da Ain Deb. Mi sono deciso grazie a Ophélie, è stata lei a darmi i soldi per il viaggio. Mi ha detto: Rachel sarà contento di vedere che ti interessi dei tuoi. Vedi, non sono un caso così disperato e miglioro a passi da gigante. Laggiù, tutto bene, a parte il clima, ma è inverno, è normale che piova e che il vento sia un po' tagliente. La gente è meravigliosa, si sono presi cura di me, soprattutto Mimed, il figlio del calzolaio. Tu non l'hai conosciuto, è nato dopo la tua partenza per la Francia. Forse te lo ricordi, quando sei venuto al villaggio per portarmi qui, piangeva come un pazzo vedendomi andare via, se l'è presa con te, ti ha fatto una scenata. Oggi è un bel ragazzo con un sacco di bravi bambini. Non gli ho detto che avevi messo fine ai tuoi giorni, erano così impazienti di avere tue notizie che non sono riuscito a fermarli. Ho fatto come te, sono andato a visitare le tombe dei nostri genitori. Mi ha fatto piacere vedere che riposano in un ambiente tranquillo. Anche il tuo cimitero non è male, è bello, è calmo, è pieno di fiori, c'è gente che passa, uccelli che cantano, innamorati che si parlano all'orecchio. Stai da re, uomo fortunato!... Volevo anche dirti che ho letto il tuo diario. Me l'ha consegnato Com'Dad dopo il tuo... dopo l'inchiesta. Mi ha detto: Tuo fratello è un tipo formidabile. Non mi diceva niente di nuovo, lo so da sempre. Che storia, quella di nostro padre, e che dramma per noi. Ne avremmo volentieri fatto a meno, vero?, tu saresti qui con noi, con Ophélie, sarebbe magnifico. Mi sei sembrato troppo severo con lui ma pensandoci mi sono detto che avevi ragione.


Quello che ho letto nel tuo diario e quello che ho saputo dai tuoi libri mi hanno fatto venire i brividi alla schiena. Sono invecchiato di colpo.


Delle cose così possono succedere di nuovo? Mi dico che è impossibile ma quando vedo quello che fanno gli integralisti da noi e altrove, mi dico che se un giorno prendono il potere supereranno i nazisti. Sono troppo pieni di odio e di arroganza per limitarsi a gassarci. Mi chiedo che cosa si può fare per impedirglielo, la gente non dice niente e la polizia sta a guardare da lontano. Con gli amici, resistiamo come possiamo, ma chi siamo noi giovani?, la gente diffida più di noi che degli integralisti. Volevo anche dirti che ho deciso di pub blicare il tuo diario e il mio, spero che tu sia d'accordo e di riuscire a trovare un editore. Secondo me, la verità è la verità, bisogna conoscerla. Come dice il tuo poeta Primo Levi, bisogna dire tutto ai figli. Con gli amici, pensiamo di creare un club per insegnargli quello che gli viene nascosto, devono sapere, sono loro a ereditare dai genitori sia il bene sia il male. Con il tuo permesso chiederò alla tua ex professoressa, Dominique G. H., di sistemare queste pagine come un vero libro. Ti voleva bene, non dirà di no. Ecco cosa volevo dirti, caro fratello mio.


Gli amici ti salutano come pure zia Sakina. Il povero zio Ali, lo sai, non ci sta più con la testa. Ti voglio bene e ti devo molto. Tornerò a trovarti, intanto riposati. Non siamo mai stati tanto vicini.


 


Poi sono andato a trovare l'imam nella sua cantina. L'hanno trasformata in bunker, porta blindata, spioncino protetto da un'inferriata, e tutto intorno hanno insediato un muro di kapò. Mi hanno perquisito e portato da lui come un prigioniero di guerra. Eccolo dunque, il maledetto guercio, in carne e ossa, sulla cinquantina, capelli tutti bianchi, gandura verde, giubbotto nero, barba fino all'ombelico e occhio molto acuto. Stava seduto a gambe incrociate, con la schiena appoggiata al muro. Davanti, su un tavolo basso, gli attrezzi da lavoro, il Corano, una pila di fatwa vergini, un timbro umido e un telefono fax. Vicino a lui, Feccia, l'emiro, un giovane barbuto massiccio. Sotto il giubbotto portava una pistola. L'impugnatura sporgeva apposta, per invitare i visitatori a pensarci due volte. L'imam mi ha detto:


- Avvicinati, figlio mio, avvicinati, siediti di fronte a me. Conosci il mujahid Si Omar che i giovani ignoranti del quartiere chiamano Feccia.


Parla, dimmi come stai e come hai trovato la nostra Algeria, quella terra dell'islam che soffre il martirio con quel governo empio. Gli ho detto: - Che vuoi da me? - Il tuo bene, figlio mio, il tuo bene, e quello della nostra santa religione. Quando ho saputo che i tuoi genitori sono stati selvaggiamente assassinati, ho sofferto, credimi. Mi sono subito informato presso i nostri fratelli d'Algeria che si battono per Allah e per la sua religione. - Non ti ho chiesto niente. - L'ho fatto per Allah e per la verità, è il mio dovere di musulmano e di imam.


Sappi che i tuoi genitori sono stati assassinati dal governo e non dai combattenti di Allah. Ha l'abitudine di ammazzare degli innocenti e affibbiarci i suoi crimini. - Loro, voi, che differenza fa. - No, non è lo stesso. Se fossero stati i nostri valorosi combattenti, te lo direi, che ti piaccia o meno, la nostra jihad la rivendichiamo di fronte al mondo. Sono loro i colpevoli, devi vendicare i tuoi genitori, il taglione è caldamente raccomandato da Allah. - Non ho bisogno di voi né di nessun altro. - Essere fieri è una bella cosa ma adesso tu hai bisogno dell'islam per rinvigorire il tuo cuore e il tuo braccio. - Non ho bisogno di niente. - Quello che dici è una bestemmia, ma rifletterai e ti unirai a noi, ti offriremo conforto morale, aiuteremo concretamente te e i tuoi genitori adottivi e troveremo un lavoro ai tuoi amici che bighellonano tutto il giorno ad onta delle leggi. - Credo che tu sia sordo, imam, non ho bisogno di voi! - Il dolore e l'ira ti hanno offuscato la mente, ma coraggio, Si Omar è qui, veglierà su di te, ti guiderà... - E' una minaccia? - Solo Allah punisce, figlio mio, noi siamo strumenti nelle sue mani. Stavo per alzarmi e andarmene poi ho cambiato idea. - Dimmi, imam, se avessimo il potere sulla terra, da che genocidio cominceremmo? - Che significa questa domanda? - Ho letto che ci sono stati molti genocidi nella storia, i nostri quali sarebbero? Fai delle cattive letture, è male. Noi abbiamo i nostri libri, vedrai, ti diranno che ci sono stati genocidi solo contro i musulmani. - A maggior ragione. Quali sarebbero i nostri, per pareggiare i conti? L'islam porta la pace, figlio mio, non la guerra. Quando saremo al potere, la gente sarà felice di convertirsi all'islam. - E quelli che si rifiutano? - Chi rifiuta Allah, Allah lo rifiuterà, non c'è posto per lui sulla terra e nel suo paradiso. - Li uccideremo? - Allah deciderà del loro destino. - Ma lui li rifiuta! - Li castigherà senza rimpianto.


- Ci chiederà di ucciderli fino all'ultimo? - Faremo quello che ci ordinerà di fare. - Ecco, è questo il problema secondo me: come fare a uccidere sei miliardi di refusnik, di obiettori, in un lasso di tempo ragionevole, prima che si sveglino e si ribellino? - Figlio mio, tu sragioni! - Tu sei l'imam e, come fedele, ho il diritto di farti tutte le domande che voglio. - Certo, ma ti ho già risposto: quando Allah ci darà il potere, ci dirà cosa dovremo fare e come farlo, te l'ho detto, siamo strumenti della sua volontà. - Si possono suggerire delle soluzioni? - Non ad Allah! - Ai suoi rappresentanti, che le trasmetteranno. - Ti ascolto. - Io la vedo così, li si potrebbe raccogliere in campi elettrificati e gassare subito quelli inutili. Gli altri, si fa una cernita per mestieri e per sesso e li si mette al lavoro finché non cadono stecchiti. Chi recalcitra, lo si gassa. Che ne pensi, imam? - Penso che deliri. - Non deliro, è successo davvero. Sono metodi barbari, Allah ordina di uccidere gli infedeli secondo il rito musulmano. - Imam, non mi stai rispondendo, carbonizzare una ragazza come Nadia o sgozzare quaranta contadini in un buco come Ain Deb e uccidere sei miliardi di infedeli non è la stessa cosa. Il fai da te non è l'industria. Quando lo capirai, fammi un cenno, verrò a trovarti.


Salam a te. - Che Allah ti maledica, figlio di un cane! - Io ti piscio addosso, imam, e anche a te, emiro! Volete lo sterminio e l'avrete! I miei amici e io non chiediamo di meglio che far fuori nazisti e barbuti e inviteremo alla festa tutti i giovani del quartiere. - Te la sarai voluta! - E tu, tu te la sei meritata!


 


Adesso che la guerra è dichiarata, mi tocca la parte più difficile: dire tutto agli amici. Se la prenderanno con me, mi respingeranno, impazziranno, ma la verità è la verità, e bisogna conoscerla. Procederò per tappe, ho sofferto troppo venendo a sapere tutto in un colpo solo.


Gli dirò chi era mio padre e quello che ha fatto e poi, quando saranno pronti, gli dirò tutto sull'incredibile macchina di sterminio nazista, gli presterò i miei libri. Gli dirò che papà non ci ha detto niente e che per questo Rachel è morto. E se mi chiedono: E tu, cosa farai?


Risponderò: Dire la verità, dovunque nel mondo. Poi, si vedrà.


 


 


DIARIO DI MALRICH. Febbraio 1997.


 


E' nell'agosto 1995, più di sedici mesi fa, che Rachel ha scritto al ministro degli Esteri algerino e senza mai avere risposta. Comunque, non finché stavo nella villetta: tra le carte di Rachel non ne ho trovato traccia. Come è successo a lui, la manipolazione dell'identità dei nostri genitori non ha smesso di assillarmi. Con quello che so adesso, per me è come se li avessero sepolti con un numero di matricola inciso sull'avambraccio. Avevo pensato di passare a chiedere ai nuovi inquilini della villetta se nel frattempo era arrivata posta, poi mi sono detto che se un ministro non risponde entro i primi sedici mesi, non è molto probabile che risponda al diciassettesimo. La lettera è andata persa, mi sono detto, in quel paese tutto finisce in mano alla polizia, ma mi rifiuto di credere che trattino la posta ministeriale come le lettere dei poveri; la inoltrano con motociclisti e aerei. Mi sono sentito in obbligo di insistere, ho mandato una lettera di sollecito. E già che c'ero, ho scritto al nostro ministro dell'Interno a proposito del quartiere e di quello che succede. Non serve a niente, ma come dice Rachel: quello che va fatto, va fatto. Ecco la copia delle mie lettere.


 


Egregio signor Ministro degli Esteri della Repubblica democratica popolare d'Algeria, il 16 agosto 1995 mio fratello Rachid Helmut Schiller Le ha inviato una raccomandata pregandoLa di ripristinare l'identità ufficiale dei nostri genitori, assassinati il 24 aprile 1994 da un gruppo armato non identificato e sepolti, a cura del Comune, mia ma dre sotto un'identità ormai superata e mio padre sotto pseudonimo. Lei non l'ha fatto e non si è degnato di rispondergli. Oggi mio fratello è morto e io, ultimo degli Schiller, mi permetto di sollecitarLa. Mi ha detto un uccellino che non è così facile sollecitarLa ma questa non è una ragione valida per non tentare l'impossibile. Si tranquillizzi, signor Ministro, dopo di me nessuno La disturberà più, ma se un giorno uno verrà ad annunciarLe che i Suoi genitori sono stati assassinati da sconosciuti e che li hanno sepolti come anonimi, capirà il nostro dolore. Per il momento Lei tiene il coltello dalla parte del manico, non Le importa sapere chi è morto, chi è scomparso e chi soffre in silenzio.


 


Voglia gradire, signor Ministro, l'espressione della mia vergogna di essere per metà un Suo compatriota.


 


La mia seconda lettera dice: Egregio signor Ministro dell'Interno, se in questo paese qualcuno sa cosa succede nella nostra zus, quel qualcuno è Lei. Il nostro commissario, il signor Daddy, Le scrive di sicuro e più spesso di quanto non dovrebbe perché si impegna molto, vive con noi, si dà da fare e sappiamo che soffre di non poter fare niente di più. E' un legalista: questo è il suo problema. Gli integralisti hanno colonizzato il nostro quartiere e ci rendono la vita difficile. Non è un campo di sterminio ma è già un campo di concentramento, ein Konzentrationslager come si diceva sotto il Terzo Reich. A poco a poco dimentichiamo di vivere in Francia, a mezz'ora da Parigi, la sua capitale, e scopriamo che i valori che proclama al mondo in realtà esistono solo nei discorsi ufficiali. Comunque, e nonostante tutti i nostri difetti, noi ci crediamo più che mai. Tutto quello che vietiamo a noi stessi come uomini e come cittadini francesi, gli integralisti se lo permettono e ci negano il diritto di lamentarci perché, dicono loro, è Allah a chiederlo e Allah è sopra ogni cosa. Di questo passo, e dato che i nostri genitori sono troppo devoti per aprire gli occhi e i nostri ragazzini troppo ingenui per vedere più in là del loro naso, ben presto il quartiere sarà una repubblica islamica con tutti i crismi. Allora Lei dovrà farle la guerra se vuole che resti confinata nei suoi limiti attuali. Sappia che noi non La seguiremo in quella guerra, emigreremo in massa o combatteremo per la nostra indipendenza. Non mi aspetto granché da Lei, credo solo che è bene fare quello che va fatto, e quindi lo faccio: Le scrivo. Penso che Lei mi risponderà senz'altro e rapidamente, è una qualità ben nota della burocrazia francese che Lei ci terrà a confermare. Mi dirà tutto il bene che pensa della mia iniziativa civica e mi racconterà le azioni intraprese da Lei e dal Suo governo allo scopo di ripristinare la repubblica nel nostro quartiere. Se questi sono i termini della Sua missiva, del che sono sicuro, allora è inutile mandarmela, perché è una solfa che conosco già.


 


Voglia gradire, signor Ministro, l'espressione della mia rabbia civica per essere un Suo umile cittadino sottoposto alla giurisdizione islamica.


 


DIARIO DI RACHEL Febbraio 1996.


 


Auschwitz, la fine del viaggio.


 


Era questo che desideravo, concludere il mio itinerario con Auschwitz.


Sono arrivato la mattina presto, volevo starmene da solo, prima che sbarcassero i visitatori. Sarebbe stata una lunga giornata. Il campo era immenso, più di quarantacinque chilometri quadrati ossia quattromilacinquecento ettari. E' una vera città, come quelle che all'epoca del capitalismo selvaggio, in quei paesi lontani arricchitisi di colpo, crescevano a tutta forza partendo da un piccolo insediamento, estendendosi qua e là, a seconda degli appetiti e dei furori, con il progredire delle scoperte e della fortuna; una città ordinata e caotica al tempo stesso, con confini ben delimitati, immensi viali, piazze d'armi così grandi da scoraggiare un maratoneta, anonimi edifici pubblici, quartieri eleganti con le loro dimore bislacche, i loro castelli fiabeschi, la chiesa opulenta, zone di edilizia popolare che riproduce all'infinito lo stesso misero schema, il teatro rococò, un fantastico cinema, il caffè elegante, i bordelli a buon prezzo e gli squallidi bar, le aree industriali, le stazioni e il loro intrico di scambi, i magazzini, i parchi anemici, gli orrendi terreni abbandonati, i mercati caotici, i campi sportivi che dicono quanto si muoia di noia e di inazione, le inquietanti caserme, e una sommaria pista d'atterraggio con una parvenza di torre di controllo che potrebbe diventare ben presto un aerodromo degno di una capitale. Non è difficile immaginarlo, quelle città con uno sviluppo folgorante sono così, effervescenti e noiose, promettenti e senza domani, si arricchiscono tanto quanto si impoveriscono e in fin dei conti fanno della miseria e della violenza il piatto fisso per tutti, sono una pazzia in cerca di consacrazione. Sul proscenio c'è una vita scintillante, libera, creativa, e dietro, nelle infinite favelas della periferia, c'è una vita rinchiusa fra quattro mura, brulicante, vergognosa, anonima, che muore con sconcertante facilità, per un sì o per un no. Questi agglomerati spontanei, iscritti nella logica del sistema totalitario che li ha ispirati, prosperano su un mito e di quel mito muoiono. Un giorno, la natura si riprende quello che le è dovuto e tutto scompare nel silenzio, travolto dall'assurdo che li ha fatti nascere. Non è stato l'oro la fortuna di questa città opprimente, nata sulle ceneri di un povero villaggio solitario nel cuore della vecchia Polonia, né il petrolio, né il caffè, né la gomma, né i legnami pregiati, ma lo sterminio industriale delle lebensunwerte Lebens, gli ebrei, soprattutto, e gli zingari, ma anche i prigionieri di guerra, gli elementi asociali e tutti i minderwertige Leute possibili.


Per la verità, questa fabbrica utilizzava qualunque cosa, la caldaia non poteva fermarsi per una semplice interruzione del sistema principale di approvvigionamento. All'inferno si brucia tutto, i vagabondi di ogni tipo, i traditori, gli oppositori, i resistenti. Auschwitz era il più grande, il più lugubre, il più mortale e il più insaziabile dei campi nazisti. In soli quattro anni, i suoi forni hanno trattato un milione e trecentomila uomini, donne e bambini, per il novanta per cento ebrei, ovvero una media di mille anime al giorno. E' l'equivalente di un villaggio che scompare dalla carta geografica, una casa dopo l'altra, una famiglia dopo l'altra, fra l'alba e il tramonto.


 


Era ancora buio, faceva un freddo atroce, cadeva una neve inquinata e da est soffiava sferzante il vento più gelido. Se volevo la peggiore accoglienza per punire me stesso del fatto di ritornare sui luoghi del crimine di mio padre, ero accontentato, ma ancora lontano dall'aver saldato il conto. Per il deportato che arrivava con il treno della morte c'era ben altro a rendere quel momento infinitamente più crudele: una stanchezza di vari giorni sopportata in piedi dentro a carri bestiame pieni zeppi, la fame, la sete, la sporcizia, la paura folle, la tortura della selezione, la banda che suona a tutta forza, gli ordini sferzanti, il latrato dei cani, le brutalità dei soldati, l'umiliazione di spogliarsi all'aperto, di farsi rasare la testa e tatuare il numero di matrico la sul braccio, e soprattutto l'opprimente sensazione che sulla terra fosse accaduto qualcosa di enormemente aberrante: la fine dell'umanità, tradita da Dio in persona. Quando entravano nel campo, erano ancora degli uomini? Sbarcare qui da un pullman turistico in una bella giornata di primavera sarebbe stato indecente, io non sono uno qualunque, sono Helmut Schiller, il figlio dell'ss Hans Schiller, e in questo luogo mio padre ha la sua quota di quel milione e trecentomila morti, in gran parte gassati, i più fortunati abbattuti con una pallottola. Potevo scegliere solo se arrivare come mio padre su un'auto riscaldata, senza pensieri, forse seccato per un inconveniente tecnico, oppure come un deportato, spaventato, affamato, intirizzito, bagnato fradicio, solo come nessun altro al mondo, schiacciato dalla macchinazione, e ignaro di che cosa si volesse da lui, proprio da lui.


Non esageravo per masochismo o per gioco, volevo avvicinarmi alla realtà del deportato e vedere fin dove si fosse spinto mio padre. Lo so, è una cosa che va oltre ogni comprensione, nulla e nessuno avrebbe potuto avvicinarmi ad essa neppure un milionesimo di millimetro, lo sono libero, sono venuto spontaneamente e me ne andrò quando voglio, sto ben diritto, ho i capelli e tutti i denti, e i miei documenti in tasca, e salvo incidente o omicidio o malattia fatale o suicidio in un accesso di follia, so che sarò vivo domani e dopodomani e dopodomani ancora e così via fino alla fine della mia vita. Non posso trasformarmi in deportato, non posso trasformarmi in cavia da laboratorio o Sonderkommando, non posso trasformarmi in carnefice o in kapò, non posso fare altro che entrare nei pensieri di papà, calcare le sue orme e tentare di seguirlo nel suo spaventoso itinerario; posso solo mimare il deportato e tentare di provare i suoi tormenti mentre la morte più misteriosa, più avvilente, lo ghermisce. Non posso far niente. Ma sono qui, dovevo esserci, e devo andare fino in fondo.


 


Ho seguito i binari del freno della morte venendo dalla banchina degli ebrei, la Judenrampe. Di fronte, in lontananza, a sbarrare l'orizzonte, c'è questa costruzione la cui foto si trova in tutti i libri; un lungo edificio rossastro, basso, con al centro, sopra l'ingresso, una torre di guardia quadrata sormontata da un tetto di tegole. E' il campo di Auschwitz II, il Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau. Varcato l'ingresso, si vedono baracche all'infinito, perfettamente allineate, il Lager degli uomini da una parte del grande viale, quello delle donne dall'altra, e ovunque torrette, filo spinato, recinzioni elettrificate.


Impossibile sbagliarsi: l'inferno ha avuto sede qui, non molto tempo fa, c'è ancora tutto, tutto è soltanto cenere e solitudine, come prima. Qui, a Birkenau, il Male ha toccato l'apogeo. Di fronte, a est, il campo di Auschwitz I, con il suo famoso slogan in ferro battuto in cima al cancello di ingresso: Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi. Dentro il perimetro, in una zona che un tempo fu di massima sicurezza, le gigantesche fabbriche di armamenti della Krupp Union, le fabbriche della daw, i Deutsche Ausrüstungswerke, i laboratori delle ss, la farmacia generale e i Block che ospitavano i servizi ospedalieri, lo Hàftlingskrankenbau, L'hkb, per soldati e operai. Più a nord, a tre chilometri, il campo di Auschwitz III, Monowitz. Gli enormi edifici grigi che si scorgono immersi nella nebbia sono quelli che occupava la ditta IG Farben, specializzata in gas di sterminio, concime e detersivi.


Bisogna immaginarseli, quegli edifici non esistono più, sono stati bombardati nel '44 e in seguito rasi al suolo. Restano le loro tracce per terra. In questo luogo, la Buna, in un altro complesso anch'esso bombardato e abbattuto, si produceva la gomma sintetica, essenziale per l'esercito del Reich. Vi lavoravano diecimila detenuti con ritmi infernali. Credo che non ne sia uscito vivo nemmeno uno, sapevano troppe cose, segreti di fabbricazione, erano stati in contatto con esperimenti militari molto all'avanguardia per quei tempi. Gli ultimi operai furono massacrati in gran fretta quando l'esercito sovietico entrò in Polonia e mentre una delle sue unità avanzava a rotta di collo verso il campo nella speranza di raggiungerlo prima che tutto venisse distrutto o trasferito. Sono entrato nel campo di Birkenau e mi sono lasciato guidare dall'istinto. Mi sforzavo di dimenticare quello che sapevo, volevo conoscere ciò che si prova quando si entra nel campo per la prima volta, con la testa piena della sua fama mostruosa. Era difficile, impossibile, ne sapevo troppo, avevo tanto studiato quel luogo che potevo orientarmi a occhi chiusi, avevo la mappa in testa. Avrei potuto camminare come un buon soldato che svolge i suoi compiti abituali, che va da un punto all'altro con il pensiero di eseguire degli ordini a tempo e luogo. Calcare le sue orme e darmi da fare come lui, coraggiosamente, infagottato in un pesante pastrano per ripararmi dalla tempesta di neve: riportare un ferito dall'infermeria al suo posto di lavoro, trascinare un tizio al Bunker, il I o il II, dove si gassavano gli ebrei francesi, recuperare il rapporto di attività giornaliero in uno dei quattro complessi ultramoderni, al tempo stesso camere a gas e crematori che si dice siano stati progettati da Himmler in persona, i famosi K II, III, IV e V, veri gioiellini da sterminio, e portarlo con passo ginnico all'ufficio competente nell'edificio amministrativo delle ss, concedermi una visita lampo al bordello dei kapò per vedere se c'era qualche novità o, piccola curiosità morbosa, sbirciare attraverso la vetrata della clinica di sperimentazione del professor Karl Clauberg o quella del sinistro dottor Josef Mengele, il Frankenstein dei gemelli monozigoti, o fare una deviazione al laboratorio dove chimici come mio padre, che con il suo grado di capitano ne era certamente il direttore, preparavano la loro pozione magica e i loro cristalli contro i pidocchi; ovunque, insomma, tranne che nei paraggi del troppo sinistro Block 11 dove dei pazzi mai visti su questa terra sperimentavano torture e metodi di esecuzione straordinari persino per Auschwitz. Potevo anche partire dal posto dove venivano riuniti i detenuti, all'alba, e condurre senza esitazioni questo o quel gruppo lungo il percorso verso il suo luogo di lavoro forzato. Avevo imparato a seguire mio padre col pensiero, ero in grado di girare per il Lager come se ci fossi cresciuto. Non c'è un particolare della sua giornata che non abbia preso in conside razione.


Papà era un uomo d'ordine, preciso come un metronomo, ha conservato per tutta la vita quella sua abitudine di calcolare tutto al minuto. La nostra vita a Ain Deb era così, regolata sul suo orologio. Mentre i miei amici si accontentavano del sole e del loro stato d'animo per saltabeccare da un posto all'altro, io aspettavo il mio quarto d'ora di libertà mordendo il freno, fissando la lancetta lunga dell'orologio. Mi sono ritrovato davanti ai complessi K. Mio padre deve aver seguito la realizzazione del K IV e probabilmente lo ha inaugurato. Perché quello, in particolare? Questione di date. Mio padre era in servizio ad Auschwitz-Birkenau tra il gennaio e il luglio del '43. La costruzione dei complessi è cominciata ai primi del '42 e si è conclusa alla fine del '43. Immagino che al suo arrivo i primi due fossero operativi, il terzo fosse in fase di collaudo e messa a regime, mentre per l'ultimo i lavori erano ancora allo scavo delle fondazioni. Per la verità, lo sapevo con esattezza, avevo letto tanti libri e testimonianze di sopravvissuti, la mia documentazione è aggiornata. Per lo stesso motivo di data dico che papà era agli ordini del primo comandante di Auschwitz, il torvo ss Obersturmbannführer Rudolf Höss, che in seguito verrà scovato dagli Alleati in Baviera, dove si nascondeva sotto una falsa identità; sarà condannato da un tribunale polacco nel '47 e impiccato davanti a uno dei Kremas della sua cara Auschwitz. A metà dell'estate del '43, nel momento in cui mio padre raggiungeva la sua nuova destinazione, Buchenwald, sarebbe stato sostituito da Arthur Liebehenschel e da Richard Baer. Il primo verrà arrestato e giustiziato nel '48, contemporaneamente alla bieca comandante del Lager delle donne di Birkenau, Maria Mandel, e alla sua vice, la bella e terribile fanciulla Irma Grese, con cui forse papà ci ha provato tra un'infornata e l'altra. Quanto a Richard Baer, condannato all'ergastolo, morirà in carcere nel 1963. Il sinistro Josef Mengele, detto l'Angelo della morte, si godette tutto, l'organizzazione francescana in Italia per svignarsela in santa pace, l'aria buona dell'Argentina di Perón, del Paraguay e del Brasile, per far fruttare la sua quota dell'immenso patrimonio familiare dei Mengele e vivere tranquillo e beato. Pare che sia mor to di morte naturale nel 1979, all'età di sessantotto anni, in qualche posto della Bolivia, non si sa dove, lasciando dietro di sé la leggenda di un superuomo che la morte non poteva colpire. Suo figlio, un fantastico golden boy di New York, a cui domandarono: «Perché suo padre non si costituisce?» rispose: «Non sono affari miei, sta a lui decidere». lo, se fossi stato suo figlio, l'avrei denunciato prima che mi facessero quella domanda, e avrei chiesto di testimoniare al suo processo come vittima. E più continuavo a girovagare, cercando di lasciarmi guidare dall'istinto per penetrare meglio il mistero, e più nella mia testa scorreva l'implacabile procedura che regolava al minuto il funzionamento del campo. Ero prigioniero di ciò che sapevo. Ero nei miei libri, nelle mie schede tecniche, nella realtà le cose non si svolgevano così, non soltanto così. Dietro alla fredda logica del meccanismo stava il mistero virulento della morte che soffocava il campo, c'erano le leggi orrendamente ingiuste del caso che, qui più che altrove, accompagnava ogni istante il detenuto, lo osservava, faceva si che per una certa corvée, una certa punizione, fosse scelto lui, di nuovo, faceva si che la malattia colpisse lui invece di un altro e ciò significava la morte immediata; c'era quella magia delle cose per cui incidenti insignificanti, marginali, cominciavano improvvisamente a concatenarsi gli uni con gli altri finché bloccavano come una grossa catastrofe la superba e inalterabile macchina, seminando il panico tra i suoi proprietari, umiliandone la gerarchia fino al vertice, scatenando come contraccolpo tremende collere, atti gratuiti, punizioni a cascata; e giorni e settimane di privazioni; c'era il mistero del tempo che si allungava all'infinito, fino ad annientare ogni volontà, speranza, persino rimpianto, poi si contraeva improvvisamente, strangolava le persone, iniettava concitazione in ogni minimo movimento, diventava un'implacabile garrotta che rende ogni minuto più gravoso, ogni secondo più incerto; e c'erano il clima e i suoi umori, e le sue torture, il rumore e le febbri, c'erano la promiscuità e la sua vergogna, e le sue reazioni epidermiche, c'erano la fame, perpetua, delirante, e gli odori che rivoltano lo stomaco, c'era la tremenda perdita di coscienza morale che fa ceva del deportato il peggior nemico del deportato, poiché ciascuno aveva stretto un patto con la fame, l'istinto di sopravvivenza e la follia, e c'erano quelle mille piccole cose della quotidianità che in qualsiasi momento potevano prendere una piega tragica; mio Dio che dramma una scarpa rubata o un berretto smarrito in inverno, uno sguardo di troppo a un ufficiale, un secondo di disattenzione, una gamella che si crepa, una storta al piede, una dissenteria, un mal di schiena, una piaga che s'infetta; c'era quella tensione spossante per sembrare sempre in condizioni di lavorare e non suscitare mai sospetti; c'erano quel maelstrom che uno si portava nella testa ventiquattro ore su ventiquattro, quelle angosce purulente, quelle domande senza fine, esaltazioni morbose, paure infantili, bisogni lancinanti, sogni impossibili, ricordi fugaci di un'altra vita, in un mondo dove può esistere un sole, dove il giorno e la notte sono una grazia che si condivide con altri. Bastava un'inezia a condurre alla morte, a rendere la vita intollerabile, tutto era aleatorio, destinato al fallimento, alla nefandezza, alla putrefazione. Probabilmente si arrivava a sperare che la superba e inalterabile macchina continuasse a funzionare sempre alla perfezione. Forse, addirittura, si pregava Dio di dimenticarci e fare sì che nulla contrariasse la Bestia. Che avesse i suoi morti, che se ne nutrisse e ci lasciasse in pace. Quando tutto va liscio come l'olio, si può rubare qualche momento di tregua. Quando tutto funziona senza scosse, si può aspettare la propria ora e morire in pace.


 


Anch'io ho la testa piena di misteri. Ce n'è uno che mi attanaglia, ci penso continuamente, è il mistero del sopravvissuto. Mio Dio, come si può vivere dopo il campo? C'è una vita dopo Auschwitz? Di tutte le testimonianze che ho letto, specie quelle che sono state raccolte per così dire a caldo, alla liberazione dei campi e durante i primi processi dei criminali, non una esprimeva odio, collera, né chiedeva vendetta.


Non capivo, non capisco. Per me è un mistero. Quelle donne, quegli uomini, si limitavano a raccontare, rispondevano in tono pacato, timido, alle domande degli inquirenti, dei giudici. «Mi chiamo X, sono arrivato al campo il tal giorno, il tal mese, il tal anno... ero assegnato al laboratorio di sartoria... sì, sapevo che venivano gassati dei detenuti... sì, sono stato picchiato dai kapò... ho assistito a delle punizioni... un giorno ci hanno riuniti per l'esecuzione di cinque detenuti accusati di aver rubato uno scampolo di stoffa... un altro giorno il nostro compagno Y si è gettato sulla recinzione elettrificata, siamo stati massacrati di botte perché non lo avevamo trattenuto...


Voleva suicidarsi, noi lo capivamo». E lei? «Oh, io ho avuto fortuna, sono stata assegnata al Canada». Ci dica che cos'era il Canada. «Un grande capannone ai margini del Lager dove avveniva la cernita degli effetti personali dei nuovi detenuti, si mettevano i soldi da una parte, i gioielli dall'altra, e con gli abiti selezionati si facevano delle balle che i camion portavano alla stazione. Il lavoro era spossante ma in fondo non così tanto... per quelli che sgobbavano fuori, nel fango e nel freddo, il Canada era il paradiso». Ho letto e riletto i libri di quei fantasmi diventati famosi, Charlotte Delbo, Elie Wiesel, Jorge Semprün, Primo Levi, non ho trovato una parola d'odio, l'ombra di un desiderio di vendetta, la minima espressione di collera. Hanno semplicemente raccontato la loro quotidianità con quanti più particolari potevano, e hanno detto ciò che i loro occhi hanno visto, ciò che le loro orecchie hanno sentito, ciò che il loro naso ha odorato, ciò che le loro mani hanno toccato, ciò che la loro schiena e i loro piedi hanno sopportato quanto a fatica e sofferenza. Hanno raccontato, così come una cinepresa restituisce delle immagini, come un registratore restituisce dei suoni. Parlavano dei loro carnefici dicendo: «Il tale, l'ufficiale X, ha detto questo, ha fatto quest'altro, il tal giorno, alla tal ora».


Parlavano dei loro compagni dicendo: «Il tale ha detto questo, ha fatto quest'altro, una mattina se n'è andato, non l'abbiamo più rivisto».


Perché questo distacco? Per me è un problema. Dov'è la collera? Dov'è l'odio, dov'è l'appello alla vendetta, dov'è la voglia di distruggere tutto, di respingere l'umanità, di rifiutare Dio, di non smettere più di correre, di non sentire più niente? Questa esperienza non è come le altre, tutto il rumore del mondo non riuscirebbe a coprire il dolore che si è levato da questo luogo. Se ne parla così, come di un giorno senza luce che il mondo avrebbe per caso conosciuto. Si parla del Male assoluto e delle sofferenze incommensurabili che ci ha inflitto. «Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppo il greco che ha vent'anni, e dopodomani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare più niente?


Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell'uomo di fare, potrà risanare mai più? Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn». Questa è tutta la collera che ho trovato nel libro di Primo Levi, Se questo è un uomo. Lui constata che nulla può riparare, né le preghiere, né il perdono, né l'espiazione, e si ferma qui. Non capisco. Anch'io, a mio modo, sono un sopravvissuto, ma non trovo abbastanza parole, non ho dentro di me abbastanza forza per esprimere la mia collera, la mia vergogna, il mio odio e so che nulla potrà estinguere il desiderio di vendetta che porto in me. Scoprirsi figlio di un carnefice è peggio che essere stato un carnefice. Il carnefice ha le sue giustificazioni, si ripara dietro a un discorso, può negare, può fare il gradasso, rivendicare il proprio crimine, che dico, il proprio ministero, e affrontare fieramente il patibolo, può nascondersi dietro agli ordini ricevuti, può fuggire, cambiare identità, costruirsi nuove giustificazioni, può emendarsi, può tutto. Ma il figlio, cosa può, a parte contare i crimini del padre e trascinarsi quella palla al piede per tutta la vita? Ce l'ho con mio padre, ce l'ho con questo paese, con questo sistema che lo ha fatto così, ce l'ho con l'umanità, ce l'ho con il mondo intero, ce l'ho con quegli illustri personaggi che hanno freddamente annotato ciò che ha fatto mio padre, nient'altro, come se svolgesse un lavoro qualunque, un lavoro per il quale fosse pagato, lo hanno privato dell'umanità che poteva ancora avere e lo hanno presentato come uno stupido automa che obbedisce agli ordini del suo Führer, ce l'ho con loro per averlo risparmiato, per non averlo odiato come si deve odiare un tiranno, per non averlo insultato, ce l'ho con loro per il loro distacco, ce l'ho con loro per la loro sobrietà. Mio padre sapeva quel che faceva, lo conosco, era un uomo con delle convinzioni e con il senso del dovere, merita tutta la collera del mondo. Hans Schiller, sei un farabutto, il peggiore degli assassini, mi fai schifo, ti odio, voglio che il tuo nome scompaia, voglio che tu arrostisca all'inferno fino alla fine dei secoli e che quelli che hai gassato vengano a sputarti in faccia! Tu non avevi il diritto di vivere, non avevi il diritto di darci la vita, questa vita io non la voglio, è un incubo, una vergogna indelebile. Non avevi il diritto di fuggire, papà. Devo assumermene la responsabilità al posto tuo, pagherò per te, papà. Sii maledetto, Hans Schiller! Mi sono seduto e, come un deportato che quel giorno ne ha viste troppe, ho pianto lacrime asciutte.


 


Non nevica più. E il vento è cessato. E il freddo è meno pungente. Un solicello invisibile manda un po' di calore. Un grado, forse, ma l'ho percepito come un soffio di vita. Sono uscito dalla prostrazione. Ero indolenzito dappertutto. Mi sono sgranchito e ho ripreso a girovagare nel campo. Volevo tornare alla banchina, tutto considerato è il posto più importante del campo, il più crudele, è lì che si decide tutto. E' lì che le donne, gli uomini, e i bambini così spaventati, e i neonati addormentati nella loro cacca arrivano a destinazione. Sono ancora vestiti come fuori, hanno una valigia, una sporta, una cartella, un giocattolo, certe donne tengono in braccio i loro neonati, li stringono al petto, gli accarezzano la guancia con la punta delle dita, li proteggono dal freddo o dal sole, hanno con sé i documenti, l'orologio, dei gioielli, degli spiccioli in tasca. E quella stella gialla sul bavero della giacca, è vergognosa, sì, ma significa semplicemente che sono ebrei; si può non amarli, non è grave, nessuno è tenuto ad amare tutti. Altri portano la propria vergogna sul volto, gli zingari, quelli con la pelle scura, e gli ammalati con il loro colorito cereo e la voce spenta, e i vecchi che fanno pena a vederli così lontani dalle loro abitudini, e che dire dei bambini che non possono né sforzarsi di sembrare più alti né travestirsi da adulti, né capire cosa gli succede intorno, ciò che viene inflitto ai loro genitori. Ma questa banchina non è come le altre, è unica al mondo. E questa stella non è come le altre, è unica nel cielo. E' qui, sulla Judenrampe, nel terreno abbandonato attiguo alla banchina che verranno selezionati, separati, registrati, tatuati, vestiti da forzati, allineati, e aspetteranno che da qualche parte, qualcuno, un deus ex machina sommerso di preoccupazioni vertiginose, un Bonzo, dia l'ordine di marcia. La faccenda richiede ore e ore e ogni minuto è eterno. Per i vecchi, i malati e i bambini tutto finisce qui. Per loro non ci sarà un altro giorno. Non lo sanno, certi lo sospettano ma ciò che non è accaduto, ciò che uno non vede con i propri occhi, resta un'ipotesi, la vita è ancora possibile: per loro, le porte della camera a gas sono già spalancate e i Sonderkommandos li attendono arma al piede, intendo dire quella carriola che puzza di carogna e quel mutismo minerale che li aiuta a dimenticare la degradazione. Nel giro di qualche ora se ne andranno in fumo nel cielo di Dio, quel Dio sordo, cieco e intollerante che pregano dal primo giorno. Come credere in quel Dio? Un animale, un gatto, un topo, un gelido serpente danno all'umanità più calore, sono una vita che viene a strusciarsi contro un'altra vita. Per gli uomini e le donne validi, tutto comincia qui. E' qui che perdono definitivamente l'autonomia, la dignità, i ricordi, l'umanità. Tutto. E' in questo istante che diventano dei deportati, degli Abgewanderten. La morte sarà una formalità per dopo, quando avranno pagato il prezzo della loro morte con un onesto lavoro.


 


Stava in piedi all'ingresso di Birkenau. Una vecchietta minuta, con le gambe un po' storte, aveva la borsetta al braccio e in testa un ridicolo cappellino. Il cappotto era lustro, era servito a lungo. Era sola.


Fissava qualcosa davanti ai suoi piedi, non si muoveva. La si sarebbe potuta prendere per una vecchia domestica che aspetta pazientemente il primo autobus del mattino in una periferia livida spazzata dai venti. Ha voltato la testa a destra, a sinistra, poi si è girata e ha guardato a lungo i binari che si perdono all'orizzonte, il terrapieno ai due lati, il cielo imbacuccato nelle sue grosse nubi, prima di tornare a concentrarsi sull'edificio e sulla sua torre di guardia. Ne ha esaminato tutti i particolari. Ho sentito che qualcosa gridava in lei, era tutta contratta davanti a quella frontiera che si attraversava per morire. Si è fatta coraggio e si è inoltrata sotto l'arco d'ingresso e lì si è fermata di colpo, credo persino che le si sia bloccato il respiro. La testa si voltava da una parte e dall'altra, come azionata da un meccanismo guasto. Si trovava nella paura, la vera grande paura di Auschwitz. Ero affascinato da quello strano e pietoso balletto, in quel teatro di brutture, con quel tempo che consente solo la tristezza e il silenzio. Ho intuito che frugava nella memoria, cercava dei segni, dei punti di riferimento. Dei ricordi. Rifletteva. Direi che sentiva le cose dall'interno, il Male e i suoi misteri dispersi nel tempo, nella sua testa, era come un animale che percepisce istintivamente le vibrazioni di lontani sconvolgimenti e comincia a farsi prendere dal panico. Ma lei, lei non si muoveva, non si muoveva più, dava l'impressione di poter rimanere così indefinitamente, ad aspettare. A un certo punto, è rabbrividita, e si è come decisa ad affrontare il suo dolore, è entrata nel campo, ha fatto un passo e si è fermata di nuovo. Ha percorso con lo sguardo tutto il sito, poi si è diretta a destra e ha proceduto a passetti, con la testa bassa. Era passata in un altro mondo, quel mondo che io conosco così bene sulla carta che potrei guidarla e dirle in anticipo le sue reazioni. Avevo capito che era stata ospite di quel luogo maledetto. Perché, non lo so: l'ho considerata una stella nel mio cielo buio. L'ho seguita. E' entrata nel Lager delle donne. Si è fermata, ha tirato fuori dalla borsetta un fazzoletto, l'ha appallottolato, si è asciugata gli occhi, e l'ha premuto sul naso. E' andata avanti, ha letto il numero del primo Block, quello successivo, e così via. Camminava più in fretta, trotterellava a scatti, il numero che cercava era più lontano. A un certo punto si è fermata, ha fissato a lungo il Block alla sua destra, poi si è avvicinata all'ingresso, ha salito i tre gradini, ha teso la mano verso la maniglia. Ha esitato, poi l'ha gira ta in un senso, nell'altro. La porta era chiusa a chiave. Non ha insistito. Si è seduta sul primo gradino. La guardavo. Non faceva niente, non si muoveva. Era all'interno della sua testa, nell'angolo più oscuro. Ho provato un immenso affetto per quella donna. Sembrava così fragile, così sola. Mi sono nascosto in un angolo per osservarla.


Giocherellava con il fazzoletto, la testa inclinata di lato, lo piegava sul ginocchio, lo apriva, lo arrotolava, lo srotolava. Come deve essere lontana la sua mente, mi sono detto. Mezz'ora dopo si è alzata, ha sospirato e si è diretta verso est, verso le camere a gas e i forni crematori. C'era folla. Visitatori. Un gruppo di giovani, studenti, e un gruppo di vecchi. Ascoltavano le loro rispettive guide. I giovani scattavano fotografie con autentica bulimia, si bisbigliavano qualcosa all'orecchio concitatamente. Certo, avrebbero voluto gridare, porre delle vere domande, ma in quel posto non c'è mai stata l'abitudine di parlare, ci si veniva per essere gassati, per andarsene in fumo, lo sapevano. I vecchi non dicevano niente, non si muovevano. Lei si è unita a quel gruppo. Ha detto due parole al suo vicino, che le ha cinto le spalle con un braccio e si è chinato per baciarla in fronte. Un gesto da amico. Mi sono mescolato a loro. La guida parlava, spiegava. La sua voce non mi piaceva. Non aveva il tono giusto. Quello che mi metteva a disagio era che si atteneva ai libri, alle schede tecniche, descriveva un procedimento. Non è questo, lo Sterminio! Non solo questo. Non si riduce al suo ultimo atto. C'è il resto, la parte più importante, che non ha nome, il male quotidiano a cui ci si abitua così in fretta, a cui non ci si abitua mai, che quella vecchietta ha subito ritrovato nella sua testa, ciò che io cerco disperatamente da mesi senza essermi avvicinato di un milionesimo di millimetro. L'ho percepito così sin dal principio: avrei potuto conoscere mio padre e ritrovare me stesso solo andando al fondo delle cose, nel cuore della Macchinazione. Ma nessuna conoscenza, nessuna comprensione, nessuna sensibilità, nessuna immaginazione può raggiungere ciò che l'esperienza dello Sterminio ha inciso nella testa dei deportati e loro, i sopravvissuti, non hanno nessun modo di farcelo sapere. Mio padre rimarrà un enigma e il mio dolore non avrà fine.


 


Il gruppo ha ripreso il cammino. Ho fatto in modo di trovarmi accanto alla mia vecchietta. Ci siamo messi a discorrere. Parlava inglese con un forte accento dell'Europa centrale che non riuscivo a identificare. Mi ha detto che era originaria della Cecoslovacchia, di Bratislava, che viveva a New York dal '48. Le ho detto che ero francese e abitavo nella periferia di Parigi. Quando ho avuto la sensazione che si fosse stabilito un contatto, le ho domandato: - Era a Birkenau? - E' arrossita e mi ha risposto: - Oh, no! lo no, mia sorella Nina, io ero a Buchenwald... con i miei genitori. - Mmm!... Sua sorella... è morta qui?


- Sì'. L'ho saputo da un'amica che era con lei, qui a Birkenau... e che è morta l'anno scorso. - Mmm! - Erano compagne di liceo a Bratislava. Un giorno non sono tornate a casa, e poi sono venuti a prenderci... tutta la famiglia. - Mmm! - E lei? -Oh! io... io... - Un suo parente? - Sì... mio padre... è stato a Birkenau e in altri campi... si è salvato per miracolo. Non lo sapevo, non mi ha mai detto niente... l'ho saputo pochissimo tempo fa... per caso... dopo la sua morte. - Capisco... Non deve volergliene, non si possono dire queste cose ai figli. Mi creda, è difficilissimo parlarne, anche con quelli che ci sono passati.


 


Le nostre strade si sono separate all'incrocio di due viali. Il suo gruppo si dirigeva al pullman e io dovevo proseguire il mio itinerario fino in fondo. Mentre saliva sul pullman, improvvisamente mi sono avvicinato, l'ho trattenuta per il braccio e le ho detto: - Vorrei chiederle perdono... - Ma di cosa, caro signore? - Io... la vita non è stata tenera con lei... con sua sorella, con i suoi genitori... mi sento responsabile. Mi ha guardato con i suoi begli occhi da vecchia che ha molto sofferto e mi ha detto prendendomi la mano: - Grazie, figlio mio, sono molto commossa, è la prima volta che qualcuno mi chiede perdono. Mi sono chinato e l'ho baciata sulla fronte. Un gesto da amico, un gesto di fraternità. Al di sopra dell'abisso che ci separava. Quell'incontro mi ha sconvolto. Quella donna non meritava che le mentissi. Avevo l'atroce sensazione di averle rubato la vita, la dignità. Ma mi dicevo anche che forse aveva accettato la sua perdita e sarebbe stato un male risvegliare i suoi morti. Per la verità, ho mentito solo a me stesso, lo so, nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell'uomo di fare, potrà risanare mai più. Al suo posto, Helmut Schiller, il tuo perdono l'avrei sputato a terra.


 


Era ora di andarmene. Non avevo niente da fare qui, non ero al mio posto in questo luogo. Non sarei dovuto venire, l'ho insozzato.


 


DIARIO DI MALRICH.


 


Febbraio 1997.


 


Quando Rachel è tornato a Parigi, nel febbraio 1996, si è chiuso nella sua villetta e non è più uscito. Due mesi dopo, il 24 aprile, si suicidava in garage. E' da Momo, la nostra vedetta, che ho saputo del suo ritorno. Mi ha detto: Ho visto tuo fratello dalle parti del supermercato, cazzo che faccia, non ha mica l'aids? Gli ho risposto: Lascia perdere, problemi con la sua signora e con la multinazionale.


Allora non sospettavo niente, ma mi ha messo la pulce nell'orecchio, sono andato a trovarlo. Ho finto di passare per caso, per dare un'occhiata. Mi è preso un colpo, era cadaverico, ingobbito e disorientato come un vecchio, lui che era così bello, così elegante, sempre dinamico, più organizzato di un amministratore delegato. Portava uno strano pigiama, un pigiama a righe che non gli avevo mai visto addosso, e la testa era rasata come al bagno penale, così, alla buona.


La casa era in un disordine incredibile, era sporca, puzzava, le imposte erano chiuse. Un'atmosfera da carcere. Si è seduto sull'orlo della poltrona e mi ha detto con voce fioca: Stavo per venire a trovarvi... verrò... sì, verrò. Gli ho chiesto come andava. Ha alzato le spalle come se non ci fosse niente di grave: Va. Abbiamo bevuto un caffè freddo in un silenzio imbarazzato. Lo osservavo con la coda dell'occhio, fissava il pavimento davanti ai piedi, le mani appoggiate sulle ginocchia. Se non lo avessi conosciuto, mi sarei detto: Ecco un altro drogato che viene a svegliarsi nel nostro giardino. Non era lì, era dentro alla sua testa, lo sentivo riflettere. Direi che risentiva direttamente di ciò che lo tormentava. Aveva un'aria così fragile, così solitaria. E così misteriosa. Ero commosso. Poi, all'improvviso, con un tono che voleva essere pressante e grave, mi ha rifilato la solita piccola paternale, la serietà, l'onestà, la rettitudine, gli studi. Mi sono alzato e gli ho detto: Be', vedo che stai bene, ti lascio. Mi ha trattenuto! Era la prima volta, non era mai stato nel suo stile insistere, trattenere uno per la manica, rifilargli un altro discorsetto. Mi ha detto: Ti chiedo perdono. Ha esitato e poi ha aggiunto: Non sono stato un buon fratello per te, ma non dimenticarlo mai: sono tuo fratello maggiore e ti voglio bene sopra ogni cosa. Credo di aver alzato le spalle, le effusioni mi facevano ribrezzo, mi sembrava così umiliante. Ha ripetuto: Non dimenticarlo... qualunque cosa succeda. Mi ha commosso al punto da farmi incazzare. Mi sono alzato e me ne sono andato senza voltarmi indietro.


Lo rimpiango amaramente. Avrei dovuto rimanere, parlargli, chiedergli delle spiegazioni, prenderlo per la mano, avrei dovuto trasferirmi nella villetta, sorvegliarlo da vicino. Avevo capito benissimo che era alla frutta, era chiaro come il sole. Ma a quel tempo la mia filosofia era: La gente ha i cazzi suoi e io ho i miei. Mi vergogno di ammetterlo, non sono tornato a trovarlo, me lo proibivo, ce l'avevo con lui perché non aveva mantenuto la parola, aveva detto: Verrò a trovarvi. E io lo avevo annunciato a zia Sakina che era stata tutta contenta. E avevo detto agli amici che li avrei avvertiti di passare come se niente fosse, sono bravissimi a fare numero e dare l'impressione che la vita è un'improvvisazione che invita a festeggiare.


 


Nel suo diario ci sono tre pagine sul suo suicidio. Per lui non era un suicidio, se la prenderebbe con me sentendomi usare questa parola. Lui non l'ha mai usata, mai. Parla di castigo, di giustizia. Dice che è un atto d'amore per nostro padre e per le sue vittime. Non so se è giusto mettere insieme quello che insieme non può stare, fare un unico gesto per la vittima e per il boia. Credo che non capirò mai veramente che cosa è successo nella sua testa. Deve essere così per tutti i suicidi.


Davanti ai loro corpi inerti uno ci resta come uno scemo, si fa delle domande che non hanno risposta. Adesso che ho letto e riletto il suo diario, capisco il processo mentale che lo ha portato al suicidio ma l'atto in sé è un'altra cosa, va oltre la comprensione. Capisco che uno ci pensi, il suicidio è una delle tentazioni più comuni, nel quartiere è una vera mania. Ammetto persino che a un certo punto uno possa passare alla fase concreta, prepara l'atto, decide per un'arma o per l'altra, fa delle prove, mima il disperato che si ficca una pallottola in testa, che cade stecchito, e trattiene addirittura il respiro per vedere che effetto fa, ma quanto al resto, passare all'atto, ce ne corre.

Quell'istante, non si può coglierlo. Nemmeno il suicida può concepirlo, a un certo punto scatta qualcosa ed è fatta. Quando è partito il colpo, uno non è più lì a vederlo arrivare. Rachel non ha scelto il sistema più rapido, spararsi, avvelenarsi, buttarsi da un ponte, sotto un treno, è morto a fuoco lento. Non voleva suicidarsi, voleva espiare, voleva morire gassato come le vittime di nostro padre, come se a gassarlo fosse stato papà in persona. Si è visto morire e credo che abbia fatto di tutto per rimanere lucido fino all'ultimo. Era il prezzo che voleva pagare, al posto di papà, per le vittime dei campi e probabilmente per me, per liberarmi dal fardello del nostro debito. Sì, il termine suicidio non è quello giusto. Io non vado in cerca di scuse, ma allora la vita non era rose e fiori, nel quartiere. Lo è mai stata? Penso di sì, ho il ricordo di tempi spensierati. Andavi, venivi, senza preoccupazioni, senza problemi. Se ce n'erano, soprattutto alla fine del mese, li superavi facilmente e quelli che non riuscivi a togliere di mezzo, gli giravi intorno, stringevi la cinghia, vivevi a credito, le donne tornavano al monte di pietà. Mi pare che la gente fosse più rilassata, si dava da fare senza troppo pensare che la vita era una galera da cui non sarebbe mai uscita. Si diceva in tono deciso: «Domani andrà bene»; «Viva la Repubblica, viva la Francia»; «Finché c'è vita, c'è speranza». Oppure: «Se dormi, ti passa la fame»; «Domani mangeremo con più appetito»; «Succhiati il pollice, dimenticherai»; «Fa' finta che sia il ramadan»; «Bevi un po' d'acqua e sogni d'oro»; e ci si faceva sopra una bella risata. Quando diventava un vero incubo, si fingeva di essere un soldato del '14-18 che filosofeggia nella sua trincea: «A la guerre comme à la guerre», «Si deve pur morire di qualcosa» o «Al mondo c'è di peggio» o «Un uomo muore in piedi...» E quello che ho sempre sentito dire, si potrebbe costruire un dizionario con quelle frasi da fine del mese, in genere importate dall'Africa dagli ex combattenti. Non ci si abbandonava alla disperazione, arrivati alla frutta si sfoderava il colpo segreto: Allah, Gesù, Maria e il griot. Allora il quartiere era un villaggio fuori mano, con i suoi alti e i suoi bassi, un giorno ci si aiuta, un giorno ci si ammazza, un giorno ci si riconcilia intorno al fuoco. Il villaggio aveva solo questo per vivere e per resistere, le questioni di sconfinamento, le liti fra vicini, le bazzecole dei bambini, le storie di famiglia che si aggrovigliano all'infinito, fino in fondo all'Africa. A parte le vecchie che tenevano le fila piagnucolando, nessuno aveva abbastanza pazienza per sbrogliarle e mettere la parola fine, perciò ognuno fingeva di sapere e così sparlare era un modo come un altro di parlare. Ma forse era perché ero giovane, si procedeva senza fermarsi un attimo, non si aveva il tempo di guardare sotto il tappeto, cosa ribollisse nelle cantine, cosa fermentasse nelle teste, che del resto ci arrivava a spizzichi e bocconi, avvolto nei misteri e in una straordinaria violenza, che profumava di eroismo ispirato e di generose ricompense, in terra e in cielo. Quando sono arrivati i primi integralisti, li abbiamo applauditi, si erano ribellati al tiranno e ai suoi uomini, laggiù, a casa loro, in Algeria, i Taghout, come dicevano loro, dei capibanda armati fino ai denti che ammazzavano e saccheggiavano nel modo più legale del mondo. Ne ho avuto un assaggio ad Algeri, a ogni passo mi vedevo già deportato e liquidato come un untermensch, un inferiore. Erano divertenti con le loro uniformi da kamikaze dell'antichità, il rosario a tracolla, la barba scarmigliata, la fronte segnata da cicatrici, l'occhio fiammeggiante, i sandali, ci piacevano i loro discorsi da rapper di Allah, la loro disponibilità da parroci di campagna, la loro resistenza da pompieri dei poveri. Erano un pugno di uomini ma noi eravamo una folla e non chiedevamo che di essere il loro braccio. Potevamo fare qualunque cosa, bastava che chiedessero, Allah li ascoltava e li incoraggiava. Appena usciti dal guscio, eravamo pronti, ci avevano insegnato quanto è esaltante avere della gente da odiare e desiderarne la morte fino a perderci il sonno. Ne parlavamo di notte in cantina e nella tromba delle scale, imbacuccati nei giacconi imbottiti da mujabidin, mentre i poveracci che avevano solo la loro miseria da difendere sbarravano la porta alla verità del profeta e alla riforma morale, e si addormentavano come beati idioti. In quella fase di iniziazione, si odiavano esseri astratti, senza nome e cognome, era così mistico da inebriare un santo. L'impreciso e l'inspiegabile sono gli ingredienti di base per chi vuole diventare fanatico e noi volevamo diventarlo a tutti i costi. E del resto possedevamo una cosa sola: del tempo da perdere. Quegli esseri inafferrabili, li chiamavamo gli infedeli, i kuffar, come dicevano alla moschea. Suonava bene: gli infedeli, i kuffar, i tiranni, i Taghout, dentro uno poteva mettere quello che voleva, il gatto, il cane, gli incubi. Quando ci ritennero adatti alla jihad, l'imam ci ha aperto il sacco dei kuffar e, con voce grave e ferma, ha dato a ognuno un nome: quello è l'ebreo, lo Yehudi, l'appestato, il peggiore di tutti, quell'altro è il cristiano, il masihi, l'ipocrita, il maledetto, quell'altro è il comunista, lo sbuyu'i, il mostro aborrito da Allah, quelli sono il musulmano laico, l'arabo occi dentalizzato, la donna libera, volgari cani e cagne che meritano la morte più crudele, quelli sono gli omosessuali, i drogati, gli intellettuali, da spappolare con ogni mezzo. Tutta gente che per lo più conoscevamo, vicini, vicine, compagni di scuola, colleghi di lavoro, i commercianti del quartiere, i prof del liceo, la gente della tivù. E così la Francia ci è apparsa in tutto il suo orrore: marcia fino al midollo, un vero ammasso di Untermenschen, bastardi puzzolenti e velenosi, faceva comunella con Israele, con l'America, e con quelle spaventose dittature arabe che sterminano i loro popoli per impedire all'islam di diffondersi. Era più che tempo di distruggerla. Con il passare dei giorni e dei recuperi in extremis, ognuno si è tirato fuori come ha potuto, ma molti hanno continuato a sprofondare nel delirio. Chi non guarisce per tempo dalla pestilenza integralista è un uomo perduto per i secoli dei secoli.


 


Come si è visto nei capitoli precedenti, in questi ultimi mesi la situazione è spaventosamente peggiorata. Dopo l'assassinio di Nadia per mano dell'emiro del quartiere, su ordine del suo imam, e l'arrivo della nuova squadra, il Guercio, Feccia e i loro kapò, il quartiere non è più lo stesso. E' già un campo di concentramento, è avviato su quella strada, si muore a fuoco lento, ci si barrica, si viene schedati, sorvegliati, richiamati costantemente al regolamento del Lager, l'abbigliamento, la lunghezza dei peli, i gesti da fare, le cose da non fare, le riunioni quotidiane, la mobilitazione generale del venerdì, il trip ai sermoni, le punizioni e i processi pubblici, e per finire si viene arruolati nei commando della morte in partenza per i campi afgani.


Per passare allo sterminio di massa mancano solo le camere a gas e i forni. E all'orizzonte, nemmeno l'ombra di un Giusto. Rachel non lo spiega ma ho capito che i Giusti erano quelle persone che a rischio della propria vita hanno nascosto ebrei braccati dalla Gestapo e dalla polizia. Ha fatto una scheda su questo argomento e un'altra sui Giusti tedeschi che nel cuore stesso della Macchinazione hanno mobilitato enormi risorse di astuzia e coraggio per salvare milioni di innocenti.


Certi si conoscono e i loro nomi sono altamente rispettati: Oskar Schindler, Albert Battel e altri. Papà, perché non lo hai fatto anche tu? Rachel sarebbe vivo e noi saremmo i figli di un Giusto. Rachel diceva che l'Olocausto è un'aberrazione della Storia e che l'umanità non accetterebbe mai che una cosa simile succeda di nuovo. Era istruito, informato, sapeva quello che diceva, ma credo che non abbia notato che le cose si vedono solo quando sono successe. Un minuto prima della morte uno è vivo, ma un minuto dopo c'è gente sbigottita che piange un decesso. Zia Sakina dice sempre: La differenza fra ieri e domani è il giorno di oggi, non si sa mai come finirà. E il signor Vincent, che è ferratissimo sul serraggio dei bulloni, ripeteva, osservando il nostro lavoro e incrociando le dita: Fin qui tiene, e quando si romperà lo sapremo. E poi, Rachel ha dimenticato di ammettere che l'umanità ha la bella abitudine di sbagliarsi e niente le secca quanto doversi correggere. Nel quartiere lo sanno tutti, è troppo tardi, gli integralisti sono qui, ben abbarbicati, e noi siamo qui, in trappola, mani e piedi legati. Se non ci sterminano, non ci lasceranno vivere.


Peggio, ci trasformeranno in guardiani di noi stessi, docili con l'emiro, implacabili fra noi. Saremo dei kapò. Come cambiano le cose. In pochi mesi il villaggio è diventato una stranezza assoluta: una zus del passato, ein Konzentrationslager. In pochi minuti, il tempo di sfogliare un vecchio libretto militare che non avrebbe dovuto essere lì, Rachel è caduto in un buco nero della storia. Nel giro di due anni, ha perso la salute, la ragione, il lavoro, gli amici, la sua Ophélie di sempre e la vita. E io, in soli dieci mesi sono passato dalla più crassa spensieratezza a uno stato di crisi permanente, qualcosa fra la follia, la rabbia e la voglia di andare ad annegarmi all'altro capo del mondo.


Non so cosa fare e di cosa sarà fatto il domani. Mi sento proprio solo.


Solo come nessun altro al mondo. I miei genitori sono morti, Rachel è morto, zio Ali non ne ha per molto, e non ho nessuna idea di cosa toccherà a zia Sakina. La vita è di una tristezza totale.


 


Noi amici cominciamo a dirci che è ora di levare le tende e andare a morire altrove. Ci diciamo anche che dobbiamo resistere e combattere. Un giorno giuriamo che ne vale la pena e l'indomani che non vale una cicca.


Non si capisce quale miracolo possa sbloccare questa situazione.


 


DIARIO DI RACHEL. 24 aprile 1996.


 


Il tempo mi è sembrato così lungo, in questi ultimi mesi. Su di me è passato un secolo, e non dei meno importanti, un secolo di assoluto orrore e assoluta vergogna. Mio Dio, quanto è stato lungo e quanto è costato. Sì, devo dire che ho pagato caro ogni passo, ogni parola, ogni brandello di informazione, per conoscere mio padre, per conoscere dall'interno ciò che fu lo Sterminio e come mio padre vi è stato coinvolto. L'ho seguito dall'inizio alla fine, sono entrato nei suoi pensieri e ho calcato le sue orme. Non mi sono mai tirato indietro, mai, né davanti alla camera a gas, né davanti all'incredibile quotidianità del deportato, né davanti alla sofferenza che mi divorava il cuore ogni giorno infinitamente di più. Se le mura dei campi, se i fantasmi dei deportati, se gli uomini e le donne che ho incontrato nel corso del mio viaggio nello Sterminio, se i libri che ho letto e riletto potessero testimoniare, direbbero: sì, quest'uomo non ha risparmiato le forze, può parlare, sa.


 


Credo di aver dato prova di onestà, nei limiti del possibile ho considerato i prò e i contro, niente è mai tutto nero ed è rarissimo che tutto sia bianco come la neve. Non ho sminuito la responsabilità di mio padre, che era solo un'infima rotella di una macchina straordinaria, né ho pensato che questa macchina cieca abbia potuto funzionare per un solo attimo senza la ferma volontà di ciascuno degli uomini al suo servizio.


Qualcuno potrà negarlo, ma poiché lo conosco, per quanto un figlio può conoscere suo padre, credo che non abbia mai dato prova di crudeltà. Lui era così, austero, rigoroso, inflessibile. Anche un po' opportunista, a giudicare dalle sue avventure in Egitto e in Algeria. Bisogna pur vivere, ha accettato quello che gli offrivano: spia, istrut tore militare, che so io. In Algeria, per lo meno, ha fatto abbastanza da meritare il titolo, glorioso per gli algerini, di ex mujahid. Nel suo villaggio era un venerato sceicco, è stato un marito devoto per la mamma e un buon padre per noi, al punto da privarsi della nostra presenza e mandarci in Francia a studiare per costruirci un solido futuro. E' stato vittima della barbarie ed è assurto al rango di shahid, martire della nazione. Per Ain Deb è un Giusto. Uno non può scegliere la propria vita.


Mio padre non ha scelto niente, si è trovato lì, su quella strada che portava all'infamia, nel cuore dello Sterminio. Non poteva abbandonarla, poteva solo chiudere gli occhi e percorrerla. Nessuno sogna di essere un carnefice, nessuno sogna di essere un giorno giustiziato. Come il sole sfoga il suo eccesso di energia in straordinarie esplosioni sporadiche, di tanto in tanto la storia espelle l'odio che l'umanità ha accumulato in sé, e quel vento ardente spazza via tutto ciò che trova sulla sua strada. Sarà il caso a decidere se uno si trova qui o lì, al riparo o allo scoperto, con il fucile in pugno o davanti al fucile, Io non ho scelto niente, tranne di vivere una vita tranquilla e laboriosa, ed eccomi qui su un patibolo che non è stato costruito per me. Pago per un altro. Voglio salvarlo, perché è mio padre, perché è un uomo. E' così che voglio rispondere alla domanda di Primo Levi, Se questo è un uomo.


Sì, qualunque sia la sua degradazione, la vittima è un uomo, e qualunque sia la sua ignominia, anche il carnefice è un uomo. Ma al tempo stesso, la scelta tocca interamente a noi, in ogni istante. Fra noi e la vita c'è un patto: lei ci lascia quando vuole, se ci ritiene indegni di lei o troppo imbevuti del nostro potere, e noi abbiamo il privilegio di lasciarla quando vogliamo, non appena prende una direzione che non è conforme ai nostri ideali e si ostina a seguirla. Ce lo si dice e ci si separa amichevolmente, per quanto doloroso e definitivo sia. Morire per morire, tanto vale farlo nel rispetto della propria persona e nel rispetto dell'altro. Mio padre ha scelto la sua strada e ogni volta che la vita gli ha offerto un'alternativa, ha confermato quella scelta. Non ha ucciso una persona, ne ha uccise due, poi cento, poi migliaia, e decine di migliaia, e avrebbe potuto ucciderne milioni. Era immerso nell'o dio e nel servaggio, e quelle voragini nella mente sono senza fondo. E alla fine, al momento del bilancio, al momento del risveglio, ha scelto di voltare le spalle alle sue vittime e fuggire. Significava ucciderle una seconda volta, è orribile. Poi ha deliberatamente commesso l'errore di trasmettere la vita sapendo che prima o poi la verità sarebbe venuta a galla e i suoi figli avrebbero sofferto le pene dell'inferno. Dire di un uomo simile che non è un uomo significa togliergli la sua responsabilità, e in questo modo dargli l'avallo. In tal caso non avrebbe nulla da riparare, nessun perdono da chiedere. Ma persino per Dio in tutta la sua gloria, persino per Satana in tutta la sua forza, la gratuità non esiste; devono meritare il trono e conservarlo, siamo stati noi a incoronarli. E se nulla insomma che sia in potere dell'uomo di fare potrà risanare mai più, si può almeno prendere questo impegno: pagare, pagare senz'altro. Non ci si lascia dei debiti alle spalle. Così, per mio padre e per le sue vittime pagherò senz'altro. E' semplicemente giustizia. Non si dirà che tutti gli Schiller hanno sbagliato. Che Dio, quella cosa cieca e sorda che vaga maestosamente nel cielo, perdoni mio padre e prenda nota del fatto che, per quanto mi riguarda, non mi aspetto niente da lui. Che le sue vittime ci perdonino, ecco cosa conta per me. La mia morte non risana niente, è un gesto d'amore. Caro Malrich, fratellino mio, se leggi questo diario, perdonami. Avrei dovuto parlarti e condividere con te questo terribile fardello. Eri così giovane e così poco preparato. Ecco, faccio ammenda, ho scritto questo diario per me quanto per te. Sii forte e riga dritto.


Ti voglio bene. Da' un bacio da parte mia a zia Sakina e zio Ali. Se vedi Ophélie, dille che la amo e chiedile di perdonarmi.


 


Sono le undici. L'ora del mio appuntamento.


 


FINE


 


P. S. Desidero che questo diario sia consegnato a mio fratello Malek Ulrich Schiller. Vi prego di rispettare la mia volontà e vi ringrazio.