venerdì 21 novembre 2025

LA RISOLUZIONE 2803 DELL'ONU E UN BILANCIO SU DUE ANNI DI PROPAGANDA PRO HAMAS

 

LA RISOLUZIONE 2803 DELL'ONU E UN BILANCIO SU DUE ANNI DI PROPAGANDA PRO HAMAS 
 Filippo Piperno 
 
21/11/2025

La risoluzione 2803 del 17 novembre scorso, deliberata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu sul piano di stabilizzazione per Gaza, ha prodotto un effetto chiarissimo: ha messo spalle al muro la macchina propagandistica che negli ultimi due anni ha tentato di trasformare Hamas in un soggetto “legittimo” e Israele in uno Stato criminale, colonialista e soprattutto illegittimo sul piano storico e giuridico.

Con tredici voti a favore, senza il veto di Russia e Cina, e un impianto che prevede una forza internazionale di stabilizzazione e un organo di governo transitorio capace di neutralizzare il potere militare e amministrativo di Hamas, l’ONU ha certificato ciò che molti sodali occidentali della “Palestina modello Hamas” per due anni hanno cercato rabbiosamente di esorcizzare e contrastare: la definitiva uscita di scena di Hamas.

Dal 7 ottobre 2023 un apparato comunicativo senza precedenti – potentissimo ed efficace – che va da Hamas ai suoi terminali mediatici in Occidente, si è trasformato in una centrale di produzione narrativa con un unico obiettivo: salvare Hamas da un destino che, dal 7 ottobre in poi, è apparso inevitabile.

Hamas ha compiuto uno dei più atroci massacri terroristici a memoria d’uomo, pensando di replicare la logica di altri conflitti: colpire, provocare, resistere, sopravvivere e capitalizzare politicamente. Ma questa volta l’azzardo era troppo grande perché Israele non rispondesse con la forza di un Paese che ha percepito una minaccia esistenziale. Quella mattina dell’otto ottobre lo avevano capito tutti, ma soprattutto lo avevano capito Hamas e i suoi sodali.

Per la portata spaventosa di quel massacro compiuto sul suolo israeliano, Hamas ha capito immediatamente che la sua sopravvivenza politica e militare era ormai appesa a un filo. Nessuno nel mondo arabo — sempre più interessato a rapporti economici e scambi commerciali che alla retorica palestinese, come dimostra la cronaca di questi giorni — avrebbe mosso un dito. Rimanevano l’Iran e i suoi proxy, ma sappiamo com’è andata a finire anche quell’opzione.

Di fronte alla prospettiva della propria distruzione, Hamas ha giocato l’ultima carta disponibile: ribaltare colpe e ruoli come uno stupratore che accusa la sua vittima. Chi agisce una violenza atroce e teme una reazione, cerca immediatamente di criminalizzare la vittima per trasformare il proprio crimine in una “reazione giustificata da un torto più grande”.

Hamas, dunque, facendo leva sui suoi compiacenti megafoni occidentali, intrisi di antisemitismo e antioccidentalismo, ha impostato una campagna comunicativa fondata su tre obiettivi:

Delegittimare moralmente Israele fino a demonizzarlo, attraverso l’utilizzo onnipervasivo di parole come “genocidio”, “pulizia etnica”, “apartheid”, mantra etici prima ancora che categorie giuridiche.
Imporre all’opinione pubblica numeri di vittime civili nella guerra di Gaza mai verificati, forniti da un ministero della salute controllato dagli stessi terroristi, numeri trasformati dai compiacenti media occidentali in verità rivelate.
Neutralizzare completamente la portata storica e simbolica del 7 ottobre, riducendolo a un antefatto irrilevante o addirittura negandone i dettagli più macabri, per resettare la cronologia morale del conflitto.
È stata un’operazione chirurgica di manipolazione per la quale l’assassino è divenuto “legittimo e resistente” e la vittima “illegittima e genocida”.

Questo capolavoro comunicativo, reso possibile — lo ripeteremo fino alla noia — da un diffuso pregiudizio antisraeliano e antisemita, è stato quello di riuscire a vendere l’idea — totalmente antistorica — che Israele avesse interesse a “sterminare deliberatamente il popolo palestinese”, quando l’unico interesse reale dello Stato ebraico era e resta quello di distruggere Hamas come entità politica e militare.

C’è un ulteriore elemento che ha caratterizzato questa strategia, conferendole — occorre riconoscerlo — un’ulteriore efficacia: estendere la lotta contro lo Stato d’Israele a tutto l’ebraismo. Che la parola “genocidio” sia stata brandita così spesso senza alcun riferimento alle definizioni giuridiche, ai requisiti probatori o persino alla logica, non è stato un incidente ma un tentativo deliberato di trasformare la Shoah ebraica, tragedia storica unica per vastità e modalità di esecuzione, in un dispositivo retorico manipolabile a piacere.

Un progetto di banalizzazione che ha offeso le vittime, infangandone la memoria e, soprattutto, attraverso il suo rovesciamento, ha alimentato un clima di ostilità permanente verso gli ebrei, nelle scuole, nelle università, negli spazi pubblici. Con la complicità e il silenzio della “buona società”.

Il rullo compressore di questa campagna, durata due anni, ha fatto vacillare per la prima volta anche segmenti di opinione pubblica tradizionalmente tiepidi o indifferenti nei confronti della causa palestinese. Persino persone da sempre vicine al sostegno d’Israele, nella sfera pubblica e in quella privata, hanno manifestato disagio nei confronti della martellante narrazione della guerra di Gaza, allegramente appaltata dai media occidentali alla propaganda di Hamas.

La spiegazione di questa escalation propagandistica, di portata planetaria, va cercata nella reazione furiosa che lo spettro della fine di Hamas — e del suo ecosistema internazionale — ha generato nei sostenitori della “Palestina Hamasizzata”. Un sistema che, per decenni, ha prosperato grazie a un intreccio di complicità politiche, opacità finanziarie e una gestione distorta degli aiuti umanitari, in alcuni casi persino con il sostegno attivo di agenzie ONU come l’UNRWA.

È un ecosistema, quello di Hamas a Gaza, riassumibile in quattro pilastri:

fondi internazionali drenati senza controllo, in un circuito di finanziamenti che ha permesso la sopravvivenza politica del regime di Hamas più che il sostegno alla popolazione civile;
aiuti umanitari convertiti in armi e infrastrutture militari, grazie a una rete logistica parallela in cui perfino alcune agenzie umanitarie hanno finito per diventare, nei fatti, parte di un contesto che Hamas ha abilmente manipolato;
un regime totalitario che ha usato i civili come scudi e come risorsa retorica, seguendo la logica disumana per cui “più sono le vittime, più vinceremo la narrativa”;
il mantenimento dell’utopia eliminazionista “from the river to the sea”, che rimane il vero obiettivo ideologico di Hamas, ben oltre qualsiasi prospettiva politica per i palestinesi.
Questo sistema — finanziario, militare, ideologico, propagandistico — ha temuto dopo il 7 ottobre che la sua lunga stagione di impunità potesse avviarsi al tramonto.

Da qui è partita la campagna comunicativa più aggressiva degli ultimi decenni: una guerra delle parole combattuta per evitare che la realtà dei fatti, oggi cristallizzata anche dalla risoluzione ONU, imponesse la verità più semplice di tutte: dopo il 7 ottobre l’esistenza politica e militare di Hamas non era più tollerabile.

Da qui l’escalation: più Hamas era sotto pressione militare, più la propaganda occidentale antisraeliana vicina ai suoi interessi diventava urlata, apocalittica, sovraproduttiva di accuse, immagini decontestualizzate, numeri non verificati, paralogismi giuridici.

La furia propagandistica di questi due anni non è stata un eccesso emotivo: è stata una deliberata strategia di sopravvivenza. Hamas ha capito che il tempo della sua impunità — politica, militare e finanziaria — stava finendo e ha avviato, con successo e per il tramite dei suoi sodali occidentali, una campagna tesa a:

– spostare l’attenzione dal 7 ottobre;


– svuotare di qualunque legittimità la reazione israeliana;


– restaurare la centralità del paradigma “Israele = male assoluto”, stato illegale che ha espropriato i palestinesi della propria terra, cancellando ogni responsabilità politica, militare e morale di Hamas.

Solo la tregua di Gaza è stata capace di spezzare questo incantesimo criminale e la comunità internazionale — incluso l’ONU stesso — ha preso atto del fatto che la governance di Gaza non può tornare nelle mani di Hamas. La risoluzione appena approvata va esattamente in questa direzione: supervisionare, stabilizzare e depotenziare il potere armato dell’organizzazione. Esattamente lo scenario che Hamas e i suoi sostenitori hanno cercato rabbiosamente di evitare.

Da ultimo, c’è poi un fatto che merita di essere evidenziato: la fine di Hamas è stata resa possibile proprio da quella guerra che quasi tutta la comunità internazionale ha cercato di fermare sin dal primo giorno. È un dato storico, non un’opinione. In tutte le prime bozze americane del 2023 e del 2024 — comprese quelle volute da Biden nella primavera del 2024 — la smilitarizzazione di Hamas semplicemente non esisteva.

Washington inseguiva ancora il mantra della “riduzione delle ostilità”, come se Hamas fosse un soggetto riconducibile alla logica dei conflitti convenzionali, non un’organizzazione armata che aveva appena compiuto un massacro deliberato di civili.

È solo grazie al fatto che Israele ha combattuto Hamas, ridicolizzando il bluff iraniano e i suoi proxy che oggi la Risoluzione 2803 può parlare senza più ambiguità di depotenziare Hamas, stabilizzare Gaza e impedirne la ricostruzione militare.

Paradossalmente, proprio quei governi che per mesi hanno invocato “stop immediati”, pause, moratorie e soluzioni diplomatiche premature, oggi sostengono un impianto ONU che dà per acquisita la sconfitta militare dell’organizzazione come condizione necessaria per qualsiasi futuro politico della Striscia.

È una verità che non farà piacere ai molti dubbiosi in buona fede e alla rigida ortodossia onusiana: se il Consiglio di Sicurezza avesse approvato una risoluzione simile alla 2803 due anni fa, decine di migliaia di morti si sarebbero evitati, compresi i circa mille giovani israeliani caduti combattendo in quella guerra.

Ma quella risoluzione non venne approvata allora, perché nessuno — né Washington, né Bruxelles, né le capitali arabe — era disposto ad assumersi il costo politico di dire ciò che oggi appare evidente e che solo Israele ha sempre sostenuto: l’unico vero ostacolo insormontabile alla pace era Hamas. E i suoi supporter occidentali.

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