venerdì 28 novembre 2025

L'AMICO RITROVATO Estratto Fred Uhlman



L'AMICO RITROVATO

Fred Uhlman

Estratto 

"L'amico ritrovato" (titolo originale: Reunion) di Fred Uhlman, uno dei libri più noti e toccanti della letteratura sulla Shoah e sull'amicizia tradita dal nazismo.

Il brano si trova nel capitolo in cui Hans Schwarz, il protagonista e narratore, ormai adulto e rifugiato in America, riceve una lettera dalla Germania post-bellica che gli comunica il destino del suo ex migliore amico Konradin von Hohenfels. La scena della jeep, dei cani e di Katzman (un soldato americano di origine ebraica) avviene nel momento in cui Hans torna in Germania dopo la guerra e visita ciò che resta della sua vecchia scuola e del cimitero.

L'AMICO RITROVATO

Estratto 

16

La jeep si arrestò a lato dei due furgoncini militari e i cani smisero di abbaiare all’impazzata. Ansimavano, con la lingua penzoloni, incerti. Katzman scese dalla jeep e si guardò attorno. Tutti gli abitanti erano già riuniti in piazza, così pareva: una folla silenziosa e tesa. I vecchi sedevano su sedie di paglia e sonnecchiavano appoggiati ai bastoni; pareva che dovessero evaporare pian piano da dentro le pieghe della loro pelle. I bambini con la testa rapata fissavano su Katzman sguardi allegri. Sheffer, tutto sudato e rosso in faccia, si avvicinò a lunghi passi. Il sole batteva direttamente negli occhi di Katzman, e per guardare verso la collina doveva mettersi una mano davanti agli occhi.

Sheffer gli borbottò un saluto iroso:

«È proprio una tana, Katzman».

Katzman gli rivolse un sorriso garbato. «Per te, Sheffer, solo la merce più scelta.» Fece col capo un cenno verso i paesani che si affollavano ai lati del sentiero come uno stormo di uccelli. «Vedo che sanno già tutto.»

Sheffer misurò gli astanti con uno sguardo velenoso. «Cosa credevi? Non sono nemmeno andati a lavorare nei campi, oggi. Nessuno. Gli offre un bello spettacolo, il nostro Laniado. Andiamo?»

Dietro le macchine militari, Katzman scorse la sua Carmel, che Uri aveva preso quella mattina. Era chiaro che era stata lasciata lì in fretta: era parcheggiata di traverso sul sentiero, con tutti i finestrini aperti. Aveva l’aspetto derelitto che la tragedia imprime sulle piccole cose di ogni giorno.

Sheffer abbassò la voce: «Ha mandato un altro messaggio radio».

Katzman si fermò, aspettando che proseguisse.

«Circa un’ora fa. Ha detto che faremo meglio a non tentare di definire la questione con la forza. E che lì c’è gente armata. Ha ripetuto il suo…» Sheffer non riusciva a trovare la parola adatta «la sua richiesta, il suo ultimatum, insomma. Sono già tre mesi che ci infastidisce con la sua filosofia da benpensante di sinistra, e ora bisognerà anche farsi accoppare per lui…»

Katzman gli toccò una spalla e Sheffer si zittì come se avesse ricevuto una scossa elettrica. Ansimò un momento e poi ripeté, obbediente, il resto del messaggio: «Era arrabbiato, poi, perché tu non eri ancora venuto qui». Katzman si riscosse e andò avanti. Un gruppetto di ragazzi in uniforme scolastica si mosse accanto a loro, fra risolini pieni di intenzioni nascoste. Katzman era inquieto, e Sheffer ne era consapevole: si voltò verso i ragazzi e urlò qualcosa, loro si arrestarono, ridacchiando. Da una delle alture vicine un pezzo di lamiera emetteva stridori di fulgida luce. Katzman si tolse di tasca un paio di occhiali da sole e se li mise.

Andarono verso una tenda improvvisata con reti mimetiche. Alcuni soldati che stavano allestendo un piccolo accampamento si volsero a guardarli. Katzman vide un’autobotte e una cucina da campo. Un soldato stava pisciando contro un muretto di pietre. Katzman sollevò la rete mimetica e vide gli altri soldati sdraiati in quell’ombra bucherellata: sonnecchiavano masticando gomma mentre grosse mosche verdastre si posavano indisturbate sulle loro labbra. Katzman pensò, con una punta di gelosia, a quella capacità, così tipica dei soldati, di adattarsi a ogni situazione: erano lì solo da tre ore ed erano già diventati parte della polvere locale. Vicino ai suoi piedi giaceva un soldato con le gambe molto lunghe: il suo viso era coperto dal berretto, sporgeva solo il mento. Katzman lo colpì con un lieve calcio contro una spalla e il soldato brontolò qualcosa. Katzman lo colpì di nuovo. Il soldato si tolse il berretto con una mossa di sfida, ma quando vide, da sotto in su, Katzman, si alzò lentamente.

Katzman attese finché non fu in piedi. «Ora siediti» gli ordinò, in un tono dolcemente velenoso. «Sedete tutti.» Invitò, con un gesto, anche Sheffer a sedersi, e lui stesso si accovacciò, appoggiandosi a una sottile colonna di marmo cui era stata legata la tenda. «Ditemi come vanno le cose.»

I soldati mormorarono qualche parola confusa, lasciandosi filtrare la sabbia fra le dita. Sheffer si agitò, iroso. Rivoli di sudore gli scendevano sulla faccia arrossata.

Uno dei soldati disse: «Bisognava fare irruzione stamattina, appena arrivati. Ora è già troppo tardi».

Un altro, quello che Katzman aveva svegliato con un calcio, brontolò: «Questo è un affare per truppe scelte, non per reclute come noi, che…» ma Katzman non lo lasciò finire e chiese a Sheffer se gli interrogatori in paese erano stati eseguiti a dovere. Sheffer rispose con freddezza, ben attento a non lasciar trapelare la sua impazienza: «Sono stati interrogati alcuni abitanti, il personale che parla arabo non è sufficiente. L’ufficiale dei Servizi Segreti in questo momento è a colloquio con il mukhtar. Ah, sì: il padrone del caffè ha visto stamattina, alle sei, Laniado che correva su per il sentiero che porta alla grotta. Ha detto che sembrava spaurito e confuso. Ha detto anche che Khilmi, si chiama così, quel vecchio, è matto, che è sempre stato matto».

«Ha parlato di armi?»

«No. Secondo lui il vecchio non sa nemmeno come si fa a sparare. Tieni presente che quasi tutti, in paese, erano convinti che Khilmi fosse morto già da un pezzo, perché nessuno l’ha più visto da mesi e mesi.» Tacque di nuovo, e poi riprese: «E c’è una bambina, una sua nipote, o una che lui crede che sia sua nipote – i legami familiari, a quel livello, sono complicati – che gli porta da mangiare tutte le mattine».

«È stata già interrogata?»

«È muta. Cosa ti posso dire, Katzman, tutto questo affare mi sembra così strano. La famiglia del vecchio, per esempio, si dice che…»

Qualcuno, davanti alla tenda, si schiarì la gola. Sheffer scostò la rete e il mukhtar entrò, sprofondandosi in inchini a destra e a sinistra, fino a che non vide Katzman e allora si irrigidì tutto: era chiaro che lo mortificava il fatto di sentirsi più alto di tutti i presenti. Dopo di lui entrò anche l’ufficiale dei Servizi Segreti preposto al distretto. Katzman invitò entrambi a sedersi. Il mukhtar, che luccicava tutto di sudore, cominciò subito a parlare, palesemente ansioso, Katzman lo zittì e diede uno sguardo interrogativo all’ufficiale, che scosse la testa: no, dalla bocca del mukhtar non aveva appreso nulla di nulla. Katzman chiese nel suo pessimo arabo: «Chi c’è lassù, col vecchio?».

Il mukhtar aprì le braccia, sgomento. Non sapeva che ci fosse qualcuno che andava da Khilmi, eccetto una bambina, Nadjach, che per pietà gli portava da mangiare. Katzman non lo ascoltava: guardava stupito i rivoletti di sudore che gli colavano ai lati del naso. Povero mukhtar, doveva avere qualcosa che non funzionava a dovere nelle ghiandole sudoripare. L’ufficiale dei Servizi Segreti disse: «Chiunque sia, non è gente di Andal. Il mukhtar ha una lista di nomi, e ne abbiamo una anche noi. Le abbiamo confrontate: sono identiche».

Katzman apparve contrariato. Se una banda di terroristi venuti da fuori aveva preso posizione nella grotta e si era scontrata per caso con Uri quella mattina, la situazione era ben più grave di quanto avesse supposto. Chiese: «Qualcuno ha esaminato le tracce sul sentiero?».

«Ho mandato uno dei miei uomini fino alla curva» rispose Sheffer, «perché più avanti siamo già allo scoperto. Però fin lì non sono state trovate tracce.»

«Forse sono venuti qualche giorno fa e le tracce si sono cancellate.»

L’ufficiale dei Servizi Segreti disse: «Ho lasciato istruzioni a Djunni, perché ci mandino un perlustratore esperto nell’individuare le tracce». Guardò il suo orologio. «Dovrebbe essere già qui.»

La faccia di Katzman era una maschera di marmo, ma non gli era facile mantenerla inalterata. Sheffer se ne accorse ed ebbe un sospetto. «E il Generale, cos’ha detto di questa iniziativa?» chiese.

«Il Generale» ribatté Katzman «ti manda i suoi saluti.»

Nella tenda era tornato il silenzio, si sentivano di nuovo volare le mosche. Il caldo era soffocante. Sheffer raccolse due pietre e le batté una contro l’altra, con rabbia. I suoi sospetti, dunque, erano confermati. Per qualche ragione Katzman aveva preferito non far rapporto ai superiori. Perché? Era una grave violazione delle norme. Forse cercava di tirar fuori Laniado da quel pasticcio senza troppo chiasso, per salvarsi la pelle? Inconcepibile: c’erano troppi testimoni! Sheffer sentì un moto di ribellione: perché Katzman si nascondeva dietro quegli occhialoni neri, anche nell’ombra della rete mimetica? Chiese: «E allora cosa si fa, Signor Comandante?». Katzman avvertì quel tono di sfida, ma non reagì. Congedò il mukhtar dopo averlo avvisato che lo riteneva responsabile del mantenimento dell’ordine: per prima cosa, doveva impedire ogni assembramento.

Il mukhtar se ne andò. Katzman si rivolse a Sheffer e disse, con un sorriso ironico: «Per ora non si fa niente. Si aspetta». Non si era accorto che, mentre parlava, aveva continuamente accarezzato con un dito il pilastro di marmo che aveva alle spalle di là dalla rete, e ora lo stupiva la stranezza di quel contatto. Si alzò in piedi ed esaminò il pilastro: sembrava il piedistallo di una statua. Preso da un incomprensibile senso di urgenza, allargò con le dita uno dei pori della rete e guardò. C’era una statuina che raffigurava un angelo. La fissò a lungo, stupito. La faccia della statua era spezzata e bucherellata, ma le ali erano perfette e facevano volare l’angelo in alto, sopra la rete color terra, sopra tutto quel polveroso paese. Katzman toccò le ali e si sentì invadere dalla malinconia.

«E va bene» disse Sheffer, sgarbatamente, «quando il Signor Colonnello avrà deciso…»

Katzman si voltò verso di lui con un balzo inatteso: sembrava il balzo di una serpe che sta per mordere. «Quando avrò deciso, Maggiore, glielo farò sapere.» Posò di nuovo un dito sulla statuina, ma non ne provò più piacere.

Un soldato entrò nella tenda portando una cassetta di bibite. Sheffer stappò tutte le bottiglie, una dopo l’altra, coi denti, suscitando stanche esclamazioni di meraviglia. Katzman inghiottì qualche sorso di una bevanda tipica e nauseabonda. Guardò l’etichetta, scritta in arabo: 7-UP. Ah, gli affari vanno a gonfie vele qui in paese, pensò. Un capitano coi capelli biondi e una faccia da bambino fece capolino nella tenda: salutò Katzman con un cenno della testa e chiamò i soldati, perché andassero con lui. Quelli, brontolando, si alzarono a fatica, come se si sradicassero da terra, e uscirono.

Appena l’ultimo soldato fu uscito, Katzman disse, prima che Sheffer facesse in tempo ad aprir bocca: «Non pensarci più». Il litigio di qualche minuto prima era accantonato, sebbene Sheffer fosse ancora molto inquieto, e tutti e due si misero a esaminare i particolari dell’azione imminente.

Sheffer aveva prestato servizio alle dipendenze di Katzman fin quasi dal giorno in cui si era arruolato. Aveva fatto parte dell’Unità Carristi comandata da Katzman, e poi, durante la Guerra dei Sei Giorni, aveva combattuto insieme a lui nel Sinai. Il loro carro armato era stato colpito. Katzman era stato fatto volare lontano, ma era riuscito a tornare, strisciando, fino al carro in fiamme, per trarre in salvo Sheffer, e Sheffer non lo dimenticava. Era rimasto disteso vicino alla torretta spezzata, non in immediato pericolo, ma così paralizzato dalla stanchezza che non riusciva a muoversi. Per la prima volta in vita sua si era sentito impotente. Dentro il carro, sotto di lui, ardeva il fuoco, e si sentiva il fetore della carne bruciata. Poi, all’improvviso, era apparso Katzman, pallido e lento: zoppicando fra le fiamme l’aveva tratto in salvo. Gli occhi di Katzman erano così privi di vita che a Sheffer era parso che uno spettro fosse venuto a salvarlo. Lui, invece, era uno di quei fegatacci intrepidi che corrono a sfidare il pericolo con un coraggio sventato che Sheffer stesso, dentro di sé, sapeva bene essere simile alla paura. Il modo di comportarsi di Katzman nei momenti di pericolo non cessava di stupirlo: sembrava che proprio il pericolo gli infondesse calma. Infatti una volta, dopo uno scontro armato, gli aveva detto che il pericolo gli dava un senso di piacere, una promessa esaudita. Sheffer non aveva capito cosa intendesse dire, e Katzman non aveva mai osato spiegargli che nel pericolo si sentiva abbracciato e cullato, come un bambino protetto dalla mamma.

Per un breve periodo erano stati separati. Sheffer marciva in un ospedale, e Katzman era stato trasferito sul Fronte Est, dove aveva preso parte alla conquista della città di Kalkilya, e alla fine della guerra aveva avuto la sorpresa di sentirsi nominare Comandante di un nuovo campo profughi sorto allora presso Nablus. Poi, quando Sheffer era stato dimesso dall’ospedale, Katzman era stato incaricato dell’istruzione dei nuovi carristi e aveva richiesto il trasferimento di Sheffer al suo fianco. Così aveva fatto anche quando era stato nominato Governatore Militare di Djunni: voleva che quell’iracondo Maggiore, di cui si fidava ciecamente, fosse con lui. Sheffer gli faceva da intermediario con i sottoposti, ai quali traduceva in linguaggio militare e pratico i suoi ordini, spesso nebulosi. E la notte prima, in quello scontro coi terroristi, Sheffer l’aveva salvato da una morte sicura. Ah, la vecchia, nascosta, simmetria!

Katzman disse: «Però vorrei che il perlustratore risalisse il sentiero. Solo pochi metri dopo la curva».

Sheffer si grattò tranquillamente il torace. «Non mi piace l’idea di mandare lassù un soldato.» Esitò un attimo e poi aggiunse: «Cosa succede davvero, Katzman? Non fai un rapporto?».

«Per ora, no.»

«Ma devi farlo.»

«Devo fare come la penso. Per ora, nessun rapporto.»

«È per via di Laniado, eh?»

La microscopica contrazione sul viso di Katzman non sfuggì agli occhi di Sheffer. Katzman rispose, brevemente: «No. È perché credo che possiamo arrangiarci da soli. Poi ci sarà tutto il tempo per fare rapporto».

«Stai commettendo un grave errore, Katzman. Questa non è una normale irruzione. Forse abbiamo a che fare con una banda di terroristi bene addestrati, di quelli che sanno cosa vogliono. Non come quei ragazzacci di ieri notte. Katzman, devi…»

«No.»

Sheffer lo fissò, stupefatto.

«Però» disse Katzman, «manda un soldato su per il sentiero. Anche se credo che non ci sia nessuno. Ah…» s’interruppe. Esitò un attimo. Che diritto ho io di fare questi giochi, si chiese. Non tutti hanno un cervello tortuoso come il mio. Certamente non Uri. Ciononostante, era pronto a scommettere sulla propria testa che aveva ragione lui. Riprese: «Credo che non ci sarà nessun problema, lassù, per il soldato che salirà il sentiero, voglio dire». E appena ebbe sentito quelle parole uscirgli di bocca, fu ancora più sicuro della verità di quella strana idea che gli era balenata nella mente, mentre accarezzava le ali dell’angelo.

«Cosa… cosa vuoi dire, Katzman?» Sheffer stava per perdere la pazienza, come gli succedeva spesso.

Katzman batté le palpebre e rispose con noncuranza: «Può darsi benissimo che lassù ci siano solo Laniado e il vecchio».

Sheffer lo guardò per vedere se accennasse a sorridere. Poi sbottò: «Com’è possibile? Se Laniado stesso» e si frugò nelle tasche cercando quel foglietto spiegazzato. «Sta’ a sentire, Katzman, qui c’è scritto che…»

Un lampo di entusiasmo passò negli occhi di Katzman. «Dimmi, Sheffer, tu non te l’eri aspettato, questo momento?»

«Quale momento?» Sheffer aveva finalmente trovato il foglietto che cercava; lo sventolò per un attimo, e se lo rimise in tasca. Poi prese un pacchetto di sigarette e cercò di raffreddare la collera col fuoco e col fumo.

«Il momento in cui sarebbe successa una cosa come questa» cominciò a dire Katzman, ma si arrestò in tempo e intrecciò le dita: era un gesto che gli dava sempre piacere, come se unisse le parti di un puzzle. La pelle del viso gli si stirò sugli zigomi. L’ombra delle sue guance incavate si fece più scura.

Sheffer non comprese. «Proprio non riesco a capire cosa vuole dirmi, Signor Comandante.» Sheffer non era stupido, ma a volte gli era veramente impossibile capire Katzman, per non dire che quel suo modo di esprimersi avrebbe fatto perdere la pazienza a un santo. Ecco che adesso ripeteva con lui il vecchio giochetto di una cauta e tollerante ironia; ecco di nuovo la sua maligna rapidità di pensiero e la dolcezza del suo sorriso di fronte all’ottusità della faccia di Sheffer e a quel suo fastidioso modo di dirgli: “Signorsì, Signor Comandante”.

Katzman pensò: la belva si prepara al balzo nel buio; un milione di istinti naturali, di impulsi ricacciati indietro. Una materia viva, indistruttibile. L’ira che si ammassa, le gocce della coscienza del torto che formano stalattiti. Quel filtrare di eventi, Katzman lo sentiva pulsare, implacabile e fragile al tempo stesso, nel folto dei suoi pensieri. In ogni desiderio represso affiorava una minaccia. In ogni chinare di testa in atto di sottomissione si celava l’energia necessaria a drizzare la testa. Katzman misurava dentro di sé quella energia. Il veleno cominciava a fermentare nelle vene della moderazione forzata. Sugli schermi della sua mente vide proiettate per un attimo le immagini degli ironici cappelloni di paglia. L’umiliazione concede all’uomo l’occasione di preservare la forza necessaria a mantenere in vita una vana fierezza, e farne tesoro. Katzman chiuse a forza gli occhi. Solo un pazzo come Uri poteva essere capace di uscire dalla propria vita e osservarla dal di fuori, fregarsi gli occhi e stupirsi pensando come una cosa simile poteva essere accaduta; come abbiamo potuto diventare, tutti noi, degli ostaggi? Katzman non aveva nessuna voglia di aprire gli occhi per vedere davanti a sé l’impazienza di Sheffer. È come una sfinge, pensò. Come una bestia mitologica che si tiene sulla porta della città, sulla porta di ognuno di noi, e divora chiunque non sappia risolvere l’enigma. Katzman aveva sempre creduto che non esistesse una soluzione; ma ora gli sembrava che se Uri aveva davvero fatto quello che lui pensava, significava che aveva trovato la soluzione.

Disse: «Prima o poi qualcosa di questo genere doveva succedere. È una elementare questione di statistica. Uno su un milione doveva reagire, non credi?».

«Reagire?» Sheffer rise, incredulo. «Di cosa parli, Katzman? Lassù c’è una banda di terroristi. Hanno preso un ostaggio, mercanteggiano. Cosa intendi per “reagire”?»

«Hai ragione. Ragionavo solo, così…» rispose incoerentemente Katzman, gesticolando. E pensò: Uri e il vecchio reagiscono, combattono. Lo so. Combattono contro di me. Mi parlano in termini di valori assoluti. L’esercito deve ritirarsi da tutti i Territori, se non lo farà, Uri sarà messo a morte. Chiedono che sia fatta giustizia. Una giustizia assoluta, completa e pura.

E subito si ricordò di una conversazione che si era svolta fra lui e Uri a Sant’Annarella. Aveva creduto in quello che diceva allora: aveva davvero creduto che la giustizia è come un ormone che il cervello secerne in presenza di un torto. Però Katzman aveva in sé un meccanismo che lo difendeva dalle conclusioni cui le sue stesse parole conducevano; Uri, invece, era privo di quel meccanismo. Perciò Katzman poteva continuare a fingere e a nascondere quello che dentro di sé pensava delle cose, mentre Uri restava sempre solo un ridicolo dilettante, che suscitava rabbia con le sue stonature.

La sensazione di aver perso qualcosa, che l’aveva invaso quel mattino a Djunni, tornò ad assalirlo. Forse era per quella statuina dell’angelo. Per la prima volta Katzman sentì che anche Uri costituiva per lui una minaccia. La tensione che li aveva presi tutti e due da quando se l’era portato dietro a Djunni era improvvisamente giunta a un doloroso diapason. Si sentì rattristato: aveva creduto di trovare in Uri, per la prima volta in vita sua, un amico, o almeno quello che la gente chiama, con facilità, un amico. L’affetto istintivo che era nato fra loro in Italia era privo di ogni motivazione logica. Uri era diametralmente diverso da lui, e ciononostante, o forse proprio per questo…? Si disse: Uri è l’unica persona al mondo alla quale permetto di sentirsi responsabile per me. Ma non può in alcun modo proteggermi. E ora lo sto perdendo. L’aspra ironia di questo pensiero lo colse all’improvviso; si sentì quasi pronto a combattere, finalmente, per qualcosa che ne valesse davvero la pena.

Sheffer schiacciò in terra il mozzicone della sua sigaretta. Katzman aprì gli occhi e cercò di mettere a fuoco lo sguardo, ma ci riuscì solo in parte. Sheffer si era alzato in piedi, e incombeva su di lui alto e grosso. «Puoi andare a riposarti nella tenda del Comando. Stanno finendo di metterla a posto.» E uscì da sotto la rete, camminando un po’ curvo.

Katzman allentò la tensione che gli teneva gli occhi aperti, e sprofondò di nuovo entro se stesso.

Gli sarebbe stato difficile stabilire con precisione quando il suo rapporto segreto con Shosh aveva avuto inizio, certo molto prima che lei si lasciasse sfuggire quelle parole dolorose che avevano scosso entrambi. Aveva già avuto non poche avventure del genere e non si chiedeva più perché le donne sembrassero attratte verso di lui quasi contro il loro stesso volere, con una sorta di rassegnata tristezza. Lui ne approfittava furiosamente, forse per compensare quel senso di disperata solitudine che gli si figurava nel pensiero come un’immensa tenda vuota che sbatteva nel vento della sera. S’innamorava rapidamente, in quel suo modo disamorato. Le donne lo affascinavano: oltre a quelle che naufragavano sulle sue sponde, amava e abbandonava altre donne ogni giorno, senza neppure conoscerle: soldatesse che gli erano passate davanti per caso; ragazze incontrate in autobus o in un negozio. In ognuna di loro trovava un particolare che le rendeva degne di essere amate, anche nelle più brutte: ognuna aveva in sé qualcosa che valeva il suo affetto, la sua compassione, la tenerezza che lo prendeva all’improvviso. Il sogno svaniva, naturalmente, nel momento in cui una donna si concretizzava, emergendo dalla sua fantasia vagamente cannibalesca; allora lui si separava, con rammarico, da quella caviglia verginale o da quella nuca d’avorio che l’avevano incantato. Sopra un labbro provocante gli si rivelavano d’un tratto un nasone, zigomi troppo grossi, occhi inespressivi, come fossero i parenti noiosi e antipatici di una bellissima sposa. E poiché non poteva essere eternamente innamorato di un orecchio perlaceo o di un neo capriccioso sopra un candido collo, Katzman si proclamava “un incorreggibile romantico”. Era questo il pretesto cui ricorreva per giustificare le sue brevi avventure, sempre prive di vero amore.

E le donne continuavano a cercarlo. L’esperienza gli aveva insegnato a individuare l’approssimarsi del primo incontro, molto prima che la donna stessa se ne rendesse conto. Durante i primi giorni di passione, Katzman non interveniva, aspettava con una calma dettata dall’esperienza e quasi senza gioia che il gelo della propria coscienza penetrasse nella coscienza di lei. Allora osservava stupito, senza provare nessun piacere per la conquista, come la donna si divincolasse nella rete, sbattendo le ali, e come tutti quei brevi sforzi non fossero che pietre miliari lungo la spirale che alla fine portava a lui, intento a considerare tutto con quello strano sguardo, pieno di pietà. Quasi tutte le sue donne erano venute a lui così: senza gioia, terrorizzate e vuote. Per lui, quel processo era solo una goffa variazione sul tema della scintilla vitale.

Perciò era rimasto così sorpreso. Si era allenato a far superare alle donne, mentalmente, una specie di prova: si sarebbe adattata a lui? Si sarebbe arresa? Con Shosh era stato molto cauto. Si era sempre trattenuto, con lei, dal ricorrere alle parole ben calcolate, agli sguardi ardenti, che di solito gli spianavano la strada verso le donne e le rendevano incuranti del suo aspetto esteriore. Era fiero di essere riuscito a non sfiorarla nemmeno con la sua istintiva passionalità. Uri era il suo amico, e anche lei, Shosh, non era che un’amica. La moglie di Uri. E lui amava Uri e si sforzava di provare il massimo affetto possibile per Shosh. Quando si era reso conto di quello che stava avvenendo fra loro, era rimasto sgomento. Aveva visto di nuovo, con deprimente chiarezza, la propria miseria e disperazione, e si era odiato come non mai.

Aveva fatto di tutto per trovarle dei difetti: la devozione con cui si dedicava a Uri, il modo in cui si sforzava di educarlo e di migliorare il suo gusto lo indignavano. Sapeva già come sarebbe andata a finire. Una volta, quand’era bambino, aveva assistito al parto di una topina: la madre aveva leccato la placenta che avvolgeva i piccoli e l’aveva divorata; poi aveva cominciato a leccare con grande concentrazione anche uno dei piccoli, e Katzman aveva previsto come sarebbe andata a finire.

All’epoca in cui Uri aveva fatto di lui un membro della famiglia, Shosh si occupava della rieducazione di quattro giovani ricoverati al Centro Hillman. Due dei casi si erano già conclusi con successo, ma Shosh si dibatteva ancora con gli altri due. A volte Katzman sentiva le voci dei ragazzi echeggiare dallo studio di Shosh, quando lei trascriveva le registrazioni delle sedute. Allora Uri e Katzman smettevano di conversare per ascoltare quelle rozze voci, e l’ago del sismografo insito in Katzman cominciava a sussultare.

Era questo il sentiero che l’aveva portato a Shosh. Era arrivato a lei attraverso la curiosità o meglio la tensione che destavano in lui il suo metodo di lavoro e l’insensato potenziale di malvagità che giaceva sulla sua scrivania: droghe e spacciatori di droghe, ladruncoli, sadici, sbandati, tutti sotto i sedici anni d’età. Shosh si sentiva lusingata dal suo interessamento. Rispondeva volentieri alle domande perentorie che le faceva, gli mostrava perfino qualche fotografia. «Ecco, per esempio» diceva, «questo è il ragazzo che ha buttato il vetriolo in faccia alla sorella; sembrava proprio un gatto dal pelo irto nella foto che abbiamo scattato appena è stato portato al Centro, mentre qui, invece, la curiosità si sta già facendo strada tra i suoi lineamenti così tesi. Lo vedi?» Katzman aveva guardato la fotografia in piena luce, poi l’aveva girata per guardare il retro. Shosh gli aveva chiesto: «Cosa cercavi lì?». Katzman era turbato da quell’eccitazione, così pericolosa, dell’artista immerso nel suo lavoro, o quella letizia di scienziato troppo coinvolto. Aveva detto: «Cercavo te. Cercavo il tuo riflesso nelle pupille dei suoi occhi». «Cercavi me? Ma io sono solo uno strumento, e neppure il più importante. Non mi troverai, lì dentro.» Ma forse troverò lui in te, aveva pensato Katzman, forse troverò in te la tirannia tradotta in violenza ottusa e imposta. Shosh gli aveva spiegato che si sentiva sfidata dalle difficoltà, dal dovere cautamente tastare il terreno intorno a sé alla ricerca della strada per superarle. «Come mi piace parlare con te» aveva detto, sorpresa, «Uri è sempre così diffidente verso tutto ciò che faccio, è sempre così contro.» Dice una cosa molto pericolosa, aveva pensato Katzman, e aveva avvertito se stesso: Attenzione! Ma Shosh già gli parlava della breccia che riusciva a fare nelle rigide mura entro cui i ragazzi si rifugiavano; e un nuovo ardore spirava dalle sue parole. Katzman aveva immaginato le sue ciglia delicate agitarsi al piacere della conferma di una intuizione a lungo elaborata. La gioia del cacciatore. Shosh aveva detto: «È l’attimo in cui si compie il mutamento, quando una realtà nasce dentro un’altra realtà, e io mi trovo là, a percepirla, a documentarla. Mi eccita tanto». Katzman aveva capito, allora, quanto si assomigliassero lui e Shosh. Bisognava prendere una decisione, ma non se ne sentiva la forza.

E lei ancora non capiva. Sarebbe stata certamente sconvolta, chiunque le avesse accennato a una tale possibilità. Tradire qualcuno, e tradire Uri in particolare, sarebbe stato per lei come estrarre da dentro di sé il cemento che saldava il suo corpo al suo spirito. Katzman era l’amico di Uri; punto e basta. Un tipo irritante, a volte, per quell’indolenza, quel cinismo, quell’atteggiamento di sufficienza, ma in fondo un bambino e nient’altro. Un bambino sperduto e solo al mondo. Lei doveva aiutarlo, fare in modo che si sentisse meno solo, incoraggiare la sua così spontanea, almeno all’apparenza, amicizia con Uri. Stavano bene insieme, quei due! Certo Katzman era molto intelligente, perspicace, mostrava tanto interesse quando lei gli parlava del proprio lavoro, sapeva apprezzare quello che lei riusciva a ottenere con tanti sforzi.

Pian piano gli aveva rivelato il suo metodo, gli aveva spiegato che scavava nei ragazzi fino a trovare in loro quel nocciolo che Uri aveva descritto così bene, il nocciolo dell’amore che si trova in ogni essere umano. Un nocciolo che a volte è nascosto, remoto, ma ciononostante rivela la sua presenza attraverso lievi tracce impresse sulle emozioni, che conducono inesorabilmente a quella che lei chiamava “la prima esperienza d’amore”, l’amore per la mamma, per un fratello maggiore, per un insegnante, per una stella del cinema, perfino per un cucciolo. Un giovane delinquente le aveva infatti confessato il suo amore per un’anonima ragazza di cui da bambino aveva visto una fotografia su una bomboniera. L’aveva amata con tutto il cuore.

Trovato il nocciolo, Shosh lo assaliva, lo faceva sviluppare fino a che dalle dimensioni minuscole di un pisello non fosse diventato grande come il globo terracqueo, ed era ancora lei che vi disegnava la mappa degli oceani di solitudine, dei continenti ghiacciati dei Poli, e le verdi, nascoste vallate; poi preparava la mappa dei sentimenti del paziente e la tingeva con tutti i colori dell’iride, mostrando al ragazzo dove correvano le gallerie sotterranee che collegavano laghi lontani, nei quali interi continenti di sentimenti erano sprofondati e sommersi negli abissi, e dove montagne all’apparenza innocue potevano trasformarsi d’un tratto, in vulcani in eruzione. Poi, con mano esperta, guidava il ragazzo lungo la strada, mostrandogli come tutto il suo odio fosse concentrato attorno a una latitudine, e come lui stesso facesse deviare tutti i suoi fiumi offesi in un solo mare di tormentati ricordi.

E tutto ciò apertamente, con franchezza; Shosh, questo, ci teneva a sottolinearlo. Con una sincerità assoluta. Non procedeva, se il paziente stesso non mostrava interesse al viaggio. Ma perché non avrebbe dovuto provare interesse, se lei lo inondava di ricordi piacevoli e lo cullava con immagini dimenticate, coi nomi con i quali il mondo l’aveva chiamato quando ancora era in pace con esso? Contagiava il ragazzo con la tenerezza, senza mai pronunziare la parola “amore”.

Registrava ogni parola detta negli incontri col paziente, e più tardi le analizzava, alla ricerca di un sintomo: un fremito di curiosità, un sussulto di ripulsa, un balbettio esitante. La mano del ragazzo era come una calamita sensibile: una mossa casuale che lui faceva per grattarsi il capo, sembrava che attraesse il pulviscolo ferreo depositato nel più profondo di lei stessa: frammenti di immagini cominciavano ad aleggiare nell’aria, lievi come piume e pesanti come piombo. Anche questo bisognava, naturalmente, annotare. Doveva conoscere bene anche se stessa. La sua psiche era il suo attrezzo di lavoro, ed era necessario affilarla di continuo.

Katzman le aveva chiesto cosa provava durante la terapia. Un po’ sorpresa, Shosh aveva risposto: «Be‘, il piacere di poter essere d’aiuto. È la maggiore soddisfazione possibile, no? Mi consegnano un delinquente, un essere alienato da se stesso e dalla società, e io lo riconsegno quando è divenuto un essere utile alla società, un essere umano più sensibile». Katzman aveva osservato che doveva provare certo una soddisfazione intellettuale, come se fosse riuscita a comporre tutte le tessere di un mosaico umano. E Shosh: «Cerchi di punzecchiarmi? Però sono d’accordo con te, anche se il tono non mi piace. Sì, provo anche una soddisfazione intellettuale. È una grossa, immensa, terribile sfida, Katzy». Katzman: «E quando trovi quel nocciolo, o come lo chiami, d’amore, è emozionante?». Shosh: «Be‘, è certamente interessante, sì».

Non gli aveva detto della dolce angoscia che le faceva correre i brividi lungo la spina dorsale appena sentiva che si stava avvicinando alla soluzione; ma Katzman era già stato con lei, lì in casa, così spesso, che aveva imparato a riconoscere i processi che la influenzavano. Quelli erano stati, per lei, giorni felici. Era sempre più intenta ad ascoltare ciò che le sussurrava il suo corpo; le sue membra annusavano l’aria, desiderose, la sua testa era un cielo solcato da fuochi d’artificio. Perfino il linguaggio con cui documentava gli incontri coi pazienti rivelava il più profondo lavorio della sua psiche. Katzman l’aveva osservata da vicino mentre stava raggiungendo la soluzione del caso del paziente che aveva preceduto Mordy. Il modo così libero con cui Shosh aveva cominciato a farlo partecipare alla sua esperienza lo aveva stupito. L’unica cosa che non gli aveva rivelato, in omaggio all’etica professionale, era il nome del paziente.

Katzman si era sentito trascinare in un’avventura molto strana: vedeva chiaramente l’ostilità del ragazzo filtrare dentro Shosh, vedeva come quel freddo contatto la estraeva dal crepaccio in penombra dove di solito stava annidata. Poi era venuta la fase del reciproco cercarsi, dello sperimentarsi a vicenda. La crudezza di Shosh era manifesta, dichiarata. Una quasi-paura s’era insinuata in Katzman: come era profondo l’odio che si era accumulato in quel ragazzo! «Adesso dobbiamo agire con cautela» aveva detto Shosh, «ci stiamo avvicinando. Guarda come stringe i denti per proteggere un ricordo. È un segno sicuro. Osserva quali parole sceglie, a questo punto.» Katzman l’aveva guardata: Shosh stava calcolando le proprie mosse con un’astuzia che non aveva mai riscontrato in lei prima di quel momento. Quasi una malizia. Ma se tutto era inteso per il bene! Shosh aveva dichiarato: «La cosa di cui abbiamo bisogno, è un cavallo di Troia combinato col metodo Stanislavskij; strategia ed empatia. La “memoria del sentimento” che la sua angoscia ridesta in me. L’avvicinarsi del fremito d’amore». Katzman aveva notato che Shosh adattava a se stessa, senza accorgersene, perfino le movenze del ragazzo, il suo modo di camminare. Si era fatta tutta tesa, come se si aspettasse da un momento all’altro un’esplosione. Katzman era allarmato. Shosh e il ragazzo, e anche lui stesso, a modo suo, erano avvinti, adesso, e il senso del pericolo gocciava come un olio lubrificante sui loro nervi. Shosh continuava a riascoltare il nastro. «Perché mi ha detto questo? Perché ha usato proprio queste parole, che di solito teneva in serbo per esperienze più distruttive?» E tamburellava sulla scrivania con la punta della penna, mormorando a se stessa, come un franco tiratore, come un cecchino in agguato: «Vieni, vieni. Non aver paura. Su, vieni!».

E d’un tratto, come sotto un colpo sferrato dalla zampa di una leonessa, tutto si frantumava. Si poteva andare avanti così per settimane e settimane, ma agli occhi di Katzman il processo finale appariva accelerato, rapido come il morso di una serpe. La vittima si dibatteva ancora un attimo, e poi s’immobilizzava. Abbandonata, inerte. Gli esperti artigli di Shosh la smembravano in sezioni che venivano catalogate, marcate, definite. Per un attimo il ragazzo aveva toccato l’interno di se stesso e vi aveva trovato amore. Era capace di amare. Il nocciolo nascosto era accerchiato, come Saturno dagli anelli, da teneri ricordi sopiti, non più pericolosi. Shosh glieli indicava: «Qui sei stato tanto felice, cerca di ricordarti. Cerca di provare di nuovo quello che hai provato allora. Questa persona ti ha voluto bene. Era tua amica, anche se in quel momento non te ne sei reso conto. Questa donna, nella figura, sta allattando il suo bambino: vuole che il bambino sia felice. Chiudi gli occhi: vedrai come ti sentirai bene. Non affrettarti. Non c’è nessuna fretta, adesso».

Ma Uri non partecipava a tutto questo. Era molto occupato con la sua scuola serale, e respingeva ogni tentativo di Shosh di metterlo a parte delle proprie esperienze. E quando conversavano insieme tutti e tre, di solito la notte, anche molto tardi, le parole che Shosh e Katzman dicevano erano già cariche di altri significati, ancora ciechi, come se ci fosse un testo esplicito e uno implicito. Correnti di conflitti fluivano tra personaggi senza faccia che li vivevano, tra preoccupati, stupiti interrogativi: cos’è questo? E quest’altro, cos’è?

Tutto in loro era già marcato a fuoco. Non restava più che il lento e doloroso compimento di quello che doveva essere, all’infuori della loro stessa volontà, il loro destino; il concretizzarsi della forza che li incatenava e li bruciava. Forse il dolore si sarebbe alleviato, il fuoco si sarebbe raffreddato nel morbido fiato del coito, nei convulsi movimenti dei corpi.

Ma con Shosh le cose erano andate diversamente che con le altre. L’acqua rubata, che nell’antico proverbio è dolce, lo era diventata al punto da nauseare. Gli spostamenti continui delle tessere di quel mosaico-a-tre lo avevano estenuato. In quel periodo aveva vissuto quasi ogni attimo della sua vita o con Shosh o con Uri, o con tutt’e due, e si era reso conto di essere capace di fingere, di giocare col significato delle cose, in una schermaglia continua con l’intelligenza di un personaggio nascosto dietro le spalle del suo interlocutore.

Le menzogne avevano tessuto menzogne. Katzman aveva scoperto che stava ancora facendo, a modo suo, quello che suo padre gli aveva insegnato: custodire segreti. Si era svegliato in lui un puerile impulso a portare quel gioco alle estreme conseguenze, per vedere fino a dove sarebbe stato capace di arrivare. Lo deludeva capire come fosse facile ingannare gli altri. Aveva cominciato a intessere piccole menzogne anche nei rapporti che inviava, come Governatore Militare, ai superiori; imprigionava il sindaco di Djunni in una rete di contraddizioni apparentemente logiche; parlando ai soldati, aveva appreso a sfruttare il minimo intervallo fra una parola e l’altra. Era diventato elusivo, murato dentro una pesante angoscia nella quale pretendeva di vedere un suo sottile gioco personale.

Di questa elusività di Katzman soffriva, più di tutti, Uri. Passava con lui lunghe ore, studiando come avrebbe dovuto esplicare questo nuovo compito, cercando di infondere un contenuto allo spazio limitato che Katzman gli concedeva. Non aveva ancora capito che tiro gli aveva giocato, portandolo a Djunni. Katzman stesso aveva detto, una volta, a Shosh: «Uri sembra sempre chiedere scusa di essere al mondo, ha in sé qualcosa che lo rende superfluo ovunque, ma a Djunni ha superato ogni limite».

Katzman stava sfuggendo a se stesso. Si riprometteva tante cose, prendeva delle decisioni, pur prevedendo che non ne avrebbe fatto nulla di nulla. Sapeva di essere già vittima di un incantesimo tirannico.

Era perduto. Aveva sempre creduto di essere immune da pericoli di quel genere, pensava di essere come un gatto, che casca sempre in piedi. Ma questa volta gli pareva di essere caduto lui sopra il gatto e di essersi fatto male. Adesso trovava in Shosh, e non più in se stesso, la propria immagine, come se una caricatura del proprio seme fosse germogliata in lei, e gli spalancasse in faccia una beffarda abbondanza [....]