martedì 10 marzo 2020


QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA
Carlo Emilio Gadda

  
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Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d’Italia, aveva un’Aria un po’ assonnata, un’andatura greve e diniccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana. Una certa praticaccia del mondo, del nostro mondo detto latino, benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne. La sua padrona di casa lo venerava, a non dire adorava: in ragione di e nonostante quell’arruffio strano d’ogni trillo e d’ogni busta gialla imprevista, e di chiamate notturne e d’ore senza pace, che formavano il tormentato contesto del di lui tempo. «Non ha orario, non ha orario! Ieri mi è tornato che faceva giorno!» Era, per lei, lo statale distintissimo lungamente sognato, preceduto da cinque A sulla inserzione del Messaggero, evocato, pompato fuori dall’assortimento infinito degli statali con quell’esca della «bella assolata affittasi» e non ostante la perentoria intimazione in chiusura: «Escluse donne»: che nel gergo delle inserzioni del Messaggero offre, com’è noto, una duplice possibilità d’interpretazione. E poi era riuscito a far chiudere un occhio alla questura su quella ridicola storia dell’ammenda... si, della multa per la mancata richiesta della licenza di locazione... che se la dividevano a metà, la multa, tra governatorato e questura. «Una signora come me! Vedova del commendatore Antonini! Che si può dire che tutta Roma lo conosceva: e quanti lo conoscevano, lo portavano tutti in parma de mano, non dico perché fosse mio marito, bon’anima! E mo me prendono per un’affittacamere! Io affittacamere? Madonna santa, piuttosto me butto a fiume.» Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d’agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. così quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. «già!» riconosceva l’interessato: «il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto.» Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero piceo della parrucca. così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno!... già. Si me chiammeno a me... può sta ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero... de sberretà...» diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano. 
La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo». Come si storce il collo a un pollo. E poi soleva dire, ma questo un po’ stancamente, «ch’i femmene se retroveno addò n’i vuò truvà». 
Una tarda riedizione italica del vieto «cherchez la femme». E poi pareva pentirsi, come d’aver calunniato ‘e femmene, e voler mutare idea. Ma allora si sarebbe andati nel difficile. Sicché taceva pensieroso, come temendo d’aver detto troppo. Voleva significare che un certo movente affettivo, un tanto o, direste oggi, un quanto di affettività, un certo «quanto di erotia», si mescolava anche ai «casi d’interesse», ai delitti apparentemente più lontani dalle tempeste d’amore. Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più edotto dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano che leggesse dei libri strani: da cui cavava tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servano come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari. Erano questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti. Per la pratica ci vuol altro! I fumi e le filosoficherie son da lasciare ai trattatisti: la pratica dei commissariati e della squadra mobile è tutt’un altro affare: ci vuole della gran pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a posto: e, quando non traballi tutta la baracca dei taliani, senso di responsabilità e decisione sicura, moderazione civile; già: già: e polso fermo. Di queste obiezioni cosi giuste lui, don Ciccio, non se ne dava per inteso: seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta, regolarmente spenta. 

Per il 20 febbraio, domenica, Sant’Eleuterio, i Balducci lo avevano invitato a pranzo: «Alle tredici e mezzo, se le è comodo». Era, disse la signora, «il genetliaco di Remo»: e infatti Remo, all’anagrafe, era stato inscritto come Remo Eleuterio, e poi battezzato per tale a San Martino ai Monti così da rammentare il natalizio. «Due nomi poco graditi a chelli ‘rreccchie», pensò don Ciccio, «sia l’uno che l’altro.» Per un menefreghista di quel calibro erano addirittura sprecati. L’invito, comme l’ata vota, gli era stato fatto per telefono due giorni avanti, con una chiamata «dall’esterno» al Collegio Romano, cioè a Santo Stefano del Cacco. Prima, una voce melodiosa, gli aveva parlato la signora: «Sono Liliana Balducci»: era poi subentrato il caprone, il Balducci uomo, a rincalzo. Don Ciccio, dopo aver santificato la festa dal barbiere, portò una bottiglia d’uoglie alla signora. Il pranzo domenicale fu lieto, nella luce d’un meraviglioso pomeriggio, rimasti al marciapiede i coriandoli e qualche gentile bautta, quacche trombetta, qualche azzurra Cenerentola o nerovellutato diavoletto. Parlarono di caccia: di battute e di cani: di fucili: poi di Petrolini: poi dei vari nomi che danno al mùgine lungo il litorale tirrenico, da Ventimiglia al Capo Lilibeo: poi dello scandalo del giorno, la contessina Pappalòdoli: ch’era scappata di casa con un violinista: polacco, naturalmente. A diciassett’anni. Una storia che non finiva più. 
Al suo entrare, la Lulù, la canina pechinese, un gomitolo, aveva abbaiato: con molta stizza, anche: be’, lasciati i ringhi, gli aveva fiutato a lungo le scarpe. La vitalità di questi mostriciattoli è una cosa incredibile. Verrebbe voglia di accarezzarli, poi di acciaccarli. A tavola eran quattro: lui don Ciccio, i coniugi e la nipote. La nipote, però, non era quella dell’ultima volta, cioè del giorno di San Francesco, ma molto più giovine: appena uscita dall’infanzia. Quella dell’ultima volta, cioè a San Francesco, era una nipote per modo di dire; pareva una sposa di campagna, coronata di trecce nere, forte, ampia, da tener lei tutto il letto: certi occhi! un davanti! un didietro! Da sognarseli di notte. Questa qui era una ragazzina co la treccia appennolone, che annava a scola da le moniche. 
Don Ciccio, non ostante la sonnolenza, aveva memoria pronta, anzi infallibile: una memoria pragmatica, diceva. Anche la domestica era una faccia nuova, per quanto somigliasse, vagamente, alla nipote di prima. La chiamavano Tina. Durante il servizio un batuffolo di spinaci strizzati le esorbitò dal piatto ovale sul candore della tovaglia immacolata: «Assunta!» fece la signora. Assuntina la guardò. In quell’attimo sia la serva sia la padrona parvero a don Ciccio estremamente belle; la serva, più aspra, aveva un’espressione severa, sicura, due occhi fermi, luminosissimi, quasi due gemme, un naso diritto con il piano della fronte: una «vergine» romana dell’epoca di Clelia; la padrona un tratto cosi cordiale, un tono così alto, cosi nobilmente appassionato, così malinconico! una pelle incantevole. Guardando l’ospite, quegli occhi fondi, con una luce di antica gentilezza, parevano scorgere, dietro la povera persona del «dottore», tutta la povera dignità di una vita! E lei era ricca: ricchissima, dicevano: suo marito stava bene, viaggiava tredici mesi all’anno, sempre in un gran da fare con quelli là di Vicenza. Ma lei era ancora più ricca per conto suo. già in quer gran palazzo der ducentodicinnove nun ce staveno che signori grossi: quarche famija der generone: ma soprattutto signori novi de commercio, de quelli che un po’ d’anni avanti li chiamaveno ancora pescicani. 
E il palazzo, poi, la gente der popolo lo chiamaveno er palazzo dell’oro. Perché tutto er casamento insino ar tetto era come imbottito de quer metallo. Drento poi, c’ereno du scale, A e B, co sei piani e co dodici inquilini cadauna, due per piano. Ma il trionfo più granne era su la scala A, piano terzo, dove che ce staveno de qua li Balducci ch’ereno signori co li fiocchi pure loro, e in faccia a li Balducci ce steva na signora, na contessa, che teneva nu sacco ‘e solde pure essa, na vedova: la signora Menecacci: che a cacciaje na mano in quarziasi posto ne veniva fori oro, perle, diamanti: tutta la robba più de valore che ce sia. E fogli da mille come farfalle: perché a tenelli a la banca nun se sa mai: quanno meno te l’aspetti po pijà foco. Sicché, ciaveva er commò cor doppio fonno. 
Questo, o press’a poco, il mito. Gli orecchi del dottor Ingravallo, che sotto alla parrucca nera e cresputa si confortavano d’una vitalità primaverile, lo avevano colto così, un po’ nell’aria, come zirli di merli, o merule, dopo ogni frullo, da un ramo all’altro della primavera. Era sulle bocche di tutti, del resto, e in tutti i cervelli della gente, una di quelle idee che diventano, per la collettività fantasiosa, idee coatte. 
Durante il pranzo Balducci aveva assunto, verso la Gina, un contegno paterno: «Ginetta, per piacere, un po’ di vino...», «Gina, bada, versa al dottore», «Gina, ti prego, un portacenere...»: proprio come un buon papà: e lei rispondeva puntualmente: «Sì, zio». La signora Liliana allora la guardava compiaciuta, quasi con tenerezza: come vedesse un fiore ancor chiuso e un po’ raggelato dall’aurora dischiudersi, e risplendere sotto i suoi occhi nel prodigio del giorno. Il giorno era la voce maschia e baritonale del Balducci, la voce del «padre»: lei, moglie e sposa del papà, era dunque la mamma. Seguiva con gran sollecitudine e con una certa ansia la gentile manina della pupilla ancora un po’ titubante in quell’atto del mescere: glu glu, oro di Frascati, a giudicarlo dal tono: la bottiglia di cristallo era pesa: il braccino esile sembrava non arrivasse a reggerla. Il dottor Ingravallo mangiò e bevve con misura, come al solito: ma di buon appetito e a buon sorso. 
Non pensò, non credé opportuno di pensare di chieder nulla: né della nuova nipote né della nuova serva. Cercò di reprimere l’ammirazione che l’Assunta destava in lui: un po’ come lo strano fascino della sfolgorante nipote dell’altra volta: un fascino, un imperio tutto latino e sabellico, per cui gli andavano insieme i nomi antichi, d’antiche vergini guerriere e latine o di mogli non reluttanti già tolte a forza ne la sagra lupercale, con l’idea dei colli e delle vigne e degli scabri palazzi, e con le sagre e col Papa in carrozza, e coi bei moccoloni di Sant’Agnese in Agone e di Santa Maria in Porta Paradisi a la Candelora, a la benedizione dei ceri: un senso d’aria dei giorni sereni e lontani tra frascatano e tiburtino, soffiata a le ragazze del Pinelli tra le rovine del Piranesi, vigendo le efemeridi e i calendari della Chiesa, e, nella vivida lor porpora, tutti gli alti suoi Principi. Come stupende aragoste. I Principi di Santa Romana Chiesa Apostolica. E al centro quegli occhi dell’Assunta: quell’alterigia: come fosse una sua degnazione servirli a tavola. Al centro... di tutto il sistema... tolemaico: già, tolemaico. Al centro, parlanno co rispetto, quer po’ po’ de signorino. 
Gli bisognò reprimere, reprimere. Facilitato nella dura occorrenza dalla nobile malinconia della signora Liliana: il di cui sguardo pareva licenziare misteriosamente ogni fantasma improprio, instituendo per le anime una disciplina armoniosa: quasi una musica: cioè un contesto di sognate architetture sopra le derogazioni ambigue del senso. 
Fu, Ingravallo, fu molto cortese, addirittura anzi uno zio-cavaliere, con la piccola Gina; dal di lei collo, ancora piuttosto lungo sotto alla treccia, veniva fuori quella vocina fatta di sì e di no, come le poche note del lamento di un clarino. Ignorò, volle ignorare l’Assunta, dai maccheroni in poi, come si conviene a un ospite che sia, anche, una persona educata. La signora Liliana, di quando in quando, si sarebbe creduto sospirasse. Ingravallo notò che due o tre volte, a mezza voce, aveva detto mah! Chi dice ma, cuore contento non ha. Una strana mestizia pareva soffonderle il viso, nei momenti in cui non parlava o non guardava ai commensali. Una idea, una preoccupazione la teneva? celandosi dietro alla cortina dei sorrisi, o delle attenzioni gentili? e dei discorsi non già voluti o studiati, ma pur sempre molto garbati, di cui amava inghirlandare il suo ospite? Il dottor Ingravallo a quei sospiri, a quel modo di porgere, a quegli sguardi che talora divagavano tristi, e parevano tentare uno spazio o un tempo irreali da lei sola presagiti, si sarebbe detto, a poco a poco aveva preso a farci caso: ne aveva dedotto altrettanti indizi, non forse di una disposizione originaria ma di una condizione attuale dell’animo, di uno scoramento crescente. E poi qualche mezza parola: del Balducci stesso: quel maritone rubizzo tutto affari e tutto lepri che ora cianciava così fragorosamente, sotto lauta inspirazione albana. 
Aveva creduto d’intuire: non hanno figli. «Eccetera eccetera», aveva poi soggiunto una volta, al parlare col dottor Fumi, come alludesse a una fenomenologia ben nota, a una esperienza certa e di comune dominio. Conosceva il Balducci per cacciatore, e cacciatore fortunato. Cacciatore in utroque. In cuor suo gli rimproverava certa mascolina grossezza, certe fanfaronate, certe risate un po’ troppo clamorose per quanto bonarie, certo egoismo o egotismo un po’ da gallinaccio: con una creatura simile! Si sarebbe detto, a voler fantasticare, ch’egli, il Balducci, non avesse valutato, non avesse penetrato tutta la bellezza di lei: quanto vi era in lei di nobile e di recondito: e allora... i figli non erano arrivati. Quasi per una incompatibilità gamica dei due spiriti. 1 figli discendono da una compenetrazione ideale dei genitori. Lei però lo amava: era il padre immagine, il maschio e padre in virtù, in virtù se non in facto, in potenza se non in atto. Era stato il possibile padre di una prole sperata. Della fedeltà di lui, forse, neppure era certa: quanto a questo, le pareva che la inadempiuta sua maternità potesse giustificare qualche esorbitazione venatoria del marito, qualche curiosità, qualche estravaganza del maschio e padre possibile e cupido a ogni cantone, come tutti i maschi. «Provare con altro soggetto!» Quello che mai non avrebbe ardito nemmeno immaginare per sé (il matrimonio è un sacramento, uno dei sette del Signor nostro), non lo voleva, no, per lui: anche don Corpi diceva ch’era una brutta cosa, da parte di un marito cristiano: ma insomma... in tutto ci vuol pazienza: prudenza, prudenza. Don Lorenzo Corpi era un’anima di cui si poteva fidare pienamente. La «prudenza» era una delle quattro virtù cardinali. 
Tutto questo il dottor Ingravallo lo aveva in parte intuito, in parte integrato da qualche accenno del Balducci, o dai dolcissimi momenti della tristezza di lei: anche don Corpi, don Lorenzo, don Lorenzo Corpi, don Corpi Lorenzo dei Santi Quattro brillava spesso lui pure, nei ragionamenti della signora Liliana. Al diavolo anche don Lorenzo! Si sarebbe detto che in ogni omone lei venerasse... un padre onorario, un padre in potenza: anche in don Lorenzo, sì: nonostante la veste nera, nonostante l’incompatibilità sacramentale, dei due sacra menti... divergenti. 
Anche in don Lorenzo. Che doveva essere una discreta torre, sto mulo. A giudicare da certe allusioni di lei, uno di quelli che devono inclinare il capo, a passare sotto ogni porta. Per lo meno la “dynamis” del padre doveva avercela. In simili materie, don Ciccio era piuttosto versato: intuizione viva, e fino dagli anni di pubertà: aperta, poi, a tutti gli incontri demici della stirpe fertile in opre e acerrima in armi: nativo genio più che letture sistematiche. Dal folto brulicare delle generazioni, dalle guardine delle questure, tra il Lazio e la Marsica, tra il Piceno e il Sannio, o fino alla sua collina molisana: duri monti, dure cervici, duro il diavolo! E la validità santa ed immemore delle matrici. Tra le sue genti, ricche di figli, aveva avuto modo di distinguere i fatti della prolificazione da quelli della non-prolificazione. Quel che cominciava a meravigliarlo, tuttavia, era che il serbatoio delle nepoti dei Balducci fosse tanto colmo di così prosperose o di così gentili nepoti: cioè: questa qui gentile, ma le altre semplicemente stupende. Da che frequentava i coniugi, ne aveva già conosciute tre o quattro. E poi c’era anche questo: una volta via di scena, la nipote era come il nome di una morta. Non tornava a galla neanche a bastonarla. Come un console o un presidente di repubblica quando il mandato è scaduto. 
Don Ciccio stava per vedere il fondo dell’ultimo per così dire calice - un cinque anni bianco extra-secco, ora, del cavalier Gabbioni Empedocle & Figlio, Albano Laziale, da sognarseli perfino in questura, il vino, il bicchiere, il Padre, il Figlio e il Lazio - allorché il fardello delle sue private opinioni sulle concause affettive (lui diceva anzi erotiche) degli accadimenti umani lo portò a considerare, ovviamente, che una nipote in quelle condizioni non era una nipote ordinaria: una Luciana o un’Adriana, che oggi viene in città dagli zii, poi se ne va, poi. torna, poi telegrafa, poi parte, poi arriva a casa sua, poi manda una cartolina con tanti bacioni, poi riarriva da Viterbo o da Zagarolo perché deve riandare dal dentista: e così di seguito. 
«Ccà ce sta una nepote cchiù ‘mbrogliata,» rimuginò tra sé e sé, con quel bianco secco in Porta Paradisi che ancora gli titillava il velopendolo. Sì, sì. Dietro quel nome «nipote», ci doveva star nascosto tutto un groviglio... di fili, un ragnatelo di sentimenti, dei più rari... delicati. Lei. Lui. Lei, pe rispetto a lui. Lui, pe riguardo a lei. Lei allora ha pescato ‘a nepote, dopo anni: pene, lacrime, la notte, e di giorno candele a sant’Antonio pe tutte le chiese de Roma: e speranze, e cure di Salsomaggiore, sia in loco che a domicilio, e visite del professor Beltramelli e del professor Macchioro. A ogni nuova candela una speranza. A ogni nuova speranza un nuovo professore. 
Ha pescato sta Gina, povera Ginetta! Ma prima della Ginetta la storia aveva tutto un altro indirizzo, tutto un sapore. Una cosa strana, davvero, pensò Ingravallo. 
La Virginia! (l’immagine fu un lampo di gloria, un repentino fulgore nella tenebra): e prima della Virginia, chell’ata ‘e Monteleone: comme se chiamava? E le serve! Sta bene che frullan via come passere al primo stormire d’un capriccio: ma i Balducci, via! ne cambiavano, si può dire, una al mese. Gli venne un pensiero, con una parola irriverente: era il vino. 
La signora Liliana, non potendo scodellare del proprio... così ogni anno: il cambio della nipote doveva di certo valere nel suo inconscio come un simbolo, in sostituzione del mancato scodellamento. Come per sua madre, che ne aveva fatti otto, il figlio vero a ogni nuova primavera. Quelli che a maggio nascono, son figli ad agosto. «Mese buono!» pensò don Ciccio, «anche per i gatti: che ce cumbineno certe caciare, la notte.» 
D’anno in anno... una nuova nipote: quasi a simboleggiare, nel cuore, i successivi natali della prole. «Jedes Jahr ein Kind, jedes Jahr ein Kind...» gli cantava quel tedesco, ad Anzio: che pareva una foca. 
E lui, lui, il cacciatore (lo guardò), lui che cosa prova, che cosa si sente, dentro, quando gli arriva in casa la nipote, la nipotina di turno? Che ne aveva pensato delle varie... nipoti? 
Per lei, dal Tevere in giù, là, là, dietro i diroccati castelli e dopo le bionde vigne, c’era, sui colli e sui monti e nelle brevi piane d’Italia, come un grande ventre fecondo, due salpingi grasse, zigrinate d’una dovizia di granuli, il granuloso e untuoso, il felice caviale della gente. Di quando in quando dal grande Ovario follicoli maturati si aprivano, come ciche d’una melagrana: e rossi chicchi, pazzi d’un’amorosa certezza, ne discendevano ad urbe, a incontrare l’afflato maschile, l’impulso vitalizzante, quell’aura spermatica di cui favoleggiavano gli ovaristi del Settecento. E a via Merulana 219, scala A, piano terzo, ci rifioriva la nipote, nel meglio grumolo, propio, del palazzo dell’Oro. 
La nipote! La nepote albana, fiore dell’eterna gente sabellica. L’afflato dei predatori, già. Le sabine non c’era più bisogno di toglierle... così profonde! attesa della notte mediatrice, tepide carni dell’alba. Le albane ci pensavan loro, oggi, a scegne a fiume. E il fiume andava, andava, superati i clamori, a raggiungere, al lido, l’indefettibile attesa dell’eternità. 
Ma lui? il signor Balducci? Che ne pensava, il cacciatore, della nepote albana, della tiburtina? 
Il campanello trillò. La Lulù fece il diavolo a quattro. L’Assunta era andata ad aprire. Dopo qualche parlottìo, di là, entrò in sala un giovane, vestito d’un completo grigio di taglio non inelegante. Fu fatto sedere. «Un’altra tazza, Tina, per il signorino Giuliano.» Subito fu presentato e si presentò da sé: «Valdarena.» 
«Dottor Ingravallo,» bofonchiò Ingravallo spiccicandosi appena dalla sedia, e stringendo appena, e quasi a malincuore, la mano che quello gli porgeva. «Il dottor Valdarena...» fece Liliana alle prese coi caffè, con le tazze. «Cugino di mia moglie,» spiegò il Balducci, rubizzo. 
C’era, duole dirlo, in don Ciccio, una certa freddezza, come un’astiosa gelosia verso i giovani, specie i bei giovani, e tanto più i figli dei ricchi. Questo sentimento non valicava per altro i limiti ammissibili d’un fenomeno interno, non avrebbe mai influito sulla sua condotta di commissario di P. S.: lui, no, no, non era «bello»: e nemmeno gli riusciva di consolarsi con quel proverbio che aveva udito a Milano da una ragazza, al dispensario celtico di via delle Oche: «I òmen hin semper bèi.» 
Sentiva già, in cuore, un disappunto, una voce: una voce poco fa... che già sussurrava in cassa, nella cassa non sapeva neanche lui se del cervello o del cuore, ma forse era l’effetto del bianco secco del Gabbioni, ch’è un vino un po’ nervoso, una voce che gli andava bucinando maledettamente: «Chiste è ll’amico,» come il tan tan feroce di certi mali di testa, che lo prendevano alle tempie. 
Non sapeva perché, ma gli parve, o si figurò, che il giovane fosse uno di quelli che vogliono arrivare a tutti i costi: anche lui: di quelli piuttosto «attaccati», cioè sedotti all’idea de li papabbraschi, che del resto, s’ha un bel dire, ma fanno comodo un po’ a tutti. Entrando aveva adocchiato mobili e suppellettili, le belle tazze, e la cuccuma d’argento, e quella zuccheriera d’argento sopravvanzata ai vecchi barbagli umbertini, memore delle vacche grasse, con una ghianda d’oro e due foglioline d’argento sul coperchio. Già: per tirarlo su. Aveva accettato una polputa sigaretta dal Balducci (che gli squadernò il portasigarette d’oro sotto il mento, con un tatràc repentino): e la fumava, ora, con una sua ritenuta voluttà e con elegante naturalezza ad un tempo. 
Ingravallo fu colto allora da un’idea strana, come avesse bevuto un veleno, era il vino secco del Gabbioni: gli venne l’idea che il «cugino» corteggiasse la signora Liliana per... ma sì!... per averne favori di denaro, Ciò lo mise in furore: un furore secreto e dissimulato, un dubbio, naturalmente. Un dubbio perfido però... che gli faceva dolorar le tempie, un dubbio dei più ingravalleschi, dei più doncicciani. 
All’anulare destro, sulla mano bianca dalle lunghe dita di signore, che gli servivano da scotere la sigaretta, er signorino ci aveva un anello: d’oro vecchio, assai giallo: magnifico: un diaspro sanguigno nel castone; un diaspro ovale con una cifra a matrice. Forse il sigillo di famiglia. Gli sembrava, a don Ciccio, al di là dal velo delle parole e del contegno, che ci fosse della freddezza, tra lui e il 
Balducci... «Giuliano è tutt’occhi e tutto attenzioni per la cugina,» pensò Ingravallo, «per quanto signore.» La Gina non l’aveva neppur guardata, dopo una stretta di mano di dovere. Fece solo una carezzaccia alla canina: che da quei bèf bèf così stizzosi, cattiva! trascorse ad alcuni ringhi decrescenti, come d’un temporalino in ritirata, e alfine si chetò. 
La signora Liliana pur con qualche sospiro mal rattenuto (a giorni) sotto le trasvolanti nubi di tristezza, era, era una desiderabile donna: tutti ne coglievano l’immagine, per via. All’imbrunire, in quel primo abbandono della notte romana ch’è cosi gremito di sogni, rincasando... ecco dai cantoni de’ palazzi e dai marciapiedi le fiorivano incontro omaggi, o singoli o collettivi, di sguardi: lampi e lucide occhiate giovanili: un sussurro, talora, la sfiorava: come un’appassionata mormorazione della sera. A volte, ad ottobre, da quel trascolorare delle cose e dal tepore dei muri emanava un inseguitore improvvisato, Ermes con brevi ali di mistero: o, forse, da strani erebi cemeteriali risalito a popolo e ad urbe. Uno più pomicione dei tanti. E più scemo... Roma è Roma. E lei pareva compatire al somaro, così gloriosamente sospinto dietro a fortuna da quelle gran vele delle orecchie: d’una occhiata fra sdegnosa e misericorde, ira gratitudine e sdegno pareva chiedergli: «Mbè?» Donna quasi velata ai più cupidi, di timbro dolce e profondo. con una pelle stupenda: assorta, a volte, in un suo sogno: con un viluppo di bei capelli castani che le irrompevano dalla fronte; vestiva in modo ammirevole... Aveva occhi ardenti, soccorrevoli, quasi, in una luce (o per un’ombra?) di malinconica fraternità... All’annuncio un po’ canoro e un po’ pecoraro dell’Assunta: «C’è er signorino Giuliano,» gli pareva, all’Ingravallo, ch’ella avesse come trasalito: o arrossito, anche: d’un rossore «sottocutaneo». 
Impercettibilmente. 

Quando i due agenti gli dissero: «Se so’ sparati a via Merulana: ar ducentodicinnove: su le scale: ner palazzo de li pescicani...», un fiotto di sangue incuriosito, forse angosciato, gli inondò il ventricolo di destra. «Ducentodiciannove?» non poté a meno di chiedere: pure, in tono distratto. E ricadde subito in quella tale specie di sonnolenza lontana, ch’era, in lui, la maschera del senso d’ufficio. Intanto gli entrò nella stanza il capo della investigativa. Aveva il Messaggero ancora indelibato e un petalo, un solo petalo bianco all’occhiello. «Sciure ‘e màndurlo,» pensò Ingravallo interrogando il superiore con gli occhi. «Il primo della stagione. Mo ce pàveno pure ll’ammennole.» «Ci andate voi, Ingravallo, a via Merulana? Vedete nu poco. Na fesseria, m’hanno detto. E stamattina, con chell’ata storia della marchesa di viale Liegi... e poi ‘o pasticcio ccà vicino, alle Botteghe Oscure: e poi chillo buché ‘e violette: e ddoje cugnate e ‘e ttre nepote: e poi avimmo de pelà la coda dell’affare nuosto: e poi, e poi,» si portò una mano alla fronte, «mo’ ce vo’, chella scocciatura d’o sottosegretario. Fin a ‘ncoppa a ‘a capa, ve dico. Sicché faciteme ‘o favore, jàtece vuje.» 
«Jàmmoce,» disse Ingravallo, e poi borbottò: «Jamecenne,» e prese giù, dal piolo, il cappello. Il male infitto cavicchio si disincastrò e cadde al suolo, come ogni volta, indi rotolò per un pezzetto; lui lo raccolse, rificcò la radichetta mencia dentro al buco: e con la manica dell’avambraccio. quasi fosse una spazzola, diede una lisciatina al cappello pero, così, lungo il nastro. I due agenti gli andaron dietro, quasi per un tacito ordine del commissario-capo: erano Gaudenzio, noto alla malavita come er Biondone, e Pompeo, detto invece lo Sgranfia. 
Saliti sul P. V. e discesi appunto al Viminale, presero il tram di San Giovanni. Sicché in una ventina di minuti raggiunsero il civico ducentodicinnove. 
Il palazzo dell’Oro, o dei-pescicani che fusse, era là: cinque piani, più il mezzanino. Intignazzato e grigio. A giudicare da quel tetro alloggio, e dalla coorte delle finestre, gli squali dovevano essere una miriade: pescecanucoli di stomaco ardente, quest’è certo, ma di facile contentatura estetica. Vivendo sott’acqua d’appetito e di sensazioni fagiche in genere, il grigiore o certa opalescenza superna del giorno era luce, per loro: quel po’ di luce di cui avevano necessità. Quanto all’oro, be’, sì, poteva darsi benissimo ciavesse l’oro e l’argento. Una di quelle grandi case dei primi del secolo che t’infondono, solo a vederle, un senso d’uggia e di canarinizzata contrizione: be’, il contrapposto netto del color di Roma, del cielo e del fulgido sole di Roma. Ingravallo, si può dire, la conosceva col cuore: e difatti un lieve batticuore lo prese, ad avvicinare coi due agenti la ben nota architettura, investito di tanta e tanto risolutiva autorità. 
Davanti al casermone color pidocchio, una folla, circonfusa d’una rete protettiva di biciclette. Donne, porte, e sedani: qualche esercente d’un negozio di là, col grembiule bianco: un uomo di fatica e questo col grembiule rigato, e col naso in veste e in colore d’un meraviglioso peperone: portinaie, domestiche, ragazzine delle portinaie che strillavano «a Peppì!,» maschietti col cerchio, un attendente saturo d’arance, prese in una sua gran rete, con in cima i ciuffetti di due finocchi, e di pacchi: due o tre funzionari grossi, che in quell’ora matura agli alti gradi avevano appena disciolto le vele: diretti, ciascuno, al suo ministero: e un dodici o quindici tra perdigiorno e vagabondi vari, diretti in nessun luogo. Un portalettere in istato di estrema gravidanza, più curioso di tutti, dava, della sua borsa colma, in culo a tutti: che borbottavano mannaggia, e poi ancora mannaggia, mannaggia, uno dopo l’altro, man mano che la borsona perveniva ad urtarli nel didietro. Un monello, con serietà tiberina, disse: «Sto palazzo, drento c’è più oro che monnezza.» Tutt’attorno, la fascia delle ruote delle biciclette, come un derma sui generis, pareva rendere impenetrabile quella polpa collettiva. 
Aiutato e quasi preceduto dai due agenti, Ingravallo si fece largo. «‘A polizzia,» disse qualcuno. «Fa’ passà lo Sgranfia, a maschié... Addio, Pompé! Che, l’hai agguantato, er ladro?... Mo c’è er bionno...» Il portone socchiuso era guardato da un brigadiere di pubblica sicurezza del commissariato San Giovanni. La portinaia, vistolo «transitare», lo aveva chiamato al soccorso: poco dopo il fatto, e poco avanti il sopravvenire dei due della mobile, cioè Gaudenzio e Pompeo: lo conosceva da un pezzetto, per via delle denunce di locazione e del registro degli inquilini. Il fattaccio era occorso un’ora prima, ch’era poco dopo le dieci: a un’ora incredibbile! Nell’andito e in portineria un’altra piccola folla, inquilini dello stabile: il cicaleccio delle donne. Ingravallo, seguito dalla portinaia e dai due, e dai commenti di tutti, «‘a polizzia, ‘a polizzia», salì al terzo piano, scala A, dove abitava la derubata. Giù seguitò la gran ciarla: le voci spiegate o addirittura canore delle femmine, emulate da qualche trombone maschio, a quando a quando ne, venivano addirittura sopraffatte: come le cervici chine delle vacche dalle gran corna del toro: la ragione della folla raccoglieva i trefoli delle testimonianze iniziali, dei «giuro che l’ho visto»: principiava a intortigliarli in un epos. Si trattava di un furto, più precisamente di una rapina a domicilio, manu armata. 
Una cosa piuttosto grave, per vero. La signora Menegazzi, poco dopo lo spavento, era anche svenuta. La signora Liliana si era «sentita male» a sua volta, appena uscita dal bagno. Don Ciccio raccolse e verbalizzò sui due piedi quanto poté raccogliere, del fiotto irrompente, da quel primo testimoniale: principiò dalla portinaia, concedendo alla Menegazzi il tempo di pettinarsi e agghindarsi un poco: in suo onore, si sarebbe detto. Aveva carta e stilografica, omise i: «Gesù, Gesù mio bello! Sor commissario mio!» e altre interiezioni-invocazioni di cui la «signora» Manuela Pettacchioni non tralasciava d’inzeppare il suo referto: un drammatico racconto. Il portiere coniuge, fattorino alla «Centrolatte Fontanelli», sarebbe rincasato alle sedici. 
«Gesummaria! Prima aveva sonato alla sora Liliana...» «Chi? Ma l’assassino...» «Ma qua’ assassine si nun ce stà ‘o muorto?» La sora Liliana (Ingravallo trepidò), sola in casa, non aveva aperto. «Era nel bagno... sì... stava facendo il bagno.» Don Ciccio, senza volerlo, si passò una mano sugli occhi, quasi a schermirsi d’un fulgore troppo vivo. La donna di servizio, l’Assunta, era partita alcuni giorni prima per casa sua: aveva il padre malato come hanno spesso le donne di servizio, «tanto più a questi lumi di luna». La Gina era a scuola tutto il giorno: ar Sacro Core, da le moniche: dove ci faceva colazione e anche merenda, alle volte. Allora, «si vede», come nessuno rispondeva, «è chiaro... certo», il malvivente aveva sonato alla Menegazzi: sì, lì, proprio lì, sullo stesso piano, dirimpetto a quello dei Balducci: l’uscio di faccia. Oh! don Ciccio conosceva bene quel piano, e quell’altro uscio! 
La Menegazzi, ravviati i capelli, entrò di nuovo in scena, tossendo leggermente. Un gran foulard lilla attorno al collo, che sul davanti appariva scarno e appassito: un tono languido di tutta la traumatizzata persona. Un negligé un po’ imprevisto, tra giapponese e madrileno, tra la mantiglia e il chimono. Un baffo bleu sul volto piuttosto vizzo, la pelle pallida, come d’un geco infarinato, le labbra fatte di due cuori congiunti smaltate in un rosso fragola dei più procaci, le conferivano l’aspetto e il prestigio formale momentaneo d’una tenutaria od ex-frequentatrice d’una qualche casa d’appuntamenti un po’ scaduta di rango: non fosse stato invece quel tanto di neovirginale e di rasciutto, e la tipica sollecitudine-devozione delle indelibate, a collocarla senza preventivo sospetto nel romantico elenco delle disponibili, oltreché donne per bene. Era vedova. La mantiglia-vestaglia si soprapponeva al foulard, ai foulards anzi, non uno ma due, incipriati loro pure e vagamente modulati nei toni, che sfumavano il primo nel secondo e il secondo nei tenui pétali, o forse farfalle, di quel chimono un tantino castigliano. Accavallò il suo referto a quello della portinaia, dirizzando, precisando. Interloquiva con un tremito nella voce, nella povera voce, con una speranza negli occhi. Non forse la speranza di riavere i suoi ori, ma la certezza... di usufruire della protezione della legge, così validamente impersonata da Ingravallo. Al sentir sonare, la Menegazzi aveva emesso il solito «chi è?»: rifece il verso, tra preoccupato e lamentoso, che faceva ogni volta al primo trillare del campanello. Poi aveva aperto. L’assassino era un giovane alto col berretto, in tuta grigia da meccanico, almeno le parve, scuro in viso, con una sciarpa di lana verde-bruno. Un bel giovane, sì, un toso franco. Ma un tipo che incuteva subito una impressione di paura. «Com’era il berretto?» chiese don Ciccio seguitando a scrivere. «Gera... Veramente, gnornò, gnornò, no me ricordo ben come che gera, no savaria dirghe.» «E voi?» fece alla portinaia: «Quando è scappato, che v’è corso via sotto agli occhi? non l’avete visto, voi? non mi potete dire com’era, sto berretto?...» 
«Ma, sor commissario mio... un’emozzione così! Chi ce pensa, ar beretto, in queli momenti? Che ve pare?... Diteme voi, quanno che spareno tutti sti corpi, si ve pare che una signora po pensà ar beretto...» 
«Era solo?» «Solo, solo,» fecero le due donne all’unisono. «Ah! signor commissario,» implorò la Menegazzi, «ci aiuti lei: lu ch’el pol giutarne. Ci aiuti lei, per carità, Mària Vergine. Una vedova! Sola in casa, Mària Vergine! Che brutto mondo ch’el xe questo! Questi no i xe manco òmini, questi i xe diavoli! anime de bruti diavoli che i ne torna indrìo da l’inferno...» 
La Menegazzi, come tutte le donne sole in casa, trascorreva le ore in uno stato di angustia o per lo meno di dubitosa e tormentata aspettativa. Da un po’ di tempo quel suo perenne pavore nei confronti del trillo del campanello s’era intellettualizzato in un complesso di immagini e di figurazioni ossedenti: uomini mascherati, in primo piano, e con le suole di feltro ai piedi; repentine per quanto tacite irruzioni in anticamera; martellate in capo o strangolamento a mano, o mediante appropriata cordicella, eventualmente preceduto da «servizzie»: idea o parola, questa, che la riempiva di un orgasmo indicibile. Angosce e fantasie miste: con il commento, magari, d’un batticuore improvviso, per un improvviso crac, nel buio, di un qualche armadio più stagionato degli altri: comunque, anticipate cupidamente all’evento. Il quale, dài e dài, non poté a meno, alfine, di arrivare davvero anche lui. La lunga attesa dell’aggressione a domicilio, pensò Ingravallo, era divenuta coazione: non tanto a lei e a’ suoi atti e pensieri, di vittima già ipotecata, quanto coazione al destino, al «campo di forze» del destino. La prefigurazione d’o fattacce s’era dovuta evolvere a predisposizione storica: aveva agito: non pure sulla psiche della derubanda-iugulanda-sevizianda, quando anche sul campo ambiente, sul campo delle tensioni psichiche esterne. perché Ingravallo, similmente a certi nostri filosofi, attribuiva un’anima, anzi un’animaccia porca, a quel sistema di forze e idi probabilità che circonda ogni creatura umana, e che si suol chiamare destino. In parole povere, la gran paura le aveva portato scarogna, alla Menegazzi.. Il pensiero dominante, a ogni trillo, soleva coagularsi in quel «chi è?», belato o raglio abituale d’ogni reclusa che i mesti lari non arrivino a proteggere. In lei era una gemebonda antifona al trillo, alle più casalinghe istanze del campanello. 
Risultò che il giovanotto, appena la signora Teresina si risolvette a sganciare la catenella ed aprì, si disse incaricato, dall’amministrazione dello stabile, di una visita ai termosifoni: che doveva ispezionare uno a uno. C’era stata difatti, giorni prima, una questione dei termosifoni, che alla fine ufficiale dell’inverno con riscaldamento erano ancora più tepidi (verso il freddo) della voglia di spendere degli inquilini. 
La fiamma d’ogni eventuale impianto termico, a Roma, si estingueva a marzo alle idi, ma talora invece a le none o addirittura a le calende. Negli inverni doppi ad epilogo protratto, come fu quello del ventisette, la si alimentò per tutto il mese e la si lasciò smorire d’un prolungato languore non senza accademia e diatriba fra i casigliani opinanti, roboanti in proporzione dell’evento: fra i volenti e i nolenti, gli squattrinati e i quattrinosi, i migragnosi e i mingenti in gloria e in letizia. Quanto alle camere dei piani alti del ducentodiciannove, esse figuravano senza dubbio tra le più, romanamente assolate di Roma: ragion per cui, siccome a quella prima primavera stava nevicando-piovendo, ci si bubbolava dal freddo. 
Il meccanico non aveva con sé né borsa né involto: i ferri del caso pel momento non gli occorrevano. Si trattava di una semplice ispezione. Aggiunse la signora Teresina, ma questo don Ciccio non lo verbalizzò, che lei era sicura che quel giovane... sì, insomma, l’assassino, il meccanico... era certa, e avrebbe potuto giurarlo anche in tribunale, era sicura che quel toso l’aveva ipnotizzata (don Ciccio stette a sentire a bocca aperta, con un fare da addormentato) perché a un certo punto, ancora in anticamera, l’aveva guardata fisso. «Fisso!» ripeté quasi declamando, entusiasta della dirittura e della fissità di quello sguardo: «gera uno sguardo implacabile, du oci fermi,» di sotto al berretto, «come un serpente.» E lei, allora, s’era sentita mancar le forze. Disse anzi che in quel momento, qualunque cosa il giovane le avesse chiesto od imposto, in quel punto lei lo avrebbe fatto, gli avrebbe senz’altro ubbidito: «come un autòma». (Così disse). 
«Mària Vergine! El me gaveva ipnotisà...» Don Ciccio, dentro di sé, non poté a meno di verbalizzare: «Chesti femmene!» 
Così era avvenuto che quello, ‘o meccaneche, potesse fare il giro dell’appartamento. In camera da letto, adocchiati alcuni ori sul cassettone, sul marmo, ne aveva fatto una manata sola, allargandoci sotto con l’altra mano, come una secchia, la gran tasca di cui disponeva sul fianco, del pantalone della tuta. 
«Cosa che falo?» gli aveva garrito la Menegazzi, non totalmente impedita dallo stato ipnotico. Lui, rivòltosi, le aveva puntato una pistola sulla faccia: «Azzittete, befana, sinnò te brucio.» Misurato il di lei terrore, aveva aperto il cassetto, quello in alto, dove ce stava la chiave... 
E aveva indovinato. C’era tutto l’oro, e le gioie: in un cofano di pelle. C’era il denaro. «Quanto?» chiese Ingravallo. «No savaria zusto. Quatromila setesiento, me par.» Il denaro in un vecchio portafoglio secco, da uomo: del suo povero marito. (Gli occhi le si inumidirono.) Quello, neanche un baleno, aveva già involtato il cofano dentro una sorta di suo fazzolettaccio sudicio, o forse un cencio, fu fu fu, con la febbre alle dita: il portafoglio se l’era bell’e mandato a scivolare in tasca, con una lestezza! Mària Vergine. «In tasca qua...»: e la signora si batté la mano sulla coscia. 
«I xe diavoli, mi no so come che i fasa, i xe diavoli! Diavoli.» 
«Zitta, mo,» le aveva detto il giovane in un tono cupo di minaccia, guatandola ancora, andandole quasi col viso sotto il viso. Parevano d’una tigre, ora, quegli occhi: l’anima deteneva la sua preda: l’avrebbe difesa a qualunque patto. Se l’era svignata senza alcun intoppo, com’ombra. «Zitta!,» la terribile intesa. Ma lei, invece, appena lo ebbe visto uscire, s’era buttata subito alla finestra, sì quella lì, proprio, che dava sul cortile, apertala aveva gridato, gridato, i casigliani dicevano anzi strillato disperatamente: «Al ladro! Al ladro! Aiuto! Al ladro!» Poi... Avrebbe voluto seguirne subito i passi: ma si era sentita male, più male ancora di prima. Era caduta o si era buttata sul «suo» letto: lì. E lo additò. 
Il ducentodiciannove, cinque piani a strada più l’attico e le due scale A e B, con alcuni uffici sulla B, al mezzanino, era un porto di mare. Le scale, agiate tutte e due, l’una più buia dell’altra. La A più tranquilla della consorella: tutti signori autentici da quella parte, du côté de chez madame. 
Dai congiunti e accavallati referti della portinaia e d’altre inquiline delle più precipiti a favola, che Ingravallo interrogò di fuori senza scrivere, indi nell’atrio da basso, dietro al portone e al portello piantonati dal brigadiere, poi da un agente, si poté alfine ricostruire l’accaduto. E appurare un’altra circostanza, e alquanto curiosa, per vero. Il delinquente era stato audacemente rincorso. «Ah!» fece Ingravallo. «Sì»: troppo audacemente, forse. perché a rincorrerlo, o a fingere di rincorrerlo giù per le scale e nell’andito, prima ancora del signor Bottafavi der quarto piano che poi l’aveva inseguito anche lui, col revolver, primo di tutti era stato un giovane, «sì, un giovanotto», «no, un giovanotto: un maschietto...», «che maschietto! tanto alto, era»: pareva il garzone d’un pizzicarolo, co la parannanza tutta intorcinata intorno a la vita, ciaveva li carzoni sportivi però, coi calzettoni verdi. «Che verdi!» Era saettato fuori attraverso l’androne poco dopo che s’erano sentiti i due colpi, le due revolverate sulla scala. E nessuno l’avea visto più. «Io sì! sul marciapiede! Venivo da Santa Maria Maggiore! Lui è scappato via...» Il patema testimoniale, appiccato il foco alle anime, deflagrava ad epos. Parlavano tutte in una volta. Era una confusione di voci e di aspetti: serve, padrone, broccoli: enormi foglie di un broccolo uscivano da una sporta rigonfia, tumefatta. Vocine acri o infantili aggiungevano dinieghi o conferme. Tomo tomo, un barboncino bianco scodinzolava eccitato e de tanto in tanto abbaiava puro lui: il più autorevolmente possibile. 
Ingravallo si sentiva soffocare, stritolato dalle relatrici e dalla relazione. 
Dopo le grida della signora Menegazzi, i due Bottafavi di sopra, marito e moglie, erano usciti sulle scale in ciabatte gridando pure loro, un bel duetto nuziale baritonosoprano: «Al ladro! Al ladro!» Esigevano ora adeguato riconoscimento del loro coraggio, della loro prontezza di spirito. Il Bottafavi, anzi, con un grosso pistolone a revolver: che volle esibire al commissario, quindi agli astanti: le donne si fecero un po’ indietro: «Mbè, adesso nun ce spari a noi»: i ragazzini allungarono il collo, ammiratissimi. Ne ebbero, da quel momento in poi, una grande opinione, der sor Botta e Fava, come dicevano. Lui seguitò a recitare, col revolver in mano, scarico però: canna in aria. Rievocò i fatti con una grande precisione. Là per là, per quanto avesse tentato, non gli era riuscito di spararlo. perché c’era il fermo, un’asticciuola nel settimo buco del tamburo. E lui, in tanti anni di assoluta inazione di quella macchina, s’era scordato che i veri revolver, com’era appunto il suo, hanno quel diavolo d’un fermo! che quando c’è giù lui, li impedisce di sparare. Sicché, sul più bello, il ladro se l’era svignata a tutta gamba. «Ma le due revulverate l’avite sparate vuje?» fece Ingravallo. «Che le pare, sor commissario! che so’ un regazzino?... da sparà così a casaccio?» «Ma avevate tentato.» «Tentato: tentato è una parola. Er revòrvere mio nun è come quello de li delinquenti... che spareno sur serio. Questo, sor commissario, è er revòrvere d’un galantomo. Io... so’ stato guardia giurata, da giovinotto: e me pare che l’arme le so trattà mejo de tanti artri. Io... io so’ padrone de li nervi mia...» Il ladro aveva tagliato la corda. Per un pelo: «Ma un’artra vorta nun ce la fa.» 
«E che cosa poteva dire del garzone?» «Quale garzone?» «Er garzone der pizzicarolo,» fecero le donne. «Nen avite sentite chisse brave femmene? Ne stanno parlando da un’ora...» disse Ingravallo. «Mbè, io nun m’interesso de pizzicaroli: pe ste cose... ce pensa mi moje,» rispose con tono d’importanza. I garzoni dei salumai, evidentemente, non potevano competere con il suo revolver. No, non aveva veduto nessun garzone: né di pizzicarolo, né d’altri negozi: né der macellaro, né der fornaro. 
Eppure la sora Manuela lo aveva visto, ben visto, che usciva di corsa dall’andito, dietro il ladro. «Macché!» fece la Bottafavi a sostegno del marito. «Ecché macché! Macché un cavolo, sora Teresa mia! Che ci avrà l’occhi pe nun vedecce?... Staressimo bene... co tutto sto viavai der palazzo...» La professoressa Bertola smentì la negativa dei Bottafavi: e corresse, a un tempo, l’affermativa della portinaia. Stava rincasando: il mercoledì non aveva che un’ora, dalle otto alle nove. Stava per infilare il portone quando vide uscire, che quasi la investì, quel serafino spaurito con una zazzera da non si credere: col viso stravolto, coi labbri bianchi... gli tremavano i labbri, ne era certa. L’aveva perso di vista perché subito dopo vide uscire «quel giovinastro», il meccanico in tuta grigia, ma era una tuta sui generis, gonfia, e con un involto: «insomma l’assassino in persona...» «E com’era il berretto?» fece Ingravallo. «Il berretto... veramente... il berretto...» «Com’era? lo dica lei.» «Veramente non zaprei, non potrei propio dire, signor commissario.» Poco prima, sì, sì, questo sì, aveva udito pure lei i due colpi: due tonfi, che venivano fuori dal portone. 
La portinaia la rimbeccò a sua volta. I due colpi sì, prima di tutto i due colpi:... d’accordo. Poi aveva visto come una saetta grigia nell’atrio, un topo in fuga... «Me pareva come un sorcio quanno scappeno, quanno je corro appresso co la scopa...» E poi, dietro lui, il garzone. Poteva giurarlo. Quando era passato il garzone tutto vestito bianco, salvo i carzoni, se sa, mbè, l’assassino era già passato. Le revolverate? Sì, certo... Un momento prima quer fijo d’una bona donna aveva sparato du corpi. Ancora su la scala, ch’ereno rintronati come du bombe. «Bum! Bum! Ve dico, sor commissario mio, che me so’ presa una parpitazzione de core...» 
La Bertola volle replicare. Tra le due donne si accese un battibecco. La signora Liliana, intanto, non s’era vista: e don Ciccio ne fu felice: lei! mescolarsi in un mercato del genere! 
Non gli parve logico di perder tempo a voler cercare i proiettili, o i segni dei proiettili. Che si trattasse di una Beretta 6,5 o di una Glisenti di ordinanza 7,65 non gli importava gran che: una pistola si fa presto a farla sparire per qualche tempo, lo sapeva per pratica: basta affidarla a un socio, a un amico. 
Licenziò inquilini e inquiline, serve e sporte; senz’addarsene acciaccò un piede ar barboncino, che sbottò in un diavolìo di caì caì da doverlo udire il Papa a palazzo. 
Fece chiudere del tutto il portone, lasciando a guardia del portello quell’agente che aveva sostituito il brigadiere. Salì, per un altro breve sopraluogo, dalla Menegazzi: Pompeo, ch’era con lui, gli andò dietro: Gaudenzio non era nemmanco disceso. Chiese e ricercò se vi fossero tracce o, meglio, impronte dell’assassino. Le maniglie, il marmo del canterano: il pavimento lucido. 
La signora Liliana apparve infine a sua volta, molto bella: escluse di poter fare delle congetture: ebbe delle buone parole per la Menegazzi, le offrì d’ospitarla: confermò, dietro domanda, che un po’ prima dei due colpi di pistola il suo campanello aveva sonato pure lui, alquanto timidamente, per altro. Era nel bagno. Non aveva potuto aprire: forse, nemmeno avrebbe aperto. In quel tomo di tempo i giornali avevano molto parlato del «tenebroso» delitto di via Valadier, poi di quell’altro, ancor più «fosco», di via Montebello. Lei non sapeva togliersi di mente quanto aveva letto. E poi... una signora sola... ha sempre un po’ paura ad aprire. Si accomiatò. Soltanto allora Ingravallo pensò alla sua cravatta verdolina (quella coi trifogliolini neri a quinconce): e alla sua barba molisana di trentasei trentott’ore. Ma l’apparizione lo aveva beatificato. 
Domandò di nuovo alla vedova Menegazzi, alla signora Zabalà, se lei, riflettendoci bene, avesse magari qualche idea, qualche sospetto, sul conto di qualcheduno. Non poteva fornire un indizio? Gente di casa, no? Pratici delle sue abitudini e della casa dovevano di certo essere, a giudicare dalla disinvoltura. 
Domandò ancora se fossero rimaste delle tracce... o impronte, o altro... dell’assassino. (Quel termine della collettività fabulante gli si era ormai annidato nei timpani: gli forzò la lingua a un errore.) No, nessuna traccia. 
Da Pompeo e da Gaudenzio fece rimuovere il canterano. Polvere. Un filo giallo di scopa. Un biglietto azzurrino, quasi appallottolato, der tramme. Si chinò, lo raccattò, lo spiegò molto cautamente, col faccione chino su quel nulla: che apparve logoro, quasi. Tranvie de li Castelli. Bucato alla data del dì avanti. Bucato, forse (c’era uno strappo), al nome di... di... «Tor... Tor... Mannaggia! la fermata prima di... Due Santi.» «È il Torraccio,» disse allora Gaudenzio, allungato il collo dietro le spalle di don Ciccio. «È vostro?» chiese don Ciccio alla spaurita Menegazzi. «Gnornò, no el xe mio.» No, non aveva ricevuto visite, il giorno avanti. La domestica, la Cencia, una vecchietta un po’ gobba, veniva solo a mezzo servizio, alle due: con suo gran disappunto: (suo, cioè, della Menegazzi). Perciò la sua camera da letto se la riordinava lei, per quanto... i suoi poveri nervi, ah! signor commissario! Era già in ordine, anzi, quando, rompendo tutt’a un tratto il silenzio, «quel terribile campanello» s’era fatto inopinatamente sentire. In camera da letto, poi, Mària Vergine! come potevano pensare? In quel sacrario di memorie no, no, non riceveva nessuno, mai, assolutamente nessuno. 
Don Ciccio lo credeva bene: ma lei ebbe un tono e un «Mària Vergine!», come ammettendo di poter essere sospettata del contrario. No, la servente no la gera de Marino, no la gera dei Castelli Romanni... Abitava difatti, da epoca immemorabile, in una catapecchiucola delle più tignose a via de’ Querceti, a metà, soto el dedrio dei Santi Quattro, con una sorella, una gemella, un poco più piccina di lei, poco poco. Del rimanente, lo credesse, pie donne. Le piaceva lo zucchero, giusto: e anche il caffè: molto dolce, anche. Ma toccare... no, no... non avrebbe toccato senza chiedere. Soffriva di geloni, ai piedi e alle mani, sior sì: non poteva lavare i piatti, certe volte, da tanto le bruciavano, le mani: soffriva molto, sior sì. Non in quell’inverno, però, se pur tremendo, sior no: l’inverno prima. Molto, molto pia: tutto il giorno col rosario in mano: con una speciale devozione per san Giuseppe. Anche don Corpi avrebbe potuto dare informazioni, don Lorenzo, non lo conosceva?... Ah! che sant’uomo! propio: dei Santi Quattro Coronati: sì, perché si confessava da lui: qualche volta faceva servizio anche da lui: come rincalzo alla Rosa, la servente in titolo. 
Ingravallo era stato ad ascoltare a bocca aperta. «Allora? Stu bigliette? Stu bigliette? Chi ce lo po avé lassate? Diteme. L’assassine?...» Pareva che la Menegazzi si ricusasse alla diligenza e alla pertinacia dell’inchiesta, non volendo far fatica a riflettere: tutta trepida, tutta rorida di speranze in ritardo, nel sogno e nel carisma delle ahimè rasentate ma non patite servizzie. Una policromatica sventatezza vaporava dai suoi foulards color lilla, dal suo baffo bleu, dal chimono tutto gorgheggiato di uccellini (non erano petali, erano strani volatili, tra gli uccelli e le farfalle), dai capelli giallastri con tendenza a un Tiziano scarruffato, dal nastro viola che-li raccoglieva quasi in un cespo di gloria: sopra i vagotonici abbandoni dell’epigastro e del volto vizzo, e i sospiri della scampata ahimè brutalizzazione ma non rubalizio degli ori. Non voleva riflettere, non voleva ricordare: ossia, avrebbe voluto ricordare quel che s’era guardato bene dall’accadere. Lo spavento, la disgrazia, le avevano scompaginato il cervello, quel tanto di sua persona che poteva prender nome di cervello. Aveva quarantanove anni, per quanto ne dimostrasse cinquanta. La disgrazia era venuta doppia: ai suoi ori quella eccezionale patente... di stima indefettibile: a lei, col titolo di befana, la canna... della pistola. «Una volta no ti geri così lazaron,» fu indotta a pensare: del suo angelo custode. No, non sapeva, non voleva: era sconvolta: non si teneva in carreggiata. Chi tuttavia la obbligava in discorso era Ingravallo, come si afferra con le buone molle uno stizzo che frigge, spara, fa fumo, fa piangere. Talché finì, esausta, col confermargli che il toso, già, si, quel malvivente, aveva levato la pistola di tasca o di dove ce l’aveva, sì, proprio E, davanti al comò, poi quel fazzolettone sporco, o un cencio da meccanico, forse, da involtare la scatola di pelle... delle gioie, quando l’aveva tolta fuori dal cassetto. Con la pistola gli era uscito insieme qualcos’altro, come un fazzoletto, un gomitolo, o carte, probabilmente. No, no, non ricordava, lo spavento era stato troppo, Mària Vergine! per poter ricordare... Delle carte? Quel toso, già, era probabile, s’era chinato a raccattarle. Rivedeva la scena confusamente: a raccattar che? il fazzoletto?... se era il fazzoletto. Come si può aver memoria... a tanti particolari... quando si provano certi spaventi? 
Ingravallo adagiò il biglietto in un portafogli, ridiscese, ch’erano appena trascorsi come una quindicina di minuti. Buie le scale. Da basso, chiaro l’andito: anche col portone così, aveva luce da una vetrata sul cortile. Gaudenzio e Pompeo lo seguivano. Cercò ancora la portiera, ch’era là: e stava a baccajà con quarcuno. 
Siccome poi il novanta per cento degli inquilini e inquiline s’erano allontanati 
al suo invito, ma di pochi passi, e con gli orecchi ritti, non gli riuscì difficile di giuntare all’inchiesta un supplemento d’inchiesta relativo al misterioso garzoncello: riconvocandosi tacitamente nell’andito il già disciolto groppo o cespo di umani e di vegetables (verdure) di che lui doveva spremer notizia de’ fatti, ed eventuali referenze della persona. Risultò che nessun inquilino dello stabile, né a scala A né a scala B, aveva ricevuto nulla né doveva ricevere nulla, quella mattina, da nessun pizzicarolo dell’Urbe. Nessuno aveva aperto a garzoni co la parannanza bianca, in quell’ora. Tutta una commedia, suggerì accalorandosi un’amica della Bottafavi, per quanto poco amica della Menegazzi, e inquilina del quinto. «Se sa che quanno uno va pe rubbà, lì de fora c’è quello che je fa da palo... Quelli, dateme retta, sor commissario, quelli... ereno d’accordo...» 
«Garzoni di fornitori non ne avete mai visto in questa casa?» fece Ingravallo, in un tono di autorità consapevole, e tuttavia fastidito. Dal tedio e dalla gravezza abituale ritirò le palpebre: gli occhi ebbero allora una luce, una sicurezza penetrante. «E come no?» fece la Pettacchioni, «co sto porto de mare der palazzo?... Qua ce stanno fior de signori, gente de commercio, che se crede, sor commissario?» tutti sorrisero: «de quelli che poco je piace de magnà l’indivia.» «E per chi venivano? Non ricordate?... Chi è che gli portavano la mozzarella a domicilio?» «Mbè, sor commissario, veniveno un po’ per tutti...» chinò il capo, portò l’indice sinistro all’angolo della bocca: «me ce facci pensà.» Tutti ora annaspavano garzoni con la mozzarella: un subito fervore d’ipotesi, discussioni, ricordi: panieri di vimini e grembiuli bianchi. «Giusto... er sor Filippo, qui,» lo cercò d’un’occhiata: fece come lo presentasse: «er commendator Angeloni: der Ministero dell’Economia Nazzionale,» e lo indicò, nel gruppo. Gli altri allora si scansarono e il designato s’inchinò, leggermente: «Commendator Angeloni,» proferì di se stesso. «Ingravallo,» fece Ingravallo, che ancora non era neppure cavaliere, toccandosi con due diti l’ala del cappello. In onore dell’Economia. 
Er sor Filippo, alto, scuro a soprabito, co la panza un po’ a pera e le spalle incartocchiate e un tantinello pioventi, di viso tra impaurito e malinconico, e al mezzo un nasone alla timoniera da prevosto pesce che doveva fare le gran trombe der Giudizio, a soffiallo, aveva l’aria, per quanto commendatorile e ministeriale, sì, però, più che altro, un non so che... una tristezza, una insicurezza e insieme anche una tal quale reticenza negli occhi, al sogguardare il dottore, il dottor 
Ingravallo, quasi che temesse di perdere un appiglio... alla prossima caduta del ministero: non caduco, viceversa, fino alli 25 luglio del ‘43. Uno strano corbacchione, dio birbo, infagottato in quel suo bavero e in quella ciarpa elegiaca: un chiericone del catasto di quelli neri neri, che annidano di preferenza tra San Luigi de’ Francesi e la Minerva. Impercepiti dal passante distratto e da quello che va de prescia, a ora d’agio, un piede appresso l’altro, sogliono deambulare le loro dilette stradicce, dall’arco de Sant’Agostino e da la scrofa, pe via de le Coppelle o pel Pozzo de le Cornacchie, fin su, a Santa Maria in Aquiro. Alle rare occasioni si avventurano chiane chiane per via Colonna o s’inoltrano agorafobici su li serci de piazza de Pietra, non senza disdegnare la fojetta, e la pizza snobistica der napoletano: e poi pe quer budello de via de Pietra arriveno magari a sfociar sul Corso, ma sabato grasso ha da essere, dirimpetto all’Enciclopedia Treccani, ai più invitanti orologi del gioielliere Catellani. Di quaresima, luttuosi e boffici, si contentano lungheggiar Santa Chiara, sotto ai due globi de’ due alberghi, fino all’elefante e al suo gentile obelisco, e alle vetrine dei rosari e delle madonne: passo passo: oppure, passo passo, riscendono: schivata per un pelo una bicicletta, imboccheno la Palommella e sfioreno er dedietro ar Panteone, già oramai però sulla via del ritorno, e come un po’ delusi del crepuscolo. 
Da qualche anno il commendator Angeloni s’era trasferito a via Merulana, in seguito alle demolizioni di via del Parlamento-Campo Marzio. Là ci aveva abitato da sempre. Doveva essere un buongustaio: a giudicare almeno dai pacchetti, dai tartufetti... Pacchetti che per solito li inoltrava lui a se stesso, con gran riguardo e con ogni venerazione, tenendoli orizzontali e in sul davanti, come gli desse il latte: di quelli dei salumai di lusso, pieni di galantina o di pâté, con il cordino celeste. E qualche volta, del resto, glie li mandavano anche a casa ar ducentodicinnove su in cima; glie li porgevano, come si dice a Firenze. (Carciofini all’olio, vitel tonnato.) 
«Er sor Filippo, qui,» ripeté la sora Manuela. «Mbè, a voi quarche vorta v’è venuto, ma sì un maschietto co li pacchi, co la parannanza bianca. Nun l’ho mai visto in faccia: sicché, propio com’era nun me n’aricordo. Ma, suppergiù, mo che ce penso, quello de stammatina poteva esse er vostro. Una sera, che je corsi appresso, me strillò da le scale che saliva su da voi, che v’aveva da portà er presciutto.» 
Tutti gli sguardi si puntarono sul commendator Angeloni. Il nominato si confuse: 
«Io? Garzoni?... Che presciutto?» 
«Sor commendatore mio,» implorò la sora Manuela, «nun me vorrete fa sta partaccia de dimme che nun è vero in faccia ar commissario... Voi sete solo...» «Solo?» ribatté il sor Filippo, come se il viver solo fosse una colpa. 
«E che ce sta forse quarcuno co voi? Manco er gatto...» 
«E che volete dì, che so’ solo?» 
«Dico che quarchiduno che ve porti da magnà a casa, quanno che piove, la sera, ce po esse puro, no?... no?... nun ve pare?» Ebbe un tono conciliante, quasi ad ammiccargli: «ma che me vai combinanno, a cojone!» 
In apparenza, un pasticcio. La confusione der sor Filippo era evidente: quel balbettare, quel trascolorare: quegli sguardi così pieni di incertezza, a non credere d’angoscia. Un sospeso interesse era in tutti: tutti i casigliani lo guardavano a bocca aperta: lui, la portinaia, il commissario. 
Il fatto certo, si disse Ingravallo, era che la portinaia nemmeno stavolta aveva veduto in viso il garzone: se garzone era. Gli aveva veduto i tacchi, e anche il... diciamo la schiena: questo sì. La professoressa Bertola, sì, che lo aveva veduto in faccia: era bianco: coi labbri bianchi: ma non lo aveva veduto altre volte. Non poteva dir nulla nemmen lei. 
Anche l’assassino... La sora Manuela finì per dover ammettere che neanche quello sarebbe stata in grado di riconoscere. No. Mai prima d’allora non lo aveva visto. Mai. Un furmine! 
E i due colpi di rivoltella, in quel buio della scala, boli, chissà dove diavolo erano andati a sbattere. 
Il dottor Ingravallo tagliò corto. Furono invitate in questura la sora Manuela Pettacchioni portiera e la signora Teresina Zabalà vedova Menegazzi, per accoglierne a verbale, semmai, le ulteriori deposizioni: la seconda, soprattutto, per sporgere denuncia del fatto. Il danno era piuttosto forte: il caso era piuttosto serio. Si trattava di rapina aggravata, e per un valore, se non per un importo, alquanto rilevante: trentamila lire giuppersù, tra ori e preziosi (un filo di perle, un grosso topazio, fra l’altro): e un quattromilasettecento circa in denaro, nel vecchio portafoglio. «Il portafoglio del mio povero Egidio!» singhiozzò la Menegazzi al sentirsi convocata. 
Il commendator Angeloni fu pregato, con ogni riguardo, di volersi tenere a disposizione della polizia, per ulteriori chiarimenti. Un bell’eufemismo anche questo. «Tenersi a disposizione» significò, in pratica, accompagnare don Ciccio sul saliscendi vario dei tramme, degli autobus, fino a Santo Stefano del Cacco. Fra l’altro gli toccò saltare la colazione. 
«Nun me sento, grazie,» diceva tristemente a Pompeo, che gli propose di romper l’inquietudine con un par de pagnottelle imbottite. «Non ne ho voglia, non è il momento.» «Come ve pare, commendatore. In ogni caso, quanno che volete, er Maccheronaro, qui a via der Gesù, ce sta apposta. Ce conosce tutti, che semo boni clienti. Er rosbiffe ar sangue è la specialità de Peppì.» La sora Manuela, spicciato sul tavolo di don Ciccio quell’orribile e interminabile garbuglio della firma reverita sua, Manuella Petachoni, attraversando la stanzaccia di attesa volle accomiatarsi dall’imbacuccato: e salutò giovialmente, popolana e canora come non mai: «Arrivedella, sor commendatò...» Tutti lo affisarono. «Se facci coraggio che nun è gnente... È più presto fatto che detto.» E uscì pe pijà er P.V.-1 tutta de prescia, smovenno er culo come una quaja e ticchettando in difficile equilibrio sui tacchi de gli scarpini boni che parevano du trampoli, come una scrofona su queli zoccoletti che cianno. «Co tutte ste buggere, oggi, manco ciavrà fantasia de magnà li carciofini... Manco un zeppo se magna, povero sor Filippo... A Santo Stefano der Cacco avemio da capità Brutti posti!» 
Il commendatore non si dava pace. Quel tic tac del maledetto orologio della stanza, di tocco in tocco gli aveva scavato le orbite: da parer quelle d’un dissepolto. A interrogarlo, nel primo pomeriggio, fu lo stesso Ingravallo, che alternò blandizie e amabilità varie a fasi un po’ più grevi: col cader preda, a tratti, di quel certo «sopore d’ufficio» che gli appiombava così utilmente le palpebre. Momenti di vivacità e d’ironia: scatti come di repentina impazienza: tedio come se le scartoffie lo annegassero: duri incisi. Raccontò poi il Deviti, il Gaudenzio, che presenziava l’interrogatorio senza averne l’aria da un tavolino in un angolo, col testone sulle paperazze del giorno, raccontò come alle prime battute del duetto il travagliato e intimidito Angeloni avesse già completamente perso le staffe. È una cosa che capita ai galantuomini, ai signori seri, a quelli che si ostinano a mostrarsi tali, in certe situazioni poco adatte per loro. Una incredibile angoscia pareva essersi impadronita del commendatore. Andò a finire che soffiò il naso: occhi rossi, trombettò come una vedova. Sostenne di non saper nulla, di non creder nulla, di non essere in grado di immaginar nulla, di quel fattorino. Insisteva penosamente, contro ogni prelazione d’uso, a forbirsi i labbri con quella parola fattorino. più Ingravallo si buttava al folklore, tra Tevere e Biferno, più lo pizzicava dicendo pizzicarolo e guaglione, più lui si ritraeva come una lumaca in guscio nel sussiego della terminologia ufficiale: che non c’entrava nulla però, in quel clima di generica diffidenza questurinesca, di brisàvola e di carciofini all’olio. Via Venti Settembre, co’ suoi fattorini, i suoi uscieri, gli dovette sembrare in quell’ora implacabile un paradiso più pericolante che mai: un lontano Olimpo, soprastato da un Quirino Commendatore, anzi Grand’Ufficiale, ma ahimè, poco atto a soccorrerlo. Che? le carte magiche della dolce inanità burocratica, addio? 1 tepori dell’amministrazione centrale? I «cospicui» incrementi del diagramma della pesca... delle sardelle? Le franchigie di salagione? Il temporalesco e pur diletto borbottio della Finanza, il santo riverbero della Corte dei Conti? Addio? Solo, seduto sur una scranna della questura, con addosso tutte le sofisticherie della squadra mobile (così pensava), gli si velarono gli occhi. La sua povera faccia, di poveruomo che desidera che non lo guardino, con quel nasazzo al mezzo che non dava licenza un minuto alle inespresse opinioni d’ogni interlocutore, la sua faccia parve, a Ingravallo, una muta disperata protesta contro la disumanità, la crudeltà d’ogni inquisizione organizzata. 
Altre volte, sì, gli avevano mandato a casa del presciutto. Chi! Chi. Una parola. Nossignore, non poteva precisarlo. Manco se ne ricordava, forse, a distanza di tempo. Lui... era solo. Non aveva fornitori fissi. Comprava qua e là: oggi da uno e domani da quell’altro. Pe tutte le botteghe de Roma un po’. Un po’ per una, se po dì. così! Dove capita, capita. Quanno che vedeva che c’era convenienza, o ch’era robba bona. Magari solo quàrche pasticcetto, tante vorte. Giusto pe levasse na svojatura... Un po’ d’anguilla marinata, magari, un po’ de galantina. Ma più che antro, si soffiò il naso, quarche barattolo de conserva: pe fa un po’ de scorta a casa. Quarche riserva a casa po fa commodo de tenéccela. E chi je portava sta robba, se sa, ereno li fattorini de li negozzi... 
Alzò le spalle, distese le sopracciglia, come a significare: «Che c’è di più ovvio?» 
«Alla portiera avete detto, una volta» (don Ciccio sbadigliò), «che compravate il prosciutto magro a via Panisperna...» 
«Ah, già, ora che me ce fa pensà, me n’aricordo puro io, che una vorta... me so’ comprato un presciuttino sano: un presciuttino de montagna de pochi chili.» Pareva che nel poco peso di quel prosciutto egli intravedesse una singolare attenuante. «Giusto me lo so’ fatto mannà a casa. Dar salumaro de via 
Panisperna, già, in fonno in fonno, quasi all’angolo de li Serpenti... È un bolognese.» 
Il povero interrogato boccheggiava. Fu spedito Gaudenzio a via Panisperna. 

Alle cinque e tre quarti, secondo interrogatorio. Riapparvero la sora Manuela con la Menegazzi, riconvocate d’urgenza, oltreché la professoressa Bertola, pallida, corsa da vaghi brividi. Il giovanotto che Gaudenzio era pervenuto a racimolare a li Serpenti fu introdotto a sua volta. Piuttosto franco, ma d’aspetto non del tutto limpido, capelli neri, straunti e stralucidi, interrogò con gli occhi il commissario, poi rapidamente gli astanti.  
«È questo il vostro tipo?» chiese don Ciccio alla Bertola. 
«Che!» fece la professoressa con un sussulto, indignata di quel «vostro». Don Ciccio sì voltò alla portiera: «‘O recanuscete? è chillo ‘e stammattina?» 
«No, non è lui. Quello de stammatina... io non l’ho veduto in faccia: quante vorte ve l’ho da dì, sor commissario? Era un regazzino, in confronto a questo.» Don Ciccio si rivolse allora al commendatore Angeloni: 
«È lui che v’aveva portato il prosciutto?» 
«Sissignore.» 
«E voi?» fece al giovine. «Avete qualche cosa da dire?» 
«Io?» il giovane alzò le spalle, guardò gli astanti facendo il giro delle facce. «Che ne so, io, quello che vo da me?» Don Ciccio, duro, aggrottò le sopracciglia. 
«Parlate con più rispetto, giovanotto. Siete stato invitato a comparire a sensi di legge.» Cantarellò, quasi: «Articolo 229 del codice di procedura. Ammettete di conoscere il commendatore qui presente?» e col mento significò l’Angeloni. 
«È venuto a bottega l’anno passato, quarche vorta: poi nun s’è più visto. Una vorta j’ho portato a casa un presciutto de montagna, fino su, a via Merulana. Pioveva forte, che me so’ fracicato.» 
«Ci siete stato una volta, o più volte? Conoscete la casa?» 
«Io?... la casa? Ce so’ annato due o tre vorte quanno che c’è stato quarche cosa da portà.» La risposta fu pronta, e imbarazzata ad un tempo. Una certa ansia d’arrivare in fondo. 
«E voi, signor commendatore?» 
«Confermo. È venuto due o tre volte, difatti.» Fece uno sforzo, era chiaro: voleva apparire più sereno. «J’ho dato puro la mancia...» 
«Ah! Gli avete dato la mancia,» don Ciccio spianò la fronte: parve congratularsi 
del fatto: eppure con una inspiegabile ironia. Si riconcentrò. Chinò il capo sui verbali. Scartoffiò un poco. Interpellò di nuovo la Pettacchioni, accennando al commesso: «È lu giovane che m’avite detto che v’ha gridato chella vota... da ‘n coppa a le scale?» 
«No, no, nemmeno quello. So’ sicura. Quello poteva esse quello de stammatina... ch’erano tutti dua più regazzini de questo qui. Quello, sor commissario, ciaveva una voce più gentile: e ciaveva li carzoni corti puro lui, si nun era lo stesso...» 
«Anche questo ha i calzoni corti.» 
«Sor commissario!... ma questi so’ sportivi. Quello era più sbarbatello, ve dico. Questo è bono p’annà a fa er sordato. E poi, e poi, quann’è ch’è venuto, questo qui, a via Merulana? Un anno fa? Quello che dich’io saranno dua o tre mesi, pe dì tanto. Era poco doppo li morti.» 
Ingravallo tirò un fiato, come a voler concludere. 
«Per il momento potete andarvene,» fermò gli occhi sul giovane. «Ricordatevi però... che qui nenn’ è aria... de fa ‘o guappo...» Quello uscì, seguito da una lenta, persistente occhiata commissariale. Radunate le sue carte e insieme le fila delle risultanze, Ingravallo principiò: 
«La signora Pettacchioni qui presente, se aggio capito, attesta d’aver veduto un altro garzone venire su da voi c’o presutte... parecchie vote, d’aspetto più giovane, a quanto pare, voglio dire ch’arrassomiglia di più a chillo d’ ‘o garzone di stammatina... che la professoressa,» e indicò, «ha potuto vedere in faccia, ed è quindi in grado di riconoscere. Non è vero, signora Bertola?» Quella annuì. 
L’Angeloni rifiatò. Si atteggiò un attimo a descrittore del costume. 
«Mbè, la sora Manuela è la portiera. Lei...» 
«Lei che?» fece la titolare del portierato, minacciosa. L’Angeloni si ritirò di nuovo nel suo guscio, come la lumaca, lasciando fuori solo il naso: fuori dalla coccia dell’anima. Intendeva dire, forse, che lei, come portiera, il suo mandato era appunto quello di spiar la gente al passaggio. 
«Voglio dire...» si confuse; parlava col tono un po’ nasale d’una trombetta di cartone. «Insomma ve l’ho già detto, signor commissario. So’ uno che compra dove capita. può darsi benissimo quello che lei dice. Anche l’altro ieri m’hanno mandato a casa della roba. Me l’ha portata la donna de servizio d’un mio collega, del Ministero dell’Economia.» 
«La donna de servizio? Una bella serva, finalmente!» brontolò Ingravallo. Rassettò i verbali, brontolò ancora un poco. Le tre madame vennero così licenziate. 
«Che, potemo annà?» chiese allora la Bertola, pallida. 
«Sissignora. S’accomodi.» 
Donna Manuela, con un tremolìo de zinne che j’abbottaveno tutta la camicetta, liberò merulani sorrisi: «Mbè, arrivedella dottò. J’arriccomanno, qua, er nostro sor Filippo. M’oo tratti bene.» 
Don Ciccio, muto, rimase all’impiedi, verbali a tavolo, a tu per tu cor soggetto: come uno scuro laniero ad ali mezzo aperte, non anco artigliata la preda. 
Ma insisteva tuttavia, sotto quel pelo da can barbone nero che ciaveva in testa: e duro de capoccia com’era. 
Il commendatore si barricò dietro «l’esperienza de sto monno». 
«Quelle,» piagnucolò, «pe mettece una bona parola.» Aveva l’ansimo, a tratti, il respiro breve: e l’orbite ch’erano come due caverne, sfinito. 
«Che intendete dire? Qua sarebbe sta bona parola che vi disturba tanto? Sentimme nu poco. Che è che ve fa sta male? Ditelo. Su, confidatevi...» 
«Nella mia condizione, signor commissario, che? Potevo annà in giro pe Roma co un presciutto in collo? Me pare una cattiveria bella e bona de volé sofisticà si quello ch’ha sparato è un garzone o nun è un garzone, o j’ha fatto er palo a quell’artro o nun je l’ha fatto. Io che ne so? Che je pare? Se metta un po’ ne li panni mia. Pe sentì dì da la gente: avemo visto er commendator Angeloni a via Panisperna che arrancava co un caciocavallo in collo? co du fiaschi uno de qua uno de là? che pareveno du gemelli, in collo a la balia...?» 
Ingravallo altalenò il capo su e giù legando lo sguardo ai verbali. Sembrò che perdesse la pazienza. Alzò la voce, spiccò le parole e le sillabe: «La portie-ra sostie-ne che: pure quell’altro garzone è venuto parecchie volte da voi: chille chiù guaglione, me spiego? Due o tre mesi fa, che è molto meno dell’eternità, se vi pare. E siccome è nu tipe che m’interessa, in quanto che mi giurano che arrassomiglia tutto a quest’altro, chisto ‘e stammattina, me spiego? così, se non vi dispiace...» 
«Capisco, capisco,» mugolò il commendatore. 
«Oh! allora, pecché nun me facite ‘a finezza?... con tanta voglia che ho di conoscerlo anch’io, sto maschietto.» 
Era scritto che il ducentodiciannove de via Merulana, il palazzo dell’Oro, o dei pescicani che fosse, era scritto: che doveva fiorire anche lui un bel fiore, come tant’altri fabbricati ‘e sto munno, del resto. Il garofolone scarlatto del «guarda un po’ che roba!» Con gran sussurro dei casigliani e dei colleghi dell’Economia, della sora Manuela poi non parliamone, il commendator Angeloni fu trattenuto fino alle nove della sera. 

Da qualche pallida indiscrezione cioè mezza parola de’ due agenti, specie er Biondo, via Manuela - Menegazzi - Bottafavi - Pernetti Alda e fratello (scala A) oppure via Manuela - Orestino Bozzi - sora Elodia - Enea Cucco (scala B), parve, cioè s’intravvide, che la polizia sospettasse nel fatto una indiretta oltreché beninteso involontaria (e per di più poco dimostrabile) responsabilità del commendator Angeloni: motore primo di quell’andirivieni, di portatori di salumi a domicilio. «Quello nun vo carità: e quelli ‘o prendeno de petto.» La polizia s’era fitta in capo che il commendatore dovesse in ogni modo conoscere il garzone di salumaio che non aveva sonato a casa di nessuno «e s’era limitato a scegne le scale a precipizzio, appena uditi gli spari»: ma che per una sua speciale per quanto incomprensibile ragione volesse figurare di cascar dalle nuvole. Tutto il contegno dell’Angeloni, la sua reticenza di testardo malinconico, con quei rigiri di frasi che non concludevano a nulla e davano soltanto nel vago e nel dilatorio, la sua timidezza più o meno giocata e valorizzata, quei repentini rossori del naso goccioloso, quegli occhi imploranti e sfuggenti, da prima, poi que’ due poveri occhierugioli smarriti dentro due caverne di paura, una confusione a volte reale a volte stranamente ambigua, avevano finito per indisporre i due funzionari: l’Ingravallo e il dottor Fumi, capo della squadra investigativa. Essi misurarono tutta la gravità, ossia la poca giustificabilità, della loro... diffidenza, insorta da indizi così sfuggevoli: a carico di quell’ottimo sesto grado della Economia Nazionale. Un sesto grado di indubbia moralità, di fama illibata! «Mah,» pensò don Ciccio per confortarsi, «qualunque figlio ‘e bona femmena è illibato, fino al suo primo amore... con la questura.» 
E poi, manco per sogno: non era questione di sospetti. Lui doveva semplicemente spiegarsi, dire quello che pensava, cantare: cantarellare. Se pensava quacche cosa, pecché nun cantava? Era chiaro: il rapinatore, dai 
Balducci, aveva sonato per sbaglio: forse nell’orgasmo, forse per aver mal compreso o mal ritenuto indicazioni di terzi, indicazioni insufficienti. Questa idea dello sbaglio d’uscio Ingravallo non se la sfilava dalla capa: i due usci erano tali e quali, un ducentodiciannovesco color marrone tutti e due, il numero in alto invisibile, dato anche il buio (delle scale). Ravvedutosi, e non ricevendo risposta, aveva sonato all’uscio dirimpetto: quello buono. Secondo il dottor Fumi, invece, il tipo aveva sonato dai Balducci per garantirsi che nessuno fosse in casa: la signora Liliana soleva uscire a quell’ora, verso le dieci: l’Assuntina era via, era al paese, dal «vecchio padre», che stava per andarsene: l’Assuntona pe mejo dì, co quer petto, co quell’anima de culo! la Gina da le moniche, a scuola: il signor Balducci all’ufficio, in viaggio d’affari anzi, come spesso, a Vicenza, a Milano. Interrogata anche la signora Liliana - e fu don Ciccio a interrogarla, e con ogni riguardo, la sera, in loco - nulla emerse. Ella tremava all’idea d’esser sole, lei e la Ginetta: aveva pregato Cristoforo, il fattorino del marito, di venire a cenare e di rimaner la notte: e lo aveva accomodato nella camera della domestica assente. Non finiva più di offrirgli coperte o strapunto: «...se mai avesse freddo...» Era un omaccione da tener in rispetto i ladri col solo fiato: molto pratico di cani, di lepri, di fucili da caccia. 
La contessa Menegazzi s’era incelata d’un piano: era andata ospite dai Bottafavi, che all’uscio ci avevano un chiavistello «inglese» a otto mandate, buono per il portone di Buckingham Palace. Il Bottafavi anzi, quando aveva ingollato certe minestre, se lo sognava di notte: sognava di averci sullo stomaco il catenaccio. Era allora che lo sentivano gridare aiuto, aiuto! nel sonno. Dal quale si risvegliava al suo stesso grido. Aveva ripulito il revolver: lo aveva untato di vasellina, aveva tolto il fermo al tamburo: sicché, ora, pirlava come un guìndolo: la canna era pronta a sparare, al menomo indizio di opportunità. 
Ingravallo si stupì di non udir abbaiare la Lulù e ne domandò notizie. Il viso di Liliana Balducci si attristò dolcemente. Scomparsa! Da più di due settimane oramai. Era di sabato. In che modo? così. Probabilmente se l’era messa in tasca qualcuno. Ai giardinetti di San Giovanni, dove la Tina la conduceva a passeggio, quella smemorata: e invece di badarle, c’era dimolti perdigiorno che le badavan loro a lei: all’Assunta. «Una ragazza così vistosa!... Al dì d’oggi, poi!» Ricerche alla sardigna, due inserzioni sul Messaggero, domande e rimproveri alla Tina, implorazioni un po’ a tutti, non eran valsi a farla ritornare a galla, che che, povera Lulù! 
Don Ciccio, l’indomani, era di pessimo umore. Pioveva e tirava vento: un grecale aspro e stizzoso che mandava ogni cosa a traverso, a cominciare dalle sottane dei preti, dai cani fradici. Gli ombrelli non ce la facevano. Le gronnare de li tetti de li palazzi nemmeno. Da quanto gli riferì Pompeo, apparve chiaro che pe tutto er vicinato le gioie della contessa Menegazzi erano passate a proverbio. Epicizzate, concupite, chiamate in causa a ogni momento dalla invidia e dalla fantasia delle donne, dei pupi. Se ne favoleggiava da anni. Dicevano le spose: «me piacerebbe avecce questo», e: «me piacerebbe avecce quello», e si toccavano il collo, o il seno, o i lobi degli orecchi, come a trastullarvi le dita in un vezzo, a carezzarvi la ghiandolina d’una perla: e aggiungevano: «come la sora Menicacci», «come la contessa Menecacci». Perché era propio na contessa. 
Sui loro labbri stupendi quel nome veneto risaliva l’etimo, puntava contro corrente, cioè contro l’erosione operata dagli anni. L’anafonèsi trivellava il deflusso col perforante vigore d’un’anguilla o di certi pesci anadromi che sanno chilometrare all’insù, su, su, su, fino a ribevere le linfe natali: fino alle montane sorgive dello Jukon, o dell’Adda, o del Rio Negro andino. Dalle ultime 
translitterazioni dei registri parrocchiali si rifaceva alla gutturale tenue degli inizi, da Menegaccio a Ménego e a Ménico, a Domenico, Dominicus, al «possessivo di cui era tutto». Certe fanciulle poco edotte di paragrafie ecclesiastiche v’intoppavano con qualche lor sabellico o tiburtino disagio, dopo due o tre conati sostavano al Menecacci, le crature ne’ lor giuochi lo strillavano ruzzando e i due agenti della squadra mobile, alla presenza del dottor Fumi, ebbero occasione di proferirlo, pure loro, con la più lodevole disinvoltura. 
Di quel nome e di quelle gioie, vere o supposte, di quel mucchio d’ori della 
«contessa» der terzo piano der ducentodicinnove (scala A, spiegamese bene, che la 
B è un artro conto) pe tutta via Merulana e Labbicana inssino a Sant’Antonio de Padova e a San Clemente e a li Santi Quattro, l’epos omai s’era insignorito, e mannava fora bagliori, lividori: come fiamma dalla carta unta. Da tempo. Da mesi: o da anni. In occasione dello smarrimento d’un anello con un topazzio o topazzo (quarcuna, sempre pe rispetto, pronunziava topaccio), che la Menegazzi o per più pulito dire Menecacci aveva dimenticato al cesso, unicamente perché era un’oca vanesia e le era svaporato il cervello, sicché lo aveva lasciato da Cobianchi a San Lorenzo in Lucina, l’anello, sapete bene, là dentro l’angolo di Palazzo 
Ruspoli, un po’ sottoterra però, e poi però miracolosamente lo ritrovò, su la mensolina de vetro de lo specchio der lavamano, previa accensione d’una candela a sant’Antonio ch’entrò apposta a San Silvestro a falla accenne, e solo dopo avella accesa ritornò addietro a cercallo; in quell’occasione e in quel giorno medesimo, risaputa la notizzia, varie donne del 217 e 221 ci aveveno giocato ar lotto: sulla ruota di Napoli: specializzata in materia di miracoli, com’è noto. Difatti era uscito un ambo, un bell’ambo giusto giusto: ma su la rota de Bari. Per dire che la fama de quell’oro era granne. «Fama volat,» sospirò il dottor Fumi co le mano a una pila de cartelle rosse: «Fama volat». Doveva esser volata a vela fino agli orecchi ‘e chillo carugnone. 
S’intenne che prima cura della polizia, specie del dottor Ingravallo, a cui i cronisti non lesinavano il titolo di «solerte», era stata quella di cercar d’identificare e possibilmente acciuffare l’assassine, cioè «il giovane in tuta grigia col berretto, e co la sciarpa verde-bruno.» I confidenti di più fiducia nel ramo unghie lunghe, adeguatamente titillati, avevano fatto ognuno la trottatina di rito: s’ereno messi in canna un quarche chirichetto qua e là: indi avevano largito i pareri: uno cadauno, beninteso. Diedero dei responsi precisi, come ne sogliono dare le sibille. Nel ramo vagabondi... be’ più che un ramo è n’oceano: «Sguinzagliare i confidenti!» Nel ramo peripatetiche e relativi amici... no: non era il caso nemmeno di pensarci. Il tipo, come lo aveva descritto la Menegazzi, doveva essere un mascalzone di fuori, e uno zotico. Solo che mercoledì alle nove il dottor Fumi, allo scorrere un po’ di malavoglia e con uno sbadiglio ritardatario la nota (de le belle donne del dì prima), sostò con l’occhio sulle generalità d’una tizia fermata al Celio, e qualificata... cucitrice senza dimora fissa, da... Torraccio. Era la nota delle ripescate a ora scura dai vari pattuglioni della «buon costume», trasmessagli per conoscenza. Il nome de la località, il Torraccio, non appena intravisto da la coda dell’occhio destro, lo indusse a riflettere. Si fece portare la schedina. E la schedina ripeté: Cionini Ines, anni 20, da Torraccio, nubbile: al «senza fissa dimora» una crocetta, che voleva dire: sì, propio senza: «professione» cucitrice pant. disocc. domestica: «documenti» un tratto di penna orizzontale che voleva dir no. Aveva ingiuriato gli agenti con l’epiteto cafoni. «Pattuglione Celio-Santo Stefano, commissariato San Giovanni.» 
«Che è sto pant.» «Pantaloni, signor commissario capo. Fa la pantalonaia.» Gli agenti l’avevano colta sul fatto. Il fatto era una specie di limosina, quattro lire (di allora, però), ch’ella aveva implorato e ottenuto da un passante: col quale s’ereno confabulati all’impiedi un minuto e mezzo, nel favore della tenebra e di Santo Stefano Rotondo, e da cui s’era spiccicata da tre minuti, all’appropinquarsi dei pollìni: ma il signore caritatevole s’era dileguato a tempo (dal suo punto di vista). 
Il dottor Fumi scosse il capo: un ultimo sbadiglio: restituì la scheda all’agente, la nota alla relativa pila, sul tavolo. Magri risultati, per vero. Due o tre fermi a casaccio, nei «soliti ambienti»: che furono, per quella volta, una bigia latteria, un casino di quint’ordine a via Frangipane, e una panchina a Santa Croce. Tre tipi col berretto in capo: a chi tocca tocca. Il terzo, oltre al berretto, aveva anche la tigna.  
2. 
  
  

Quella mattina, giovedì finarmente! Ingravallo si poté concedere una scappata a Marino. S’era portato appresso Gaudenzio: poi però mutò idea e al Viminale lo licenziò, raccomandandogli alcuni altri affarucci. 
Era una giornata meravigliosa: di quelle così splendidamente romane che perfino uno statale di ottavo grado, ma vicino a zompà ner settimo, be’, puro quello se sente aricicciasse ar core un nun socché, un quarche cosa che rissomija a la felicità. Gli pareva davvero di inalare ambrosia cor naso, de bevela giù ne li pormoni: un sole dorato sur travertino o sur peperino d’ogni facciata de chiesa, sul colmo d’ogni colonnetta, che già je volaveno intorno le mosche. E poi, lui, s’era già messo in testa tutto un programma. A Marino, artro che quel’ambrosia ce sta! a la grotta der sor Pippo ce steva un bianco malvagio: un vigliacchetto de quattr’anni, in certe bottije, che cinque anni prima avrebbe elettrizzato il ministero Facta, se il Facta factotum fosse stato in grado de sospettanne l’esistenza. Faceva l’effetto del caffè, sui suoi nervi molisani: e gli porgeva d’altronde tutta la vena, con tutte le sfumature, d’un vino di classe: le testimonianze e i modulati accertamenti linguatico-palatali-faringo-eso-fagici d’una introduzione dionisiaca. Con uno o un paro de queli bicchieri in canna, chissà. 
Nei due giorni precedenti, oltre a tutto il resto - non c’è solo via Merulana a sto monno - era stato due volte alla direzione delle tranvie dei Castelli: gli piaceva di trottare un po’ lui, verso le undici, piuttosto che ingarbugliarsi l’anima e gli orecchi dei confusi o tentennanti referti di qualche subalterno. Gaudenzio e Pompeo erano indaffarati altrove. «Chi vuole vada, chi non vuole mandi.» Il numero progressivo e la serie del biglietto, il foro alla data, 13, e lo strappo a la fermata, il Torraccio, avevano felicemente consentito di stabilire giorno ora vettura d’emissione del biglietto: nonché d’interrogare il bigliettaio emittente, convocato alla direzione col manovratore per la mattina del secondo convegno. Ai 
Due Santi, al Torraccio, a le Frattocchie, la domenica di primo pomeriggio, era salita una quantità di persone: una folla. Non era loro possibile ricordar tutti: qualcuno sì, e indicarono alcuni clienti più ravvisabili: non senza contestazioni tra manovratore e bigliettaio e confusioni col giorno avanti o col dopo. Il bigliettaio, Merlani Alfredo fu Giuseppe, escluse d’aver visto un giovanotto in tuta, né celeste, né grigia. «Cor berretto sull’occhi?» Nemmeno. «Con una sciarpa ar collo?... Una sciarpa?» «Sì... questo sì...» «Una specie de sciarpa o de fazzolettone de lana verde?...» Sì, sì. «Verde come l’erba nera.» S’accalorò nella conferma. Lo aveva colpito il fatto, ner daje er bijetto, che la sciarpa j’inturcinava mezza faccia, al cliente: «ciaveva er barbozzo drento», come facesse chissà che freddo, il 13 di marzo, al Torraccio. No, non aveva berretto. A testa scoperta, sì: però a capo chino senza guardare in faccia: un zazzerone tutto scarruffato, e niente artro. Non lo conosceva affatto. No, forse non lo avrebbe nemmeno ravvisato. E fu tutto. 
Erano dunque le undici. Il dottor Ingravallo stava per salire sul tram, all’angolo di via D’Azeglio. Le poche macchine a disposizione della polizia vagavano raminghe pel septimonzio, o impegnate a foro o a terrazza, o ar Pincio o ar Giannicolo, così: magari pe portacce a spasso queli signori, dell’era dell’egira, l’arti papaveri de la fezzeria: o se faceveno una pennichella, ar Colleggio Romano, come tanti strucchioni de piazza, però pronte pe daje er giro puro a loro, nun se sa mai. C’era di gran visite di plenipotenziari dell’Irak e di capi di stato maggiore del Venezuela, in quei giorni, un andirivieni de gente piena de patacche: riversati a branchi sul molo Beverello dagli scalandroni d’ogni più roco piroscafo. 
Ereno i primi boati, i primi sussulti, a palazzo, dopo un anno e mezzo de novizzio, del Testa di Morto in stiffelius, o in tight: ereno già l’occhiatacce, er vommito de li gnocchi: l’epoca de la bombetta, de le ghette color tortora stava se po dì pe conclude: co quele braccette corte corte de rospo, e queli dieci detoni che je cascaveno su li fianchi come du rampazzi de banane, come a un negro co li guanti. I radiosi destini non avevano avuto campo a manifestarsi, come di poi accadde, in tutto il loro splendore. La Margherita, di ninfa Egeria scaduta a Didone abbandonata, varava ancora il Novecento, el noeufcént, l’incubo dei milanesi di allora. Vacava alle mostre, ai lanci, agli oli, agli acquerelli, agli schizzi, quanto può vacarci una gentile Margherita. Lui s’era provato in capo la feluca, cinque feluche. Gli andavano a pennello. Gli occhi spiritati dell’eredoluetico oltreché luetico in proprio, le mandibole da sterratore analfabeta del rachitoide acromegàlico riempivano di già l’Italia Illustrata: già principiavano invaghirsene, appena untate de cresima, tutte le Marie Barbise d’Italia, già principiavano invulvarselo, appena discese d’altare, tutte le Magde, le Milene, le Filomene d’Italia: in vel bianco, redimite di zàgara, fotografate dal fotografo all’uscire dal nartece, sognando fasti e roteanti prodezze del manganello educatore. Le dame, a Maiano o a Cernobbio, già si strangullavano ne’ su’ singhiozzi venerei all’indirizzo der potenziatore d’Italia. Giornalisti itecaquani lo andavano intervistare a palazzo Chigi, le sue rare opinioni, ghiotti ghiotti, le annotavano in un’agendina presto presto, da non lasciarne addietro un sol micolo. Le opinioni del mascelluto valicavano l’oceano, la mattina, a le otto ereno già un cable, desde Italia, su la prensa dei pionieri, dei venditori di vermut. «La flotta ha occupato Corfù! Quell’uomo è la provvidenza d’Italia.» La mattina dopo er controcazzo: desde la misma Italia. Pive ner sacco. E le Magdalene, dài: a preparar Balilli a la patria. Le macchine de la questura «stazzionaveno»: ar Collegio Romano. 
Ereno le undici der dicissette marzo e il dottor Ingravallo, a via D’Azeglio, aveva già un piede sur predellino e teneva già con la man destra, a ghindarsi in tramme, il poggiamano di ottone. Quando il Porchettini trafelato gli sopravvenne: «Dottor Ingravallo! dottor Ingravallo!» 
«Che vòi? Che te sta succedenno?» 
«Dottor Ingravallo, senta. Me manna er commissario capo,» abbassò ancora la voce: «a via Merulana... è successo un orrore... stamattina presto. Hanno telefonato ch’ereno le dieci e mezza. Lei era appena uscito. Il dottor Fumi lo cercava. Tratanto m’ha mannato subbito a vede, co due agenti. Credevo quasi de trovallo là... Poi ha mannato a casa sua a cercallo.» 
«Be’, che è stato?» 
«Lei ce lo sa già?» 
«C’aggia sapé? mo me ne jevo a spasso...» 
«Hanno tajato la gola, ma scusi... so che lei è un po’ parente.» 
«Parente ‘e chi?...» fece Ingravallo accigliandosi, come a voler respingere ogni propinquità con chi si fosse. 
«Volevo dire, amico...» 
«Amico, che amico! amico ‘e chi?» Raccolte a tulipano le cinque dita della mano destra, altalenò quel fiore nella ipotiposi digito-interrogativa tanto in uso presso gli Apuli. 
«S’è trovato la signora... la signora Balducci...» 
«La signora Balducci?» Ingravallo impallidì, afferrò Pompeo per il braccio. «Tu sei pazzo!» e glielo strinse forte, che a lo Sgranfia parve glielo stritolasse una morsa, d’una qualche macchina. 
«Sor dottò, l’ha trovata suo cugino, il dottor Vallarena... Valdassena. Hanno telefonato subbito in questura. Mo è là puro lui, a via Merulana. Ho dato disposizzioni. Mi ha detto che lo conosce. Dice,» alzò le spalle, «dice ch’era annato a trovalla. Pe salutalla, perché ha d’annà a Genova. Salutalla a quell’ora? dico io. Dice che l’ha trovata stesa a terra, in un lago de sangue, Madonna! dove l’avemo trovata puro noi, su’ parquet, in camera da pranzo: stesa de traverso co le sottane tirate su, come chi dicesse in mutanne. Il capo rigirato un tantino... Co la gola tutta segata, tutta tajata da una parte. Ma vedesse che tajo, dottò!» Congiunse le mani come implorando, si passò la destra sulla fronte: «E che faccia! ch’a momenti svengo! già fra poco dovrà vedello. Un tajo! che manco er macellaro. Mbè, un orrore: du occhi! che guardaveno fisso fisso la credenza. Una faccia stirata, stirata, bianca da paré un panno risciacquato... che, era tisica?... come si avesse fatto una gran fatica a morì...» 
Ingravallo, pallido, emise un mugolo strano, un sospiro o un lamento da ferito. Come se sentisse male puro lui. Un cinghiale co una palla in corpo. 
«La signora Balducci, Liliana...» balbettò, guardando negli occhi lo Sgranfia. Si tolse il cappello. Sulla fronte, in margine al nero cresputo dei capelli, un allinearsi di gocciole: d’un sudore improvviso. Come un diadema di terrore, di dolore. Il volto, per solito olivastro-bianco, lo aveva infarinato l’angoscia. «Andiamo, va’!» Era madido, pareva esausto. 
Giunti a via Merulana, la folla. Davanti il portone il nero della folla, con la sua corona de rote de bicicletta. Fate passare, polizia. Ognuno si scostò. Er portone era chiuso. Piantonava un agente: con due pizzardoni e due carabinieri. Le donne li interrogavano: loro diceveno a le donne: Fate largo! Le donne voleveno sapé. Tre o quattro, deggià, se sentì che parlaveno de nummeri: ereno d’accordo p’er dicissette, ma discuteveno sur tredici. 
I due salirono in casa Balducci, l’ospitale casa che Ingravallo conosceva, si può dire, col cuore. Su le scale un parlottare di ombre, il susurro delle casigliane. Un bimbo piangeva. In anticamera... nulla di particolarmente notevole (il solito odore di cera, l’ordine abituale) eccettoché due agenti, muti, attendevano disposizioni. Sopra una seggiola un giovane col capo tra le mani. Si alzò. Era il dottor Valdarena. Apparve poi la portiera, emerse, cupa e cicciosa, dall’ombra del corridoio. Nulla di notevole si sarebbe detto: entrati appena in camera da pranzo, sul parquet, tra la tavola e la credenza piccola, a terra... quella cosa orribile. 
Il corpo della povera signora giaceva in una posizione infame, supino, con la gonna di lana grigia e una sottogonna bianca buttate all’indietro, fin quasi al petto: come se alcuno avesse voluto scoprire il candore affascinante di quel dessous, o indagarne lo stato di nettezza. Aveva mutande bianche, di maglia a punto gentile, sottilissimo, che terminavano a metà coscia in una delicata orlatura. Tra l’orlatura e le calze, ch’erano in una lieve luce di seta, denudò se stessa la bianchezza estrema della carne, d’un pallore da clorosi: quelle due cosce un po’ aperte, che i due elastici - in un tono di lilla - parevano distinguere in grado, avevano perduto il loro tepido senso, già si adeguavano al gelo: al gelo del sarcofago, e delle taciturne dimore. L’esatto officiare del punto a maglia, per lo sguardo di quei frequentatori di domestiche, modellò inutilmente le stanche proposte d’una voluttà il cui ardore, il cui fremito, pareva essersi appena esalato dalla dolce mollezza del monte, da quella riga, il segno carnale del mistero... quella che Michelangelo (don Ciccio ne rivide la fatica, a San Lorenzo) aveva creduto opportuno di dover omettere. Pignolerie! Lassa perde! 
Le giarrettiere tese, ondulate appena agli orli, d’una ondulazione chiara di lattuga: l’elastico di seta lilla, in quel tono che pareva dare un profumo, significava a momenti la frale gentilezza e della donna e del ceto, l’eleganza spenta degli indumenti, degli atti, il secreto modo della sommissione, tramutata ora nella immobilità di un oggetto, o come d’uno sfigurato manichino. Tese, le calze, in una eleganza bionda quasi una nuova pelle, dàtale (sopra il tepore creato) dalla fiaba degli anni nuovi, delle magliatrici blasfeme: le calze incorticavano di quel velo di lor luce il modellato delle gambe, dei meravigliosi ginocchi: delle gambe un po’ divaricate, come ad un invito orribile. Oh, gli occhi! dove, chi guardavano? Il volto!... Oh, era sgraffiata, poverina! Fin sotto un occhio, sur naso!... Oh, quel viso! Com’era stanco, stanco, povera Liliana, quel capo, nel nimbo, che l’avvolgeva, dei capelli, fili tuttavia operosi della carità. Affilato nel pallore, il volto: sfinito, emaciato dalla suzione atroce della Morte. 
Un profondo, un terribile taglio rosso le apriva la gola, ferocemente. Aveva preso metà il collo, dal davanti verso destra, cioè verso sinistra, per lei, destra per loro che guardavano: sfrangiato ai due margini come da un reiterarsi dei colpi, lama o punta: un orrore! da nun potesse vede. Palesava come delle filacce rosse, all’interno, tra quella spumiccia nera der sangue, già raggrumato, a momenti; un pasticcio! con delle bollicine rimaste a mezzo. Curiose forme, agli agenti: parevano buchi, al novizio, come dei maccheroncini color rosso, o rosa. «La trachea,» mormorò Ingravallo chinandosi, «la carotide! la iugulare... Dio!» 
Er sangue aveva impiastrato tutto er collo, er davanti de la camicetta, una manica: la mano: una spaventevole colatura d’un rosso nero, da Faiti o da Cengio (don Ciccio rammemorò subito, con un lontano pianto nell’anima, povera mamma!). S’era accagliato sul pavimento, sulla camicetta tra i due seni: n’era tinto anche l’orlo della gonna, il lembo rovescio de quela vesta de lana buttata su, e l’altra spalla: pareva si dovesse raggrinzare da un momento all’altro: doveva de certo risultarne un coagulato tutto appiccicoso come un sanguinaccio. 
Il naso e la faccia, così abbandonata, e un po’ rigirata da una parte, come de chi nun ce la fa più a combatte, la faccia! rassegnata alla volontà della Morte, apparivano offesi da sgraffiature, da unghiate: come ciavesse preso gusto, quer boja, a volerla sfregiare a quel modo. Assassino! 
Gli occhi s’erano affisati orrendamente: a guardà che, poi? Guardaveno, guardaveno, in direzzione nun se capiva da che, verso la credenza granne, in cima in cima, o ar soffitto. Le mutandine nun ereno insanguinate: lasciaveno scoperti li du tratti de le cosce, come du anelli de pelle: fino a le calze, d’un biondo lucido. La solcatura del sesso... pareva d’esse a Ostia d’estate, o ar Forte de marmo de Viareggio, quanno so sdraiate su la rena a cocese, che te fanno vede tutto quello che vonno. Co quele maje tirate tirate d’oggiagiorno. 
Ingravallo, a capo scoperto, pareva lo spettro di se stesso. Domandò: «L’avete mossa?» «No, dottore,» gli risposero. «L’avete toccata?» «No.» Del sangue era stato portato attorno dai tacchi, da le suole dì qualcuno, sur parquet de legno, che poi si vedeva bene che ci aveveno messo drento li piedi, in quer pantano de spavento. Ingravallo si irritò. Chi era stato?! «Sete na massa de burini!» minacciò. «Brutti caprari de la Sgurgola!» 
Uscì nel corridoio e in anticamera: si rivolse al dottor Valdarena, accasciato su di una sedia de quelle de cucina, co Pompeo che ciaveva l’aria de staje intorno come un fijetto a la madre. La portiera nun se vedeva più, era scesa in guardiola, forse: l’aveveno chiamata. 
«Be’, com’è che vi trovate qui?» 
«Dottore,» fece il Valdarena con voce seria, pacata, e tuttavia implorante, dando per ovvia l’interrogazione, guardandolo negli occhi. «Ero venuto a salutare mia cugina: la povera Liliana... voleva assolutamente vedermi, prima che partissi. Parto dopodomani per Genova. Mi sembrava d’averlo pure accennato, che mi stabilisco a Genova; quando c’era lei, quella domenica, a pranzo. Ho già disdetto la camera.» 
«Per Genova!» esclamò don Ciccio soprappensiero. «Quale camera?...» 
«La camera, dove sto de casa, a via Nicotera ventuno.» 
«È lui ch’è capitato pe primo...» fece il Santomaso, un agente. «È stato er primo a entrà qua, in ogni modo,» confermò il Porchettini. «Poi hanno telefonato in questura...» 
«Chi ha telefonato?» 
«Mah... tutti insieme,» rispose il Valdarena. «Nun capivo più dove fossi. Io, un inquilino der piano sopra, tutte le donne. La portiera nun c’era. La guardiola era chiusa.» 
«Site voi... che avete dato l’allarme?» 
«Ero salito: l’uscio era scostato appena. Avevo domandato: permesso? permesso? Nessuno rispondeva.» 
«La portinaia dov’era? Non l’avevate vista, sicché? E lei v’aveva visto?» 
«No, no. Non credo...» 
La Pettacchioni rientrò, confermò. Era sulla scala B, per le pulizzie der giorno. Aveva principiato dall’alto, naturalmente. In realtà, granata alla mano, prima stava a parlottà sur pianerottolo, co la sora Cucco der quinto, de la scala B: Elia Cucco vedova Bolenfi da Castiglion dei Pepoli: er cucco ce l’aveva su la lingua. Poi era annata su, co la scopa e cor secchio. Era entrata «un momento solo» dar generale, er Grand’Ufficial Barbezzi, che stava all’attico: pe faje quarche faccendola. Aveva lasciato er secchio de fora, co la scopa. 
Una pupa ch’era salìta da li Bottafavi, era la pupa de li Felicetti che tutte le mattine, a li Bottafavi, lei annava a dije «bongiorno», e loro je daveno una caramella, be’ la sora Manuela la fece entrà in anticamera, e je disse si era vero o no: e lei co una vocetta da tontarella confermò ch’era vero, ch’aveva incontrato solo du donne, che scegneveno le scale. Ciaveveno du sporte, una per una, come pe fa la spesa. «Ma pareveno de campagna,» soggiunse la Pettacchioni di sua scienza. 
«Che donne erano?» domandò Ingravallo, distrattamente. «Fatemi vedere le mani!» disse al dottor Valdarena. «Venite sotto la luce.» Le mani del giovane apparvero pulitissime: una pelle bianca, sana, calda, morbidamente venata: corse dal tepore di giovinezza: un anello alla cavaliera, d’oro giallo, con uno stupendo diaspro e nel diaspro la cifra: all’anulare destro, su cui emergeva pieno, turrito: pronto per sigillare una lettera, si sarebbe detto, una dichiarazione segreta. Ma il polsino destro della camicia... tinto di sangue! agli angoli: dall’oro del bottone in fuori. 
«Stu sangue?» fece Ingravallo storcendo la bocca nel ribrezzo, senza tuttavia lasciare quella mano, che stringeva per le punte de le dita. Giuliano Valdarena impallidì: «Signor commissario, me creda! glie lo confesso: ho toccato il viso alla povera Liliana. Mi sono chinato su di lei: poi ho messo un ginocchio a terra. Ho voluto farle come una carezza, era fredda!... sì, dirle addio! Non ho potuto trattenermi. Volevo scenderle giù quella gonna, povera cugina mia! in che stato! Ma non ho più avuto il coraggio... de toccalla una seconda volta. Era fredda. No, no. E poi...» 
«Poi, che cosa?» 
«Poi ho pensato: ho capito che non avevo il diritto di toccar nulla. Sono corso fuori, ho chiamato. Ho sonato qui de faccia. Chi è? Chi è? diceveno. Era una voce de donna. Ma nun voleveno aprì.» 
«Avevano ragione. E allora?» 
«Allora... ho gridato di nuovo. Sono scesi degli altri... o sono saliti. È venuta gente, che so? Hanno voluto vede pure loro. Strillaveno. Abbiamo telefonato in questura. Che dovevo fare?» 
Don Ciccio lo affisò duramente, lasciò andare la mano. Una smorfia di ribrezzo persisteva nel suo volto, una, lieve contrazione del naso, da un lato solo. Rifletté un momento, persistendo a guardarlo in faccia. «Com’è che siete così calmo?» 
«Calmo? Non so piangere. Sono anni che non ho avuto occasione di piangere. Nemmeno quando mia madre... ha risposato, e se n’è annata a Torino. L’angolo del polsino deve avere sfiorato la ferita, il collo: era inevitabile: che?... con tutto quel sangue! Devo partire dopodomani: ho già ricevuto l’ordine. Mi pareva di abbandonare i miei, er sangue mio. Volevo congedarmi, volevo salutalla povera, povera Liliana! Povera... Disperata e splendida, era!» Gli altri tacevano. Don Ciccio lo scrutava, duro. «Una carezza, Gesù mio! Un bacio nun me sentìvo la forza: era fredda! Poi sono andato via: sono scappato, quasi. Ho avuto paura de la morte, creda. Ho chiamato gente. L’uscio era aperto, come ne fossero vaporati fora degli spettri. Liliana! Lilianuccia!» 
Ingravallo si chinò, gli guardò i pantaloni a metà gamba, ai ginocchi: sul sinistro, una lieve traccia di polvere. 
«Dov’è che vi siete inginocchiato? Con che ginocchio?» 
«Mah! dalla parte der buffé, quello piccolo: me ce facci pensà, cor sinistro, sì: pe nun annacce dentro, in tutto quer sangue.» Don Ciccio lo affisò, caninamente. 
«Dottore, badate, voi dovete dirci le cose come stanno. Lavorare di fantasia... in questo momento... in questo posto, lo capite bene anche voi, no, non è il caso!»  
«Dottò, ma che vuol pensà? Come stanno le cose glie lo sto dicenno. Se facci una ragione...» 
«E comme l’aggia fa, la ragione? Ditemi, raccontatemi. Sentiamo. Voi, site, che dovete orientare le nostre indagini. Per il vostro meglio.» 
Riferirono ad Ingravallo che la Gina, la pupilla, era tornata dar Sacro Core, in quer momento. Il giovedì rientrava all’una: per la colazione. Il Balducci doveva arrivare da Milano l’indomani... o da Verona. Ingravallo tentò la giovinetta piangente, non ne cavò nulla: dopo il caffè e latte, prima delle otto, aveva salutato la «mamma», ne aveva avuto il solito bacio del mattino, con la solita domanda: «La sai, la lezzione?...» Lei aveva detto di sì: ed era uscita. Lì per lì fu affidata ai casigliani, salvo a portalla poi da le moniche: ai Bottafavi der piano sopra: la Menegazzi era troppo turbata e sconvolta per riuscire dì qualche aiuto alla piccola. Aveva un baffo giallo rivoltato indietro fin sul naso. Nun s’era potuta pettinà: pareva una perucca de peli de granturco co li nastri, quello che ciaveva in testa. Diceva che il palazzo aveva la maledizione dentro i muri. Invocava Mària Vergine coll’occhi rossi, affossati, strizzati. Diceva e ripeteva che «er disisiete xe el pexor numero». La bambina che aveva incontrato le du donne pe le scale non sapeva darne ragguaglio. Ad occhioni sbarrati «sì» diceva, «no» diceva, povera pupa, con labbri ebeti dalla suggezzione che je metteva quela capoccia nera d’Ingravallo che seconno lei doveva esse l’omo der sacco che porta via li pupi quanno che nun la smettono de piagne. Fu appurato che le due donne erano salite dall’avvocato Cammarota (quarto piano), cioè da su’ moje, a portaje du caciotte fresche: erano fornitrici bisettimanali de caciotte. 
Venne rintracciato Cristoforo, il fattorino del Balducci. Parve lo schiantasse una folgore. Era uscito alle sette e mmezzo dopo un caffè-corretto a cui Liliana lo aveva gentilmente sforzato: latte nun ne poteva beve, je faceva male a lo stomaco. Sì, un po’ prima della Gina, che annava ar Sacro Core alle otto. Non volle sostare a quella vista: «Nun me riesce de guardalla.» Se fece er segno de la croce. Lagrime gli gocciolarono su la pelle der faccione, un po’ vizza. Aveva avuto incarico d’alcune commissioni da parte della sora Liliana, povera signora! Pagà un conto, compraje du scope da lo scoparo: provede er riso, la cera pe li parquet, annà a portà un fagotto a la sarta. Prima però, era dovuto andare all’ufficio: ad aprire l’ufficio: a daje na spolverata a li tavoli. Il dottor Ingravallo non lo mollò. Incaricò anzi lo Sgranfia de facce una bella chiacchierata: fratanto, Giuliano fu invitato a rimanere a disposizione. 
Le indagini proseguirono in loco nel primo pomeriggio: a portone chiuso, a uscio chiuso: con rinforzo d’agenti: col maresciallo Valiani della polizia scientifica e con l’intervento armato dell’ufficio rilievi. Gli inquilini e la portiera stessa furono pregati di non sostare sulle scale, «per modo da lasciare più libero corso alle investigazioni», e di tenersi per quanto possibile, invece, «a portata di mano» della polizia. Il giudice istruttore intervenne dopo le cinque e mezzo. La Procura del Re fu interessata alla ricognizione del delitto poco avanti le quattro, via uffici, tramite il dottor Fumi e il questore. Il buon Cristoforo, la variopinta Menegazzi, la piccola Gina, l’artigliere Bottafavi, il dottor Valdarena e bel giovane furono alternamente o contemporaneamente sentiti. Ma «il velo del più fitto mistero incombeva sul delitto», dicevano più tardi le ultimissime della notte, d’un giornale che ce l’aveva fatta, a fallo strillà pe Corso Umberto. Ai cronisti, per quanto armeggiassero, non gli riuscì di varcar l’uscio dei Balducci. Sur portoncino de la casa, però, aveveno intruppato la sora Elodia, scala B, va be’, ma piuttosto alegrotta in compenso, come je succedeva er gioveddì e la domenica. Stava facenno l’occhi dorci a l’aggenti, e loro je rideveno sur grugno. 
Fu appurato che nessuno degli inquilini del casamento poteva fornire indicazioni quali che fossero circa l’autore o gli autori del misfatto. Nessuno, eccettuata la bambina, la Maddalena Felicetti, aveva incontrato persone su le scale: e neppure il Valdarena, no, nun l’aveveno veduto nessuno. Costui era dottore in scienze economiche, Ingravallo ce lo sapeva bene, e impiegato alla Standard Oil. Per qualche tempo aveva prestato servizio a Vado Ligure, poi a Roma. Adesso era in procinto de trasferisse a Genova, oltreché di sposarsi. Fidanzato a una regazza de Genova, una bella moretta, della quale esibì la fotografia: certa Lantini Renata. Di ottima famiglia, naturalmente. Secondo l’ottima famiglia, «lui era innamoratissimo», il dottor Valdarena, il signorino Giuliano. Balducci ne aveva parlato a Ingravallo, incontrandolo ar Cantinone, con qualche allusiva bonaria all’età fervida, oltreché alla carenza, che lo affliggeva, d’un po’ de papabbraschi che je rimanessero una quarche bona vorta appiccicati a le dita, armeno in parte: d’in pizzo a le quale, invece, je svolaveno via sistematicamente, come farfalle da le dita d’un Apollo: de quelli che ce so’ in giardino, de marmo. Lo aveva definito «un bel ragazzo», il Balducci (per questo nun c’era bisogno referenze): «laureato in scienze economiche», a pieni voti e con lode, anche, ma sempre un tantinello a secco, come je capita er più de le vorte a quelli che vonno insegnà all’artri... come se fa a fa economia: un po’ a corto de quatrini... più di quanto avrebbe potuto auspicare un cugino romano, figurateve un socero genovese. «No, no: non proprio che tirasse avanti a stoccate: ma, insomma, è l’età sua, co tutte ste belle tentazzione che ce so’ in giro: me capirà, un regazzo come quello... si nun è a corto de quatrini, d’antro nun po èsse tanto a corto.» Ingravallo era de faccia scura, quela sera, ar Cantinone d’Albano: la rubiconda indulgenza e quasi anzi sodalità maschile del Balducci e signor marito con uno stecco fra i denti gli sapeva un po’ troppo de bona digestione... de Gabbioni Empedocle e Figlio, magara. Quella spensieratezza rubizza da doppocena de viaggiatore de commercio, da cacciatore co li stivali novi, paa Maronna, lo aveva finito di esasperare, lui venuto da poveri, duri anni, dallo scarno monte Matese a le procedure e a le scartoffie de la legge, misero e pertinace indagatore dei fatti, o delle anime, secondo la legge. Aveva sogguardato al Balducci: «Mo te crescheno in testa!» pensò. «Un atollo de coralli, te cresce.» E invece: «Chisse femmene!» aveva sospirato: con un viso più che mai torvo sotto al parruccone d’Astrakàn. Giuliano, ora, nel salotto bono. Due agenti a tenergli compagnia. 
Un bel ragazzo, er signorino Giuliano, dellà: piuttosto fortunato co le donne. Piuttosto. già. Che lo perseguivano a sciami, a volo radente: e gli precipitavano poi addosso tutte insieme, e in picchiata, come tante mosche sur miele. Lui sapeva puranche fare: ci aveva un bìndolo, uno specchietto a rota, un suo modo cosi naturale e così strano, ar medesimo tempo... che te le incantava co gnente. 
Dava a divedere de trascuralle, o di sentirsene magari annoiato: troppe, troppo facili! d’aver sottomano ben altro. Faceva er maschietto tosto, o er tu-mi-stufi, certe volte, o er superbioso; o er signorino de casa de famija scerta der generone de via de li Banchi Vecchi: o l’uomo d’affari, che nun cià tempo de stà a discorre. Siconno. così. Come je girava. Intonato ar vestito che ciaveva addosso. Come je veniva l’ispirazzione der momento. Siconno si ciaveva sigherette cor bocchino d’oro, o si nun ce l’aveva pe gnente, o si ce l’aveva appena crompe, ma nazzionale che puzzeno. Giocava a fa er cocco. Antre vorte ghiribizzoso come una banderola. Sicché allora le trascurava, ma già! le sore frasche. Era allora propio che loro s’ammattiveno. Si concedeva dopo lungo reluttare o dopo interminato anelare e basire della vittima, strascicandone l’estuoso abbandono o sfibrandone la indocilità renitente mediante una erogazione di pseudo-sintomi (in realtà suggerimenti) alternati a contrasto, a sì e no. M’ama nun m’ama. Te vojo nun te voio. E comunque alle predestinate e rare, e con arcana delibera elette, si concedeva: come la Salute Eterna in Giansenio. Talora, per contro, in una repentina violenza: e nella totale concussione d’ogni verisimile. Là, propio, dove ognuno aveva voltato altrove l’oroscopio. Zàn! Lasciandosi cadere a piombo alla maniera del nibbio sulla più contumace di tutto il gallinaio: quasi a punirla (o a rimeritarla) con quel fulgurante diavolio: a riscattarla da una debilità recondita nel di lei essere, da una ignominia... anteriore a quella prelazione magnificatrice. In tal caso la gratitudine della magnificata poteva salire a le stelle: e la paura, o fosse magara la speranza, del bis. 
Ingravallo, c’era da aspettarselo, prima ancora dell’arrivo del giudice, dato come se presentaveno i fatti, decise per il fermo del Valdarena. Solo più tardi, la mattina dopo, anzi, la Procura del Re tramutò il fermo in arresto provvisorio: e dispose per il mandato relativo: ad arresto avvenuto, e con l’intestatario del mandato a Regina Coeli. Fino a sera avanzata il funzionario capo e due esperti dell’ufficio criminologico non desistettero dai rilievi di prammatica, né dal fotografare la morta. Aveveno portato tutto quello che ce voleva. Non era il caso di telegrafare al Balducci, data l’imminenza del suo ritorno, né alle varie questure pe fallo rintracciare: Milano, Padova, eventualmente Bologna, perché aveva da annà pure a Padova. Cristoforo, la Menegazzi, che non finiva più di pigolare sulla disgrazia, il Bottafavi, la Pettacchioni e il su’ omo, quello de la centrale der latte, vollero unanimi offrirsi p’annaje incontro a la stazzione; bisognava evitargli il colpo, prepararlo in qualche modo. I parenti? Una telefonata a mezzogiorno... 
I parenti furono «avvertiti» ufficialmente a sera tardi, ma Ingravallo, fin da la matina, aveva proibito de falli entrà. Rinnovate inchieste e puntuali contestazioni autoptiche, tanto der capoccione don Ciccio che der maresciallo Valiani, be’, se sa, non significarono gran che. Be’, cioè: qualche evidenza di furto. Nessun’arme fu rinvenuta. Ma diversi tiretti e cassetti, a guardacce dentro, se capì che quarche cosa aveveno da sapé. Non apparvero poi tanto ignari, quanto dal di fuori si davan l’aria. Armi, no. E nessuna indicazione, eccettoché le gocce rosse per terra, e quel sangue... trascinato dai tacchi. Presso lo sciacquatore, in cucina, il pavimento a mattonelle era bagnato d’acqua. Un coltello «affilatissimo» e del tutto assente era il più indiziato d’aver potuto lavorare a quel modo. Le gocce, anziché da mano assassina, parevano gocciolate giù da un coltello. Nere, ora. La inopinata lucentezza, il tagliente e la breve acuità d’una lama. In lei uno sgomento. Lui, di certo, aveva colpito all’improvviso: e insistito poi nella gola, nella trachea, con efferata sicurezza. La «colluttazione» se pure era da credervi, doveva essere stata nient’altro che un misero conato, da parte della vittima, uno sguardo atterrito e subitamente implorante, l’abbozzo di un gesto: una mano levata appena, bianca, a stornare l’orrore, a tentar di stringere il polso villoso, la mano implacabile e nera dell’omicida, la sinistra, che già le adunghiava il volto e le arrovesciava il capo a ottener la gola più libera, interamente nuda e indifesa contro il balenare d’una lama: che la destra aveva già estratto a voler ferire, ad uccidere. 
Una cerea mano si allentava, ricadeva... quando Liliana aveva già il cortello dentro il respiro, che le lacerava, le straziava la trachea: e il sangue, a tirà er fiato, le annava giù ner polmone: e il fiato le gorgogliava fuora in quella tosse, in quello strazio, da paré tante bolle de sapone rosse: e la carotide, la jugulare, buttaveno come due pompe de pozzo, lùf, lùf, a mezzo metro de distanza. Il fiato, l’ultimo, de traverso, a bolle, in quella porpora atroce della sua vita: e si sentiva il sangue, nella bocca, e vedeva quegli occhi, non più d’uomo, sulla piaga: ch’era ancora da lavorare: un colpo ancora: gli occhi! della belva infinita. La insospettata ferocia delle cose... le si rivelava d’un subito... brevi anni! Ma lo spasimo le toglieva il senso, annichilava la memoria, la vita. Una dolciastra, una tepida sapidità della notte. 
Le mani, bianchissime, con quelle tenere unghie, color pervinca, ora, non presentavano tagli: non aveva potuto, non aveva osato afferrare il tagliente, o fermare la determinazione del carnefice. Si era conceduta al carnefice. Il viso e il naso apparivano sgraffiati, qua e là, nella stanchezza e nel pallore della morte, come se l’odio avesse oltrepassato la morte. Le dita erano prive di anelli, la fede era sparita. né veniva in mente, allora, di imputarne la sparizione alla patria. Il coltello aveva lavorato da par suo. Liliana! Liliana! A don Ciccio pareva che ogni forma del mondo si ottenebrasse, ogni gentilezza del mondo. 
L’incaricato dell’ufficio criminologico escluse il rasoio, che dà tagli più netti, ma più superficiali, così opinò, e, in genere, multipli: non potendo venir adibito di punta, né con tanta violenza. Violenza? Sì, la ferita era profondissima, orribile: aveva resecato metà il collo, a momenti. In tutta la camera da pranzo, no, nessun indizio... all’infuori der sangue. In giro pe l’altre camere nemmeno. Salvoché ancora sangue: delle tracce palesi ne lo sciacquatore de cucina: diluito, da parer quello d’una rana: e molte gocce scarlatte, o già nere, sur pavimento, rotonde e radiate come ne fa il sangue a lassallo gocciolà per terra: come sezioni d’asteroidi. Quelle gocce, orribili, davano segno d’un itinerario evidente: dal superstite ingombro del corpo, dalla tepida testimonianza di lei, morta!... Liliana! fino a lo sciacquatore de cucina, al gelo e al lavacro: al gelo che d’ogni memoria ci assolve. Molte gocce, nella camera da pranzo, ecco, di cui cinque o pure più ereno finitime all’altro sangue, a tutto quer pasticcio, alle macchie e alla pozza più grossa, de dove l’aveveno preso pe strascinallo in giro co le scarpe, queli maledetti caprari. Molte ner corridore, un po’ più piccole, molte in cucina: e alcune sfregate via come pe cancellalle co la sòla da nun falle vede su le mattonelle bianche, ad esagono. Furono tentati i mobili: undici fra cassetti e sportelli, d’armadi e de credenze, non li poterono aprire. Giuliano, in salotto, era guardato a vista da due agenti. Cristoforo j’aveva portato du panini e du aranci. Tutti quegli omacci seguitavano a girare e a scalpicciare per la casa. Un urto de nervi. Don Ciccio sedette, affranto, in anticamera, in attesa del giudice. Poi riandò là: guardò, come per un commiato, la povera creatura sopra a cui stavano a disputà sottovoce li fotografi, badando non insudiciarsi pure loro o le loro trappole, con lampade, schermi, fili, treppiedi, macchinoni a soffietto. Aveveno già scovato due prese de dietro a du portrone, e aveveno già fatto sartà la varvola du o tre vorte, una de le tre varvole de l’appartamento. Si decisero per il magnesio. Aggeggiavano come du angeloni sinistri pieni de voja de falla franca, al di sopra di quella terrificante stanchezza: un freddo, un povero relitto, ora, della cattiveria del mondo. Le loro manovre de mosconi, queli fili, quelo strigne li diaframmi, quer mettese d’accordo sottovoce pe vedé de nun faje pijà foco a tutta la baracca... erano il primo ronzare dell’eternità sui sensi opachi di lei, de quer corpo de donna che nun ciaveva più pudore né memoria. Operavano sulla «vittima» senza riguardarne la pena, e senza poterne riscattare l’ignominia. La bellezza, l’indumento, la spenta carne di Liliana era là: il dolce corpo, rivestito ancora agli sguardi. Nella turpitudine di quell’atteggiamento involontario - della quale erano motivi, certo, e la gonna rilevata addietro dall’oltraggio e l’ostensione delle gambe, su su, e del rilievo e della solcatura di voluttà che incupidiva i più deboli: e gli occhi affossati, ma orribilmente aperti nel nulla, fermi a una meta inane sulla credenza - la morte gli apparve, a don Ciccio, una decombinazione estrema dei possibili, uno sfasarsi di idee interdipendenti, armonizzate già nella persona. Come il risolversi d’una unità che non ce la fa più ad essere e ad operare come tale, nella caduta improvvisa dei rapporti, d’ogni rapporto con la realtà sistematrice. 
Il dolce pallore del di lei volto, così bianco nei sogni opalini della sera, aveva ceduto per modulazioni funebri a un tono cianotico, di stanca pervinca: quasicché l’odio e l’ingiuria fossero stati troppo acerbi al conoscere, al tenero fiore della persona e dell’anima. Dei brividi gli correvano la schiena. Cercò a riflettere. Sudava. 
Levò meccanicamente di tasca il biglietto: dalla tasca destra della giacca, dove lo aveva riposto la mattina, e dove stava ancora dopo tanta pena del giorno: con mezza sigheretta e con alcune briciole: il biglietto allungato verdolino-azzurro delle Tranvie de li Castelli, cor buco ner 13, con quell’altro foro o strappo al Torraccio. Lo voltò, lo rivoltò. Passò in anticamera, nella camera matrimoniale. Se buttò a sede, sfinito. 
Si studiò radunare l’evidenze, così disgiunte: avvicinare i momenti, i logori momenti della consecuzione, del tempo lacero, morto. Anzitutto: le due «birbonate» erano da connettere, o no? La incredibile rapina ai danni de quela povera cocorita de la Menegazzi, ‘e chilla femmena... ‘nguacchiata ‘e sugo ‘e spinaci: e questo orrore, mo. Lo stesso palazzo, ‘o stesso piano. Tuttavia.. 
Possibile? A tre giorni de distanza? 
La ragione... gli diceva che i due delitti non avevano nulla in comune. Il primo, mbè, un’«audacissima» rapina, a opera d’un malvivente molto bene informato, se non molto pratico, degli usi e costumi del ducentodiciannove scala A. «Scala A, scala A,» borbottava, fra sé, altalenando impercettibilmente la capa, riccioluta, nera: fissando un punto sur pavimento, co le mano intrecciate, co li gomiti su le ginocchia: «una rapina, hai detto bene, a domicilie.» 
Con quell’irreperibile guaglione d’o pizzicarolo come informatore: mbah, o come palo. Meglio palo, forse, dato che la Menegazzi, chella stupida, non ne aveva la minima idea: cioè in definitiva come complice. E con chella trombetta ‘e cartone fessa d’ ‘o commendatore dell’Economia, che se faceva portà tartufi a domicilie. «‘O cummendatore Angelone!» sospirò con’ certa enfasi. «A chillu llee piaceno ‘e carcioffole. Jammo a vedè. ‘O presutto ‘e montagna ‘e via Panesperna lle piace. Laggiù al cantone, all’angolo di via dei Serpenti.» 
E la sonata di campanello ai Balducci? Un errore, certo. O un’alternativa? O una precauzione? laureata dal silenzio? Comunque, era chiaro, un ladro. Rapina a mano armata, violazione di domicilio... 
Quest’altro, p’ ‘a Maronna, c’era da fasse er segno de la Croce! S’era mai visto una cosa simile? Per quanto, il movente del furto non lo si poteva escludere nemmeno qui, anzi! fino al ritorno del Balducci. E poi, e poi, che! i cassetti parlaveno. Sì, ma insomma... era un’altra cosa. Il modo del delitto, quel povero ingombro, là, quegli occhi, la orrenda ferita: un movente, forse, più torbido. Quella gonna... così!... buttata addietro, come da un colpo di vento: una vampa calda, vorace, avventatasi fuori dall’inferno. Chiamata da una rabbia, da uno spregio simile, erano le porte d’Inferno che le avevano dovuto dar passo. L’eccidio «aveva tutto l’aspetto di un delitto passionale». Oltraggio? Brama? Vendetta? 
La ragione gli diceva di studiare separatamente i due casi, di «palparli» a fondo, ma ognuno per sé. L’ambo non esce poi così di rado alla ruota di Napoli, o di Bari, o di Roma pure, che anche lì a via de’ Merli, a quel migragnoso falanstero del ducentodiciannove imbottito d’oro non potesse uscirgli fora il suo bravo ambo anche a lui. L’ambo non auspicato del delitto. Tac, tac. Senz’altra connessione che la topica, cioè la causale esterna ‘e chella gran fama dei pescicani pesci: e del loro oro del diavolo. Fama ubiqua, oramai, pe tutto San Giovanni: da Porta Maggiore insino al Celio, insino all’antica marana, la suburra: in dove però il vino è gelato, l’estate. Guardò il biglietto, sicché. Lo voltò, lo rivoltò. Si grattò leggerissimamente il naso (allungando a tubero la bocca) con l’unghia del pollice della mano destra adoperata a rovescio: gesto abituale in lui, e di notevole finezza. 

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3. 
  
  

La mattina dopo i giornali diedero notizia del fatto. 
Era venerdì. Li cronisti e il telefono aveveno rotto l’anima tutta la sera: tanto a via Merulana che giù, a Sante Stefene. Sicché, la mattina, un subisso. «Orribile delitto a via Merulana», gridavano li strilloni, co li pacchi fra li ginocchi de la gente: fino all’undici e tre quarti. Nella cronaca, dentro, un titolo in neretto su due colonne: ma, poi, sobrio e alquanto distaccato il referto: una colonnina asciutta asciutta, dieci righe ne la svolta, «le indagini proseguono attivissime»: e quarc’artra parola pe contentino: di pretta marca neo-italica. Ereno passati li tempi belli... che pe un pizzico ar mandolino d’una serva a piazza Vittorio, c’era un brodo longo de mezza paggina. La moralizzazione dell’Urbe e de tutt’Italia insieme, er concetto d’una maggiore austerità civile, si apriva allora la strada. Se po dì, anzi, che procedeva a gran passi. Delitti e storie sporche ereno scappati via pe sempre da la terra d’Ausonia, come un brutto insogno che se la squaja. Furti, cortellate, puttanate, ruffianate, rapina, cocaina, vetriolo, veleno de tossico d’arsenico per acchiappà li sorci, aborti manu armata, glorie de lenoni e de bari, giovenotti che se fanno pagà er vermutte da una donna, che ve pare? la divina terra d’Ausonia manco s’aricordava più che robba fusse. 
Relitti d’un’epoca andata al nulla, con le sue frivolezze e le sue «frasi», e i suoi preservativi, e le sue cazzuole massoniche. Il coltello, in quegli anni, il vecchio coltello d’ogni maramalduccio e d’ogni, guappo ‘e malu culori, - o bberbante o ttraddetori, - l’arma de’ tortuosi chiassetti, de’ pisciosi vicoletti, pareva davvero che fusse sparito di scena pe nun tornacce mai più: salvoché di sulla panza delli eroi funebri, dove si esibiva, ora, estromesso in gloria, come un genitale nichelato, argentato. Vigeva ora il vigor nuovo del Mascellone, Testa di Morto in bombetta, poi Emiro col fez, e col pennacchio, e la nuova castità della baronessa Malacianca-Fasulli, la nuova legge delle verghe a fascio. Pensare che ce fossero dei ladri, a Roma, ora? Co quer gallinaccio co la faccia fanatica a Palazzo Chiggi? Cor Federzoni che voleva carcerà pe forza tutti li storcioni de lungotevere? o quanno che se sbaciucchiaveno ar cinema? tutti li cani in fregola de la Lungara? Cor Papa milanese e co l’Anno Santo de du anni prima? E co li sposi novelli? Co li polli novelli a scarpinà pe tutta Roma? 
Lunghe teorie di nerovestite, affittato er velo nero da cerimonia a Borgo Pio, a Piazza Rusticucci, a Borgo Vecchio, si attruppavano sotto ar colonnato, basivano a Porta Angelica, e poi traverso li cancelli de Sant’Anna, p’ann’a riceve la benedizzione apostolica da Papa Ratti, un milanese de semenza bona de Saronno de quelli tosti, che fabbricava li palazzi. In attesa de venì finarmente incolonnate loro pure: e introdotte dopo quaranta rampe de scale in sala der trono, dar gran Papa alpinista. Pe di che l’Urbe incarnava omai senza er minimo dubbio la città de li sette candelabri de le sette virtù: quella che avevano auspicata lungo folti millenni tutti i suoi poeti e tutti gli inquisitori, i moralisti e gli utopici, Cola appeso. (Grascio era.) Pe le strade de Roma nun se vedeva più in giro una mignotta, de quelle co la patente. Con gentile pensiero pe l’Anno Santo, il Federzoni le aveva confiscate tutte. La marchesa Lappucelli era a Capri, a Cortina, era annata in Giappone a fa un viaggio. 

«Mannaggia ‘o pennacchie ‘e chillu francese...» borbottò don Ciccio strizzando i denti: erano quelli d’un bull-dog: e la cucina all’aglio li rendeva bianchissimi. Si vedeva beccar via i cchiù guappi uno dopo l’altro, pe’ mandarli a ingrassà la squadra: ‘a squadra politica. Lui intanto steva a grufolà tra li papié. 
C’era da pensare a quel bel tomo, ora: e un po’ seriamente. Bel tomo: sì: bello: propio bello. E a corto de quatrini. 
Gli pareva di ricordare una frase del Balducci, una sera alla «cantina di Albano», uscita come a un benigno opinante da quel suo faccione rubizzo: parlava d’una cugina. «Le donne, se sa, quanno so’ innamorate...» aveva cacciate ‘o portasigarette, «non badano a certe miserie. Hanno le vedute larghe.» Aveva acceso a Ingravallo, aveva acceso la propria. «Largheggiano, largheggiano.» Là per là non ci aveva fatto caso: le nobbili opinioni del dopocena. Con lui Ingravallo dottor Francesco, a vero dire, nessuna donna aveva mai largheggiato: salvo forse, già, già, la povera signora: in bontà, in gentilezza: come una gentile... inspiratrice. In onor di lei, una volta (arrossì) aveva tentato... un sonetto. Ma non gli eran venute tutte le rime. I versi, però, anche ‘o professore Cammaruta li aveva trovati perfetti. «Largheggiano, largheggiano.» Gli pareva, ora, di dover convalidare quella insinuazione un po’ generica: forse, già, le donne. «Don Cicce! ne tenesse nu poco ‘a parte.» Il pensiero gli correva via dietro a una rabbia, dietro a una vendicativa rancura. «Mollano pure soldi, oltre al resto?» No, no. Volle distornare l’ipotesi. Da troppi segni, no, Liliana Balducci... no, no, non era innamorata del cugino. Innamorata? Che, che! Sì, certo lo aveva guardato compiaciuta, chella vota, sorridendogli, ma... come a un bel campione della famiglia, come si sorride a un fratello. Uno, ora lo capiva, uno che faceva onore alla gente: disceso anche lui dallo stesso nonno, a lui, anzi, bisnonno. Lei, povera creatura, cugina di suo padre, era. Lei non aveva più né padre né madre. Soltanto ‘o marite, bah! E Giuliano... un bel pollone dritto dritto, venuto su tutto in un momento dalla medesima ceppaia. Forse... ah, già, s’erano frequentati da ragazzi: come cugini. La genealogia (don Ciccio consultò un foglietto) glie l’aveva racimolata Pompeo. «Zia sua, zi’ Marietta, la moje de zi’ Cesare, era la nonna de Giuliano. Ereno cresciuti insieme, se po dì. Sicché lei, a Giuliano, je parlava come una sorella. Una sorella più granne.» 
«E comm’è che se chiamava Valdarena pure essa, da ragazza?...» 
«Com’è? Ma se spiega appunto cor fatto che er padre suo e er nonno de 
Giuliano, zi’ Cesare, ereno fratelli.» 
«Pecché allora me tiri in scena la Marietta? ‘A parentela, semmai, viene dagli uomini, dai due padri...» 
«Sicuro!» 
«Sicuro na capa ‘e cavolo! Zi’ Marietta me l’hai a leva da li cojoni.» 
«Ma è quella che l’ha fatta granne, quanno je morì la madre.» 
Ingravallo ricordò che il Balducci glie l’aveva detto, difatti: Liliana aveva perduto la madre quand’era ancora bambina. Complicazioni sopravvenute al parto, il secondo. E la criatura pure! Dunque, dunque... Allora, quella sera... Allora, quella sera aveva parlato al cugino con la indulgenza ammirata e un po’ invida con cui le donne belle guardano sempre i bei giovani... troppo ricercati dalle loro concorrenti. Ecco tutto. 
«Chisse femmene!» 
Era l’una. Racimolò verbali e referti, rimpilò cartelle. Si alzò disperato, uscì. 
Eppure, pensava, il Valdarena, il cugino... era lui che aveva dato l’allarme. È questo un sintomo... irrefutabile?... d’innocenza: per lo meno di coscienza tranquilla. Coscienza! ma il polsino della camicia? No, non ci vedeva chiaro. La storia di quella carezza gli sapeva d’invenzione. Una carezza a una donna morta! Oppure... Ci sono dei torbidi attimi nel lento gocciolare delle ore: delle ore di pubertà. Il male affiora a schegge, imprevisto, orribili schegge da sotto il tegumento, da sotto, la pelle delle chiacchiere: un bel diploma di ragioniere, un altro, poi di dottore. Da sotto la copertura delle decenti parvenze, come il sasso, affiora, che nemmeno lo si vede: come la buia durezza della montagna, in un prato. 
Giuliano bello! Troppo sconturbato, gli era parso, troppo nervoso e troppo depresso, al momento. Non ce la faceva più. Non riusciva a fabbricarsi un contegno. «Com’è che sete così calmo?» gli aveva domandato: era una trappola. Tutt’altro che calmo. «Largheggiano, largheggiano. Ah!» 
Liliana Balducci era molto ricca, Liliana Valdarena in Balducci. Aveva del suo e, in certa misura, disponeva del suo. Figlia unica. E il padre li aveva saputi fa, li quatrini. Pure il dottor Fumi, nella vasta caciara del sinfoniale, aveva percepito il tema: «‘o motivo conduttore». 
«‘O pate ‘e sapeva fa l’affare suoie. C’ ‘a guerra, dopp’ ‘a guerra. Chillu era ‘nu pescecane sul serio. Ll’era muorto pur’isso, duje anne primma, doppo diverso tempo ch’issa s’era maritata. L’appartamento di via Merulana era proprietà di lui. Affari, interessenze in affari, compartecipazioni de ccà e de là. Proprietario de ccà, mezzo proprietario de là. Prestare per ipotecare, ipotecare p’agguantare. Chillu aveva a esse ‘no futtut’in gulo.» Accompagnò il predicato con alcune volute della mano destra. Liliana aveva avuto un accenno alle fortune del padre, il giorno di San Francesco, durante quel desinare così lieto. 
Bah, i parenti Valdarena li aveva sbrigati il dottor Fumi. Prima c’era andato a casa Pompeo, aveva fatto il giro delle sette chiese: niente: poi ‘o maresciallo: niente. Erano venuti loro da Fumi. Sicché li aveva tuzzuliati isso ben bene: li aveva tastati lui, da par suo, un po’ qua un po’ là, con gran dolcezza, dondolando ‘a capa, come se recitasse una poesia: co chell’uocchie, co chella voce. Fumi, quanne vulive, n’avvocato penalista! ‘a mozione degli affetti! 
La madre di Giuliano viveva fuori Roma: bella donna, dicevano. Pompeo aveva ridotto a schema le emergenze anagrafiche relative alla cognazione. Nativo genio, affinato da buona pratica dell’arte e dalle stretture del bisogno di guadagnar tempo, di accorciare le lunghe catene dei soriti procedurali, occhio orecchio e naso, al servizio d’un po’ de sale in zucca aiutato da quarche pagnottella col rosbiffe, lo avevano reso maestro nel delineare in pochi tratti, due o tre botte secche secche piene de boni resultati, i più aggrovigliati alberi genealogici del repertorio: coi più edificanti dettagli. 
Pe quello ch’era donne, poi, e sfruttatori de donne, amore, amanti, matrimoni veri, matrimoni finti, corni e controcorni, nun c’era che lui, se po dì. Certi fregnoni de bigami o de poligami co tutte le sue beghe e ribeghe, co tutti li pasticci de li relativi pupi che un po’ li vorleveno un po’ nun li voleveno, be’ lui, in quela fanga, ce schizzava dentr’e fora come un autista de piazza. La necessaria frequenza della malavita, l’approfondimento abbreviato, ottenuto così per intuito de queli «stati de famija», lo aveveno ridotto che lui, là pe llà, te spifferava tutte le «coabitazzione», ponghiamo, de via Capo d’Africa o de via Frangipani, e fin su a li Zingari, a via de li Capocci, ar vicolo Ciancalconi: e giù poi, passata piazza 
Montanara nun ne parlamo nemmeno, a via de Monte Caprino, ar vicolo de la Bucimazza, a via de’ Fienili: quanti nun ne conosceva! o intorno a quell’antra tigna de Palazzo Pio, pe tutti queli budelli de dietro a Sant’Andrea de la Valle, a Grotta Pinta, a via di Ferro, ar vicolo de le Grotte der Teatro: e magari a piazza Pollarola, con tutto che so’ gente der generone, magara, ma quarche aggregato un po’ misto o quarche tipo nun tanto in bona co la squadra mobbile ce po puro stà. Da quele parte, propio, ciaveva le panie maestre. Là lui sapeva a memoria tutte le coppie, co tutte le parentele e tutte le ramificazzione che je sbottaveno fora a primavera, o in testa o giù de la testa: le coppie doppie, li tris, le sequenze reale, co tutti l’incastri possibili: nascita, vita, morte e miracoli. Sapeva li buchi ch’affittaveno, e quanno se moveveno da qua pe andà là, le cammere matrimoniali, li cammerini, le cammere a ore, li sommié, e insino l’ottomane, co tutte le purce che ce stanno de casa, una per una. 
Sicché, lui, la tribù de li Valdarena, pe lui fu uno scherzo. La madre de 
Giuliano era annata a stà fori Roma. Passata a seconde nozze con certo ragionier Carlo Ricco, della Moda Italiana, risiedeva con quello a Torino. Figli se ne aveveno notizzie bone: annaveno a scola a studià. Lei, li parenti der generone «l’avevano un po’ allontanata»: e nun aveveno fatto uno sforzo, da Torino a Roma: in compenso, «s’era staccata da la socera», anzi «da le socere», come li chiamava in blocco: lasciando il figlio a la nonna. In fondo in fondo contenti tutti, dopo le bizze e le lacrime: perché quanno nun cià sordi er mejo impiego che po trovà una vedova è de trovanne un artro che se la risposa. Giuliano magari un po’ de malinconia pe la gelosia de la madre: pe diverso tempo j’aveva messo er muso un po’ a tutti: poi, cor cresce e co lo sviluppasse, un po’ pe vorta se n’era fatto una ragione: la madre era bella, era giovane. E la malinconia d’un giovanotto come quello... Aveva trovato subbito chi glie l’aveva fatta passa. 
Su’ nonna lo vizziava: la nonna, ch’era la zia Marietta de Liliana. 
Mbè, che te succede? Quanno ch’er diavolo ce se mette... Che la madre de Giuliano da un sette otto mesi l’aveveno ricoverata a Bologna, bloccata a letto a San Michele in Bosco: uno scontro d’automobbili in der venì a Roma a trova li parenti, de tanto che je voleva male davero, povera donna! Aveveno fatto er giro pe Milano. Fracassate tutt’e dua le gambe: e un miracolo avé tirato fora la pelle. Lì, pesi e contrappesi, attaccati un po’ a un piede, un po’ all’artro. E macchinette de tutti li tipi e de tutte le razze. Per questo, probabile, er signorino stava così stranito, da un po’ de tempo: perché ciaveva er pensiero a la madre. E le donne tutte intorno a compatillo, povero pupo!, a fasse in quattro pe vedé de consolallo. 
Liliana Balducci, dunque, era molto ricca. Figlia d’un pescecane. E va buò. 
Lui, ‘o signorino cuggino, la sua tecnica era quella d’o svagato: d’o bel giovane. Che ne ha o ne può avere, di donne, fino ‘n coppa ‘a capa. Ma di certo, poi, dentro di sé, una idea ce la doveva tenere sicuramente. Uno scopo, in cuore, se l’era pure prefisso. Ecco, ecco: voleva che fosse lei a volerlo lui. Ora Ingravallo ci vide chiaro. Voleva essere voluto. Per darsi; ma per lasciarsi cader dall’alto, per vendersi a caro prezzo. Al più alto prezzo possibile. Tirava a fa er bello, sicché, a fa lo strafottente. Con tutte. E anche con lei. già. Pe nun faje torto a lei sola. 
Quando poi fosse impazzata anche lei, come impazzano certe povere anime dietro a certi animali di stagione (Ingravallo strizzò i denti), pezzi da Regina Coeli, allora, farabutto! Allora plac, plac, plac, la pioggia dei fogli da mille. Certi goccioloni! 
Lui, «riepiloghiamo», lui doveva andare a Genova. Il trasferimento era già deciso: era imminente, anzi: question di giorni. 
La bella camera di via Nicotera 21, da conferma della sora Amalia Bazz... Buzzichelli, era stata realmente disdetta per fine mese. (Chell’atra buggera della pipe-line, che doveva pompare il petrolio fino a Ferrania!) Per modo che non c’era più tempo, oramai, da perfezionare l’incantagione. E allora? Una brusca richiesta? Un rifiuto di Liliana? Mancanza di denaro pronto? Oppure un colpo sugli ori? sulle gioie? Quella cosa orribile... per una manciata di carta unta? E i gioielli? 
Al dottor Valdarena, subito perquisito dopo il fermo, non era stato trovato niente, indosso: niente di provenienza sospetta. Ma aveva avuto tutto il tempo di uscire, dalle nove alle dieci e venti, di mettere al sicuro il bottino, di ritornare (però, però, un po’ azzardata l’idea: mbà, veramente)... dopo che Cristoforo e la Gina se n’erano andati per i fatti loro, e prima che lui avesse chiamato popolo, alle dieci e venti... Be’, sì, era trascorsa più che un’ora a far poco. La portiera Pettacchioni era impegnata in alto, su, su, ‘n coppa a ‘e nuvole. Con la granata e col secchio: e co la lingua pure, de sicuro. A quell’ora, stando ai referti di Pompeo, le piaceva di declinarsi verso la B, dove il pezzo principale in cima in cima era la Bolenfi, o Sbolenfi, in ciabatte. Ingravallo, co le mano, razzolò un poco nei fogli. 
«Enea Cucco vedova Bolenfi,» recitò con sicurezza. 
Di sopra ancora della Cucco, al piano attico, ce steva ‘o generale Barbezzo. Ingravallo, subbito, lo beccò subito fuori pure lui da tutte quelle paperazze, come na chioccia nera nera, cocò-cococò, il vermiciattolo: con un còrpo de becco che nun se sbaja s’una montagna de letame. Recitò un’altra volta: «Generale Grand’Ufficiale nobbile Ottorino Barbezzi-Gallo, designato per comando d’armata a riposo: d’anni? bah! da Casalpusterlengo. Tanto piacere!» 
Pure nobbile, era. Da quel che lo Sgranfia gli aveva canticchiato in un orecchio, un signore distintissimo, vedovo, co la barba spartita in due che pareva una spazzola de lusso: ma doveva soffrì de podagra (a sentì la portiera), che doveva patì le pene de l’inferno. Ai di lui piedi j’aveveno proibbito, li dottori, de toccà terra: astretto quindi ai livelli del celicola. Buona bibliotechina pe consolasse: quattordici o quindici dei più autorevoli, de quelli che t’abbruceno subito er gargarozzo, appena ingolli. Un perfetto gentiluomo, del resto: a li piedi ciaveva du pantofole: che pareveno du zamponi d’elefante. Un gentiluomo. A cui la sora Manuela, nei pochi momenti d’agio che il portierato le offriva, soleva rendere qualche serviziuccio domestico. Je faceva quarche faccendola... de mattina pure, tratanto che aspettava la donna, che rientrava tardi, a mezzogiorno, co la spesa già fatta, però. Un omo solo, e acciaccato a quer modo! Ma nun voleva fallo sapé a li condomini: che ce lo sapeveno tutti, viceversa. Lei diceva che ciaveva da fa li fatti sui, che annava sur terrazzo. Il terrazzo è, si sa, il regno della biancheria da stendere. Mbè, lei, certe matine de tramontana, pareva che dovesse volà via pure lei, come un bolide dalla pista di lancio d’una portaerei. 
Co quele quattro bombe che ciaveva attaccate, davanti e de dietro. 
«Sto qua: so a stenne li panni!» strillava ai dormenti. Cantava come a diciott’anni. I ragazzini, certe volte, la chiamaveno di giù: dal pozzo favoloso del cortile: «A sora Manuè, ce sta quarcuno! Scegnete che ve vonno!» Quanno che nun annaveno a scola. Il marito era impegnatissimo, alla Centrolatte Fontanelli. Lei discendeva, pa-plàf, pa-plàf, co le gote accese: la tramontana! centoventinove scalini. Cor fiato che odorava d’anice. Un venticello! Scegneva, propio, dar paradiso. Un paradiso all’anisette. «Don Cicce mie!» e voltò il foglio, l’Ingravallo. Secondo i più attendibili tra i molti e melodiosi susurri del ducentodiciannove così prontamente captati dallo Sgranfia, pareva... sì, insomma, lei e il Barbezzi-
Gallo, de quanno in quanno, dopo una qualche bona arzata der Barbagallo medesimo, mbè era pure giusto, sentiveno er bisogno de congratulasse reciprocamente, bicchierino alla mano. Mano ai classici. Meletti autentica, de centoventi lire la bottija, de tre quarti de litro. Per questo ce poteva passà pure Napoleone co l’armata d’Italia, davanti la guardiola, che se li regazzini ereno a scola, come quer giovedì maledetto, chi s’è visto s’è visto. 
Le nuove forze operanti nella società italiana quel rinnovamento profondo che, atteggiatosi all’antica severità o almeno alla faccia severa de’ littori, aveva però, già preso l’aìre dalla loro dotazione di bastoncelli (mazzetto di stecchi rilegati strinti d’attorno il fusto della scure, non soltanto emblematico), si addiedero poi senza sciuparsi nei filosofemi (primum vivere) a lastricare de’ più verbosi buoni propositi la patente via dell’inferno. Gassificate indi a funeraria minaccia e fattesi verbo e vento, cospirarono d’impeto in quella tromba d’aria e di polvere che levò se stessa fino a baciare il culo alle nuvole, struggitrice d’ogni separazione dei poteri e del vivente essere che si suol chiamare la patria: d’una distinzione dei «tre poteri»: che il grande sociologo dalla modesta e assettatuzza parrucca, osservando gl’instituti migliori de’ romani e i più giudiziosi e recenti della storia inglese, aveva così lucidamente distinto. La nuova resurrezione della Italia si aggiungeva a una rinascita poco tegumentata nelle specie naturali, e nelle pittoriche o poetiche di cui la notò il mondo come infame a un tempo ed insigne: e teneva dietro, dandosi l’aria di conchiuderlo pel meglio, a un risorgimento un tantino troppo generoso nel disprigionare pathos dal pelame de’ -suoi trovieri capelluti, o barbuti, o lautamente baffuti, o gloriosi di scopettoni o basette, bisognosi tutti, comunque, a gusto nostro, delle radicali cure di un figaro dalle drastiche forbici. L’effetto che la resurrezione in parola cavò di sue viscere, infoiata di poter finalmente disporre di tutte le disponibilità resele a disposizione dal potere, fu quello che si verifica ogni volta: intendo dire ad ogni assunzione intera del medesimo: conglomerare le tre balie - da Carlo Luigi de Secondat de Montesquieu con sì chiaroveggente capa sceverate, libro undecimo capitolo sesto del suo trattatello di ottocento pagine circa l’esprit des lois - conglomerarle, tutte tre, in un’unica e trina impenetrabile e irremovibile camorra. In un tale evento «le même corps de magistrature a, comme exécuteur des lois, toute la puissance qu’il s’est donnée comme législateur. Il peut ravager l’État» (intendete? ravager l’État!) «par ses volontés générales et, comme il a encore la puissance de juger, il peut détruire chaque citoyen par ses volontés particulières»: particulières à lui, cioè al sullodato corps. Nel caso nostro, nel novello ravage comportato da una troppo focosa reminiscenza degli antichi bastoncelli (i quali, semmai, bastoncellavano a sensi di legge, non a sensi di teppa), il telefono si ritrovò bell’e impiantato a prestare, alla tripotente camorra, gli uffici eminenti d’un ufficiale portaordini controllato dallo zelo e dagli orecchi ipersensibili di un ufficiale spia. La raccomandazione burocratica poté assumere quel tono, e, più, quel carattere duramente ingiuntivo o addirittura imperatorio che solo si addiceva agli «homines consulares», agli «homines praetorii» del neoimpero in cottura. Chi è certo d’aver ragione a forza, nemmeno dubita di poter aver torto in diritto. Chi si riconosce genio, e faro alle genti, non sospetta d’essere moccolo male moribondo, o quadrupede ciuco. D’un depositario, o d’un commissario, della rinnovata verità non è pensabile ch’egli debba mingere nuove asinerie a ogni nuovo risveglio: in bocca a chi lo sta ad ascoltare a bocca aperta. Be’. La cascatella delle telefonate gerarchesche, come ogni cascatella che si rispetti, era ed è irreversibile in un determinato campo di forze, qual è il campo gravidico, o il campo ossequienziale-scaricabarilistico. Non c’era neppur bisogno di mobilitare due bravi, con due ciuffi sul naso e due cinturoni di cuoio lucido adorni di pistole e coltellaccio, perché il subalterno culseduto s’avvedesse, dall’altro capo del filo seduta stante, di quel che gli conveniva rispondere, o come gli bisognava procedere: «disposto... disposto sempre all’ubbidienza». Tatràc. così avvenne anche in occasione del fattaccio, del primo, di via Merulana ducentodiciannove, non appena sopravvenne il secondo, cioè, l’orribile delitto. «La ingiustificata lentezza delle indagini» dovette «assumere un ritmo più serrato», adeguarsi da un momento all’altro alle scalpitanti esigenze del pausario, che martellava a prora, anziché a poppa, e in compenso con tutti e quattro gli zoccoli. Il commendatore statistico, e m ora libera amatore tartufone, dopo ottantasei ore dalle nove di sera del lunedì era stato invitato a rifarsi vivo a Santo Stefano. Dopo novantadue, più morto che vivo, fu spedito a soffiarsi il naso a la Lungara: nel più vasto e nel meno prevedibile de’ suoi fazzoletti da naso. 

La povera Balducci, stando alle affermazioni unanimi degli inquilini, pareva non avesse ricevuto nessuno in quelle ore, le due ultime ore della vita! Nessuno: all’infuori del suo carnefice. 
Gridi non ne avevano uditi, né rumori, né tonfi: neppure la Menegazzi, che se stava a pettinà, neppure i due Bottafavi marito e moje. Una inchiesta alla succursale romana della Standard Oil, «condotta personalmente dal dottor Ingravallo», confermò la circostanza del trasferimento, a Genova, stabilito già da un pezzetto, del dottor Giuliano Valdarena. S’era convenuto che dovesse partire lunedì 21 marzo: giorno prima, giorno dopo, magari. Per parte loro, non avevano che da lodarsi delle prestazioni del giovane. Un elemento piuttosto sveglio, buon parlatore quando voleva, dal fare distinto: e anche, in fondo, sì, volonteroso. Non si faceva pregare a prendere un taxi, a correre dietro a un cliente, a un ingegnere di quelli che sono sempre in moto, in agitazzione perpetua, su e giù co li treni. Qualche mattina, o qualche pomeriggio afoso, magari... L’età, si sa. Un po’ di fiacca, certe volte, a certe giornate di scirocco: il clima degli uffici. Ma coi clienti, per lo più, la imbroccava. 
«Ci vuol poco,» grugnì don Ciccio fra sé e sé: «dove l’hanno a comprà la nafta! da ‘o broccolaro?» 
Le indovinava, sì. La concorrenza, specie negli oli per trasformatori, quantitativi che interessano, tirava a buttar giù i prezzi sia pure entro i limiti convenuti dal cartello, a sfruttare il saltino... delle dieci lire per quintale. Lui, be’, sapeva fare: un certo non so che, dei modi distinti, un’aria di uomo che ragiona, che dà tempo al tempo. 
«Vede, signor commissario, lei non ci crederà, ma i clienti sono un po’ come le donne. Parrebbe uno scherzo: eppure... Bisogna saperli prendere. Una pazienza, certe volte! Dove occorre che uno aspetti, saper aspettare: star lì, sotto la panca di sasso, cogli occhi addormentati, ma pronti al balzo come un gatto in amore. Dove occorre invece la manovra, manovrare... prima che ci arrivi quell’altro, la concorrenza, voglio dire. Proprio come farsi la maschietta: preciso. Creda, bisogna tirarli al punto che s’innamorino: almeno un tantinello, almeno per una mezza giornata: l’espace d’un matin. Anche quando ci hanno dietro la zia, magari, la grossa holding che fa finta di far la calza per conto suo, ma sbircia sui conti: e cià magari un debole: il suo debole. Soffre anche lei le sue antipatie e le sue simpatie, come certe vecchie, certe suocere... che per piacere alla figliola, bisogna piacere prima alla madre. Propio così. Ci sono i platonici, vede, i romantici: che sognano al chiar di luna, che s’impuntano sulle dieci lire, sperano, credono, la tiran lunga! ci fanno sospirare! A loro, be’, gli piace a quel modo: altrettante gatte a febbraio. Non c’è che fare. E pazienza! Ci sono quegli altri, i conclusivi, che vengono subito al punto. Glie lo dico io, dottore, bisogna saperli prendere! Ognuno pel suo verso. Ma creda: creda: perché noi si possa funzionare a dovere, prima sì devono innamorare loro: non dirò proprio di noi, modesti agenti, per quanto... neanche una bella pupa ci butterebbe poi via, dopo tutto, che diavolo! non dico di noi, no, maa... così, della Standard in generale. Bisogna che s’innamorino della Standard: che imparino ad aver cieca fiducia nella Standard Oil: prendere quel che gli diamo! perché lo sappiamo noi prima di loro quel che gli dobbiamo dare, il biscotto che ci vuole per ognuno: per l’uno piuttosto che per l’altro. Un’organizzazione mondiale come la nostra? ma le pare? Decine di migliaia di galloni all’anno per la sola Europa, dei migliori tipi di olio, il che torna a dire dei tipi della Standard Oil? Che, si scherza? 
«Il nostro gran segreto, vede, è quello che ci piace di raccontare a tutti: la costanza dei requisiti per ogni determinato tipo di olio. Prenda, per fare un esempio, il nostro imbattibile Transformer Oil B marca undici Extra. può chiederne anche qui, all’ingegner Casalis dell’Anglo-Romana: all’ingegner Bocciarelli della Terni.» Si aiutò coi diti della sinistra, pollice, indice, medio, scartandoli uno dopo l’altro ad, elencare i meriti del marca undici: arrivò al mignolo, dove rimase: «Anidricità assoluta: è il requisito essenziale: va bene: condizione sine qua non: temperatura di congelamento... bassissima: viscosità... 2,4 Wayne, a far tanto: grado di acidità, trascurabile: potere dielettrico, stupefacente: punto di infiammabilità... il più elevato di tutti gli oli industriali americani. 
«Che si può pretendere di più, mi dica lei, da un olio per trasformatori? Ma poi, come ripeto, ciò che conta, sopra tutto, è la costanza delle caratteristiche, in ogni tipo: quelle che ci assegnano la cifra di merito di un determinato olio... del nostro Transformer B, voglio dire. Sempre, sempre le stesse! Identiche a se stesse nello spazio e nel tempo: da una partita all’altra.» Levò la voce: «A distanza di anni! può crollare il mondo, può resuscitare la fenice, può prender fuoco al Colosseo... ma il Transformer Oil B marca undici Extra della Standard Oil è, e rimane, quello che è. Il cliente se la può dormire tra due guanciali, creda a me. Lo sappiamo noi quello che ci vuole, per lui. E molti clienti l’hanno finalmente capita. A metterci i corni a noi si fa presto. Ma poi? Lei in un trasformatore che le è costato un milione, magari, si sveglia un bel giorno che si accorge che cià versato dentro della salsa di pomodoro, al posto dell’olio. E quando il trasformatore le è andato arrosto al primo temporale, allora che si fa? Me la saluta l’economia d’esercizio? Me lo saluta l’ammortamento in quindici anni, in dieci anni?... Sì, in otto mesi! No, creda, dottore, non è soltanto il prezzo che deve determinarci alla transazione, lo specchietto delle allodole del prezzo... la brutalità di una cifra: quattro-nove-sei al quintale. No. Il prezzo... si sa. Anche gli orologi ne trova di quelli da quattordici e cinquanta in un botteghino a via dei Greci: e se ne trova però da duemila lire da Catellani. Mi comperi lei un Patek Philippe, un Longines, un Vachéron Constantin... per quattordici e cinquanta. Dove lo trova quello che glie lo molla? Se me lo trova, è la volta che anch’io, allora, le potrò regalare il mio Transformer B marca undici al prezzo... di certa roba che gira sul mercato!» 
Soffiò: «Lasciamo andare!» Ingravallo si sentiva inebetire. Le palpebre avevano principiato a cadergli in avanti come due tende americane di due vetrine: a cadergli giù, a metà globo di ciascun occhio, nell’attitudine papaveracca delle grandi occasioni: quando il sopore d’ufficio lo coronava di un’amenza... pressoché divinante. E invece, l’occasione divinatoria gli si presentava delle più bischere. Olio! Ne avivene, d’uoglie, la gente, in terra di Apulìa. E lui, di quest’altro... non sapeva davvero dove attaccarselo. 
«Innamorare id cliente! Ecco tutto. Per. fargli entrare in testa la verità: il gran chiodo della verità!. Nient’altro che quello. Il dottor Valdarena, quanto a chiodi, ha manifestato buone disposizioni. Il giorno, poi, che si so no innamorati, e che hanno provato il Transformer B, è ben difficile, creda, che si lascino sedurre: che si lascino tentare a metterci le corna! E poi, corna a parte, chi ci ama ci segue: e allora... Una sigaretta?» «Grazie.» «Allora, magari, voglio dire, pagano. Pagano senza rifiatare.» 
«Pagheno, pagheno,» grugnì don Ciccio, nella solitudine del proprio foro interiore.  
4. 
  
  

Dopo ventidue ore d’inquietudine generale il Balducci arrivò, il 18: impegni fuori programma, asserì. Intanto erano state sollecitate le questure: Milano, Bologna, Vicenza, Padova. Fu, per Ingravallo e per il dottor Fumi, un vero sollievo. Ove proprio lui avesse fatto ciflis, le indagini si sarebbero dovute estendere a mezza penisola, con un lento monsone di fonogrammi. 
E ‘o gliommero, di già piuttosto arruffato, si sarebbe ingarbugliato del tutto. Il Balducci, miracolosamente ignaro, scese dal treno alle otto, col bavero del soprabito alzato, con la faccia tutt’altro che rubizza in quel momento e un po’ annerata, per giunta: co la cravatta allentata: con l’aria d’aver dormito, nel disagio e sopra interminabili sussulti, a fondo. Lui e il treno avevano tenuto fede al telegramma, d’altronde impreciso. Ma direttissimo in arrivo a Termini alle otto c’era soltanto il Sarzana: che a lo stridere ultimo e al conseguente blocco dei freni spaccò il minuto, orologi sotto la pensilina e marciapiede a bocche aperte ad attenderlo, in ottemperanza a le nuove direttive: così gloriosamente impartite dal de Quo. La terribile notizia gli fu partecipata col debito riguardo e con ogni più opportuno smorzamento bell’e là su la banchina, mentre i viaggiatori, dai finestrini, si disputavano ancora i facchini con vocazioni imperiose o imploranti, e i facchini avevano assunto il tono dei loro grandi momenti, svizzeri e milanesi in arrivo bagaglio solido: gli fu partecipata dai parenti della moglie ivi accorsi per invito d’Ingravallo, vestiti chi de nero e chi de scuro: zia Marietta in testa, co uno sciamanno nero su le spalle, fatto a giubbarello de mandrillo, una collana de pallette nere intorno al collo, un cappellino da professoressa di pedagogia, una faccia da procuratore del re. Poi, dietro, zi’ Elviruccia col figlio, l’Orestino, quello granne granne co du dentoni gialli che somigliava tutto ar povero zi’ Peppì, era, se po dì, lo zio Peppe spaccato. Un grugno da funerale puro lui. C’era pure il brigadiere in divisa: Di Pietrantonio. Quando poco a poco je lo fecero capi, a zi’ Remo, quello ch’era successo, lui poveromo pe prima cosa posò a terra la valigia: quell’artre più pesanti l’aveva prese er facchino. La notizia non parve scoterlo più che tanto. Forse il sonno, la stanchezza di quelle notti di treno. Pareva propio che stasse co la capoccia per aria, da nun sentì nemmanco quello che je diceveno. 
Nel frattempo la salma era stata rimossa, e trasportata al Policlinico, dove si era proceduto a un esame esterno del corpo. Nulla. Rivestitala e ricompostala, ne venne fasciata la gola: con bianche bende: come d’una carmelitana distesa nella morte: il capo ravvolto d’una specie de cuffia da crocerossina: senza la croce, però. A vedella così, bianca, immacolata, se levaveno subbito er cappello. Le donne se faceveno er segno de la croce. L’autorità giudiziaria era intervenuta per le constatazioni di legge a via Merulana, indi al Policlinico, in persona del giudice istruttore cavalier ufficial Mucellato. Anche il sostituto procuratore del re commendator Macchioro le aveva fatto. per così dire, na visita de dovere. Quello de palazzo Chiggi nun j’era parso vero de dì la sua puro lui, più forte de tutti: «Il bieco assassino dovrebbe essere già fucilato da sei ore.» Ma il Balducci nun aveva letto i giornali. 
Sul corpo, nulla, dopo il coltello e quei graffi, quell’unghiate. 
Una volta a casa, il povero sor Remo fu sollecitato ad aprir cassetti, qualche sportello renitente. De quarcuno nun fu bono a trovà le chiave: d’altre chiavi ritrovate a caso, ignorava del tutto la destinazione. Le provò, le riprovò qua o là, inutilmente. Nel suo studiolo non erano neppure entrati. Lo scrittoio, a chiusure «Marengo Universal», apparve indenne da manomissioni. Lo aprì lui: tutto in ordine. Altrettanto lo schedario di ferro, dove teneva certi pappi‚: era un armadietto verdescuro tinto a fuoco, pulito pulito, che andava d’accordo co la libreria di legno mezzo vuota e mezzo ingombra di squinternati libracci, come un giovane ragionieretto appena uscito dal barbiere co la vecchia danarosa e gocciolosa di naso ch’egli amministra e deruba, innamorata di lui. A tutto il muto sopraluogo assistettero le du signore, le du zie, l’Oreste, il brigadiere di P.S. Di Pietrantonio in realtà maresciallo, un agente, certo Rodolico, nonché la sora 
Manuela. Un momento più tardi ce capitò pure er Biondone. De Pompeo e der Biondone de Terracina il dottor Ingravallo se fidava: l’artri ereno certe capocce toste, a le vorte, prima de faje entrà la psicologia! Queli dua ciaveveno er fiuto bono: sapeveno conosce le. persone da la faccia, così a un’occhiata: e magara senza paré. Quello che je premeva, a Ingravallo, era più de tutto la faccia, il contegno, le immediate reazioni psichiche e fisiognomiche, diceva lui, degli spettatori e de li prottagonisti der dramma: de sto branco de fregnoni e de fiji de mignotte che stanno ar monno, e de le commare loro e madame porche futtute. 
Fu invocato l’ausilio der Bottafavi, dopo qualche vano conato del Rodolico, il quale riuscì soltanto a farsi saltare un bottone: non ‘si capi di dove. Il perito d’armi discese con una cassetta da falegname a manico quadro infilata sul braccio, dove c’era dentro tutto, il repertorio dei tiraviti, dei seghetti e degli scarpelli, dei martelli, delle tenaglie e delle pinze, con. una chiave inglese, per giunta: oltre a buon nerbo di chiodi sciolti, sia dritti che storti. Da ultimo fu chiamato un fabbro, un vero don Giovanni de le serrature: ciaveva un mazzo de rampini co un beccuccio in fonno, e ie bastava de faje appena er solletico o coll’uno o coll’antro, che quelle già se sentiveno de nun poté più resiste. Pareveno come una donna virtuosa che perde i sensi. Il Balducci constatò subito la mancanza del meglio, del denaro e delle gioie, che la signora teneva in un piccolo cofano di ferro nel secondo cassetto del comò: il cofano era sparito, col contenuto. Nemmeno la chiave ne fu trovata: stava, per solito, in una vecchia borsetta di velluto nero con ricami di nontiscordardimé dentro l’armadio a specchi, avvinta da un bel nastrino celeste alla élite delle gentili e tintinnanti consorelle. «La borsetta era, era... una vorta stava qui. Me lasci un po’ vede.» Annaspava co le mano dar sotto in su ner profumo de quer mucchio de seta, de tutte quele sottovesti, quele camicie e quelli fazzolettini ricamati. Sì, sì. Era sparita a sua volta. Anche li du libbretti de risparmio mancaveno a l’appello: «Dio mio! nun se troveno più nemmanco loro!» «Che cosa?» «I libretti de risparmio de Liliana.» «Di che colore?» «Colore! Uno der Banco de Santo Spirito, uno de la Banca 
Commerciale.» «Intestati a... lei?...» «Sì, a Liliana mia.» «Ereno al portatore?» «Nominativi.» 
La sottilizzazione del tesoruccio (sui libretti nominativi, poi, non c’era pericolo) parve accasciare il sor Remo: più forse, a giudicarla dal di fuori, dalle immediate reazioni psichiche e fisiognomiche, che non la orribile notizia recatagli a Termini. Era un’impressione del tutto gratuita, mendace, se po dì: ma nessuno dei presenti riuscì a vincerla, non il brigadiere, non l’Orestino: e tanto meno zi’ Marietta e zi’ Elviruccia, inacerbate e maligne al contemplare quel grosso uomo tutto in triboli, «sì, sì, va’ pure a caccia mo: mo che la lepre è scappata,» quel’omaccio che annava su e giù pe casa a tirà fora tutti li tiratori de li mobbili, pe guardacce drento... si gnente gnente j’aveveno rubbato una spilla. 
Incupite e rese avide, a pensacce, dal gran fermentare che l’avarizzia latente comune a tutti li parenti Valdarena aveva fatto, in quelle ore della notte incredibile e de’ suoi tribolati consigli, dopo le voci multiregionali della questura e la certamente romana de la sora Manuela ne lo sconquasso telefonico dei giorno avanti: e, adesso, tanto zi’ Marietta che zi’ Elvira, deluse dalla delusione d’un attimo. Lilianuccia, che? manco un ricordo aveva lasciato a li cuggini? a le zie? a zi’ Marietta sua che l’aveva tenuta in collo, se po dì, da quanno j’era morta mammà? manco una medajetta de la Madonna? de tutto quer negozio d’orefice che teneva sotto chiave? De fa testamento nun ciaveva pensato, povera fija! Quanno uno ha da morì a quer modo, nun lo po sapé prima, nun lo po prevede. Madonna santa, c’era da perde li sentimenti! Che monno, che monno! 
E poi avevano il pensiero a Giuliano. Quel fermo lo sentivano come un oltraggio: un torto fatto a loro, alla casata bellissima dei Valdarena, «na famija che in tutto er generone nun ce n’è un’antra»: delle più floride, delle più piantate in terra: ommini, donne, pupi. L’idea che una figliola come quella fusse precipitata in braccio ar diavolo co li meio regali der matrimonio, co tutto l’oro e le gioie, senza lassà un ricordo, senza una parola d’addio! Un’idea così, povere zie! stava pe diventà un tormento, un male ar core. Un ammazzamento così. Rancura, orrore, terrore, un grido nella tenebra! Le cognazioni umane, le gentes, al dirompere d’una tensione demoniaca di che vadano lacerati in modo così drastico i certificati in-folio dello stato civile, demo o parrocchia, e le lunghe, le occhiute cautele del vivere, le genti, in quel punto, tendono a ripetere in diritto, se pur non ci arrivano in fatto, la cosa Prestata. Commodatam repetunt rem. La richiamano dal buio e dalla notte. Rivogliono, rivogliono il fiore! col suo scerpato stelo! il quanto perduto di lor vita. Come limatura sul magnete, le minime fibrille dei loro visceri si polarizzano alla tensione del rientro. Sentono di dover risucchiare indietro la unità gamica estromessa, la unità biologica, la persona già vivente, eternamente vivente, e per sacramento alienata a nozze a un Sempronio. Rivorrebbero a loro disposizione la possibilità, la valenza nuziale profferta ad altro, allo sposo (in questo caso): ‘al cognato o genero profferto loro dal demo. E l’unità-gamica di cui si rivendica la pertinenza include altresì un quanto economico. Era una splendida figliola, ed era un cofano di gioie: l’una e l’altro maturati dagli anni: dai lenti, dai taciti anni. Era una figliola, con una scatoluccia: di cui loro, i Valdarena, aveveno affidato ar marito la chiavicina: e il diritto di servirsene, tric tric: il santo usufrutto. E il coadiutore di Cristo, ai Santi Quattro, aveva benedetto il trattato. Con tanto di asperges in nomine Domini: senza troppo inzaccheralli, però. Lei, sotto la corona di zàgara e dentro il velo, aveva inchinato la faccia. Renda, sicché, renda il mal tolto, sto babbione de cacciatore, de viaggiatore in tessuti. Quale uso ha fatto de la bellezza? O quale spreco? di tanto gentile bellezza? e de li paoli? de li paoletti, belli pure loro? Indove l’ha mannati a sbatte, li paoli? E queli marenghi cor galantomo brutto? Queli marenghini gialli gialli tonni tonni de quanno nun c’era ancora sto Pupazzo a palazzo Chiggi, a strillà dar balcone come uno stracciarolo? Ce n’aveva quarantaquattro, Lilianuccia, quarantaquattro contati: che faceveno cin cin dentro a un sacchetto de seta rosa, de li confetti der matrimonio de nonna. Che pesaveno più loro che du rognoni a Natale. «E mo indove so’ annati?» pensaveno. «Che ce lo sa, er cacciatore?» Manet sub jove frigido. A quali nozze ha mai adibito la sposa, la validità carnale e dotale de su’ moje? Che ne ha saputo combina, sto viaggiatore apoplettico, della tenera carne? e del gruzzolo? che le è connaturato? già, già del mucchietto? legatole da una ruminazione pervicace del tempo, dalla virtù economica della gente prestante? così come quelle tepide carni le erano discese da cumulata veemenza delle generazioni, dopo aspri mattini. Pareveno dire li parenti de Liliana: «Oh! dolce sposa, infarcita di bei ruspi! tesoro degli anni! Inopinato accredito degli equinozi! Renda, sicché, risputi fora, sto buraccione in commerci! Nun s’azzardi d’accusà Giuliano, verga splendida della ceppaia, solo perché ne deve subire il confronto.» Il loro cervello, de quele du befane de zi’ Marietta e zi’ Elvira, annava dietro a le fisime: «Giuliano, fiore dei Valdarena! Empito dei puberi giorni! Grumo di vita!» 
Esiste una drammatica regione d’ogni rancura, dalla milza e dal cistifele drento il rodimento del fegato, insino a le penombre dietro li mobili de casa indove officiano i Lari: quelli che vedeno e stanno zitti, in der respirà l’odore de naftalina morta de li credenzoni, ma che ar primo comparì la lama avevano tremato di non poter gridare: e negli opachi volumi de la stanza, ora, allibivano e piangevano, co li nervi dei martiri. Be’, là, tra le gambe der brigadiere e der chiavaro, scartato er mappamonno de la Manuela, vagolavano tutte quelle attossicate fantasime. Ritte e dure, le zie attendevano giustizia: l’Oreste non sapeva manco lui come contenesse. 
Il Valdarena, al Collegio Romano, era stato sottoposto a ripetuti interrogatori: gli alibi da lui prodotti (ufficio, fattorini d’ufficio) si palesarono validi fino alle 
9.20, non oltre. Diceva d’essere andato in giro per la città. In giro dove? da chi? Clienti? Donne? Tabaccaio? Due o tre volte arrossì, come d’una bugia. Aveva messo avanti anche il parrucchiere, ma s’era subito ritratto dall’affermazione: no, c’era stato il dì prima. In realtà nessuno degli inquilini lo aveva visto, in quell’ora. Soltanto alle 10.35, quando lui chiamò gente. La pupa Felicetti, messagli davanti, negò d’avello incontrato pe le scale: quella ch’annava a dì bongiorno ai Bottafavi ch’aveva incontrato le venditrici de caciotta: «n...o,» disse, con gran pena dei labbri che non arrivava a spiccicare: «questo... nun c’era...» Poi ammutolì: e stretta da nuove e da rinnovate domande, poi da esortazioni d’ogni genere, chinò il volto in lacrime. Accennò a dir di sì, ma non si risolvette: non aprì bocca. Poi, coi goccioloni a le gote, parve a tutti che volesse far segno di no. La sua mamma, inginocchiata là, viso contro viso, le faceva le carezze in testa, di dove vengheno fora le testimonianze, le sussurrava dentro un orecchio, baciandola: »Di’, di’ la verità, cocca mia: dimme un po’, sì, si è che l’hai visto, er signorino qua, su le scale, vedi com’è bionno? che pare un angelo? Di’, di’, pupa mia bella! nun piagne, che co te ce sta mamma tua che te vo tanto bene, tiè,» le scoccò du baciozzi, «nun te spaventà der dottore. Er dottor Ingarballo nun è un dottore de queli brutti, che so’ tanto cattivi, poveretti, de queli che te fanno la bua su la lingua. È un dottore cor vestito nero, ma è tanto bono!» e le tastò il pancino sotto la vesticciola, come per appurare se fosse asciutta o bagnata: certi numeri del testimoniale non è escluso che accompagnino la testimonianza con adeguate erogazioni. «Dimme, dimme: su, su, cocca mia, ch’er dottor Ingarballo te regala una pupazza, de quelle che movono l’occhi, cor zinale rosa co li fiorellini celesti. Mo vedrai. Dillo a mamma tua in un’orecchia.» Lei allora chinò il capo e fece: «Sì.» Giuliano impallidì. «E che faceva er signorino? E che t’ha detto?» Lei ruppe in pianto, strillava disperatamente fra le lacrime: «‘nnamo ‘ja, ‘nnamo ‘ja»: dopo di che la mamma le soffiò il naso: addio! non si poté cavarne più nulla. Mammuccia, «ve dico!», sosteneva che fosse una bambina straordinariamente sveglia, per l’anni sua: «se sa... che co li pupi bisogna sapecce fa.» A Ingravallo sembrò invece un’idiota, in tutto degna di sua madre. 
Il caso Pirroficoni non aveva ancora afflitto le cronache dell’Urbe: il Testa di Morto in feluca sitiva già, per altro, la penna di pavone dell’indiziato, da potersela infilare dove lui s’infilava le penne: de pavone o de pollo guasto che puzza. 
Comunque era’ opportuno, già allora, procedere con una tal quale cautela: don Ciccio lo intuiva a naso, e il dottor Fumi non meno, dopo che l’opinione pubblica cioè la mattana collettiva s’era impadronita del fatto. 
«Adoperare» l’avvenimento - quel qualunque avvenimento che Giove Farabutto, preside a’ nuvoli, t’abbi fiantato davanti il naso, plaf, plaf - alla magnificazione d’una propria attività pseudo-etica, in facto protuberatamente scenica e sporcamente teatrata, è il giuoco di qualunque, istituto o persona, voglia attribuire alla propaganda e alla pesca le dimensioni e la gravezza di un’attività morale. La psiche del demente politico esibito (narcisista a contenuto pseudoetico) aggranfia il delitto alieno, reale o creduto, e vi rugghia sopra come belva cogliona e furente a freddo sopra una mascella d’asino: conducendosi per tal modo a esaurire (a distendere) nella inane fattispecie d’un mito punitivo la sudicia tensione che lo compelle al pragma: al pragma quale che sia, purché pragma, al pragma coûte que coûte. Il crimine alieno è «adoperato» a placar Megera anguicrinita, la moltitudine pazza: che non si placherà di così poco: viene offerto, come laniando capro o cerbiatto, a le scarmigliate che lo faranno a pezzi, lene in salti o mamillone ubique e voraci nel baccanale che di loro strida si accende, e dello strazio e del sangue s’imporpora: acquistando corso legale, per tal modo, una pseudo-giustizia, una pseudo-severità, o la pseudo-abilitazione a’ dittaggi: della quale appaiono essere contrassegni manifesti e l’arroganza della sconsiderata istruttoria, e l’orgasmo cinobalànico dell’antecipato giudizio. Rileggasi in Guerra e Pace al libro terzo, parte terza, il capo 25, doloroso atroce racconto: e intendasi la sommaria esecuzione dello sciagurato Veresciàghin, ritenuto spia non essendo; il conte Rostòpcin, governatore di Mosca, teatrando di sulla scalea di Palazzo davanti la cupa attesa della folla ordina a’ dragoni di ucciderlo a sciabolate, lì astante la folla: sul bel fondamento interiore, madonnabona, «qu’il leur faut une victime». Era di mattina, le dieci. «Alle quattro dopo mezzogiorno le truppe di Murat entravano a Mosca.» 
Ben più vile e teatrale, chez nous, quel Facciaferoce col pennacchio: né gli concediamo, siccome a Rostòpcin, le attenuanti immediate della tema (di venir linciato lui) e dell’angoscia e dell’ira e del pandemonio (psicosi totale della folla) e del nemico in arrivo dopo le cannonate secche e la strage (di Borodino). 
Il mal capitato Pirroficoni fu ridotto in fin di vita a busse da un taliana di quelli: perché gli si voleva estorcere ad ogni modo, in «camera di sicurezza», la veridica ammissione d’aver istuprato certe bimbe. Paracadde giù da’ nuvoli e implorava che no, che non è vero un corno: ma ne buscò da stiantare. Oh mani generosi del Beccaria! 
L’Urbe, propio al tempo de’ suoi accessi di buon costume e di questurinizzata federzonite, l’ebbe a conoscere (1926-27) alcuni periodici strangolamenti di bambine: e ne reliquavano alle prata e le spoglie e lo strazio, e la misera e spenta innocenza: là là extra muros, dopo le divozioni suburbicarie, e l’epigrafi degli antichi marmi e sacelli. Consule Federsonio, Rosamaltonio enixa: Maledito Merdonio dictatore impestatissimo. Il Ficoni Pirro, meschino! dameggiava in allora una sua dama anzichenò butirrosa comeché stagionatuzza, ma di alquanto impedita accessione: quinto piano: casamento umbertino: portiera in sul portone: marito presente, efficiente... a pantofole: grappoli di coinquilini ad libitum, glossatori de natura, più che Irnerio. Donde, cioè da queste premesse di fatto, un patetico saliscendi di autografi di vario enunciato per le cure di una gentil fantolilla (tredicenne), che li recava con qualche circospezione e con altrettanto batticuore a destino. E colloqui per cenni e per digitazione varia da finestra a contrada: e viceversa. Il peritoso e digitativo galante fu tratto in arresto a marciapiede, in quell’atto appunto del dispacciare alcuni suoi segni di sei o sette diti (ore, amore) all’indirizzo d’una finestra del quinto (ch’era, al parere della questura, una «finta strategica»): e del confidare un viglietto per madama, secondo strattagemma, alla di lei fanticina molto pupetta, e tutta trepida di un tanto incarico, e tutta imporporata nel viso. Il Pirroficoni avea fatto, com’e’ suole, alcuna carezza alla bimba: il quale atto, e il di cui rossore, lo perdettero. Su questo bell’indizio il Testa di Morto in pernacchi eruttò che «la polizzia romana in meno di 48 ore eccetera eccetera». E il birro, confortato dall’alta parola del buce, dagli a stangare. L’intervento dubitativo di un qualche onesto funzionario salvò le ossa al Ficoni, dimolto peste però. 

Il Balducci fu interrogato a sua volta: nel pomeriggio di quel giorno stesso, 18 marzo, a Santo Stefano del Cacco: per più ore: dal commissario capo: il giudice istruttore intervenne pro forma, «la questura teneva ancora in mano l’iniziativa delle indagini.» Ingravallo, stavolta, non se-la sentì davvero. Un amico. Che, che! Non volle nemmeno presenziare. E poi, era chiaro, si sarebbe andati nel difficile: lo scabroso interrogatorio avrebbe finito con lo sminuzzolarsi nelle sofisticherie d’un particolar genere d’inquisizione, o col rompere a disgustose, crudezze, d’un’indagine delle più crude. I rapporti... tra il Balducci e la moglie: stati d’animo. Rivenne a galla tutta quella incredibile storia delle nipotine, delle nipoti: la strana «mania» della vittima, di volere a tutti i costi una figliola. L’avrebbe comprata smessa a Campo de’ Fiori, in mancanza de mejo. Quanto a baiocchi, il dottor Fumi non tardò a persuadersi che i due coniugi, sia lui che lei, avevano una posizione economica invidiabbile. Co quela zavorra ne la stiva... nun c’era mare che ce la potesse, nun c’era inflazzione. 
Il vedovo abbozzò una nota dei titoli di credito, così un po’ a memoria: tanto i suoi che quelli de Liliana: per facilitare la dimostrazione, disse, che lui doveveno mettelo fora d’ogni dubbio, fusse pure un’ombra d’un minuto. «Io? Lilianuccia mia? Ma che? Stamo a fa li scherzi?» Le labbra gli presero a tremolare, scoppiò in singhiozzi, di cui sussultò la cravatta. Rasciugato quel pianto, si rimise a recuperare di memoria: s’aiutò con un taccuino de pelle, pelle de coccodrillo: de quelli propio da signori: che aveva portato con sé. Ce stava notato er bene loro. 
Liliana teneva la cassetta de sicurezza a la banca, a l’agenzia numero undici de la Commerciale che faceva puro servizio de cassette con un caveau de li più moderni: a piazza Vittorio propio de fronte ar mercato, sotto li portici: bravo: all’angolo de via Carlo Alberto. E poi però ce n’aveva un’artra a Corso Umberto, ar Banco de Santo Spirito. «Er padre de Liliana, er povero mi’ socero, era un omo sincero: uno che ciaveva naso: lui alla rivoluzzione poco ce credeva, stavorta nun viè, diceva, e de l’anonime -, poi, nun c’è da fidasse pe gnente: anzitutto... propio perché so’ anonime: nun se sa come se chiameno, nun se sa quello che fanno, indove stanno. Si gnente gnente vie un giorno che je pija la fantasia de di sto fregno me lo buggero, tu che fai? Valle un po’ a pescà su a Milano pe dije: “a sora nònima, sto qua, che rivojo indietro li sordi mia.” Stai accomodato! No, no. Buoni quinquennali! diceva. So’ più sicuri dell’oro! diceva, ch’oggi salisce ma domani cala: e un po’ de consolidato cinque per cento, magara, de quello che te fa dormì tra du cuscini. Robba garantita da lo stato: da lo stato italiano! È un palazzo de granito, lo stato, credeme a me: lì nun c’è nessuno che te buggera. Che interesse ciaverebbe? Questo, poi, dicheno che vo fa sur serio.» Citato lo socero, a un mesto sorriso del dottor Fumi, il Balducci... si riservò di produrre elenchi dettagliati, esatti. Lui, Liliana. 
Fornì referenze «ineccepibili» commerciali e bancarie, e di poi chiarimenti vari circa la sua posizione di rappresentante, nel ramo stoffe, d’alcune produttrici del nord. La questione de li baiocchi, se poteva dì tra lui e su’ moje nun esisteva nemmeno. «Non ci mancava gnente, né a me né a Liliana. Una difficoltà, un’angustia de circolante, un prestito, fusse solo da oggi a domani... Che! Una cambiale?» In famija manco sapeveno che fusse. 
«Cambiali de commercio, nel mio giro d’affari: quelle... Senza cambiali nun se camperebbe.» 
Come mai, con tanti mezzi, vivevano là tra queli bottegari tignosi, negozianti in ritiro, commendatori da millecinquecento ar mese? 
«Mbè, l’idea de lo sgommero, la pigrizia. L’appartamento l’aveva comperato mi’ socero, ciaveva pure abitato co Liliana quann’era ancora una regazza. Co lei se semo conosciuti là»: e il pover’uomo, anche stavolta, non poté frenare le lacrime. La grossa voce gli tremò: «se semo sposati là! co Lilianuccia!» Il dottor Fumi si sentiva premere il pianto in gola pure lui: come un livello d’acqua, che alza in un pozzo. Il padre di Liliana, precisamente. Un colpo d’occhio, nel commercio! «Che vòle dottò?» Si praticavano già da qualche anno: relazioni d’affari. E allora... Lei, figlia unica: orfana de madre: uno splendore! Ah, belli tempi! 
S’ereno fidanzati, s’ereno sposati in quela casa. Poi, una volta marito e moglie... Se voleveno bene, se faceveno compagnia tra de loro. Una certa modestia nei gusti. Un certo riserbo. «La voja de nun fa fatica a faticà per Pinco: tant’e tanto! Un giorno o l’altro s’ha pure da morì: e fiji gnente. Manco lo facesse pe dispetto. E poi... l’armistizzio de la guerra! E poi oramai c’eravamo accomodati, avevimo preso l’abbitudine. C’era er termosifone, benché tanto callo nun è, ma insomma! Se po pure contentasse. C’era er bagno... Quarche scodella rotta, qualche sedia scompagnata. E chi nun ce l’ha? A Liliana poco je piaceva d’avé gente intorno. Co quel’idea fissa, oramai, d’adottà una regazza, pe forza!... E quela povera bestiola de Lulù, che nun voleva movese a nessun costo! Pure lei! 
Dov’era annata a finì, mo, povera bestia? Un brutt’augurio!» 
La guerra! Tutte le preoccupazioni pe l’esonero! Tutte le carte! Un affare! Pure, ce l’aveva spuntata. Esonero no, ma insomma. Un cinturone de cuoio, un pistolone: da fa paura a guardamme: scosse il capo. «A via Merulana, sicché... Nel diciassette, dopo du anni de fidanzamento a momenti, questi me sa che nun la pianteno, me so detto tra me. E allora, coraggio. Si propio l’abbiamo da fa, decidémese. S’aricorderà come se stava co l’appartamenti: tutti queli profughi! Da lo socero mio c’era posto: in artre parti nun se trovava. Me so messo... in casa de lo socero: nun c’era artro da fa. Quela casa era come si fusse nostra, vojo dì mia e de Liliana.» 
«Era il vostro nido, capisco.» 
«Capirà: quer poterte mette in maniche de camicia quanno te pare e piace.» Un gran desiderio de carma, dopo il lavoro, dopo i treni, de poté fa er commodo suo: de nun dovesse incaricà de tutti li pasticci der prossimo. 
E quella malinconia di Liliana. Quella specie di fissazione. E poi co li Santi Quattro là vicino. «Che Liliana, Madonna! guai a sentimme dì de portalla via da li Santi Quattro!» 
Tutto un po’ li aveva indotti a rimanere dov’erano: in quel maledetto palazzo del ducentodicinnove. Mo se ne pentiva... Chiunque artro, ar posto loro, avrebbe cercato de mejo. Ora lo capiva: troppo tardi! Un ber quartierino in Prati, un villino a lungotevere... Sospirò. 
«Ee... quanto al resto?...» 
«Quanto al resto? Mbè: semo ommini. Se viaggia... Un quarche capriccetto extra: se sa...» Il dottor Fumi lo guardava. Ma in quella direzione... un attimo de titubanza: un certo incremento, sia pur lieve, del naturale rossore de la faccia. 

Giuliano Valdarena aveva subito tre interrogatori in un giorno, a non voler contare il primo del giovedì, sul luogo del delitto, presente, per così dire, il corpo testimoniale della vittima. Tre funzionari tenevano dietro alla pratica, tre «segugi»: fra cui don Ciccio: il più accanito di tutti. Poi Fumi e il brigadiere Di Pietrantonio, o maresciallo che fosse. Ore e giorni preziosi: idee, congetture, ipotesi: che non approdavano a nulla Valdarena e Balducci, cugino e marito vennero posti a confronto: il diciannove mattina, ch’era sabato: Balducci era andato a dormire al D’Azeglio. Grave e serio il marito, più turbato e angosciato il Valdarena, più nervoso. Si guardarono in volto, si parlarono: pareva s’incontrassero dopo anni, avvicinati dal dolore: cercando l’uno sulla faccia dell’altro il motivo orribile del male, senza che tuttavia l’uno lo imputasse all’altro. Ingravallo e il dottor Fumi non li perdevano d’occhio un momento. Nessuna animosità. Giuliano inquieto, a tratti: come al ricorrere d’una ventata di paura. Le loro affermazioni non risultarono contraddittorie. Poco aggiungevano, pe non dir niente, a quanto era già stato acquisito. 
Mentre il dottor Fumi era sul punto di licenziarli, gli fu annunziata la visita «di 
un prete». «Chi è?» Don Lorenzo Corpi chiedeva di essere ascoltato per comunicazioni urgenti, «riguardanti il doloroso caso di via Merulana». Aveva parlato al brigadiere di servizio. Fumi, con un cenno della mano, fece uscire i due: 
il Valdarena scortato. Pregò il Balducci di volersi trattenere in questura. 
Fu introdotto don Corpi, che si tolse adagio il cappello: con un gesto prelatizio. 
Era un bel prete alto e massiccio, con qualche rado fil bianco appena appena tra i capelli corvini, con due occhioni di gufo molto vicini al naso: il quale, in immagine, in mezzo a loro, non poté non adeguarsi al becco. Decorosamente inguainato nella veste, reggeva dalla manca, inzieme cor cappello novo, una busta de cuoio nero de quelle che cianno certe vorte li preti, p’annà da l’avvocati a faje capi la ragione, de chi è. Du scarpe nere nere lustre lustre, lunghe e forti, bone da camminà su l’Aventino, oltrecché sul Celio, a sòla doppia. Uomo di notevole prestanza: e di eccezionale robustezza a giudicare dalle movenze e dal passo, dalla stretta di mano che regalò al dottor Fumi, dal pieno della tunica, in arto, e poi giù giù pe la vita: e dallo sventolare che fece a basso, indove annava a finì ch’era un sottanone de pezza forte che pareva la bandiera der Giudizzio. 
Dopo qualche un po’ imbarazzato o almeno assai cauto preambolo, datocché le più soavi guardate del dottor Fumi lo molcevano al dire, disse che: fuori Roma, a trovà certi amichi a Roccafringoli, su su in cima ai monti, a monte Manno, quasi, che da Palestrina ce se va cor ciuccio, e rientratovi da nemmeno venti ore, «appena udito del terribile incidente», s’era fatto premura di ricercare il testamento olografo a lui di propria mano affidato dalla «compianta» signora Balducci, ch’era anche andato a trovare al Policlinico la sera avanti, «pace all’anima». 
«In un primo tempo,» asserì, ancora tutto emozzionato e inorridito dalla «cosa», aveva avuto ragione di temere... che il documento gli fosse stato sottratto. L’aveva cercato un po’ per tutto, buttando all’aria tutte le carte, de tutti li tiratori de lo studio: ma non era potuto arrivare a scovarlo. A notte, di colpo, gli era venuto a mente: lo aveva depositato con altre buste e con certi... ricordi personali, al Banco di Santo Spirito. Difatti quella mattina c’era stato, appena apriveno, dopo avé detto messa alle sei. J’aveva preso un batticore, a momenti. 
Estrasse da quer portafogli di cuoio nero di vitello e porse al dottor Fumi, che la ricevé con la mano, molto bianca, una busta bianca formato mezzo protocollo, cm cinque sigilli di ceralacca scarlatta. La busta e i sigilli apparivano in perfetta regola: «Testamento olografo di Liliana Balducci». 
I tre funzionari, o meglio il dottor Fumi e Ingravallo, decisero di aprirla senz’altro: e di far lettura delle «ultime volontà della povera signora»: verbalizzando alla presenza di don Corpi e di quattro testimoni, oltrecché del richiamato Balducci. Ultime volontà: che doveveno tuttavia risalire a un par de mesi prima: ultime inquantocché non mutate. 
Consultarono anzitutto, pe telefono, il regio notaio dottor Gaetano De Marini a via Milano: 292.784: che al dire di don Lorenzo «doveva essere al corrente della cosa». Chiama e richiama, finalmente abboccò. Era sordo. Una segretaria napoletana lo assisté all’apparecchio. Caddero dalle nuvole tutti e due. Il Balducci conosceva il De Marini, alle prestazioni del quale tanto il padre di Liliana che lui stesso avevano più volte ricorso: ma «gli parve di poter escludere» che per il suo proprio testamento Liliana si fosse rivolta a quer vecchio bagarozzo, simpatico e furbissimo, ma atrocemente sordo nella rocca della sua competenza. 
All’ufficio di testimoni vennero adibiti due scritturali e due agenti. Il cerimoniale fu subito espletato: era mezzogiorno o quasi: un’altra mattina sfumata via, senz’essere venuti a capo di nulla. 
Il testamento, man mano che il dottor Fumi veniva recitandolo a voce alta, per vividi accenti, con risonanze napoletane dai quattro cantoni del soffitto, manifestò via via tutta un’andatura imprevedibile: come l’avesse redatto in istato di particolare commozione persona alquanto abbandonata alla penna, se non proprio alterata nelle facoltà. Da quella molle, calda, suasiva lettura, efficacissimamente condotta nei più armoniosi toni del Golfo, gli astanti poterono raccapezzare con crescente interesse, e con crescente meraviglia, che la povera Balducci rendeva erede il marito d’una minor parte della sua sostanza, con alcuni ori e gioie: la legittima, per così dire: quasi la metà. Una cospicua porzione scivolò invece «alla diletta Luigia Zanchetti detta Gina, del fu Pompilio e di Irene Spinaci, nata a Zagarolo ai dì 15 aprile 1914.» A lei, povera creatura: «dacché l’imperscrutabile volere d’Iddio non ha creduto concedermi la gioia d’esser madre.» 
Il Balducci non rifiatò: faceva una faccia come se fosse lui il colpevole. O forse è più facile ch’era l’idea de tutta quella bona roba (ammàppelo!) che pijava la strada de Zagarolo. Fino alla maggiore età della pupilla il malloppo doveva essere conferito, per l’amministrazione, a due curatori o probi uomini che fussero, uno dei quali il Balducci, «mio marito Remo Eleuterio Balducci, padre col cuore se non pel sangue della derelitta Luiggia.» La madre della Luigia, secondo il testamento, era «ammalata di un male che non perdona» (tubercolosi, probabilmente complicata di priapomania): di quando in quando si sbronzava a Tivoli con un suo drudo macellaro: e ci voleva poi del bello e del buono perché i carabinieri non la rispedissero a Zagarolo con foglio di via obbligatorio: data «l’incapacità di sussistere coi propri mezzi» e data anche la fattispecie: pubblico scandalo. Il macellaro, non si capiva di preciso in che modo, riusciva a tacitarli ogni volta: quasi certamente con l’argomento irresistibile del «filetto di prima» (prima qualità) cioè che alla povera malata conferiva molto di più il suo rosbiffe, che non l’aria anche troppo fine di Zagarolo e conseguente appetito a vuoto. Altre volte la picchiava come un tappeto: lei tossiva e sputava sangue, poveretta, se non ancora gelatina di lamponi: «che cosa ho fatto, dopo tutto?» Aveva raccolto mammole a Villa d’Este o qualche pratellina di marzo a Villa Gregoriana, un po’ prima d’arrivare alla cascata. Un futuro suddito del Baffo-belva, munito di Zeiss, all’esplorare con quella perfezione de cannocchiale tutto il poggio di Venere Brodolona palmo a palmo di fil d’erba in fil d’erba, more deutonico, tutt’a un tratto nun gli scappa de vede sotto er sole a picco una specie di ragno aspiranteespirante: uno strano groppo, all’ombra d’un gran cespo di lauri, der più gregoriano, secondo er su Bedecche, de tutti li cespugli de Tivoli: una specie de schiena, in d’una specie de giacca de zappatore: con quattro gamme e quattro piedi, però: di c ui due a rovescio. E quella schiena così rubesta appariva in preda a un’esagitazione infrenabile di natura alternativa, ritmata al metronomo. Il cannocchialante foca s’era creduto allora in dovere di riferire all’amministrazione - «Verwaltung, Verwaltung!... Wo ist denn die Verwaltung? drüben links? Ach so!...» - che aveva cercata a lungo, in sudore, e finalmente scoperta: e dove non c’era anima viva, perch’ereno a casa loro a magnà: e a fasse una dormita doppo pranzo. Padre Domenico, la domenica dopo, tuonava alle nove dall’ambone di San Francesco: un par de pormoni! Ce l’aveva co certe donne svergognate, così in genere, e je garantiva l’inferno, giù giù: una sistemazzione propio pe la quale: tritticava qua e là co la testa, e cor pugno alzato, come pe dì un po’ a Marta, un po’ a Maddalena, un po’ a Pietro, un po’ a Paolo. Ma capiron tutti fin dal primo ruggito che mise dove sarebbe andato a parare: co quell’occhi de fora e co quela rabbia che pareva dovesse mozzicà quarcuno, che poi però se carmò, piano piano: e annò a sbatte de filato in testa ar diavolo, dove finì de sfogasse: quello zitto zitto, de sotto, chiotto chiotto, da la paura che je mise: e poi risalì dolce dolce verso «le bellezze di natura largite in tanta copia a questa vostra Tibur dalla somma provvidenza di Dio», nonché verso i «prodigi dell’arte e della carità patria così provvidamente dispensati a questa antica terra dalla provvida mano del romano pontefice Gregorio sedicesimo, dopo il grande cataclisma tellurico del 1826 e la spaventosa piena del nostro Aniene»: della piena dell’Aniene condivideva l’orgoglio, essendo nativo di Filettino, a poca distanza da le sorgenti e a 1062 metri sul mare. «Oggigiorno ahimè contagiati,» sia i prodigi che le bellezze, «dall’alito infetto e greveolente della tenebra: ch’è dovunque in agguato: dovunque capisce che può perdere una creatura, che può strappare un’anima alla salvazione»: perfino a villa Gregoriana. 
Venuto al male che non perdona, il dottor Fumi incespicò, tossì: come accade per un minùzzolo, quando voglia derogare in trachea. Accaloratosi nella lettura, a un certo punto gli era andata un po’ di saliva in traverso. Dài e dài, quell’accesso di tosse voleva scardinargli i polmoni. 
Il volto appena colorato, ma le vene tumefatte, su la fronte: tutto il macchinone inturgidito da un deflagrare di cariche interne, che però non arrivavano a schiantarlo. Si riprese: gli avevano battuto sulla schiena. Poco a poco sì rimise in carreggiata, con la voce, anzi, schiarita. Pareva ora, ad ascoltarlo, un patrono di parte che s’inabissi nei toni cupi della perorazione e d’una calma apparente, ma foriera del peggio: in attesa di prorompere alla mozione demoniaca: «della derelitta Luiggia». Una discreta somma, quarantottomila, al cugino dottor Giuliano Valdarena di Romolo e di Matilde Rabitti, nato eccetera. Item: l’anello con brillante «lasciatomi dal nonno, cavaliere ufficiale Rutilio Valdarena, a titolo di sacro deposito: e la catena d’oro da orologio con ciondolo in pietra dura» (sic: nec aliter) «appartenuta al medesimo». Item: «tabacchiera di tartaruga legata in oro», e infine qualche ghiandolina d’onice o pallina di lapislazuli, esse pure di provenienza agnatizia: «perché ricordandomi come una sorella, che dal Cielo pregherà costantemente per lui, segua l’esempio luminoso dei nonni Valdarena e dell’indimenticabile zio Peppe» (lo zio Peppe, difatti, oblatore per forza del fascio nomentano, tirava ancora tabacco dalla tartaruga nel 1925, a viale della Regina 326) «e si studi di percorrere ognora le vie del bene, le sole che possono riconciliarci nella vita e nella morte al perdono d’Iddio». Non aveva dimenticato neppure la vecchia ex-domestica Rosa Taddei, paralitica all’ospizio de San Camillo: né l’Assunta Crocchiapaìni (in realtà Crocchiapani: fu errore di lettura dovuto all’olografo, o forse a una svista del dottor Fumi), vergine albana senza parletico redimita di un alto silenzio, con occhi fulminatori: «alla fiorente giovinezza della quale desidero ed auspico fin da oggi, con tutto il mio cuore di donna, la sublime felicità di una prole cristiana». Legava all’Assunta, fra l’altro, sei lenzoli a du piazze matrimoniale, diciotto federe: e dodici asciuttamani co la francia, indicando quali. Seguiveno lasciti vari, ma tutt’altro che disprezzabili, ad opere e ad istituti femminili: qualche legato alle moniche de Sant’Orsola, ad alcune conoscenti, ad alcune amiche, a diverse bambine e giovinette, «oggi teneri fiori dell’innocenza, domani con la protezione del Signore madri benedette alla nostra Italia». 
Infine un borsino de ventimila lire al medesimo e lì orecchiante senza averne l’aria don Corpi, con un Crocefisso d’avorio co la croce d’ebano, «perché mi assista delle sue buone preci nel cammino di purgazione fino alla Speranza celeste, come in questa valle di triboli mi ha sovvenuto col suo consiglio paterno, e con la dottrina della Chiesa.» 
«Chesta è na femmena comme ce ne stanno poche!» esclamò il dottor Fumi battendo con due nocche della man dritta su quelle povere carte, dov’era trascorsa la mano gentile della trucidata (le reggeva intanto con la sinistra). 
Tutti tacevano. Il Balducci, non ostandovi quelle erogazioni, parve lui per primo aver le lagrime agli occhi. In realtà, senza giungere a tanto, dava a divedere d’essere persuaso pure lui. La calda, la deduttiva sonorità della voce, della frase, aveva persuaso un po’ tutti: chi a prendere, chi a rinunciare: come adunando le anime sgomente sotto al ferraiolo del voler di Dio. Una bella voce maschile e partenopea, quando aggalli dai limpidi fondali della deduzione, come nudità chiara di sirena da lattescenze marine alla luna di Gajola, va spoglia affatto e in ogni comma di quel modo cosi rabbiosamente asseverativo ch’è proprio a certe bestiacce del nord, e a’ loro condottieri ammogliati-brustolati: (in un falò di benzina). Piace, piace al nostro orecchio di abbandonarsi a tanto felice argomentare come conquiso turacciolo dal dolce filo di correntia verso a valle, verso dove chiama il profondo. La fluenza sonora non è che il simbolo della fluenza logica: la polla dell’enunciazione eleatica s’è derogata in una trascorrenza: ribollendo nelle disgiunzioni o dicotomie dello spirito o nelle cieche alternazioni della probabilità, sì perpetua in un deflusso drammaticamente eracliteo, “panta de polemos”, pieno di urgenze, di curiosità, di brame, di attese, di dubbi, di angosce, di speranze dialettiche. L’ascoltatore viene abilitato a opinare in qualunque direzione. L’istanza della controparte si polverizza in quella voluttà musicale, si rapprende con un nuovo naso, come l’erma di Giano guardata in faccia: e subito dopo da dietro. 
Tutti tacquero. 
Al leggere, o all’udir leggere con tanta partecipazione quel testo, un po’ fuori dell’ordinario per vero, si sarebbe creduto che nell’atto del redigere l’olografo la povera Liliana. in preda a una specie di follia, di allucinazione divinatoria, già presagisse come imminente la propria fine: se non anche, addirittura, che avesse premeditato il suicidio. Il testamento recava la data del 12 gennaio, due mesi prima: il suo genetliaco, osservò il marito: poco dopo la Befana. Era «lo sfogo di un’esaltata», opinò tacitamente qualcuno. Anche la scrittura, al Balducci, a don Ciccio, a don Lorenzo, rivelava certa sconnessione, certa agitazione: un grafòlogo vi avrebbe lucrato la perizia. Una strana ebrezza al distacco dalle cose, e dai loro nomi e dai simboli: quella voluttà del commiato che subito distingue le coscienze eroiche oltrecché le menti a insaputa loro suicide: quando uno, non anco messosi al viaggio, magari, di già si ritrova con un piede su la battima, alla riviera di tenebra. 
Ingravallo pensava: pensò perfino che il Natale, che il Presepe, che la Befana... coi loro bimbi, con le loro strenne, coi magi... con quella raggera di fili d’oro sotto al Bambino... paglia al presepe, luce della divina scaturigine... potessero aver addensato, come in un nembo mentale, certe fissazioni malinconiche della signora: 12 gennaio. La povera testatrice, in quel punto, non doveva avere tutti i sentimenti a posto. Mannaggja: eppure... eppure aveva mantenuto le disposizioni prese: nulla aveva mutato, nemmeno in seguito, in febbraio, in marzo: nemmeno una sillaba. Perciò anzi aveva affidato il testamento a don Corpi, raccomandandogli di «nasconderlo e dimenticarlo». 
Formula enigmatica: già chiara a don Ciccio, però: dimenticarlo quanto la durata di sua vita, come bramasse di vedere sepolto al più presto quel turpe elenco di averi: quelli che soltanto nell’ultimo smarrimento di sé le era conceduto di disperdere: quelli che la riconducevano a ogni nuovo giorno verso gli obblighi e verso le ragioni inani del vivere, mentre già l’anima tendeva a una sorta di espatrio (la cara anima!) dal paese inutile verso matemi silenzi. La città e le genti avrebbero conosciuto il futuro. Lei, Liliana... Oblioso dei banchi e dei gridi, con brevi ali di opale, nell’ora dolce, quando ogni commiato è necessario e ogni già tepido muro trascolora nella notte, Ermes apparitole nella sua vera essenza avrebbe alfine risguardato alle porte, con tacito imperio: quelle da cui ci si parte, alfine, fabulando popolo ad urbe, a discendere, discendere, in una più perdonabile vanità. «Evasi, effugi: spes et fortuna valete: nil mihi vobiscum est: ludificate alios:» al museo lateranense: un sarcofago: Liliana aveva ritenuto chella frase: lo aveva pregato di tradurla. 
Quel dare, quel regalare, quel dividere altrui! pensò Ingravallo: operazioni, a suo modo di vedere, tanto disgiunte dalla carnalità e in conseguenza dalla psiche della donna (femminuccia, credeva lui di certuna, borghesuccia) che tende viceversa a introitare: a elicitare il dono: a cumulare: a serbare per sé o per i figli, bianchi o neri, o caffelatte: o comunque a sciupare e a dissolvere senz’altrui donare, mandando a fumo centomila carte nel culto di sé, del proprio collo, del proprio naso, dei lobi o dei labbri, mai però - e don Ciccio si accaniva, in una maniera di prestatuito delirio - mai però in onore delle concorrenti: e tanto meno delle rivali più giovani. Quel buttare, quel dissipare come petali al vento o come fiori nel ruscello tutte le cose che più contano, le più tenute a chiave, le lenzuola! contrariamente alle leggi del cuore umano che, se regala, o regala a parole, o regala il non suo, finirono di rivelargli, a don Ciccio, l’alterazione sentimentale della vittima: la psicosi tipica delle insoddisfatte, o delle umiliate nell’anima: quasi, proprio, una dissociazione di natura panica, una tendenza al caos: cioè una brama di riprincipiar da capo: dal primo possibile: un «rientro nell’indistinto». In quanto l’indistinto soltanto, l’Abisso, o Tenebra, può ridischiudere alla catena delle determinazioni una nuova ascesi: la rinnovata sua forma, la rinnovata fortuna. Valevano ancora a Liliana, era pur vero, le potenti inibitive e, più, le coibitive della Fede: gli enunciati formali della dottrina: il simbolo operava come luce, come certezza. Irradiata nell’anima. così rimuginava Ingravallo. I dodici lemmi avevano avuto per effetto di incanalare la di lei psicosi verso l’imbuto di un testamento olografo perfettamente legale. Il bilancio della morte era chiuso al centesimo. Al di là del confessore, e notaro, i limpidi spazi della Misericordia. O, per altri, l’ignota libertà del non essere, gli evi liberi. 
La personalità femminile - brontolò mentalmente Ingravallo quasi predicando 
a se stesso - che vvulive dì?... ‘a personalità femminile, tipicamente centrogravitata sugli ovarii, in tanto si distingue dalla maschile, in quanto l’attività stessa della corteccia, int’ ‘o cervello d’ ‘a femmena, si manifesta in un apprendimento, e in un rifacimento, d’ ‘o ragionamento dell’elemento maschile, si putimme chiamarle ragionamente, o addirittura in una riedizione ecolalica delle parole messe in circolo dall’uomo ch’essa ci ha rispetto: da ‘o professore, da ‘o commendatore, da ‘o dottore de ‘e femmene, da l’avvucate ‘e lusso, o da chillo fetente d’ ‘o balcone ‘e palazzo Chigge. La moralità-individualità della donna si rivolge per addensamenti e per coaguli affettivi al marito, o al facente funzione, e dai labbri dell’idolo dispiccica l’oracolo quotidiano della sottintesa ammonizione: ché uomo non è, che non si senta Apollo nel sacello delfico. La qualità eminentemente ecolalica della di lei anima (il concilio di Magonza, nel 589, le concesse un’anima: a un voto di maggioranza) la induce a soavemente farfallare d’attorno al perno del coniugio: plastile cera, chiede dal sigillo l’impronta: al marito il verbo e l’affetto, l’ethos e il pathos. Donde, cioè dal marito, il lento e greve maturare, il discendere doglioso dei figli. Mancandole i figli, sentenziò Ingravallo, il marito cinquantottenne decade senza suo demerito a buon amico ma di gesso, a ornamento piacevole della casa, a delegato e segretario generale della confederazione dei sopramòbili, a mera immagine ovvero cioè manichino di marito: e l’uomo in genere (nel di lei apprendimento inconscio) è degradato a pupazzo: un animale infruttifero, con un testone finto da carnevale. Un arnese che non serve: uno sdipanato succhiello. 
È allora che la povera creatura si dissolve, come fiore o corolla, già vivida, che renda al vento i suoi petali. L’anima dolce e stanca vola verso la crocerossa, nell’inconscio «abbandona il marito»: e forse abbandona ogni uomo in quanto elemento gamico. La personalità di lei, strutturalmente invida al maschio e solo racchetata della prole, quando la prole manchi accede a una sorta di disperata gelosia, e, nel contempo, di sforzata “sympatia” sororale nei confronti delle cosessuate. 
Accede, potrebbe credersi, a una forma di omoerotia sublimata: cioè a una paternità metafisica. La dimenticata da Dio - e Ingravallo smaniava oramai di dolore, di rancura - accarezza e bacia nel sogno il ventre fecondo delle consorelle. Guarda tra i fiori de’ giardini i bambini delle altre: e piange. Si rivolge alle monache e agli orfanatrofi pur di avere la «sua» creatura, pur di «fare» anche lei il suo bambino. Intanto gli anni chiamano, dalla lor buia caverna. La carità educatrice, d’anno in anno, ha surrogato la fiala soave dell’amore. 

Un’altra circostanza emerse nel frattempo da minuziosa (beninteso) perquisizione ordinata e operata presso il Valdarena: che abitava in Prati, in una bella camerastudio a via Nicotera: un villino: mentre al suo posto e nel suo letto de giovinotto, in famiglia, ossia da la nonna (la zi’ Marietta de Liliana) ci si accucciava e ci dormiva, estromessone il prete ma non il veggio, quel mucchietto d’ossa de zi’ Romilda: la vedova dell’indimenticabile zio Peppe. Sul marmo del cassettone, a via Nicotera, «fu rinvenuto» un ritratto de Liliana: dentro, ner primo cassetto, un anello d’oro da uomo con brillante: e una catena d’oro da orologgio, assai greve, parecchio lunga. «Chesta è na catena ‘e nave,» fece Ingravallo mostrandola al Balducci: che riconobbe i due oggetti come già pertinenti al «tesoro» della moglie. Senz’astio, e senza particolare stupore. 
La catena, da un capo, terminava nel caratteristico dispositivo di aggancio a molla (della maglia dell’orologio): e dall’altro in un’asticciuola d’oro, cilindrica, infilabile in occhiello del gilè: uno dei nove più elevati degli allora dodici: ad libitum. (Giusta il prescelto occhiello, «spiccata personalità».) E, poi, l’attacco del ciondolo. 
Notò subito il Balducci che il grosso ciondolo bilicante aveva mutato di pietra. Era una specie di reliquiario: ovale: una minuscola pace orolegata e tenuta da una staffa d’oro, sì da poter altalenare e anzi revolversi affatto sotto quell’arco, pungendola ai fianchi due pernetti invisibili: oro, oro: tutta fu oro, oro pieno, oro zecchino, oro bello, oro rosso, oro giallo, su le nocchiute dita e su le panze secche dei nonni, ciò che ad oggi l’è carta frusta e schifosa piena di miseria e di peste, o vuota ciancia nel vento. Fetente vento da carestia, cor sapone a trecento lire il chilo. Nella cornice era incastonato un bellissimo diaspro, con tegumento d’una lastrina d’oro, de dietro, a rivoltallo fra li diti. Di forma ellittica pure lui: è naturale. Un diaspro sanguigno: pietra verdecupa in un tono lucido quasi di foglia palustre che tirava a certi nobili tagli, o canti, o spicchi d’arco, da signoria secreta in palagio nelle architetture del forlivese o del Mantegna, o ne’ riquadri marmo dell’Andrea d’i Castagno a parete: con esigue venuzze d’un cinabro vermiglione come striature de corallo: quasi cagliato sangue, dentro la verde carne del sogno. In carattere detto gotico, e interlegate e intrecciate nel glittico, le due cifre G.V. Sul verso, liscia, esatta, la piastrina d’oro chiaro. 
Tutte ste novità in luogo dell’opale azzurro cenere che il Balducci vi aveva veduto l’altre volte: pietra a due facce, recto e verso, e pure dimolto bella, spiegò all’Ingravallo: ma... Pietra sublunare, pietra elegiaca, dalle dolci e soffuse lattescenze come di cielo nordico (nuits de Saint Petersbourg) o forse di colla di silice, posata e raggelata adagio a luce fredda, nel crepuscolo-alba del 600 parallelo. In una faccia era inciso il monogramma R.V., Rutilio Valdarena: liscia l’altra. Il nome der nonno, dell’archetipo di tutti i Valdarena: che da pupetto era bionno de capelli: biondo rosso, dicevano. Morto il nonno, la catena (col ciondolo) era andata allo zio Peppe, sul cui gilè di velluto nero a puntolini gialli aveva gravitato quarche mese, la domenica e l’altre feste de precetto. A Liliana l’aveva destinata il nonno, certo: a Liliana: nonno Rutilio: che però l’aveva provvisoriamente legata allo zio Peppe, in una sorta di fidecommesso equitativo. Nei confronti dello zio Peppe il ciondolo di opale aveva agito senza por tempo in mezzo: non però come ciondolo, con il tepore benigno e benefavente di tutti i ciondoli e di tutti li corni e-cornetti, ma con le sinistre attitudini cancheromotrici di che andò perfusa ab aeterno la nobile e malinconica frigidità della gemma. Dopo sette mesi e mezzo dalla morte del nonno, lo zio non aveva potuto sottrarsi all’obbligo, prettamente opalino, di trasferire a Liliana la proprietà della catena d’oro, a norma del testamento paterno: con attaccato quel balocco. Poiché fu allora, dichiarò cupo il Balducci, che lo zio si era reso indimenticabile. 
«Povero e caro zio Peppe!» lacrimavano i superstiti. Il Balducci ne rivedeva ancora le fattezze dentro il memore specchio del cuore, di marito della nipote. Allogato là, nel suo seggiolone, in un soufflé di cuscini, tra i congiunti che pendevano dalle sue labbra, due bei bafficci grigi di foca e due dentoni gialli di cavallo ne orchestravano il mesto sorriso, il buon sorriso giallognolo di «vecchio galantuomo antico stampo», ex-cliente emerito delle terme di Chianciano. Mentre in quella postura così abbandonata ai pareri del dottor Reccari, e con quella luce nei baffi e negli zigomi, un po’ mongoloide, celebrava in famiglia la gran virtù della stessa e di tutta l’erba Valdarena in genere, il ciondolo azzurrino del dì del Signore soleva albergare sul di lui nero panciotto in corrispondenza del duodenofegato. Titillata dai magri, cerei diti del fidecommissario, la genuna li soprastava entrambi, tanto il duodeno che il fegato: un po’ per uno, magari: come una ragazza che tenga a bada du innamorati a la volta. Fu precisamente di un cancro al fegato, concomitato da un confratello al duodeno, che il portatore di opale si trovò ridotto a soccombere. 
Potente emanazione dello scarognato biossido! a carico del pacco addominale, madonnabona, e di metà le trippe del Peppe! Presenza testimoniale d’una luce invisibile, era figlio, quel talismano all’incontrario, della non imitata elegia; alfiere all’alba lontana di settembre, paggio all’azzurrolattea reticenza del semestre polare. Degno, per la sua nobiltà, di aver ingemmato il dito a un conte de palazzo addormitosi a Roncisvalle con sette finestre nel cuore: o ad un visconte, impallidito a un tratto nelle prigioni di settembre. Portatore della jella doppia, congetturava Ingravallo, data la doppia faccia. La biscarogna doveva uscire dal biossido. Il cancro abbinato duodeno-fegato è degli ambi che più raramente si estraggono in cancherologia, dalla moderna cabala cancherologica: tanto in Europa che fuori. 
Tutti, là pe là, je prese come una paura: aveveno principiato a toccà ferro, chi de qua chi de là. «Quanto a Liliana, embè, me pare a me, dottò...» e stavolta ancora il povero Balducci ebbe un singulto, la voce gli tremò. Piangeva. A Santo Stefano der Cacco veniva convocato ogni giorno, se po dì. 
Nella scrivania piccola vicino ar balcone, a via Nicotera, il maresciallo Di Pietrantonio, coadiuvato dall’agente scelto Paolillo, ritrovò diecimila lire: in dieci fogli da mille novi novi. I famigliari, costernati dalla morte di Liliana, poi dal fermo arbitrario, dicevano, del giovanotto, non seppero indicarne la provenienza. Alla Standard Oil esclusero di avergli dato del denaro, dopo le ordinarie spettanze di fine febbraio. Diecimila lire! Poco probabile che Giuliano le avesse, magari in un anno, risparmiate sulla paga: di neolaureato e di agente in subordine: di giovine rappresentante: di bel giovane. Co le spese del matrimonio alle viste, il che torna a dire già in parte affrontate. 
Uno stipendio, per quanto buono, e qualche interessenza sugli affari da lui curati potevano permettergli di mangiare, a Roma, vestirsi, lavarsi, e pagarsi la bella camera con bagno dalla sora Amalia: manicure e sigarette a parte: a parte le fettuccine della nonna. Le donne, dato il fascino, quello che ingelosiva tanto don Ciccio, sembrava non dovessero costargli molto. «Aveva molti inviti», a detta dei parenti: e anche della padrona di casa ma non padrona del villino. «In camera, riceveva, sì. No, non la signora del ritratto. Qualche signora dell’aristocrazia...» 
(così gorgheggiò). Ingravallo tirò un respiro «mentalmente», con molto riguardo. La camera aveva ingresso libero. Nell’enunciare la quale prerogativa dell’ente camera lei, la padrona, fece na voce seria, superba, come un impresario edile quanno dicono: «posizione panoramica, tripli servizi». 
«Soprattutto dei grandi inviti. perché tutti gli volevan bene.» «O piuttosto tutte,» grugnì don Ciccio dentro di sé, nel rimirare quegli occhioni della sora Amalia fonni fonni, cerchiati de du quarti de luna blu che je daveno riscontro ai du quarti de luna d’oro che ciaveva agli orecchi: che ar primo rigirà la testa pareva le dovessero fare cin cin. Come a un’odalisca der Sultano. 
Ingravallo sottopose il Valdarena, già udito quel giorno, a un ennesimo interrogatorio. Notte fatta, le sette emmezzo. Aveva acceso, a rincalzo, una lampadina «speciale» che discendeva sul suo tavolo. Gli mostrò a un tratto, senza preavviso, «i corpi del reato»: e cioè la catena, l’anello col brillante, i dieci fogli da mille, a non voler includere tra i corpi la fotografia de Liliana, che però a buon conto ci aveva lasciato pure quella. Il Valdarena, al vedere quel denaro e quegli oggetti sul tavolo insieme al ritratto de Liliana, arrossì di colpo: don Ciccio aveva tolto via un giornale che li nascondeva. Il giovane sedette: poi lentamente si rialzò, si riasciugò il sudore della fronte: si n’compose: guardò negli occhi il predace. Ebbe uno scatto del collo, di tutta la testa, con un volo della zazzera: come deliberato buttarsi al peggio. Entrò invece nella fase ardita, quasi anzi eloquente, della propria ostinazione e della propria apologia: tacque mezzo minuto, poi: «Signor commissario,» gridò con l’alterezza di chi rivendica la liceità di un fatto, di un sentimento d’altra persona, che tuttavia lo riguarda: «è inutile ch’io continui a tacere, o pe rispetto umano, o pe riguardo a una morta, a una povera creatura assassinata: o per vergogna di me stesso. Liliana, la povera cugina mia, sì, mi voleva bene. Ecco tutto. Non mi amava, forse... No. Dico nel senso... in cui mi avrebbe amato un’altra donna, al suo posto. Oh! Liliana! Ma se la sua coscienza di donna» (sic) «glie lo avesse conceduto, la religione in cui era nata e cresciuta... be’, son certo che si sarebbe innamorata di me, che mi avrebbe amato pazzamente.» Ingravallo impallidì. «Come tutte.» 
«Già, tutte.» 
Il Valdarena non sembrò raccogliere. «Il grande sogno della vita, per lei, era... di congiungersi a un uomo,» guardò il nero don Ciccio, «a un uomo, o magari anche a un serpente, che le potesse dare la creatura sospirata: la sua creatura, il pupo... atteso poi invano per tanto tempo, nel pianto. Piangeva, pregava. Quando cominciò a capire che gli anni non li teneva più nessuno, addio! Povera Liliana! Nella sua esaltazione non voleva riconoscere l’incapacità propria: non ammetteva, no. Pur senza dirlo a parole, su le labbra, fantasticava che con un altro, forse... 
Creda, dottore: esiste un orgoglio fisico, una vanità della persona, delle viscere. Noi uomini, se sa, chi più chi meno, pe natura nostra, semo tutti quanti una manica... de gallinacci che fa la rota. Ce piace d’annà a passeggio ar Corso. 
«Ma pure le donne cianno er su’ puntiglio: puntiglio fisico, dico. Lei ce lo saprà mejo de me.» Ingravallo se mozzicò l’anima sua, nero com’er temporale. «Lei, Liliana, parlandole certe volte da solo a sola, come si fa tra cugini, sa, lo vedevo bene... lei viveva de quella fantasia, se po dì: che con un altro... Con un altro! Una parola! dopo tutta la religione che ciaveva! Sicché in sogno, lei, dentro le sue viscere, le pareva de crede, le pareva de capì... che quell’altro, quell’uomo, avrei potuto esser io...» 
«Ah,» fece don Ciccio, «congratulazioni sentitissime!» Una smorfia atroce, una faccia di catrame. 
«Non rida, signor commissario!» gridò enfaticamente il detenuto, tutto risfolgorante del suo giovane pallore nella luce «speciale» dei cento watt. «No, non rida! Tante volte Liliana m’ha parlato! M’ha detto ogni volta, che aveva amato Remo... sinceramente: cioè un po’ da oca, direi, poverina.» Ingravallo, in cuor suo, non poté non concedere: «figlia unica! senza madre, senza esperienza...» Lo aveva amato: «dal primo giorno che lo aveva visto», naturalmente. «Lo amava tuttora, lo stimava, povera Lilianuccìa!»: la voce esitò, poi si disincagliò: «Per nulla al mondo, religione a parte, avrebbe potuto pensare di tradirlo. Ma il vedersi passare gli anni a quel modo, gli anni belli, senza nemmeno la speranza... d’un frutto dell’amore... era, pe lei, era come una delusione torturante. Se sentiva umiliata, come se sentono tutte quando je va male er pupo: più ancora ch’er dispiacere è il dispetto, a pensà che l’artre donne trionfeno, e loro no. La più amara di tutte le delusioni della vita. così, per lei, il mondo non fu altro che noia: non fu altro che un gran piangere. Un pianto che non le dava nessun conforto. Noia, noia, noia. Un pantano de noia. Da diventà matti.» 
«Mbè, noia, noia... E ‘a catena, e ‘o brillante? Veniamo ai fatti, dottò. Ca mme pare ca stammo perdenno ‘o tiempo. Lassamo, lassamm’ì sti voli... romantici»: fe’ un gesto, come a dar licenza a un volatile, a incuorare il falcone verso l’azzurro. «Parliamo nu poco ‘e sta catena ‘e camino»: e, presala da un capo, glie la faceva altalenare sotto il naso: e lo guardava fermo negli occhi, nero: «’e sto ninnolo», e andava soppesandolo con l’altra mano, «tanto piccirillo». Sembrò, incuriosito al massimo, volerlo minutamente osservare: come uno scimmione cui sia caduto a mano un fischietto. Riccioluto e nero, quel testone di pece così chino sulle dita e sul metallo che fa gola a tutti, pareva irradiare tenebrosi preconcetti: e che il chiarore procedurale della stanza, appena spuntati i preconcetti, li sforzasse ad arricciolarsi a quel modo, a permanere, come un lucido e carbonioso vello, sul cranio: «Abbiamo letto il testamento della signora Liliana, pace all’anima, povera chella femmena: e li lasciava a voi», e depose la catena, e prese di sul tavolo e principiò a soppesar nel palmo l’anello, «pecché ‘o nonno viecchio Romilio, dice il signor Balducci, comme se chiamava? Romilio? dico bene? Ah, Rutilio? ‘o nonno Rutilio vuleva che rimanessero ai nepoti. al sangue suo... in famiglia, capisco, capisco, e cioè a voi, che ne site ‘o campione. Ma com’è che li abbiamo trovati a casa vostra? Com’è che l’opale è diventato un onice? un aprì?... vulevo dire... un diaspro?...» 
Giuliano levò la destra, che apparve bianca, vivida e appena tracciata d’azzurro, le flessibili vene dell’adolescenza: mostrò all’anulare il magnifico diaspro che il carcere non gli aveva tolto: quello che Ingravallo ricordò d’avergli veduto sul dito dai Balducci, dopo il desinare del 20 febbraio, mentre prendevano il caffè. «Voleva accompagnarlo a questo,» rispose. «Lei voleva che sposassi, che facessi un pupo. L’avrai di sicuro, mi diceva ogni volta: piangeva. Quanno le dissi che sposavo (su le prime nun ce voleva crede), che sarei annato a sta’ a Genova, appena le mostrai le fotografia de Renata, mbè, no, nun posso dì che fu gelosa, come sarebbe stata un’altra donna... Anzi, com’è bella, mi disse; un po’ a denti stretti, però. È bruna, non è vero? Bella figliola: va propio bene pe te, che sei biondo come un angelo. Se mise a piagne. Appena fu persuasa der matrimonio, e che non era una storia... lei, dottò, nun ce crederà... me pare de diventà matto... me fece subbito giurà, subbito subbito, che avrei fatto subito un pupo: un Valdarenino. Un Valdarenuccio, diceva fra le lacrime; giura! ma caruccio caruccio. Era impazzita, povera Liliana, una donna così a posto come lei! Povera Lilianuccia nostra! Lo avrebbe adottato lei, quello: perché io e Renata, seconno lei, ne facevamo subito un altro, un terzo, un quarto: e quelli, allora, erano per noi. Ma lei, diceva, aveva diritto sur primo. La Provvidenza, a noi due, a Renata e a me, de crature ce n’avrebbe date quante ce pareva. perché il Signore è fatto a sta maniera, diceva: a chi tutto, a chi gnente!» Ed è in ciò, appunto, che si manifesta la sua misteriosa perfezione. «Tu sei giovane, diceva, sei sano... (come un corno de corallo, dottò, questo lo dico io)... come un Valdarena. Appena sposi, tu fai un figlio: me pare de vedello, me pare de sentillo... Si nun l’hai già combinato a metà strada. Rideva, piangeva. E quello me devi da giurà che me lo dài a me. Insomma, che glie lo facevo adottà: come fosse fijo suo. 
«E che me dài se te regalo er fijo mio? le dissi una volta. Era già passato Natale, Capodanno... era passata la Befana. Che! a più che metà gennaio, eravamo. Scherzavo. Chinò il capo. Si mise come a pensare... stanca, tristemente: come una poverella, che non avesse nulla da damme in cambio: che dovesse chiedere per carità. L’amore? no, no, nun volevo dì quello: non intendevo dire l’amore, scherzavo. Lei impallidì, se buttò a sede che pareva disperata». Anche Ingravallo impallidì. «Mi guardò con quei du occhi, implorando. Le si velarono gli occhi. Me prese pe le dita: de la mano destra. Guardò l’anello de’ mi’ madre, questo qui: principiò a sfilallo. Me l’hai da lascià pe quarche giorno, disse. Perché? Perché sì: perché devo accompagnallo col regalo che te vojo fa. Glielo lasciai. E la volta dopo che cianniedi - Remo stava in viaggio, stava a Padova, io, senza sapello, ero andato a casa a trovarli -, la volta dopo... appena mi vide me restituì l’anello mio, poi, senza tante storie, mi fece come un cenno... un sorriso come se fa a li pupi. Tieni, mi disse, e me guardava: tieni! Me prese la mano, e m’infilò su l’anulare quelo lì, l’anello der nonno suo: che questo de mi’ madre lo porto invece sur medio, come vede. Tieni, Giuliano, bada, è l’anello del nonno! del mio nonno, del tuo nonno; anzi bisnonno, per te: che era bello, buono, forte! Un uomo, era, come te! come te!» (Quel come te, come te, fece strizzare i denti al bulldog.) «E questa è la catena del nonno... E me la mostrò pure quella (è questa qui che m’hanno preso a via Nico tera) e voltò gli occhi ar ritratto, sa? quello ovale, in cornice d’oro co le foglie d’edera, sa?» 
«Foglie d’edera?» 
«Sì, verdi verdi, ner salotto: er ritrattone der nonno, nonno Rutilio: che je se vede ancora sta catena su lo stomaco. Proprio questa, è.» La palpò, allungando la mano sul tavolo, tristemente. «Cor ciondolo...» scoteva il capo. «Poi me diceva, Lilianuccia, povera Liliana!... me diceva: m’hai detto che devi annà a Genova. Prima di sposare hai da mette casa: al lido d’Albaro? Co li genovesi poco ce se scherza, ce lo so. Guarda! Guardai: no, dissi, no no, Liliana. Che fai?... Non fare storie, disse, un uomo come te! Conosco i bisogni di un uomo, le necessità de chi sposa. Prendi, intanto, prendi. Prendi, ti dico. Prendi! Famme sto piacere, te dico, nun famme faticà. Sai che nun ciò fantasia de fa fatica. Tieni! Io me scansavo, nun volevo, feci l’atto de scappà, misi de mezzo una sedia... Tieni! M’agguantò p’un braccio, me ficcò in tasca una busta: quella...»: e la dinotò col mento, sul tavolo, vicino ai bigliettoni: «le diecimila lire... faranno a momenti du mesi: er venticinque de gennaio, me lo ricordo. Poi me volle rigalà pure la catena. A tutti i costi. Nun ce fu verso, creda.» Ingravallo dubitò forte di tutto. «Eravamo nel salotto.» Indi, pensoso: 
«A la catena però nun c’era attaccato gnente, vojo di quer buggerone d’un ciondolo portascarogna. Domani devi da passà dar Ceccherelli, ch’è l’orefice mio. Devi dajela solo du minuti, che ti attacchi la pietra, sai... Sai che? Ma si, annamo, ce lo sai bene che ce stava attaccata quela pietra: tante vorte te l’ho fatta vede! Mo l’ho fatta cambià, diceva. Ho fatto cambià l’opale con un diaspro. Deve accompagnà questo qui, che ciai ne l’anello tuo. Apposta la settimana prima aveva voluto che glielo lasciassi. Me prese la mano, guardò. Fece: com’è bello! come te stanno bene tutt’e due! anche l’oro! pare oro zecchino. Che bell’oro che faceveno una vorta, prima de la guerra! Ma questo me l’ha dato mammà, feci io, pe ricordo... dopo un po’, quanno che s’è risposata coll’ingegnere, ce lo sai. Be’, io nun lo so, fece lei, con un musetto imbronciato. Ho fatto mette er diaspro. Un diaspro sanguigno verde lustro, scuro scuro come la pimpinella, con du vene de corallo... rosse! che pareno du vene der core, una pe te, una pe me. L’ho scelto io, diceva, a Campo Marzio. già lo deve aver inciso, a quest’ora: lo montava stamattina: con le tue lettere, come questo che ciai sur dito. perché nun ciavevo più fantasia de vedemme st’opale in famija. Toccamo! e toccò la chiave der tavolinetto, sa. Pure a me la fece toccà. Rideva: quant’era bella!» Ingravallo abbozzò, cupo. «Nun lo vojo più vede, in famija, l’opale. Che me pare che ce sta portanno jella a tutti quanti. No, no, basta: nun lo vojo. A quest’ora Ceccherelli ha bell’e fatto. L’opale, no, no, nun c’è più! (e daje a ritaccà la chiave). 
«Nun c’è più perché nun lo vojo, benché fosse del nonno. Dicheno che porta male. E difatti er povero zio Peppe... hai visto? Un cancro. Doppio, poi! Chi se lo sarebbe immaginato! Tanto bono, povero zio Peppino! Creda, creda, dottore. M’è rimasto impresso parola pe parola. Nun me riesce de dimenticà quela faccia. Come rideva, come piangeva! Quei regali! Una scena tra cugini. E avrebbe potuto essere una scena d’amore! No, d’amore no, a nessun patto!» parve ravvedersi. «C’era perfino da ridere, povera Liliana! Dunque ce vai domani, ce vai oggi stesso, diceva. Promettimi! Sì, sì, a Campo Marzio, sì, Ceccherelli, aricòrdete, poco prima d’arrivà in Lucina, dove ce sta la pizzeria. Sì, sì a San Lorenzo in Lucina: nun me fa er tonto, mo, che ce ‘o sai benissimo. A destra, però.» 
Ingravallo nun voleva crédece: non doveva. Ma capiva, poco a poco, d’essere strascinato a credere quello che avrebbe creduto incredibile. 
«Dottore, mi dia retta,» implorò Giuliano: «forse era pazza. Non per voler offendere una morta, una povera morta. Morta a quel modo! Mi ascolti, dottore. lo, pe lei, io... l’avevo capito. Io...» 
«Voi... che cosa?» 
«Io,» Giuliano s’imbrogliò un poco, rise nervosamente, rise di sé: «Io per lei ero come il campione della razza: de sta bella razza dei Valdarena. Sur serio. Se avesse potuto, se fosse stata libera... Ma la sua coscienza, e poi... la religione. No, non era una depravata» (sic), «non era come tante» (sic). «Era solo pe quell’idea: pe quell’idea fissa del bambino. Che era, me creda, era un’ossessione, un’idea coatta, oramai, lo avrebbe capito chiunque: una cosa che la faceva sragionare. più forte de lei, creda, dottore.» 
Le affermazioni del Valdarena avevano il timbro e il calore inoppugnabile della verità. «E come spiegate la scomparsa d’ ‘o cuofeno ‘e fierro? e dei due libretti di risparmio?» 
«Che ne so?» fece il giovane: «come potrei saperlo, chi è stato?» Guardò il dottore. «Se lo sapessi, quella carogna era già dentro di certo, al posto mio. Il cofano? Io non l’ho mai neppur visto. La catena e l’anello, con le diecimila lire, me li ha dati lei: me l’ha fatti pijà pe forza. La busta è stata lei, a volermela nascondere qua»: batté la mano sull’anca: «Del resto... anche Remo lo saprà, dico io.» 
«No, non sapeva niente!» gli contestò duramente Ingravallo: «Segreti ‘e ccuggini!»: sotto la pece che aveva in testa era livido: «E voi,» lo incriminò con l’indice, «voi sapevate che non lo sapeva.» Giuliano arrossì, alzò le spalle: «Mbè, je lo ripeto: le diecimila lire è stata lei. Me le ha infilate qua, nella giacca,» e si toccò il fianco. «Quella busta lì, che mi hanno preso dalla scrivania»: don Ciccio aggrottò la fronte. «Io allora scappai, corsi via. Me n’annai in sala da pranzo: me chiusi dentro, pe gioco: trac. Ero appena entrato che bussò... Allora le aprii: lei annò a la credenza... ar buffè.» 
«Ah, in sala da pranzo? Vicino a ‘o buffè? Propio dove le avete tagliato la gola?» La faccia d’Ingravallo, ormai, era, bianca: furente. I due occhi erano quelli d’un nemico. 
«Tagliato la gola? Ma si sta parlando di due mesi fa, signor commissario: ancora a gennaio, il venticinque di gennaio, come le ho detto. Una ventina di giorni prima... di quando ci siamo conosciuti pure noi. Si ricorda quella domenica, circa un mese fa, che lei era a pranzo da loro? be’, una ventina di giorni prima di quel pranzo. E poi è subito fatto, mio Dio. Mbè, come nun ciò pensato? Domandi un po’ ar Ceccherelli, all’orefice de Campo Marzio. A pijà sto diaspro benedetto ce so’ annato io. Lui lo può testimoniare. Lui aveva avuto l’ordine de dallo a me, da Liliana, a me personalmente, il ciondolo co la pietra nova co le cifre mie, ar posto de quell’altra: di attaccarmela anzi lui stesso, alla catena d’oro del nonno,» la designò col mento, sul tavolo, «che quella glie l’avrei portata io: io in persona. Che Liliana, precisa com’era, aveva già stabilito ogni cosa: j’aveva fatto vede er ritratto mio. Lui, però, il Ceccherelli, quando mi presentai volle che cacciassi una tessera, un quarche documento, diceva: la carta d’identità. Si scusò. Ma poi gli portavo la catena. Mejo carta de quella, capirà...» 
«Venti giorni prima del venti febbraio, sicché: anche venticinque: va buono. Come si spiega, allora, che non avete detto nulla a nessuno? Alla nonna, a vostra zia? che non avete mostrato nulla, in famiglia? Regali di nozze, a quanto dite. Ori di famiglia. Oro vecchio dei nonni: che deve rimanere in possesso dei nepoti. Ma perché nasconderlo? E com’è che Balducci, stamattina, è cascato dalle nuvole? Un ricordo del proprio... bisnonno... si può ben farlo vedere alla propria nonna: che è la figlia del bisnonno, se non mi sbaglio.» 
«La nuora, dottò, se mai: nonno Valdarena, nonno Rutilio, era nonno di mio padre: cioè, me spiego, padre de mio nonno»: don Ciccio lo guardò, furente: je venne er sospetto che quello lo pijasse p’er bavero: in quele condizione? Perciò me chiamo Valdarena pure io. La nonna, nonna Marietta che m’ha fatto granne, era la nuora de nonno Rutilio. 
«La nuora, la nuora, ‘o sacce. Ah? Che? La nuora? Il nonno di vostro padre, avete detto? Sicché ‘a signora Liliana... vostra zia?» 
«No. La povera Liliana era mia seconda cugina. Una generazione indietro. Perciò, forse, mi piaceva tanto! Perciò era tanto stupenda!»: don Ciccio abbozzò, tetro, bitumoso: «Era figlia dello zio Felice: lo zio Felice Valdarena, che era zio di mio padre, fratello del padre di mio padre. Liliana e mio padre... erano cugini primi.» 
«Vedo, vedo. E allora avete nascosto ogni cosa? Con tanta cura? Temevate forse di dover dividere? di dover spartire la catena d’oro... coi poveri? come Amedeo Secondo ‘o collare d’ ‘a ‘Nunziata?» 
«Vittorio Amedeo...» 
«Vittorio, Vittorio, ‘o sacce: coi parenti poveri? con qualche cugino in terzo grado?» 
«Qualche pollo della nuova generazione,» sogghignò l’incriminato. 
«O temevate che il signor Balducci, appena sceso dal treno, tutti quei regali, tutti quei soldi... gli pesassero un po’ sullo stomaco?...» 
«No, no!» fece l’incriminato, con voce d’implorazione. «Fu lei, poverina! lei: io non ci pensavo davvero, a nascondere: fu lei che mi disse: bada, Giuliano, deve rimaner tra noi: un nostro innocente segreto: er segreto de li cugini... come nei romanzi! Il segreto della bellezza, non siamo belli, noi due? della felicità sperata e non avuta. Che sto dicenno, Dio mio! e se coprì la faccia co le mano. Tu la felicità ce l’avrai. E allora il segreto... fammece pensà, il segreto de du anime bone: che in un mondo un po’ mejo de questo qua... mbè avrebbero formato altre anime. In questo, invece, così com’è (dottore, l’avesse veduta! in quel momento!), dovremo annà chi de qua chi de là, come delle foje quanno ch’er vento le strappa. Dio mio! diceva, che sciocchezze che me vengheno fora dalla bocca, propio oggi. Begli auguri che te sto facenno. E tu che devi fare il pupo, Giuliano! Perdoneme, perdoneme! Piangeva: poi sorrise, nel pianto: si mise a ridere, anzi. Allegro, bello, hai da fallo, diceva. E bionno, me raccomanno! Come te quann’eri pupo, che ridevi sempre! che volevi fa la pipì senza arivortatte, a la facciaccia de tutti!» Don Ciccio sentì er bisogno de scartoffià nu poco, sur tavolo. 
«Rideva. Me faceva: che direbbe Remo, al ritorno! Si sapesse che faccio dei regali a un giovanotto! E sia pure un cugino, er cugino bello che sposa. Rideva: che ne sposa un’altra, poverella me! No, no, manco alla nonna lo devi dì, povera vecchia, manco a tu’ madre, quanno andrai ancora a Bologna: a nessuno lo devi dì: giurami! Glie lo giurai...» 
Don Ciccio sudò freddo. Tutta la storia, teoricamente, gli puzzava di favola. Ma la voce del giovane, quegli accenti, quel gesto, erano la voce della verità. Il mondo delle cosidette verità, filosofò, non è che un contesto di favole: di brutti sogni. Talché soltanto la fumea dei sogni e delle favole può aver nome verità. Ed è, su delle povere foglie, la carezza di luce. 
Col suo sdentato ghigno, e con quel fiato da pozzo nero che lo distingue, il senso comune si sbeffava già del racconto, voleva ridergli una maialata sulla faccia, a don Ciccio, scaracchiargli il no rotondo dei furbi sul suo parruccone di questurino non ancora cavaliere. Ma non si può impedire il pensiero: arriva prima lui. Non si può scancellare dalla notte il baleno d’un’idea: d’un’idea un poco sporca, poi... Non si può reprimere l’antico fescennio, sbandire dalla vecchia terra la favola, la sua perenne atellana: quando vapora su su, lieto e turpe, il riso dalle genti e dall’anima: come non si può smagare dell’aroma proprio né il timo, né il mentastro o l’orìgano: gli odori sacri della terra, dello scarno monte, nel vento. Su, su, dalle città gremite, dalle genti, da ogni cantone di strada, da ogni spalletta di ponte: dalle brune piagge, e dal popolo distorto e argentato degli ulivi, che ascendono il monte. Quando gli tremola un poco, alle case e a tutti li tetti degli uomini, un àere azzurrino sopra il colmo. Quando il caldo letamaio fuma, sopra il gelo, risorgenti speranze: le speranze favolose della verità! Quando si dissolve, ogni porca, dentro fumanti arature! Quando la diritta scesa del pennato consacra al frutto l’ulivo, e ne sfronda menzogna. A Ingravallo gli balenò, tra il dolore e lo sdegno, ch’era molto più naturale e molto più semplice, una cosa molto più logica, postoché davvero Liliana ci teneva tanto, a un bambino, che invece di regalargli lei, a quel bel guappo lì (che gli stava avanti), le catene d’oro dei morti... bambini, dalle catene d’oro, non ne vien fuori di sicuro... era molto più presto fatto se si faceva regalare lei, da lui, invece, un qualche altro ninnolo un po’ più adatto allo scopo. Quella storia, invero, sentiva di fandonia. Tutte stupidaggini, tutta na commedia. 
E poi no, no, nun era vero un pomo. Il marito, il Balducci, era pure un marito: un pezzaccio di marito. Se il bambino non era venuto fuori, peggio pe lui, sto macaco. Non ce ne avevano colpa gli uomini. Strizzò i denti, livido, radunò le scartoffie nella coperta rossa. Lo fece ricondurre in guardina. 
5. 
  
  

Ma le deposizioni del Ceccherelli, del suo «giovine di negozio», certo Gallone, un ber vecchietto asciutto asciutto co l’occhiali a stanga, e di un lavorante, certo Amaldi, o Amaldini, furono pienamente favorevoli a Giuliano. Il Ceccherelli, appoggiato dai due, confermò in ogni particolare l’incarico ricevuto più de due mesi prima dalla povera signora, le varie fasi dell’approntamento del ciondolo: «è p’un mio parente che sposa, me raccomanno a lei». La signora gli aveva fatto vede un anello d’oro a la cavaliera, massiccio, oro giallo, con un diaspro sanguigno, bellissimo, recante le cifre G.V. a glittico, e in carattere gotico per modo de dì: «il diaspro pe la catena, lo vorrei che s’accompagnasse con questo». Gli aveva lasciato l’anello. Lui aveva preso l’impronta in cera: prima della cifra, poi de tutta la pietra, che sporgeva dal castone. Liliana Balducci era poi tornata in bottega altre due volte, aveva scelto la pietra fra cinque che le erano state mostrate dopo che le avevano provvedute apposta dalla Digerini e Coccini, la ditta fornitrice, ch’era tanti anni che lo serviva: permodoché non aveva sollevato obiezioni ad un prestito. Del pari pienamente confermato risultò che l’opale, bellissimo, benché co quel tanto de jella addosso che cianno tutti l’opali, lo doveva rilevare il Ceccherelli, e lo aveva rilevato di fatto dietro conguaglio, nonostante quell’R.V., ch’era inciso leggero, «che però io, poi, sa, con rispetto parlanno, sì che me ne buggero de tutte ste superstizzione de la gente: che pare d’esse in der medioevo, quasi quasi! io, in coscienza, tiro a fa l’affari mia: più puliti che posso. In quarant’anni che ciò er negozio, me creda, dottò, nun ho avuto a dì p’una spilla! E poi, a bon conto, l’ho subbito schiaffato in der cassettino ch’ ‘o tengo apposta pe questo, subbito subbito appena l’ho cavato fora dar castone suo, a forza de pinze, senza manco toccallo co le dita, se po dì: le pinze, ho fatto un sarto dar barbiere de faccia pe disinfettalle coll’alcole: e lui, er sor coso, l’ho schiaffato in der cassetto quello là in fonno isolato p’annà ar cesso, tu Arfredo ce ‘o sai, e tu pure Peppì: che ce stanno insieme tanti de queli corni de corallo che si gnente gnente je pijasse la fantasia de volemme jettà la bottega... a me, jettamme? sì, stai fino: vorebbe vede, povero fijo! È come un cappone in mezzo a tanti galli!... ma co la punta bona, je lo dico io.» 
L’anello je l’aveva ridato a la signora dopo un par de giorni, «si m’aricordo bene, quanno ripassò a bottega pe vede li diaspri». Il ciondolo doveva consegnarlo a Giuliano in persona. Sarebbe passato lui a ritirallo, portando con sé la catena: 
«quella, sì»: la riconosceva perfettamente. «Quella catena,» aveva detto Liliana, «sa? lei sor Ceccherelli la conosce bene, s’aricorda? Quella che me l’ha stimata dumila lire?... Quella, j’ho da regalà. E l’anello del nonno, cor brillante, s’ ‘o ricorda? che me l’ha stimato novemila e cinque?» Ingravallo gli mostrò pure l’anello. «È questo, nun c’è dubbio: un brillante de dodici grani dodici emmezzo a dì poco. Un’acqua magnifica.» Lo prese, lo rigirò, lo guardò: lo sollevò contro luce: «Tante volte me l’aveva detto, il nonno: aricordate, Liliana, che deve restà in famija! Sai a chi vojo dì!» La frase der nonno suo, una formula sacra a momenti, pe lei; se vedeva: be’, l’aveva ripetuta du volte, in bottega: «nun è vero?»: presente il Gallone, presente il Giuseppe Amaldi; che confermarono col capo. All’Amaldi Liliana stessa aveva voluto spiegaje lei ogni cosa: e com’ereno le du lettere intrecciate che doveva incidere, com’era che voleva incapsulato il diaspro: un po’ sporgente dalla legatura ovale: il Ceccherelli secondò con l’unghia del mignolo il fermo contorno della pietra verde, montata a sigillo, vale a dire in lieve aggetto sul castone: e con una laminetta d’oro sul rovescio, a celare la faccia grezza, a richiudere. 
Oltre agli orefici, che furono ascoltati de mattina, bisogna dì che la famiglia Valdarena e addentellati, e cioè la nonna de Giuliano, il Balducci medesimo, le du zie de li Banchi Vecchi, e zi’ Carlo, e zi’ Elvira, e li parenti un po’ tutti, staveno ad annaspà da tre giorni chi de qua chi de là pe trovà er filo de la salvazione e tirallo fora, lui Giuliano, da li pasticci in cui s’aritrovava, povero fijo, senz’avé né colpa né peccato. Una parola. Ma dopo le tre deposizioni a discarico de li tre orefici, ch’ereno già bone, je venne subito dietro quella più bona reno gi ancora del cassiere-capo de la banca: der Banco de Santo Spirito. Dar cartellino del conto (ai libretti de risparmio) risultò che il prelievo de diecimila, Liliana l’aveva fatto là, propio il 23 gennaio: due giorni prima del regalo: che quello glie l’aveva fatto il 25, a casa, quann’era andato a trovalli, e aveva trovato solo lei. Il cassiere-capo ragionier Del Bo conosceva Liliana: l’aveva contentata lui, quella volta: era lui a lo sportello, nummero otto, pieno di paterni sorrisi. A momenti mezzogiorno. Sì, sì: ricordava perfettamente: all’atto dello snocciolarle sul vetro i dieci fogli - dieci bricocoloni zozzi, lenticchiosi, de quelli co la lebbra, che so’ stati ner portafojo a fisarmonica d’un pecoraro de Passo Fortuna o sur banco fracico de vino dell’oste de li Castelli - lei invece j’aveva detto, co quela voce così morbida, e quel’occhioni fonni fonni: «Mbè la prego, sor Cavalli, veda un po’ si me li po dà belli novi si ce l’ha: lei ce lo sa che me piaceno un po’ puliti...», perché lo chiamava Cavalli, in luogo di Del Bo. «Così?» le aveva detto lui riponendo i sudici che aveva già in mano: e glie ne mostrava una mazzetta fresca, per aria, come contro luce, presi p’un angolo, che je pencolava dai due diti: «Lustri lustri, guardi!... so’ arrivati propio jeri da la Banca d’Italia: appena sputati fora dar torchio. Un, odorino bono, senta un po’. L’antro jeri mattina ereno ancora a Piazza Verdi. Che? ha paura de li bacilli? Ha raggione!... Una bella signora come lei.» 
«No, sor Cavalli, è che devo fa un regalo,» aveva detto Liliana. «Sposi?» «Sì, sposi.» «Dieci fogli da mille è sempre un bel regalo: pure pe li sposi.» «Un cugino: che è come un fratello. Sapesse! je feci quasi da madre, quann’era pupo.» Proprio così aveva detto: lo ricordava perfettamente: lo poteva giurare sul vangelo. «Auguri agli sposi: e a lei pure, signora.» Si ereno stretti la mano. 

Domenica 20, nella mattinata, ulteriori indicazioni del Balducci ai due funzionari: poi al dottor Fumi, solo, allorché don Ciccio, verso la mezza, fu tirato a «occuparsi d’altro», preferì «uscire un momento». In verità, «d’altre pratiche» non ne mancava, sul tavolo. Ché, anzi, il tavolo ne rigurgitava agli scaffali, e questi agli archivi: e gente che saliva e che scegneva, e che aspettava de fora: e chi fumava, chi buttava la sigheretta, chi scatarrava su li muri. Tutto greve e fumoso, il gentile clima del Cacco, in un odorino sincretico un po’ come de caserma o de loggione der teatro Jovinelli: tra d’ascelle e de piedi, e d’altri effluvi ed olezzi più o meno marzolini, ch’era una delizia annasalli. Di «pratiche» ce n’era da gavazzarci, da nuotarci dentro: e gente in anticamera! Madonna! più che ai piedi de la gran torre de Babele. Furono accenni (e meglio che accenni) «di carattere intimo» quelli espediti dal Balducci: parte spontaneamente, si direbbe a scivolo, abbandonatosi il cacciatore-viaggiatore a quella tale specie di logorrea cui si danno vinte certe anime in pena, o un po’ ripentite magari de’ trascorsi loro, non appena sopravvenga la fase di addolcimento, come il livido suole sopravvenire alla botta: di cicatrizzazione post-traumatica: allorché sentono che li raggiunge intanto il perdono, e di Cristo e degli uomini: parte, invece, tiratigli col più soave spago di bocca da una civile dialessi, da un appassionato perorare, da un vivido volger d’occhi, da una traente maieutica e dalla caritatevole papaverina-eroina e della parlata e del gesto, del Golfo e del Vòmero: con azione blanda a un tempo e suasiva, tatràc! da cavadenti di tipo amabile. Ed ecco il dente. Liliana, ormai, s’era fitta in capo che dar marito... non le verrebbero pupi: lo giudicava un buon marito, certo, «sotto tutti gli aspetti»: ma d’un bebè in viaggio, che! neanche il presagio. In dieci anni de matrimonio, a momenti, che, che! manco l’inspirazzione: e aveva sposato a ventuno. I medici aveveno parlato chiaro: o lei, o lui. O tutt’e due. Lei? p’esclude che la colpa fosse sua avrebbe dovuto provà con un artro. Glie lo aveva detto anche il professor D’Andrea. Per modo che da quelle delusioni continuate, da quei dieci anni, o quasi, dove aveveno messo così tormentate radici il dolore, l’umiliazione, la disperazione, il pianto, da quegli anni inutili della sua bellezza datavano pure quei sospiri, quei mali! quelle lunghe guardate a ogni donna, a quelle piene, poi!... chi dice ma, cuore contento non ha... ai bambini, a le belle serve tutte fronzute de sélleri e de spinaci, in della sporta, quanno veniveno da piazza Vittorio, la mattina: o cor mappamondo in aria, inchinate a soffià er naso a un pupetto, o a toccallo, si s’è bagnato fuori ora: ch’è propio allora che je se vede er mejo, a la serva, tutta la salute, tutte le cosce, de dietro: dar momento ch’è de moda che cianno la mutanne corte corte, si pure ce l’hanno. Guardava le ragazze, ricambiava d’un lampo, come una profonda malinconica nota, le guardate ardite dei giovani: una carezza, o una benevola franchia, mentalmente largite ai futuri largitori della vita: a qualunque le paresse portare in sé la certezza, la verità germile, gheriglio del segreto divenire. Era il limpido assenso di un’anima fraterna: a chi delineava il disegno della vita. Ma precipitavano gli anni, l’uno dopo l’altro, dalla loro buia stalla, nel nulla. Da quegli anni, operando la coercizione del costume, il primo palesarsi indi il graduale esasperarsi d’un delirio di solitudine: «raro int’ ‘a femmena», interloquì pianamente il dottor Fumi: «int’ ‘a femmena romana, poi...»: «semo de compagnia, noi romani, consentì Balducci»: e quel bisogno, tutt’al contrario, di appoggiarsi con l’animo all’altrui fisica immagine, e alla vivida genesia delle genti e dei poveri: quella mania... di regalar lenzuoli doppi alle serve, de faje la dote pe forza, d’incoraggià ar matrimonio chi nun aspettava de mejo: quela fantasia de volé piagne, poi, e de soffiasse er naso, che je pijava pe giornate sane, povera Liliana, si davero se sposaveno: come je fosse venuta l’invidia, a cose fatte. Un’invidia che je rosicava er fegato: come si l’avessino fatto pe fa dispetto a lei, de sposa, pe poi dije: «Vedi un po’: de quattro mesi c’è già er pupo! Er maschietto nostro de quattro chili: un chilo ar mese.» Bastava, certe matine, che un’amica je facesse: «Vedessi che baulle cià Clementina!», pe fasse venì l’occhi rossi. «Una vorta me fece una mezza scena a me, suo marito, p’una ragazza de Soriano ar Cimìno: una contadina ch’era venuta a Roma co la viterbese, a portamme li confetti. “Quela zozzona manco la vojo vede!” strillava. La sposa, povera pupa, arrivò co lo sposo, preceduti da na panza come na mongolfiera a San Giovanni, a li fochi. Diceveno: avemo portato li confetti. Se sa, ereno un po’ imbarazzati. Je feci, ridenno: se vede che tira aria bona sur Cimìno: lei arrossì, abbassò gli occhi sul ventre, come l’Annunziata quanno che l’angelo se mette a spiegaie tutta la faccenda: poi però prese coraggio a risponne: embè, che ce volete fa, sor Balducci? Semo giovini. Avemo preso li passi avanti... Quanno la cratura sarà venuta ar monno, chi se n’aricorda più? si c’era er prete o si nun c’era er prete, a benedicce? Mo stia tranquillo, che semo benedetti tutt’e tre.» Gli anni!, come una rosa che sfiori: i petali, uno dopo l’altro... nel nulla. 
Fu a questo punto, co ‘na faccia color cenere, che Ingravallo domandò licenza: pe motivi di servizio. Ragguagli e rapporti di subalterni, parole e carta scritta: disposizioni da dare: telefono. Il dottor Fumi lo seguì con l’occhio, mentre quello si diresse verso l’uscio a capo chino, curve le spalle, in un’attitudine che sembrò stanca ed assorta: lo vide levar di tasca un pacchetto macedonia, e una sigheretta dal pacchetto, l’ultima, sommerso da chissà quali affanni: l’uscio si richiuse. 
Don Ciccio, tutta quela storia, gli pareva d’avella saputa già da un pezzo. Le impressioni e i ricordi che il cugino e il marito di Liliana andavano estraendo, in una specie di tormentoso recupero, dal di lei tempo così atrocemente dissolto, gli confermavano ciò ch’egli aveva già intuito per proprio conto, sebbene in modo vago, incerto. 
Pure quell’idea di voler morire, se non le arrivava il bambino: un po’ se l’era «immaginata», don Ciccio, o credeva? pe la conoscenza de la signora Liliana: un po’ era venuta a galla dalle ammissioni del cugino e, ora, dal parlare del marito: fatto loquace dalla disgrazia, e dal sentirsi al centro dell’attenzione e della compassione generale (cacciatore, era! je pareva de tornà co la lepre, fucile a spalla, stivaloni infangati e cani stracchi) e bisognoso de sfogasse, dopo la botta: e discettante a piede libero su la delicatezza dell’animo femminile e, in genere, su quella gran sensitività della donna: che in loro, povere creature! è una cosa diffusa. Il «diffusa» l’aveva letto a Milano, sur Secolo, in un articolo di Maroccus... er dottore der Secolo: finissimo! 
La postuma cartella clinica de Liliana venne poi integrata dalla pietà delle amiche e delle beneficate: orfanelle che piagneveno, moniche der Sacro Core che nun piagneveno, perch’ereno sicure ch’era già in Paradiso, a quell’ora, lo poteveno giurà: e zi’ Marietta e zi’ Elvira in gramaglie, e un paro d’altre zie, de li Banchi Vecchi, pure piuttosto nere pure loro: e conoscenze diverse, ivi computando la contessa Teresa (la Menecacci) e donna Manuela Pettacchioni, oltre a quarche altra gentile casigliana der ducentodicinnove: le due terne antagoniste: l’Elodia, la Enea Cucco, la Giulietta Frisoni (scala B), da una parte, e da quell’artra la Cammarota, la Bottafavi e l’Alda Pernetti (scala A), che ciaveva pure er fratello, che contava per altre sei. Femmine tutte, a sensibbilità diffusa, dunque: benché de quela sorta che Liliana... se le teneva a la larga. Una diffusa e delicata ovaricità, propio così, je permeava a tutte lo stelo dell’anima: come antiche essenze, nella terra e nei prativi della Marsica, lo stelo d’un fiore: premute lungamente a poi esplodere in der soave profumo d’ ‘a corolla; che la su’ corolla de loro, viceversa, era er naso, che se lo poteveno soffià quanto je pareva. Femmine tutte, e nel ricordo e nella speranza, e nel pallore duro e ostinato della reticenza e nella porpora del non-confiteor: che il dottor Fumi elicitò in quei giorni a una memore analisi, col tatto e col garbo che lo distinsero lungo tutta una operosa carriera (e l’hanno fatto oggi, meritato premio! sottoprefetto de Lucunaro adnuente Gaspero: cioè no, mejo ancora! de Firlocca, un sitarello delizioso, dove ha tutto l’agio di far valere tutte le sue qualità) e co chella calda voce... quella che lo dava subbito presente, prima ancora der campanello (stanza numero quattro), agli orecchi d’ogni brigadiere e d’ogni ladro, non appena mettesse piede in ufficio. 
Li funerali, contro l’aspettativa o pe mejo dì la speranzella de la polizzia, nun fecero fa un passo avanti a l’indaggine, ma sortanto a le chiacchiere. I giornali non la piantaveno, i mille pietosi ragionari crepitavano come fiamma che dilati ne le stoppie, d’ottobre: senz’approdare a un’idea. L’accompagno spostò dar Policlinico a le otto, lunedì ventun marzo: una giornata piuttosto rigida, pe èsse l’entrata de la primavera, né bella né brutta, cor cielo annuvolato. Le esequie ebbero forma riguardosa e tuttavia riservata, pe nun dì addirittura sbrigativa, com’era ner desiderio de l’utorità, che de tutto quer pasticcio aveveno finito pe scocciasse. Con pochi preti davanti e un po’ de regazzine e de moniche, ma «con largo concorso di poppolo», dissero li giornali, e sopratutto de donne, che faceveno una coda che nun finiva più, tajarono pe la direttissima der viale Regina Margherita, ch’era circa un anno che l’aveveno prolungato fino là, e a le otto e mezza otto e quaranta arrivarono a San Lorenzo ar Verano, dopo avé sollevato un ber po’ de porvere, dato ch’er catrame nun l’aveveno ancora passato, ma c’ereno già li barili. L’autorità s’ereno scocciate a pensà che a Roma, e de giorno, in d’un medesimo palazzo, fossero successi du delitti come quelli, er siconno più terribbile der primo. E poi e poi: er fermo del Valdarena, a giudicà da come se presentaveno le cose, nun reggeva pe gnente: e il fermo del commendatore Angeloni... manco quello nun approdava a nulla, dato ch’er commendatore, pover’omo, c’entrava come li cavoli a merenna. A giustificazione dell’operato de la polizzia, e delle autorità gerarchicamente strutturate nello stato etico, va pur detto, per altro, che propio er giorno prima, domenica 20 marzo, era sbarcato ar molo Beverello, a le undici undici e mezza, er maharagia de Scerpure, proveniente da le rive der Brahmaputra pe fa visita a l’Artefice de li nuovi destini de la patria, ed eventualmente a le tombe dei due fabbricatori e a la casa natale der medesimo, ch’è una bicocca de pochi sordi, però. Ciaveva dietro sei o sette bracaloni co certe facce de cioccolata, co le brache de seta bianca indove le gamme ce sguazzaveno, malgrado che so’ ciccioni puro l’ommini, da quele parte, sarvo si fanno la penitenza de diggiunà quarche mese ogni tanto, pe guadagnasse er paradiso suo, che puro loro ce l’hanno. Questo maharagia de Scerpure, su la fronte, in mezzo ar turbante propio, s’era fatto cucì du brillanti che faceveno faville e un pennacchio appizzato ch’era er più longo de tutta l’Asia e l’Uropa unite insieme, ma quello der nostro Capo der governo era più longo ancora: e lui, er maharagia indiano, aveva espresso da diversi anni, trammite le normali vie diplomatiche de li consoli nostri, ch’er Capo der governo li aveva mannati puro in India, la speranza de poté visità er Policlinico e la Centrale del latte. La Centrale nun c’era ancora, a quell’epoca, e il tifo dell’anno quindici nun c’era ancora stato: quanto ar Policlinico, lui intendeva fabbricarne uno a Scerpure sulle rive, più o meno, del nativo Brahmaputra: un po’ più piccolo, se sa, ma non però meno bello der nostro: a Scerpure, la città indove lui era nato vent’anni prima, e indove se trova er Tesoro, er mammone de lo Stato. La visita era cosa combinata: era in programma pe lunedì 21 marzo alle undici, ora in cui si presumeva che quelle benedette esequie de la povera signora avessero omai avuto termine. Donde la giustificata prescia de l’Utorità, che verso le dieci si cangiò in furugozzo. Don Ciccio, una vorta a San Lorenzo, s’intrufolò co l’orecchie appizzate ne la folla ch’entrava in chiesa, e li segugi sua fecero artrettanto. E artrettanto mezz’ora dopo a l’uscita. Con poco risultato. Er sor Remo aveva seguito il carro cor cappello in mano, con una faccia disfatta, in gruppo co le zie, che ce staveno quasi tutte, e co li parenti più stretti. Celebrata la messa, impartita l’assoluzione a la cassa, e poi, dentro Campo Verano, benedetta la fossa, dove caddero bianchi gigli e garofani tra disperati singhiozzi «addio, Liliana, addio!», il nero Ingravallo sì mise a le costole di don Lorenzo, come un boxer al fianco d’una giraffa, addobbata pe la quale, e non lo mollò più fino in sacrestia. Lo lasciò spogliare, lo caricò su l’automobbile sua (pe modo de dì, uno scatorcio!), s’ ‘o portò a Santo Stefano. 
Dove, introdottolo da Fumi, questi manifestò l’opinione... che l’esimio sacerdote potesse recar loro qualche lume additivo circa le condizioni... spirituali della compianta signora: sì da facilitare all’autorità di pubblica sicurezza un più approfondito esame del caso e la definitiva stesura «dicimmo, d’ ‘o referto psicologico». Qualche virgoluccia, qualche puntino sugli i, l’accorata prudenza di don Corpi ce l’aggiunse, al referto-sintesi. Le visite e le implorazioni della Balducci, ai Santi Quattro, a certe stagioni liete nel cielo, o men tristi, erano si poteva dire cotidiane. Tanto al confessionale che all’altare de la Madonna: oppure in canonica, lungo li portici, torno torno il «bel chiostro der tredicesimo secolo». Il cielo quadrato era tutto luce, come da eterna presenza dei confessori, dei quattro: uno per lato. La povera anima domandava un aiuto alla sua pena: la dolce parola della speranza, la misericorde parola della carità. Fede ne aveva lei più di tutti. Don Lorenzo notò, senza venir meno alla ingiunzione sacramentale, fondandosi in modo esclusivo sulle confidenze extra-sacramentali e sulle invocazioni di chi lo aveva eletto depositario delle proprie angosce, notò ch’egli poteva pienamente confermare quanto sopra, cioè quanto era emerso dalla incertezza amnesica del poi, confortata dalla questura a farsi certa e veridica, e dall’intuito e dalla integrante sagacia del cugino e, perché no? del marito. Autorevole e massiccio dopo quel primo e oramai superato imbarazzo de la prima vorta (gita a 
Roccafringoli, ritardo, per quanto involontario, nel «presentarsi all’autorità» e nel 
«produrre il testamento della defunta signora»), coi capelli a spazzola, in un tono di chiaroveggente pietà che comportava lucidità piena del giudizio di merito, affermò, quasi giurando, che la povera morta era un’anima delle più caste, delle più pure, intenzionalmente... «Comme sarebbe a dì?» fece il dottor Fumi. Lui seguitò. Le lunghe scarpe nere e stralucide sembravano conferir valore alla testimonianza: un tale impiego di brill, un così energico intervento del gomito (di chicchessia), non ponno sovrapporsi alla menzogna e al disordine. L’idea del divorzio e dell’annullamento del matrimonio, a parte le difficoltà canoniche, le sembrava abominevole: no, Liliana, nun ce voleva crede. Troppo «amava» e rispettava er marito, l’uomo da lei scelto: datole, un giorno, da Dio. La sua disperazione e la sua speranza (vana) si erano coagulate in una follia malinconica (don Ciccio lo capì al volo, ma il dottor Fumi un po’ dopo, e all’incirca): trovavano come un riscatto in quel proposito, in quella fisima (gli scappò detto), in quella gran bontà dell’adozione: Proprio dell’adozione legale di una creatura. Ma intanto pareva aspettare, aspetta: come si sperasse, un giorno, de poté avé quarche cosa de mejo: attendeva di giorno in giorno un bambino, d’anno in anno: da chi poi? un bambino futuro, il futuro figlioccio: ormai lui, don Corpi, nun se raccapezzava da dove, o da chi. 
«‘O cuggino!» esclamò il dottor Fumi. 
E intanto, come per ingannà la disperazione, adottava. Adottava «provvisoriamente», adottava pe modo de dì. A parole, adottava: benché, però, aveva sostituito un testamento con l’artro. Tre vorte aveva rivoluta indietro la busta gialla, co li cinque sigilli de ceralacca. Tre volte j’aveva spiccicato i sigilli, poi ne aveva ricreata la figura. «Testamento olografo di Liliana Balducci». Adottava, a parole, se pure in una effusione vera dell’animo, con tutta la sincerità d’una speranza: risorgente a ogni nuovo incontro: a ogni nuovo abbandono delusa. Adottava provvisoriamente quel po’ po’ de regazze: una teoria, omai, un’infilata di perle. Una mejo de quell’artra. Quattro, se n’era già tirate in casa in tre anni, una dopo l’artra, contandoce la Gina, poverella. 
Con buona permissione del sor Remo: che je diceva «fa’ come te pare, fa’ come credi», ogni vorta, pur d’avè un po’ de pace in famija, p’un artro pezzetto. Pur de sapé ch’era in casa con quarche compagnia do donne, mentre lui se la svignava co Cristoforo dietro a la lepre, a provà li cani sur Cimino. E in ogni modo previo parere di don Corpi. Il quale, con tante anime intorno, con tanto da fare in chiesa, e non conoscendole affatto, quele ragazze (manco sapeva chi ereno, de che parte veniveno), s’era limitato ogni volta a consiglià prudenza, prudenza, così affermò ed era verisimile che così fosse, ad ammonirla («me senta!»: ma lei, da quel’orecchia, nun ce voleva sentì), a diffidarla dal dissipare in quel modo, e in repentine avventure del sentimento, il dono... il tesoro... di una coscienza ineffabile della grande missione della donna: che le veniva, certo, da Dio. Quattro! 
in tre anni! «Un gran core, povera signora Liliana». 
E accarezzava le domestiche, e je perdonava sempre, si rompeveno un piatto. Le confortava a sperare nel Signore. Che loro, viceversa, più che la speranza era la paura, che ciaveveno: de fa er pupetto prima der tempo, magara. Il Signore, je diceva, e aveva tutte le raggione, nun lascia mai mancare la vita a chi desidera la vita, e la continua resurrezione della vita. «È un desiderio ch’hanno molte», pensò Fumi. 
Don Lorenzo, con ogni riguardo pei vivi, per la povera «defunta», accennò dunque alle tre giovani che Liliana Balducci aveva accolte in luogo di figliole e poi dimesse: e ai vari motivi che man mano avevano determinato la secessione, più o meno facile, più o meno spontanea, delle tre pupille mancate. La quarta, ora, la Gina de Zagarolo, ch’era la nepote in carica, beneficiava per tutte. Li carabinieri de Tivoli aveveno già interrogato la madre, e il macellaro pure; la Irene Spinaci voleva venì a Roma: ma quando sentì che la Gina era ar Sacro Core s’azzittò: tant’è tanto... che ce veniva a fa? A buttà li sòrdi? Che manco ce li aveva pe montà in treno? 
Don Lorenzo, vinta quarche esitazione, aprì dunque la scarsella d’una... caritatevole prudenza. Prima je fece fa, su le ginocchia, un par de giri ar cappello, adagio adagio: co quele mano (e co queli piedi) che pareva san Cristoforo. Adescato, benché prete, dai vividi e patetici occhioni der dottor Fumi (p’una volta officiavan loro, invece de la lingua), si arrese alla trazione magnetica di quei bulbi così dolcemente rotanti, ognun de’ due in parallelo con l’altro, ne’ rispettivi castoni, cioè nella legatura delle palpebre: nere iridi, come di velluto fondo, come due spere di tormalina sotto all’ombra vellutata e un po’ malinconica dei cigli: fiamme accorate e tuttavia fulgenti della persuasione e delle dialessi a scivolo, in quel volto bianco, paterno, pensoso, invitante: accogliente come una trappola. Di sotto a quell’altro grifo appeso al muro del Predappiofezzo in cornice, che gli faceva gli occhi del babàu a le mosche secche sur muro derimpetto: prolati i labbri in un suo broncio baggiano, di maccherone treenne, da innamorare tutte le Marie Barbigie d’Italia: co in coppa a ‘a capa ‘o fez, co ‘o pernacchio dell’Emiro. Emiro de sàbet gràss. 
Tre giovani. La prima, la Milena, una ragazzetta co le lentiggini, dopo appena un mese di quei buoni mangiarini dei Balducci, e co quer materazzo de lana sotto, e l’imbottita sopra, in der letto, aveva sùbito principiato a metter polpa: du meloncini ritonni sotto la camicetta: un discreto emisfero, dietro. Ma insieme co la polpa de vitella j’era cresciuta pure la voja de rubà, e de dì bucie in proporzione. Rubava di credenza: e di borsellino sur comò: e mentiva co la bocca. La lingua le andava dietro alle unghie senza manco pensacce come la coda dietro ar culo, si uno è un cavallo. 
Un giorno, poi, a guastaje er letto, la donna ciaveva trovato una candela: una Mira-Lanza de Torino, de quele candele toste d’allora: che doveva avella presa fori dar pacco novo de cucina, che ce stava de riserva, ne la credenza: pe quanno che manca la corrente, certe volte. Lei, pronta, disse ch’era per accennela a la Madonna: perché j’aveva fatto un fioretto a la Madonna: ma nun ciaveva prosperi: e s’era addormita co la candela a letto. Il dottor Ghianda visitò la ragazza, je fece beve l’acqua de cedro, ch’è un carmante bono pe certe fantasie de li nervi, e quarche goccia, tre vorte ar giorno, d’acqua antisterica de Santa Maria Novella de Bologna che la fanno distillà li frati cor filtro, che so’ speciali. (Tale, poi, la conferma: dalle canorità merulane della sora Pettacchioni.) Comunque, a scanso di malintesi, ‘o professore fu richiamato, fu pregato da Liliana di voler dare un consiglio. Corrugò la fronte un momento, guardandola con un accenno di sorriso, lezio da papà severo e bonario in lui abituale co li pupi. Era un pediatra di molto merito. Si titillò con tre diti il ciondolino de la catena d’oro, sul panciotto. Spianò dopo un attimo di sospensione la fronte, tirò un lungo fiato, conzigliò, «me pare er mejo», di rispedire la pupetta ai relativi genitori: li quali però non esistevano, né l’uno né l’altra. Dimodoché dopo un po’ di tempo, azzeccato un pretesto ragionevole, venne restituita agli «zii»: previamente confortati a ricévela de ritorno da un bel vaglia bancario color verdemare de quelli così psicotonici della nostra diletta Comit. «La Banca Commerciale Italiana... pagherà, tàc, tàc, tàc, per questo bel signorino qui color acquamarina, la somma di lire...» Con più sono, meglio è. 
Don Corpi allungò le gambe, rattenuto co l’avambracci er cappello, come uno scudo su la panza, incrociò i ditoni delle du mano; che gli caddero in grembo. La seconda pupilla, già ventenne o ventunenne, la Ines, quella, dopo un po’ de tempo era andata a nozze: un matrimonio in piena regola. Aveva sposato un bravo giovane, di Rieti, figlio di buoni proprietari, studente all’ottavo anno di legge: il corso completo durò dieci anni. Lei, un bel giorno, propio quando le tenerezze de Liliana le s’erano più addensate sul capo, se n’uscì, tutt’a un tratto, «che voleva seguire la sua vocazione». E la seguì: con eccellenti risultati. Dall’avventura filiale, e urbana, aveva dedotto un po’ di dote, aveva racimolato un corredo: un par de valigge sane de biancheria co li pizzi. Affetta, com’era, da una forma classica di lungimiranza muliebre, non però di tipo graffignone come la precedente, s’era saputa cattivare tutto il cuore della madrina, così materno, o dolcemente sororale (Liliana aveva un otto o nove anni più di lei) e aveva agito con pertinace assiduità in una determinatezza infallibile, minuto per minuto, e nella premeditazione sistematizzata d’ogni proprio gesto o sorriso o parola o frullo, o sguardo o bacio: quelle che contraddistinguono il tacito volere della donna, quand’ha un «carattere»: maestra, a volte, nel suggerire un’idea senza neppur disegnarne verbalmente il contorno: per accenni, per prove e controprove laterali, per mute attese: dandole un avvio d’induzione, come lo statore all’indotto: con la stessa tecnica onde sul circondare e proteggere (e dirizzare al bene) i primi passi al primo barcollare d’un pargolo: incanalandolo però dove vuol lei, che è dove lui potrà far pipì nei, modi più dicevoli, e con rilasciamento esauriente. 
La Ines. L’avventura urbana! Dalle chiarità mattutine del Galilei, quando l’officio e il mistero lateranense, quando la verde allegrezza del sagrato accolgono dentro le mura il burino col divoto segno della croce, rattenuto il ciuccio per un attimo, ili! dai fastigi d’oro, a vespero, o di rubino, e dalle cavate piene del Maderno, del cui arco è scaturito nei secoli senza ritorno, in lode di Maria Madre, l’inno indelebile; dai P.V. e dai B.M. e dai dieci buchi der disco der telefono, e dallo scatolone della radio che aveva messa fuori uso un quattro vorte, la premeditante coturnice s’era portata a casa una certa sbrigativa attitudine a rammendar le calze alla finanziera, cioè prendendo er buco a giro largo, coll’ago e cor filo: e poi, daje, dopo quel rapido periplo la tirava a gloria, e ce mozzicava subito er filo, co li denti. Un rinnaccio de classe! Che manco la principessa Clotilde. Uno sbrozzolo, un pallettone da schioppo sott’ar carcagno, che te sentivi ariconsolà er core, pe tutta quanta la festa. Come tante pieghe orogenetiche verso il culmine d’una montagna a cono: de quelli coni che bucano le nuvole, che so’ poi li pedalini der Signore. 
Aveva recato allo sposo-studente, oltre ai giorni sereni e alle dolci notti della comunione delle anime e delle lingue, j’aveva portato... quanto una regazza je po portà de più pratico e de più gradito, a uno studente-sposo: una gran disinvoltura nello stirare i pantaloni, dopo avenne affiarati un sei o sette para al Balducci. Quella, se sa, era stata la sua disciplina, il suo gradus ad Parnassum. Chi non fa non falla. E sbajanno s’impara. 
La terza, la Virginia! don Lorenzo abbassò le palpebre, guardando a terra, benché uomo fatto, poi levò gli occhi ar cielo mezzo seconno come a di: nun fateme parlà! Congiunse le pie manone in una breve altalena sotto ar naso, davanti ar barbozzo: un va e vieni in der piano dell’azimut, di tipo italico decente: «Mejo nun parlanne!» aveva l’aria d’implorare dal dottor Fumi. Bisognava parlarne. I due commissari attendevano: Ingravallo anzi all’impiedi, cupo, agitando nervosamente una gamba. I dieci ditoni del gigante si abbandonarono sul grembo, interzati stretti l’uni all’artri: pettine e contropettine: quasi d’un apostolo de travertino, de quelli che stanno in piedi su la balustrata, sopra ar cornicione de San Giovanni Laterano. Dieci chili de ossi de ditacci p’acciaccà le noci, in quella fossetta nera d’ ‘a sottana: in dove scegneveno neri neri a correse dietro tutta la carovana de li bottoni da prete: che nun aveva né principio né fine, come il catalogo dei secoli. Le due scarpe in riposo, lustre, color beccamorto, non più di tutto il rimanente d’altronde, priapavano fuori da la vesta che pareveno du affari proibbiti, bivaccavano per conto loro incontro a quell’artre der dottor Fumi, fin sotto a la greppia de le scartoffie, fra le quattro gamme der tavolo: con dentro, de certo, du pezzi de piedoni doppi de San Cristoforo de sasso. 
«Mbè, la Virginia?» Poco a poco se scoprì er carattere: la vitalità spavalda, la strafottenza del tipo. Risultò che la fascinatrice aveva fascinato due anime: in due direzioni disgiunte. Le donnette, anzi, dicevano che l’aveva stregati tutt’e due: e ciaveveno presi li nummeri. La sua procace bellezza, la sua salute, de diavola de corallo dentro de quela pelle d’avorio, i suoi occhi! davvero c’era da crede che avessero ipnotizzato marito e moje: «queli modi prepotenti», quell’aria un po’ de campagna, che rivelaveno, però, «un gran core sincero» (Pettacchioni) o, com’ebbe a dire sorridendo e corrugando a un tempo le ciglia nel tic professionale il dottor Ghianda, «una pubertà facinorosa». Al quale professore Ghiandola, senz’esserne dimandata, la Virginia javeva fatto vede la lingua con una estromissione rapidissima e un altrettanto pronto richiamo in cassa, de tipo automatico a punta dritta ch’era un brevetto suo: sostenendo indi col gelido imperio di tutto il volto, se pure con una scintilla di malizia negli occhi, il di lui sguardo irritato, solforoso: pieno di corruccio e di vapori di catrame. Sentendolo chiamar piedatra, o piedastro, con rispetto granne, da tutte le signore de la scala A, ma da quarcuna pure de la B, aveva creduto che l’egreggio sanitario, che vedeva annà su e giù pe le scale der palazzo co quela palandrana de beccamorto a faje caccià li vermi a li pupi, fosse, ar medesimo tempo, ‘o callista ‘e monzignore, cioè di don Lorenzo: che fosse questo anzi, il mestiere base del palamidone. Idea che una volta entratale in capo, nessuno era più stato buono di levargliela. Le dimensioni de le fette de don Lorenzo j’aveveno dato la sicurezza d’esser nel giusto, a crede che pe un tanto piede ce volesse un piedatra de quer calibro. Del resto, ammappela! du fianchi in gloria, du seni de marmo: du zinne toste che ce voleva lo scarpello: con quel dar di spalle a ogni tratto, superba, e quelo spregio der labbro, come a dì: merda a voi! Sissignori. 
Dopo mute ore la bizzarra protervia, la crudele risata: con quei denti bianchi a triangolo come d’uno squalo, come dovesse laniare er core a quarcuno. Quegli occhi! da sotto le frange nere delli cigli: che sfiammavano a un tratto in una lucidità nera, sottile, apparentemente crudele: un lampo stretto, che sfuggiva a punta, de traverso, come una bugia delatrice della verità, che non anco proferita vorrebbe già smorire sul labbro. «Era una regazza capricciosa, ma tutta core,» opinò dopo un’ora il pollarolo, convocato a sua volta. «Una gran bona fija, credeteme: je piaceva de fa la sfacciatella,» confermò la moje der pizzicarolo de via Villari: «Ah! la Virginia der terzo piano? com’era sempateca! Quella? quella cià er diavolo da la parte sua,» diceveno l’amiche. «Quella cìà Farfarello in corpo.» Ma una, ch’era de li monti de Pàtrica, je scappò detto un po’ diverso: «quella cià Farfarello in culo»: e subbito se fece rossa. Il commendator Angeloni, estratto da Regina Coeli per un’ora, tanto sì da faje pijà una boccata d’aria puro a lui, pover’omo, e titillato a Santo Stefano der Cacchio, subbito ritirò la testa in de le spalle come intimidita lumaca: «Mbò», si limitò a mugliare, mettendo un par d’occhi malinconichi, da paré un bove de malumore: gialli, je s’ereno fatti, in pochi giorni, a la Lungara: «m’aricordo che l’avrò intruppata pe le scale un par de vorte, ma nun la conosco pe gnente»: nun posso dì gnente, sentenziò, «d’una persona che non conosco. Era la nipote dei Balducci, m’hanno detto.» 
Una volta, più volte (riferì ancora don Lorenzo), senz’aver forse molto presente 
in quel punto la «figura» o la «posizione» di madre che Liliana Balducci intendeva assumere, lei, cioè la Virginia, in casa, a via Merulana, fuggitivo ne li treni in fuga il marito, carente la serva, lei aveva abbracciato e baciato la signora. «Quanno je pijaveno certe f...urie». Don Lorenzo riescì a salvar l’effe: con la sicura voce della carità riferì: lei, in que’ momenti, delle due l’una: o je dava de vorta er cervello, o fussi che se credeva de dové fa la parte ar teatro. Certo è che lei abbracciava e baciava la padrona. 
«Padrona?» interruppe il dottor Fumi aggrottando i cigli. 
«Padrona, madrina: fa lo stesso.» La baciava come po bacià una pantera, dicennole: «Sora mia bella Liliana, voi site ‘a Madonna pe mme!» poi, basso basso, in un tono di ardore anche più soffocato: «Ve vojo bene: bene, te vojo: ma una vorta o l’antra me te magno»: ‘e le strizzava il polso, e glie lo storceva, fissandola: je lo storceva come in una morsa, bocca contro bocca, de sentisse er fiato der respiro in bocca, l’una co l’artra, zinne contro zinne. Don Corpi rettificò, è naturale: «Vojo dì: accostandosi a lei cor seno e col volto.» Ma tanto Ingravallo che er dottor Fumi aveveno capito a la prima. 
Un giorno, in un accesso d’amor filiale, davvero je mozzicò un’orecchia: che Liliana se spaurì, quela volta. Madonna! aveva provato un dolore! Era corsa fino a li Quattro Santi ar galoppo. Pallida, ansimando, gli aveva mostrato quella parte che si chiama antilòbo, ancora puntato de quella coroncina... de queli denti! Ammàppeli! così pe gioco... Brutti scherzi, però. Si quell’è un gioco. 
Allora aveveno cercato de tiralla in chiesa, «de faje dì un po’ d’orazzione bone, più orazzione che poteveno. L’orazzione, se po dì, so’ er bijetto p’er Paradiso: o armeno p’er Purgatorio, chi cià la valigia grossa, che ar dazzio der Paradiso nun ce passa... a la prima. Orazzione? Macché! Lei te le cantava ner naso, da tirà li schiaffi, come uno stornello, de queli stornelli romani che se canteno su la ghitara... malinconichi, tra naso e gola: oppure sgrullanno la capoccia tutto er tempo, co l’occhi a la punta de le scarpe, merememè merememè grazzia plena in zulla vena, come a volé pijacce p’er bavero a tutti quanti, la Madonna compresa. La Madonna! Dico io! Una lagna da fa dormì li pupi. Vergognosa! Che si c’è quarcuno che po aiutacce, a sto monno, quella è propio la Madonna, e lei sola: perché ar Signore... me pare a me che stamo a fa de tutto per faje pijà certe ff... rrasche». Salvò l’effe: ancora una volta. 
O magari col velo, ma co la testa in aria, a messa granne, in una sorta di felice astenia, o di attediata ecolalia: se distraeva, cor paternostro de madreperla che j’aveva rigalato Liliana: teneva er libretto all’incontrario, da non poté leggelo, manco si ciavesse capito quarche cosa. La festa der Corpus Domini... nun aveva avuto er core de rifaje er verso de li canonici de San Giovanni, all’ufficio? co la voce d’omo? che solo er diavolo poteva avejela prestata, in quer momento. Che li Santi in trono pareveno protestà tutti quanti, benché dipinti, perché propio j’aveva fatto perde la pacienza. Lui l’aveva guardata in faccia, interrompendosi de cantà... seduto alla destra de monsignor Velani. Poi, dopo messa, je n’aveva dette quattro là pe là, sotto ar portico, quanno erano annate a salutallo, a lei e a Liliana! Ma lei, pe tutta contrizione, aveva arzato le spalle, quela bestiaccia: «da sentisse rode le mano». E alzò e spalancò la mano sopra il tavolo, di cui tanto Fumi che Ingravallo dovettero alfine strabiliare.  
6. 
  
  

In quello stesso pomeriggio di martedì 22 mentre tuttavia durava nella stanza numero quattro la riferita confabulazione dei tre, di poi registrata ad atti come 
«quinto interrogatorio del Balducci», pervenne a Santo Stefano (al Collegio Romano) comunicazione telefonica della Tenenza dei Carabinieri di Marino concernente le indagini per il «caso Menegatti». La comunicazione fu raccolta dal maresciallo Di Pietrantonio. Confermava la trasmittente Tenenza, in via ufficiosa e a titolo di semplice premonizione, che il proprietario della sciarpa verde (non più radicalmente verde a quell’ora) era stato identificato per tale Retalli Enea detto Luiginio d’anni 19, di Anchise e di Venere Procacci, nato e dimorante in località «il Torraccio», non lontano da le Frattocchie: Lui-ginio! Eh, sì, sì, Lui-ginio!... momentaneamente irreperibile. Sì... no... già... perfettamente. No, no... al Toraccio nun l’aveveno trovato. In parole povere, uccel di bosco. Da quanto le diligenze auricolari del Di Pietrantonio pervennero infine a racimolare dal naufragio del testo (il crepitio del microfono e l’induttanza della linea sonorizzavano il testo: interferenze varie, da contatto urbano, intercicalavano, straziavano la recezione), apparve a un dipresso che l’incauto Enea Retalli o Ritalli, sive Luiginio (ma evidentemente Luigino) aveva dato a tinger la sciarpa... trentasei quintali di parmigiano! brondi ghi barla? spediti ieri da Reggio Emilia... Parla il tenente di vascello Racace. Brondi, brondi! Tenenza carabinieri Marino! Di parmigiano stagionato brondi... gasa del signor ammiraglio Mondegùggoli! società Bavatelli di Parma, sì, a mezzo camion... Tenenza carabinieri di Marino, precedenza di servizio. Trentasei quintali, sì, tre camion, partiti ieri alle dieci. No, la signora gondessa è in gliniga... In gliniga dal signor ammiraglio... a via Orà-zio: Orà-zio! Sì, signor-sì. No, signor no. Mo domando. Precedenza servizio polizia, questura di Roma. Trentasei quintali da Reggio Emilia, tipo Parma, di prima assoluta! Il signor ammiraglio ha fatto l’oberazzione lunedì: l’oberazzione della vescica: della vescì-ca. Sì, signorsì... No, signor no. 
Ciò che fu possibile estrarre da un tal guazzabuglio fu, insomma, che il Retalli avea portato a tinger la sciarpa a una donna dei Due Santi, sulla via Appia, certa Pàcori, Pàcori Zamira. Zamira! Zeta come Zara, a come Ancona! Zamira!... sì, sì, Zamira! nota a molti, se non a tutti, in quel di Marino e di Albano, per i molti suoi meriti: se non per tutti i suoi meriti. Poi la comunicazione s’interruppe, a beneficio e in onore delle superne gerarchie: o così parve. A notte pressoché discesa arrivò a Santo Stefano in motocicletta il brigadiere Pestalozzi, o Pestalossi che fosse, latore di un rapporto scritto e di più di un messaggio verbale della Tenenza, cioè del maresciallo Santarella, che in vacanza dell’ufficio, in quei giorni, o in altra congiuntura del titolare tenente, la impersonava. Erano le otto, l’ora dello stomaco e del cucchiaio, a momenti. Il Balducci era già stato licenziato, il commendator Angeloni coi più cari saluti salutato, liquidato. A quell’ora doveva essere di certo a letto, e col naso più goccioloso che mai, berretto a calza tirato giù fin sul collo e sugli occhi: impolpato dentro il letto de la nonna sotto pingue strapunto e su polputa ma deserta coltrice, la più adatta, e la più ambita da un polpettone di quel calibro. La voce di Fumi: «Entri pure il Pestalozzi». La nausea delle cartoffie del Cacco stava per vincere i più resistenti... Ma quel nome ossolano e carabinieresco li elettrizzò. Il Pestalozzi, che s’era particolarmente addato a braccare la sciarpa, fu subito ricevuto e sentito al numero quattro, da Fumi: presenti Ingravallo, Di Pietrantonio, Paolillo, e lo Sgranfia. Il quale, protetto dalle ombre d’una specie di stufone spento, finiva d’introdursi in bocca e di masticare alla svelta gli ultimi relitti d’una pagnottella imbottita, al rosbiffe, che per la più gran parte aveva già provveduto a sbranar di fuori: in corridoio. Er Maccheronaro, a via der Gesù lì a du passi, nun perdeva l’occasione de dimostraje la propria simpatia: e glie l’aveva embricata, dentro, di tali tre fette di filetto, che gli eran parse, appena vederle, tre squamme di ardesia su di un tetto di Sampierdarena: così adagiate l’una addosso all’artra, e arette tutt’e tre da quer po’ po’ de travicello d’uno sfilatino doppio, ch’era na ciavatta, Madonna!, ch’oggigiorno manco se n’aricordamo, com’ereno, doppo che c’è stato de mezzo l’impero. Il toccasana dei toccasana, per il suo stomaco vuoto, di minestra, ma di già rorido nei succhi d’un’anticipata gratitudine, e non meno prefasata peristalsi. L’avventori ar banco, a vedé quer miracolo, aveveno fatto l’occhi così: è naturale: chissà quello che aveveno pensato! «Neh, Pompé, che ffacite llà ddint’a chella stufa?... Venite accà,» gl’intimò, il dottor Fumi, «ch’avit’a sentì pure vuje.» Principiò e seguitò a leggere a voce alta, con musico vigore, il rapporto della Tenenza di Marino. Quand’ebbe ultimata la lettura, prese a titillar di domande il Pestalozzi e, alternamente, il Di Pietrantonio, aiutandosi de’ lucidi occhioni, che nella non molta luce della stanza rigirò, un po’ per volta, sui volti di tutti: emolceva a referti paralleli e di più in più vivi, di più in più racconti (come rivoletti germani) la carabinieresca, abbottonata disciplina del primo e lo zelo infurbito di chest’altro. Quella disciplina è ben manifesta, per solito, ed è operante in un tacito, in un duro e guardingo resistere di fronte alla concorrente organizzazione di polizia. Il fatto è che alle occhiatone dolcemente invitanti del dottor Fumi, così nere, così limpide e malinconiche dal pallido volto - anche a notte, e di flebile candelaggio di madama pera - anche a notte, smontati appena di motocicletta, al meraviglioso timbro della su’ voce non resistevano i più abbottonati. Il Pestalozzi, poi, dovendo ancora acciuffare il Retalli, di cui gli era rimasta in mano la sola sciarpa, era a sua volta interessato a ottenere il più possibile dai cinque esperti del Cacco: a pompar fuori il meglio dalla cisterna urbana di Santo Stefano del Cacco: dati di fatto, illazioni varie, motivi di suspicione, fondate ipotesi, dubbi, conzigli, notizie fresche: e gli ultimi a o ba, le ultime disgiunzioni della gran sagacia deduttiva. E poi l’amor proprio del segugio, l’orgoglio del partecipare le indagini per il gran dilitto di cui tutto popolo fabulava, da Frascati a Velletri, e tutt’Italia giucava li nummeri al lotto, a le mejo rote der Lotto: Reggio Lotto, in allotta, e oggidì Lotto della Repubblica. Talché una sorta di osmosi polizziacarabinieri principiò e seguitò a celebrarsi in chella stanza numero quattro, e in chella tarda ora a traverso la membrana di pelle d’asino della diffidenza reciproca, della gelosia professionale e dello spirito di corpo: un flusso d’informazioni bisenso, una partita di do ut des, con fasi amabili, o addirittura lasche alla chiacchiera. 
Di Pietrantonio conosceva di persona ‘o maresciallo Santarella: non parliamo Ingravallo, che gli era anche lontano consobrino per via di vecchie, di zie, di comari a catena: la catena delle cognazioni, ribadita nel tempo lungo la catena del monte, del duro monte Appennino, aveva risalito l’acerba costura dello stivale su, su, da Vinchiaturo a Ovindoli. E, poi, Santarella era il fulgido epònimo della disciplina: e del dovere laziale. Di Pietrantonio, per parte sua, conosceva la Pàcori, e anche lo Sgranfia la conosceva: perché s’erano fermati a bere, di settembre, al banco: la Zamira! del di cui nome e di cui portamenti, palesi o velati, a non dir secreti o splendidi, il mito s’era fatto scopritore o troviere e poi divulgatore e trombettiere: da Marino ad Albano, da Castel Gandolfo ad Ariccia. 
Intanto il Retalli Enea d’anni diciannove, di Anchise e di Venere Procacci, si pervenne a chiarire che aveva nome di battaglia Iginio e non Luiginio: «che non ha senso, che non ha senso!» bociarono concordi. «Bah, già!» convennero. Scherzi dell’induttanza, del sovraccarico di linea! Dell’insufficienza del servizio! Dei lavori in corso! D’ ‘o passaggio di gestione! 
La Pàcori, oppressa allora da un cumulo di stracci, panni, golfoni e maglie buche a ritingere, che ce voleva er callaraccio de Berzebù suo padrino, con quarche sospetto de cavalleria dentro, per colmo d’angoscia, aveva subappaltato tutta la ritintura, ivi compresa la fusciacca verde, alla ditta Ciurlani di Marino: che du giorni prima, infuriando uno stravento equinoziale de’ più strulli con pioggia in traverso, aveva mandato un calesse a ritirare quel ciarpame: e il cavallo era arrivato fradicio e talmente sfessato, povera bestia, che bisognò scioglierlo, e poi asciuttarlo in una stalluccia, dove ci pioveva, carezzargli il culo, e dargli bere un vin caldo. Era là, cioè a Marino, che il Pestalozzi aveva fatto capo. C’era della roba già tinta, in mucchio, s’un tavolo: e roba da disinfettare o da ritingere, in due sacchi addoss’ar muro, per terra: ma pe quelli, avvertì la sora Mara, facesse attenzione sor brigadiere, la prudenza non è mai troppa: «Son bestie che quando s’attaccheno...» 
Il Pestalozzi, uomo di fegato, aguzzò gli occhi, ma con le gambe si ritrasse all’istante: «due passi indietro!»: tàf, tàf, con vivacità militare: come alla scuola di plotone. Dopo alquanto razzolare della titolare Ciurlani (cioè la sora Mara medesima) in quel mucchio sur tavolo, ch’era di già cotto slavato, epurato in autoclave d’ogni eventuale quadrupede, n’era venuta fuori appunto la ciarpa, tirata da un capo, la fusciacca: interminata: come un serpente tratto di buco dalla coda: verde un giorno, sì, verde-nero, a puntini: ora non più verde, ma non ancora del color nuovo, che in idea doveva essere un marroncello, perché a perfezionare il marroncello si richiedeva una seconda immersione. così la Ciurlani. 
Come mai, però, domandarono i periti, la Zamira, la carzonara dei Due Santi, aveva osato la delazione? 
Il Pestalozzi lasciò intendere che l’idea di rivolgersi a lei gli era venuta a lui: e «solo in un secondo tempo» al maresciallo Santarella. Erano i due motociclisti della Tenenza. E lui disponeva, nel corso di certi scambi di vedute a tu per tu con certe capocce toste, d’argomenti non del tutto inefficaci, anzi piuttosto suasivi; contro la gran piaga della reticenza: (Di Pietrantonio correva già, col pensiero, alla cinghia dei pantaloni): argomenti che in qualche caso potevano arrivare a equilibrare e perfino a vincere, ne’ cuori dubbiosi, ne’ villani incaponiti, il timor contrario, il terrore della privata vendetta. Ma con la brava Zamira... non c’era stato bisogno di arrivare a tanto. Che! Una donna! E una donna di quella stoffa, e di quel taglio! Nemmeno di chiamarla a caserma ad audiendum verbum, nemmen di quello s’era presentata l’opportunità: cosa che, del resto, «per così dire», le avrebbe fatto più piacere che paura. Oh! Il maresciallo Santarella, cioè insomma... la Tenenza, sì, la Tenenza aveva le sue brave pedine: un po’ qua un po’ là: «su tutto lo scacchiere»: e il Di Pietrantonio, togliendo la frase al collegaavversario, fece la più avveduta faccia del Cacco. «‘N miezz’a ‘o teatro d’operazione,» soggiunse Fumi, serio, voltando un foglio, con soave gravità. Una nipote... una lavorante della Pàcori. Un mazzolin di primule per il signor maresciallo. Due calzini a maglia per la sua pupa più piccina, la Luciana, con poche parole d’accompagno. Poche, ma buone. 
Fumi ricordò allora che una ragazza, chella Ines, Ines... - e andava cercando con la mano int’ ‘a pratica de le belle donne, che teneva sul tavolo quasi memorante olezzo di bei fiori in un vaso - Ines... Ciampini, sì, da Torraccio, o Torracchio, sull’Appia, la fermata dopo le Frattocchie, era stata fermata alcune sere innanzi da un pattuglione del commissariato San Giovanni: la sera primma d’ ‘o delitto: fermata per vagabondaggio, mancanza di documenti; e su fondato sospetto di esercitare attività meretricia in luogo pubblico (Santo Stefano Rotondo!), attività cui non era abilitata da patente: (semplice dilettante, dunque). Aveva oltraggiato gli agenti d’ ‘a forza pubblica titolando l’un di loro «sor cafone mio». Era incorsa, «ammettiamo pure con prestazioni sporadiche e in forma, quella sera, del tutto occasionale,» era stata sorpresa in contravvenzione flagrante del dispositivo Federzoni circa il risanamento dei marciapiedi urbani in regime stivaliàta, «a sensi de chella circolare speciale d’ ‘o ministero de l’interni, d’ ‘o quattordici febbraio, vuje ‘o sapite, Ingravallo, numero setteciento diciotto, aiutateme mi poco, Ingravallo, c’ ‘a memoria vuosta! - relativa a la moralizzazione dell’urbe.» Ingravallo non aprì bocca. «E trattenuta per sospetto di complicità in un furto,» rammentò Di Pietrantonio al commissario capo. «Qua’ furto?» «Un pollo.» «Addo’ l’ha rubato?» «A piazza Vittorio.» La mattina di mercoledì giorno 16, dopo la, retata delle ninfe, il brigadiere Juppariello der commissariato San Giovanni l’aveva fatta vede a le du donne che aveveno patito lo sgraffio, tre giorni prima: na pollarola, e una che venneva le ciavatte. Un furto d’un par de scarpe scompagnate a la bancarella di quest’ultima, e d’un pollo pure, lì vicino, a l’artra bancarella: spennato e senza collo, da quanto risultò, ma in compenso con tre penne ar culo. E a falle sparire, tanto le du scarpe che er pollo, erano stati du tipetti, un giovinotto e una regazza bionna, «che s’ereno aggirati pe diverso tempo nel viale, in quell’ora affollatissimo, poi s’ereno separati, ed erano misteriosamente scomparsi co la merce.» La moie der pollarolo, ch’era quella che strillava più de tutti, «in un primo tempo» aveva creduto ravvisare nella Ines, Cionini Ines da Torraccio, propio la regazza bionna ch’ella pensava le avesse fregato il pennuto, o pe meio dì lo spennato. «In un siconno tempo» sembrò titubare. Un pollo-campione, p’illuminà la polizzia, era stato portato a San Giovanni, simile in tutto al collega resosi irreperibile tre giorni prima, domenica 13: e così du scarpette: accusata e accusatrice carrozzate infine a Santo Stefano, e la scarpara puro insieme a loro. Interrogata in questura, la Ines aveva sostenuto e giurato, a furia de «me pozzino cecà si nun è vero», di non saper nulla del volatile, anzitutto: d’essere una lavorante sarta, per quanto priva d’occupazione pel momento: e d’aver già lavorato come carzonara a li Du Santi, dopo le Frattocchie. «E poi?» Poi, d’essersi ridotta a Roma: a cercà lavoro. «Cercà da lavorà nun è vergogna.» Il pollo puzzava maledettamente: tradotto in questura pure lui, con le due scarpe tutt’e due sinistre, una vorta a Santo Stefano del Cacco se vede che j’aveva preso paura, forse, e aveva fatto la cacca, benché morto, sur tavoluccio de Paolillo: poca roba, in verità. 
«Sentimmo la Ines!» 
Fumi si storse su la seggiola, premé il bottone, chiese di Piscitiello, incaricò Paolillo di farsela consegnare da Piscitiello, semmai, si nun l’aveveno spedita a Regina Coeli. Paolillo, dopo un po’, introdusse una ragazza piuttosto provveduta del suo, con du meravigliosi occhi nel volto, luminosissimi, lucidi: ma incredibilmente sudicia e scarruffata, e certe calze! certe scarpe de pezza mezzo sfasciate, con un dito de fora. Una ventata di selvatico, a non dir peggio, alitò nella stanza; un odore! «Mm! che robba!» si dissero tutti, mentalmente. 
Dopo qualche preambolo sulle generalità, Ines... Ines Cionini, interrogandola un po’ il dottor Fumi un po’ don Ciccio, e squadrandola da capo a piedi il brigadiere Pestalozzi, il maresciallo Di Pietrantonio e Paolillo, e un poco dietro a loto lo Sgranfia, la Ines capi a volo che cosa volevano da lei. Volevano sentire la sua voce. Sicché cantò. Senza farsi pregare. Forse aveva lavorato dalla Pàcori? Sì, proprio, dalla Pàcori: dalla Zamira. Zamira? Sì, er nome suo era quello. Ec... come? Ee... quando? Ee... per quanto tempo? Ah, per più d’un, anno! Ee... che cosa faceva la Zamira? Che genere di clienti aveva? Ah, de tutti i generi! La frequentavano un po’ tutti, e tutte: pe via de le carte. Ee, tra parentesi, che cosa ci teneva, in cantina? Sì, inzomma, ar piano de sotto? Ah, ce teneva una damiggiana d’olio! Ah, er pecorino pure! Ah, già, bah. già già. E quante ereno in der labboratorio? Di che età? Dai sedici in su? Ah, ma puro quarcheduna de quindici. E li carrettieri? E li cavalli? Ah, nella stalla... Sicuro! 
E che artre bestie ce staveno? E chi le governava? Ah ssì? Ah, ci giocaveno a scopone pure? Ah, ma solo il sabato! Si capisce, si capisce. È naturale. Sabato de sera. Ciannàveno un po’ tutti. Il vino era bono. Sì, ciaveva la patente: per l’alcoolichi pure. Eccetera, eccetera. Venne a galla che di venerdì e martedì la frequentavano anche i carabinieri, i reali. Il Pestalozzi avrebbe voluto, e soprattutto dovuto, protestare. Pensò ch’era invece preferibile anche per lui, “exotéro”, di lasciar correre un po’ d’acqua fresca, da un così generoso rubinetto: e si contentò, ne’ momenti critici, d’una alzata di spalle e d’una scrollatina del capo: «storie! storie!» Tutti ci credevano, però. La questura si ciba appunto di storie: in concorrenza coi carabinieri. Ognuna delle due organizzazioni vorrebbe monopolizzare le storie, anzi addirittura la Storia. Ma la Storia è una sola! Be, sono capaci di spaccarla in due: un pezzo per uno: con un processo di degeminazione, di sdoppiamento amebico: metà me, metà te. L’unicità della Storia si deroga in una doppia storiografia, si devolve in salmo e in antifona, s’invasa in due contrastanti certezze: il rapporto della questura, il rapporto dei carabinieri. L’uno dice sì, l’altro dice no. L’uno dice bianco, l’altro dice nero. Cani e gatti van più d’accordo. 
La Ines Cionini aveva avuto er su paino, ammise, un bel ragazzo: un ganzerino propio ammodo. Il quale, pensaron tutti, doveva averla incontrata e fors’anco... perché no? assistita di qualche tenerezza... in epoca molto più prossima a un di lei bagno. Era molto bella, a rimirarla, non ostante lo squallore della stanza, la mucida luce sull’ammattonato: e bianca nel volto e nella gola tra le gore e le sfrangiature del sudicio: con tumidi, rossi labbri: quasi di silfide bambina, ma precocemente infastidita dalla pubertà: e alquanto ondulativa nel volgersi, o nel porgere, e dogliosa di volumi (un po’ alla maniera di certe Sante, di certe monache ritenute spagnole) come d’un inoppugnabile incarico, d’una soma greve, eterna: impostale da libito antico della Natura. Superfici imitative del volume vero e nucleale parevano ripetutamente avvolgerla, come circoli il sasso gittato ad acqua, amplificavano al «pensiero degli astanti» cioè al maschile delirare quel suggerimento stupendo: emanava da lei, con il notato olezzo, il senso vero e fondo della vita dei visceri, della fame: e del calore animale. L’idea che è propria delle stalle, delle fienaie: e diserta le ossute prammatiche. I suoi occhi-gemme, di pupa, enunciarono a tutti quei maschi di poca cena il nome d’una felicità tuttavia possibile; d’una gioia, d’una speranza, d’una verità superordinata alle cartoffie, ai muri squallidi, alle mosche secche del soffitto, al ritratto del Merda. Dello smargiasso impestato. Forse, povera creatura, l’aggettivo che tanto si convenne al defecato maltonico doveva declinarsi per lei? No, non pareva malata: se non di fame, di bellezza, di pubertà, di sporcizia, di sfrontataggine, di abbandono. Forse di sonno, di stanchezza. Il suo paino l’aveva indotta al furto, dopoché a compiacersi di lui: perché alcuni susurri al cader di notte s’erano conchiusi in un «arràngiati». La sua maestra le aveva schiarito le idee, o le aveva porto l’occasione di schiarirsele. L’amore, dopo averla insudiciata, l’aveva regalata alla ventura della fame. Tutti, ora, speravano di trovare in lei la desideratissima spia di cui avevano bisogno. Lei lo capiva, lo sapeva: del resto, bah, chi se ne frega? il male che i giorni azzurri le avevano rovesciato addosso era tanto, che bisognava ricambiarglielo, ai protettori. Cicalò, sicché. De la maestra. «Maestra de cucito? Maestra sarta?» Maestra de sarta e non de sarta. Della Pàcori: sì: della Zamira. Parallelamente refertavano il Pestalozzi, il Di Pietrantonio. Ingravallo tentennò del testone puro lui: un tre o quattro vorte. 
Della Zamira, sì: nota a tutti, tra Marino e Ariccia, per la mancanza degli otto denti davanti (la di lei dentatura aveva inizio dai canini: la Ines indicò i propri a paradigma, aprendo e storcendo con un dito i bei labbri), quattro sopra e quattro sotto: di che la bocca, viscida e salivosa, d’un rosso acceso come da febbre, si apriva male e quasi a buco a parlare: peggio, si stirava agli angoli in un sorriso buio e lascivo, non bello, e, certo involontariamente, sguaiato. Per quanto, si mormorava, quel rictus, quel vòto, riuscissero a taluni reali o non reali di torbida illècebra. Talora, in certi pomeriggi, aveva occhiolini sfavillanti e pur molli, gonfi, sotto, come du vesciche sierose, pieni d’una stordita e un po’ imbambolata malizia: sbronzetta, era: lo si vedeva: lo si sentiva al fiato: le rughe allora si appianavano come a spiro di Favonio. Tal altra, pareva più lei: lei, Zamira: la luce doveva battere allora sul duro, come il vampo d’un malefizio alla versiera sulla faccia. La ruvidezza aspra e l’arruffio tempestoso de’ capelli, e le rughe parallele e profonde di tutto il volto, ch’era bruno e scuro, di legno, e l’avida ambage dello sguardo a que’ momenti ne designavano ulteriormente l’aspetto: come di maga antica in sacerdozio d’abominevoli sortilegi e di ràdiche, proprio radici cotte, di cui s’inveschi l’anima a Lucano, a Ovidio. La di lei attività era ufficialmente quella di rammendatrice e rimagliatrice, carzonara, tintora, in qualche caso merciara, impirica de guarì la sciatica per segreto d’erbe, indovina chiromante e cartomante patentata con spaccio di vini e liquori alli Du Santi, e maga orientale con diploma di prima classe: al laboratorio-bettola dove i carrettieri dell’Appia sostassero per una fojetta, appunto ai Due Santi. Era consultata nel ramo esorcismi, aperture o rotture d’incantagionie, sbratto del malocchio di dosso ai lattanti col cèrcine, ai bambini scemi, scongiuri preventivi in genere: e anche in materia de lavatura de la testa da fa annà via li pidocchi, e quando je se fermava er mese a quarche regazza, o per nervosità o per altro sturbo che ce ne so tanti, se sa. Immunologista di gran pratica e di rara competenza, dopo la liberazione d’Italia dall’incùbo dell’idra bolscevica a opera der Gran Balcone del Santo Sepolcro (28 ottobre 1922), il cracking della jettatura sive jella, di cui padroneggiava l’infinita casistica, di più in più costituì l’argomento principe de’ ricorsi alla di lei arte. Non di tutti, però. Era esperita, sie et simpliciter, come da dono di natura, era autrice di decozioni propiziatorie e anche revulsive, al caso, e di quasi tutti i filtri e le polverine d’amore d’ambo i segni, cioè positivo e negativo. Faceva abortire le canine di razza, poerine, ingravidate da un bastardo randagio. Sapeva inculcare, dietro onesto compenso, un quanto cioè un tanto d’energia cinetica a’ dubbiosi, a’ malsicuri: confortarli al pragma, corroborarli all’azione. Con dieci lire si acquistava di sua medicina la facoltà di volere. Con altre dieci quella di potere. Dekirkegaardizzava farabuttelli di provincia incanalandoli a «lavorare» in città, detta l’Urbe, dopo avergli deterso l’anima dalle ultime perplessità: o dagli ultimi scrupoli. Instradava gli audaci, mostrando loro che le deboli creature del sesso non attendevano di meglio, a’ quegli anni, se non d’appoggiarsi a un qualcuno, d’attaccarsi a un qualche cosa, che fosse buono a divider seco un immemore orgasmo, la dolce pena del vivere: li catechizzava alla protezione della giovane, in concorrenza con l’omonima associazione. E i catecùmeni l’avevano a maestra, pur titolandola da una bevuta all’altra di sudicia, quando si credevano la non udisse lei, beninteso, e di ciabatta frusta e bbefana: data l’avventatezza del secolo, e la loro personale sguaiataggine: e magari di maiala, anche, la titolavano, una Zamira Pàcori! e di vecchia ruffiana, bah, una sarta come lei! una maga orientale con diploma di prima classe! Bella gratitudine. E aveveno er grugno pure de dì che li Du Santi... ereno... un par de «nun zo se me spiego», accompagnando l’asserto con una manucaptazìone-prolazione invereconda del paro stesso, per quanto involtato nel «cavallo»: invereconda, oh sì, ma non infrequente, allora, nell’uso del popolo. Calunnie. Bocche sporche. Teppa de campagna, che la notte va a rubbà li polli. 
Oh! il nitido filo del tempo, del tempo albano e suo, si sdipanava dal guindolo di sua divinazione come verità da responso. Torbi o sereni, ma tutti convocati nel suo presagio, i giorni e i casi parevano orbitare d’attorno a lei, sorgere e vanire da lei. A lei, poi, di quella così trepida aspettazione della moltitudine le cadeva bene trapungere il loro lungo studio a’ credenti, cavar d’ogni consulto la sua liruccia, d’ogni dilazione del miracolo un incremento alla fede, d’ogni più segreto suffumigio l’aurora boreale d’un improbabile richiamato a probabilità. Già, be’, sì, ma chi lo penzerebbe? Non ostante la gratitudine e la revenziale fifarella di cui era generalmente circondata - speranza e religiosità collettiva, senso orfico del mistero e della trascendenza nel gran cuore del popolo - non ostante i diplomi e i titoli, orientali ed occidentali, e dopo le infinite sedute, dopo tutti quegli énkete pénkete co’ ‘a testa de morto sur tavolino, e l’onorato agucchiare de più d’una decina d’anni, le sue pupe a cerchio, povere cicie, ad agucchiare o a sferruzzare o a cucir bottoni di conserva, be’, già, sì, bravi, chi s’ ‘oo poteva immaginà? Non far del bene se non vuoi aver male. Pe la Zamira pure. Il basso scetticismo dei carabinieri persisteva ad avvilupparla della solita indecorosa suspicione di che costoro... le molte volte, arrivano a sciupar la vita alle indovine, o amareggiar l’anima alle cartomanti: alle più rispettabili sarte. E cioè pensavano, anzi ne erano sicuri, che fosse una ex-puttana (e nessuno poté più rimoverli dall’opinione) vedova, d’anno in anno, d’una quindicina di ex-capitani di complemento in congedo: di cui però a poco a poco, d’autunno in autunno, s’erano fatte evanescenti le peste, fra Marino e Ariccia. Dàtasi, al cader degli anni e degli incisivi, a un sempre più scaltro e ardimentoso lenonato con epicentro appunto ai Due Santi, in una specie di cantina sotto al laboratorio-bettola: cantina o seminterrata sala che aveva luce, e magari sole. dall’orto. L’orto - poca bieta scarruffata pure lei: un qualche cavolazzo spampanato nello scirocco, intignato dalle pieridi: cm una bieca gallina a starnazzarvi di tempo, in tempo, rattenuta per uno spago tutto groppi, e a far l’ovo a Pentecoste - era a un livello più basso che la quota stradale ordinaria, dell’Appia. La cantina, o sala seminterrata, era provveduta d’un orinale: e, più, d’un lettuccio: che però crocchiava per un nulla, sto coglione, e aveva tegumento d’una «coperta da letto» verde-stinta: con damascatura di indecifrabili maculazioni: le quali, nel loro autentico ermetismo, tiravano al barocco: a un barocco pieno e fastoso e di primo getto, per quanto poi lavata e rasciugata nell’orto, la coperta: e parevano escludere già in ipotesi ogni tardo stento neoclassico. Attaccata ar muro, da una parte del lettino, c’era da vede un’oliografia molto bella: un ber branco de regazze gnude, a la visita medica, e un dottore cor pizzetto nero. Che le stava a guardà una per una, ma vestito da romano antico, senza occhiali, e invece co li sandali. Er pollice l’aveva infilato ner buco d’una tavoletta e coll’artre dita de l’istessa mano strigneva un mazzetto de pennelli, da spennellà co la tintura nun se sa che pezzo de pelle, si gnente gnente j’avesse trovato un quarche strugnoccolo, a quarchiduna. Dava adito, codesto salotto o sala di consultazione, per uscio cori catenaccio, al sacello o ricettacolo responsale propriamente detto. Lì germogliavano i vaticini e i responsi (all’ora di dopolavoro) della sarta-sibilla: quand’eran tutte sopra, invece, all’ore di cucito e di titrìc-titràc, be’, in quel tempo l’armamentario, magico era visitato da alcuni gros, si topi, con tutte le cautele del caso. Sorconi lunghi mezzo braccio, che s’avvicinaveno in punta de’ piedi, muso a punta, sti fiji d’una bona donna! co certi baffi! da sentì un lenzuolo da fantasma a du parmi de distanza a lo scuro, e l’odor de cacio a ‘n chilometro, dar monnezzaro dove ce teneveno la famija a ppigione. Ma quela manna doveveno, contentasse d’annasalla appena, senza poterla in altro modo raggiungere che con l’olfatto: fiutavano l’Idea, la presenza d’una Forma invisibile. Forma de pecorino bono de montagna, de quando nun c’era ancora cascato addosso l’impero: sì, sur groppone. Nel buio un trespolo. Una stufetta de ghisa, na parigina. Un, cammino de quelli de campagna: un callaro in sur cammino, sospeso a na catena: e una bella pila, in d’un cantone, in mezzo a certi stracci! Una specie de pilaccia de rame, che de lì a pochi anni sarebbe caduta preda della Patria Immortale belliferante spalla a spalla col tudesco, a un cenno solo del Buce, dell’adorato suo Bucio: ladro di pentole e di casseruole a tutte genti: co la scusa de facce la guerra a l’Inghilterra. 
Tutto quello che ce voleva, c’era. Un luogo, insomma, il laboratorio della Zamira, da non si poter incontrare il più opportuno a distillarvi una goccia, una goccia sola e splendida della eternamente proibita o eternamente inverisimile Probabilità. Maglie a ritingere, pantaloni a ricucire: le tarme sì divorano il gufo: ma ne rimaneva sempre, gli occhi del gufo vivono, topazi consapevoli e immoti nella notte, nel tempo, sopravvivono alle ruine del tempo. Un punto d’incontro dei vitali compossibili: magia, maglieria, sartoria, pantaloneria, vino de li Castelli e de Bitonto pure (una botte, la spina: due damigiane, li sifoni de gomma), cacio e fave, d’aprile, il nipotino del duce dei baffoni a ruzzare per entro il teschio, in cantina, cioè nella «sala di tintoria»: cranio dov’era entrato e donde sarebbe uscito per un occhio, per un’orbita senza fondo, s’intende. Mazzi carte sur tavolo, ereno li tarocchi astrologgichi: clepsidra, cabbala der lotto e pentàcolo: un gufo imbarsamato, co du occhi! E pecorino, in d’un credenzone, e li fiaschi dell’ojo: mah... chiusi a spranga che neanche li sorchi. Sì, cari, co la Zamira! Poteveno morì co quela voja, tesori! Ìnkete pénkete pùfete iné. 
Il raduno elisio delle dolci ombre, la chiamata, la evocazione dei compossibili! Povera e cara Zamira! Soleva mescere ai carrettieri dell’Appia: ai carabinieri in perlustrazione. All’impiedi, loro, venuti dall’estate, moschetto a spalla: impolverati, accaldati, accecati dalla immensità: storditi da infinite cicale: con il capo e il berretto tra la nuvolaglia delle mosche, su su, che davano un ronzio, a tratti, come di non veduta ghitarra pizzicata dalla falange d’uno spetro. Lei, dopo aver porto il bere, la si rimetteva in seggiola a sferruzzare senza denti (quei davanti) nel cerchio delle sue tenere novizie sedute del pari al lavoro: un lavoro d’ago, o di maglia. A capo chino, però lo levavan ratte, a quando a quando, una dopo l’altra, dopo la prossima: a ricacciare addietro con la mano, come noiate, il viluppo de’ ricadenti capelli. Ma in quell’attimo! davano un lampo, gli occhi: neri, lucidi, emersi dal tedio; poi si posavano attediati sopra l’indifferenza d’un obietto qual si fosse, un bottone, il calcio del moschetto, il pistolone d’ordinanza dell’appuntato, o un po’ più giù, o un po’ più su, un po’ più a destra, un po’ più a sinistra. Un odorino de donne de campagna in sottane corte. Quali promesse, quali demografiche speranze, povere cicie, alla eterna primavera della Patria, della nostra Italia diletta! Dei ginocchi, pe la Madonna! dei ginocchioni... Calze, manco sognassele. Mutanne, mbà! (Ce n’aveveno de più le montagnarde, a udir muggire il Toro in tribuna.) Le gambocce strette strette, a momenti, da parer le covassero un ovo, un tesoro. Oppure tutt’al contrario: i piedi sulla stecca della seggiola, talché, a piazzarsi in posizione vantaggiosa, ereno panorami, se po capì. Certi cosciotti!... 
Lo sguardo affondava nella penombra, poi nell’ombre: s’insinuava, s’inerpicava tra le gole della speranza, come affonda e poi s’inèrpica un esploratore di caverne, o uno spazzacamino. Figurasse li carabinieri! Immusoniti, come d’obbligo, ma nun finiveno più de lustra l’occhi. E quelle di rimando! Occhi! Furtivi dardi! Sfrecciate, da sentisse smorì er core in der petto, a li carabinieri in piedi: nel tempo che la sarta parlava loro della Libia: della quarta sponda: dei datteri che vi maturano, squisiti, e degli ufficiali che vi aveva conosciuto e che l’avevano «corteggiata» con successo. Questo ricordare i capitani o i colonnelli corteggiatori a dei semplici militi era un espediente della seduzione. Gli occhi le risfavillavano, allora, piccoli, puntuti, neri, mobilissimi: sotto le multiple solcature della fronte, sotto la pergola scarruffata de’ capegli, ch’eran grigi e duri, come il pelo del mandrillo. Alquanta saliva le lubrificava la scaturigine del discorso, evocativo o responsale che fosse: i labbri sizienti, infebbrati come le gencive, aridi o viscidi: che sguerniti d’ogni taglio dell’antico avorio, parevano oggimai la soglia, la libera anticamera d’ogni amorosa magia. Di cui la lingua era, certo, il principale strumento: 

Ankete, pénkete, pùfete iné, Abele, fàbele, dommi-né... 

Il diavolo non resisteva all’appello. 
Sì sì: disponeva, la Zamira, di buon organico di nipotine apprendiste: e riserve, poi, dislocate lungo l’Appia, lungo l’Ardeatina o l’Anziate, al tale, o tal altro chilometro, di rimagliatrici aggiunte: che in una contingenza straordinaria, trìc e tràc, trìc e tràc, arebbero potuto dare una mano: e la davano: come ad esempio durante i tiri estivi, del quarto bersaglieri. Ai perlustratori, ai carabinieri, pazienti militi nell’estate infinita, non occorreva poi tanto: bastava l’organico delle immediate dipendenti, e nepoti. Tutte tali, o giuppersù, le nipotine, da rendere quelle avvinellate soste a dolcezza, e della più allettante, della più conturbante, a riparo di solleone dopo chilometri, chilometri bianchi, per gli impolverati e sudati portatori di un moschetto. Di pattuglia, dopo aver portato a spasso il moschetto lungo strada e stradiccia o il greve pistolone a tamburo con tutti i colpi dentro, e un par de caricatori in giberna, gl’indomabili servitori del dovere amavano di refrigerarsi un attimo in quell’harem, così caldamente ombrato e mutolo, della Zamira: ch’era per tutti gli adepti il vestibolo della ipotesi felice, il sacrario delle consultazioni, delle consolazioni albane. L’attimo della dolce angoscia fuggiva, oh, che altro può fare un attimo? ma il succedente gli succedeva: l’integrale dei fuggenti attimi è l’ora: l’ora impareggiabile, dove un pensiero esatto si deroga a speranza e ad angoscia, come saettata spola, nell’ordito degli sguardi furtivi, dei muti dissensi, dei muti consentimenti. 
Il fatto è che i carabinieri sostavano da lei, dalla Pàcori, dalla sarta: né la Tenenza né la disciplina vi si opponevano: e, talvolta, ricorrevano a lei. Piccoli servigi di ricucitura: quando magari un bottone sta per andarsene, e bisogna corroborarne lo stelo. Una mattina, uno di quei ragazzoni s’era tolta la giubba, arrossendo, per farsi racconciare uno strappo: che aveva rimediato non poté neanche lui rammentare di che rovo, o marruca. Un’altra volta, un altro, i pantaloni: così dicevano le genti: per motivo non del tutto analogo, soggiungevano. La Zamira lo mandò a levarseli in cantina: e gli mandò dietro la Clelia, o, secondo altri, la Camilla, per prendere i pantaloni e portarli su a raccomodare, in laboratorio. La devestizione del reale richiese alcun tempo: tanto, tanto dolce tempo! Permodoché le ragazze, su, a un certo punto principiarono a tossicchiare, a ridacchiare, a fare ehm, specie la Emma, sfrontatissima: fino a che la Zamira si spazientì, poi s’adirò, le sgridò: le titolò di non si capì bene che: sibilando bava dal buco. 
Anche il maresciallo, il maresciallo Fabrizio Santarello, bah, l’uno de’ due centauri della Tenenza albana, il più elevato in grado dei due, pure lui, aveva portato alla maga-tintora delle maglie a ritingere: grossi involti. Si preannunciava di lontano, dal Torraccio, dalle ultime case de le Frattocchie, dalle Robine Vecchie altre volte o dal Cassero a Sant’Ignazio, o dal Divino Amore: si avvicinava sparacchiando, arrivava rimbombando, bu bu bu bu bu: la motocicletta si chetava all’uscio. Ereno maglie di donne, quei pacchi: perché il maresciallo Santarella, che un giorno aveva strascinato all’altare una donna (e neanche tanto gonfia), viveva con nove: la moglie, la di lei vecchia madre cieca e la di lei sorella un po’ scema, una sorella propria, illibatissima, con tutti gli ornamenti psichici che dalla illibatezza alle sorelle discendono: tre figlie, non ancora in età da non essere illibate, e due subinquiline, due gemelle, quondam in procinto di disillibarsi, ma oggimai (dopo congruo taglio di corda dello sperato disillibatore che, non avendo saputo decidersi, le aveva piantate in asso tutt’e due prima ancora di metter... mano alla bisogna) oggimai definitivamente rientrate nella illibazione. Determinatosi un giorno a subaffittare, in ragion de’ tempi e dell’opportunità e della paga, una esuberata porzioncina de’ penetrali, quella che volgeva ad Austro sue muffe, pensò naturalmente al giornale più diffuso: e al nuncupar l’offerta sul Messaggero non s’era sentito l’animo di poter intimare a’ leggitori l’escluse donne!, quel crudele «alto là!» della padrona di casa d’Ingravallo. No, no, no, in casa sua... tutt’al contrario: donne erano: e donne sarebbero. 
Di maschio, in casa sua, non c’era che lui: a non computare la maschia boce del buce, che di quand’in quando gli risonava nelle camere timpaniche suscitandovi tonificatrici risonanze, rivitalizzandogli non meno che a dodici milioni d’italiani la capa, anzi: ch’era, la sua, na capa maresciallla, per quanto scaltra. Di tempo in tempo: come rimontare uno svegliarino. Veniva fuori, la cara voce, manco a dirlo, usciva dallo stipo della radio: di cui Fabrizio Santarella s’era provveduto a Milano, quando v’era andato in «missione speciale», per inseguir le peste di due valentuomini, a nome Salvatore l’uno e l’altro: e n’era tornato coi due Salvatori, da Milano, e, in più, con una radio a due valvole: prodigioso ritrovato di quella prodigiosa civiltà. Altra voce maschia, e d’escogitazione baritonale pur essa, era quella pastosissima ed estremamente soave d’un grammofono nei momenti in cui la faceva da maschio: perché subito dopo, magari, gli saltava il ticchio di lavorar da femmina. Il meraviglioso ordegno si tramutava cioè, con la più perfetta disinvoltura, di maschio in femmina e viceversa: per conturbanti alternazioni d’impasto: dal duca di Mantova in Gilda, e da Rodolfo in Mimì. Del rimanente, in casa del maresciallo Santarella, donne erano: e donne sarebbero. Dicevano i maligni, e, più, le maligne, che nonostante le nove donne e le diciotto scarpettine coi diciotto tacchi da donna che gli ticchettavano intorno alle ore di loisir... domestico, fra le pareti... domestiche, in presenza dei domestici lari, ch’erano due bei gatti di gesso sul camiunetto spento, partoriti, poveri micioni, da un maschio lucchese, dicevano, sì sì, mentre il grammofono di via Zanardelli gli scodellava nell’anima per ventitré volte di seguito la gelida manina, a lui e a tutto il vicinato, dicevano, dicevano, sì, che avesse pure un debole per quarcheduna delle nipotine apprendiste della Zamira, la tintora delli Due Santi. Be’. Era un formicolone, ‘o maresciallo Santarella: come tutti i marescialli. 
Perito dell’arte: è logico. Al momento buono sapeva chiudere un occhio. O aprirli tutt’e due, invece. 
Una cera meravigliosa: un volto pieno, abbronzatorosso - nelle gote e nel naso, bleu-nero indove lo virilizzava barba rasa. La pelle generosa degli italici, nelle lor messi cotti, a luglio, a sole trebbiato: adusti, per dirla col Carducci. Una salute da sensale di campagna. Quel baffetti ritti alla Guglielmo. Quel pistolone sulla natica sinistra, che pesava tre chili. Metteva gioia in core a vederlo. Le ragazze, certe notti di luna piena, sognavano o maresciallo. Certi scarcagnati con addosso tutta la migragna dell’impero imminente, certi morti de fame de ladruncoli de biciclette, strulloni in ozio a giro per le strade e per le bettole il giorno, e la notte a travaglio, non gli pareva poi vero, a colpo fatto, di lasciarsi ammanettare da lui, di venir «messi dentro» da lui. Quando arrivava lui, puttana il diavolo, tiravano un respiro: finita l’ansia, il pericolo: finito di sudare, di scalzare, di aggeggiare, di trasalìre a uno scricchiolio, a un dubbio di cigolio lontano d’un cancello: di scassinare usci col cuore in gola: ecco, finita ogni pena: gli riprendeva la gioia, dentro, poveri ragazzi! la fiducia nel domani, gli riprendeva. Erano così contenti, solo a vederlo, che dimenticavano il loro triste obbligo, mannaggia er prefetto: l’obbligo di scappare con la refurtiva, e quel ch’era peggio coi ferri, anche, e stracarichi: dopo tanto affanno dover anche darsela a gambe! Checché. Lo salutavano con una guardata, con un risolino d’intesa, quello che vuol significare «tra noi...»: gli facevano omaggio spontanea d’interi mazzi di grimaldelli, d’interi assortimenti di piè-di-porco. Gli chiedevano, riguardosamente, il suo ultimo prospero: per accendere, voluttuosamente, la loro ultima cicca. Haah! Hah! facevano espirando, con una voluttà in gola: o buttavano fumo dal naso: «Ecco, sì, va be’, capirà,» dicevano: e gli porgevano i polsi: nata in loro cuncupiscenza repentina delle catenelle da polso: come allo scassato e stanco non piace altro che il letto. Gli consegnavano le due zampette sgraffignone: ne facesse un po’ icché voleva: abbacinati da quel volto scurito, da quegli occhi fermi, neri, pungenti: da quelle bande rosse, ai calzoni, da quei galloni d’argento alla manica: da quella bandoliera bianca di vacchetta ch’era come l’insegna dell’autorità inquirente, perseguente, ammanettante: da quel V. E. nella granata d’argento, sul berretto: da quella pancetta, da quel culo. Sì, culo. perché, lui si rigirava, pirlava, fremeva, poi di nuovo si rivoltava a scatto, piantava il par d’occhi in faccia a tutti e ad ognuno, a baffi ritti, e puntuti come du chiodi, e neri; agiva, deliberava, telefonava, tric, tric, tititric, bociava in nel tubo, chiedeva nerbo di due militi dalla Tenenza, impartiva ordini: a cui tutti obbedivano, il bello è questo, e in una sorta di algolagnica frenesia, di voluttà masocona: presi nel cerchio magico del V. E., nell’ellisse gravitatoria di quel nucleo d’energia così felicemente irradiata a’ satelliti: e, dopo di loro, a tutti i ladri in genere. Che anelavano sol questo, appena vederlo: esser travolti in catorbia da un suo sguardo. Quando poi pareva finito tutto, ed eran le donne in susurri, papapapapà, riecco invece li spari della fremebonda Motoguzzi aggiungevano gloria alla gloria, vita alla vita. Demarrava tra nuvoli di polvere lasciando a mormorare le ragazze: le spose: le nipotine della Zamira a piè scalzi: demone fugitivo di legione con bande rosse, esalato da diruti castelli: dove la notte, soprappresa dalle ore non sue, bah, la s’era scordata di rincavernarlo: quand’ella spenge, invece, su le ruine d’ogni torre, i due gialli cerchi del gufo. La tarda ala si ammencia, come uno sciàvero di tenebroso velluto, nel suo nido d’ombre e di sasso. Arazzi d’edera vi schermano il giorno. Lui tutt’al rovescio, appena rosa e oro il cielo: da Rocca di Papa a Castel Savelli, giù: da Rocca Orsina al Monte Nuncupale, su: che già la marra o la sarecchia era ad opera, a vigna o ad ulivi. Bu bu bu, bù, via di corsa, ridesto, fremendogli tra i ginocchi il motore. O ne sussultava in un borbottio rattenuto il mattino, dove la stradiccia la s’inoltra peritosa nel forteto: o dove, andando il monte, si smarrisce al sodo, fra spinosi marrucheti. O dov’è fragola e vipera appresso a Nemi, sotto macchia. Agiva, agente: dispariva, riappariva, come Farfarello chiamato di magia: immobile al tronco di un leccio, magari, lui e la cavalla Guzzi, un, piè a terra: e poco più là, ritto, il palo dell’appuntato: ossedente presenza con bande rosse, con bandoliera di vacchetta bianca a tracolla, col V. E. nella granata d’argento, sul berretto. Ornamento, con catenelle in giberna, della Tenenza albana; con due catenelle per polsi quattro e due pacchetti de sigherette popolari, e un dodici colpi in riserva, centauro-saetta della via Ardeatina e, più, dell’Appia: a certo chilometro, certi giorni, raggiungeva di macchina buttata le Lancia, Maria 
Santissima e dopo di Lei subito passaggio a livello aiutando: era a paro, ecco, gli davano strada: non anco la rossa Lancia di Francesco Messina però, che non volava ancora a Cicilia, a quegli anni, a baciar la mamma. Infilava au ralenti la mala curva d’aa stazione d’aa Cecchina: spengeva solo, poi bloccava, il caso richiedendo, a Santa Palomba stazione, a Campoleone Stazione: dove l’Ardeatina o dove la strada Anziate incrocia, al passaggio, l’avvento gittato del Roma-Napoli. Terrore delle galline di guardia, il locomotore-pialla sopravviene con lividi lampi sul pantografo alle sospensioni ed ai giunti: e dietro tutto il traino e il fragore battuto del direttissimo, iterato iterato a ogni assale da svellere tutti gli aghi degli scambi. E quelle seguitavano starnazzare, si levavano a volo strangullandosi ne’ loro straziati vocalizzi, regalavano penne, e bianche piume, al vortice. Icché non pol fare la paura: fa volar l’oche. Oppure a metà le Frattocchie, doveva spengere: al passaggio dell’Appia, o a Ca’ Francesi, a Tor Ser Paolo, alla stazione di Ciampino: incurante altre volte a’ più perentori enunciati: Svolta pericolosa! Passaggio a livello! Cunetta! o a’ loro simboli venuti di Milano. I milanesi, il Luigi Vittorio, avevano perseminato l’Italia del seme raro de’ loro ammonimenti, dei loro «cartelli stradali». Il loro spiccato semaforismo, un bel dì, fece, dello stivale vecchio, un semaforo nuovo. Ammonir le genti, inculcare a’ velocipedastri il rispetto delle discipline viatorie, e, ad un tempo, del loro proprio osso del collo: insegnare al prossimo come si fa a star al mondo: rizzar ferri in tutt’Italia, inarborarvi «cartelli stradali» smaltati per oblazione pubblica, di quella voglia si sentan venir la bava: presi a pretesto i più innocui, i più sonnacchiosi livelli, ogni curva, ogni bifurcazione, ogni cunetta, come dicano loro, ogni zanella. Il memento tecnico del Bertarelli, del Vitôri, del Lüis, a quegli anni: poi, su riscialbate muriccia ad ogni entrar di borgo, il politico totalitario del Merda: («è l’aratro che scava il solco! ma è la spada... che non lo difende un fico secco.») Il maresciallo Santarella cavalier Fabrizio era, era un «entusiasta» del Touring, di cui, come «socio vitalizio», aveva a memoria l’inno: «l’inno del Touring!» nato in Valtellina alla musa ipocarducciano-iposàffica di Giovanni Bertacchi: nobilmente cesurato inno, come la Marsigliese e come ogni inno in genere, dall’impeto ardimentoso del refrain: di quel ritornello così caro a tutti i cuori de’ soci vitalizi motociclisti: 

Avanti, avanti, via! 

Che esclude, come si vede, ogni possibilità di marcia indietro. 
Il Santarella, rinvoltato in una ipotetica mèlode quel vitalizzante settenario, lo andava lungamente canticchiando e assaporando d’anima - così come si rimastica dopo pranzo uno stecco - nella sua fugitiva pregnanza, lungo il rintronare e l’accorrere de’ venenti chilometri: dal polveroso trapezio della strada. Poi, presso a Ciampino o alla Palomba, levava gli occhi: su, su: carovane bianche di nuvole trascorrendo a mezzo marzo nel cielo da nullo reale perseguite, anche loro, però, c’era chi s’incaricava uncinarle: ed erano le vette argentate delle antenne, come punte di pettine di carda un’ovatta: nel vello del fuggente, niveo gregge si sdrucivano da una perpetua deformabilità, poi si richiudevano in una irraggiungibile alternazione di presagi, col vento alto, freddi sbrani di azzurro.  
7. 
  
  

«La Ines Cionini...» 
«Comandi, signor commissario capo,» fece Paolillo. 
«Tenersi a disposizione!...» Povera figliola, avrebbe atteso l’alba sul tavolaccio della camera di sicurezza, rinvoltata dentro una copertuccia bigia da caserma all’insegna der pidocchietto: in compagnia d’altre nereidi pescate ad oceano dal pattuglione, involtate in vigogna doppia del pari, e similmente intrigate dalla parentela, e a volta a volta sospirose o addirittura eloquenti nel sonno: e in presenza d’un càntaro muto, incoperchiato, in un angolo: er commendatò: un tipo autorevole difatti, tesoriere d’escrementi. Riportava l’animo a certa romanesca lautezza e scioltezza del vivere e del fungere, a certo prequarantottardo (o pre-quarantanovesco) e alquanto gregoriano «loisir de siéger». 
Povera figliola; dato, invece, quell’ordine, bah, er sor Paolillo la venne a ridomandare alle dieci. 
Quanto al Pestalozzi, a un certo punto aveva chiesto compermesso al dottor Fumi, pregandolo dargli agio a potersi rifocillare un tantino, dopo la lunga e non perfetta giornata: idea che Fumi trovò eccellente lui pure. Piovuto dai colli saluberrimi, il superbrigadiere-centauro aveva interpretato il desiderio di tutti. Si diedero convegno per le nove e un quarto nove emmezza. Prima di riscappar via, logicamente, Pestalozzi voleva concordare il séguito: a conclusione del già fatto. In uno scalpiccìo per i corridoi e controscalucce, la radunata si sciolse. 
Nel frattempo, salito a palazzo Simonetti a via Lanza, Ingravallo maturò de premura quelle che il Truce in cattedra, a palazzo der Mappamonno, avrebbe chiamato le direttive da impartire... alle sottostanti gerarchie: cioè a li vasi de coccio l’uno de sotto all’artro che se le bevevano a garganella in cascata, le sue truculente fessaggini: l’uno dal sedere dell’altro. Era tardi. Piovigginava. Tutto era ancora sossopra nella notte. Don Ciccio si cucchiarò in bocca la magra minestrucola, ma non tanto magra poi, enfatizzando in uno strascico brodoso la povertà delle proteine e peptoncelli ingredienti: poi, stufo, masticò e mandò giù qualche boccone alla meno peggio, senza far parola, cor capoccione sur piatto, de queli spezzatini de muscolo de caucciù, povero don Ciccio!, amoroso bersaglio d’alcuni «ma che cos’ha stasera dottore?» della impareggiabile padrona tutta in ansie, in premure: che non la finiva più di roteargli attorno, a lui e al servito. «Un po’ de stracchino? De quello de Corticelli che je piace tanto, dottò?» E, al grugno che mise: «Un pochetto solo, dottò! Cioo provi: è tanto bono!... Mica je po fa male...» Sotto al riflettore di vetro, orlato di crespe e di riccioli bianchi e verdini come l’insalata, er cucuzzone pareva più tenebroso, più riccioluto del solito. 
Niente automobile! Nessuna comodità di trasferta. Le automobili c’erano, bah! «Ma solo pe chelli scocciatori daa politica,» cioè della squadra politica. La gita mancata, l’orribile giovedì: «giuorno dici-assette! ‘o peggio nummero,» sospirò: «o cchiù fetente ‘e tutti!...» grugnì a denti stretti. 
Tutto il merito, ora, ai carabinieri di Marino. «Sti lanternoni d’ ‘o tteate ‘e Pulcinella.» Pestalozzi cenò di buon appetito a ‘o tavolino de marmo: a via der Gesù: dal Maccheronaro: dove ce l’aveva accompagnato Pompé: lo Sgranfia, come lo chiamavano; che fungeva pure da maestro de cerimonie, a Santo Stefano, l’opportunità richiedendo. 
Pompeo, da parte sua, non vide quale controindicazione potesse ostare all’introito d’una replica dello sfilatino-scarpa delle sette: con embricature, questa volta, di rosbiffe e di mortadella cotta a fette alterne, mollemente adagiata in quel divano a opera dei diti peritissimi e paffutelli del Maccheronaro: che le tegumentò alfine, un colpo d’occhio a collaudo, a congedo, del pre-resecato e preaccantonato tetto o coperchio (er mezzo sfilatino de sopra): sporgendo lui er labbro sotto, ma un millimetro appena: intanto che la pappagorgia compressa e per così dire appiattita contro il colletto, se ad un colletto si poteva credere, finì di nascondergli tutta la cravattina di primavera, a farfalla, con piselloni sul verde. 
Allibirono, invidi, gli astanti avventori. Una torpediniera d’alto mare, una cosa d’eccezione. A vedella de fòri... decorosissima: ma podentemente imbottita, dentro. Er Maccheronaro levò le palpebre serio serio, cor labbro tuttavia sporto un millimetro, affisando senza dir parola il cliente diletto, nel momento e nell’atto stesso che gli porgeva quel trofeo. «Semo o nun semo?» parve significare lo sguardo. Pompeo si lasciò guardare. Mise il dente indove gli meritava di metterlo. Doppo un par de mozzichi da cavajere la sua bocca somigliava a una molazza, a un eccentrico. Nun ce la faceva a risponne, si quarcuno je domandava quarche cosa. Girava l’occhi verso quello, du occhioni tonni tonni, coll’aria d’avé capito. 
Alle dieci e mezza erano tutti riuniti dal dottor Fumi. Paolillo riportò la Ines. 
Chi era, e dov’era, il giovanotto? E quell’amica dell’amica? Embè, quale amica? Quella... quella di cui le aveva parlato la Mattonari, la Camilla: «che è, se non erro,» fece il dottor Fumi, «l’amica che lavorava con te dalla Zamira», ai Due Santi. 
La Camilla Mattonari, ammise la Ines, le aveva parlato d’un’amica, ch’era stata a Roma a servizio, ma non proprio a servì tutto er giorno. 
«A mezzo servizzio, vòi dì.» 
«Embè, nun lo so si era mezzo: stava da certi signori che j’aveveno fatto la dote, e ora, sicché, doveva sposare.» 
«Sposare chi?» 
«Sposare un signore, un industriale de commercio: de quelli che stanno a Torino a fabbricà le macchine: che j’aveva rigalato du perle. E il giorno de le candele, difatti, le portava a l’orecchia, quele perle. L’aveveno viste tutti.» E l’aveva incontrata lei pure, una sera... du occhi! 
«Che occhi!»: e Fumi si seccò, fece spallucce. 
«Mbè, sì, du occhi,» ribatté la Ines: «ma diversi. Diversi da come ce l’avemo tutte. Come fussi una strega, una zingara. Du stelle nere de l’inferno. All’Ave Maria, quanno che annotta, pareva ch’er diavolo se fussi vestito da donna. Quell’occhi te metteveno paura. Ciaveveno come un’idea, dentro, de volesse vendicà de quarcuno.» 
«Tu la conosci, dunque.» 
«No, l’ho veduta una vorta sola... de sera.» 
«Dove?» 
«Mbè... pe na strada de campagna.» 
«Quale campagna?... Ne’, figliò, nun credere ca me ‘mpappocchie... Tu ‘mme vui portà pe ‘e viche.» 
«Na stradaccia: dove c’è un prato... dove c’è na chiesa che nun ce so’ li preti, che la chiameno ritonna.» 
Na bugiarda, che s’impegolava nelle su’ bugie. Fumi dubitava già fosse pazza, o qualche cosa di simile. Il tortuoso rigirio di propositi d’una contadinella che mente. Dopo averla azzannata in quattro, come quattro cani una cerva, stirandola e sospingendola di qua e di là nel tormento delle facili e nondimeno rinnovate obiezioni, pervennero da ultimo a cavarle dai labbri la bugia racchetante, la bugia plausibile: quella che, contrastando o risolvendo tutte le precedenti, sembrò alfine la verità. La «strada de campagna» si riuscì a scoprire che doveva essere una strada (in quegli anni tuttavia romita e campestre) del Celio, fra silenti pini ad umbrello e campi di carciofi e qualche stalla, e diruti muri e un archivolto o due, camminata, al cader della notte, dai passi meravigliosi della solitudine, così cara agli amanti: forse via di San Paolo della Croce, con più probabilità via della Navicella o di Santo Stefano Rotondo. 
L’archivolto era quello di San Paolo, se non l’arco di villa Celimontana a lato Santa Maria in Dòmnica. La ritonna... «dove manco ce stanno più li preti», non era, non poteva essere er Tempio d’Agrippa, dove i segugi s’erano riportati col pensiero, subito escludendolo dato che non sorge in campagna. Era invece Santo Stefano Rotondo, precluso al culto, a quegli anni, in ragione di certi lavori di ripristino. 
Con tutta quaa logistica il dottor Fumi aveva un po’ perso di vista la zingara, la sposa del torinese. I segugi parevano affondare nel braco. 
«Diteci piuttosto delle buccole.» 
«Io nun l’ho viste. Ma ‘o sanno tutti: du scioccaje... propio come si fusse na signora.» E ribadì, sillabando in una cantilena: «che je l’ha rigalate er fidanzato, ch’è un industriale de Torino: uno che compra e venne l’automobbili: più chiaro de così...» 
«Lassate stà il chiaro e lo scuro... ch’a ‘o chiaro nce avimme a ppenzà nuie,» la redarguì con occhi ormai assonnati nel corruccio il dottor Fumi. Chi era costei? Sì, quaa strega, quaa zingara... Dove abitava? Dove stava de casa? «De casa propio...» titubò ancora la Ines. Bah, doveva stà sotto a la Pavona: così le aveva ariccontato la Mattonari. E tutti ‘o dicevano, a li Du Santi. «Quella è assortata: a Roma le rigazze ce se perdeno: e quella s’è fatta puro la dota, s’è fatta. E ora, appena se la sente, po sposa un signore.» 
I funzionari, il dottor Fumi, Ingravallo, il maresciallo Di Pietrantonio, il brigadiere, si scambiarono occhiate. Lo Sgranfia, da quel giovanottone perspicace che era, lesse in quelle occhiate un pensiero: «Questa ce sta cuffianno. Questa va cercanno de fregà l’orbo.» 
Ingravallo pareva stanco, turbato, seccato: poi assorto dietro una catena di pensieri. Analogie strane, dubitò lo Sgranfia, occulte agli altri, erano a lavorare in quel cervello. Non c’era nesso apparente, ma chissà poi non ci fosse, chissà Ingravallo non lo divinasse, muto e nero sul suo riflettere, non c’era alcun seguito dal garzone in grembiule, dal rapinatore in tuta, dall’assassino ignoto, agli occhioni della zingara. 
«E il giovane?» 
«Che giovane?» 
«‘O cocco vuosto, chillo guaglione, chillo guappo: com’aggio a dì?» Il dottor Fumi sembrò incuorarla, invitarla a ravvedersi, a dire. La Ines allora s’intimidì: apparve stanca, a un tratto, nella sua sudicia avvenenza: parve ritrarsi da vergogna, rivestire il dolore: con occhi affossati, ombrati, con la bianca fronte fasciata di tristezza sotto quei capelli biondi così aspri, che s’erano induriti di poca pioggia rasciutta e di crassume disseccato nella polvere (quei capelli, pensaron tutti, donde un pettine di celluloide verde avrebbe cavato oro nel sole), con le labbra un poco enfiate e quasi ancora screpolate, per ogni soffiata di tramontana, al marzo. 
«Lui se chiama Diomede, er mi’ regazzo. Mo indove sta de casa nun lo so. Gira sempre.» 
«Gira come?» Girava, nei due più meglio sensi del verbo: mutando spesso di camera ovverosia di stambugio o di lettino: e andando a zonzo pe Roma da la matina a la sera: in cerca del nun se sa mai. L’urtima vorta, l’aveva intruppato ar Traforo. Stava un po’ de qua un po’ de là. Ma nun lo diceva, indò stava. Un lettino da li parenti: a piggione da na sarta. In der letto vòto der zio ch’era morto, l’antra settimana... cioè der zio d’un amico suo, che j’era morto er zio. Quanno poi nun je la faceva più, a pagà la piggione, allora doveva da cambià aria, se sa. 
«Si capisce», convenne a mezza voce il dottor Fumi. E p’aa città vagolava senza meta, o con lenti e forse meditati itinerari: si differiva passo passo da un quartiere all’altro: monticiano a le dieci, tresteverino a le quattro, a Piazza Colonna o a l’Esedra con le luci e i rossoverdi richiami della sera, della notte. A li quartieri arti? Sì. 
«Batteva puro via Veneto, via Ludovisi, ogni tanto, ch’è ‘n po’ più scura, pe’ via de le donne.» 
La ragazza arrossì, levò il capo, s’indispettì nella voce, sì stizzì. «Camminava, camminava: che poi s’aveva da fa risolà le scarpe ogni mese: camminava, spariva, nun se sapeva più dov’era ito.» 
O per abbadare dietro a le belle, o per involarsi a le belle: a certe belle, così almeno parve a Ingravallo di poter intendere, smaniose di lui, di ritrovarlo, di ripescarlo, con lunghe guardate scrutatrici di là dal fluire delle macchine, da un marciapiede all’altro, o lungo il marciapiede gremito di tavolini e di scranne, di signori e signore in bibita o nell’atto di suggere, in caute, disinteressate riprese, le pallide fistule. 
«L’annerebbero a cercà puro in capo ar monno,» affermò: con occhi fermi, calmi. 
«Anche lui, anche lui!» dolorò Ingravallo in suo sentire. «Nel novero de’ fortunati e felici, anche lui! Il volto gli si fece tetro. Anche lui! Perseguito dalle donne!» 
«Sicché, se ne va in giro, me capiranno...» e dopo un’esitazione, e una certa conturbazione del tono: «Pe nun fasse trova a casa da tutte quelle ch’oo cercheno: 
pe’ nun dové intruppà a una regazza a ogni passo.» 
Con una mano ributtò all’indietro la mala zazzera: tacque. 
«Capisco,» riprese il dottor Fumi. «Dimmi, ora: com’è, che faccia tiene, chesto Diomede? A proposito: Diomede: e il cognome?» 
«Er cognome suo...»: la Ines abbassò gli occhi: arrossì a prender tempo: a fabbricare la settantatreesima bugia. 
«Il cognome,» rincalzò Ingravallo. «Sì. Avremo forse bisogno anche di lui.» «Di sapere quacche cosa da lui pure,» soggiunse il dottor Fumi. 
«Embè, er cognome nun me l’ha voluto dì.» 
«Però doppo t’ha ditto,» rincalzò Ingravallo. «Fuori il cognome.» 
«Piccerè, ascolta. Nuie, ccà, è meglio pe tte... abbiamo bisogno del suo aiuto.» 
«Sor commissario mio, che bisogno potete avé d’un regazzo? Lui nun ha fatto male a nissuno.» 
«A te sì!... dal momento che t’ha raccattata il pattuglione.» 
«Embè, questi so’ pasticci nostri: la questura nun se n’ha da incaricà: so’ affari nostri.» 
«Ah! la questura non se n’ha da incaricà! Piccerè, tu stai sbarianno. Quello ch’ha dda fa ‘a questura ‘o sapimmo nuie.» 
«Lui nun ha fatto gnente.» 
«Allò: di’ comme se chiama.» 
«Puro io ciò la coscienza de nun avé fatto gnente»: le si inumidirono gli occhi: 
«Lassateme annà puro a me.» 
«Diomede, dunque...» e lo sguardo del dottor Fumi ebbe la inderogabilità d’una richiesta di documenti, di carte necessarie. 
«Mbè, m’hanno detto che se chiama... Diomede: Lanciani Diomede.» E sbottò in una sorta di pianto soffocato, sommesso. 
«Non preoccupatevi. Chillo ‘o vvulimmo ccà pecché ci ha da ccuntà... quacche cosa: quacche cosa d’interessante. Pecciò l’avimmo a truvà.» 
«Sbrigatevi, che grugno ha questo Lanciani?» rincalzò Ingravallo, duro. «È grande? è piccolo? è biondo? è scuro de capelli?» 
Combattuta fra diffidenza e fierezza, la Ines rasciugò gli occhi col rovescio della mano. «Sto Lanciani fa er lettricista,» disse con orgoglio: e prese a tratteggiarne il sembiante. La voce, dopo more di paura e di sospetto e ammissioni piene d’una cautela tardiva, si animò fino all’allegrezza sconsiderata, alla gioia, quasi. Della parola d’Ingravallo si risenti: «Quanto ar grugno,» ripigliò volgendosi a Fumi come al più benigno de’ due principali inquisitori, «c’è più d’uno che vorebbe aveccelo, quer grugno; creda a me, sor commissario, che voressivo aveccelo puro voi, un grugno così.» Sì, sì: «un giovane così alto»: e fe’ il gesto che si fa per solito, levando e disponendo orizzontalmente la mano. Reclinò il capo da lato a meglio sogguardare il palmo, a valutare, dal sotto in su, la pertinenza di quella indicazione di statura. «Un ber regazzo, sì. Un ber regazzo. E co questo! forse ch’è proibbito? Un regazzo in gamba. Sì, bionno. Nun è corpa sua si la madre l’ha fatto bionno.» Che? l’aveva da fa moro, si ciaveva la fantasia de fallo bionno? Nella trussa teneva puro er ritratto. Paolillo filò al deposito a pescarne fuora, da queli stracci, quella misera trousse: la carta della poverina, ch’ella aveva negato al pattuglione, all’atto del fermo, era già sul tavolo al dottor Fumi e sotto luce, aperta, gualcita. Paolillo rivenne, con la «borzetta» della senzatetto e, nell’altra mano, la fotografia d’un giovane stentatamente firmata pe traverso con una firma sgorbio: «Lumiai Dio...» sillabava camminando, e stava per porgerla. «Date ccà.» Il dottor Fumi glie la strappò di mano: «Lunci-a-ci Di-o... ‘O Signore lo sa che ce sta scritte. Diomede!» esclamò vittorioso. Un tipo! Un viso di quelli, propio, che il quindicinale «Difesa della razza», quindici anni dopo, avrebbe recato a testimonianza di arianesimo splendido: della gente latina e sabellica. Per copia conforme: sì. Era biondo, certo: la foto lo asseriva: un volto maschio, un ciuffo! La bocca, un taglio diritto. Sopra al vivere delle gote e del collo du occhi fermi, strafottenti: che promettevano il meglio, alle ragazze, alle serve, il peggio a’ loro depentolati risparmi. Un tipo spavaldo, fatto per essere accerchiato e conteso, inseguito e raggiunto, e poi rigalato un po’ da tutte, secondo le disponibilità di ciascuna. Uno da rappresentare in bellezza il Lazio e la sua gioventù, al Foro Italico. 
Quaa fotografia, spiegò la Ines, le era costata un numero inverosimile di schiaffi: perché lui, un giorno, la rivolle. Sì: la rivoleva a tutti i costi. Era notte, a momenti. S’era incattivito, al ricusargliela lei: pareva ammattito. L’aveva sgridata sulla faccia, le aveva dato e di questo e di quest’altro, ciaveva avuto er core de menaje puro: e, come nun bastasse, minacce. Erano soli, tra du muri, sotto un lampione sfasciato per il clivo de’ Publicii, a Rocca Savella, dove stanno li cavajeri: annottava. Ma lei, a li schiaffoni, aveva abbozzato senza batter ciglio. Aveva tenuto duro. Armeno quer ricordo! de tanto bene che s’ereno voluto! che je voleva sempre, lei: pure si adesso... l’obbligaveno a faje magara la spia. «Ma nun c’è gnente da spià!» strillò. «Si m’ha dato du schiaffi, embè? è stato un affare tra de noi: nun lo ponno carcerà pe questo.» 
«Due schiaffi!»: e il dottor Fumi, tentennando il capo, la guardò. «Avite ditto, primma, quacc’ata cosa: nun importa!»: e ritirò il capo tra le spalle. Stava pe ripeterle che non temesse: volevano solo interrogarlo, non fermarlo: e tanto meno trattenerlo. «Ma in fin de’ conti posso stà sicura che nun ciaa fanno: mica lo troveno, quello.» Parlava a capo chino, soprappensiero. «E poi, si lo troveno, mbè, so’ contenta. L’avrà finita... co quel’americana.» Parve scusare sé, donna, a se stessa. 
La fotografia di Diomede girò pe tutte le mano. Ingravallo pure l’allumò di traverso, come di malavoglia, in realtà con una certa stizza segreta: la passò a Fumi, sbadatamente; un gesto che voleva dire l’uggia e la fatica, e la voja d’annà a dormì, ch’era ora: «uno dei tanti». Da ultimo, dopo qualche altro già, dopo qualche altro bah, dopo un «ma io già l’ho visto», fu aggiudicata a Pompeo, autore di quest’ultima esclamazione, che la ricoverò nel portafoglio di pelle di coccodrillo finto, e il portafoglio se lo infilò sul cuore, convenendo a voce alta e sonora: «Be’, cercheremo da fa er possibile». Il commissario capo, intanto, gli aveva significato «viè ccà» con la zappetta dei quattro diti della destra: e lui s’era dunque accostato: curvo, ora, porgeva l’orecchio ai susurri del dottor seduto, e vi aveva già ripetutamente annuito col capo, guardando lontan lontano, cioè contro i vetri incartati od opachi della finestra: che lo sguardo della notte, fuori, osservava trepidando, venerando. Quell’orecchio ascoltava, con lo zelo consueto: e il dottore vi aveva lasciato gocciolare quei bisbigli, come altrettante gocce d’un raro giusquiamo: e il moto dei labbri andava accompagnando con una digitazione vivace, a tulipano chiuso, a indice e pollice in oscillazione disgiuntiva. 
Al veder la foto dell’amor suo riparar sul cuore dello Sgranfia, la Ines, povera pupa, allibì. Le si addensarono al di sopra del nasetto i contristati sopraccigli, un corruccio che sembrò ira e non era: lacrime brillarono, splendide repentinamente, sotto i lunghissimi cigli dorati (traverso il di cui pettine, un tempo, al suo sguardo di bimba, si frangeva e si iridava nei mattini la luce, la fulgida luce albana). Discesero lungo le gote, lasciandovi, o parve, due gore bianche, discesero fino alla bocca: il cammino della umiliazione, dello sgomento. Non aveva di che soffiarsi il naso, né rasciugarsi quel pianto: levò la mano come per contenere col solo gesto ciò che dalla solitudine immiserita del suo volto avrebbe potuto sgorgare, a render perfetta la crudeltà degli attimi, il gelo e l’irrisione dell’ora che ne è la somma. Le pareva d’esser nuda, sprovveduta, avanti a chi ha facoltà d’inquisire la nudità della vergogna e, se pur non la irride, la giudica: nuda, sprovveduta: come sono i figli e le figlie senza ricovero e senza sovvento, nell’arena bestiale della terra. La stufa era diaccia. Lo stanzone era freddo, vi si vedeva il fiato: le lampadine della Mobile erano lampadine del governo. Ella sentiva su di sé, rabbrividendone, le guardate degli uomini, e le sdruciture, gli strappi, la misera stamigna, la sordida povertà del vestito: una maglia di vagabonda. A Dio, così vestita, non poteva certo rivolgersi. Quando l’aveva chiamata per nome, il nome del battesimo, tre volte, 
Ines! Ines! Ines! al principiare della macchia, tre volte! quante so’ le Perzone de la Trinità... le querci si storcevano in presagi sotto le raffiche del vento maestro: le aprirono il cammino della macchia, dietro il deliberato andare del giovane. Quando il Signore l’aveva richiamata, col suo sguardo di raggi d’oro nella sera, dal finestrone rotondo di Crocedomini, lei, ar Zignore, che aveva avuto er core d’arisponneje? «Io vado cor mi’ amore», j’aveva arisposto a quelo sguardo, a quela voce. Sicché ‘r Zignore, adesso, bisognava lassallo stà. 
Chinò il capo, che, ricadendo sul volto, i capelli aridi o impastati misero in ombre, e a momenti nascosero. Le sue spalle parvero affilarsi, ischeletrirsi, quasi, nei sussulti di un tacito singhiozzo. Si rasciugò il volto, e il naso: con la manica. Levò il braccio: volle nascondervi il pianto, ripararvi il suo sgomento, il pudore. 
Una sdrucitura, all’attacco della manica, un’altra della sottostante maglietta, scoprirono il biancheggiare della spalla. Nulla aveva più, per celarsi, che quello strappato e scolorato avanzo d’un indumento di povera. 
Ma gli uomini, quegli uomini, la ricattavano col solo sguardo, acceso e rotto a intervalli, dai segni e dai lampi, non pertinenti alla pratica, di una cupidità ripugnante. Quegli uomini, da lei, volevano udire, sapere. Dietro di loro c’era la giustizzia: na macchina! No strazzio, la giustizzia. Meio piuttosto la fame; e annà pe strada, e sentisse pioviccicà ne li capelli; mejo addormisse a na, panchina de lungotevere, a Prati. Volevano sapere. Mbè? Che cosa trafficava chesto Diomede. E lei zitta. E loro: su su: parlare, cantare. Non le chiedevano di far male, ad alcuno, dopo tutto: solo de dì la verità, la supplicaveno. Bella verità! de fa carcerà la gente. La gente... che pe forza deve aranciasse in quarche modo: sinnò nun sa come campà. Parlare, cantare. E sbrigasse pure. Nulla di male, dopo tutto. Nel caso contrario, brutti certificati per lei. Loro aveveno bisogno pe la giustizzia, perch’era stato commesso un gran dilitto, che c’era su tutti li giornali. Glie ne mostrarono alcuni. Cartaccia. Glie li fecero vedere sotto il naso, battendovi sopra la mano come a dire: ecco qua. (Lei ritrasse il capo.) Pe la giustizzia: «no pe fatte der male a te, né a nissuno,» aggiuntò pacato lo Sgranfia, suasivo, con un vocione che veniva propio dar core. Era de li fratelloni de la bona morte, lo Sgranfia, quelli cor cappuccio in testa, che vanno a fa l’accompagno de li morti: pe conzolà le vedove nun c’era nessuno come lui. «Diomede,» si disse la ragazza, «è certamente incolpevole. Schiaffi in faccia, vijaccone, nun vordì scannà le donne cor cortello.» Stava sulle sue. Titubava. «Con questi nun se sa mai.» Forse era meglio contentarli, pensò. Meglio per Diomede, e meglio anche per sé. Sarebbe finita, armeno! Loro l’avrebbero piantata, co quela lagna. Pompeo l’avrebbe ricondotta ar dormitorio. Se sarebbe buttata sur tavolaccio: duro pe duro, se sarebbe potuta addormì. Chissà che puro li parenti nun s’addormìssino, poveri cocchetti! Se sentiva stràcca da morì: ribbambita: sfinita. 
«Che cosa faceva Diomede?» Sussultò. «Cos’erano quele donne che ciaveva intorno? Che donne erano?» 
Lei, tra l’umiliazzione e la rabbia della gran gelosia che pativa, col volto tuttavia tuffato entro il gomito, co li capelli che spiovevano giù secchi secchi fino al di là del gomito nascondendole del tutto la fronte... finì pe dì, già, ch’era capace puro d’annà co certe racchie, purché... 
«Purché?» 
Be’, già, sì, no: nun era pe faje un torto a lei, che ciannava. Era... pe l’interesse suo. perché stava disoccupato da du mesi: e nun trovava lavoro: un antro lavoro un po’ mejo, da poté tirà avanti. 
«Che arte fa?» domandò il dottor Fumi, con mitezza. «Che arte facciarìa si nu stesse a spasso?» Gli occhioni dell’inquisitore si dilatarono, un poco gialli agli angoli, si posarono tristemente su quell’arruffio di capelli, che spiovevano fuori a fontana dal gomito della ragazza. «L’elettricista!» singhiozzò lei senza levare il capo interamente, solo estraendolo un tantino da quella difesa del braccio e del gomito, a lasciarne vaporare la voce. Andava ora umettando di lagrime raddolcite la manica, dove riapparvero un foro, sulla punta dell’osso, e la sdrucitura della camicetta e della maglia e il bianco della pelle, alla spalla. «Adesso cià d’avé un’ingresa», affermò riprendendo a singhiozzare in quel fradicio, con infradiciate parole: «n’americana brutta, cià d’avé, io che ne so? Ma nun è vecchia, questa qui, ma co certi capelli de stoppa!» Si rasciugò il naso nel polsino. «Cià li sordi, cià. Ecco che cià»: e proruppe nuovamente in singhiozzi. 
«E cchi è? Vuie ‘o sapite, chi è? Dove sta? M’ ‘o sapisseve dicere? Dite, dite. Chest’americana, quest’inglese...» 
«Che ve pare! Pe chi m’avete preso? Starà là, in quarcuno de queli alberghi de lusso indò ce vanno li signori...» 
«Là dove?» 
«Là, ne li quartieri alti, a via Boncompagni, a via Veneto. Io che ne so? So che se chiama Burger... Borges...» 
«Ho capito, la pensione Bergèss,» fece Pompeo, pronunziando a suo modo. 
«Pompé,» fece il dottor Fumi volgendosi, «chesta notte me fate avè le schedine dell’alberghi.» 
Pompeo si guardò l’orologio sul polso. Ingravallo si staccò dal tavolo, prese a passeggiare sul mattonato freddo, su e giù, lentamente: a capo chino, ingrognato, pareva meditare su tutti chell’impicci, secondo il suo solito. 
«All’ufficio stranieri, Pompé, allo schedario. Pensione Bergesse. E bbuona pesca. Comma ca tenimmo appena n’indizio, subbeto da ‘o portiere a ssentì. Referenze! Portieri! Informazzioni! Sinnò che ce stanno a fa tutti ste portiere, all’alberghi?» Esitò un attimo. «E a le pensioni pure, Pompé. Ingravallo, ciavite a ddà n’occhiata pure vuie... a sto guaio d’ ‘a americana.» Don Ciccio assentì, co du decimi de millimetro de mossa: der testone. 
«E ddomani mattina, Pompé, ve n’iate a spasso a via Veneto. Vuie v’avite a ‘ncuntrà l’inglesa pe cumbinazione, c’intendiamo? Eppoi, ci comprendiamo...» Occhioni su Pompeo. «Seguirla, pedinarla: e ppescarla co’ o guaglione!» indice verso l’abisso, «doppo ‘o rendez-vous,» tono trionfale; «co’ ‘o gguaglione l’avite a ffermà, no primma»: nota di canto. «Doppo che se saranno ‘ncuntrati! M’avite capito, Pompé? Capille ‘e stoppa!», corrugò la fronte. «Inglesa, inglesa,» pensif, minding, «o meglio... pecché no?» minding, «scozzese o americana!» Breve silenzio: 
«doppo ‘o rendez-vous!». 
«Ho capito, sor commissario capo: ma...» 
«Capille ‘e stoppa!»: sopraccigli e cigli revulsi inesorabilmente a le stelle: tonalità inappellabile: palmo in avanti a respingente, a respingere ogni obiezione lecita o illecita: diti irraggiati ad ostensorio. 
«E la fotografia d’ ‘o guaglione fotografata accà»: si batté la mano sul cuore, con patetica enfasi: «d’ ‘o guaglione bello, la fotografia d’ ‘o... ‘o Diomede Luciani...» 
«Lanciani,» corresse Ingravallo. 
«Va buono, va buono, Ingravallo! D’ ‘o Lanciani, d’ ‘o Lanci-ere.» Poi, rivolto agli astanti, sul cerchio dei quali rigirò gli occhi, e con il tono pacificato ‘e chillo che disserta de moribus, de temporibus: «Chelle guaglione sbarcano a l’Immacolatella a ciento cinquanta pe’ vvota! A ‘o molo Beverello! Da ‘o Conte Verde!» sentenziò: e stirò i sopraccigli a metà fronte, indice pollice riuniti autorevolmente ad occhiello: «O cchiù gran transatlantico d’ ‘a Cauns Làine!» Ne svolan fuori, a frotte, difatti da ‘a panza d’ ‘o Conte, come tante gallinelle da una gabbia: che dopo lunga gita a stramondo venga finalmente deposta a terra, dischiusa: scendendo a gruppi lo scalandrone, con borse, talune con occhiali, si spargono sul Beverello: fra bauli, agenti d’alberghi e della Cook’s Travels recanti scritta sul berretto a fil d’oro, e facchini, e attendenti a boccaperta, e venditori di sorbetti o di cornini di corallo, e offerenti di servigi e indirizzi, e inventori d’occorrenze che non occorrono, faccendieri, curiosi d’ogni qualità, donne. 
«Mah...» e il dottor Fumi agitò l’occhiello de’ due diti, estrinsecato il mignolo, «galline che ffanno ll’ove d’oro! quanno e’ ffanno. ‘O pate, ‘a mate, a Ccicàgo, se penzano che veneno a vedé ‘e quadre d’ ‘o Museo, a studià com’è vestuta la Madonna, com’è bella: com’è bello San Gennaro nuosto, pur’isso»: e andava scotendone il capo, della certezza de’ padri, delle madri. «‘A cappella d’ ‘o Beato Angelico! ‘E stanze ‘e Raffaello! L’affreschi d’ ‘o Pinturicchio!» Sospirò. «Ate stanze nee vonno pe’ cchille ppeccerelle,» mormorò. «L’Assunta!» esclamò: «di Tiziano Vecellio!» e il cognome, in quella stanzaccia della questura, aggiunse decoro al nome: quasi d’un tipo con le carte in regola, che il sospetto non potesse neppure sfiorare. «‘O ritratto d’ ‘a Madonna spaccato! co chilli sette angele ‘e ceralacca ncoppa ‘a capa!...» 
Vice-commissario ai Frari, i cinque cherubini scarlatti d’una delle sei madonne in trono di Giovan Bellino (Accademia) gli si erano stampati nella memoria, gentile per quanto burocratizzata memoria, come i sette sigilli della Apocalisse, in un cielo color piombo. E ne aveva regalato l’Munta: che ha danza di putti tutt’attorno al capo, viceversa, alati alcuni con ali di colombi: altri no: uno, senz’ali, con tamburello: osannante. 
«‘E ggenitori accusì penzano, a Boston, a Borùclin.» Si batté l’indice in fronte, a martelletto. Fece du occhi avveduti, il viso scaltro, a riprodurre la scaltrezza dei parenti. «Se penzano ca chiste guaglione viaggeno pe’ ll’Italia a vranche, a ci-ento a ci-ento. come ‘e peccerelle d’ ‘o collegio. Ci-ento a ‘o Museo, ci-ento a ‘o teatro, ci-ento a l’acquario, sapite, addò ce sta li pisce, sott’acqua; ci-ento a ‘e tterme ‘e Caracalla, ci-ento a San Calisto appress’a zi’ monaco co ‘a cannela, che mo se spegne. Chille, Ingravallo, vui capite, manco p’ ‘a capa.» Girò la capa ai subalterni. «Chille, appena scese da ‘o barcarizzo, Ingravallo, vui m’intendete, frrr, frrr»: svolazzò co’ le manocce, buttandole qua e là come fulmini, con gli occhi del fulminatore. 
«Una ccà, una llà: m’avite capito?» e gli occhi, luminosissimi nell’accoramento, raccolsero adesioni torno torno. «Ognuna pe ssè, Dio pe’ ttutte! A Taormina, a Cernobbio, a Ppositano, a Bbaveno,» s’intestardì: «a Capri, a Fiesole, a Santa Margherita, a Venezia,» il tono s’indurì, s’enfatizzò severo nel crescendo, ruga verticale ‘n miezz’a fronte: «A Ccortina d’Ampiezzo!» «D’Ampezzo,» brontolò Ingravallo. 
«D’Ampezzo, d’Ampezzo: e vva buono, Ingravallo, vuie site nu professore ‘e filosofia.» Aggrottò le ciglia: «A Ccortina, a Ppositano! Arrivedecce!» Salutò ripetutamente, con la mano in aria, qualcuno che non c’era. Sollevò la faccia dal tavolo. «Arrivedecce accà, fra sei mesi»: indice tuffato. «Accà, accà, a ‘o molo. Beverello. Fra ssei mesi precisi.» Tacque. Sospirò consapevole. «Che Raffaello!» esclamò in un nuovo soprassalto, in un ritorno dello sdegno: il quale sdegno rotolò e si smorzò dietro gli enunciati precedenti, come un tuono dietro un temporale che fugge. «Che stanze!» e sì agitava. «Che Ppinturicchio! La stanza che vuonno chille è n’ata, Pompé! ‘na stanza che vui ll’avit ‘a cercà tutta la notte!» Pacato, alfine, tra sé e sé: «Pure ‘o Pinturicchio... è n’ato...» 
Le ragazze, non appena scodellate sul Beverello dal tenebricoso ventre del Conte, sentivano subito, in cuor loro, e in quanto ragazze non gli potreste poi dare tutti i torti, capivano, intuivano di colpo che nella terra delle belle arti, e dei bravi artigiani, avrebbero preferito un pintore vivo a un Pinturicchio defunto. Ingravallo, poi, aveva letto Norman Douglas oltre che Lawrence: e ne aveva stillato Calabria, Sardegna (ringhiando) come da fiale d’un iperofficiante elisire. Gli sovvenne che uno dei due grandi erotologi, ma non realizzava quale, un bel giorno, s’era tramutato in geodeta, e aveva considerato l’opportunità di redigere una mappa delle isoipse maschili, estendendola a tutta la superficie della terra. Aveva dunque triangolato, in sua geodesia, anche il territorio circèo, cavandone documentata certezza che la Circe non si fosse piazzata poi tanto male a esercitare l’arte sua, ch’era quella d’ammammolare i giovanotti. Codesto territorio di più profittevole ammammolamento, cioè di più eccelso livello del potenziale maschile, era, secondo Norman Douglas o secondo Lawrence, un triangolo sferico, o meglio geodetico. E i vertici, i capisaldi geodetici estremi dell’ineguagliabile triangolo, lui, Norman Douglas, o lui, Lawrence, li riconosceva emergere dalle tre città di Reggio (Calabria), Sassari e Civitavecchia, con gran dispetto dei palermitani. «Poteva arrivé nu poco chiù a Norte, sto minch... iòlogo,» ideò muto Ingravallo strizzando i denti dalla rabbia: «spingersi nu poco chiù a levante,» gli suggerì l’inconscio, «fino in coppa a ‘o Matese.» Levò le spalle: «Affare suo!» E tirò, a denti stretti, la conclusione: una conclusione probabilmente ingiusta: la quale, comunque, non interessa in alcun modo il presente referto. 

Le rotte ma esplicite ammissioni della ragazza durarono a gocciolare insino all’undici, a momenti. Il dispetto, o l’ira, in qualche punto, nel di lei animo parve superare l’amore, l’accesa rimemorazione della carne. Il Diomede, in sulle prime, era andato a vederla dalla Zamira, ogni giorno. Lontano dai di lei occhi, e dall’avido esercizio dei propri, pareva, il giovane in fiamme, non si poter tenere più di qualche ora. O l’aveva accompagnata ardendo, tremando, a volte, per qualche buon tratto di strada o stradina derogata ai campi e solinga, indugiando sul passo con ogni indugio, tra due fratte, e della persona e del cuore: e dei sensi. Prendevano il sentiere che lungheggia la macchia delle querci, in direzione di Tor ser Paolo, o la stradiccia della fonte de salute, verso Casa del Butiro. Ines, ora, pareva pensare. Schiuse il labbro, come nell’intento di sillabare una parola nuova: «La Zamira je voleva bene: a modo suo. Se ne serviva quasi da confidente.» Gli sussurrava, difatti, certe lunghe storie di sotto al naso, guardandolo in volto, fisso fisso, mangiandolo cogli occhi, puro lei, se sa, eh? no?, co ‘na voce tutta ciancicata, susurrata a la sordina, come ar confessionale. Un pispillorio! come je dicesse l’orazzione ‘o je dasse de li consiji boni: buoni a lui solo, che ne aveva particolarmente bisogno, per la salute dell’anima. Non la finiva più di pispigliare... ps, ps, ps: talvolta, per più sicurezza, girando gli occhi tutt’attorno, levandosi magari in punta di piedi, rimontava con la bocca fino all’orecchio del giovane: i segreti esquisiti non erano pel naso, ma per l’intimità segreta del timpano. «Pareva dicesse l’orazzione: de quelle che nun finischeno più, che te fanno scegne lo stommico a li carcagni. Nemmanco er rosario doppio de la viggija...» Come a segretamente istruirlo, bah, circa imprese, o fatti, od obblighi, od opportunità, o grane, o trattative, od espedienti... di qualche momento. La Zamira gli parlava allora, a Diomede, col rotolio d’occhi e il galoppar di labbri d’un ministro degli esteri di finanziera fresca e tuttavia già saputa, quando infàbuli di parole nuove il diletto imbasciatore sottovoce, in un selettivo a parte: e supervigili intanto, e tenga nella dovuta reverenza e alla dovuta distanza quegli altri: che han, tutta l’aria di sfotterlo col loro solo guardare, con la loro sicurezza Calma di volpi, consumate nell’arte: sature, il sottil muso, d’iniziative sottili: la coda di provvida esperienza, e la schiena d’indimenticabili stangate. Nella bocca senza denti er bucio, nero: da cui, tra verbo e verbo, ella risucchiava dentro la già erogata saliva, con una specie di sibilo un po’ umidiccio dove poi gli erre sguazzavano a ritroso, come chi, buttato là dal frangente, sia travolto indietro dalla risacca. Un indugio di piccole, soavissime bulle, sui labbri, accompagnava il ricupero: che con una repentina falciata, poi poco dopo, il-vertice acuminato e scarlatto della lingua s’incaricava di perfezionare. Sì, uno sfavillìo degli occhi, nella faccia, quando appena gli parlasse, al ragazzo, a Diomede: sì, dentro le du vesciche sierose delle occhiaie due punti neri, gli occhi, du capocchie de spillo. Propio se sarebbe detto che il Berlicche le avesse finalmente palesato indove s’aritrovava er tesoro, sotto tera, la pila introvabile degli zecchini, dei dobloni: o l’elisir d’amore dell’amore di ritorno. Un sorriso livido. le storceva la, bocca, da un lato, diaframmando er bucio: su la pelle de mezza faccia un riverbero giallo, da fa paura, come de certi fochi malsani, de la zecca del Frulla. 
«Insomma, je voleva bene, a Diomede, quela brutta scorticata.» Fumi, la Ines la rimirò nel volto, lasciando cader la mascella, a lingua pendula, come imbambolato. «E lui je faceva puro da confidente, allora. E certe vorte nun te l’attirò puro in cantina, pe parlaje co più commodo! Me sa che je dicesse quarche cosa d’importante. Svergognata! a l’età sua! Le regazze... me ce daveno pure la cojonella. Me pijaveno certi nervi! Ma senza le nìzziche nun magni. No, nun ce la facevo a tirà avanti, a casa, co quelo scarto de galera de mi’ padre. Sicché avevo da abbozzà pe forza.» La Zamira e Diomede sparivano giù pe la scaluccia, l’uno dietro all’artra. Quanto ai motivi di tutto quel misterioso parlottare, «nun se sa, nun lo so.» 
«Di’, di’; fuori, fuori. Ma ched’ è sta chiagnata?» fece duro, Ingravallo. «Basta con i singhiozzi!» L’interrogata, povera creatura, ammise, poi negò, poi dubitò, poi suppose che dovesse trattarsi, con molta probabilità di azzeccare, d’una filza di suggerimenti, o ammonimenti, «de fa girà er boccino a noi antre regazze, senza fasse arubbà er core da nissuna.» Un codice, o un galateo, dell’amore avveduto: una iniziazione alla galanteria controllata, contabilizzata, se non proprio alle galanterie profittevoli. E quando fosse, intendeva profittevoli pe tutt’e due, «pe lui e pe lei»: lei Zamira. Il Pestalozzi ebbe, a tratti, un sorriso, una levata di spalle appena appena, come a dire: «l’avevo capito da un pezzo: naturale: sissignori.» 
I funzionari, veduta l’ora, decisero di capire che Diomede, il paìno, doveva funzionare - ne aveva dalla Zamira l’incarico? - da fringuello de chiama, o come la ciovetta sur mazzòlo, dirimpetto a le belle. A le belle, a le povere veneri della campagna: certe robuste, piantate su due zampe, cui ogni vesticciola è sognare, nell’alido e nella luce implacata del giorno, tra i vepri e le stoppie, a sol d’agosto. «Ogni vesticciola,» pensò Fumi: «una grazia largita dal mistero.» Ed era, pensò, il dorato, il fumigante mistero della città. Le vesti, i vezzi, gli odori, da fiale... Una lamella d’oro, da tanta luce nella notte, come un simbolo, come un lasciapassare in un orfico rito: per accedere là dove s’adempisse, da ultimo, il vivere. Un orgasmo non saputo conoscere senza iniziazione, ma presagito e sognato (con profumi d’aglio nell’alito) dal cuore, a sera. Un muto «vivi! vivrai!» dopo forcate ratte di strame: dalle accese nubi della sera, dalla promessa del caldo orizzonte. «‘O turpe mistero ‘e sto munno,» pensò, invece, Ingravallo. già odiava, in cuor suo, quel figuro, per biondo che fosse: e la solita strizzatina di denti, o strizzatona di mascelle, accompagnò l’apparire e il non sùbito vanire dell’immagine. Era, nella sua capoccia di diorite, un’abominevole immagine. Una sporca, una misera cosa, quel bellimbusto: chillo gigolò! «Ah,» rimuginò, «Diomede doveva dunque agire-da suasore, da iniziatore: per i sacri riti dell’émpete pémpete: da battitore: da pointer, a puntar le quaglie e le starne, sul colle: da spinone giovane, a snidare le gallinelle del padule.» Così almeno la intesero quanti eran là, nel camerone dove si vedeva il fiato sotto le pere della luce, stretti a cerchio attorno al batticuore d’una starna, tra birri grossi e famigli: il dottor Fumi, l’Ingravallo, il maresciallo Di Pietrantonio, Pompeo, e Paolillo, detto anche Paolino..., il brigadiere Pestalozzi, «‘o motociclista». Ines non proferì per esplicito, ma sembrò loro di poter tuttavia desumere dall’apprezzato raccontino della discesa in antro (del biondo intraprendente con la più che Cumana Sibilla), dai molti per quanto titubanti e ripentiti «nun lo so, nun saprei dì», sembrò loro di poter arrivare a verbalizzare che il Diomede Lanci-àni, ‘o lanci-ère, avesse altresì conceduto suoi conforti irruenti (tali sempre, lasciò intuire la ragazza, i conforti, da lui), alla matura bettoliera sarta e tintora, smacchiatrice d’abiti militari e civili. 
Sì, conceduto conforti: a dispetto di Venere Schizzinosa e di tutto lo svolazzo de’ suoi cipriati cupidoni. «Quella vecchia ex-vacca sdentata!» ideò il Pestalozzi in sua silloge, alquanto ozzolana, per vero. Era evidente, omai: il biondo le aveva dato ripetuta prova della sagacia e del valore, alla vecchia: per quanto alla ovvietà delle illècebre e degli itinerari, ideò aggiustando, da sempre cogniti, e ripercorsi negli evi, la sagacia si fosse appalesata superflua, il valore più che mai necessario. Un valore incurante d’ogni repulsa di contingenze avverse. Le aveva conceduto il meglio, o il peggio, del proprio spirito d’iniziativa. Sì, era chiaro, omai, lo spirito d’iniziativa... glie lo aveva audacemente insufflato, alla maga: forse, anzi di certo, dietro adeguata remunerazioncella. «Visto che prima nun ce l’aveva, le rùzziche,» scappò detto alla Ines, «poi ce l’aveva.» 
Al brigadiere Pestalozzi parve anzi rammemorarne senza pena il tacito essere, del Diomede: che aveva incontrato alla mescita de li Du Santi. Aggrottò la fronte. Gli sembrò, a momenti, che lo avrebbe potuto ravvisare. Che? Possibile? già. Ma proprio quel giorno? Il silente e impreveduto apparire di lui dalla scaluccia: un giovane di singolare avvenenza, certo, biondo come un arcangelo, ma senza spada: di ritorno dall’aver dato lancia in Abisso. L’Abisso, quella volta, doveva aver accusato la botta. Una botta da felicitarsene. Lui aveva nel volto, un volto fermo e pallido un tantino appena zigomato, aveva nello sguardo chiaro e sicuramente azzurro quella sorta di volizione proterva, pressoché isterica, di che un pittore, nelle Marche, s’era studiato (e compiaciuto) perfezionare le note fisiognomiche naturali dei celesti volatili: quando li incaricava di certe ambasciate un po’ scabrose. Tale volizione, a metterla in pagina, verrebbe a graficizzarsi nei noti termini: «Tutto deve andare per il suo verso, che prima d’essere il suo verso è il mio, veduto ch’io sono un arcangelo. Se poi qualcuno fosse di parer contrarie, te lo arrangio subito: con questo tortòre che qui.» 
Là pe llà gli era parso però nun troppo perzuaso, per quanto creatura d’eccezione, d’aritrovasse de petto un brigadiere delli carabinieri: un palo che poco je squadrava, così ross’e nero: e che ce squadra poco un po’ a tutti, in certe circostanze. Ma lui, furbo, vide subbito ch’er brigadiere s’era scolato in gola una gazzosa: be’: manco male. 
Venuto a Roma a lavorà d’elettricista, la Ines riferì, aveva trovato lavoro a bottega a sessanta lire la settimana: «ma l’aveveno licenziato». Talché, poi, lavorava qua e là: per suo conto: «annava pe le case a giustà li fili quanno che so’ lograti, o a fa l’impianti a una cammera, a un appartamento novo: magari de quarche vecchia bacucca,» insinuò, e si stizzì. «Puro a cambià le varvole e a fa sonà li campanelli, quanno je viè no sturbo, che nun vonno più sonà; perché ce stanno certi signori, e specie le moje, che cianno paura solo a l’idea de toccalle, ‘e varvole de la lettricità. Mamma mia! a costo de pijasse magara na scossa. E poi, si loro ce penseno bene, chi è che ciavrebbe più la fantasia d’arrampicasse fino in cima a na scala, fino a toccà er soffitto co la capoccia? si nun è ‘n poverello ch’oo fa pe guadagnasse er pane? e stacce ore e ore, su quella scala? A fa la treccia co li fili, dico io, bah: ch’a noi antre donne, poi, ce se vede tutto... me pare: l’elastichi e tutto el resto»: girò du occhi magnifichi, du gioie. «No, na fantasia così nun po vienì a gnissuno.» Parve esitare un momento: quelli si attendevano chi sa che. «Li milanesi, be’, se sa: quelli, anzi, ce se diverteno: quelli so’ tutti ingegneri.» Ripeté, o parve, con questo, un’affermazione del giovane. 
Ingravallo si grattò appena appena, zic zic, a pollice rovescio, il parruccone d’agnus nero. «Aveva lavorato a cottimo, dunque: poteva indicare da chi?» 
«Da chi nun lo so: nun me l’ha detto. Annava a lavorà da li signori a casa loro. 
Quarche vorta agnede puro da na contessa, me disse: una che parla veneziano»; mise quer grugnetto indispettito, adorabile. «E anche co quella me sa... o me sbajo»: e ristette. 
«Che tte sa? coraggio,» fece bonariamente Pompeo. 
«Me sa... che cià trovato la convenienza. È un maschio svejo. Lui, er guasto, in dove che sta t’oo trova subbito. E poi, a Roma, in su le spese. Nun potrebb’esse differente.» 
Fumi girò gli occhi sull’Ingravallo; proprio nel momento che Ingravallo aveva levato i suoi, più torbi, a guatarlo. Indi alla ragazza: 
«E sta cuntessa? addo’ sta? Dicimme,» strizzò i labbri, «addo’ sta ‘e casa?» 
«Da le parte de la stazzione, me pare: passato piazza Vittorio, però. Ma io... nun so’ pratica de queli posti.» Arrossì appena: la voce sembrò sciogliersi, vacillare: tremolare verso il pianto. «Io... e ché? mo me fanno fa la spia? Io...» 
«Quanta chiacchiera, neh, guagliò. O dentro o fuori. Aggiustateve allora: come vi piace...» minacciò tutt’altro che amabilmente Ingravallo: e si levò, nero. 
«Na strada larga, longa,» disse lei titubando fra vergogna e rimorso, «dritta dritta... che va a finì a San Giovanni.» 
«Aggio capito,» disse il dottor Fumi: «aggio capito tutte cose.» Guardò di nuovo il collega, che lo guardava a sua volta. 
Diomede aveva bisogno di denaro: ne aveva, ne spendeva: se ne procurava dell’altro: spendeva anche quello: caffè, sigherette, la cravatta, la partita, er cinema, er tramme: puro al lotto, giocava. 
«Puro l’apperitivo je ce vo: er Carpàno» (così accentò). «Da Piccarozzi, sotto ‘a Galleria. Prima d’annà a pranzo, prima d’annà.» Ma questo lo disse con fierezza, come avrebbe detto: «cià na camicia de seta da signore: sissignori!» «E addo’ va a mmagnà?» domandò Fumi. 
«Siconno. Si è che sta solo, s’arancia magari co no sfilatino. È puro capace d’attaccasse a la cannella d’aa funtana: un’ingozzata d’acqua Marcia a la Scrofa, o a la funtanella de Borghese. Si poi sta co certe signorine, co certe poste de lusso...» 
«Nun era pe te sola, dunque,» la pinzò Pompeo con un ghigno. E toccandole una spalla: «Vah! consolàmese, pupa!» Lei si scostò, dispettosa, come schifita a quel contatto. «Sì, sì,» piangeva, «sì, che me vojo consolà.» 
Si deterse con la mano, singhiozzò, mutò parere: «Be’, che ve credete? che nun 
me so’ già consolata?» e fece l’atto, con un nuovo singhiozzuccio, di cercare la pezzuola: da rasciugarsi la faccia, il nasetto; finché al solito lo strofinò sulla manica. Povero essere! Il gomito palesò la foratura, e la manica i rinnacci e gli sbrendoli. Il misero polso, il braccio, le spalle sussultarono dentro disperati singhiozzi. Ma levò il capo: con il volto bagnato li rimirava: «Quanno poi trova quella che ce sta, vojo di una de quelle... che nun fanno tante ciciate, perché ce vanno in giro apposta, quella te la trascina in una trattoria de lusso: dar Bottaro, magara, a la passeggiata de Ripetta: o a li Quattro Cantoni, da l’Aliciaro, de dietro a San Carlo: o magari a la BVite, si tanto tanto ce la fa a capì... ch’è una de fora, e che viè pure da lontano, e de razza scerta: che lui cià l’occhio bono, pe questo. Pure ar Buco a Sant’Ignazzio, quarche vorta, che so’ toscani, m’ha detto: propio de la Toscana. Sicché, lì, te tocca beve er vino suo, ch’è più caro, perch’è più arrinomato de lusso.» 
«Aggio capito,» mormorò Fumi col testone sul tavolo. 
«Toscani!» riprese lei: e arrovesciando il capo con una mano buttò all’indietro la zazzera, ciocche di capelli biondi, su cui erano piovuti come dei goccioloni di colla: poi susurrò noiata: «puzzoni pure loro, li possino buggerà.» L’imprecazione si smarrì sottovoce nell’apòcope dell’infinito, in un sempre meno benevolo farfugliare della lingua, delle labbra. 
«Puzzoni? e che t’hanno fatto?» la pungolò di rimando lo Sgranfia con un risolino, direbbe un romanziere: che, data la gargana, fu viceversa un tuono di trombone. 
«Gnente, m’hanno fatto: ma so che so’ puzzoni: ecco.» 
«Stateve bbuono, Pompé: nu scucciate,» fece il dottor Fumi contraendo il naso: e alla ragazza: «Dicevi?» 
«Dicevo che co quelle attacca subbito, nun cià da faticà troppo a dajela a d’intenne. Scusi, mi dire Villa Porchese àu do jo è? E stanno a via Veneto. 
All’archi de porta Pinciana, stanno! sti fregni. De qui nun è lontano. Sfido, io! Basta attraversà la strada. J’accenne la sigheretta, magara. Posso accompagnalla, se crede. Figuramose si nun crede! Co me è diverso, co sti stracci addosso... che me moro dar freddo. Co me, ora, nun vo nemmanco vienì: dice che so stupida, che paro na poverella. Ma con quelle! Da porta Pinciana ar giardino del lago, a la terrazza der Pincio, nun è poi un viaggio che fa dole li piedi. Du chiacchiere, strada facenno, voltandose ogni tanto a guardasse in faccia, lasciandose guardà in fonno all’occhi. Lo so, lo so, come fa.» 
«E tanno?» 
«E m’hanno: sì, allora m’hanno bell’e buggerata a me, che nun so dove annà a magnà un po’ de pane: ch’a momenti me butto a fiume. Pe loro ce scappa er pranzo callo callo, o a la più peggio la cena.» 
«E li baiocchi?» 
«Che bbaiocchi?» 
«Li sordi, vojo dì, chi è che li caccia?» interruppe ancora Pompeo, stropicciando il pollice sull’indice. 
«Zitto, Pumpé, vuje me state rumpenno ‘e saccocce,» lo ammonì Fumi. Poi a lei: «E cchiste pranze, dicimmo cqueste cene, chi lle paga?» 
«Paga lui, se sa,» ribatté con alterigia e con dolorante invidia la ragazza: «ma li sordi però je li passa lei, sott’a la tovaja: o a l’entrata der Bottaro» (invidia a la rivale emittente) «mentre che guardeno su la vetrina... li piatti der giorno che ce stanno scritti. Si c’è ‘r pollo, o si c’è l’abbacchio. perché già hanno combinato tutto tra loro, strada facenno: e che lui è na guida appatentata, che resami l’ha fatti, e je manca solo d’annà a pijà la licenza a via Panisperna, ma je ce vonno ancora certe carte, certi bolli: che tutte l’osterie de Roma le sa a memoria, che però nun farebbe una bona figura e nemmanco lei, del resto, a fasse scoprì che è lei, che scuce. Qua nun è come a Pariggi. Qua c’è ‘r Papa.» Risero. Nella stanchezza, nel pianto, eretta, da ultimo, dentro la mucida luce del camerone aveva parlato risplendendo: i cigli, biondi, rivolti ad alto, irraggiavano sopra la serietà luminosa dello sguardo: le lacrime avevano deterso le iridi, castano scure, le due gemme turchesi che le racchiudevano. Il volto appariva sudicio, stanco. 
«Pure da la zia, si è la zia, poi, s’è fatto dà cento lire. Una vorta che ciaveva prescia d’annà, nun m’aricordo in che posto. E me sa che quella nun l’ha più rivisto, quer fojo da cento. È la moje d’un grugno aripezzato, che dice che faceva er fornaro ma a casa nun ce va mai.» 
Con la Zamira s’erano leticati: «Forse perché lui m’aveva fatto persuasa de venì via: lei, sicché, diventò na furia. Te n’avrai da penti, me diceva: quela strega! da’ retta a me che te ne pentirai, cocca mia bella! Co quell’occhi d’arpia! Lui me fece toccà un corno: e lo toccò puro lui. Sì, è stato lui a famme perzuasa. Sicché litigarono. Forse pe quello, o forse, chi lo sa? perché non c’era più l’interesse de mezzo. Lei è na stregaccia, na mignottaccia de carriera de campagna. Perfino in Africa, è annata a fa la vita! Quinnicianni fa. Si è che so’ quattrini, poi, è capace de scannà puro er padre cor cortello. Lui m’ha portata via.» 
«E pe cquesto s’hanno leticato?» domandò Fumi, poco persuaso. La ragazza non avvertì la domanda. «Lui, d’artra parte, se po capì. Un maschietto de quela sorta! Pe gnente, propio... troppo poco! j’arisponne che vadano da un artro. De lavorà pe la gloria dice che nun cià mai avuto fantasia. Voi donne, dice, nun ce mettete gnente, artro che un tantino de pacienza. Basta che state quiete du minuti. Quarche sospiruccio. E intanto... domino vobisco, addì Arfré! a st’artra vorta! Ma noi, dice, noi! e s’abbotta tutto: noi è n’antr’affare.» 
«Avì-te sentì-to!» fece il dottor Fumi abbacchiatissimo, come chi oda o veda silurare o schernire, da impreveduta beffa o siluro, le più sante, le più radicate opinioni sulla bontà della natura umana. Rivolse occhioni, all’ingiro, mesti, quasi a dimandar d’aiuto i coinquirenti signori. Il collo gli s’era insaccato ne le spalle: come se un apostolo di malumore gli avesse dato del tallone sul capo. La cinica sfrontatezza di quelle battute del giovanotto, riferite dalla Ines, parve metter punto al racconto. 
Stavano per congedarla, e Paolillo era già in sulle mosse, uno sbadiglione incoercibile gli aveva impegnato le ganasce, che bramavano da un’ora ben diverso impegno: quando, a lacrime rasciutte, lei buttò là quarche paroluccia, a mo’ di giunta sul detto: con voce calma, sonora, quasi in ripresa di un’aria che avesse precedentemente erogato verso la beatitudine degli ascoltatori: «Cià pure un fratello più piccolo che se chiama Ascanio: che deve avé bazzicato puro lui, ner palazzo indove sta de casa la contessa veneziana. Un ber maschio: più furbo de nun so chi! sempre co la fifa addosso, quello, come de nun poté falla franca, se direbbe. Uno che te smiccia dar sotto in su, e poi subbito je se chiudono le parpebre: me pare er gatto quanno vo fa vedé che cià sonno, e intanto l’ha fatta più sporca der solito, e ce lo sa, ma a te nun te lo vo fa sapé. Un regazzo sverto, com’er fratello: d’un artro genere, però: tra ‘r chirichetto e er cascherino, de quer fornaro de laggiù.» 
«E chisto sarebbe ‘o frate giovine, ‘o frate cchiù ppicirillo, Ascanio Lanciani,» disse Fumi pensoso, invitante, tuffandosi di tutta lingua nel cia di Lanciani, more insolito. Ma la canestra delle albicocche era vuota, omai. 
«Sì, Ascanio,» cantò lei tuttavia: «Ascanio.» 
Ingravallo ebbe un sussulto, che contenne, un ringhio dell’anima: quasi un mastino sonnecchiante nel suo professionale sospetto, che ridesti, a notte, il passo felpato e cauteloso del Probabile, dell’Improbabile. «Uno che lavorava a bottega, da li pizzicaroli... Un po’ qua un po’ là puro lui. Poi dev’èsse annato in giro pe li paesi, co un venditore ambulante. L’ho veduto giusto l’artra domenica, er tredici de sto mese, che stava co la nonna a venne la porchetta...» 
«Addo’?» 
«...a piazza Vittorio, che m’ha dato pure na pagnottella sverto sverto, da sotto ar zinale: è uno che sa fa li giochi de prestiggio: co quell’occhi, bianco da la paura, che nun lo vedesse la nonna: co quer ciuffo che cià. Me disse: nun fallo sapé a nissuno che m’hai visto qua. perché, poi. Mba! Sempre pieno de misteri! Una pagnottella co un pezzo de porchetta col rosmarino. C’era da magnà pe du giorni. Senza fasse vede da la nonna, però. Quela befana era puro capace de menaje, si se n’accorgeva. già m’avev’allumato brutto, a vede che je stavo a parlà sottovoce, ar maschietto...» 
«Che ora era?» 
«Saranno state le undici. Na fame che nun ce vedevo. La campana grossa, a Santa Maria Maggiore, nun la finiva più de dondolasse... pe facce avé quarche grazzia da san Giuseppe, ch’è tanto bono, dicheno: che sabato era la festa sua, ma già stavo qua. Difatti, a me, me fece intruppà Ascanio, che m’arigalò la pagnottella. Quela campana, quanno che la sento, me pare mi’ nonna su la canofiena: su eggiù, giù essù, brrr, brrr, che a ogni botta che je dà a la macchina, je scappa quarche paroletta puro pe dde dietro: brrr, brrr, brrr, frrr, frrr, frrr... Na fame! je lo dissi chiaro e tonno che ciavevo fame, ch’ero na posta bona: mentre lui seguitava a strillà che porchetta! che porchetta! (che nissuno la voleva, a quer prezzo) è dd’oro la porchetta! Lui me capì: m’aveva già capito solo a vedemme in faccia. So’ l’urtimi bocconi boni che me so’ magnato: un po’ de sostanza prima de cascà qua. Manco male!» 
Il caso (non datur casus, non datur saltus) be’ viceversa pareva esser proprio lui quella notte a sovvenire i perplessi, a raddrizzare le indagini, mutato spiro il vento: il caso, la fortuna, la rete, un tantinello smagliata, un tantino sfilacciatella del pattuglione, più che ogni sagacia d’arte o capillotomica dialessi. Ingravallo fece chiamare il Deviti (c’era, stavolta) e gli diede incarico, pe la mattina, di ricercare chillo guaglioncello, Ascanio Laticiani. I connotati del tipetto... glie li poteva fornir subito la Ines, un ritrattino propio per la quale. E doveva puro spiegaje dove s’aritrovaveno, la bancarella e la nonna, dove staveno a venne la porchetta: sì, a piazza Vittorio, sì: dove tenevano il posteggio. Al Pestalozzi venne deferita copia d’un elenco, dattiloscritto, di turchesi e di topazzi, nel quale tutte le o (occhio di gatto, crosoberillo, spinello) si raffiguravano in altrettanti buchi o fori nella velina, rotondi appunto come delle o: ulceri d’una esattezza e d’una deliberatezza operative non adeguatamente confortate dai bilanci. Alcuni erano topazi propriamente detti, per quanto sprovveduti di accento circonflesso, altri erano topo-zii: le gioie della domicilioaggredita e detopaziata Menecazzi, che si redintegrava, questa volta, nel definitivo possesso e pieno godimento di diritto e di fatto delle proprie zeta: giulivamente commutata, per altro, la ga padana in una ca centroitalica. così accade, nei documenti della implacabile amministrazione da cui abbiamo l’onore e il piacere d’esser ministrati delle carte e dei bolli necessari a vivere, che il recupero di un Carlo Emilio da un precedente Paolo Maria, succeduto a sua volta al nome del gran morto di Canne, sia risarcito da un Gadòla: cui vien fatto, pertanto, di rifulgere nella esecrazione civica al posto di un Gadda. Il foglio dell’elenco Menecazzi ebbe giunta (Ingravallo, porgendo al vicebrigadiere Pestalozzi il secondo foglio, vi lasciò cader gli occhi) d’un altro elenco, più cupamente orrido e splendido: di quegli altri gioielli, tenuti già dentro il cofanetto di ferro nel primo cassettone del comò, dalla signora Liliana. 
8. 
  
  

Il sole non aveva ancora la minima intenzione di apparire all’orizzonte che già il brigadiere Pestalozzi usciva (in motocicletta) dalla caserma degli erre erre ci ci di Marino per catapultarsi alla bottega-laboratorio dove non era minimamente aspettato, almeno in quanto brigadiere fungente. Le ragazze, e prima di loro la maga, avevano fiutato, sì, a mezz’aria, un certo indefinibile interesse, percepito indi un certo circoscritto ronzare dei carabinieri (come di brutti mosconi allorché d’im subito abbia preso ad aulire miracol novo, in campagna), del maresciallo e del brigadiere in ispecie, tutt’attorno la soave fragranza della maglieria, e fino in sulla soglia della bettola e fin dentro, al banco; un tira-tira che non era il solito, che dal 17 al 18, da giovedì a venerdì, nel giro di ventiquattr’ore, s’era obiettivato in una sciarpa di lana verde: sì: e probabilmente, se non sicuramente, grattata: donde l’urgenza, per il beneficiario del trapasso di proprietà, d’averla recata a Zamira a ritingere. Il ronzio nuovo e a caso magari un po’ intensificato dei grigioverdi o rossoneri stangoni non era quella volta ascrivibile a privata impellenza, cioè all’esuberare dell’eterna linfa per entro le stretture della disciplina. Che no! Il solerte e via via sempre chiù avvitato accerchiamento del laboratorio, o meglio della casuccia che ne albergava la specie, s’era qualificato, da un par de giorni, per un ronzìo reale e carabinieresco, ovviamente imputabile a determinata fattispecie grattativa: insomma, per un benemerito ronzare. Sicché loro, le ragazze, ecché? zitte ricucite. E agucchiare, e tagliare, e sferrucchiare: e titrìc e tatràc alla macchina. I due gallonati, il maresciallo e il brigadiere, l’uno dopo l’altro, e quasi in concorrenza l’uno all’altro, avevano buttato là con efficace noncuranza, quasicché si trattasse di una curiosità momentanea, quella domandina impreveduta e poi preveduta e aspettata della sciarpa: e com’era, e di che colore era, e s’era di stoffa, o di maglia a mano, piuttosto che a macchina. L’aveva smarrita una vecchina, a sentir loro... nel discender dal tramme. La Zamira soffiò piccole bolle di saliva dal buco e se ne imperlarono i labbri, agli angoli: era il suo modo di palpitare, di partecipare. Ebbe come chi dicesse un invito nelle palpebre, il più stemperante, il più edulcorante invito di mi-carême. Ma quell’altra giovane, quasi una sposa, colei che dirimpetto al paterno cuore del maresciallo era la rosa dischiusa e porporina nel bouquet delle candide e chiuse, gli aveva sagittato negli occhi i «suoi» occhi. Uno sguardo rapido e luminoso di adepta: e quella sfrecciata così rorida d’intelligenza gli era stata più che bastevole, a ‘o maresciallo. A concertare di parapatia subita un incontro, vespertino e casuale, oh casuale, casuale, a metà la straduccia di Santa Margherita in Abitacolo: in ora dove anima non c’era. Allora e là gli venne repertata (in idea) la sciarpa: verdissima: e nel ribollire de’ bisbigli erano del pari venuti a galla il calesse, il marzo, e la pioggia orizzontale e la luna nova e tutti gli straventi del marzo, e il vin caldo oblato, povera bestia! in una catinella al cavallo: e, quel che importava più, la ditta Ciurlani di Marino. E infine il nome, cognome, soprannome, abitacolo domiciliare del denominato maschio, o «toso»: con qualche informativa per giunta: qualche tocco sul sembiante, sul carattere, tipo, modi, figura, stringhe delle scarpe. La tuta, per altro, nonché il berretto, facevano difetto al ritratto: una domanda precisa del maresciallo rimase inevasa. Nel laboratorio bettola delli Du Santi, tutte le ragazze, ogni volta, e anche la Zamira d’altronde, s’erano smarrite in una trasognata innocenza, avevano taciuto interrogando a lor volta, con lo sguardo, gl’interroganti: o avevano fatto spallucce o contratto a inscienza la bocca. 
Verso lunedì, poi, quello zelo un tantino fresconcello delli carabinieri s’era del tutto chetato. Un qualche milite aveva sostato, è vero, disceso di bicicletta: per comandare una gazzosa. L’oscillare della maniglia dell’uscio a vetri (colorati) aveva dato oscillante preavviso d’un cliente: e questo era apparso: ed era un carabiniere di passaggio. A gazzosa ingerita, quando il relativo gaz, come suole. gli era vaporato fuora di ritorno in quella specie di criptorutto nasativo che tien dietro a un beveramento del genere, ecco, il milite aveva sbottonato la giubba, l’aveva aperta a un tantino di comodità e di respiro: e una polpettuola n’era stata estratta, enfiata in carte più che imbottita pagnottella in salumi: un portafogli marcio: organo indispensabile, al sudato e al misero, per effettuare il laborioso pagamento d’una «bibita». Quel suo digitar nelle asole, recuperando a un più libero splendore i più nobili bottoni della uniforme, aveva conceduto alle ragazze, non si dice alla maestra-sarta, di adocchiare in una guardatina furtiva, ma sicuramente intendente, le vivide lineature del torace, di apprezzare lo stato d’animo del dissetato, pace, vigore, distensione, inibizione, orgoglio, e di inscriverlo, codesto stato d’animo, all’attivo del patrimonio generale dell’umanità: esclusa in atto ogni benemeritarda incombenza, ogni «causale» o ragione di servizzio. 
Il ventitré marzo, dunque, nella caserma dei Reali, a Marino. Levatosi a notte, disceso a bruzzico, un milite attendeva nel cortile. Il Pestalozzi apparve, scura persona, dal buio, da sotto il volto, camminò alla macchina: si distingueva la bandoliera, bianca, a rilevare la speditezza degli atti in un elegante apparato d’autorità. Poche parole al subalterno, breve ispezione alla bestia inzaccherata fino al muso. Una volta in sella, con un piè a terra, il sinistro, diede il cicchetto al motore: con il destro. Il piantone aveva spalancato i battenti come per una uscita di gran cocchio, di principe romano apostolico e duca di Marmo. Pestalozzi pareva soprappensiero. Mercoledì ventitré, pensò. Difatti. Levò gli occhi alla torre, che una sgrondatura di luce pressoché gialla, da una lampadina schermata, tingeva ad alto e di striscio, poco sotto la ruvidità superstite del còrdolo in fastigio. Sei e venticinque nell’orologio della torre: quanto nel suo proprio, esattamente. In accompagno aveva comandato quel milite, che già gravava col boffice sul retrosella e stava per tirare i piedi in barca a sua volta, stringendo il superiore alla vita, con le due mani, e attendendo il primo sparo del motore. Lui, col destro, calcò: reiterò sull’avvio. Il cilindro principiò alfine a gorgogliare, tutta la macchina a fremere, a batter l’ali. Il piantone salutò sull’attenti: fu superata la soglia. La svolta non diede luogo a ruzzolata. Ma pesavano, i due, sui fascioni. Il ciottolato era lùbrico, in forte pendio: una pellicina di belletta, in qualche tratto, lo rendeva più pericoloso. La cavalla coi due cavalcatori in groppa rotolò giù rattenuta, bofonchiando, piegò a dritta, poi a manca verso la porta del borgo, tra muraglie di peperino nere ed ombre, sotto a finestrette quadrate, cui munivano rugginosi ferri ad incarcerare la tenebra. Alcuna civica lampadina dondolò suo saluto ai fuggenti, in quella povertà scura e petrosa di paese: mensola dai licheni e dai muri che si ritraevano a scarpa, quasi di cortine di castella: fiore dai volonterosi bilanci, singhiozzo postremo dalle viscere del vice-sindaco per la solitudine antelucana d’una strada donde rovaio sibilando precipita, a notte: o scirocco vi si allenta e si spenge, tre notti dopo. Discesero fino alla porta del borgo. 
Passato l’archivolto, la strada prese a dilungarsi verso l’Appia: andò tra uliveti appena argentati dall’alba e proni scheltri di viti nelle vigne. Poi rigirava, come sola, sopra le bagnate spalle del monte. Al primo tornante rigirò pure la veduta. Il Pestalozzi levò il capo un attimo, spense il motore, frenò, fermò la corsa, con una certa cautela: sostò due minuti, da strologare il mattino. 
Era l’alba, e più. Le vette dell’Algido, dei Carseolani e dei Velini inopinatamente presenti, grigie. Magia repentina il Soratte, come una rocca di piombo, di cenere. Di là dai gioghi di Sabina, per bocchette e portelli che interrompessero la lineatura del crinale, il rivivere del cielo si palesava lontanamente in sottili strisce di porpora e più remoti ed affocati punti e splendori, di solfo giallo, di vermiglione: strane lacche: nobili riverberi, come da un crogiuolo del profondo. Spentasi la tramontana il giorno innanzi, ecco, ad alternare gli auspici, la bava calda, sulla pelle e sul viso, l’alito gratuito e omai cadente d’una strapazzata di scirocco. Di là, da dietro a Tivoli e a Càrsoli, flottiglie di nubi orizzontali tutte arricciolate di cirri, con falsi-fiocchi di zafferano, s’avventavano l’una dopo l’altra a battaglia, filavano gioiosamente a sfrangiarsi: indove? dove? chissà! ma di certo indò l’ammiraglio loro le comandava a farsi fottere, come noi il nostro, con tutti i velaccini in tiro nel vento. Labili, cangevoli fuste, bordeggiavano a quota alta e irreale, in quella specie di sogno capovolto che è il nostro percepire, dopo il risveglio a d alba, bordeggiavano la scogliera cinerina delle montagne degli Equi, la nudità dealbata del Velino, antemurale della Marsica. Ripreso l’andare, il guidatore ubbidì alla strada, la macchina si rivolgeva alle curve, inclinandosi con i due uomini. La metà opposta del tempo, là là sopra il litorale di Fiumicino e di Ladìspoli, era un gregge color marrone, sfumava in certe lividure di piombo: pecore da broda strette, compatte, addentate in culo dal suo cane suo di loro, il vento, quello che butta il cielo a piovorno. Quarche tuono, rrròoo, fijo d’una pignatta! ebbe er grugno pure de fasse sentì puro lui: alli ventitré de marzo! 
Il brigadiere premé col piede, accelerò verso la Fontana. Da ritta, ove il piano s’infoltiva di abitacoli e discendeva a fiume, Roma gli apparì distesa come in una mappa o in un plastico: fumava appena, a porta San Paolo: una prossimità chiara d’infiniti penzieri e palazzi, che la tramontana avea deterso, che il tepido sopravvenire di scirocco aveva dopo qualche ora, con la cialtroneria abituale, risolto in facili imagini e dolcemente dilavato. La cupola di madreperla: cupole, torri: oscure macchie de’ pineti. Altrove cinerina, altrove tutta rosa e bianca, veli da cresima: uno zucchero in una haute pâte, in un mattutino di Scialoja. Pareva n’orloggionc spiaccicato a terra, che la catena de l’acquedotto claudio legasse... congiungesse... alle misteriose fonti del sogno. Là c’era il comando dell’Arma: là, là, da più lune, la sua pratica risognata attendeva, attendeva. Come delle pere, delle nespole, anche il maturare d’una pratica s’insignisce di quella capacità di perfettibile macerazione che la capitale dell’ex-regno conferisce alla carta, si commisura ad un tempo non revolutorio, ma interno alla carta e ai relativi bolli, d’incubazione e d’ammollimento romano. S’addobbano, di muta polvere, tutte le filze e gli schedari degli archivi: di ragnateli grevi tutti gli scatoloni del tempo: del tempo incubante. Roma doma. Roma cova. In sul pagliaio de’ decreti sua. Un giorno viene, alfine, che l’ovo della sospirata promulga le erompe alfine dal viscere, dal collettore di scarico del labirinto decretale: e il relativo rescritto, quello che abilita il macilento petente a frullar quel cocco, vita natural durante a frullarlo, vien fulgurato a destino. In più d’un caso, ci arriva insieme l’Olio Santo. Abilita il destinatario entrato in coma, carta canta villan dorme, a esercitar quell’arte, assonnata, quel mestieruccio zoppo che aveva tocche tocche esercitato fin là, fino all’Olio: e che d’allora in poi, de jure decreto, si studierà esercitare un po’ per volta all’inferno con tutto l’agio partecipatogli dall’eternità. 
Il brigadiere filava in discesa verso li Du Santi. Era giornata lasca, il dolco aveva bevuto ai padùli. Ma il vento di corsa e qualche rada stilla, come un pallin di schioppo nella faccia, gli presagivano l’alacrità dell’indagine, e dei fruttiferi interventi nelle utili ore del mattino. Dando di clacson addosso a un oco, il quale indugiava a paperar di culo nella via, stritolò una mezza bestemmia fra i denti: fu allora proprio che gli riemerse e rilampeggiò nella mente, allucinata dal risveglio a ora presta, l’interminabile sogno della notte. 
Avea veduto nel sonno, o sognato... che diavolo era stato capace di sognare?... uno strano essere: un pazzo: un topazzo. Aveva sognato un topazio: che cos’è, infine, un topazio? un vetro sfaccettato, una specie di fanale giallo giallo, che ingrossava, ingrandiva d’attimo in attimo fino ad essere poi subito un girasole, un disco maligno che gli sfuggiva rotolando innanzi e pressoché al di sotto della ruota della macchina, per muta magia. La marchesa lo voleva lei, il topazio, era sbronza, strillava e minacciava, pestava i piedi, la faccia stranita in un pallore diceva delle porcherie in veneziano, o in un dialetto spagnolo, più probabile. Aveva fatto una cazziata al generale Rebaudengo perché i suoi carabinieri non erano buoni a raggiungerlo su nessuna strada o stradazia, il topazio maledetto, il giallazio. Tantoché al passaggio a livello di Casal Bruciato il vetrone girasole... per fil a dest! E’ s’era involato lungo le rotaie cangiando sua figura in topaccio e ridarellava topo-topo-topo-topo: e il Roma-Napoli filava filava a tutta corsa dietro al crepuscolo e pressoché già nella notte e nella tenebra circèa, diademato d‘i lampi e di scintille spettrali sul pantografo, lucanocervo saturato d’elettrico. Fintantoché avvedutosi come non gli bastava a salvezza chella rotolata pazza lungo le parallele fuggenti, il topo-topazio s’era derogato di rotaia, s’era buttato alla campagna nella notte verso le gore senza foce del Campo Morto e la macchia e l’intrico del litorale pometino: le donne del casello strillavano, gridavano ch’era ammattito: lo fermassero, lo ammanettassero: il locomotore lo rincorreva in palude, coi due gialli occhi tutta perscrutava e la giuncaia e la tenebra fino laggiù, dove i nomi si diradano, appiè il monte della contessa Circia, ove luminarie e ghirlande dondolavano sopra le altane a lido, nello spiro seròtino del mare. Nereidi, ivi, appena emerse dal flutto, e subito ignudàtesi della lor veste, d’alghe e di spuma fra l’andirivieni dei camerieri in bianco e de’ sifoni diacci e delle fistule, solevano allegrare la notte fascinosa di Castel Porcano. La contessa, tra languide nenie, dimandava una fiala al sonno, all’oblio: ai ghirigori vani, agli smarrimenti del sogno. Del sogno di non essere. A Castel Porcino, sotto festoni di pere gialle da due watt e palloncini sbronzi e dolcemente obesi nell’alitare e nello smorire d’ogni mèlode, la maga dalla tabacchiera in apertura (perpetua) elicitava al fiuto gli imminenti suini, coloro che di quel filtro, e di quell’olezzo, erano per tornare in porci grifuti, dopo essersi fatti orecchiuti asini a la scuola: del manganello del machiavello. già le alunne si divincolavano, bianchissime eccettoché il trìgono cesputo, da ogni torquente veto dei padri, si storcevano in un muta profferta, che di moresca lenta e ritenuta sarabanda s’esaltava a mano a mano fino al ritmo trocàico d’una estampida, ove il bàttito risoluto del piede regalasse fiere arsi al piancito: mentre la sùbita erezione e lo scotimento e del collo e del capo ridava all’abisso i capelli, significando la indomita alterezza e della cervice e dell’animo, ribadita dal taratatà delle nàcchere. Intervenendo indi nel coro l’aggressione degli ignudi (e non per anco ebefatti) la stampita si esasperava a sicinnide, a danza simulatamente apotropàica: una frotta di spaurite mamillone facevan le viste d’aborrire un branco di satiri, di farsi schermo e ricovero e delle mani e della fuga avverso i rubescenti e fumiganti lor tirsi: di già mezzo imbecillati, per vero, dalle trasmodate officiature: del naso. Piombatogli in quel punto tra le gambe come la nera fòlgore d’ogni solletico e d’ogni nero evenire, il topaccio pazzo aveva impaurato a un tratto le belle. Schegge d’un cuore esploso, erano schizzate via in ogni direzione in ogni canto, dimesso d’un subito, alla sola vista di quella spiritata pantegana, il loro ancheggiato e mamillante sacerdozio. Ed erano gridi ed acuti da non dire mentre saettava qua e là il baffone come cocca di balestra, nera acuminata polpetta. Molte, smemoratesi d’essere ignude, avevano fatto il gesto d’abbassar la gonna ai ginocchi, a proteggere una delicatezza indifesa: ma la gonna se la sognaveno. E la delicatezza artrettanto.  
Così, nel delirio, avevano domandato scampo alla fuga, agli specchi del padùle, all’ombre dei giunchi, alla notte, all’argentata macchia dei lecci, dei pini a lido, alle risciacquature libere del lido, signoreggiato da bulicante maretta: altre, poetesse ed oceanine precipiti da le scogliere lunari del circèo, s’erano buttate a le spume del frangente. Ma la contessa Circia ebriaca arrovesciava il capo all’indietro, ricadendole i capelli zuppi (mentre palloncini gialli ridevano e dondolavano in cinese) nella torpida benignità della notte: zuppi d’uno shampo di white label: la fenditura della bocca, quale in un salvadanaio di coccio, s’inarcava sguaiata fino a potersi appuntare agli orecchi, le spaccava il volto come il cocomero dopo la prima incisione, in due batti batti, in due sottosuole di ciabatta: e dagli occhioni strabuzzati, che gli si vede il bianco di sotto a l’iridi come d’una Teresa riposseduta dal demonio, le gocciolavano giù per il volto lacrime etiliche, stille azzurrine: opalescenti perle d’un contrabbandato Pernod. Invocava la fiasca del ratafià, chiamava le sovvenzioni del Papà, del Papè, del grande Aleppo; dell’invisibile Onnipresente, ch’era, tutt’al contrario dell’Onnivisibile fetente salutato salvatore d’Italia, onnipotente nel praticare il solletico, ogni maniera di solletico: quanto era quello impotente a combinare checchefosse, e men che meno le sue verbose bravazzate. Stillava perle azzurrine, lacrime di àloe, di terebinto e di wodka: arrovesciato il capo, smarriti nella notte i capelli, coi due diti pollice indice con un topazio giallo cadauno aveva sollevato la gonna, sul davanti, palesato a tutti che ciaveva le mutanne. Ce l’aveva, la santa donna, le mutanne: sì si sì ce l’aveva ce l’aveva. Lo spiritato ratto aveva infilato quella via, ch’era la via del dovere, per lui e per l’annasante sua fifa, le rampicava ora le cosce come un’edera, grasso e nel suo terrore fremente, la faceva ridere e ridere a cascatella grulla, smaniare dal solletico: ecco là: ce l’aveva di cartone e di gesso, le mutanne, quella volta. perché una volta in vita le avevano ingessato la trappola. 
Il brigadiere filava, crepitando secco, in direzione delli Du Santi, con il milite abbrancato alla vita, che strizzava le palpebre al venir del vento, infastidito dalla polvere. La delusione lo ridestò di colpo. Il tempo in cui diremmo si distendano i sogni ha viceversa la rapidità diaframmante d’uno scatto di Leika, si misura per fulgurativi tempuscoli, per infinitesimi del quarto ordine sul tempo orbitale della terra, detto comunemente solare, tempo di Cesare e di Gregorio. Ed ecco ora, di là da la flottiglia di nubi che bordeggiava le scogliere dell’oriente, l’opale in rosa, il rosa addensarsi e stratificarsi nel carmino: la lividura ovunque, a bacio, del giorno apparito: poi, alfine, dal crinale, il sopracciglio splendido: un punto di fuoco, d’in vetta al crinale degli Ernici o dei Simbruini l’insostenibile pupilla: lo sguardo sagittato raso del bellone, del fanalone. Le grige latitudini dei Lazio si acclaravano e formavano a plastico, emergendone rivestite di porpora, quasi come diruti miliari del tempo, le schegge delle torri senza nome. 

Quando il bubububù si spense ai Due Santi, in una breve strusciata delle ruote, che i freni rapidamente incepparono poi bloccarono, il milite si ritrovò. sulla terra all’impiedi come cadùtovi: un orsacchio di monte: a stirare, con una mano non meno che con l’altra, da ritta e da manca, il lembo inferiore della giubba grigioverde, che si palesò indumento estremamente corto, sulle rotonde opulenze del di lui tipo antropologico. A destra dell’Appia, chi procedesse nella direzione di Albano, l’usciolo a vetri opachi o colorati d’una botteguccia, il cui limitare di peperino grigio e consunto, da fuori, era a livello dell’asfalto tuttavia bagnato. Rimpetto all’uscio, sulla sinistra del rettifilo che pacatamente ascendeva, tra i due sbocchi di due strade afferenti di cui una li aveva portati là dalla caserma e dal borgo, il muriccio d’un orto, o d’una vigna, o d’un qualche cosa di simile: da cui sopravanzavano alquanto scompigliate, nel gocciolare a dolco il mattino, le vette di alcuni càlami risecchi. Lo interrompeva un tabernacolo alto, a due pioventi, con arricciolature di stucchi pallidi in fronte. Due bicchieri, ed entrovi alcune primule e pervinche, consacravano a divozione e fiorivano e iridavano il sasso, del davanzale di quella specie di finestra: da che il divino, un poco intronato nella capa, si affacciava come da un pulvinare sul trambusto dell’Appia. Incorniciata dagli stipiti e dall’arco a sesto scemo, la vecchia pittura, alquanto sbiadita e calcinosa nel colore, prendeva tuttavia l’attenzione: il Fara filiorum Petri vi gettò lo sguardo, per quanto imbambolato dal sonno e stupefatto dalle novità della gita. Due sicuramente santi, arguì dai dati, cioè vestiti d’una lor vesta che non era i pantaloni-giacca degli uomini: e nimbati la cococcia: di cui uno, senza barba, più piccoletto: e nero e calvo: l’altro duro ed ossuto, con una polta bianca sul mento come una cucchiarata de calcina, e capelli fitti fitti insino a metà la fronte, bianchi, o tali un tempo, nel cerchio giallognolo del nimbo. Quei due ferraioletti, affagottati come a bandoliera su le spalle di sinistra dei due soci, da basso lasciavano scoperti gli stinchi e più giù ancora degli stinchi i ridipinti malleoli: e avevano conceduto al pittor primo, al «creatore», di tirare in scena quattro piedi insospettati. I due destri, enormi, gli erano venuti d’impeto: e lautamente si tentacolavano in diti, protesi avanti nel passo a bucacchiare il primo piano, l’ideal foglio (verticale e trasparente) a cui è ricondotta ogni occasione del vedere. Con particolar vigore enunciativo, in un mirabile adeguamento al magistero dei secoli, erano effigiati gli alluci. In ognuno dei due protesi la correggiuola di non altrimenti percepita calzatura segregava e unicizzava il nocchiuto in quella augusta preminenza che gli è propria, che è dell’alluce, e soltanto dell’alluce, sbrancandolo fuori dalla frotta de’ ditonzoli meno elevati in grado e meno disponibili per il giorno di gloria, ma pur sempre, negli atlanti degli osteologi e nei capolavori della pittura italiana, diti di piede. I due ditoni insuperbiti, valorizzati dal genio, si proiettavano, si scagliavano in avanti: viaggiavano per conto loro: ti davano, così appaiati, dentro un occhio, a momenti: anzi, dentro a tutt’e due: si sublimavano a motivo patetico centrale del fresco, o a-fresco, vedutoché proprio di un bell’affrescone si trattava. Un fulgor di cielo, una luce di ore escruciate li illidiva, la quale però, all’atto pratico, aveva tutta l’aria di vaporare di sotterra, dato che n’erano investiti dal disotto. Il raglio lontano d’un ciucciariello, nel ristar del vento, con tintinnìo di sonàglioli. La storia gloriosa della pittura nostra, di una parte di sua gloria è tributaria agli alluci. La luce, e gli alluci, sono ingredienti primi e ineffabili d’ogni pittura che aspiri a vivere, che voglia dire la sua parola, narrare, suadere, educare: subjugare i nostri sensi, evincere i cuori al Maligno: insistere per ottocento anni sulle raffigurazioni predilette. I santi, poi, così carichi di tanti doni del Signore, neppur loro potrebbero difettare del dono indispensabile dei piedi: e tanto meno que’ due, che camminaron l’Appia insino a Babylon, verso la decollazione o la crucifissione a capo giù. Essi ebbero anzi, nei piedi, lo strumento fisico del loro itinerante apostolato: arrivaron tra i piedi all’Enobarbo. Che poco si persuase, però. No, i santi non possono mancare degli alluci di dotazione: come i fanti delle scatolette di carne di dotazione: e men che meno allora che un pittore italiano del cinque o seicento, o del sette o peggio, si inginocchia davanti a loro e si accinge a ritrarli, dal basso, con l’animo di un pedicure. La luce, in Italia, è madre agli alluci: e se uno è un pittore italiano non ischerza, bah, come non ischerzò il Manieroni alli Du Santi, né con la luce né con gli alluci. Il metatarso di San Giuseppe s’è peduncolato di inimitabile alluce nel tondo michelangiolano della Palatina (Sacra Famiglia): il qual ditone, per una porzione minima invero, ha tegumento pittorico dal ditoncello della Sposa: una luce livida e pressoché surreale, o escatologica forse, propone l’Idea-Pollice, altamente incarnandola vale a dire ossificandola, a’ primi piani del contingente: e la recupera subito a’ metafisici livori dell’eternità. Il metatarso medesimo protubera pollice pedagno rivale del michelangiolano e palatino (a signiferare il miracolo, o meglio l’audicolo, della castità virile) nei Sacri Sponsali dell’Urbinate, oggi a Brera. La divaricazione dell’alluce solitario e iscarnito dal rimanente branco de’ mignoli è resa preclara dalle commessure prospetticamente avvenenti del deterso lastrico, ove non è guscio né buccia né di castagna né d’arancia, né foglia vi s’è adagiata né foglio, né v’ha orinato vuomo, né cane. E il dito mastro, pur disunito da’ ditonzoli, alla radice l’è speronato e nocchiuto: e di poi converge all’indentro quasi obbligato dalla gotta o dalla costrizione abituale d’una calzatura momentaneamente dimessa, o direi domum relapsa come troppo fetida per l’ora delle nozze. E risponde, fatto augusto dalla divaricazione, risponde all’estasi alta ed eretta del sottile stelo o bàculo che nottetempo ebbe fioritura bianca di tre gigli, anziché dei consueto garofano: e raccatta, dalla congiuntura piuttosto rara della fabrìle innocenza con la fabrìle povertà, valore testimoniale di connotato artigianesco: più d’un alluce di più d’un falegname scalzo, a quel modo. 
Per ciò che è dell’iconografia de’ duo santi, e dei santissimi apostoli in genere, oh non vi dedicò il Manieroni le energie inesauste di un barbivelluto quarantennio di propia età? assistito a ponte e a palàncola, oltreché dal suo fervore di credente, ma dalle qualità tragiche del suo genio e da una salute di ferro: da una corporatura di atleta, da un appetito di profeta: e da una qualche manatella di questi qua, di tant’in tanto, mollàtigli, se pure a contraggenio, da chi gli dava incarico di que’ miracoli. Nella edicola delli Du Santi rifiorita e riccioluta di stucchi in un pallore di ricotta, gli venne finalmente fatto di radunare e adibire ad opera i titoli: tutti i titoli di che via via gli s’era andato enfiando il pennello, in vent’anni d’iniziazione e d’alunnato pittorico, ‚ di persistita disciplina, in vent’altri di barbifluente maestrato. Polluti d’empito e di franca mano sulla malta allor. fresca, cioè a fresco, i due alluci, il petrino e il paulino, palesano tutto il vigore e l’urgenza della creazione... inderogabile, della enunciazione... da coartato impulso, come rischizzati là da resurgiva e da polla... «ch’alta vena preme». Il «creatore» non ce la faceva proprio più... ad astenersi dalla creazione. «Fiat lux!» E gli alluci furono. Plàf, plàf. 
Anche del pittor Zeusi, d’altronde, si bùcina che n’abbi fatto un monte, di bella spuma, alla bocca d’i’ ccavallo, schizzandogli non si sa che sponga su i’ mmuso dalla bizza ma lo pigliò un poco basso. E venne bene. Mentre Pestalozzi aveva preso ad aggeggiare sulla macchina, chino e intento, il cortovestito giovane, traversata la via, s’era portato sotto l’edicola come per una prece o per un voto: accennato, col solo pollice, il segno della croce, guardò su a bocca aperta e s’avvide che con una mano reggevano il lembo della vesta, i due camminatori, datoché se no la si sarebbe inzaccherata per via. Era motosa, infatti, verso il braco della pianura, anche la strada o strata che rimaneva loro da percorrere: quella medesima forse, che il Farafiliopetri vedeva ora discendere verso le Frattocchie. Una luce doveva irraggiare dall’alto, un tempo, ma gli anni, i decenni o i secoli, l’avevano eguagliata a lo squalore della scialbatura: vinta dalla luce di sotterra. Il santo calvo, un racchietto coi capelli neri a le tempie, aveva l’aria di saperla lunga: e leggere e scrivere a filadito come un avvocato, e anche più meglio, magari: ma pareva allentare il passo, ora, e neppure a malincuore, per dare la precedenza al collega. Una specie di diritto di primogenitura alonava la cervice di quest’altro, ne accendeva, ne acuiva le pupille: circonfluiva come barba irta la scucchia avidamente protesa alla cernita, quasi di pescatore che scruta nel catète: indurava al computo il naso: titolava d’un principato da parer di pietra il capillizio grigio e tuttavia lanoso, la fronte minimizzata del più duro. Sotto alle figure dei due, nei due cartigli ondeggianti l’un su l’altro in esergo, il tombolotto di Farafiliopetri pervenne a leggere, col dischiudere e richiudere i labbri mutamente, spiccicandoli a pena senza dar parola di fuori: «Crescìte vero in gratia et in co... co... cococcione Dò-mi-ni Preti Sec Ep.» [Crèscite vero in gratia et in cognitione Domini. Petri Secunda Epistula: (III-18)] Il brigadiere, intanto, s’era incaponito contro ogni predisposto gioco a voler medicare subito la macchina, chino sul di lei oleoso viscerame. Durava a titillarle caparbio non si vedeva bene che caporello ardente o che pippolo, ritraendone i diti subito, ogni volta, con un «cribbio!» con un «porco giuda!» a mezza voce, e schioccandoli ogni volta in aria, come a sgrullarli dal brucio. «Saépe,» così lesse il Farafilio, «proposji venire ad vos et prohi-bìtus» (così mentalmente) «sum usque ad kuc Paul ad Rom.» [Saepe propòsui venire ad vos et prohibitus sum, usque adhuc. Pauli ad Romanos: (I-13)] Con che fu certo essersi meritato al tutto il diploma: di licenza elementare. Lo aveva ricevuto l’anno prima, come un battista il battesimo dopo i vent’anni, e subito accodato ai preesibiti e precertificati suoi titoli: capelli, castani: occhi, grigi: naso, diritto: statura, metri uno e sessantaquattro: torace, novantuno: circonferenza del bombolone... non occorre. Ed ora alfine, dopo il diuturno sovvento dell’astata dea delle aste, perfuso alfine del raggio di Pallade Sillabante, ora, ecco, il «titolo di studio»: licenza, sì sì, signor sì, elementare.  

La Zamira, poiché proprio lei era, così scarmigliata e discinta, una scopa a mano, cui precorreva adeguato gruzzolo di casalinghe lane e festuche e indefinibile pattume, accolse i due tipi con la salivosa lubricità del sorriso di mestiere e la falsità contadina dello sguardo. La resultante smorfia, illividita di finestra dal biancore incerto del tempo e di poi accesa da un repentino dardo del sole, intese gabellare per dimolto grata la sgraditissima visita. 
«Avanti, avanti.» Se l’aspettava, quella visita? O ne intuì la ragione, quando non il fine, là per là? Il duro brigadiere volle introdurre la motocicletta, troppo nota a ciascuno per lasciarla fuori sulla strada. Quando l’ebbe indotta a scendere con tutt’e due le ruote come un cavallo poco persuaso il gradino, la piazzò a fatica presso la magliatrice. Guardò alla bellona, alla maga. Non s’era ancora pettinata. La zazzera, un arruffio: un intrico bigio di marruche e di rovi. Sotto le bozze della fronte e la grondaia dei due archi orbitali lo sfavillare puntuto delle iridi, nere, o quasi: paura vera o sospetto, reticenza, derisione, insidia. Fiancheggiato dai quattro canini superstiti il fornice, osceno: le labbra, agli angoli, fecero bava di schifose bollicine, tra l’irraggiare di mille rughe, non anco spianate o dissipate dalla crema. Pareva, quel fornice, la porticina mala donde avesse a nereggiar di fuori, come serpe, la capa, dapprima, e poi tutto il collo d’uno impreveduto stratagemma, un cavillo di contadina ruffiana. I due salami percepirono sgomenti la malia che ne vaporava a loro con l’alito, quale d’un geco o d’un draco di cui non si sappia l’espedienza in duello. Il Pestalozzi dovette, e volle, far forza a se stesso: con una mano sembrò detergere gli occhi, cioè le palpebre, sotto la visiera, e snebbiar l’anima e le facoltà sensorie comandate a l’indagine. «Maledetta zoccola!» argomentò mentalmente. Con quella giaculatoria si sentì rifatto brigadiere: «Le nominate Farcioni Clelia, di Achille, da Pozzofondo, e Mattonari Camilla, di Romolo, abitante alla Pavona, lavorano qui. Dove sono?» Il Farafiliorum, intanto, si andava grattocchiando il bombolone con soave agiatezza: o a spiccicarne, forse, le troppo inguainanti mutande. Con le due mani, e con due gesti paralleli e simmetrici, procurò di stirar la giubba lungo i fianchi. Gli pareva na camiciola troppo corta: si vergognava: quella insufficienza gli amareggiava la giornata. 
«Accomodatevi, signor brigadiere. Mo verranno. Chi è che le vole?» controdimandò la Zamira, insinuante, insolente. Il manico di quella sudicia d’una scopazza, tutta làppole, lo stringeva ora a due mani come vi si appoggiasse in riposo, e in ascolto. Il Pestalozzi, oramai padrone della propria anima, fulminò una guardata alla turpe: «Zoccolaccia,» significò muto a labbra chiuse, diritte, «lo vedi bene chi è.» Lei parve si disciogliesse in premure, accantonato il sudicio alla meno peggio a fianco la credenza, e allogata ivi la scopa, quasi a protezione del raccolto. «Vo a chiamalle, si me guardate la bottega: de voi me fido!» sorrise volgendosi: dopo aver raccattato uno scialle dal ciarpame: e accennava ad uscire, scodinzolando, per la loro gioia di astinenti bramosi. Torchiò bizza dai denti, il Pestalozzi: la ritenne subito p’un braccio. Na strizzatina! che quella s’arivortò di botto, come una biscia pestata sulla coda. 
«Se stanno per arrivare, le aspettiamo qui: non movetevi: sedete»: e la rimorchiò ad una seggiola, ve la calcò: «ecco là. Ma se non arrivano... vi portiamo via voi, questa volta.» La brava tintora impallidì: la durezza era piuttosto dura, in lui, disceso dai monti, non ostante la scuola allievi. Santa Maria Novella non l’aveva miracolato, oh no, di eccessive finezze. Le ghiandole riguardose erano aggeggi del futuro, allora, per. un allievo: speranze, nel cuore dei malviventi, di un migliore domani: il migliore domani, di allora. La durezza, in quel tempo, era il dovere a comportarla: i «corsi di rapporti umani» non erano ancora istituiti. I galloni di maresciallo, che una lunga promessa gli sventolava sotto il naso come il lacero suo pasto alla gatta, dimandavano sagacia, fermezza: durezza, a un bisogno. Poi, una volta maresciallo, avrebbe potuto giuocare al buon uomo, al finto burbero... pieno di comprensione. Durezza, dunque: in quel momento la rendeva più pesante il dispetto. Quei fiati, quegli occhi sbeffeggiativi della maga, quei lascivi sottintesi, bisognava disperderne il malefizio: rompere le spire dell’ipnosi. «Te tirati pure indietro dalla finestra,» comandò al Cocullo, «nasconditi là.» La moto era ora a tetto, al riparo dai curiosi, dalla pioggia. Ma crepitare lungo la provinciale dopo la scesa del Torraccio l’avevano udita un po’ tutti, e qualcuno anche, pensava, di finestrin di cesso veduta: nell’ora di levata, quando sbadigliano in brache aggirandosi pe’ casa con treno di fettucce ai malleoli verso l’acquaio, una grattatina in testa nel rigoglio prunoso de’ nerissimi, un nono slogamascelle sbadiglio, con le più solerti nocche e falangi una stropicciata a le palpebre: donde il sonno, così dolce a mattino, si dissipa e vapora via dagio adagio, e quasi di contraggenio. La coscienza allora si identifica con sé medesima, riveste la sua propria pelle, la sua fottuta zimarra. Ripiglia a noverare i suoi fagioli, i baggianeschi eventi delle ore di luce. Una moto sulla provinciale. Il brigadiere sembrò riflettere. «Hanno sempre lavorato in questi giorni? o hanno marcato visita?» 
«Lavorato...» esitò la furbona, «ricamato visita? rimamacato?» balbettò a prender tempo. No, del linguaggio di pretura non poteva, in coscienza, e però non osava simularsi edotta. Lei era donna sincera, tutta cuore: parole poche: piuttosto, opere e fatti... in soccorso dell’anime, de’ cuori bisognosi: che a lei ricorressero... p’un conziglio disinteressato. E i cuori, si sa, di natura loro... tendono ad affratellarsi. A due a due. né il brigadiere, da lei, poteva pretendere anche lo stile giuridico. Non aveva ragione e tanto meno facoltà di pretenderlo, con tutte le sottigliezze e i rigiri e i cavilli di cui s’intorba, sulla lingua avvocata. Oh! gli avvocati! com’erano simpatici! E che buoni clienti! Risognò un attimo. Ma guai a esser lei la cliente loro, cogitò. 
«Ricambiato visita, chi...?» 
«Non fate la tonta: non fate finta di non capire, che mi avete capito benissimo. Le due che ho detto. Chi! La Farcioni e la Mattonati: Mattonari, cioè. Mi sa che martedì passato, giorno quindici, mi sa... che dovrebbero aver marcato visita. Hanno detto ch’erano ammalate.» Inventò il «detto» di sana pianta. Non le aveva né incontrate né cercate: buttò là il martedì per il sabato, a provocare il diniego, e la correzione conseguente. La Zamira parve faticare di memoria. 
«Be’: allora dite: subito, bisogna rispondere, cara la mia madama: no pensarci 
un secolo. A pensarci tanto l’è di sicuro una bugia. Hanno lavorato sempre? Questo vi chiedo. O qualche mattina sono rimaste a casa? Voglio sentirlo da voi, dalla vostra lingua. Noi lo sappiamo già, non dubitate: i carabinieri sanno tutto!» 
«Ecché sapete? perché me lo domandate, allora, si è che lo sapete?» 
«Ve l’ho detto. perché voglio sentire da voi, da voi proprio, cosa ne pensate voi, e cosa dite. Sì, voi, madama Pàcori, voi, Zamira, che ciavete il diploma d’indovina»: e lo cercò a parete con lo sguardo: appeso come un diploma d’ingegnere nello studio d’un geometra. Ma doveva esser giù, con la testa di morto, ne la sala di consulto, vicino a la credenza col lucchetto indove ce stava pure il pecorino. 
Lei ritentò il sorriso, il più lascivo de’ suoi: richiamò le bave, aspirando dagli angoli non ostante il fornice al mezzo. Rasciugò i labbri, portatovi in una falciata ratta il linguino, che poi depose per un attimo sul limitare della impudicizia: della puttanicizia, direbbe il Belli. Era, per solito, un linguacciotto viscido e rosso cupo, quasi gli usasse dare di matita puro a lui: e in quel momento si accovacciò tra i canini bono bono, in una postura di attesa e magari di rilancio, la palizzata degli incisivi essendole marcita via fin dai tempi della marcia. 
«Be’, sor maresciallo mio, che je devo dì? Me lo facci sapé lei...» E dondolava il capo in qua e in là, pareva un baco, leggiadretta; e badava intanto a dimenarsi, col grosso delle sue profferte mal rimpacchettate a ora prima, sul cigolio della seggiola: su cui si sentiva inchiodata. «Me lo facci sapé lei, perché m’immagino che ce lo sa puro lei, hi, hi, hi, che noi donne, hi, hi, hi, dal momento che semo donne, hi, hi, hi, ci avemo pure li fastidi nostri... de quanno in quanno, che ce l’ha dati er Signore, hi, hi, hi, pe’ misuracce la pacienza, poverette noi! Nun è corpa nostra si nun semo come voi, hi, hi, hi, che sete sempre in piedi!» Questa volta, schifito, fu lui, il brigadiere, a fare il tonto. 
«Che fastidi! Lasciate stare li fastidi!» E lei, sussiegosa: 
«Be’, sor maresciallo, ce penzi un po’, cor su bon core! Nun vorrà dì che nun è vero. Povere le pupe mia, poverette!» Indi, implorante: «Che, nun cià moje, lei?» la sguaiata! «Un par de sorelle? manco quelle?... che ce l’hanno tutti, oggi, se po dì. Chi è, ar giorno d’oggi, co tutti sti maschioni che va in giro, che nun cià du sorelle da marità? Ce l’aveva perfino quer gran poeta patriottico, che cià fatto tanto piagne, de Natale, in Libia, ad Ain Zara, col sesto berzaglieri... che se chiamava, perché adesso è morto, poveretto! come se chiamava? Giovanni... sapete, quei posti dove ce cresce l’erba», e con la mano cavava il nome dalla fronte, «Giovanni, Giovanni Prati! ma no Giovanni Prati, aspetta,» e seguitava con la mano, «possibile che nun me l’aricordo? So li dispiaceri che m’è toccato da passà... che m’hanno fatto perde la memoria. Giovanni Pascoli! Ecco, ora me lo so aricordato: ce lo sapevo che ereno posti da facce er fieno.» 
«Piantatela con l’erba e col fieno, e coi prati e coi pascoli. Lasciate in pace i morti: e rispondetemi a me, piuttosto.» 
«Sor maresciallo mio, lassateme parlà, si no come v’arispondo? Ve dicevo: chi è, oggi, che nun cià una sorella? E si ce l’ha, vojo vede. Je capiterà pure quer giorno, a su’ sorella, povera cocca, je capiterà, no, d’avecce un po’ de mal de testa. Er mal de testa noi donne, ce l’abbiamo qua: hi, hi, hi.» E si toccò il buzzino, quasi carezzandolo. Gli occhiolini le sfavillavano ebbri, satanici. Il nero boccaforno, tra gl’incisivi. La lingua rattratta, ora, come d’un pappagallo che gli gorgoglia in gola il dispetto. I capelli pareva citarli ad alto l’elettrico, e fossero per infiammare e crepitare come vepri, se una favilla, a piagge arse, li accende. 
«Sì, capisco, vi capita pure il mal di testa, a voi altre a furia di far maglie. Ma non rompete l’anima col mal di testa, adesso. Poche storie: basta con le chiacchiere. Mi dovete dire quand’è che son rimaste a casa, le due ragazze: la Mattonari e la Farcioni. Io per me lo so già: ma voglio controllarvi a voi, se dite la verità: o se dite le bugie. Se mentite, se tirate a far deviare le ricerche, ecco qua: ci son le manette, per loro e per voi.» E cavò di saccoccia, e glie lo dondolò davanti al naso, un esemplare delle famigerate ferramenta. Seduta, la strega non batté ciglio: quele armille, comunque, non riguardavano lei. «Dunque?» 
«Mah! vulemo dì... sarà stato er mese scorso, prima de questo. Mo che ce penzo, semo appena a luna nova.» Caparbia, insisteva nel motivo: «Che posso avé a mente... le lune de tutte le ragazze? Me pare na pretesa!...» 
«Na pretesa? le lune? Ehi, la Zamira Pàcori! Vi dà di volta il cervello? Con chi credete di parlare?» 
«Ma er mese scorso...» 
«Che mese scorso d’Egitto! Badate a quel che dite. Mese scorso una madonna. Vi domando: se hanno marcato visita, martedì quindici, oppure venerdì: una delle due.» (Il sabato non osò giocarlo.) «Questo, vi domando. E questo solo mi dovete rispondere: perché lo sapete benissimo.» 
In quel punto, come evocata di tenebra, dall’usciolo socchiuso della scaluccia approdante in bottega (di cui li regazzini fantasticavano, altri favoleggiavano e più d’uno pe via de la lettura de la mano avea pratica), si affacciò, e poi zampettò sul mattonato freddo qua e là con certi suoi chè chè chè chè tra due cumuli di maglie, una torva e a metà spennata gallina, priva di un occhio, e legato alla zampa destra uno spago, tutto nodi e giunte, che non la smetteva più di venir fuora, di venir su: tale, dall’oceano, la sàgola interminata dello scandaglio ove il verricello di poppa la richiami a bordo e tuttavia gala d’una barba la infronzoli, di tratto in tratto: una mucida, una verde alga d’abisso. Dopo aver esperito in qua in là più d’una levata di zampa, con l’aria, ogni volta, di saper bene ove intendeva andare, ma d’esserne impedita dai divieti contrastanti del fato, la zampettante guercia mutò poi parere del tutto. Spiccicò l’ali dal corpo (e parve estrinsecarne le costole per una più lauta inspirazione d’aria), mentre una bizza mal rattenuta le gorgogliava già ner gargarozzo: una catarrosa comminatoria. A strozza invelenita principiò a gorgheggiare in falsetto: starnazzò spiritata in colmo alla montagna di que’ cenci, donde irrorò le cose e le parvenze universe del supremo coccodè, quasi avesse fatto l’ovo lassù. Ma ne svolacchiò giù senza por tempo in mezzo, atterrando sui mattoni con nuovi acuti parossistici, un volo a vela de’ più riusciti, un record: sempre tirandosi dietro lo spago. Parallelamente allo spago e alla infilata dei nodi e dei groppi, un filo di lana grigio le si era appreso a una gamba: e il filo pareva questa volta smagliarsi da reobarbara ciarpa, di sotto al ridipinto ciarpame. Una volta a terra, e dopo un ulteriore co co co co non si capì bene se di corruccio immedicabile o di raggiunta pace, d’amistà, la si piazzò a gambe ferme davanti le scarpe dell’allibito brigadiere, volgendogli il poco bersaglieresco pennacchietto della co da: levò il radicale del medesimo, scoperchiò il boccon del prete in bellezza: diaframmò al minimo, a tutta apertura invero, la rosa rosata dello sfintere, e plof! la fece subito la cacca: in dispregio no, è probabile anzi in onore, data l’etichetta gallinacea, del bravo sottufficiale, e con la più gran disinvoltura del mondo: un cioccolatinone verde intorcolato alla Borromini come i grumi di solfo colloide della acque àlbule: e in vetta in vetta uno scaracchietto di calce, allo stato colloidale pure isso, una crema chiara chiara, di latte pastorizzato pallido, come già allora usava. 
Di tutta quell’aerodinamica, naturalmente, e del conseguente sgancio del gianduiotto, o boero che fosse, la Zamira ne profittò pe non risponne: intanto che dei piumicini a ricciolo, nevosi e teneri come d’un papero infante, persistevano ad alto a mezz’aria mollemente ondulando, da parere anelli in dissolvenza, del fumo d’una sigheretta. Nel prodigio nuovo l’imperativo del Pestalozzi vanì. Lei la si levò ratta di seggiola con tutto il podere cilestrino, la sì diè a ciabattare e a sventolar la gonna dietro alla torva, zinale non aveva, e a garrirla: «Via! via! zozzona, spurcacciona! Una partaccia così, zozza che nun se’ altro! al signor maresciallo!» 
Tantoché la zozza in parola, tuttavia gargarizzandosi di mille cocococò, e scaracchiandoli infine tutti in una volta al soffitto in un chechechechè riassuntivo, per quanto doppiamente ancorata e dallo spago e dal filo, la si levò a volo fino sul ripiano della credenza: dove, incazzatissima, e rivestita sua dignità, la depositò, nel vassoio di peltro, un altro bel caccheronzolo, ma più piccinino del primo: pif! Con che sembrò aver evacuato il disponibile. La paura (dei carabinieri) fa novanta. 
Ed ecco, sull’uscio a vetri, la maniglia di ottone principiò a dar segno d’irrequietezza anche lei. L’uscio si dischiuse. Una giovane, dal marzo di fuori, irruppe nella grande stanza come folata di vento. Uno scialle scuro al collo: a mano l’ombrello, già richiuso in precedenza. Un’onda di bei capelli castani dalla fronte all’indietro, quasi in cascata sullo scialle: il marzo vi aveva incorso, ghiribizzando lunatico. Alla veduta dei grigioverdi, disceso appena il gradino, sostò a labbra spiccicate interdetta. I due militari e la Zamira ebbero tutti e tre il senso di una repentina commozione che le fosse ascesa dall’utero per i linfatici e le vie vagali fin dentro il pieno delle poppe: in un ansimo lieve, ma di certo in un vivo batticuore. Le si scolorò la faccia, o parve: ch’era, in quel punto, d’un bianco un po’ isterico di desiderabile ragazza. Rimase a labbra aperte, poi disse: «Bongiorno a lei, brigadiere»: e saettò di babordo quell’altro che aveva già percepito all’entrare, e al discendere il gradino, ma che vedeva per la prima volta, incantonato nel suo cantone quasi in una penombra modesta: di che si prevaleva, a ogni modo, il fulgore gallonato cioè la preminenza gerarchica del Pestalozzi. Dopo la sbirciatina all’agnolotto, fece le viste di cercare qua e là dove depor l’ombrello: ma non isfuggì allo sguardo di lince (così lo chiamava lui stesso) del brigadiere sunnominato... no, non gli sfuggi un moto della di lei mano sinistra (che reggeva con l’anulare e col mignolo quello spaventacchio dell’ombrello), a carico o a beneficio di quell’altra mano: una specie de grattatina o de massaggio inferto o praticato col pollice, dal di sotto, ed esternamente con l’indice e il medio, ai diti lunghi e centrali della destra: come a scaldarseli in previsione del lavoro. Nell’apparente noncuranza del gesto c’era un che d’insistito, di premeditato: era il gesto, non casuale, di chi voglia sfilare un anello come che sforzi, e si proponga, nello stesso tempo, di occultare ai presenti la non agevole operazione. Il brigadiere guardò fiso alla ragazza, l’avvicinò con due passi, pàn, pàn, le prese gentilmente ma fermamente la destra per le punte delle dita: un invito al ballo che non ammetteva il rifiuto. Ebbe l’aria di palparli e di stringerli uno a uno, quei diti, uno dopo l’altro, come a sentire se c’era un porro, o un callo, nel mentre la rimirava lei dentro agli occhi, fiso e perplesso, col fare di un mago sul palcoscenico in una esibizione d’ipnotismo. Finalmente glie l’arivoltò, quela mano, e stava a riguardarla dal palmo, a leggervi la sorte, si sarebbe detto. Una magnifica pietra gialla, un topazio?, risfolgorava come fanale di treno, tutta sfaccettature sulla parte interna del dito, l’anulare, dopo il mezzo giro subreptizio. Dava fuori, di sé, l’allegrezza spocchiosa e un po’ sciocca, a momenti, del vetro colorato, sotto il subito rivenire e lo smorire alterno, di tra nuvole marzoline, del sole, preso lui pure da un languore d’utero: ché a primo mese, annasato appena odor di barbabucco pel cielo, gli prendono i fumi e le palpitazioni a lui pure: da quel bellone che è. 
«Tu... chi sei?» le domandò il Pestalozzi raggiante, che riconobbe nel proprio desiderio la stimolante identità del volto, degli occhi, della gentil persona di lei, non il nome, tuttavia, nel casellario del cervello. «Sei la Clelia, la Farcioni? la Mattonari, la Camilla?» 
«Sor brigadiè, che volete dì? Mattonari, sì, sono: ma non sono Camilla. Io me chiamo,» esitò, «Mattonari Lavinia.» 
«E la Camilla allora dov’è? chi è? tua sorella?» 
«Sorella?» storse i labbri schifita, «io nun ciò sorelle,» a disdegnare l’ipotesi della parentela. 
«Ma la conosci, lavora qui: hai detto il nome suo: la Camilla: sicché siete amiche.» E intanto la teneva per mano. Lei aveva deposto, finalmente, l’ombrello: aggrottò i sopraccigli: «Che avrei detto? Camilla? ho ripetuto er nome che m’avete detto voi, brigadiè.» Pestalozzi aveva creduto di captare un «la», dell’uso toscano e lombardo, che non era stato emesso per nulla. 
«Amiche? io nun ciò amiche.» La violenza del diniego, una seconda volta: quanto il brigadiere si aspettava: «Be’, se non ciai amiche tanto meglio: puoi parlar chiaro, allora: poche storie che non ho tempo da perdere. La Camilla chi è?»: seguitava a tenerla per la mano, per le punte delle dita. 
«E’... sì, è una che va a lavorà puro lei, da apprendista magliaia...» 
«Lavora qui?...» 
«Mbè, sì,» ammise a capo chino. 
«E’ la cugina: una cugina alla lontana...» disse pacata la Zamira, nel tono con cui l’almanacco di Gotha assevera, e gli credon tutti, che Carlotta Elisabetta di Coburgo è cugina in quarto grado di Amalia di Meclemburgo. 
«E dov’è? Perché non è qui? Non viene a lavorare, oggi?» 
«Che ne so!» La ragazza fece spallucce. «Verrà.» 
«Lei lo potrà capire anche lei, sor marescià,» rincarò sussiegosa la Zamira. «Siamo in campagna. Lavoriamo quanno che c’è robba... o da fa’ o da giustà: quanno che c’è bisogno, vojo dì. più o meno, un giorno sì, un giorno no. Ma d’inverno, co sti tempi,» e profittò d’uno sbiadir del sole, traverso i vetri, e accennò de fora co la testa, «con queste procelle, che dall’oggi ar domani nun se sa manco... si è che siamo a primavera o siamo ancora a gennaio, co questi tempi, magara, un giorno sì e quattro no. Lei lo saprà mejo de me, sor marescià, si è che ha studiato la lunatica de tutte le temperature der clima, come l’ho studiata io, pe pijà le carte de diplomata chiromante,» e recitò sentenziosa: 

«Candelora candelora 
De l’inverno semo fora. 
Ma se piove o tira vento 
Ne l’inverno semo drento: 

che tre settimane fa, si se l’aricorda, giusto come oggi, ha fatto un tempo der diavolo; che m’è discesa l’acqua in bottega, e quela zozzona,» la cercò con lo sguardo dietro la macchina, «aveva perfino smesso de fa l’ovo. Oggi magara nun c’è gnente, e domani ce n’è un mucchio.» 
«Mi par che dei mucchi di belle balle ce ne avete per un mese,» e fe’ cenno col mento alla montagnola delle robe, sdoppiata quasi in due gobbe di cui risultava come una schiena di cammello. Sempre tenendo per mano la giovane, abbandonò a’ suoi dubbi la zampettante gallina, e il doppio traino del filo e dello spago e, relativi nodi. 
«E... dite un po’: questo qua chi ve lo ha dato?» Levò la mano della palpitante Lavinia, stringendola ora al polso, e rimirando dalla parte interna della mano stessa il topazio, ch’ella aveva rigirato sul dito. 
«Chi me l’ha dato?» e si studiava d’arrossire come d’un delicato segreto. 
«Signorina, sbrigatevi: levatevi l’anello: perché lo devo sequestrare. E ditemi chi ve lo ha dato. Se lo dite, bene: se non lo dite...» e si cavò di tasca il solito gingillo: e glielo presentò. 
Lavinia sbiancò in volto: «Sor brigadiè...» 
«Sor brigadiè lascialo fare. Toglietevi subito l’anello e datelo a me, spicciatevi, perché se non lo sapete ve lo dico io: è roba rubata. È nell’elenco degli ori e dei braccialetti rubati alla contessa, a via Merulana: alla contessa Menegazzi: è qui nella nota delle gioie.» E per motivare la richiesta che non ostante tutto gli sapeva un po’ di prepotenza, ripose la catenella: e tirò fuori, da n’antra tasca, il papiro d’Ingravallo. La pavidità procedurale di quella che nel Barbiere è denominata in fa diesis «la forza» non s’era per anco inabissata, 1927, nelle odierne fosse oceaniche: ma conosceva già allora certe figurazioni del gusto di oggi. Anche i più duri, soli per la campagna in mezzo al popolo, vi deferivano, come vi deferiscono oggi. Estratto dunque l’elenco, squadernati i due fogli quasi alla lettura d’un mandato, Pestalozzi fece pur le viste di cercarvi... la legittima causale del procedere. «Mm...» trascorse lungo i primi righi mugolando, intoppò subito in quello che cercava: «anello d’oro con topazio!»: e fu voce di vittoria. Sventolò il foglio intestato, il primo, glie lo mise sotto gli occhi a lei, alla ragazza. Lei, Lavinia, manco lo sapea leggere. 
«Questura di Roma!» le ricantò sulla faccia, in un tono d’importanza, e di distacco ironico nei confronti dell’organizzazione concorrente, la quale, per saper battere a macchina un par de fogli, si dava tante arie: «Questura di Roma!» Prese l’anello che la ragazza gli porgeva sbiancata in volto dal dispetto, livida, con l’aria di subire, indifesa, lei una povera fija de campagna, quel sopruso. La Zamira, zitta, stava a vede: e a sentì. «Hé, hé: è proprio questo!» arrischiò il Pestalozzi scrutando l’anello con occhio d’intendente, rivoltandolo ed esaminandolo, come avrebbe fatto un ricettatore di via del Gobbo propenso all’incamerazione immediata: stringeva intanto i due fogli nell’altra mano, tra il mignolo e il palmo: «è il topazio che cerco da due giorni: è proprio lui!»: quasi che la sagacia professionale, operando nella sua scatola cranica ab aeterno, gli avesse conceduto di riconoscerlo all’istante. In realtà lo vedeva allora per la prima volta, e lo cercava da due ore se era poi proprio un topazio, il topazzio, e non un culo di bicchiere, magari: «Chi è che ve l’ha dato? dite la verità, ve l’ha dato lui, il Retalli. Te, i soldi per comperarlo te, non ce li hai: un affare simile! Te l’ha regalato l’Enea Retalli: che lo ha già confessato ieri sera al maresciallo.» (Il Retalli era uccel di bosco.) «Ci fai l’amore, lo si sa: e lui t’ha regalato il topazio»; ch’era una battuta un po’ ingenua. «Io nun faccio l’amore con nessuno: e l’Enea Retalli starà fuori a lavorà: in dove nun so: e nun è vero pe gnente che l’avete acchiappato jeri sera, né che ha confessato un ber gnente.» 
«Peggio per te allora. Andiamo. Vieni,» e fe’ cenno al Farafiliopetri: e la strinse lei per un braccio. 
«Sor brigadiè, me deve da crede,» protestò la ragazza liberandosi, «me l’ha riggalato n’amica mia che è in parola de comprallo da na donna: me l’ha prestato per du giorni, perché oggi... oggi è la mia festa che ce faccio gli anni. Me l’ha dato per du giorni solo.» 
«Ah! e quanti anni fai?» 
«Mbè, so dicinnove.» 
«Ne sei sicura?» 
«Ho fatto i dicinnove anni: stanotte propio.» 
«Sei nata di notte, sicché. E l’anello chi te l’ha prestato, per il tuo giorno? Sentiamo.» 
«Sor brigadiè, che potevo sape’ io... si era de la contessa ch’hanno ammazzato a Roma, o di chi era. L’ambulanti che vanno pe le strade cor cavallo, da un paese all’artro, che? sanno forse di de chi è, o chi l’ha fatta, la robba che vendeno?» 
«Basta con le panzane!» e le strizzò il braccio, che aveva ripreso e ritenuto. 
«Ahi!» fece lei: «me pare che questi modi so de prepotenza.» 
«Chi te l’ha dato? Vieni. Lo dirai al maresciallo. Quello ti farà cantare con le buone.» La tirò verso l’uscio. Il Fara accennò a muoversi, in ottemperanza, si sradicò di dov’era: lasciò il suo cantone. La gallina s’era accoccolata chissà dove. 
«A me, sor brigadiè, me l’ha dato una regazza che lavora qui. Da un pezzetto se parlava de coralli da mette ar collo, de scioccaje pe l’orecchie. Je dicevo sempre che p’er mio giorno nun ciavevo gnente da metteme.» «E dillo chi è, si lo sai,» le suggerì la Zamira, impallidita. 
«E’ la Camilla», rispose lei alla Zamira. 
«Ah! La Camilla Mattonari, dunque? Tante storie per il nome della Mattonari Camilla! della tua cugina che fa all’amore con un ladro, o assassino, forse. Andiamo: conducimi da lei.» 
«E la motocicletta?» balbettò la Zamira, a cui l’idea solo di quella macchina in laboratorio senza il padrone dava un fastidio da non dire. S’era levata dalla seggiola. Si storceva le mani sul buzzino, un palloncello che la faceva parer pregna di tre mesi, parecchio imbrodolato sotto il cintolo, ove si percepivano certe gore di risciacquatura, o di caffè: zinale non aveva. Rìserrati i labbri, dimentica oramai d’ogni invito e d’ogni ammicco, con lo sguardo presago e deducente di colei che indovina al solo atto i moventi e le intenzioni dell’attore, con occhi lucidi e intenti, seguì di gesto in gesto i due tipi nei loro passi alquanto imbarazzati fra la credenza e la moto, la macchina e la tavola e il banco di mescita e le seggiole, fra il cumulo delle maglie e la porta: la porta di strada. La luce de’ suoi occhi mutò, si fe’ cattiva, maleaugurante e pressoché sinistra, a momenti. Parve oscillare come all’oscillare d’una carica, d’una tensione dell’animo, quasi intendesse rompere la consecuzione degli atti e dei fatti inaccettabili, la validità procedurale di quel carabinieresco miracolo. Che le si configurò, a un dato punto, nella vera sua luce: nel suo senso certo, obbligativo del conoscere: una diavoleria grigia e scarlatta del demonio principe: quello dai galloni marescialli: quello, in ogni modo, che s’era potuto riscontrare più volte essere giurato nemico a li Du Santi: che s’incavernava nella rocca, a notte, a Marino, ululando lo stramontano, a meditare davanti al cerchio azzurrino del lucignolo i malefizi per il giorno, ubiquo poi nelle grandi ore del sole come la veduta del falco, che scruta e discerne pe tutte terre, sull’aia e nel prato, a monte o a campagna. Un malefizio rosso e nero, argentato, gallonato, gremito come la notte di settembre di mille persistenze sofistiche, le quali di giorno in giorno sempre più si stringono, intorno alla persona di chi magari anche onestamente lavora, di chi cerca sfangarsela in quarche modo, col primo espediente scogitato là pe llà, da tante tribolazioni del vivere. Un ufficio, per quanto vano e malefico, atto a giustificare, dopo che a determinare, la corpulenza la rubiconda sanità la pensione: un intervento arbitrario e però illecito nelle private operazioni di magia, o di semplice lettura della mano, tale da sciuparne, l’esito al tutto: contrastabile quindi a buon diritto per occhiate augurali del tipo appunto delle sue, zamirine, oltre che per chiamata a sovvento del gran re dalle corna ritte Astarotte: quello proprio che aveva a voce lei, Zamira. Sicché s’industriava ora a fare, coi diti, sull’otricolo della pancetta come lo speziale sul suo marmo, certe mosse, certi prilli, certi lazzi non preventivati dal comune raziocinio, come se sbaccellasse degli invisibili piselli o appallottolasse o schizzasse qualche invisibile pillola in direzione dell’ignaro Pestalozzi, che le rivolgeva le spalle, incerto ancora sul da farsi. I labbri le principiarono, poco a poco, a ribollire, a fremere, e le gote a vibrare, a bubbolare motu proprio in un cupo dispregio, che andava acuminandosi nella perorazione fideistica di certi preti-stregoni del Tanganika o africani cafri o niam-niam camusi e cresputi, tutti ricciolini, in testa, impolverati di carbone, un anello d’oro appeso al naso, il didietro a terrazzino, quando implorano o imprecano dai o ai loro deibestie in lor lingua monosillabico-agglutinante e in omologa e alquanto nasicchiata cantilena: «gnèm gnèm cèp cèp i-tì i-tì, sparategli un canchero nella gobba e levatecelo un po’ dagli zebedèi questo missionario del cacchio». Missionario mennonita, s’intende. E frattanto gli porgono bere i loro sputi frullati al cocco in una scodella di cocco, in segno d’onore subtropicale, e tanganikoreverenziale. 
«Voi, signora, statevene ferma co quelli diti!» le intimò sdegnato il Filiorum. S’era fatto rosso nei pomelli, un rosso salsa, sbiancato a color caciotta nella porzione inferiore delle guance. La chiarità obiettiva del raziocinio, in lui, ebbe il sopravvento sulle disragioni della tenebra: come se il diploma elementare glie lo avesse controfirmato di proprio pugno il Filangieri, don Gaetano Filangieri dei principi di Arianello, ministro del Regno. Non voleva ammettere, non poteva tollerare che la «superstizione» dei secoli vaniti la si riscotesse di bel nuovo a magia, ad arte valida a promuover cancheri sulla gobba del prossimo, carabiniere ora ch’egli era, da quel digitare della strega. Un utero c’è sempre, in noi, un ragionevole utero, che si sconturba d’un ammicco, d’un accenno, d’uno spolpettare di polpastrelli di che, a dispetto d’ogni nuovo lume del Regno e d’ogni diploma in carta grande, si attoscano le più illuminate certezze. 
«Andiamo,» ripeté il brigadiere Pestalozzi risolvendosi. «La macchina la lascio qui,» e si voltò, «stateci attenta: metteteci una seggiola davanti, non fatela toccare da nessuno.» 
La sora Pàcori gli sorrise d’un sorrisino automatico, per quanto nero al mezzo: un sorrisino secco secco, scemo scemo, di quelli che soleva dispensare dal banco nei momenti grigi, per abito dell’arte sua, di rivenditrice che sa riguardare i fumatori: scoprì, al solito, il bucio: non poteva far diverso. Le palpebre le si richiusero un istante come a presagita voluttà: presagita per dovere, per obbligo professionale. Gli occhietti significarono, con lo sfavillìo d’un attimo, il consueto benestare: a chi? a che cosa? Il malanimo intanto, sulla di lei fronte, aveva lucidato a cera i due bernoccoli, due fortilizi tuttavia tenuti dal demonio. 
«Dov’è il Retalli?» diceva il brigadiere alla ragazza. 
«Sor brigadiè, nun lo so,» diceva lei: con la faccia stravolta. «E tua cugina, la vostra cugina, dov’è? conducetemi da lei! Andiamo.» Pareva preso, proprio, dalla smania d’acchiappar qualcuno, di non tornare a mani vuote in caserma. Un anello, e quale anello! c’era: e va be’: ma ora ci voleva un indiziato, un favoreggiatore, una favoreggiatrice, se non addirittura il colpevole. 
«Ma io...» piagnucolò ancora la ragazza, dimenticando l’ombrello dove l’aveva posto. 
«Andiamo: basta: fatemi vedere dove sta»: e aprì l’uscio, invitandola, con l’altra mano, a usufruire: e del gradino e dell’uscita. La Lavinia andò fuori per prima. 
«Ar passaggio a livello,» gli sibilò allora la Zamira in un orecchio. Ma l’appuntato pure la udì. Non le si spengeva ancora, sotto alla fronte incattivita, la luce perniciosa dello sguardo. «È la nipote del casellante: al passaggio a livello, sta.» 
«Quale passaggio?» 
«Pe la strada de Castel de Leva, fino ar ponte: poi, a sinistra, fino ar passaggio a livello de Casal Bruciato»: sembrò una sordomuta che se spiega co li diti, col moto afono dei labbri. Non voleva che la Lavinia udisse, dalla strada. Il Farafilio incespicò nel gradino: «Attenzione!» fece lei, materna: ripeté: «Su la strada der 
Divino Amore. Fino ar ponte, quasi. Poi a sinistra.» 
E co quella spintarella, co quer viatico, pervenne a imbarcare i due soci, e i loro quattro scarponi. Ne avessero a mangiare, della polvere! Il cavalier Forcella aveva udito ribollire le sue preci, aveva condisceso a le invocazioni reiterate, a le suppliche. 
«State attenta alla macchina!» le gridò ancora il brigadiere, da fuori: mentre la di lei guardata la si acuminava nella cattiveria: «ar ponte del Divino Amore!» gridò, come a insevire sulle retroguardie del vinto. Quali castagnole poi gli schizzasse dietro, quali giaculatorie, intanto che l’uscio a vetri era ancora aperto a le spalle degli usciti, la storia, maestra del vivere, non ha curato registrare.  

182 
9. 
  
  

Ar ponte del Divino Amore! è na parola! due chilometri emmezzo e pure più: quaranta minuti di cammino: e con la ragazza, e co quele scarpe che ciaveva. Quarche apparita del sole, un disco, una sfera labile o scialba con fuggenti veli di vapori sulla faccia, da parere il tuorlo d’ovo dentro il chiaro: o tepido, a tratti, o mollo mollo: poi, di qualche subito sbadiglio del giorno, tra una nube e la venente ridesto ringalluzzato e barzotto, a cavallo di quel galoppare della sciroccata: fuga e viaggio, dal ponto, di tutta la nuvolaglia a culaia, a dar di fianco sopra gli scheggioni d’Appennino. La strada era una sola, pe fortuna, salvo il primo pezzo però: la statale, l’Appia, poi, ad angolo retto la deviazione della provinciale, pe Falcognana. In occasione di quell’angolo un sentiero si buttava in diagonale a campagna: troppo motoso itinerario tuttavia per mezzo le maggesi che apparivano d’un verde umido e novo, infradiciate da la guazza: e qua e là come inzuccherate da la brina. Se veniva in su, la Camilla Mattonari, così disse Lavinia, l’avrebbero certamente incontrata, a scarpettare su l’asfalto, o almeno su l’asciutto, cioè precisamente su la strada di Falcognana. Un calesse, che li raggiunse dopo ch’ebbero in quella svoltato, permise al brigadiere di farvi salire Lavinia, e il milite dopo di lei. Imbarcati i due sposi, lui ritornò addietro verso l’osteriuccia del bivio, a chiedere una bicicletta da quarcuno: e se no sarebbe risalito fino dalla Zamira, a recuperare la cavalla. Il Farafilio, serio e tondo nel viso come nel cocò, non parve del tutto scontento della trovata del superiore, che gli risparmiava la passeggiatina, per quanto igienica, e gli largiva intanto la tepida contiguità della coscia della ragazza, per quanto, hélas!, keine Rose oline Dornen, il brivido fosse condiviso col conducente dall’altro lato, cioè dall’altra coscia di lei. Nonostante l’odore, subito percepito e apprezzato, della vitalità femminile, e la conturbante consedenza, nel biroccio, d’una così «flessuosa» e «gentile» signorina, il severo milite, ciò va detto a sua lode, obdurò, si, obdurò a essere o almeno a figurare il più legalmente-militarmente agnostico dei carabinieri di tutta la legione, in quel risvegliante marzo castellano. La scesa era lenta, fra le nuove piantagioni di qualche vigna (ancor brulla) che interrompevano il prato. Pervennero a un bivio, col cavallo, già in vista del ponte detto del Divino Amore, con cui la provinciale sullodata soprappassa la ferrovia di Velletri. Il Divino Amore propriamente detto, una chiesina d’antico tempo qua e là rimpiastricciata d’intonachi e due casipole appigionate al sole dal Lazio dei Principi guardiani, e Castel di Leva che le accosta e sovrasta, e sguarda all’intorno con gli occhi vuoti del torracchio, e le ricinge o le ricingeva d’un muro, distano dal ponte cinque chilometri emmezzo. Lì, al bivio, il Pestalozzi poté raggiungere in bicicletta i compagni di gita mandati innanzi, ostendendo sul braccio teso i galloni, che parvero un brevetto, una patente di guida a lui singolarmente rilasciata, per così poco fluente veicolo. La bicicletta tra na scatola de musica, con un cro cro nei mozzi. Pareva la macchina de li denti rotti da sgranocchià er torrone: ma il torrone manco p’er cavolo, in queli posti! Il conducente gli fece ih al cavalluccio, da rattenerlo un poco, e intanto, sbilanciato a destra, l’andava strizzando la martinicca, mentre di più in più, sui cerchioni, i due ceppi strusciavano fino a cigolarne. Il cavallino, in discesa, dopo aver contrastato alla meno peggio indi alfine sostenuto di culetto magro le strappate successive dell’imbraca, allorché gli sopravvennero l’una dopo l’altra sulle due chiappe come gli schiaffi del mare sulla innocenza della rena, puntò definitivamente sul sodo della via, senza più levarle nel trotto, ormai spento, le zampe davanti, sdrucciolò un tantino su tutt’e quattro: e fermo: rivolgendo appena alla tirata di redini il capo, che sembrò significare: «‘acci tui e de tu’ nonno in carriola! propio adesso m’avevi da regge, che annamio così bene.» Proiettate in avanti le tre cape dei viaggiatori, le poppe colme e sfrullone, la gola così desiderabile e il volto e il pallore un po’ isterico della Lavinia come in un conato di vomito: come accade a tutto ciò che non è impacchettato a dovere, imballato e inchiodato in un sistema: e viaggià però a conto proprio, e quasi innanzi a ventura. Il Pestalozzi smontò di bicicletta. Dalla strada di Falcognana, che sorpassa col ponte del Divino Amore la mezza trincera della ferrovia qualche centinaio di metri più giù, si disgiungeva in quel punto la vicinale per Casal Bruciato: che discende ancor oggi, con un largo tornante, a traversare la stessa via ferrata a piano pari. Sul colmigno della cantoniera gialla pesava, incerto e per segmenti rotti, un fumo, e nemmen si vide se uscito di camino: si sperdeva, come a fatica, nel marzo: a figurare, in quella ascendente ricerca del suo non essere, la povertà che l’aveva generato: o a dissolvere nella solitudine agreste quel morso della occorrenza giornaliera che da chi ne prova si suol chiamare la fame. Il nome perenne e insistito, il disperato dittongo del chiù s’era taciuto nella notte: s’era spento con l’alba. Da un olmo non veduto, ora, forse da un leccio alla scure superstite nel vuoto della campagna, l’appello intermittente, irraggiungibile, l’implorante giambo del cucù. Nel presagire le nove frondi alla terra pareva rimemorar‚ le stagioni eterne e perdute, dolorare della primavera. 
La Lavinia implorò dal brigadiere di lasciarla fuori ad attendere. «Fuori dove?» 
Lì, cioè «qui. Sinnò so’ boni pure da pensà... ch’ho fatto la spia a mi’ cuggina.» 
Dopo qualche trattativa il brigadiere consentì, a malincuore: e ciaggiontò du parolette d’occasione: patti chiari amicizia longa. Ingaggiò il calesse per il ritorno: appoggiò la bicicletta contro la ripa che in quel punto, al di là de la cunetta, segnava il rilevarsi del terreno erboso: la raccomandò al vetturale. Arrivato, col fido Farafilioro farà-figli-d’oro, al casello chilometro 20,25, furono accolti dai furibondi latrati d’un bastardaccio di cui quasi non si vedevan gli occhi, ma i denti radi e canini con paura, tant’era sannuto ed irsuto, mezzo spinone mezzo maremmano e mezzo fottut’in gulo (questo l’ideogramma del Cocullo), ma per buona sorte a catena. Una vecchia apparve, contro ogni credibile ipotesi in quel panorama di ferrovia sconsacrata, la si provò a rabbonirlo, a chetarlo, la si fece indi presso la barra: che interrompeva la strada, a significare, se non proprio l’imminenza, di certo l’aspettazione d’uno straordinario fenomeno: e cioè il travenire nero del convoglio, il sottosoffiare e soprasoffiare del vapore, fluido meraviglioso, che conferisce virtù ed attitudine locomotoria al merci, anche in salita, nonché al misto 181: il quale difatti, già in ansimo, annunciava il lùbrico gioco de’ manovellismi su su su fu fu fu da ‘e Fattocchie, vincendo la implorazione lontana der cuccù: e al casello Km 20,25 sarebbe altresì vittorioso della livelletta: un prodigio dell’arte, una interminata livelletta 4% ma tutta curve e controcurve, del secondo ottocento. Al casello, detto da taluni di Casal Bruciato, lo si attendeva ogni giorno, una volta al giorno, con l’algebrica certezza e la trepidazione d’animo con cui alla specola di Arcetri o all’osservatorio di Monte Palomar, ogni settantacinque anni, il ricorrere della cometa di Halley. La vecchia, per quanto decrepita, la dové aver inteso al momento che quella visitaccia a grigioverde e nero... aveva tutta l’aria di voler andare a parare a casa sua: talché ricucì senza più disgiungerli i due margini esangui dei labbri, di due peluzzi a ricciolo esornati qua e là sopra al mentulare della scucchia: e lasciò a loro, ai fratelli Branca, l’iniziativa dei convenevoli, all’anziano e maggiore in grado dei due. Nel frattempo, senza darlo a divedere tuttavia, si sforzava jugular l’evento, quello, dei tre soprastanti, che più paventava e aborriva nel tormento dei visceri: con raccomandarsi di preghiera in brucio a Sant’Antonio di Padova miracolatore amorosissimo a tutti noi, anche però in una ai buoni uffici (nel trascorso di lei tempo automatici) del plesso emorroidale medio, plexus haemorroidalis medii. Pervenne infatti alla deliberata strizione dei più quotati anelli rettali, se pure estenuati da vecchiezza: non del tutto inoperanti, per quanto via via sempre più fatiscenti negli anni, le cosiddette valvole di Houston, principe la supervalvola di Kohlrausch, né le semilunari di Morgagni. Il disperato tentativo di blocco dell’ampolla, sulle cui postreme ritenute ohi ohi ohi di già il trauma grigioverdenero-argento impelleva concomitato da fischio ohi ohi ohi acutissimo della vaporiera in arrivo. non riuscì per altro se non allo sblocco d’un qualche gocciolone piuttosto fòbico, gnaffe, sulla banchina di Casal Bruciato: free along bank, sì, fab Casal Bruciato, per quanto alcuni dicano e però scrivano cif, cost insurance free, e alcuni addirittura ciàf. La provvidenziale carenza, sotto al cavallo della vecchia, di quel paio di correttivi tubulari della nudità che i nostri più esquisiti reporters sogliono oggi chiamare «indumenti intimi», consentì all’evento di snocciolarsi a marciapiede, inosservato dai due Branca. Filtrati avanti, l’uno dopo l’altro, per il varco ad uomo a lato la colonnetta della barra, i carabinieri si avanzarono tacendo sulla banchina con passi gravi e chiodati fino alla porta del casello,: quasi ignorarono la donna, credendola in esercizio di funzioni pubbliche e oramai alle prese col treno. Ma s’ingannavano: si scontrarono ivi nel volto bianco a patata e nel risoluto erompere d’una ragazza che aveva preso su, da un banchetto, una specie de stennarello p’ allargà la sfoja, ma involtato in d’una pezza rossa e verde: e in quel momento più verde che rossa. 
Intanto sopravveniva davvero il feffe-feffe, a tutta faffa: appicciate a ora chiara le fanaliere avverso il buio d’ogni novo speco: l’unico treno della mattinata, in quel senso. Arrivava su da Ciampino tutto nero con un fare da pompiere incattivito, mandando al cielo cannonate di fumo bruno, dalla tromba e poi tutt’a un tratto vapor bianco, certi buffi fu fu fu fu che parevano altrettanti spari che uno diceva «ma che t’ha preso? ma che t’hanno fatto?» e de sotto da un par de borse a cilindro una de qua una de là, come ciavesse li baffi a pianterreno. Prillavano e caprioleggiavano lucide e unte la biella e quasi d’un forsennato arrotino la manovella, con un odor d’olio cotto, nella tragica ascesa della livelletta dell’ingegner Negroni. Pareva uno che te se butta avanti, che te voja dì li mortacci sur grugno e nun potenno annà de corsa, da la polagra, la rabbia che cià dentro te la spara de fora dar naso; e a l’istesso tempo da li piedi. Oltre il casello poi, sul sentiero grigio a fianco il fuggire della breccia, due o tre galline si apprestarono spaventatissime e tuttavia chiotte chiotte, more insolito, a lungheggiare in accelerato zampettamento il binario: a traversarlo indi svolando nel momento più opportuno, i respingenti addosso e sopra ai respingenti i fanali, con quella premeditazione suicida che le distingue. Il maremmone, cioè maremmano-
spinone, si avventò: da credere volesse jugularsi od autoghigliottinarsi nel collare, un sottile anello di ferro dove i peli rabbuffavano, del furibondo: e a catena tesa riprincipiò ringhiare e latrare, scoppi reiteratamente frenetici: come declamasse irruenti versi del Foscolo senza tuttavia comprenderne il senso, e nemmeno il non-senso, a un pubblico di soprappresi da cascaggine: deliberato ridestarli tutti e richiamarli a purgazione e a vigilia, né perdonar sopore neppure all’ultimo. L’indemoniato idiota, in ciò fare, smarriva di tra incisivi radi e scontorti e la ferità de’ canini e licenziava fuor dalle labbra, per fiocchi biancastri a ogni nuovo sussultare della capa, una sua bava poltigliosa come béchamelle: nelle arsi di così rorida rabbia levando al cielo sanguinolenti occhi di belva, quasi a invocare il beneplacito de’ superni Bestioni, gli iddii di sua razza, e a propiziarne il nume, e a promuoverne il consenso a’ più stolti endecasillabi. Il che, da quel cretino che era, ei riteneva officiatura inderogabile tra le scarpe e le mollettiere dei carabinieri. Quei petardi biliosi del suo rancore gli stavano lacerando la maledetta gargana, di cui per attimi, alla titubanza dei militi, si palesava il rossore cavernoso, come d’una spelonca d’inferno: e veduto il pollame a correre davanti il soprasoffiare del nero, la veemenza ne raddoppiò fino a parossismo e sembrò addirittura, in un certo punto, risoluto d’inseguire a gara le spiritate sofonisbe: ma saldezza di catena e carità di spago, era anzi cordella, quando pure a fatica ne lo ritennero. Per che il capo matto gli andava sobbalzando senz’idea e senz’alcun guadagno né per lui né per altro ad ogni esplosione della gola: cerbero in licenza sulla terra e sui colli, dove si fosse appiazzato ad opera tracannando lo immeritato lume, la dolce aura dell’aperto lor cielo: coeli jucundum lumen et auras. Il feffe-feffe era lì lì per «transitare». Il vento che saliva dai paduli pareva stanco, gli cadeva l’ala nel giorno: ma un frullo, ancora, d’un forasiepe, da un cespo fino alla grondaia rugginosa, o il volo rotto, più alto, e i coniugi gridi a rimando di due ghiandaie senza nido. La ragazza dal viso di patata scartò con una mano i due tipi, come fossero tarocchi di poco conto, e in un atto d’insofferenza quasi male abbordata pulzella torcendo il capo a una smorfia, si fece, col suo strumento, a banchina: ove, impugnatolo di salda mano e come in postura di attenti, se lo piantò su la panza fisso, a quarantacinque gradi sparati. Quoo stendipasta dalla pelle verde le fioriva ora la persona, ed era, dal tronco ruvido, uno sprocco d’inusitato vigore, alla facciazza di chi lo dovea vedere e di chi no: ed era una insegna non sua. Il volto annerato del macchinista di già si sporgeva di cabina, a prender nota del colore del pollone. Un moro da teatro, un Otello col berretto nero da sciatore. Il feffe-feffe era il misto: l’unico treno della mattinata che ascendesse: raffazzonato di tre vagoni merci, di varia stagionatura e struttura, e due carrozze viaggiatori: dove le facce e le zazzere e gli occhi lucidi e le bocche de’ più impudenti ed allegri, o d’un coglione di più prestigio del solito, spenzolavano o lustravano di finestrino sghignazzando. O si protendevano, alcuni, con metà il torace e col braccio, nel galante addio d’una mano sventolata. Bociarono di bocca lustra e vogliosa dei fuggitivi madrigali a la regazza: non si capì bene che cosa, ma di certo delle porcherie: erano una torma di congedati dell’epoca, cioè dell’era, ma se fosse stata un altr’era era lo stesso. «Cià er manganello dritto!» poté ricostruire il Cocullo dopo un attimo, nello sferragliare del convoglio che trapassava di già, e strizzò i denti dallo sdegno imbiancando e arrossendo più su più giù, tra le gote e il mento. E avrebbero aggiunto qualche strambottolo per i carabinieri: se il treno, che parea sfiatato del tutto, non fosse andato così piano. Lo si udì stridere ora nei ceppi e cigolare nelle impanature poco ingrassate, in discesa: alla livelletta Negroni numero settantuno si surrogava, dopo il tratto piano dello scalo, la livelletta in contropendenza numero settantatré, Negroni tuttavia: la quale aveva fama di solersi offrire come un’odalisca mora piena di partecipanti consensi alla foga disincagliata dei manovellismi, talché il feffe, esonerato di pena e oramai mutolo di tromba e stantuffo, si sarebbe abbandonato a ruota libera alla gloria mussolina d’un ribaltamento in piena regola e conseguente acciacco delle proprie fattezze ed altrui, ove non avessero provveduto in contrario, per l’appunto, i freni. L’aria s’era assopita e parea ristagnare da basso. Il trenuccio dispariva, rimpiccinito, incontro a carovane alte di nuvole: tra le rimemoranti parvenze, schegge, muri diruti, d’una storia non sua. I pennacchi di fumo che s’era lasciato dietro dopo il ponte (del Divino Amore) prima d’arrivare al casello, ad altezza appena d’un volo di rondone s’erano sbandati un poco dalla sede e grava vano ora, bianchi ed inutili, sul verde fradicio delle novali. Le galline, come ogni giorno, erano sopravvissute al dramma: da anni, oramai, le ex-alunne di Melpomene avevano sistemato in un rituale algolaghnico, teatralizzato in una «scena per turisti nordici», i più prevedibili e preventivati strappi del loro primo e giovenil errore dello starnazzare e checchereccheccare per un nonnulla in un crescendo ebefrenico: e s’erano addate invece, di ragion poetica ben meditata, al silenzio e ai pallori vagotonici del miste. La loro iniziazione orfica, a poco a poco, s’era perfezionata a magistero: aveva raggiunto il climax di una sagacia pittorica, dimenticando i virtuosismi acustici della pubertà. Una semispenta o sonnecchiante e cionondimeno sempre disponibile e recuperata voluttà si ridestava in loro ogni giorno, con l’arrancar del misto e col fischio, alla consueta finzione: all’orgasmo artificioso della vittima che nessuno minaccia, allo zampettamento precipite e alla bersaglierata lungo la rotaia e la breccia, al tentativo di sollevamento (Delagrange volerà?), al simulato suicidio coi fanali addosso e concomitante deiezione d’un paio di bonbons, feffe-feffe trascorrendo. Finto il movente orgiastico, non poteva riuscir finto il regaluccio: così come sul teatro le passioni finte sogliono dar la stura a dei baci non finti e i cornuti di scena sembrano essere, le più volte, dei cornuti di fatto. Tutti i giorni, tutte le mattine. Non appena poi l’entità locomotoria aveva consumato sua parvenza, scialacquato i suoi buffi, allora, finito di girare il rotolo degli spaventi d’obbligo, le riprendevano a razzolare come gnente fosse: e a beccuzzare su dalla terra, che pareva n’estirpassero un’erba mala, con un tuffo e un ricupero pronto del capo, del collo, vermolini rarissimi. 
Trapassata la breve carovana delle sollecitazioni timpaniche più propriamente ferroviarie, e pressoché spentasi, la bestiaggine folle, in calamitosi ringhi e rignati a denti strizzati dalla rabbia, te la farò veder io te la farò, il Pestalozzi dimenticò anche la vecchia: dietro o dentro alla cui vuota e male appesa gonnella, sbrendoli con appendici di filàcciche, gli era parso udire che una qualche diavoleria brontolasse, o un qualche rospo si gargarizzasse. Non c’era jettatura come alla bottega della maga, ma forse jactura: preterintenzionale. Sì. E interpellò direttamente la ragazza. «Mattonari Camilla, siete voi?» La ravvisò come una cucitrice dei Due Santi, non ne conosceva il nome: la meno eletta, la meno «simpatica». Tirò di tasca, piegato in quattro, e dispiegò adagio con funzionale decoro il papiro: a giustificazione legalitaria della domanda: l’elenco dei topazi già esibito in bottega. «Sì,» fece quella. Era una frullona di medio taglio, di pelle grigio pallida che pareva carta unta: con il volto piatto un po’ a patata, gli occhi piccoli, bigi bigi, annegati nel ridondare della sugna. «Conoscete questo?» e le mise sotto il naso l’anello. 
«E che ne so? perché ho da conoscerlo?»: alzò le spalle. 
«Vostra cugina Mattonari Camilla sostiene... di averlo avuto in prestito da voi.» 
«No, no, è na buciarda! Che c’entro io?» 
«Che lo ha scelto,» improvvisò, «da quelli che ci avete voi!» 
«Buciarda! Svergognata! Questo, caso mai, je l’avrà dato er su’ paino. Un anello come questo nun l’ho mai avuto...» 
«Come questo! Vorreste dire che ne avete però degli altri, un altro, o qualche altro, che sono diversi da questo. Voglio vederli. Fatemi vedere dove stanno. E il suo paino chi è?»: ma su quell’immagine così ordinaria del paino trascurò di fermarsi, tenuto tutto, oramai, dall’idea che la tarchiana gli mentisse, che una qualche mandorla, in un qualche buco, dovea tenerla riposta. «E, tra parentesi, perché non siete andata a lavorare stamattina?» La ragazza, a labbra bianche, con il gesto di un automa, sollevò lo scipione dalla doppia pelle, vi accennò con il mento manchevole e con occhi sfuggenti alla lumatina del brigadiere quasi a dire «per colpa, o per merito, di questo qui». 
«Sì, l’ho veduto, che ciavete in mano la bandiera: maa... la cantoniera sareste voi? proprio a me la volete dare ad intendere?» 
«No. Mi’ zio ha dovuto scegne a Ciampino dar sor capo. Er titolare è lui. 
Quanno lui nun c’è, resto io ar posto suo.» Titolare, per lei, voleva dire cantoniere. 
«Fatemi vedere gli altri anelli, se ce ne sono, i coralli: tutte le gioie che tenete, gli orecchini della festa.» 
«De la festa? Nun ciò coralli, e nemmeno le scioccaje: ma che ve pare? co sta fame addosso, che s’aritrovamo tutto l’anno?» 
«Lo zio è impiegato di stato: voi lavorate da magliaia, quando lavorate. Non perdiamo tempo. Fatemi vedere quel che avete. Se è roba vostra, nessuno ve la toccherà. E se no, c’è ordine di perquisire. E se ci mettiamo noi a cercare, e se poi salta fuori qualche cosa che non va... Chi cerca trova: e chi trova deve giustificare ai superiori. Non so se mi spiego. Non so se conoscete le disposizioni...» 
«L’esposizzioni? e chi le conosce?» 
«Le di-sposizioni,» gridò lui, «le disposizioni di legge: quello che è stabilito dalla legge...» 
«Mbè, sor brigadiè, se spieghi mejo.» 
«C’è una legge, no? un codice: un regolamento di procedura, dove è stampato come dobbiamo regolarci, come dobbiamo procedere. Noi... dobbiamo ubbidire al regolamento: dobbiamo procedere a sensi di legge. Fate attenzione, sicché. Non obbligatemi a perquisir la casa,» era viceversa un casello, «ossia la stanza dove tenete la roba... la roba vostra. Sarebbe un aggravante per voi: articolo 788»: (788 un fico secco, lo inventò là per là): «è un articolo che canta chiaro.» La ragazza lo sogguardava, ora che ci aveva preso un po’ di confidenza a risponne, gli occhiolini bigi incastonati ne la sugna de le parpebre, con l’avara sospensione del contadino che si perita aprir bocca, tra paura e sospetto. La vecchia s’era data l’aria d’aver faccende nell’orticolo: e v’era discesa con una zappetta dì che s’udìvano intermittenti colpi nel sollo. Il cane, smessi i ringhi, ferocemente guatava tuttavia, con lo zelo dei cretini. 
«Cercare noi,» soggiunse ancora il Pestalozzi, «sarebbe peggio per voi. Ve l’ho detto: chi cerca trova. Mi capite?» La tracagnotta, quasi che il brigadiere le avesse puntato una pistola sulla faccia, si scosse, giravoltò, camminò via da parere la sonnambula, entrò in casa, o casello invece che fosse. I due la seguirono. Da quella cabina telefonica e cucinetta ch’era la stanza a terreno salirono, per gradini di peperino grigio, al piano sopra, in una stanza più piccola, irregolare, quanto comportava la testata della scala. Era occupata da tre letti, poco provveduta del rimanente. Il Pestalozzi e il Cocullo, dopo la ragazza, poterono insinuarvisi appena. Un odor di panni, a chiamar panni i lipoidi, gli aminoacidi, l’urea, il sudore insomma di che i panni dei poveri s’imbevono: una finestra con grata e zanzariera: nessun mobile, dopo i tre giacigli, che pareveno le cucce de tre cani, e un minimo stipetto con una scheggia scalenoide posatavi, d’uno specchio già infranto da sempre. A parete, a capo l’uno dei lettini, con il rametto d’olivo dalle foglie accartocciate era appesa nella sua cornice scura un’oleografia da due lire ingiallita nei margini, che il Pestalozzi riconobbe senz’altro. Era la Madonna del Divino Amore, sopra la postèrula di Castel di Leva apparita all’angosciato e sperduto nella notte, che feroci cani perseguivano latrando e stavano per azzannare e sbranare e alla di Lei veduta se ne tennero: e il recinto lo accolse. 
Lo stipo, mezzo armadiuccio e mezzo comodino, emergeva di là dal terzo letto, fra la sponda del materasso non di spigo odoroso, anzi responsabile con gli altri due di quell’afa così «umana», e il muro scialbato a calce da poco. Aveva tutta l’aria di ospitare in collettame quelle futilità, quei garbugli di refe, quei bottoni scompagnati, quei cenci a losanga, di che le brave donne dell’agro e d’ogni altra parte della fatal penisola sono oculatissime raccoglitrici, pignolosissime conservatrici verso le improbabili occorrenze d’una dimane dove né refe né spago non è, dato che non ci sarà nulla da impacchettare. Il Pestalozzi vi buttò un occhio, al mobiluccio, ma senza particolare interesse. «Oh allora?» 
«Lì,» mormorò la patata: più con un’alzata della capa, mentone poco ce ne aveva, che con un moto delle labbra accennò a sotto il letto, il secondo. Raggiratolo, vi scovarono indi a momenti snidarono un cofano: una cassetta di legno, listata di lamiera scura lungo gli spigoli. La ragazza si munì allora d’una chiave quasi approntata di magia, poi si accoccolò a raggiungere con le due mani la cassa di sotto al letto. Il volto e la parte colma del busto soprastavano di poco le coperte bige: annaspava come cieca, e cògnita, guardando diritto davanti a sé fino a padroneggiare la rimozione del parallelepipedo, poi quasi azzeccando stracci a casaccio col divinante gesto d’un cieco, abile a imbroccare sul piano i tasti giusti, a erogar di tastiera i patetici squadroni delle sue ciecaggini. Trasse fuori il cofano, lo aprì. «Cercate pure, sor brigadiè: ma nun c’è gnente.» E poi che il brigadiè non si moveva, dando a divedere nel volto quanto la ircina stamberga già lo deludesse, e il naso ne schifasse, la sollevò il coperchio, raspò su qualche camicetta, uno scialle, delle calze nere col tallone bianco, una scatolina di cartone, una camicia da omo, quella bona. «E l’anello? il tuo anello dov’è?» Infastidita dalla deduzione base del brigadiere: «vuol dire che ce ne avete un altro», gli aprì la scatolina del bicarbonato sotto il mento: - ne sollevò, come da un nido di ovatta, una povera catenina che pareva d’oro, con una lieve croce che pareva d’oro anche quella: una spilla a chiusura con un corallo finto, un’altra spilluccia di metallo con un quadrifoglio di smalto. 
Il brigadiere prese la catenina con due dita, allargò le dita a reggerla, e lasciò ballonzolare la croce: poi la spilla dallo smalto verde, come si toglie dalla siepe di biancospino una farfalla in posa ad ali chiuse, per restituirla al suo volo. «Vuol dire che ce ne avete un altro». Lei gli aveva detto di no. Ora non ritenne lecito disdirsi, o comunque recedere dalla negativa. La qualità oleosa, immota, cocciutamente statuaria, delle sue disponibilità fisiognomiche l’aiutò intanto a lasciar la lingua a rimessa. Pallore, sugna e patateria, quele du capocchie de spilla che v’erano infitte come in un ovo de mollica, du zigomi tonni che pareveno abbottati da du cazzotti, tutti li mejo connotati, insomma, le permisero di restar là muta ed amente a non proferire a né ha: simulando solo un’apprensione che, forse, la turbava poco poco. Il brigadiere aveva riadocchiato lo stipo. Era per dirle: «voltate i materassi! fate vedere sotto i materassi!» E invece navigò intorno ai letti e venne, dopo il non facile periplo, a piantarsi ritto fra l’ultimo e il muro, in atto quasi d’interrogare il comodino. Tirò lo sportello, s’avvide ch’era provveduto d’una serratura, cosa incredibile per un comodino da notte: era un comodino sui generis. Ne dimandò la chiave. La ragazza Mattonari sotto un materasso la cercò, la trovò: aperse lo stipo, con una tristezza unta nella faccia, come di cittadina vessata, dall’arbitrio. Dei cenci, ancora, robba da donna, un gilè, un par de carzoni lograti ne franarono giù sul pavimento, per la cognizione delusa del sottufficiale: vi erano stati riposti in qualche modo, pressati dentro alla peggio. Lui ne tolse di sua mano un corpetto a maglia, una pelle di coniglio, una sottana celeste chiaro, con zone sbiancate dalla varechina. Due o tre noci rotolaron fuori. Emerse allora dal cenciume, tutto agghindato di calzini frusti, un pitale. Ricolmo di noci, e con più d’un acciacco sulla bombatura smaltata, si vide subito che non doveva essere un Capodimonte, e nemmeno un Ginori. «Ah Gesummio! le noci de mi’ nonna!» gridò la Mattonari, quasi a render pregio, in una estrinsecazione di angoscia possessiva, al tesoro: che l’autunno aveva deposto nella capienza del vaso così benigna, en passant: pellegrino che si sdebita senza commiato, avanti l’alba, dell’ospitalità benignamente ricevuta. E fece l’atto, chinandosi, a fianco del brigadiere all’impiedi, di prender su il recipiente e di toglierlo di mezzo, nel che apparve animata, dopo tutto, dai migliori propositi. Intendeva, con quel gesto, di spianar la strada alla Requisizione, alla Gravante, alla Croce dura, alla Legge. Ma la pituitaria del segugio aveva bell’e fiutato il Nascondiglio. «Ferma! Prendilo tu!» intimò al Cocullo. La ragazza si levò. Il fido Farafilio si accoccolò. Introdusse nello stipo le due mani: ad afferrar con l’una, per il manico, il pitalone ricolmo, a stringerlo riguardosamente dall’altra parte con il palmo dell’altra, quasi accarezzandone la bonarietà, così rotonda sull’opposto e non manicato emisfero. E lo estrasse dal tabernacolo (ed era peso come ben di rado) nella figura propria dell’utente, o addirittura del proprietario, che si accinga nottetempo a servirsene per la finalità deteriore. Ottava e nona noce rotolarono. Troppo scarsa, poi, alla quasi fanciullesca opulenza del bravo milite, la giubba grigioverde liberò ad evidenza le rotondità postìche di lui, debitamente rivestite di panno d’egual colore. Enfatizzate dalla posizione di acchiocciamento, apparvero emulare e vincere al tutto le rotondità lisce del vaso, come le avesse enfiate una pompa, di quelle a treppiede, dei meccanici da biciclette. L’incredibile pieno era per infrangere, ne aveva già tutta l’aria, la cucitura posteriore mediana dei pantaloni: che sembrò invece soltanto allentarsi, nel teso zigzagare d’un filo poco cucirino e di colore azzurro verde, più scuro del grigio della stoffa. Sollecitata detta cucitura oltre il debito, il carico di spacco non fu raggiunto. Uno sparo secco rintronò invece nella camera. No: non era una revolverata. Il Farafilio, povero figliolo, molto probabilmente arrossì, con quel suo modo di arrossire a chiazze, nel volto buono e severo. Racchioccolato come si ritrovava con la faccia contro il comodo e lo zipeppe in braccio, non ne andò divulgata la porpora. L’umile dovere aveva nommato se stesso, ecco tutto: certe posture favoriscono certe nomenclature, quasi elicitandone il suono alle fonti stesse del medesimo. La ragazza taceva, amorfa. La fronte del brigadiere sì obnubilò: nel silenzio. Colmo, frattanto, e greve d’ogni più rasciutto dono di Vertumno, il pitalaccio fu elevato agli onori del piano (del comodino), rimossa un poco la lucente scheggia de lo specchio. Il manovratore si alzò, senza volgersi. «Coglione! rovescialo sul letto!» fece, durissimo, il brigadiere. Il manovratore ubbidì. Nella mezza giravolta la metà visibile della sua faccia si palesò tappezzata a zone alterne, a isole di rossore e di pallore: il rossore color vescovo, il pallore color caciotta. Rivelò altresì di possedere, in grado eminente, la proprietà dei buoni, generosi ed onesti: quella di arrossire fin sul collo. Poggiò adagio indi capovoltò ratto il capace dove gli era detto: con mani poi, torno tomo, diligentemente precludenti. Di quel tesoro di noci le più grulle, sguinzagliate non anco, sarebbero saltate giù con rimbalzi multipli e festevolmente rotolosi e cretini, andando a rintanarsi una di qua una di là in chissà quale canto sotto ai letti: ove non fosse stata appunto la buca, cioè l’impronta del corpo nel letto stesso. Ma furono fregate. Tutte insieme vi si deposero come in una casseruola, facendo mucchio. In vetta al quale un cartoccio. Di carta blu, da droghiere. Zucchero, probabilmente: una riserva segreta de la nonna. Postosi dall’altro lato del lettino, con digitazione impaziente il brigadiere lo disfece lui, quell’invoglietto. Apparve, allora, un sàcculo di tela grezza: non turgido, pure appesantito e variamente nocchierelluto in sul fondo, in dove capiva mercanzia: nocciuole, forse? o un gruzzolo di bottoni? o un rosario?: strozzato, verso la bocca, dai rigiri stretti d’uno spago, e poi nodi e rinodi. Il Pestalozzi palpò. Il volto gli si illuminò: dell’aurora del ci siamo. La punizione che aveva mentalmente comminata all’alunno gli vaporò via dai propositi. Un mezzo labbro gli si storse all’insù, in una smorfia di spregio: quasi a render più espliciti i connotati d’ironia: della sua ironia. Il groviglio dei molti nodi fu districato da ungulazione pervicace: la strettura dei rigiri dello spago si allentò nel via libera: dal disciolto sàcculo, rovesciato a sua volta con ogni garbo, ma sul lettino della nonna ch’era quel di mezzo, smottaron giù quasi confortandosi a vicenda nella inaspettata uscita e caduta pallette verdi, medagliette, spille e corniole, gingilli d’oro, catenine, crocine, collanine a filigrana, impigliate le une nelle altre, e anelli e coralli: anelli insigniti di pietre rare, o splendenti d’una gemma, o talora di due di color distinto avanti alla bocca aperta del Cocullo, al batticuore del brigadiere: che sentiva già i galloni rampicar sulla manica, e mandar via quei che c’erano. Galloni marescialli, questa volta. Ristettero, come bestioline impaurate, coccinelle che raccolgon l’ali a non parere, nel grembo misero della indigenza: e parvero, invece: parvero tante bugiole sbugiardate, riconosciute dal gioielliere di naso adunco, sul banco, dopo furto e recupero: d’ogni più color curioso e d’ogni forma: una crocetta di pietra dura verde cupo, che i polpastrelli del futuro maresciallo non si tennero dall’assaporare, in giri e rigiri: un bel cilindretto verde nero lustro, da tirarne oroscopi i sacerdoti stronzi ad Egitto più che farneticazioni Pitagora dall’apotema del pentagono, piazzatisi da occaso a blaterare, a riguardar la vetta alle piramidi cotte: chicca misteriosofica, nelle antiche viscere del mondo celata, alle viscere del mondo carpita, un giorno, geometrizzata a magia. Un povero ovolino tra celeste chiaro e bianchiccio come una ghiandolina di piccione morto da buttare a i’ sudicio: e due bùccole, con due gocciolone d’un azzurro cielo a triangolo isoscele, arrotondate nei vertici, dondolone e pese, d’una meravigliosa felicità-facilità, per i lobi di una popputa ridanciana vestita di celeste: che in una loro quasi trasparenza striata arridevano locùpleti, come per pagliuzze d’oro che vi si fossero intercluse al diacciare. E un grosso anello a cilindro d’oro fasciante, che aveva cerchiato il pollice all’Enobarbo o l’alluce a Elagàbalo, con una caramellozza ovale verde arancio e subito dopo, anzi, limone: trafitta da tutti i raggi un poco del mattino equinoziale come le chiare carni del martire dalle sue centonovanta quadrella: perfusa da luci verdi chiare, di marina in alba, fino alla lucentezza del flint: di che i due sognaron subito, incantati, un cedro menta selz a piazza Garibaldi alle dodici. E un anellino di fil d’oro, con un chicco rosso di melagrana da beccarlo un pollo: e un dondolino ultimo, un gingilluccio, quasi una palletta di blu di metilene da cavare il giallo al bucato, tenuto da una calottina d’oro e da un pippolo: e tramite questo appendibile, per maglia d’oro, ad altro e altrettanto essenziale organo del finimento, vuoi della ricolma bellezza d’un seno, come anche del maschio risvolto del bavero o della panciatica e orologiata autorità del tutore di codesto seno, amministratore, morigeratore e in definitiva consorte, «e babbeo del diavolo!» ideò il Pestalozzi a denti stretti. Una croce di granati, momenti rosso cupi dell’ombra domestica. Anelli, spille: meraviglia increduta. E il rubino e lo smeraldo risplendettero e giacquero, nella fossa del lettuccio dal pel di topo, coinquilini d’un momento alla vereconda ambage della perla, sul liso e pressoché cencioso tegumento di quella cuccia di vecchia: tra il rilucere prezioso e il serpere o il poligonare degli ori di che si accendevano le menti, dopo le pupille e le rètine. Spille e boccole s’erano inviluppate nelle catenine, o intricate fra loro, come gèmine ciliegie tra i gambi geminati de le consorelle coppie: i pendagli, nella sùbita cateratta, avevano tratto seco gli anelli. Rubino e smeraldo si nominarono corporalmente sulla povertà bigia del panno, o del liso, nel chiuso, muto splendore che è connaturato all’autonomia di certi esseri e ne significa la rarità, la dignità naturale ed intrinseca: quella mineralogica virtù che per mentiti squilli ed ammicchi è trombettata tanto, nei trombettosi carnovali, da tanti culi di bicchiere, quanto, in detti deretani, inesistente del tutto. Il corindone, pleòcromi cristalli, si appalesò tale di fatto sul bigio-topo dell’ambienza, venuto di Ceylon o di Birmania, o dal Siam, nobile d’una sua strutturante accettazione, o verde splendido o rosso splendido, o azzurro notte, anche, un anello, del suggerimento cristallografico di Dio: memoria, ogni gemma, ed opera individua dentro la memoria lontanissima e dentro la fatica di Dio: verace sesquiossido Al2 O3 veracemente spaziatosi nei modi scalenoedrici ditrigonali della sua classe, premeditata da Dio: a dispetto del valore-lavoro del Tafàno. Tafàno di Revello ch’era per durare in seggiola un’ora, capintesta economista del Dindo e ministrogallo delle di lui buggerate non-finanze: che ad un mover di ciglia del Caciocavallo stesso avrebbe disvelato agli italiani il nuovo cielo dei valori infiascabili, sostituendo, nella fascia zodiacale del credito e della circolazione monetaria, alla bilancia dell’oro che andò poi a Ramengo a liquefarsi, lo scorpione delle panzane che non se ne andranno mai più. E la talianka, di quel fiasco, ne bevve a gargana avidamente. 
Il Pestalozzi, no, non era un ministro delle finanze d’Italia: e la Menegazzi nemmeno. Un certo senso del valore e del non-valore ce l’avevan tutt’e due: lei, non foss’altro, per potersi cavar lo sfizzio di dimenticare al cesso il valore (il topazio) dato che non ci avrebbe provato nessun gusto nemmen lei, in nessuna parte del ditirambico e fremebondo suo corpo, a dimenticare al cesso il nonvalore: d’un culo di bicchiere. Gemme erano, quei risplendenti rubini, lo si vedeva, incubate e nate nei millenni originari del mondo. Il perito lo poteva riscontrare e garantire non ostante il taglio, cioè sfaccettatura e politura d’arte. Gemme d’aver cristallizzato naturalmente dal sesquiossido fuso, lungo le direttrici del sistema: e non fatto finta di cristallizzare in una luce, in una gloria mentita, da una catinella di escrementi. così l’impeto, id dolore di un’anima si raggela in un grido, coagula nella notazione, secondanti le direttrici formali del pensiero: in un diacciato grido! che è il suo, e non il bercio di un’altra, o del mercato delle anime e dei berci. Sparse il brigadiere con le dita, e con il gesto di chi discevera il riso prima di buttarlo ne la pila, sparse le pietrine, le pietruzze, i monili d’oro, le favolose caramellozze, lucide gemme del maharagia nella depressione della misera coperta. Di quelle parvenze, festuche d’oro o luminosi chicchi sul color bruno del drappo, una punteggiata si disegnò, come una lineatura (che fosse però veduta dall’alto, e da lunge, dal monte o dall’aereo) di globi elettrici nel rigirare di Riviera: tale la luminaria di Botafogo imperla, nelle notti bananifere, la linea di livello del litorale e della via litoranea, torno torno la base del Pão de Azucar. Quelle gioie, in quel momento, parvero scaturire e fontanare sul lettuccio dal commisto ammasso di diversi colpi ladreschi. Ma il Pestalozzi, con una certa applicata titubanza in sulle prime, indi compiaciuta sicurezza, giudicò di poter via via riconoscere, nello sparso splendore, il discutibile ed ultrasuspicando vezzo perle, due o tre gingilli, un’ametista, la croce di granati, la palletta di lapillaruli (così ce steva scritte), i coralli, i gioielli, titolari dei non-ti e delle designazioni che figuravano, consoci e consobrini del topaccio, nei primi righi e via via nel foglio e nel secondo foglio dell’elenco Martinazzi, ovverosia cioè per più preciso dire Mantegazzi. Titolari dei nomi e dei titoli, per lo più d’uso, in qualche caso difficìllimi: anello «di» rubino con due perle, spilla con perlina nera e due smeraldi, pendaglio «di» zaffiro, come si direbbe di pasta sfoglia, «circondato» di brillanti, carcan, battuto a macchina carcane poi riscattato a carcanco, di granati in stile antico (sic), fila o forse filo, con l’o buco beninteso, di perle bianche (fasullissime) eccetera, anellino eccetera, grossa spilla con, pietra d’onice, eccetera eccetera. Un esame di lettura del corso allievi, ideò il Pestalozzi. 
Il tempo, intanto, stringeva: la mattina stessa avanti mezzogiorno egli doveva ricondursi a Marino col topazio in tasca e con quanto gli era venuto fatto reperire, nel suo vagabondaggio inattesamente fruttifero di gemme, ori, perle false, ragazze o brutte o belle ma bugiardissime tutte. Del recuperato e del trovato, o non trovato, doveva render conto al maresciallo, elenco alla mano: erano dei nomi strani e difficili, con un che di magico addosso, di misterico, d’indiano: con tanti fori, come quelli del biglietto della ferrovia, in luogo d’ogni o. La seconda nota, incompleta perché mancava un foglio ma non meno bucherellata della consorella, gli sembrò viceversa una grana, una brutta grana che non lo riguardasse per nulla, una pratica demandata ad altro, dacché il commissario Ingravallo, quel testone che invece della brillantina adoperava il catrame, aveva dichiarato «espressamente» che voleva incaricarsene lui. Era affare di don Ciccio dunque. Battuta al nastro rosso, quasi che il nastro fosse stato intinto nel sangue, la nota della «refurtiva Balducci» gli pareva essersi materiata da un incubo: fogliata e verbalizzata in pagine da un orrore segreto che non era, in quella mattina matta dell’equinozio così pieno di pronostici, no, non era di competenza dei carabinieri. No, la campagna solitaria, fuori, inumidita dai piovaschi, adocchiata appena dal sole a quando a quando risveglio, no, non voleva ricreato l’orrore: quello di cui si veste dopo le luci repentine del coltello, negato al vivere ogni condono dalla belva, l’immobilità di un funerando relitto. Allo sguardo della portinaia e degli agenti (ancor prima delle constatazioni di legge) o del cugino atterrito ch’era entrato senza sapere, così diceva, poi tra le ciabatte di tutti, di tutte, uno sbiancato simulacro per i musei di cera della morte: e quell’icore putre giù dallo squarcio del collo, i giorni appresso, in un sentore d’obitorio. Quelli ch’egli aveva repertato erano gli ori e i gioielli «dell’uscio di faccia», gli ori della contessa bionda, in ogni modo: e nei successivi lampi d’una imagine sognata (non vista) il brigadiere sospirò. E fantasticando già di apparirle innanzi con galloni marescialli, in veste di recuperatore-salvatore, cercava intanto districarsi da tutte le serpi del dubbio: «...ma forse qualcuno pure di quegli altri, del cofano di ferro dell’assassinata.» Non indugiò nei riscontri. Andava oramai di premura. Sui preziosi eventuali della Balducci, con quell’elenco a mezzo, gravava ancora l’ambiguità delle ipotesi: il riconoscimento e la discriminazione dei pezzi singoli erano da effettuarsi in caserma, su a Marino, o forse a Roma a Santo Stefano del Cacco, mentre dei gioielli della contessa Mantegazza ch’erano distinti nella nota relativa conclamava ognuno, con istante evidenza, la propria rapinata identità. E poi, e invero, le probabilità rimanenti le andava computando ragione; in un’ora emmezza due temi al lotto come quelli, un topazio al dito e un pitale di topazi, erano anche troppi dalla cornucopia avara di Fortuna. Alle statistiche precognitive del cervello, acceso ma tuttavia peritoso, dubitoso, non riusciva accettabile un terzo colpo. La ragazza e il Cocullo attendevano, immobili, e come svuotati d’ogni facoltà di seguitare: il brigadiere si riscosse. 
«Chi te li ha dati? Chi è che li ha portati qua? Non te li avrà mica regalati! propio a te!» 
«Io nun lo so. Li vedo adesso pe la prima vorta. Nun lo so chi ce l’ha messi, in quer posto.» 
«Dimmi chi te li ha dati che lo sai, o chi li ha consegnati alla nonna... allo zio. Il comodino era chiuso. Ci avete messo la serratura. E la chiave l’hai trovata subito.» 
«La seratura c’è stata sempre: ce tenemo un po’ de robba.» 
«Bella roba! dillo chi te li ha portati, che lo sai. Noi lo sappiamo già: quello che è stato lo conosciamo da un pezzo. Anche a Roma, il commissario, lo sa già pure lui. Parla, devi confessare, devi dire la verità, non abbiamo tempo. Se non ti decidi a parlare qui, parlerai col maresciallo, a Marino.» 
La ragazza taceva, assorta, con gli occhi nel vuoto: la patata della faccia, i due vetrini bigi delle iridi, le labbra senza colore non denunciavano alcuna inclinazione a far parola: come d’un’agreste sibilla, o d’un giureconsulto cittadino, che oblazione previa non abbia elicitato a responso. Taceva, al tacere, fuori, della campagna, di tutta la solitaria campagna: nella sembianza d’un irreparabile diniego. Un’isterica di sasso, a cui la proferita menzogna è divenuta verità, e rimarrà tale sotto le tenaglie roventi. 
«Vieni in caserma, allora. E là vedrai che fai l’uovo. Ci scommettiamo che lo fai? Te lo fa fare il maresciallo.» 
Furono rinsaccati i gioielli, una manciata piena: e beccuzzati un per uno gli estravaganti, i centrifughi, i periferici. Operò il brigadiere di sue mani, e poi di sue dita, facendo bene attenzione, di tutta la «refurtiva», non abbandonare alla coperta un sol chicco. I labbri dischiusi appena all’incombenza, e respirando grosso a traverso veli di catarro, il Farfilio, quasi un agnolotto, raffreddato che assistesse a una laparatomia, reggeva l’utricolo di tela forte: introdottivi, a garantirne esauriente la recezione, due pollici da ginecologo. Buttarono all’aria i piumacci come a guastare i letti, coperte, lenzuoli: non candidi, e tanto meno odorosi di spigo, alla Zvanì. Le noci le aveva raccolte lei col pitale, come l’acqua dal fondo della barca, quasi aggottando la fossa. Badarono pure sotto i letti, le fecero capovoltare i materassi («coraggio, signorina, coraggio: aria, aria»), vuotar del tutto lo stipo delle brache e dei calzini sfatti, e il cofano, e rimoverli. Palparono i materassi, levatili a sedere sopra le reti e, il primo, sopra le due panche su cui normalmente era steso: col dito piccolo ne tentarono i meati, col grosso o col dito medio li sdruci. Il pitale Creso, da un letto all’altro, aveva tutta l’aria d’una puerpera, così smagato e sminuito da ricolmo invece che era. A parete i verdirossi del Miracolo, il rametto dell’anno prima dalle foglie accartocciate e risecche, taluna grigio-argento, talaltra grigia o verde-bruno o color avana addirittura, quasi che il carisma che le perfondeva ne fosse vaporato col mutar dell’anno. E giù, infine, sulla banchina, la luce d’un desolato conoscere, o travedere. Il male, ai due renduti in panni bigi, sembrò esistere: a maturare i giorni e gli eventi: da sempre: muta forza o presenza m un pandemonismo della campagna e della terra, sotto cieli o nuvole che non potevano far altro se non rimirare, o fuggire. S’era palesato in quella sensazione di sgomento, di allentamento d’ogni vincolo giusto, che incolse i loro cuori al venir fuori: alla subita riapparita del paese, della nuvolaglia in corsa, nel cielo. Il diavolo, per la ragazza, s’era tramutato in gallina: quella che nell’orticino fa lo gnorri, e leva peritosa la zampa, e la posa: a beccuzzare, scaccozzare. Una delle tre: ma quale? E così, presso casa, tra una stoppia e l’altra, egli tentava con un ovo al giorno (che non si poteva mai sapere quale era, delle tre, quella che l’aveva fatto quel giorno), nella povertà e nella solitudine della campagna senza grangia egli tentava le anime: poi le denunciava al maresciallo, agli informatori del Signore: facendo, lui diavolo, o lei, gallina, facendo tuttodì le viste d’esser solo intento a razzolare, a cercar bachi. Certi bagarozzi, certi vermini. E appena se sentiva soffià er treno, se faceva pijà da quela paura e speranza d’avello addosso, e l’artre artrettanto: pe nun lassà capì quale era de le tre, e chi era: essendo er diavolo. Diavolo, nun c’era dubbio, e spia, imaginò la ragazza con una mano bicornuta verso i polli: spia, spia: insinuatosi per ispoglie mentite nell’ambito del domicilio, di quel rurale, ferroviale domicilio, eccola, eccolo: se la spasseggiava com’un pollo, col fare, propiamente, d’un pollo: come un signore co li guanti gialli a via Veneto, cor vetro all’occhio, cor fiore bianco a l’occhiello: se spidocchiava una spalla, cor becco, tutto superbioso, e poi l’altra: cacarellava, così, come gnente fosse, ma approfittava tratanto de la facilitazione d’esse un pollo, guardava de fianco, propio come fanno li polli, s’incaricava d’allumà dentro la cucina, si la porta era aperta. Entrava, magari. E nessuno lo mandava via, er zio stava a telegrafà a Ciampino o a la Cecchina, tàc tatatràc tàc, seduto a l’apparecchi. Lui, sicché, poteva spiare a tutto comodo. Registrava di pupilla matta e riteneva di rètina: con quell’occhio laterale che cianno i polli che pare una trovata di Picasso, un oblò del cesso, d’un cesso vuoto d’ogni intendimento e d’ogni attitudine a spiare, babordo o tribordo. E invece te guardeno. Sì, era il diavolo: penetrato a insidia nella cucina, sul mattonato indifeso della povertà domiciliare: o penetrata, dato che s’era travestito da gallina: o in agguato dentro il recinto di canne: cannarelle infitte ad arte nel terriccio con due inclinazioni opposte che davan figure di rombi, strapazzate dalla dirotta piova e dal vento, metà sfasciate e metà marce, ora, dopo l’invernata: logora cintura, ora: che non separa l’indigenza domestica, al chilometro 20,25, dall’aperta accessione della campagna. La nonna, tra le galline e le stoppie, era come un alberello gobbo nell’orto, un sorbo già scheletrito nella morte: parato a spaventacchio, un giorno, e reso di poi a cenci neri dalla tramontana. Dava un colpo di zappetto nella terra, poi lasciava, stanca, senza raddrizzarsi. Con quattro ingambate il brigadiere la raggiunse. «Ho trovato quello che cercavo,» le disse. «Se siete stata voi a nascondere, dovete darmi delle spiegazioni...» Lei alzò il volto, che sembrò intagliato nella ràdica: lo guardò senza capire, senza nemmeno intendere. 
«E’ sorda,» avvertì la Camilla. Telefonarono lo zio. Vollero informare lo zio: la Camilla era «convocata» dal signor maresciallo Santarella, così dissero: doveva «recarsi» a Marino per testimoniare: il casello rimaneva incustodito. Non ebbe opinioni e tanto meno versò proteste nel telefono, il vecchio. Non commentò quel che gli lasciarono intendere. Era già sul punto di risalire a Casal Bruciato. Treni non ne sarebbero passati più, la Camilla lo sapeva del resto, fino al misto per Ciampino Termini delle dodici e quattordici. 
Il vecchietto, in realtà, nell’udire una voce sconosciuta veniva preso dal panico. Al telefono, spiegò dura la ragazza, ove non si trattasse di chiamate o di comunicazioni di servizio, era infallantemente colto da paralisi del basioglosso, lei disse che je se fermava la lingua: come un ingegnere poco incline all’oratoria che manovri perfettamente i suoi abachi e tuttavia non disponga «di parole abbastanza appropriate» nonché di sufficienti verbi italiani da poter petrarcheggiare sulle notizie poco buone. Una tipica aphasia coram telephono, reverenza, dispetto, incapacità di esprimersi in lingua, e il dubbio e anzi l’ossedente certezza di poter essere ascoltati e naturalmente scorbacchiati da terzi, da ignoti imbecilli, e in definitiva lo smarrimento della personalità propria e lo spappolamento del logos in una rubefatta balbuzie, serpeggiava o stagnava endemica in Europa e però nella penisola italiana a quegli anni, di téléphone avec la manivelle. Nell’agro, nel contado, poi. Lo zio era ferroviere, bah: come il babbo di Lucherino. E campagnolo vedovo dopo che ammosciato se pur feroce int’ ‘a faccia, prima d’aver cuccia lungo le rotaie. Era nato analfabeta, come tutti noi: senonché volere è potere: a forza di volontà s’era diplomato in bi a ba: leggeva il nastro come gnente fosse e ticchettava col tasto. Padroneggiava e sparava in fuori dallo stomaco la bandiera versipelle, come gentile alfiere, al Palio, bandiera della Torre, della Tartuca o dell’Oca. Nato timido, sì, a tu per tu con lo scodellino d’ebanite ingollava saliva, anziché invasarvi le clamorose ciance del giorno: emetteva monosillabi guardinghi: e pochi anche di quelli. La nonna fu lasciata sola ad attenderlo: sola a non computare il cane, le galline. Avrebbe atteso del pari, nella pienezza delle attribuzioni ufficiali e nell’esclusivo manucupio del manganello verde, valevole a significare tira innanzi, quel trenuccio da Velletri delle dodici. La ragazza, si sarebbe detto una mùtola, ora, non meno della nonna, fu condotta al bivio: dove sostava, ad attendere i carabinieri di ritorno, il calesse: e Lavinia sopra, seduta, acchiocciata, la gola e le guance sulle due mani, e i gomiti depositati pari pari sui ginocchi, il mento proteso, stirati i labbri e la bocca in una attitudine di spregio. Una siffatta postura le largiva, sotto i bracci, albergo bastevole da avervi potuto allogare e pressoché celare, sdegnosa ora e insofferente di sguardi, il tepido gravame delle poppe: che l’arco tuttavia di ciascuna ascella permetteva di scoprire d’infilata, chi ci buttasse l’occhio, magari senza parere: come il Farafilio in un suo batticuore ci buttò, poco dopo, non appena affiancarono il calesse. 
Il padrone del cavallo sedeva, di là dalla cunetta, sul margine alquanto alto del prato in cui la strada ancora oggi si affossa, guardando a terra pensoso: bocca aperta: nella zanella asciutta le scarpe. Pareva speculare dei destini umani e dei presagi: lasciava pascolare il cervello negli interminati campi del nulla come sogliono utopisti e lanternisti, operatovi il vuoto, quel dolce vacuo torricelliano che i vapori sommossi e le nebule del mattino equinoziale avvalorano, se mai, a condizione inderogabile della vita psichica. Curiosità lo aveva subito punto all’avvistar Lavinia coi militi, s’era poi chetata e spuntata al tutto quando, rimasto solo con lei e col cavallo (ma il cavallo non comprendeva bene i discorsi di più voci), l’ebbe richiesta del caso. Lavinia, aspra, lo aveva ridotto al nulla in due battute, nel che fare eccelleva, e s’era accoccolata come detto. Lui ora, sicché, smemorava nella pace, affisando a bocca aperta qualche fil d’erba: un filo di saliva era per uscirgli da un angolo di quel poco ritentivo meato, filtratogli, di sotto la lingua inerte, a gocciolare sulle selci. Piazzate sulle selci della zana le due scarpe, disgiunte le gambe, sulle ginocchia i due gomiti, la frusta gli veniva fuori dalle dieci dita incavagnate che la reggevan lasca: e pareva stelo di bandiera dal suo bicchiere, a un balcone, o la tacita canna del pescatore sopra il silenzio del lago: e nemmeno poggiava a terra, pel manico, ma invece che a terra in una piegatura supervacante (immediatamente sotto al gilè di pelo) che i pantaloni formavano al riunirsi: talché gli sgorgava dall’imo inguine, come un fusto faunesco che a mano a mano si fosse allungato in pieghevole vermena, e in un sottile ricadente sverzino: quasi un dispositivo brevettato, un suo proprio e personale organo, antenna o canna, attributo disgiuntivo del radioamatorepescatore, o conducente. E tutt’attorno al pendulo sussultare dello sverzino (oscillante col polso) un moscone si abbandonava all’andirivieni abituale, quello che dà segno d’una cupidigia di cibarie perpetuamente sveglia, o risveglia, e del raggiunto avvistamento, cioè annasamento, delle medesime. Ronzava rumoroso, in una vibrazione metallica di che raggiungeva gli acuti con certe virate o controvirate a otto: ebbro, quasi, d’esservi astretto dalla fatalità rinnovata d’un campo gravidico sui generis: d’un campo escogitato, per la nuova storia, dal Pippo dei mosconi giovani: dove all’ellisse della orbitazione newtoniana si fosse sostituita la lemniscata. Era uno di quelli belli verdi, con ali d’un verde-cenere metallico da ricordare le bruniture dell’acciaio, dediti, non appena gli venga fatto, cioè venga fatta a qualcuno, dediti a laute soste, e ad èpule ineffabili nei sentieri peragranti, nei non romiti cantoni del territorio: du vieux terroir. Travagliato da pubertà precoce nel dolco e da pubere naso nell’equinozio, in quel cosmo di odorini presaghi (della concimazione primaverile) se la rifaceva con l’idea: della codetta della frusta. Chissà, il tànghero, che cosa credeva che fosse. 
Le due cugine s’erano avvistate di lontano. I tre, la nuova speranzella di Regina Coeli, e i due angeloni un po’ dietro e quasi ai fianchi, procedevano in gruppo. Quando si furono appressati al carrozzino, il padrone s’alzò, e d’impeto levò alta la frusta come vi avesse abboccato un bel mùgine: la Camilla trascolorò al bianco verde: «Sei stata tu,» fece sommessamente a Lavinia, mentre le arrivava a portata di coltello, con i due fratelli Branca alle costole: il guidatore schioccò la frusta nell’aria, da ridestare il cavalluccio, e si apprestava a montare dopo la Camilla, a cui un livore isterico, di attimo in attimo, veniva disenfiando la resultante enfiata, empôtée, dei vari volumi del volto, quella consistenza di ascesso che avevano in lei assunto, con la pubertà, i due palloncelli oleosi delle guance a far tutt’uno coi cuscini zigomatici. Gli occhi, intagliati nell’ovale patatoso, avevano principiato a reagire, stralucendo a ciel bianco, a dar segno di sé. La rabbia le andava conferendo uno sguardo, le prestava una faccia: «Io?» fece Lavinia, «ecché, te saressi forse ammattita?» Odio, spregio, e paura pure in quella voce, in quella frase, che il brigadiere Pestalozzi si studiò di captare, indi, invano, d’intendere. Un leggero ansimo, nel dire, una cesura peritosa. Il seno palpitava, desiderabilissimo, come tra i due poli una lamina magnetica: ma non era il magnetismo di Maxwell, ed era invece una lamina di pelle color latte, trepida e cara. «Io?» e alzò le spalle, «m’hanno pijata pure a me. Ce fanno fa na passeggiatina a Marino, pe testimonio.» Levò il collo, superba. «Io t’ho da dì com’è successo, che lui, qua, er brigattiere, m’ha creduto promessa da sposa, aritrovannome co l’anello ar dito.» Gli spari della frusta riannunciarono quasi allegri l’opportunità di tacere, di partire. Poco più là, sul margine alto del prato, due ragazzette a bocca aperta staveno a guardà co’ le mutanne lunghe e certe scarpe senza lacciuoli da fratello granne. Un omo forte, un contadino, tentava di appicciare e di far tirare, intorcendo il collo come un popolano dell’Inganni, un mezzo mezzosìghero. «Monta,» disse il brigadiere alla Camilla, «e non chiacchierare: e non cercate di combinarvi tra voi, che tant’ e tanto non vi serve a niente. Sappiamo già tutto, com’è andata: e chi è che ve li ha dati.» Gli si vedeva rigonfia la tasca della giubba sull’anca, a destra, che faceva simmetria con la fondina quasi a contrappesarne l’ingombro. «Monta su!» ripeté. Camilla obbedì. Il padrone montò dopo, dall’altra parte. Le molle, al percepirne la competenza, cigolarono di nuovo, e stavolta con lo zelo abituale: tacquero indi appiattite al tutto, stiacciate. Il brigadiere si apprestò a tener dietro, bicicletta a mano, al calesse: che sfiancando a destra, dopo adeguato giramento della martinicca, quasi del pomo d’un macinino da caffè, dopo un ultimo schiocco della frusta, un àaah del padrone, una rizzata d’orecchie e una puntatina di zampe da parte del quadrupede, e una sbattutina di coda fra le chiappe, non mancò di avviarsi. A passo d’uomo, cioè di ronzino in salita che ne tira tre. La strada, per l’appunto, saliva: la bicicletta, non appena Pestalozzi ne sospinse avanti il miracolo, riprincipiò a crocchiare, a sgranocchiare il suo torrone. Il fido Farafilio si sarebbe sgranocchiato a piedi la strada. A capire con le proprie doti in quella cesta le due ragazze vi si erano dovute stivare a fatica, talché pigiavano l’una contro l’altra per le spalle e pei relativi cosciotti, come due quaglie grasse aggemellate sullo stecco, in padella, da far porzione: reggendole il guidatore da un lato, in controspinta, la Camilla, dall’altro, s’era abbrancata al ferro laterale del sedile, paventando caderne fuori e precipitare sulla strada: a quel ferro ch’era l’ancoraggio disponibile, il solo. 
«Sì, sei stata tu, brutta spia,» diceva a mezza voce, in un’ira più verde ancora della faccia. «A fa la ciovetta sei brava, ce lo so. Oggi come oggi, magara, je piaceva pure d’aritrovasse quarche vorta co te: je facevi commodo, ar tu’ ganzo.» 
«Ar mio fidanzato, vòi dì,» e Lavinia alzò il capo risoluta con lo slancio repentino della serpe, guardando avanti diritto, quasi a distogliersi anche dalla sola immagine della compagna di viaggio, della quale percepiva il calore odioso, l’odore. Torceva appena la bocca, seguitando a spregiare. 
«No, no: che fidanzato der cavolo: a te nun te se sposa de sicuro.» 
«Me lo vòi pijà co li sordi, eh, tanto se’ scrana, brutta vipera. Tu p’assaggià un omo hai da comprattelo, come la maestra. Ma nun ce la fai a soffiammelo. Sei troppo racchia, sei, co quela faccia da patata che t’aritrovi. E troppo tecca, sei: co nemmeno queli quattro che ciai da parte me lo volessi pijà?» 
«Te lo pijeranno loro, sta’ sicura.» 
«Loro nun c’entreno. E tu nemmanco, però. Je l’ho fatto giurà, ciò litigato. Co quella? Fossi matto. Va, va, sei una patata. Va a zappà la terra, va, brutta strega.» L’uomo del calesse non interloquì: tratto tratto, per darsi un contegno, badava a sparar la frusta nel cielo come postiglione in serpa e in tabarro, miseruzzo di giacchettino color pulce com’era, e ad incitare come un àah il suo cavallo. Dopo ogni schiocco, viceversa, pareva intimidito: simile a certi minorati o a certi bimbi che ammutiscono al litigio dei parenti perché non arrivano a intendere di che si tratta, salvo che di una paurosa avversione, di un odio il cui movente è nascosto. Lui ne capiva poco de le donne. La donna è un gran mistero, diceva de domenica a le Frattocchie, dar marinese, seduto de traverso, e d’istate sotto frasca o fraschetta, cor gommito e co la fojetta sur tavolo. Le donne bisogna studialle bene prima de comincià, sentenziava a li Du Santi, a metà il bicchiere, davanti ar beveratoio di marmo bianco striato: perché la donna è un mistero. E la Zamira lo compativa dall’alto e di là dal marmo con tutto il nero della bocca, metà schifita, metà impietosita, rasciugandosi le mano ar zinale, che qualche volta portava, benché zozzo. E una volta anzi j’arispose: «E’ un mistero che se capisce subbito, basta avecce la fantasia.» Lui ne capiva poco, diceva. E forse capiva poco d’ogni cosa. Co quelle, con una almeno, ma quale nun s’aricordava, ce doveva avé giucato da pupette. E nun ne capiva gnente manco allora. Stava lì mocco mocco, aspettava l’imbeccata. Incontrandone ora pe la strada, quarche volta, mai di propria iniziativa, aveva accondisceso a imbarcare. 
«Sei una mignotta, una spia,» riprese la Camilla, smaniosa che il litigio non avesse fine. Si arrovellava dell’amore frodatole, più che mai del tesoro sequestratole: quello che lei chiamava già «li gioielli mia der matrimonio», il pegno dell’amore, comunque, ecco, era finito ne le mano de li carabinieri, «maledetto chi l’ha fatti,» bestemmiò strizzando i denti. 
«Una porca spiaccia, sei, brutta cagna. Sei una schifosa.» L’uomo dal giacchettino stremenzito sparò alto la frusta, fece «aah!» per coprire di sua voce quell’alterco. 
«Ve senteno,» ammonì senza volgersi, con un tentato bisbiglio che gli riuscì granuloso di catarro: e di ciò intimidì più che mai. Teneva gli occhi a la strada, oltre le punte delle orecchie del cavallo che gli servivano quasi di mirino, se pur doppio: perché si sentiva, al brucio, quelli der brigadiere su la coppa, occhi ed orecchi. 
Il cavalluccio, a ogni nuovo sparo, faceva del suo meglio per parer impegnarsi nel trotto, che durava pochi passi arzillo, e poi si allentava. Le ragazze tacquero. 
La Lavinia, finalmente, piangeva: la sua bellezza, la sua protervia, affrante: così esperta dell’orgoglio di amare: anzi, d’essere cercata per amore. Il giovine che le aveva rigalato l’anello, quela pietra tutta luce che pareva sublimata dal ranùncolo, dove era? dove era, er su’ regazzo, a quell’ora? Un tascapane a tracolla, un cortello in tasca: un guizzo, un ciuffo di capelli chiari nel vento, come una manata di stoppa che non patisce pettine: dopo averla così tradita e spregiata, a lei, povera (e il pianto, quasi, era dolce), p’annà fino ar casello de Casal Bruciato a mette l’ori da la stronza. 
«Da questa che me sta scallanno la coscia.» 
Oh, Iginio. Li carabinieri l’aveveno agguantato pe la sciarpa, ma lui, sverto, gli era però sgusciato di mano. Quela pistolaccia che manco s’insegnava de sparà la teneva pe difesa: e adesso, come nun bastasse, l’aveva pure anniscosta, l’aveva sotterrata. Manco male. Sotterrata nun c’è più. N’affare! Giusto pe faje pijà paura a la contessa. Er berretto? Bah! Ce l’aveva in quer giubbotto a sacco. La giustizzia, no, nun poteva carcerallo tre anni pe via d’una sciarpa verde e ‘n berretto, e d’una vecchia pistola mezz’arrugginita. Er cortello... Madonna Santa! co quello aveva fatto male a daie, a na sposa... a casa sua, si è propio vero ch’era stato lui. E un sudor diaccio, un brivido di ribrezzo e d’angoscia la riprendeva ora all’idea, orrenda. E si asciugava col cencetto fradicio le gote, gli occhi. Er maresciallo grosso de Marino, e si detergeva il nasetto, come ce l’aveva fatta, a capì? a induvinà ogni cosa? 
Pe via de la sciarpa, va be’: ma la sciarpa nun parla. E che a lei l’anello co quela pietra gialla je l’aveva dato Igì, questo, poi, come aveva fatto a sapello? così de punto in bianco? E che lei e Igì s’ereno promessi tre giorni avanti, dopo quasi un anno che se parlaveno, sicché l’anello era stato lui, propio, che je l’aveva avvitato pe forza sur deto? «Che, nun è forse mio quest’anello? E tu, che, nun sei mia?» aveva detto e l’aveva baciata con una rabbia!... da fa paura, a momenti. Ma er maresciallo, poi, come aveva fatto a indovinacce? Boh! Possibile che stava anniscosto dietro a un arbero, dietro a ‘na fratta, là, propio, indove s’ereno detti de sì? O che je l’avesse ariccontato quarcuno che l’aveva visti? Che Igì l’avesse detto in giro, p’avvantasse come fanno l’ommini? (e il cuore le sussultò nell’orgoglio). Embè nu je conveniva manco a lui de parlà tanto. E poi nun era tipo che je piaceva de parlà, più che nu e bu nun c’era caso che je sortisse, da quela boca, da quela faccia cattiva. Allora? Na compagna der labboratorio. Ereno in tre, omai, a cucì da la Zamira: lei, se po di ogni giorno: Camilla e Clelia, magara, un giorno sì un giorno no. Camilla, de certo, nun doveva avé fiatato, co quela coscienza sporca d’avé ricettato la merce, co tutti l’ori e le pietre: piuttosto che parlà sarebbe stato mejo che se fussi buttata sott’ar treno. Clelia? A Clelia queli stangoni de carabbinieri je piaceveno: je pareveno tanti diavoli tosti, da poté ballà co tutti quanti e di de sì a uno ar mese, era chiaro: se n’accorgeveno puro li ciechi. Ma da fa la ciovetta co li militari a tradì un’amica, una compagna der labboratorio! «O è magara un’altra bucia porca de questo, e sbirciò il Pestalozzi che arrancava sulla sua musica, de sto piemontese der diavolo, che j’aritìntica de passà maresciallo a tutti li costi? No: Clelia manco se lo imaginava de poté fa la spia. Scarpinava, p’aritrovà un po’ de minestra la sera, e un lettino, fino a Santa Rita Invitàcolo: troppo lontano, stava, e in luogo troppo aperto. Rincasava ch’era buio. E poi, e poi che? Se rischia pure quarche cosa. Se Igì, pe fa un’irpotesi, se Igì fusse venuto a sapello, che la spia fusse lei! Era capace de guastaje l’ossa.» E rammentava in una specie di sonnolenza appena rischiarata da lampi, in un sussulto del sangue, nel battere che faceva il sangue agli orecchi, rammentò che la moto der maresciallo quelo grosso la udivano sparacchiare un po’ per tutto lungo strada e stradina, e fremere ai passaggi chiusi indispettita in un corruccio, fino al Torraccio, fino al Ponte, fino a Santa Palomba dove sono i pali della radio, e quarche volta, sì, fino a Santa Rita in Vitàcolo. 
Ma questo che vor dì? Lui er dovere suo era quello, era de girà in motocicletta giorno e notte, p’annà a visità li suoi poveri, a sentì come staveno... li polli sui: pe questo portava li galloni doppi d’argento. «Nun cià che quela fantasia de scappà tutto er giorno co la moto, se po dì: e a festa fatta se corca: e fa sonà la radio: e cià sette donne che la senteno, ortre lui.» 
Le spie non gli mancavano di certo, conchiuse nel torpore della mente e dei sensi, donde era già evaporata Santa Rita. Il maresciallo, dalle confidenze raccattate il giorno avanti, era secondo lei pervenuto ad estrarre (sognava ora) come qualmente certo Retalli Enea detto Iginio s’era fidanzato alla bellissima Lavinia dalla quale, con le infinite promesse e una faccia da far paura, certe volte, aveva ottenuto degli anticipi. «Degli anticipi?» «Sì, quarche carta,» rispondeva la spia senza volto ma di sesso con ogni sicurtà femminino, dato che portava scialle e gonnella, «e soprattutto...: nun me facci parlà de ste cose, ce lo sa mejo de me, sor maresciallo.» L’anello, era lui, Retalli Enea, che lo aveva dato a questa Lavinia bellissima in uno strano momento, come chi parta: stringendola a sé, baciandola furiosamente sulla bocca, sugli occhi. O forse, diceva ancora quell’apparizione senza volto, ed esalando parola non umana, per disfarsi d’un ninnolo troppo rischioso da portare addosso, in quei frangenti, e con l’intenzione di riprenderlo un giorno, quando avesse avuto zampa libera. «Ma da dove l’hai veduti?» 
«L’ho veduti,» rispondeva la fantasima della strada solitaria, «l’ho veduti da quela casa rosa che se viene dar Torraccio, indove che vado a fa quarche servizzio ‘gni tanto.» «Ma se tu eri dentro casa, e loro... loro se la sbrojaveno de fori in un sentiero. No, il conto non torna.» «Sor marescià, l’ho veduti dar finestrino.» «Da che finestrino?» «Dar finestrino der gabinetto»: e la mente, a Lavinia, le si perdeva: le immagini reali si deformavano, filtrate in uno stanco e tuttavia chiaroveggente sopore. «Vorrei che ciannasse. È un gabinetto, quello, che dellà se vede tutto: le motociclette, li vignaroli che lavoreno soli, e li carretti, li somari...» «E che facevi ar gabinetto?» «Sor marescià!» Lui le prendeva allora la mano. «Me lo garantisci?» «Je lo posso giurà, stia tranquillo!» diceva allora, e non si capiva con che labbri, quel pauroso manichino: sul quale era stato avvolto uno scialle, appesa una gonna. Regazza, era: e pe faccia un ovale come l’ovo de legno da rinnaccià le carzette. Il topazio era apparso due dì prima sull’anulare di Lavinia (il destro) fra lo stupore di tutte, «ammàppete! e che ciài sur dito?», alle cui domande, alle cui esortazioni, «e diccelo!», ella aveva spianato i sopraccigli, «sete curiose, sete!», e aveva arzato le spalle, indispettita, arrossendo poi quasi compiaciuta d’una lode o d’una espressione, fin troppo chiara, d’invidia. «Nun fallo troppo vede, Lavì,» aveva ammonito la Zamira, «co tutti sti mosconi che ciavemo attorno, de sti giorni, a crompà da fumà.» 
Il Pestalozzi aveva tesoreggiato, quella mattina, oltreché gli ordini, anche codesta ipotesi del superiore diretto, l’anello di fidanzamento! e, beninteso, il doppio elenco dei funzionari di Roma, come li chiamava nei momenti di distacco. Il superiore s’era ben guardato dal dirgli «me l’hanno riferito»: s’era limitato a formulare delle ipotesi, poche e limpide: l’una più ragionevole dell’altra. Lui si trovava ora, strada sgranocchiando, a dover integrare una di quelle ipotesi, la fidanzamentale topaziesca, alla luce delle nuove oltreché imprevedute risultanze. Il topazio, alla Mattonari Lavinia, e va be’, «ammettiamo che glie lo aveva dato il Retalli.» Ma perché e come tutto il resto era andato invece alla patata, alla 
Mattonari Camilla? Forse un pegno? Non tanto d’amore, forse, quanto, a idea, d’un qualche prestituccio di danaro, del quale era sempre in bisogno? «Più che il lavoro del disoccupato... un’altra occupazione non è certo buono a trovarla,» ideò brutalmente, da quel sociologo che credeva d’essere, -da quel carabiniere che era. «E poi, e poi, nella fretta del tagliar la corda!» anche questo aveva ipotizzato il maresciallo. Doveva aver tagliato la mattina prima: di certo s’era buttato a campagna. O si fosse, invece, diretto a Roma su le strade? Come lo sapeva il maresciallo, che il Retalli aveva preso aria quel giorno? Loro avevano parlato la sera, in caserma, quando lui, Pestalozzi, era tornato in moto ch’era vicina mezzanotte. Mah! La sapeva lunga, il maresciallo, aveva pedine dappertutto. Un fiuto! Un naso! Arrivasse anche lui, Pestalozzi, ad avercelo, col tempo, un naso di quella classe! «Vediamo,» rimuginava fra sé, gli occhi a terra, dimenticando le due quaglie, «vediamo bene. È il momento di passar l’esame, Guerrino: in gamba, Guerrino. Se ragioni bene, e da dritto, è la volta che ti piove argento sulla manica. Sarai trasferito, questo sì: a Gerace... Marina è probabile. Da Orta è un po’ più lontano di Marino... Laziale: ma dicono, giurano, che tira aria buona anche là: e poi ci sono i fichi: e i fichi d’India. Bah! Siamo fatti per girar l’Italia. Vediamo. Ragioniamo.» E arrancava. L’immagine di quella campagna così desolata nel marzo, che con il ristare di scirocco e delle raminghe sue piove, dal lido, ora, approdava in una chiarìa tersa ai Castelli, a le case degli umani, lo fascinò ad un tratto come apparita di magia: i cubi e i diedri delle case la coronavano al sommo, i cenobi, le torri. Una landa per i miraggi della solitudine, un attimo. Ma in alto, avanti a lui, i popolati paesi, il tramme: lungo la via consolare. Dietro, sapeva, le argille sgrondavano verso la duna gli sferzanti piovaschi: ivi la paura: i chiusi orizzonti dei valloncelli, le loro stanche marane, la mota rossiccia dove infoltisce il canneto dal color verde freddo, gelo senza riparo. A ora a ora un torracchio, impreveduto, sulla groppa del tumulo, a scrutare e a riconoscere chi da molti mesi non passa, oggi sì: col tetto d’un piovente solo, come un berretto sugli occhi, i muri abbruciati dalla state senza scampo, scialbati dalle brode di libeccio. Rasciugati dalla solitudine. Il casello ferroviario dove poco prima avevano copiosamente raccolto, ideò il brigadiere in bicicletta, aveva potuto offrire al Retalli Enea detto Iginio lo scampo e il riparo, quand’anche solo d’un minuto, per la prima tappa d’una fuga tutt’altro che impossibile. Lungo le vie maggiori, come l’Appia o come la strada anziate, c’era sorveglianza: agenti motociclisti: pattuglie, forse, d’altre stazioni di carabinieri: e poi il via vai dei barocci dipinti rossi che discendevano o andavano, in quei giorni, coi barili del n’uovo di cui erano caricati a giogaia: (chi li rimirasse da un fianco). E ortolani, di mattina prima, e portatori di ricotte sui loro ciuchi dall’allegro sonàgliolo: e camion, di tanto in tanto, tutti strapazzati dal fango e dalla piova della notte, coi loro grossi autisti nella cabina come timonieri dietro il vetro, il giubbotto d’incerato nero impermeabile, il faccione rossograppa, nel bavero di pel di volpe: quelli che vedono bene chi fa strada, anche se pare che non guardino. Quelli, oramai, tutti i giornali, coi due delitti, li avevan letti. Posando invece anche un momento solo al casello, Iginio poteva poi raggiungere Casal Bruciato, superare o no l’ardeatina, svignarsela non veduto sotto gli spalti d’arenaria che fanno la sicurezza invisibile di Ardea, e fanno, al dio caprigno e luperco, l’antro e il ricetto: o in divergente ipotesi arrivare in ogni modo sulla Roma-Napoli a Santa Palomba Stazione: come un bracciante in cerca di lavoro, ad attendere il treno, il più povero dei treni, un «diretto», dei due soli che vi fermano. Oppure... dubitò infine il Pestalozzi raddoppiando i corni al dilemma, se non aveva fiato e se non aveva soldi pel treno, buttarsi a la campagna verso la Solforata e la macchia grande del principe, in direzione di Pratica di Mare. Di là uscire al lido: e per tappe, mendicando pane a le capanne, ridursi ad Ostia... o filarsela ad Anzio. Chi lo pescava più? già. Ma il treno per andare a Roma non lo poteva invece aver preso? E i soldi, a lo sportello? Chi glie li poteva aver dati, i soldi?... Lavinia?... E la Camilla no? Era più facile che glie li avesse dati la brutta. 
Così almanaccando s’avvide alfine della strada: erano quasi all’anziate. Concluse dunque tenendo aperti tutti i dubbi: era il suo esame da maresciallo, quello: in caserma sarebbe venuto fuori il coccodè. Ma lo spirito, o il demonio, della «ricostruzione dei fatti» gli martellava nelle tempie. Il Retalli... ecco perché aveva lasciato la refurtiva al Casello. Era un posto... a cui nessuno, e forse neppure il maresciallo Santarella, sarebbe stato capace di pensare: c’era la fidanzata brutta, al casello: brutta e sicura. E la campagna, intorno, deserta. Alla fuga doveva essersi risoluto là per là, dopo aver colto al volo una parola, nei ragionari della gente, o letto un titolo, d’un giornale che leggevano. Le gioie... no, non le poteva lasciar a casa. (Poche ore dopo che «si era reso latitante» gli avevano perquisito la casa.) Glie le avrebbero trovate. Sarebbe stata la prova, la galera. Portarle addosso era, quando l’avessero fermato, non meno pericoloso che averle chiuse in un cassetto. Ecco, allora. Per scappare, per tenersi alla larga, ci volevan soldi: per il treno, poi! la Camilla, forse, ne disponeva, glie ne poteva dare: ghe ne podeva dà... con po d’ moneda: e a lasciarle in pegno quel po’ po’ di zaffiri e di topacci, li avrebbe dati senz’altro. 
Ma se la Camilla piagnucolava d’esser povera? Il cervello del brigadiere si smarrì. Ogni ipotesi, ogni deduzione, per ben congegnata che fosse, risultava offrire un punto debole, come una rete che si smaglia. E il pesciolino... addio! Il pesciolino della «ricostruzione impeccabile». Il Retalli, in un genere più losco, doveva funzionare come quel biondo là della Ines, come il Ganimede Lanciani, ch’era stato il dio biondo e invisibile dell’interrogatorio a Santo Stefano: e in questo racimolo alquanto vizzo la cupidità della cerca si racchetò. Ganimede era nominativo più facilmente schedabile, negli archivi di memoria, che non invece Diomede. 
Le ragazze, sul calesse, parevano di nuovo in litigio: seguitavano, infatti, a scambiarsi vituperi a mezza voce: con degli zigomi da diavole, da streghe isteriche: ma il sopravvento pareva averlo lei, ancora, la più furente negli occhi, la più spregiosa nei labbri, la più bella. Incuriosito da morire il severo Pestalozzi orecchiava, non udiva: il cigolio delle molle, il cro cro della bicicletta sua propria, qualche sparacchiata ammissione del culetto del cavallo in tiro, non gli permettevano d’assaporare quel diverbio, altrettanto concitato nelle apparenze quant’era di fatto, nella realtà: senza computare gli scoppi disturbatori della frusta, e gli aaah! del vetturino citrullissimo, che pareva ogni volta ridestarsi di colpo, dal suo letargo di guidatore, per metter fuori la voce, inutile affatto: dacché il cavallo, povera creatura, più di quel tanto non poteva andare, né il suo gentil culetto sparare. No, non udiva, il brigadiere.  
«Perché ne hai quattro sul libbretto,» udì tutt’a un tratto, e mise piede a terra, «solo pe questo, racchia come sei, Igì se la passà p’er fidanzato tuo. Va’, va’: che sei de quelle, tu, che si vonno un giovenotto se l’hanno da crompà co li sordi.» E sputò, scavalcando col proietto le ginocchia imbellì del vetturino, il quale fece aaah! ma inutilmente, perché in ritardo di fase: e poi perché il cavalluccio era fermo e già piazzato a gambe larghe, per una impreveduta (a lui padrone) occorrenza. Il viso del brigadiere si distese, l’anima gli si racconsolò. 
«Sì,» gridò Lavinia inviperita, «eri stufa de daje sordi. E siccome eri stufa, da tanti che je n’avevi dati, lui pensò je lascio questi, pe garanzia. Pe du mila lire je l’hai compre, me l’hai detto tu stessa.» 
«Buciarda, strega svergognata, si è propio ch’hai da fa la spia, hai da dì la verità, perché de le spie buggiarone come sei te nun se ne fanno gnente nessuno, e tanto meno quelli che le pagheno.» «Olà, ragazze,» fece il Pestalozzi, risentito del minimo rispetto che sembravano avergli le cugine Mattonari: «che vi piglia, ora? Litigherete in caserma. Il maresciallo sarà incantato di sentirvi cantare tutt’e due insieme: vi lascerà litigare fino a mezzanotte e mezza, state certe. Una volta in pollaio avrete voglia a beccarvi. Adesso basta. Piantatela.» Dalle parti sue dicono difatti adesso, adess, in luogo di ora. E altrettanto a Roma. così l’alterco delle due furie si smorzò, vanì, come tuono che si raccheta fuggendo, sui labbri meravigliosi di Lavinia. Il Farafilio, a piedi, sopraggiungeva accaldato, acceso in volto, eccetto le chiazze color caciotta che gli dealbavano, come per una cresima tardiva, le mandibole: appena sopra il collo. Si tirava dietro, con qualche difficoltà nella salita, quel palloncello così court-vêtu, così scoperto alle bizze d’equinozio, da far pensare proprio alla vecchia tiritera, del reggimento cresimato (nonché battezzato) dal fuoco. 

Le bon vieux grenadier qui revenait des Flandres... était si court-vêtu qu’on lui voyait son tendre... 

Il cavallo, intanto, aveva finito di ricomporsi: e un aaah definitivo lo rimise in tiro e in lavoro, prima che il bravo milite arrivasse a conoscere la causale della sosta: che di lontano era potuta sembrare un’attesa, prescritta al vetturino dalla benignità del superiore, e dunque un atto di clemenza e di totale condono usato a lui Farafilio, a lui proprio. Adocchiato invece l’ippurico laghetto, e annasata la vaporazione dolciastra e ancor tepida che ne promanava, manifestò nell’erubescente pelle del collo e delle zone ad hoc della faccia la sua riprovazione, il suo sdegno. Quella stazioncella cavallina era natura scostumata ad averla chiesta, ma una frustataccia avrebbe potuto fors’anco evitarla: c’erano due donne!  
10. 
  
  

Nelle stesse ore del mattino di quello stesso giorno, mercoledì 23 marzo, risultate vane le ricerche dell’Enea Retalli detto Iginio al Torraccio, dove abitava, allorché vi abitava, il maresciallo Santarella cavalier Fabrizio era a percorrere sulla sua motocicletta la via provinciale da Marino ad Albano, così stupendamente alberata, o fiancheggiata d’alberi, dei giardini e dei parchi di cui si affoltisce la collina. Marzo ne trova ignudi o laceri una parte, gli olmi, i platani, le querci: altri hanno fronda verde a San Biagio, a San Lucio: i pini italici, i lecci, l’amistà serena e pressoché domestica, in villa, del lauro, di cui altrove è redimito l’accademico e in qualche caso il poeta. Da più d’una indicazione e d’un indizio v’era motivo a credere, o almeno a non escludere, che il ricercato giovanotto avesse preso (a un incirca) verso la Pavona e il Palazzo, discendendovi per le stradicce e i sentieri, quando le strade propriamente dette gli paressero a loro modo insicure. Aveva anche lui un milite sul retrosella, il bravo maresciallo, e armato, a non dire impacciato, di moschetto. Rinvoltate in una mèlode non più che vagamente indiziaria le sette sillabe dell’innografo del Touring, il pensiero gli correva dietro al fugitivo che con qualche vantaggio su di lui ne aveva utilizzato il romantico «via!» procedendo oramai a gran passi oltre i confini dello «stato di irreperibilità». Quella frase, quell’incitamento, il maresciallo-diavolo se l’andava canticchiando così fra naso e bocca, ne agganciava il ritmo baldanzoso (e altrettanto supposito) allo sparacchiare del motore. Di due militi della stazione di Castello aveva chiesto il rinforzo alla stessa, per manovella, e sapendoli provveduti di macchina, vale a dire bicicletta, li aveva comandati alla Pavona. 
Tutt’altra, invece, e d’un diverso vivere e di più folto popolo e popoluccio gremita, d’altri topònimi inscritta, d’altri nomi insigne, fra i ruderi augusti e il grigiore umbertino delle case a cinque piani, e il rotolare alquanto impedito e però campanellante dei tram, era l’ambienza operativa del Biondone: il campo del lavoro e dell’ozio, del dopolavoro e del lavoro dopo, ove si esplicavano la di lui tecnica ciondolona e distratta (a dargli retta), bighellante, smicciante a caso, ammusante a ghiribizzo, a capriccio, e la fortunata sagacia del perdigiorno urbano che si lascia guidare dal tacere d’ogni ipotesi e d’ogni disgiunzione, come la sonnambula su la grondaia; lui invece nel pieno agitarsi e nell’imbattersi incessante che le genti fanno, andando lor via: dopo i bar, i magazzini di ciavatte, le rivendite di soda e di saponi, lungo le cancellate dei giardini con oblique palme al di là, gialle, strapazzate nel verno, affaticate sotto cielo alido, oltre l’ora mutevole, dai tridui certissimi della tramontana. Le fontane, la basilica di Santa Marìa della Neve, e gli archi e i fòrnici ne le mura superstiti, i cubi di peperino e d’arenaria: memori di Tullio e Gallieno e di Liberio papa fra gl’inviti delle callarostare dalle nere dita sul fornello, dal volto serio e affumato tutto grinze al commercio, e il non-invito del tassista di turno, imbacuccato là nel suo confessionale di vetro: del quale automedonte potrebbesi anche dire che attende (una chiamata, un ordine) se gentil ronfare non lo portasse omai a la deriva, lontan lontano da ogni meno consapevole attendere. 
Dopo la cantata larga e, più, dopo l’aria di chiusura della Ines, circa la benedizzione che la campana di Santa Maria Maggiore avea largito al furtarello di Ascanio, «sto pupo me lo vedo io domatina», s’era detto il Biondone: e avea liberato all’uscita quelo sbadigliaccio che gli si aggirava pe la gola da du ore, come un leone in gabbia, e subbito subbito vi avea posto riparo con la mano, dacché il dottor Fumi gli si rivolse: «chisto guaglione ci hai penzà tu. Fatte na passeggiata a l’Esquilino, e poi a via Carlo Alberto, vacce un po’ tu, che di sicuro a piazza Vittorio ‘o pizzichi, là, doppo chilli faraglioni che ce stanno.» Ingravallo aveva assentito, cupo: ci sarebbe ito lui, se non avesse avuto di meglio: e di meglio aveva: «L’hai da pescà senza meno. La ragazza è stata esplicita.» 
L’indomani alle dieci esatte il Biondone era in loco (dopo aver dato una giratina fra i palmizi): è l’ora che le donne sogliono provvedere a mercato, in vista non solo della cena, quanto anzitutto del pranzo alle cure loro imminente: l’ora delle mozzarelle, dei formaggi, delle vermìfughe cipolle, e dei cardi, sotto la neve pazientemente ibernanti, degli odori, delle insalatine prime, dell’abbacchio. Gente che venneveno la porchetta su le bancarelle de piazza, quela mattina, ce n’era na tribbù. Da San Giuseppe in poi è la staggione sua, se po dì. Col timo e co li fiocchetti de rosmarino, e l’agli nun ne parlamo, e il contorno o il ripieno de patate co l’erbetta pesta. Ma il Biondo, a capo ciondoloni, si lasciò condurre tra i berci e le arance rosse dal suo dinoccolato ottimismo, sufolando in sordina, o atteggiandovi appena appena le labbra, tacendo a un tratto, levando un occhio in qua in là, come a caso. Oppure sostava chiotto chiotto, la lobbia giù a metà fronte, le mani in tasca, la gobba infreddolita sotto pastrano chiaro fresconcello, aperto, e dietro i due polsi cadente, da parer coda di marsina. Era un pastranuccio di mezza stagione fasulla, che tirava al peloso, e al morbido, e riusciva liso in più punti: contribuiva a definir l’immagine d’un bellimbusto assonnato, in cerca d’una cicca da poté fumà. Involtato nel turbine degli inviti e degli incitamenti alla compera e in tutte le conclamazioni di quella festa formaggia, trascorse piano piano davanti le bancarelle abbacchiare, oltrepassò carote e castagne e attigue montagnole di bianco-azzurrini finocchi, baffosetti, nunzi rotondissimi d’Ariete: ivi insomma tutta la repubblica erbaria, dove alla gara dei costi e delle profferte i novelli sedani già tenevano il campo: e l’odore delle bruciate in sul chiudere pareva, da pochi fornelli superstiti, l’odore stesso de l’inverno fuggitivo. Su molti banchi gialleggiavano, oramai senza tempo e senza più stagione, le arance in piramidi, noci, nelle ceste, susine di Provenza nere, lustrate col catrame, susine di California: alla cui sola veduta gli rampollava acquolina dal retrobocca, al Deviti. Sopraffatto dalle voci e dai gridi, dalla stridula comminatoria di tutte le venditrici sindacate, pervenne alfine al reame antico ed eterno di Tullo e di Anco, ove adagiate sul tagliere prone o più raramente supine, o addormitesi di lato, a volte, le porchette dalla pelle d’oro esibivano i lor visceri di rosmarino e di timo, o un nòdulo i qua e là verde-nero dentro la carne pallida e tenera, una foglia di menta amara pigiatavi a guisa di lardello con un gran di pepe, che la grida elaudava nel bailamme: «nuova ghiandoletta prestata loro a cucina, e ad altro mercato e ad altre fiere non saputa.» Non gli riuscì difficile ivi, dato l’ottimismo in poppa che lo andava sospingendo fra il vorticar delle femmine, oberate di reti colme o di sporta, fronzute di broccoli, non gli fu difficile ravvisare dalla descrizione della Ines, e già da qualche passo lontano il tipetto, il gentil trombetto che faceva proprio al caso suo. Era un dritto, dietro la bancarella, con du occhi! il contrario, in quel momento, della paura e della timidezza che aveva decantato la Ines, e con la zazzera fitta fitta e straunta tutta da una banda: insieme a la nonna, stava. A la cima, ricaduti un poco su la fronte, i fili dei capelli s’erano arricciolati come insalatina dopo il capriccioso ritocco del pettine, o come il rotolo d’una lama di maretta allorché la ribolle un attimo prima d’impigliarsi a recedere, e abbandona infine la rena. Una parannanza bianca lo affagottava un tantino e tramente strillava stava a affilà li cortelli, uno lungo uno corto, e intanto lo guardava a lui, ar Biondone, ma senza dà segno de vedello: quer capoccione bionno scuro, co quaa lobbia de cavadenti specialista che je scegneva fino sur grugno, je s’era piazzato avanti a debbita distanza co le mano in saccoccia: era desicuro uno che ciaveva la fantasia de magnà la porca, ma si nun teneva li sordi, povero micco, poteva puro morì da la voja. «La porca, la porca! Ciavemo la porchetta, signori! la bella porca de l’Ariccia co un bosco de rosmarino in de la panza! Co le patatine de staggione!» (la staggione se la sognava lui, erano le patate vecchie-fatte a pezzi, tutte puntolini di prezzemolo, inficiate nella grascia della porca). «Patatine de staggione, sori cavajeri e consijeri, sore spose mie belle! che so’ mmejo che l’ova toste pe l’insalata. Mejo dell’ova de li capponi so’, ste patate. Voo dico io. Assaggiatele!» Posava un attimo da riprender fiato. E poi, a scoppio: Uno e novanta l’etto, la porca! È ‘na miseria, signori! robba da fa vergogna, signori! a chi venne e a chi crompa! Uno e novanta l’etto! più meio fatto che detto. Famese avanti co li baiocchi a la mano, sore spose! Chi nun magna nun guadagna. «Uno e novanta l’etto, la porca! Carne fina e dilicata, pe li signori propio! Assaggiatela e proverete, v’ ‘o dico io, sòre spose: carne fina e saporita! Chi prova ciariprova, er guadambio è tutto vostro. La bella porca de li Castelli! L’emo portata a balia a la macchia: a la macchia de Galloro, l’emo portata, a mmagnà la ghiandola de l’imperatore Calìgula! la ghiandola der principe Colonna! Der gran principe de Marino e d’Albano! ch’ha vinto tutti li peggio turchi pe mare e pe terra a la gran battaja de Lévati da li piedi! Che ar domo de Marino ce stanno ancora le bandiere! co la mezzaluna de li turchi, ce stanno! La bella porca, signori! porchetta arrosto cor rosmarino! e co le patate de staggione!»: e dandosi requie dopo la strillata, a parte fatta anche l’attor tragico posa, ripigliò serio serio a affilà li cortelli. Ma doppo du bòtte a li cortelli ebbe un ritorno di fiamma: un sussulto lo scosse. Fu il deflagrare d’una ulteriore variazione, o tale parve all’agente. Ad occhi bassi: «Provatela, signori, assaggiatela! P’uno e novanta l’etto ve fate na magnata de porca, che vostra moie v’aringrazzia!» Poi, a una belloccia, discendendo di tono: «Che volete, bella pupa?,» la pupa a quel tono d’autorità non poté comprimere le risa, «na mezza libbra de’ porchetta?» E sottovoce a lei, ma con un’occhiata a lo squattrinato cavadenti: «A voi ve do er meio boccone, v’ ‘o giuro! Me piacete troppo! Sete troppo bona! Un bocconcino arrostito apposta pe voi, co du patate!» Poi di nuovo, eternamente berciando e con occhi al cielo stavolta e con delle gote da buccinatore senza senso: Fàmese a crompà la porca, signori! «Fàmese a caccià li sordi, ch’è la vorta bona, signori! ch’è na vergogna lassalla qua sur banco che a momenti aripiove, che cioo so che ce n’avete un sacco in saccoccia, de baiocchi. Fama annà via la migragna, signori! La porca è vostra, si è che cacciate li baiocchi.» 
La nonna, ora, si nonna era, ciurmandola di bilancia alegra e di chiacchiera, dava ogni sodisfazione alla rubiconda servotta. E lui: «Uno e novanta l’etto! La porca d’oro, la porca!» Ma intanto quer cavadenti d’un Biondone t’oo seguitava a guardà, dopo aver buttato indietro er copricapo, scoperta dunque la fronte, che apparve tutta fiammeggiata di una stoppa irta e rubella, tra il biondo, giusto, e il castano. Gli si erano rizzati ai fianchi du figuri, du tipi de pizzichini un ber po’ più scuri de lui, uno de qua uno de là, come i silenti gendarmi che Pulcinella percepisce dopo un po’, in uno sgomento improvviso ma ritardato sull’azione. Sicché quello, er maschietto, a poco a poco, «signori signori, uno e novanta l’etto, la porca la porca, sì, sì, la porca, ho capito!» pareva dire a se stesso, ma abbassava la voce sempre de più, «a por-ca», sillabò esangue, «‘a por...» e quel po’ di fiato gli smoriva nella gola: come la luce sempre più querula e falba dì un moccolaccio quanno che sbava cera e se strugge tutto, in un lago de puzza, co un codino fritto ner mezzo. Con addosso queli fanaloni, che tutt’a un tratto s’ereno mortipricati pe tre. Sicché, capirete: quanno capì si de che gente se trattava, era troppo tardi pe squaiassela. Posò li cortelli sur banco, susurrò a la nonna «me vonno»: già se slegava la parannanza. Je tremaveno le gambe. Je toccò fa bella cera ar Biondone, che senza fasse vede aveva sfoderato na carta, na tessera, e je diceva a mezza voce nell’atto che je lo stava a regge sotto l’occhi, quer ber talismano: 
«Hai da venì un momento in questura: si stai zitto nessuno se n’accorge! Questi so’ du aggenti in borghese, ma si preferisci t’accompagno io, senza disturballi a venì de scorta. Sei Lanciani, Lanciani Ascanio, si nun me sbajo.» Je toccò, sicché, pe nun fa storie, piantà porchetta e cortelli, e lassaje tutto a la zia... a la nonna: era là, dura, impalata, co un occhio pieno d’inquietudine a la folla, che trascorreva distratta. Aveva ordine di accompagnarlo in questura, le notificò in breve il Biondone, ed esibì una seconda volta la carta: «Lanciani Ascanio,» soggiunse. La nonna, la padrona der negozzio, una contadina di mezza età, nera ancora di capelli e molto più secca, nel volto legnoso e rugoso, di quanto avrebbe dovuto comportare quel commercio, appariva incerta sull’atteggiamento da prendere: costernata no, ma contrariata: «sto fijo nun ha né peccato né corpa,« disse: »perché lo vonno portà via?» Richiestane a mezza voce dal Biondo, disse il proprio nome e il cognome, la dimora, gli mostrò la patente per il banco. Aggiunse, quand’anche senza entusiasmo, d’essere una zia giovine della mamma di Ascanio. Il Biondo scribacchiò su di un foglietto quei dati co un pezzetto de làpise, rintascò. Pareveno tre cuggini a discorrere: nessuno gli badava. Di Grottaferrata, ereno, concedé a malincuore la nonna: comune di Grottaferrata, na frazzione che se chiamava er Torraccio, dopo le Frattocchie: ma da otto anni ereno venuti a sta a Roma, sì, fori de Porta Latina, in mezzo a l’erbaggi ‘se po dì, una strada de campagna che c’è appena un cartello che c’è scritto via Popolonia, «e lì ce stanno l’ortolani dentro a le baracche. Lì stemo noi, prima de la ferrovia: che de qua,» fece il gesto, «se scegne giù tra le canne fino a la marana de la Caffarella.» 
«Una baracchetta in mezzo a li broccoli: e tratanto coltivamo li carciofoli.» Ascanio stava a dormì co loro. Lo teneveno pe carità, in cambio d’un po’ d’aiuto su la piazza. Il padre... be’ il padre: il fratello era disoccupato da du mesi. «Nun ne sapemo più gnente!» Ascanio... cercavano d’aiutarlo, quel figliolo, «seconno le possibilità che ciavemo.» E lasciò che lo seguisse, mogio mogio, dietro assicurazione che glie lo avrebbe ricondotto più tardi. Desiderosi a lor volta d’evitar scene, oltreché al cliente a se stessi, i due angeli di pelo scuro che s’erano dilungati dal negozio attendevano più là: il ragazzo, sbiancato nel volto dopo tanti strilli, fece il giro del banco, e a lato al cugino li raggiunse. Era la grande arte del Biondo: co la testa a pennolone, avanzando di spalla tra la folla, intruppava come per caso nel tipo, nel suo tipo: «Chissivede! be’? che fai de bello da ste parte?» (Sottovoce): «Stai a tinticà er culo a le serve, o er portafojo all’ommini? Si ar taschino j’è cascato er bottone, affare fatto: di’ la verità.» Poi, perentorio: «Annamo, te vo er commissario: t’ha da dì una cosa.» Lo prendeva sottobraccio, guardando a terra, come dovesse fargli na proposta seria. 
Uscirono da la confusione verso via Mamiani o via Ricasoli: c’era un passaggio tra le bancarelle de li pesciaroli e de li pollaroli, indove che vènneno li calamari e li totani e tutte le qualità d’inguille e d’aguglie che stanno a mare, nun parlamo de l’arselle. Il tipetto, e lui stesso il Biondone, sguardarono a quelle polpe molli d’un argento-chiaro madreperla de li calamari (così delicatamente brunito nelle venature interne), annasarono senza pur volerlo odor d’alighe marine da tutto il fresco umidore, quel senso di cielo e di libertà cloro-bromo-jodica, di mattina viva alle darsene, quella promessa d’argento fritto nel piatto per la fame che già chiamava dal profondo. Rotoli di trippe lesse l’un sull’altro come tappeti arrotolati, gentili anatomie di capretti spellati, rosso bianche, il codonzolo appuntito, ma terminato nel ciuffetto, a significarne in modo veridico la nobiltà: «pe quattro lire v’oo do tutto», diceva l’abbacchiaro presentandolo a mezz’aria, tutto cioè mezzo: e i bianchi cespi de la lattuga romana, o insalatine ricciolute tutte riccioli verdi, polli vivi coi loro occhi che smicciano da un lato solo e vedono, ognuno, un quarto del mondo, galline vive chiotte chiotte stipate nelle loro gabbie, o nere o belghe o padovane avorio-paglia, peperoni secchi gialloverdi, rossoverdi, che al mirarli solo ti pizzicavano la lingua, ti mettevano in salive la bocca: e poi noci, noci di Sorrento, nocciuole di Vignanello, e castagne a mucchi. Addio, addio. Le donne, le polpute massaie: lo scialle scuro, o verde erba, una spilla da balia co la punta aperta, ahi! da pinzar la poppa alla vicina d’un attimo: così fan tutte. Polponi semoventi, esse ambulavano a fatica da uno spaccio e da un ombrellaccio al successivo, dai sèlleri ai fichi secchi: si rivolvevano, si strofinavano i rispettivi gregori l’uno all’altro, annaspavano ad aprirsi il passo, con borse ricolme, soffocavano, boccheggiavano, grasse carpie in una piscina-trappola dove l’acqua a poco a poco decèda, stipate, strizzate, intrappolate a vite con tutta la lor ciccia nei vortici della gran fiera magnara.  
  
Don Ciccio, intanto, neppur lui non aveva perso tempo. Rincasato a mezzanotte emmezzo, «lunedì ventuno marzo Benedetto da Norcia», enunciò l’appeso al chiodo calendario (l’omaggio di fin d’anno der pastarellaro dirimpetto) col foglio di due dì prima che la sora Margherita s’era scordata di togliere. Un gocciolone di metallo fuso, il tocco, dall’orologio di Santa Maria della Neve. Si coricò, s’addormì, russò pesantemente, rinviata ogni deduzione al mattino. Quando il trillo iracondo si sganciò tutt’a un tratto nel silenzio della casa addormentata, erompendo inatteso da quel pataccone della sveglia semovente sul marmo (del tavolino) ad annunziare le nuove grane del giorno, ecco, due picchi ad uscio della padrona, discreti, autenticarono l’ammonimento furioso dell’imbecillissimo: non ostante il gran desiderio ch’aviva, dint’a ‘o cervello, di rivoltarsi dall’altra parte e di seguitare a dormire, lo tirarono in piedi alle sei. 
Scivolava di culo duro e soleva cader di sponda dal letto, tatùm, come un contadino, sui, calcagni. Tarchiato, e membruto delle gambe, che apparivano villose dal ginocchio in giù, data la camicia di flanella giallo-paglia a righine rosse parallele che lo addobbava nottetempo, soleva ripentirsi ipso facto, ancor prima d’averlo apprezzato a mente sveglia, del tonfo: che risonava pel piancito, nonostante quaa tigna d’ ‘o scendiletto, e ne annunciava la levata attivistica al nevrastenico ingegnere del piano sotto, col ridestarlo di colpo. Neppur la tramontana della notte, al rincasare, né una volta a letto il celere vento dei sogni, erano pervenuti a potergli arruffare il parruccone di pel d’agnello: nero, picco, riccioluto e compatto: che a ririsplendere nella nova luce, checché ne opinasse il Pestalozzi, non domandava brillantina. Le gambe nocchiute, la porzione in vista, emettevano anzi sagittavano perpendicolari alla superficie della pelle i lor peli, neri anche quelli, saturati d’elettrico: come linee di forza d’un campo newtoniano o coulombiano. A occhi ancora chiusi, o quasi, infilò le ciabattazze: che parevano attenderlo come due bestiole accucciate. sul parquet: attenderne i piedi, ognuna il proprio. Si stiracchiò, da parere un guappo in ripresa di coscienza, sbadigliò a catena otto o nove volte, fino a sconnettere, o quasi, le pur potenti mandibole. Conchiudeva ogni volta in un o-àm! che pareva definitivo e non era, tant’è vero che riprinciava subbito, subito dopo. Lacrimò del sinistro, poi del destro, adagio adagio, strizzati l’uno dopo l’altro dai consecutivi sbadigli, come le due metà d’un limone successivamente utilizzate dall’ostricaro. Se diede na grattatina in testa una ripassatina de tre ogne sull’occipite-jungla, zìn zìn zìn, da paré na scimia: e col fare automatico della sonnambula si diresse ar bagno. 
Ivi approdato, e rinchiuso l’uscio col nottolino, poté finalmente alleviarsi nel modo più radicale ed espedito di quella molesta sensazione di trop-plein che notifica ogni mattina, ad ogni per quanto elastica e giovenile vescica, il subito risveglio del proprietario. 
Ciò che contribuì, con marzolino spiffero dalla finestra mal chiusa, cioè mal chiudibile, a snebbiargli del tutto la capoccia, per quanto si trattasse d’una bava di scirocco. Si sfilò la camicia, ancora tutta tepida e del letto e del sonno, l’appese a ‘n gancio: donde la rimirò pendere vuota, immacolata, la pelle notturna di sé medesimo. Albeggiava. Di Marsia, dopo avere così mal cantato nel sonno, gli parve essere uscito fuora in Apollo. Un Apollo non più ventenne, un tantino pelosetto. Si rigrattò il testone, si appressò alla vaschetta, e dato libero corso alle linfe s’insaponò il naso e la faccia, il collo e le orecchie. Sgrullò il parruccone sotto il rubinetto alto del lavabo, con quei soffi e quele strombate de naso, come di foca venuta a galla dopo le sue giravolte sott’acqua, ch’ereno ‘gni mattina, dar bagno «occupato», l’indizio indefettibile delle di lui laute abluzioni. Un dolce orgasmo, dall’altra parte dell’uscio che il catenaccino precludeva, una delicata formidine, solevano in quei momenti impadronirsi della gentile ospite signora Margherita: Margherita Celli vedova del commendator Antonini: no no no non affittacamere, ohibò: una signora distintissima, cognata di Sua Eccellenza Barlani, il presidente Pier Calumèro Barlani: presidente, no... sì... non ricordava di che cosa: erano già diversi anni ch’era mancato puro lui, poveretto: un infisèmo pormonare con sopporazione setticìmicia: era lui, se po dì, er sostegno de tutta la famija. Ella annullava l’eternità del corridoio a piastrelle e relativo olezzo (pipì di gatta e petrolio) con traslazioni silenti, alate d’improbabilità e di miracolo, che parevano celebrarsi in un campo gravidico smesso e oramai addirittura inoperante, quasi d’uno scalamitato magnete. Trascorreva così fino alla cucina e alle cùccume per passettini fluidissimi, che la lunga vestaglia di flanella rosa veniva sottraendo l’uno dopo l’altro alla percezione altrui: e ne residuava in corridoio, come uno strascico ritardatario, l’idea proprio della continuità nel senso infinitesimale del termine. La qual fluenza e levità di fantàsima che rabbrividisce in ovatte, se pur devota ai lacrimati mani del defunto, «il mio Gaspare», si applicava (per vero) a non turbare in alcun modo le successioni strofiche del rito ablutorio, e disingorgativo delle nasali canne ad un tempo, cui era solito abbandonarsi don Ciccio. In un suo rivitalizzato batticuore di ospite, no non affittacamere, oh no, con impercetti rossori di cresimanda, ella si addava allora pe tutta casa alle prime sollecitudini del giorno: che davan frutto, a levata appena di letto, anzitutto d’un caffelatte canonico, già predisposto la sera: er celebre caffelatte doppio d’ ‘a sora Margherita: pazzia bell’e bona, e deprecata da ognuna, in primo luogo da tutte le casigliane affittacamere, oh quelle sì affittacamere! Sì. «Pover’omo,» diceva lei, «pure a diggiuno l’ho da mannà fino a Santo Stefeno.» Si guardava bene dall’aggiungere «del Cacco», nella tema, forse, di deragliare anche dal Cacco. Devotamente oblato su d’un vassoio di peltro, il caffè in una cùccuma di non si sa che rame o che stagno, in un bricco con via il manico il latte, lo zucchero in un disoccupato vaso del peptone, un cilindrino tutto unto, appiè la caffettieruzza di cul basso piattini, con crostoncini brustolati e ricciolini di butirri, l’ingrognato sor dottò lasselo fa, gni matina ce se buttava sopra com’un bufalo: co ‘a scusa de la prescia cro cro cro, in un botto era sparito tutto, fino il piatto. Quaa matina poi manco parlanne, mercordì ventitré marzo, er giorno de San Benedetto zappatore, stanno ar calendario, «e co quel pàtema della pover’anima in corpo,» la signora Celli si fece il segno de la croce, «ora et labora pro nobis,» margheritò. «Patèma,» grugnì don Ciccio offesissimo con la zuppa in bocca: «e il pro nobis ce lo attacca lei.» Lo prese uno strangullone, si fe’ paonazzo nel volto: le briciole nella trachea, si sentiva soffocare: a momenti sparava tutto dal naso, carbonchioli e caffelatte. «Patèma, patèma,» gorgheggiò l’offerente, «che? nun è la stessa cosa? Lei è tropp’istruito, sor dottò: me pare ‘n maestro de scola.» E intanto gli batté due colpi su le spalle, da donna pratica, e quasi da sorella, hélas!, amorevolmente soccorritrice: lei, che s’era dovuta specializzare nei picchi: (sul duro legno dell’uscio). Il sor dottò si rasciugò la bocca, si alzò. Aveva già brigato la mattina avanti, e poi a notte prima di lasciar l’ufficio, la macchina: per telefono, sulle navette del flusso, e per diretta visita a chi poteva dargliela e chiacchiera: e ancora pe telefono, all’undici de sera, ne stava intrattenendo il vice questore Pantanella commendator Amabile: gli aveva soffiato in un orecchio, al pover’omo, assai vento: con assai grandine di corrucciati elettroni: aveva arzato la voce come parlasse a ‘n turco: (era sordo, l’Amabbile). L’automobbile? Sissignore, ne aveva già fatto richiesta. Sì. L’aveva già domandata! 
E l’aveva, cosa incredibile, ottenuta: da ‘o collega suo, ‘o commissario capo d’ ‘a politica. Il quale, prevedendo ‘na giornata fiacca, bah, due o tre eja avanzati dal dì prima, gli aveva mollato la milledue d’ ‘oo collegamento P, seppure a malincuore, e dandosi di grand’arie d’avergli usato no speciale favore, na finezza rara «pecché site vuje, don Ciccio, aggio capito... Ingravallo»: come a lasciar intendere che s’aspettava un giorno il concambio. Ad altro non l’avrebbe usata, la finezza: no, «manco p’ ‘a capa». Una ciabatta d’una macchina, da aver vergogna andarci. Sganghenata e sfiancata, du fojacci de bandone pe parafanghi ripitturati de nero cor pennello, tutti a onde, a bozze dond’era poi caduta la vernice, che sventolaveno e traballaveno appena se moveva come du foje de broccolo fori da la sporta mezzo vota de la serva: co no sportello che nun voleva uprisse, e na manija che nun ce la faceva a tené chiuso quell’artro: un vetro che nun s’arzava, e ‘n fanale sfasciato: sicché puro guercia, era; li fascioni aridotti come scarpe vecchie, con tanti bubboni de fora che pareveno l’ernia anguinale. Ed era stata, illis temporibus! la rispettabile automobbile del Questore di Roma. Caduta a mano alla ghega nell’immediato dopomarcia, e subito sputtanata in proporzione ai tempi, e agli eventi, e all’istruzione de quelli signorini che aveva menato a spasso de carriera, diceva omai per non ambigue note di sé, del proprio stato di servizzio. Dentro, lo si intuiva, lo si annasava, ci doveveno aver bevuto e ttrincato, masticato mortadella, pitturato i labbri d’Olévano, «a m l’è bon chel Lambroesk chè, al va giò ch’al par on oli» «sè, ad rècin,» fumato popolari, starnutato, scaracchiato, vomitato l’Olévano e la mortadella. 
Così che tutti, ora, in quella macchina, politica o non politica, v’introducevano il capo a contraggenio e uno scarpino peritoso dopo il capo, l’altro stivale ancora a terra, e un occhio suspicante e ispettivo, e narici ad atto del pari: quasi d’un tal vischio ne potessero fumar fuori vapori, congiuntivamente all’odore, pallori di lèmuri di più d’un morticino de tre mesi, col codonzolo tutto arrotolato a spira, e il testoncello di ciuccio. Cauti, accigliati, inquieti. L’idea che fosse residuata al drappo (de’ sedili) qualche deiezione organica delle più popolarmente note ossedeva ora ogni utente: rendeva pavidi i più guardinghi, e guardinghi gli sconsiderati e avventati, se pur c’erano. Titubavan tutti pu poco (poco poco), trepidando, ognuno, del proprio retrospetto decoro, cioè decoro del fondo: dei propri pantaloni: quei così dignitosi pantaloni pagati a rate, mese a mese, per trattenute sul trattamento, a furia di tirar la cinghia ai medesimi. Una volta appesa a quer fonno, beh, se sa, ogni meno meritata patacca ne suol maculare il lucore, come le più reputate macchie di padre Secchi le rotondità luminose della fotosfera. 
E aviva pure ottenuto de fa benzina, Ingravallo, bussa e striscia, e poi, tutt’a un tratto, pàc, la napoletana secca, li fregò quanti ce steveno: fece ‘n pieno d’arrivà in gita a Benevento. Tre agenti armati, due di moschetto: non però lo Sgranfia, comandato a la pensione Burgess, e nemmeno er Biondone, comandato a Piazza Vittorio Manuele: ma invece tutto bello secco a baffi ritti il maresciallo Di Pietrantonio, che fa quattro: e lui, Ingravallo, cinque: e sei lo sciaffèr, non ancora autista nel ventisette. Sicché nun ve dico quaa locomotiva. La barcaccia de piazza de Spagna che va a spasso. Filò come poteva, co li budelli che abbottaveno, benché molli molli, e ar primo sasso che intrupparono ciaveveno già voja de schioppà: la frizione faceva caràche a ogni svorta de strada, a ‘gni cane che se metteva davanti. A via Giovanni Lanza, in riparazione, tangheggiò e rollò ne le pozze pe più de cento metri, schizzò melma ne le gambe ai passanti anche se camminaveno sur marciapiede: lastre, paraboliche di fango liquido, opalescente contro le luci rosa del mattino che pure andava rabbuiando: sprofondò, riemerse che sembrò pitturata de fresco: un ber bagno color nocciola, avea fatto. A largo Brancaccio, mentre che staveno svortando in via Merulana verso piazza San Giovanni, Ingravallo si volse, cupo, alla sua sinistra: calò il vetro, Santa Maria Maggiore, dai tre fornici oscuri della loggia sopra il nartèce pareva seguire, con l’affiato della carità di sua plebe, una bara che le fosse uscita dai visceri. Enunciazione disegnata ed estxutta ad arte sulla sommità di quello che doveva essere stato, nei lontani secoli il «monte», il Viminale, l’architettura, secentesca della basilica, come d’una dimora fastosa del, pensiero, aveva sue radici nell’ombra, nella oscurità della diritta via discendente e nell’intrico di tutti i rami: un accenno, il campanile a cuspide, al di là del groviglio dei rami e delle alberature che la fiancheggiavano. Ma sul mattone di quel torroncello romanico si apprestava il cielo agli addobbi. Don Ciccio sporse il capo, tentò levar gli occhi alle nuvole, per il pronostico del giorno. Tutte le nuvole si vedevan correre: una fuga di cavalle; traversavano il listone chiaro, a momenti azzurro, del cielo, tra le due grondaie parallele: si avventavano nun se sa dove, solerte coorte. I platani e i rami della Merulana furon selva, allo svoltare, intrico, per lo sguardo, sul discendere parallelo dei fili, di cui si alimentavano i tramme: ancora scheletriti nel marzo, con di già un languore in pelle in pelle, tuttavia, na specie de prurito per entro la chiarità lieta e stradale della lor còrtica, fatta di scaglie e di pezze: corame secco, vacchetta bianca, argento: la sottoveste color buccia di pisello tenero, tra il via vai della gente, l’andirivieni dei carri, de le biciclette. Ed emerso allora dalla ramaglia, e già risveglio a un suggerimento di porpora, il campanile «del nono secolo» sembrò intiepidirsi nel raggio: e risvegliare, di quel tepore, i bronzi assopiti, e a momenti indi officianti. Intrappolata dentro il suo gabbione, la campana grossa de li scolari principiò dondolare a sua volta, dagio adagio, con un fremito quasi inavvertito in sulle prime, con un rombo tuttavia sospeso nei cieli, come d’un’ala metallica. L’onda si dilatava lieta sui penzieri, sui terrazzi, ne vibravano i vetri chiusi delle case, ogni più addormita finestra. Una vecchia nonna su la canofiena, che prendesse ritmicamente l’ajre: e grattugiava fuori il suo susurro dolce e un tantino acquoso a ogni nuova spinta, e non si sa di che ghitarra: da chiamar Luciani e Marie Maddalenine alle classi, con giù le trecce. 
Dove, difatti, poco dopo ce correveno, c’un pacco de vocabbolari: e quarcuni anche di già: e a piedi, e in tramme, si è che ciaveveno li sordi: o soli, o a frotte, come tanti branchetti di passeri, di passerette: dopo d’essersi sciugate in fretta in fretta l’orecchie, e magari lavatele un tantinello: sì, l’orecchie: organo indispensabile d’ogni alunnato. Vrùn, vrùn, vrùn, vrùn! La vecchia, su la canofiena sua, quer segnale de calabrone a pendolo t’ ‘oo mollava con tutto er core, a ogni corpo de tutto culo che je dava, da poté pijà la spinta in avanti. E mano a mano si faceva più corposo ogni volta, l’ammonimento, enfatizzandosi l’àire, magnificandosi l’onda: benché lei, la nonna, te lo sgranava fuori un po’ in sordina: da non resuscitare troppo malamente le cocchine, le Nannine o gli scarruffati Romoletti: che d’un fregnetto d’uno svegliarino in trilli tutto rabbia avrebbero patito scarlattina, poveri cocchi! Una dolcezza ner core a sentilla, vecchia nonna! Quella perorante cautela avvicinava il male per gradi, in una modulazione sommessa: no, non l’olio: il male del ridestarsi a conoscere: a riconoscere e a rivivere la verità d’ogni giorno: cioè che subito dopo l’acqua fredda ce sta la scola che aspetta, cor maestro cor quattro pronto. Lei, la nonna de tutti, scopriva di sua carezza lenta le testoline, i riccioli neri alle pupe, ai pupi: ne dischiudeva le parpebre appena appena, ritraendone, con il candido lembo della cotonata, il velo dei sogni fuggitivi. Ce durava na mezz’ora a cresce, dagio adagio, e n’antra mezz’ora a piantalla. Discendeva, poco a poco, al suo racchettato silenzio. Ch’era quello degli uffici e dei compiti al loro inizio, dei geloni sulle aste. Cor gran ritratto de Quer Tale appeso al muro: un grugno, perch’era nato scemo. 
de volé vendicasse de tutti.  
  
Alcune facce incuriosite, di due o tre dinoccolati con le mani in tasca, e con tre bocche aperte sotto l’indagare nero degli sguardi, accolsero e poi circondarono a Marino la macchina «de la polizzia romana» quando la strombazzò due volte poh! poh! davanti al portone della rocca. Nel riquadro d’una finestretta ad alto, dietro grata rugginosa, la faccia d’un giovane apparve, con due stellette sul collo grigio di tela, una di qua una di là. Disparve. Alcuni minuti: e i battenti si aprivano. La volonterosa e bernoccoluta 1200, dopo di gran caràche e marce indietro e svolte avanti, con più sussulti, e certi sobbalzi che nemmeno si sarebbero sperati da lei, la infilò finalmente quell’arco di trionfo, per meritare il quale aveva divorato la campagna. Ed era stata, la via della rocca, una via stretta in ascesa, tutta selci compatte, tra muri speronati che teneva l’ombra e i licheni chiazzavano, sul peperino vecchio, di strane gore e coccarde, verdeazzurro, giallo. Il selciato scivoloso. Una lastra al cantone: via Massimo Dazzélio. Ingravallo uscì dall’auto, imitato dai seguaci. Disse il milite: «Il signor maresciallo è in servizio di ricerca e di perlustrazione, il brigadiere è stato comandato alli Due Santi: per l’affare del dilitto.» Un altro intanto sopravvenne. più elevato in grado o più anziano, dopo una battuta non sùbita e piuttosto molla dei tacchi (erano della questura, quei signori) e una levata ad alto del volto di cui si enunciò esplicito e più elegante l’attenti, porse a Ingravallo una busta azzurrina che, lacerata, generò, pregato in quattro, un foglio. Il Santarella, ivi, comunicava d’aver mandato il Pestalozzi dalla Pàcori, accompagnato da un milite, per ulteriori accertamenti: lui, con un altro, era fuori a seguitar le peste dell’Enea latitante, detto Iginio, che così chiamavano il Retalli. Aveva qualche speranza di raggiungerlo, vale a dire di chiapparlo e di poterlo ammanettare e tradurre ammanettato in caserma: non tuttavia la certezza. Ingravallo, alquanto contrariato, si tolse il cappello, da lasciar traspirare un poco la capoccia, strizzò i denti: due duri gnocchi sulle due mandibole, a metà strada dalle orecchie, gli fecero sotto il riccioluto parruccone una specie de muso de bulldogghe, già illustrato più volte. I du carabinieri non se ne impressionarono affatto. I carabinieri in tempo di pace, e in tutti i tempi le monache, sanno cavare dalle rispettive discipline quella perdurante fermezza che li fa indenni dai sobbalzi della cronaca se non addirittura dai terremoti della storia, della quale cronaca o storia, vada come vada, glie ne importa tanto quanto può meritare una cronaca o, peggio, una storia: e cioè un fico secco. «Sapete se la Crocchiapani Assunta,» domandò Ingravallo, «di cui a mia comunicazione del 20, è già stata interrogata a domicilio?» 
«No, signor commissario.» 
«E perché? Sapite addò sta? Conoscete la località, voglio dire?» 
«A Tor di Gheppio, ha detto il maresciallo.» 
«Quanto tempo ci vuole p’annà fin là?» 
«Co la macchina, signor commissario, una quarantina di minuti... e neanche.» 
«Be’ cominciamo da chella parte. Andiamo.» 
L’appuntato fece chiamare un tizio, che doveva esser pratico di quella zona: un ometto secco, dal vestito nero come il vestito d’Ingravallo. Lo accolsero a bordo. Per arrivare a districar dal cortile della rocca la macchina, a culo indietro e in curva stretta e in salita, da inagugliarsi poi nel toboga del Dazzélio a marcia avanti, occorsero più caràche, in senso inverso ai descritti. Ingravallo, nero, seguitava a strizzare i mascelloni: gli cigolavano i denti. Malediceva mentalmente alle gomme, ai fascioni, ai fascisti. Se avesse bucato, che ffigura! con quello a bordo! Tutta la legione avrebbe riso pe trent’anni. La macchina d’ ‘a questura de Roma: con una gomma erniosa che fa fi-i, sul più bello, e cara grazia se la non si è ribaltata giù da un ponte. Ma la macchina andò: andava. Filava contro vento, con radi chicchi di pioggia ai cristalli: con dei sussulti impreveduti a certe zane, a certe cunette non ancora verbalizzate dal Touring. Ulivi, e le lor fronde d’argento cenere, tuttavia poco si scotevano: imperlati dalla piova della notte, o al primo sole rasciutti, e’ dicevano la continuità chiara dell’anno di già pubere, di già tribolato in Ariete, odoroso d’un po’ di stabbio ne le vigne, ne la bruna terra dei dossi, dei clivi. Trasvolava sopra i frumenti o i prativi appena erbiti la nuvola: e una subita paura era in loro, quasi di rispegnere nel verno: a quell’ombra veloce e pur temuta sembravano senza soccorso adattarsi, raggelare disperando. Ma l’ala di scirocco tutt’al contrario, falba, e tepida, nell’umidore scialbo del giorno: più che fiato di vitello a la stalla. Il tempo, a dolco, dava gli auspici del grano, de la battaglia del grano e del granone e de le impennate del Somaro se ne strafotteva. Una brinata a fine marzo, pensò Ingravallo, poteva rovesciare Dio non lo volesse il presagio: gli ottanta milioni di quintali erano per discendere a trentotto. Il Mascellone Autarchico, per i suoi quarantaquattro milioni di... soggetti, sì, bei soggetti, doveva caricar frumento a Toronto, ch’erano francesi diventati inglesi al Canadà: mendicar maccheroni ai pellirosse. E Ingravallo strizzò e cigolò, dalla rabbia e dalla soddisfazione aggiuntate. Discesero al Torraccio, dove la sciroccata spegnendosi intepidiva: o ppareva. Svoltarono sull’Appia a li Due Santi, da doverla percorrere un buon chilometro a ritroso, cioè verso Roma, fino alla deviazione per Falcognana. Dopo un breve tratto di questa incontrarono l’anziate, e di nuovo svoltarono. Il vento cadde. Con la moto Guzzi del signor maresciallo Santarella, e con il motorizzato Pestalozzi, il carabiniere aveva dato per non improbabile o per quasi certo l’incontro: ma non li scontrarono per nulla. Un ciuccio, invece, carico di legni, e il relativo contadino sulla groppa, una mano alla coda: o un branchetto d’una quindicina di pecore, il pastore con l’ombrello verde, richiuso: il cane no, costa troppo. Un calesse: «è il veterinario di Albano,» avvertì l’ometto. Guidava calmo, rubizzo, una coda di toscano spenta nei labbri, con guantoni spelacchiati. Dopo un po’ più che due chilometri sulla strada anziate bisognò piegare a man destra: «di qui, di qui, per Santa Fumia,» disse l’ospite. Per il ponte di Santa Fumia verso Tor di Gheppio e poi verso il Casale Abbrusciato. La straducola motosa discendeva: poi si rassodò: le carreggiate si dilatarono a pozze, colme, controluce, d’acqua livida, piombo fuso celeste argento, ove nereggiò l’ala d’un tùffolo, o d’una spersa ghiandaia. Pareva l’avesse poco dopo a doversi smarrire nelle terre, nel sollo. Valicò invece il binario (della ferrovia di Velletri) a un passaggio, simile a quello ch’era due chilometri più a nord, presso il ponte del Divino Amore. Fili d’erba, tra le due rotaie, si ergevano qua e là dalla breccia, da una traversina all’altra (di rovere), quasi che la via ferrata non servisse più, dopo aver servito un anno a Pio Nono. Fumacchi pesavano ancora a mezz’aria, immobili, come rappresi da magìa: relitti d’una testé dissolta parvenza: bianchi, quasi ovatta, o d’un bianco irreale di vapore. La sagoma affumata del trenetto rimpicciniva in quel momento verso un arco lontano: accreditò di sé, del suo vanire, la fuga prospettica delle due rotaie convergenti: e somigliò il Nero Personaggio, e la garitta del vagone di coda il codònzolo, allorché ha licenza dalla incantatora e dispare con un sibilo a’ suoi portici, sotto nero archivolto, nel monte: e nel silenzio della campagna e nel muto stupire delle cose, d’un’impronta dì pié di capro è rimasto al sollo il sigillo, e poco solfo per l’aria. «Tor di Gheppio è là,» fece il volonteroso ometto indicando, «verso la masseria del Palazzo. La Crocchiapani abita là, in una de quelle case che vedete, il mucchietto a sinistra.» Emerso allora dalle ondulazioni di quella creta senza popolo, che le maggesi, a tratti, inverdivano, lo spigolo acuminato d’una torre si disegnò nel cielo come scheggia, d’un antico dente d’un’antica mascella del mondo. Le case dei viventi, mute nella lontananza dei coltivi, antistavano: ma un poco più di qua. Discesero. 
«E la Pavona, la stazione?» domandò Ingravallo. 
«Lu paese della Pavona è chillu,» indicò l’ospite ancora: «è là sotto, vede? chella è la stazzione. A traversà li prati, saranno venticinque minuti: e annà de bon passo. Ma se bagnamo tutti.» 
«E la Roma-Napoli?» 
«Là,» e si voltò: «so’ tre chilometri emmezzo puro quattro: nun c’è che d’annà avanti co la machina. Quanto ar ritorno, poi, si è che lei, dopo Tor der Gheppio, avete d’annà puro a la Pavona, alora potressimo scegne fino a Casal Bruciato: a imboccà l’ardeatina, appunto. Prennenno su quella ne la dirizione d’Ardea s’aritrovamo subbito, saranno du chilometri nemmanco, a Santa Palomba là dove ce stanno chelle antenne (le additò) che se vedeno dapertutto, fino da Marino. Là, si lei volete, s’incrocia su la strada de la Solforata e de Pratica de Mare: sicché, p’er Palazzo, potemo venì su diritti fino a la Pavona che in tutto, da Casal Bruciato, saranno sei chilometri o sette, a dì tanto. Co là machina una quindicina de minuti.« «E va buò,» disse Ingravallo, a cui quella toponomastica aveva procurato du strizzatine de mascelle: «a Tor di Gheppio, ora.» S’imbarcarono, andarono: al punto dove l’omino disse, dopo schizzate d’acqua e sobbalzi vari, discesero. Lasciarono la macchina col guidatore, che disceso lui pure se ne andava discostando un momento, per suo conto. S’incamminarono lungo il sentiero che adiva diritto e non eccessivamente melmoso le tre case. Procedevano in fila detta indiana uno dopo l’altro, l’agente scerto Runzato avanti a tutti, poi Di Pìetrantonio, poi Don Ciccio co le due mani dentro a le saccocce der pastrano: e parvero un collegio di necrofori, così neri neri nel chiarore aperto del giorno, che andassero a prendere il morto: e un po’ di malavoglia, anche. «La Crocchiapani, chella stupida, ci ha già sentito arrivà,» pensò Ingravallo, «e ce sta spianno ‘e sicuro.» Difatti, come si arrivò di poi ad accertare, li osservava di finestra, dietro l’ante accostate, ove il romore dell’automobile l’aveva indotta a portarsi. Quando Ingravallo sollevò la faccia e Runzato fischiò e poi gridò: «polizzia! dovemo entrà. Venite a uprì,» la casa, la prima e più piccola, aveva un agente pe cantone. Ragazzi, polli, du donne, du cagnoletti bastardi cor codino arrotolato in alto, a pastorale, che je scopriva tutta la bellezza: non finivano più di guardare, d’abbaiare. Occhi lucidi, neri: stupiti su la meraviglia dei volti, e la povertà pressoché cenciosa delle vesti. «Chi ce sta?» chiese prudentemente Di Pietrantonio: «quanti so’? Ce so’ ommini?» «Ce sta una donna, cor padre,» fece la più prossima delle contadine, che s’erano accostate quasi a recuperare i figlioli, o una gallina più pericolante. Questa, della Tina Crocchiapani, era una piccola casa quadrata, un po’ disgiunta dal branco: una porticina chiusa, col numero civico 3, a piano terra. Davanti alla soglia alcuni piastroni di selce alquanto incavati dal passo e dalle scarpe, dai chiodi. Nessuna voce, dentro. Opachi, sonnolenti anni, dopo il rosa della scialbatura inaugurale avevano conferito ai muri uno squalore dilavato, e, dalla parte di tramontana, cupa ruggine, ombre: ch’era il canto a cui erano prima pervenuti quei signori. Nelle gronde non avea canala né parato alcuno di legno, detto mantovana: per modo che i tegoli, in sul contorno, gli pareva a Don Ciccio di vederli mozzi, o raffigurati in sezione: e facevano come una pieghettatura ondulata lungo il margine del tetto, un rustico ornato. Qualche fil d’erba dal po’ di terriccio che s’era qua e là deposto sui tegoli, àuspice il vento. Stillava una qualche goccia, alla subita caduta iridandosi, dagli embrici divenuti neri negli anni: e precipitava pesantemente come fosse stata mercurio, a ferire ancora, a penetrare, torno torno, la compattezza bagnata della terra. Una finestra si uprì, la si richiuse: schecchereccarono le dissennate galline. Troppo lenti i pioventi, o informi, parevano discendere a onda: s’erano ammollati delle piogge e di poi di nuovo cotti e quasi enfiati nell’ardore: imputavano d’insicura arte i maestri: o era torto il tronco, nel solaio, che la durava da trave. A idea, sotto il terroso insistere di quella copertura avrebbe dovuto cedere, un bel giorno, e sfasciarsi e stiantare in un subisso tutto il fracidume dell’ordito: o volar via tutto il tetto, anzi, a una soffiata di libeccio, come un cenciaccio non appena lo ha coscritto la raffica. L’ante di legno, a le finestrine, una a chiudere, una a sbattere: senza pittura che pur fosse e di già putride o di già scheggiate nel tempo, nel vaporare eguale degli anni. In luogo d’un vetro carta unta, a un telaio, o un rugginoso ritaglio di bandone. 
La porticina si dischiuse. Quando fu aperta al tutto Ingravallo si trovò di faccia... un viso, un par d’occhi! nella penombra lustravano: la Tina Crocchiapani! «È issa, è issa,» meditò non senza un batticuore composito: la stupenda serva dei Balducci, con lampi neri sotto le ciglia nerissime dove la luce albana s’impigliava, si diffrangeva iridandosi (la tovaglia bianca, spinaci) dai capelli avviluppati neri su la fronte quasi ad opera del Sanzio, dalle azzurre, ai lobi e sulle guance, dondolanti scioccaje: con quel seno! a che il Foscolo avrebbe conferito diploma di sen colmo, in un accesso trubadorico-mandrillo, di quelli che lo hanno fatto immortale in Brianza. A cena dai Balducci, dalla signora Liliana! Il campo della dea nera e silente, per lei, ch’era stata così crudelmente separata dalle cose, dalle luci e dalle parvenze del mondo! E costei, costei era quella, quella (il sentiero del tempo si smarriva) che al presentargli sull’ovale ampio e mal proclive del piatto tutto il cosciotto, tutto il rognoneggiante sincretismo di una portata di capretto, o d’abbacchio a pezzi che fosse, avea lasciato rotolare sul candore tra gli argenti e i cristalli, d’un calice, o no, d’un bicchiere, il batuffolo di spinaci: avendone, dalla signora Liliana, quel richiamo accorato d’uno sguardo, d’un nome: «Assunta!» La Tina, col suo volto come altra volta severo, un po’ pallido, ma con un’inflessione di smarrimento negli occhi, lo guardò tuttavia fieramente, gli parve si riprendesse: due scuri lampi le pupille, di nuovo, lucide nell’ombra, nell’odore di casa chiusa dell’andito. «Signor dottò,» fece, con uno sforzo: e stava per aggiungere dell’altro. Ma Di Pietrantonio la sgomentò, se pur lo avesse già notato di finestra, dopo l’agente che figurava condurre tutta la fila dei cappotti. Alto, e senza parole, questurinesco nei baffi, non era dunque la punizione paventata? comminata dalla legge? Ma di qual reato o di qual colpa, argomentò tra sé, ufficialmente, la potevano punire? D’aver sollecitato troppi doni, e d’averli avuti, dalla signora Liliana? 
«Signor commissario Incravalli, che è?» 
«Chi ce sta in casa vostra?» le domandò Ingravallo, duro: duro quanto gli richiedeva d’essere, in quel momento, l’«altro» suo animo: a cui Liliana gli sembrò rivolgersi disperatamente chiamandolo, dal suo mare d’ombra: con lo stanco volto sbiancato, l’occhio dilatato nel terrore, fermo, per sempre, sui baleni atroci del coltello. «Fate passare, ho da vedé chi ce sta.» 
«Ce sta mi’ padre, sor dottò, che sta male: sta tanto male, poveretto!» e ansimava leggermente nello sdegno, bellissima, pallida. «A momenti me more.» 
«E poi, dopo vostro padre, chi c’è?» 
«Nessuno, sor dottò Incravalli: chi è che cià da esse? m’ ‘o dica lei, si lo sa. C’è una donna de qui, de Tor de Gheppio, che m’aiuta a stà intorno ar malato... si è che non vi‚ quarche vicina, de chelle ch’avrete visto de fori.» 
«Chi è, come si chiama?» 
La Tina pensò un poco. «È la Veronica, la Migliarini. Noi, qua, la chiamamo la 
Veronica.» 
«Fate passare, in ogni modo. Andiamo. Su. Devo far perquisire la casa.» E la scrutò nel volto, con l’occhio fermo e crudele di colui che vuole smascherare l’inganno. «Perquisire?»: la Tina corrugò la fronte: l’ira le sbiancò l’occhio, il volto, quasi ad un oltraggio imprevisto. «Hé, perquisire: perquisire.» E scostandola s’inoltrò nel buio verso la scaluccia di legno. La ragazza lo seguì, Di Pietrantonio dopo lei. Gli venne l’idea, là per là, che l’assassino di Liliana, oltre all’aver avuto dalla Tina indicazioni per lui utili, «indispensabili anzi: che dico, utili?» potesse aver affidato i gioielli a lei stessa: «...alla fidanzata?» Salivano. I gradini scricchiolarono. Tutt’attorno, fuori, la casa era guardata: tre agenti, a non contar l’ometto che li aveva guidati fino là. Quei due occhi, neri e furiosi della Tina, Ingravallo se li sentiva puntati sulla cuticagna: se ne sentiva trafiggere il collo. Cercava, cercava di tirar le somme a ragione: di tirare i fili, si sarebbe detto, all’inerte burattino del probabile. «Come non era volata a Roma, la ragazza? Non aveva sentito il dovere?»: questa era un’idea coatta, ormai, nel suo spirito atrocemente ferito: «almeno al funerale?... Non c’era né cuore né anima, dunque, in lei, dopo tanto bene ricevuto?» Era la contabilità dolorosa dell’umile, dell’ingenuo, forse. La notizia orribile, forse, non era pervenuta a Tor di Gheppio se non troppo tardi, e in quella solitudine... il terrore aveva paralizzato una donnàcola. Ma no, una donna! E le notizie volano anche nella giungla, nelle steppe dell’Africa. Per un cuore cristiano l’ispirazione sarebbe stata un’altra. Sebbene, il padre moribondo... 
Il legno della scala seguitò a crocchiare di più in più, sotto l’ascendente peso dei tre. Ingravallo, una volta in cima, pigiò sull’uscio, con una certa caritatevole prudenza. Entrò, seguito dalla Tina e dal Di Pietrantonio, in una grande stanza. Un lezzo, ivi, di panni sudici o di persone poco lavabili e poco lavate nel male, o sudate all’opere che la campagna, senza remissione, col novo tempo domanda: o anzi, in più, di feci male accantonate presso la degenza, cosi bisognosa di riparo. Due lunghi ceri pitturati nei colori vivi, blu rossi, oro, d’una tradizione coloristica non intermessa negli anni, pendevano a muro da due chiodi ai due lati d’un letto: l’olivo secco: un’oleografia, la Madonna blu con la corona d’oro, in una cornice nera di legno. Alcune seggiole di paglia. Un gatto di gesso, con un nastrino al collo, scarlatto, sul comò, fra bottiglie, scodelle. Accanto al male era seduta una vecchia, la gonna di rigatino a metà le tibie, con du scarpe de pezza senza lacci (e, dentro, li piedi) che teneva appoggiate sulla traversina della sedia, aperte a pantofola. Nel letto, ampio, sotto coperte lise e verdastre tegumentate in parte da una buona (e tepida, e chiara: dono di Liliana, argomentò Ingravallo) un corpiciattolo disteso, come un gatto secco in un sacco adagiato a terra: una faccia ossuta e cachettica posava nel cuscino, immota, d’un giallo-bruno da museo egizio: non fosse stato, invece, l’albore vetroso della barba, che ne denunciò la pertinenza a non egizio catalogo, a un’era della storia umana sciaguratamente prossima, e, per l’Ingravallo di quei giorni, addirittura attuale. Tutto tacque. Non si capiva s’era un vivo o s’era un morto: s’era un omo o una donna, cui nel procedere fra le consolazioni della prole e della zappa in un turbinio di zanzare verso le nozze d’oro, le fosse spuntata quella barba: maschia barba, come soleva dire, anche delle barbe femminili, il fondatore dell’impero quinquennale. I due ceri, de qua e de là, sembravano attendere di venire infitti in adeguati candelai, appicciati da un prospero che misericorde mano governasse. Insofferente ‘e chillo novo imbruoglio del genitore moribondo e tuttavia peritosa e pietosa, la immaginativa del dottor Ingravallo scalciò, sgroppò, galoppò, udì e vide: vedeva e già già liquidava la bara senza drappo, d’assi pioppo, rifiorita di pervinche e di primule, circonfusa dei brontolari assolutori o della subita insorgenza di qualche frase cantata, o magari nasicchiata alla meno peggio tra le mormorazioni delle donne e l’odor buono dell’incenso, erogabile (con cuidado) per parsimonioso dondolio del turibolo: a significare la gran paura avuta e il pentimento del morto, e l’implorazione e la speranza, tutt’attorno, dei vivi e superstiti, una volta chiusa e chiodata e ben martellata quella cassa: e insomma una certa serenità perzuasa in tutti i cuori, (mejo cusì che durà un antro mese a patire), nel mirare il legno, i fiori... fatti segno a le iterate spruzzatine dell’asperges: fra uno strusciar di suole e un cigolar di ferri sulle selci, ove ci fossero selci. Ma la realtà differiva ancora dal sogno: quelle immagini d’una pressoché delirante impazienza riguardavano il futuro, per quanto prossimo. Don Ciccio moderò il galoppo della smania, tirò le redini allo scalpitare della rabbia. Il degente, così risecco, appariva maturo per le somministrazioni postreme: l’eternità, medichessa infallante, era già china su di lui. Amorosa lo affisava (e alcuna saliva trangugiava) con lo sguardo soccorrevole e ghiotto di una crocerossina o di una infermiera un po’ necròfila: occupata a detergergli d’una carezza lieve la fronte con la più remorante sua mano: e con l’altra ed esperta, manovrando sotto le coltri e addirittura sotto il corpo fra l’osso sacro e la ciambella, aveva infine reperito il punto giusto ove potergli infilare il beccuccio, il cannòlo d’ebanite, per il serviziale della immunizzazione perpetua. 
Strani borborigmi, sotto coperta, contraddicevano al coma, e più stranamente alla morte: davano l’impressione d’una miracolosa imminenza: che le lenzuola e le coperte fossero in sul punto di bombarsi, di enfiarsi: di lievitare e di gravitare ad alto a mezz’aria, sulla gravità rattratta della morte. La vecchia, la Migliarini Veronica, si stava ingobbita sulla sedia, impietrata in una rimemorazione degli evi che s’erano viceversa dissolti nella non-memoria: teneva una mano in una mano, da parer Còsimo pater patriae nel cosiddetto ritratto del Pontormo: pelle secca di lucertola, in viso, e la immobilità rugosa di un fossile. Non c’era, in grembo, ma le ci voleva, lo scaldino di coccio. Alzò gli occhi, gelatinosi e vetrosi nel color bigio, senza che interrogassero alcuna di quelle che a lei dovevano apparire delle ombre, né la ragazza né gli uomini. La quiete spenta della sua guardata si opponeva all’evento, come la immemore memoria della terra, da lontananze paleontologiche: straniando quel volto di azteca centonovantenne dalle acquisizioni della specie, dalle ultime così fregolesche conquiste dell’occhieggiamento italiano. 
Una padella di maiolica, come d’una clinica di prima classe, era deposta sul pavimento di mattoni, e neppure vicino a la parete: e nemmeno era sprovvista d’un qualche indecifrato contenuto, sulla consistenza, colorazione, odore, viscosità e peso specifico del quale tanto lo sguardo di lince come il fiuto di segugio d’Ingravallo non ritennero essere il caso di dover indugiare ad analisi: il naso, beninteso, non potette esimersi dalle sue naturali prestazioni cioè da quell’attività o per più acconcio dire passività papillante che gli è propria, e non ammette, hélas, interludio alcuno da inibizione, o mancato ufficio di sorta. 
«È vostro padre?» fece don Ciccio a la Tina, guardandola, guardandosi all’intorno, e poi togliendosi il cappello. 
«Sor commissario, mo ‘o vedete com’è ridotto. Nun ce volevio crede: ciavete da crede, finarmente!» esclamò in tono risentito, e con occhi che parevano aver pianto, la bella. «Oramai nun ce spero più. È mejo pe lui e puro pe me, si me more. Patì a quer modo, e senza mezzi de denaro. Er sedere, parlanno co’ rispetto, è ridotto a na piaga sola, è ridotto: un macello, povero padre mio!» Cercava, pensò duramente Ingravallo, nel suo dolore cercava di valorizzare il papà, nonché il diretro guasto del papà. «E cià pure la ciambella de gomma,» sospirò, «che senza quella j’avrebbe fatto infezzione er decùbbito. Ancora stamane a le otto je faceva male, tanto male, diceva. Nun poteva stà dieci minuti, se po dì. Adesso nun se move da tre ore: nun dice na parola: me sa che nun patisce più, de gnente po più patire»: si rasciugò gli occhi, si soffiò il nasetto: «perché nun sente più gnente, oramai, né bene né male po sentì, povero padre... Er prete nun po esse qua prima dell’una, m’ha fatto dì. Ah, poveretti noi!» guardò Ingravallo, «si nun era la signora!» Quella battuta risonò vuota, lontana. Liliana: era un nome. Sembrò, a don Ciccio, che la ragazza si peritasse d’evocarlo. 
«Sicuro!» fece stancamente, «‘a ciambella!» e si rammentò degli sfoghi del Balducci. «O saccio, ‘o saccio, chi ve l’ha data: e pure chillo vaso,» e vi accennò col capo, col mento, «e la coperta pure,» guardò sul letto la coperta, «vell’ha dati... una ch’à avuto subbito ‘o compenso, p’ ‘a bontà sua. Nun far del bene, si nun è che vuoi avé mmale, dice ‘o proverbio. Cussì è. Nun parlate? Nun ricordate?» 
«Sor dottò, che m’ho da ricordà?» 
«Ricordatevi di chi v’ha tanto aiutato, mentre lo meritavate così poco.» 
«Sì, li signori dov’ero a servizzio: e perché nun me lo meritavo?» 
«I signori! La signora Liliana, potete dire! ché è stata sgozzata da un assassino!»: du occhi, fece, che la Tina impaurì, questa volta: «da un assassino,» ripeté, «del qua-le,» favellò curule, «aggio saputo il nome, il cognome!... e dove sta: e cosa fa...» La ragazza sbiancò, non disse a. 
«Fuori il nome!» urlò don Ciccio. «La polizzia lo conosce già chesto nome. Se lo dite subbito,» la voce divenne grave, suasiva: «è tanto di guadagnato anche pe vvoi.» 
«Sor dottò,» ripeté la Tina a prender tempo, esitante, «come j’ ‘o posso dì, che nun so gnente?» 
«Anche troppo lo sai, bugiarda,» urlò Ingravallo di nuovo, grugno a grugno. Di Pietrantonio allibì. «Sputa ‘o nome, chillo ca tieni cà: o t’ ‘o farà sputare ‘o brigadiere, in caserma, a Marino: ‘o brigadiere Pestalozzi.» 
«No, sor dottò, no, no, nun so’ stata io!» implorò allora la ragazza, simulando, forse, e in parte godendo, una paura di dovere: quella che nu poco sbianca il visetto, e tuttavia resiste a minacce. Una vitalità splendida, in lei, a lato il moribondo autore de’ suoi giorni, che avrebbero ad essere splendidi: una fede imperterrita negli enunciati di sue carni, ch’ella pareva scagliare audacemente all’offesa, in un subito corruccio, in un cipiglio: «No, nun so’ stata io!» Il grido incredibile bloccò il furore dell’ossesso. Egli non intese, là pe’ llà, ciò che la sua anima era in procinto d’intendere. Quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell’ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi. 
APPENDICE: 
C.E. GADDA: vita; profilo critico; bibliografia. 
  



La vita. 

Milano, l’infanzia, la guerra. 
Nasce a Milano il 14 novembre 1893, primo di tre figli con Clara ed Enrico. Il padre, un industriale idealista, gli leggeva il Porta prima di morire (1809); e morendo lasciava la moglie, insegnante di lettere, col peso di una villa da sostenere, a Longone al Segrino in Brianza, simbolo di uno stato sociale raggiunto, in realtà fonte di dissesto economico per la famiglia e, per Gadda, di ossessione nevrotica: non c’è che da leggere “La cognizione del dolore”. Chi conosce l’opera di Gadda sa come l’autobiografismo sia speculazione costante di tutta la sua opera, anche se spesso cautelato dalla finzione narrativa, appena sufficiente a distrarre il lettore meno avvisato. Un’ambigua tensione di timore e desiderio, di paura e necessità spinge lo scrittore a confessarsi per reticenze, a svelare o lasciare intuire le verità più segrete, le motivazioni più riposte dell’amore e dell’odio, gli oltraggi subiti. Ma di infanzia oltraggiata, di puerizia atterrita e di un’adolescenza ancor più dolorosa Gadda parla in più luoghi, stigmatizzando così tutta una società e una condizione con i suoi sistemi educativi. La madre e il parentame d’intorno lo spingono agli studi &ingegneria, più proficui, secondo loro, di quelli letterari, verso cui si sentiva portato. Abbandona gli studi classici, ma il rimpianto si coagula in un’affezione costante: nella memoria, per anni, settanta versi in greco del colloquio di Ettore e Andromaca alle porte scée; e il suo latino: soprattutto Orazio, e Virgilio, Catullo, Sallustio, Cesare. La grande guerra lo trova al fronte, tra gli alpini. L’esperienza tragica, ma sentita e vissuta come prova di autodisciplina e di dignità individuale e nazionale, è registrata nel “Giornale di guerra e prigionia”, non destinato alla stampa in un primo tempo (Anch’io come ogni combattente degno del nome ho una mia esperienza e una mia documentazione, chiuse però nel cassetto e consegnate alla dimenticanza). Quelle ore indimenticabili di sofferenza ma anche di compiuta immedesimazione etica e civile per lui, diventeranno materia dolente della sua opera: il caos, la retorica, i momenti esaltanti della guerra, la morte del fratello Enrico, la prigionia in Cellelager in provincia di Hannover, lo strazio del ritorno. Dopo la guerra, la laurea in ingegneria nell’odiosamato Politecnico. 

I viaggi. L’attività letteraria. 
Nel 1922 si reca in Argentina per lavoro. Rientrato a Milano agli inizi del 1924, comincia a scrivere articoli di carattere tecnico sul giornale milanese L’Ambrosiano e frequenta corsi di filosofia, ma ragioni economiche lo costringono ad interromperli prima della tesi, già concordata, su Leibniz. Entrato alle dipendenze della società Ammonia Casale a Roma (1925), l’ingegnere-
elettrotecnico peregrina, indotto dalla sua attività, per tutta l’Italia, con frequenti soggiorni all’estero: in Francia, in Belgio, in Germania, poi di nuovo a Roma, in Vaticano (1940). Di questi anni è il ricordo di un duro lavoro e, nei ritagli di tempo, di intense letture e di studi. Tra il lavoro e i numerosi viaggi, ha inizio anche la sua attività letteraria, un ingresso timido ma significativo: del 1926, “Studi imperfetti”, pubblicati sulla rivista fiorentina Solaria, a cui Gadda collaborerà attivamente e per i tipi della quale usciranno i suoi primi libri, “La Madonna dei filosofi” nel 1931 e “Il castello di Udine” nel 1934. 

Firenze. 
Dal 1934 al secondo dopoguerra Gadda scrive le sue opere maggiori, dai disegni milanesi de “L’Adalgisa”, alle “Novelle dal ducato in fiamme”, alla “Cognizione” e al “Pasticciaccio”. Queste ultime due appariranno a puntate su Letteratura, che, diretta da Bonsanti, continua in parte il discorso di Solaria. Dopo Milano, quindi, Firenze è l’altra città-nodo dello scrittore, non solo perché sede delle sue più importanti esperienze letterarie, quanto per la rete di rapporti umani, di amicizie, di contatti culturali che Gadda vi instaura, ancor prima di decidersi per un lungo soggiorno (1940-1950): Bonsanti, Montale, Saba, Ferrata, Bo, De Robertis, Contini, Longhi, per non citarne che alcuni a caso, trovavano allora in Firenze un terreno fertile di intesa, pur agendo tutti in direzione individua. La Francia calamita l’interesse dell’Italia più attenta: Gide e la sua disponibilità; ma è soprattutto Proust che Gadda scopre, e il Céline di “Voyage au bout de la nuit”. Joyce è presente, grazie a Linati, Benco e Svevo; “Ulysses” viene letto da lui nella traduzione francese di Valéry Larbaud. Risale a questi anni la scoperta della psicanalisi. Nel 1936 gli muore la madre e, con la vendita della villa, il grumo di rancori e d’amore si riversa come placato nella scrittura più cupamente lirica della “Cognizione”. Le calamità catastrofizzanti dell’Europa lo trovano ormai a Firenze, preparato da anni e furente alla tragica carnevalata del fascismo, verso cui il conservatorismo politico dello scrittore era stato solo in un primo tempo indulgente. 

Roma. 
Le mie condizioni economiche si aggravarono a poco a poco fino alla disperazione. Nell’autunno del 1950, grazie a G.B. Angioletti, ottiene un incarico redazionale retribuito, a Roma, presso un istituto di cultura. È la RAI, da cui si dimette nel 1954: Una lettera a ciclostile, carta grama e pelosetta, mi preammonì che nel corso del ‘55 sarei stato dimesso: per raggiunti o addirittura superati limiti di età. Ma intanto Livio Garzanti gli offre la possibilità di stampare in volume il “Pasticciaccio”. Nonostante precedenti riconoscimenti, solo con questo romanzo Gadda si assicura una vasta udienza: da scrittore elitario a romanziere di fama: nel 1963 con l’edizione in volume de “La cognizione del dolore” ottiene il Premio Internazionale di Letteratura. Vengono ristampate tutte le sue opere, con intricata titolografia, e si pubblicano inediti giovanili che chiarificano la faticata routine dello scrittore: il romanzo “La Meccanica” (1970), i frammenti narrativi di “Novella seconda” (1971), le riflessioni filosofiche di “Meditazione milanese” 
(1973). Infastidito dalla notorietà, ostile al caravanserraglio letterario romano, a Roma Gadda vive in disparte, in perenne difesa degli ammiratori crescenti. Il tempo e la vecchiaia non cauterizzano le ferite della nevrosi, crescono l’angoscia e la solitudine, la rabbia non pacificata e coinvolta con quella realtà barocca che lo scrittore ha pietosamente ferocemente investigato, fino alla morte, il 21 maggio 1973. 



L’opera. 

Le prime prove. 
E’ sintomatico che l’attività critica di Gadda si apra nel lontano 1924 all’insegna di Manzoni e si chiuda, negli anni sessanta, con omaggi manzoniani, quasi a ribadire una predilezione mai perenta per lo scrittore lombardo che gli faceva scrivere, allora, in “Apologia manzoniana”: La mescolanza degli apporti storici e teoretici più disparati, di cui si finse e si finge tuttavia il nostro bizzarro, imprevedibile vivere, egli ne avvertì la contaminazione grottesca. Che poi sia una adibizione tutta personale del Manzoni e perfettamente consentanea alla poetica gaddiana, è chiaro quando si pensi segnatamente alla elaborata commistione di generi e stili del “Pasticciaccio”, e giova inoltre a chiarire l’irritazione di Gadda verso chi troppo superficialmente lo definiva barocco: ribaltava la definizione qualificante in verità effettuale: c il barocco e il grottesco albergano già nelle cose, nelle singole trovate di una fenomenologia a noi esterna: nelle stesse espressioni del costume, nella nozione accettata comunemente dai pochi o dai molti: e nelle lettere, umane o disumane che siano: grottesco e barocco non ascrivibili a una premeditata volontà o tendenza espressiva dell’autore, ma legati alla natura e alla storia. E ancora: barocco è il mondo, e il Gadda ne ha percepito e ritratto la baroccaggine. Non diversamente appunto da quel Manzoni che Gadda rivendica maestro rifiutando con fastidio la filiazione scapigliata cui molti dei primi critici lo accostarono. Ma se il bozzettismo divertente di alcuni pezzi de “La Madonna dei filosofi”, come “Teatro e Cinema”, e l’elzevirismo de “Le meraviglie d’Italia” potevano anche giustificare l’ipotesi di una linea Faldella-Dossi-Linati-Gadda, oggi, con uno studio più approfondito della sua produzione e con la pubblicazione di molti inediti giovanili, la traccia appare assai irrilevante e secondaria, rispetto alla complessità degli influssi che in lui agirono e degli apporti culturali dallo scrittore messi in atto, grazie anche alle sue conoscenze extraletterarie. Se il Porta è una verifica ancora incerta, Manzoni e il Belli ascendenze più che ideali, bisognerà ricercare anche nomi meno evocati, magari denegati, sia in territorio italiano che in quello europeo, che possono includere i terminali della grande narrativa ottocentesca, ma inclusovi Céline, e, nel versante lirico, i moduli della poesia situabili tra simbolismo e decadentismo. Uno studio stilistico dell’opera sua non potrà esimersi da tali verifiche, anche a chiarire, tra l’altro, due opposte e compresenti tensioni nella prosa gaddiana, non sempre solubili nella cifra unitaria dell’espressionismo, la tensione lirica e quella narrativa. Se si eccettuano le esercitazioni più o meno scolastiche (di cui si conoscono una poesia whitmaniana, datata 1915, e un racconto, “Passeggiata autunnale”, datato 1918) e il “Giornale di guerra e prigionia”, così unico e fondamentale alla comprensione dell’animo di Gadda, i suoi primi tentativi ricercano la costruzione oggettiva del romanzo d’avventure e del giallo, non tanto per una disposizione naturale al genere quanto per l’intento di interessare un pubblico vasto e anche sprovveduto, perseguendo come in Manzoni un duplice livello di lettura, e con l’abilità romanzesca di un Dumas e di un Conan Doyle descrivere dei fatti e in questi rilevare il meccanismo segreto della conseguenza; cioè, in altre parole e con altra coscienza, le causali convergenti, il garbuglio di cause del “Pasticciaccio”. Lo scrittore aggiunge inoltre una copertura oggettiva, per altro assai significante, che la vita non è semplice ma romanzeschissima. Ma a questa tensione al romanzo d’intreccio, giustificata da sempre come aderenza al reale, si oppone una tensione centripeta, lirica, che lo svia in tutt’altre direzioni, verso la prosa d’arte o in una tendenza narrativa che si giustifica tutta e programmaticamente sulla rappresentazione deformata più che nello sviluppo dell’azione; fino a quando queste opposizioni non vengono genialmente risolte e fuse, con la riflessione costante sui propri materiali, nella maturità espressiva. Si spiega così la cosciente e momentanea rinuncia al romanzo. Incompiuto è “Racconto italiano del Novecento” del 1924 (ancora inedito), così “La Meccanica” (1924-29), che ha per sfondo la prima guerra mondiale, e non più che frammenti i due pezzi di “Novella seconda”: il primo (1928) che dà il titolo al volume, scritto dietro la suggestione di un delitto di cronaca, e “Notte di luna” (1930). Senso critico vigilissimo e ragioni nevrotiche, angustie di lavoro e ricerche di un’espressività adeguata ritardano la composizione di lungo respiro. Gadda tenta altre vie, come il bozzetto, la prosa d’arte, e trova infine nell’autobiografismo lirico un esito congeniale. Non essendo ancora l’incompiutezza definitiva un genere in catalogo, chiude nel cassetto i suoi incompiuti e ne edita frammenti. “La Madonna dei filosofi” (1931) e “Il castello di Udine” (1934), primi libri pubblicati, sono opere composite che raccolgono prose d’arte, racconti, memorie di guerra e di viaggio, perfino una dichiarazione di poetica (“Tendo al mio fine”), un materiale eterogeneo, su cui è impossibile qui soffermarsi, ma che presenta già i caratteri del Gadda più maturo, una consapevolezza e padronanza stilistica che denota uno studio in direzioni plurime, una necessità di sondare più terreni. Se le due parti dei racconto omonimo de “La Madonna dei filosofi” e la quarta parte del secondo libro, “Polemiche e pace nel direttissimo”, ricordano le istanze romanzesche, è la spinta lirica che trova nella memoria urgente e risentita de “Il castello di Udine” lo sfocio più aperto, in una liricità espressionistica che sa accostare il furore polemico alla rievocazione più struggente e melanconica e che vanifica ogni sospetto di calligrafismo nella verità della passione e della sofferenza. 

Le opere maggiori. 
Quando pubblica “Le meraviglie d’Italia” (1939), raccolte non solo di articoli di quotidiani ma di scritti nati dai più disparati motivi, la cui occasionalità giornalistica tuttavia non infirma la loro qualità né l’importanza di riserva di temi e di esercizio, “La cognizione del dolore” è già scritta e apparsa in Letteratura (1938-41), ma destinata a rimanere inconclusa anche dopo l’aggiunta, nel 1970 di due capitoli inediti. Composizione a struttura tematica, giocata su una complessa tastiera stilistica, ma nella quale predomina un acceso lirismo che si condensa infine nelle raffigurazioni materne, “La cognizione” è soprattutto una tragi-commedia catartica. Autobiografia appena coperta dal le suggestioni satiriche e grottesche di una tenue spolveratura creola (Contini) che svela subito la toponomastica brianzola e la proiezione dell’autore nell’hidalgo maniacale Don Gonzalo Pirobutirro, l’opera è inoltre un’atroce e beffarda confessione mitica: nelle figure agoniche del reduce e della madre, il rapporto nevrotico diventa metafora universale di pena: il male invisibile, che non è solo in Gonzalo ma investe tutte le cose, scopre nella sua genericità il valore di simbolo. Intriso di sarcasmo e di dolore, il romanzo tuttavia ha la forza trascinante della liberazione (che non aveva, ad esempio, “Novella seconda”, anch’essa centrata sull’ipotesi di un matricidio, di un omicidio karamazoviano), la capacità di ribaltare in poesia i rancori e le coazioni. Come pacificato, Gadda può ora aderire ad una realtà meno compromettente e vischiosa, osservare con più felicità satirica quel mondo da cui proveniva, tentare infine il privilegio di una compensazione oggettiva: sono i veri grandi romanzi de “L’Adalgisa” e del “Pasticciaccio”, preparati da studi critici e riflessioni sul proprio lavoro (ora, tra l’altro, ne “I viaggi la morte”, 1958) e affiancati da una serie di racconti (“Novelle dal ducato in fiamme”, stampato nel 1953), che, oltre a riunire alcuni tra i suoi migliori risultati (come “L’incendio di via Keplero”), si congiunge strettamente, per temperie di stile e affinità di temi, ai disegni de “L’Adalgisa” (1944). Disegni li ha chiamati Gadda, in realtà parti disgiunte di uno stesso organismo, di un unico e lontano progetto: il romanzo di più generazioni e di una società in crisi. Quello che resta è un affresco satirico di irresistibile comicità della borghesia meneghina agli inizi del Novecento, corredato di note che svolgono un’antifrasi saggistica. Lo spirito corrosivo di Gadda nel colpire i vizi, le fisime, la boria, l’ignoranza, il kitsch di quella società si unisce al gusto della ricognizione, alla gioia della reminiscenza. Con una mimesi linguistica di fulminante icasticità, la scrittore, mentre aderisce a quel mondo, nello stesso tempo ne rivela la fragilità e l’amenza, lo blocca in un insensato blablà; e fuori s’industria la povera gente del Porta e incombe la guerra. 

Le opere minori. 
Firenze, così importante per i contatti e le coordinate culturali che l’autore vi stabilisce, non ha, come sede di espressività, lo stesso peso di Milano e di Roma: il pianerottolo fiorentino, secondo la definizione di Contini, non genera che una morfologia goliardica, per fortuna poco presente, oltre a qualche infelice racconto (“La sposa bella”) e agli accidiosi e accademici divertimenti de “Il primo libro delle favole” (1952). Di vario genere e valore sono le altre opere di Gadda: “Eros e Priapo” (1967), feroce “pamphlet” sulla psicopatia del fascismo, carico degli stessi umori del Pasticciaccio di cui è coetaneo; il saggio radiofonico “I Luigi di Francia” (1964); l’esilarante commedia antifoscoliana “Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo” (1967). Ma indubbiamente lo scrittore è come se dopo lo sforzo romano segnasse il passo: ancora qualche splendido racconto, raccolto poi negli “Accoppiamenti giudiziosi” (1963), che ingloba le precedenti “Novelle”, conferma, pur nella resa talvolta calibratissima, un impoverimento stilistico o uno stracco ripetersi di temi e moduli precedenti; del resto i brani migliori si riconnettono per affinità al grande romanzo milanese. così “L’Adalgisa”, benché in pezzi, resta insieme al Pasticciaccio uno dei vertici della produzione gaddiana, dove la tensione narrativa, depurata di quel troppo di poème en prose che inficia anche certe zone de “La cognizione”, trova nella stupidità flaubertiana degli uomini e negli aggrovigliati accadimenti del reale una scrittura vertiginosa e acre, di prepotente vitalità. 

La lingua e lo stile. 
Non si può parlare di Gadda, del tessuto così stravagante e manipolato della sua scrittura, senza accennare, per quanto sommariamente, agli ingredienti di un linguaggio sapientemente costruito. Un’analisi, anche elementarissima, della composizione linguistica della prosa gaddiana può servire a capire la tecnica del suo sperimentalismo, così gnoseologicamente e eticamente motivato, e quanto egli abbia saputo far tesoro di ogni esperienza per arricchirlo e variarlo su più ampie reti stilistiche. In tal senso i dialettalismi, su cui troppo si è scritto (anche dietro le occasioni di una nota querelle: lingua/dialetto), non sono che una delle componenti dell’impasto gaddiano, e neppure la più perspicua, strettamente connessa e interdipendente a tutte le altre. I principali nuclei dialettali in Gadda sono: lombardismi (in genere nelle opere milanesi); romaneschismi (soprattutto nel “Pasticciaccio”); fiorentinismi, spesso coincidenti con forme antiche o antiquate della lingua letteraria (specie nelle “Favole” e, in parte, in “Eros e Priapo”). I tecnicismi invece costituiscono l’aspetto più peculiare della prosa gaddiana, usati sia nel loro senso specifico che in un senso traslato a forte carica metaforica. Si possono distinguere in due filoni principali: tecnicismi scientifici e tecnicismi umanistici. Appartengono al primo: termini e locuzioni dell’ingegneria, della fisica, della matematica, della medicina (in particolare dell’anatomia), della psicanalisi, dell’arte militare ecc. Appartengono al secondo: termini e locuzioni della filosofia, della teologia, della retorica, della versificazione, della grammatica, della burocrazia ecc. Un’altra componente di più fruttuoso impiego e dosaggio è l’accesissima congerie delle forme personali (esemplifichiamo dal “Pasticciaccio”): neo-formazioni a base latina o greca (insevire, dialessi, cinobalanico); forme suffissali (stivalista, scaricabarilistico); o prefissoidali (biscarogna, autoghigliottinarsi); forme analogiche (audicolo, giallazio); verbi parasintetici (invulvare, dekirkegaardizzare) o desostantivali (priapare, mentulare); forme parascientifiche (criptorupto, nazione spermatoforica); giustapposizioni brachilogiche (culseduto, domicilioaggredita, Predappiofesso; o del tipo: deibestie, occipite-jungla); perifrasi aggettivali (er ‘tu mi stufi’, cioè il fidanzato); calembours linguistici (Facta factorum, Tafàno di Revello); deformazioni fonomorfologiche (irpotesi, setticimia) eccetera eccetera. A ciò si aggiunga, per concludere, l’adibizione più smodata di ogni variante linguistica (allotropi, sinonimi ecc.) e l’uso dovizioso di vistosissime onomatopee, di foresterismi, gergalismi, latinismi, arcaismi, forme latine, incastonature di greco, parole straniere. Tutto un sistema di mettere il linguaggio in crisi, di provocare, giocando stilisticamente sulla collisione di vari piani (ad esempio: forma colta/forma popolare ecc.), che denota la volontà di Gadda di aggredire, oltre la realtà, la lingua stessa nei suoi segni, le possibilità della comunicazione. Lo attestano le parentesi e le glosse linguistiche, le digressioni filologiche, l’uso talvolta provocatoriamente indeciso di un termine scientifico: ad esempio lubido, ambiguamente sospeso tra connotazione storico-letteraria e denotazione psicanalitica. Ad ogni modo la colorita commistione del linguaggio gaddiano, il plurilinguismo dello scrittore forse stupiscono meno, dacché l’oltranza linguistica si è spinta, soprattutto in territorio avanguardistico, ben oltre; cosicché oggi si tende più a valutare la classicità di Gadda che non la sua bizzarria, tanto più si precisano le motivazioni e le funzionalità polemico-critiche che stanno alla base del suo sperimentalismo. Per quanto venato di sprezzature espressionistiche, Gadda nasce scrittore in lingua e il suo progressivo orientarsi verso la maccheronea, il pastiche, nasce come scelta consapevole da precise esigenze di poetica: Dire per maccheronea è più un deferire che un reluttare, al sentimento dei molti: è interpretare e vivere anzi che rompere, anziché dimenticare il meccanismo della fluente conoscenza della descrizione e catalogazione dell’evento. Nasce cioè dall’intento di afferrare una realtà sempre poliforma e polisensa e, conseguentemente, da una serie di riflessioni sull’insufficienza e inadeguatezza della lingua letteraria e della lingua d’uso, spesso incerte e generiche, e sulla necessità di reperire un mezzo espressivo meno abusato, più ricco e più capace di mordere in corpore veritatis. Tale mezzo Gadda lo ricava facendo ricorso alle infinite risorse del linguaggio, disgregando e rielaborando il suo vastissimo materiale; perché abusare della lingua significa colpirla dall’interno tramite mezzi deformanti che la lingua stessa offre in quanto istituzione e come tale soggetta al logorio inevitabile dei suoi modi; perché in tal modo le parole così disgregate e ricreate diventano strumento di polemica antiretorica e, nello stesso tempo, veicolo di una verità più nascosta, che si cela dietro le epifanie caotiche del reale. 

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. 
Apparso in Letteratura nell’immediato dopoguerra (nn. 26, 27, 28, 29, 31, anni 1946-47), letto e ammirato da pochi, il “Pasticciaccio”, fu scritto a Firenze nel ricordo lontano di soggiorni romani, ma come rinverditi da quotidiane immersioni nella lettura del Belli e tramato su un reale fatto di sangue: avvenimenti di cronaca nera che suscitavano l’attenzione morbosa di Gadda, qualora toccassero l’abisso profondo dei desideri inconsci: un matricidio percorre tutta la sua opera: presunto in “Novella seconda”, derivato ne “La cognizione”, effettuato qui, se è vero che la serva che uccide Liliana è figlia adottiva (e sublimata amante). Il “Pasticciaccio” in rivista corrisponde a poco più della metà di quello edito in volume: nel libro mancano le note, salvo qualcuna inserita nel contesto, numerose vi sono le aggiunte ma anche i passi espunti e completamente eliminato è il capitolo quarto, non tanto perché, come sembra accreditare l’autore, venisse salvaguardata la suspense quanto piuttosto per i troppi espliciti riferimenti alle latenze lesbiche della povera vittima; un’espunzione che ricorda quella operata da Manzoni nei confronti della sciagurata monaca. Assai più rilevanti tuttavia sono le differenze linguistiche e stilistiche (per l’apparato dialettale lo scrittore chiese addirittura l’ausilio di un raddrizzatore, Mario Dell’Arco); nella parte in rivista e quindi anche nei primi capitoli del libro, nonostante la completa revisione che attenua la labile cesura, predomina una gamma realistica di stimolo belliano (dialogato mimetico, discorso indiretto libero eccetera); nella seconda invece (gli ultimi quattro capitoli) la partitura stilistica si complica espressionisticamente, si ha un’accentuata espansione espressiva e tematica, un addenso vertiginoso di metafore e digressioni: è la parte in cui si hanno le fughe più clamorose per la tangente dell’azione: il pezzo dei sandali e degli alluci apostolici, il sogno del brigadiere, la gallina della Zamira e il suo prodotto catabolico, l’excursus sui gioielli ritrovati e così via. E si intensifica anche il gusto delle agnizioni letterarie, sul pedale però ambiguo di un omaggiosberleffo. Basti un esempio celebre (lo si confronti con l’inizio del capitolo quarto dei Promessi sposi): Il sole non aveva la minima intenzione di apparire all’orizzonte che già il brigadiere Pestalozzi usciva (in motocicletta) dalla caserma degli erre erre ci ci di Marino per catapultarsi alla bottega laboratorio dove non era minimamente aspettato...; comica parafrasi manzoniana che tiene meno della contaminazione che di una sacralità rovesciata. Come dire, ed è un’acquisizione più tarda, da Manzoni a Cervantes, senza che l’uno escluda l’altro, come l’etica non pregiudica la libertà, o la serietà la fantasia. Nello spazio strapieno, zeppato di sgradevoli suoni e odori, di oltraggi esistenziali, di mattane storiche, di orrori biologici che si concentrano, inopinate catastrofi, a orchestrare la follia, la salvezza è nel distacco, non nella zona neutra dello sguardo positivistico (lo Zola dei primi tentativi è assai lontano) ma dentro le cose e nei fatti, che hanno sempre un loro rovescio e alludono a una finzione: la distanza è nel cogliere la pluralità, la polivalenza, senza scegliere tra pietà e derisione. E il giallo è un valido traliccio di un mistero finto e verace, che ha sempre altrove il suo scioglimento. Tanto è vero che il romanzo si chiude con un’intuizione e un pentimento, con un segno di ambiguità: quasi. così l’intrigo poliziesco, a cui del resto Gadda aveva sempre teso, si giustifica in duplice direzione: eco del mondo e bricolage letterario. La realtà è romanzesca, dice lo scrittore, e trova conferma in una parola-chiave che percuote tutta la sua opera in distesa sinonimia: nodo, groppo, groviglio gomitolo, gliuommero, ossia pasticciaccio: un indistricabile garbuglio di causali che debilita la ragione del mondo. Ma in un gioco di vorticosa simmetria l’equivalente luogo della scrittura che rifranga il caos dei moventi, il cataclisma del reale, non può essere che la negazione di un genere, la sua dissoluzione parodica a pretestuoso meccanismo. Se il “Don Chisciotte” fu scritto anche per assurdizzare centinaia di romanzi dell’epoca la cui funzione era allora simile a quella che oggi è sostituita dai fumetti o dai gialli - nuvole di evasività per la sciocca hidalgueria di una pomposa Spagna - il “Pasticciaccio” gaddiano non si comporta diversamente; tanto più che la Pompa e il cencio, la retorica e la bestialità albergano l’urbe capitolina di Predappiofesso (Mussolini) e in genere ogni materia su cui si posa l’occhio turbato. Quella sostanza oggettiva di cui certo necessitava Gadda per liberarsi di ogni retaggio autobiografico, a lungo ricercata e tentata, non poteva trovare una vertigine più speculare, una metafora più reversibile del bulicarne romano e di un efferato delitto: il male oscuro, la fascinazione maligna si estende e si scenografa in una realtà demenziale e feroce, turpe e grottesca: il fascismo, la morte, il lenocinio, il furto, le sozzure di bestie e di uomini. Ma lo sgomento è frenato dal riso, e il riso nasce dalla liberazione (nevrotica), dalla consapevolezza che il mondo è teatro e quindi parodia. 



Guida critica. 

Di tutta l’opera di Gadda viene elencata, per ragioni di spazio, soltanto quella raccolta in volume, trascurando i numerosi saggi, articoli e anche racconti, sparsi su varie riviste e quotidiani, e per cui rimandiamo alla bibliografia di G. Ungaretti, sul Contemporaneo, 65, 1963, per quanto lacunosa e non più attuale. 
Opere: “La Madonna dei filosofi”, ed. di Solaria, Firenze, 1931; Einaudi, Torino, 1963. “Il castello di Udine”, ed. di Solaria, Firenze, 1934; Einaudi, Torino, 1961. Le meraviglie d’Italia, Parenti, Firenze, 1939; Einaudi, Torino, 1964. “Gli anni”, Parenti, Firenze, 1943 (comprende scritti ripresi poi nell’ed. einaudiana de 
“Le meraviglie d’Italia”). “L’Adalgisa”, Le Monnier, Firenze, 1944; Einaudi, Torino, 
1963. “Il primo libro delle favole”, Neri Pozza, Venezia, 1952; Il Saggiatore, Milano, 1969. “Novelle dal ducato in fiamme”, Vallecchi, Firenze, 1953. “Norme per la redazione di un testo radiofonico”, Edizioni Radio Italiana, 1953 (ad uso interno). “Giornale di guerra e prigionia”, Sansoni, Firenze, 1955. “I sogni e la folgore”, 
Einaudi, Torino, 1955 (comprende “La Madonna dei filosofi”, “Il castello di Udine”, “L’Adalgisa”). “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, Garzanti, Milano, 1957. “I viaggi la morte”, Garzanti, Milano, 1958. “Verso la Certosa”, Ricciardi, Milano-Napoli, 1958 (comprende brani già apparsi ne “Le meraviglie d’Italia”, “Gli anni”). “I racconti. Accoppiamenti giudiziosi”, Garzanti, Milano, 1963 (comprende, oltre a “Novelle dal ducato in fiamme” numerosi racconti inediti). “La cognizione del dolore”, Einaudi, Torino, 1963. “I Luigi di Francia”, Garzanti, Milano, 1964. “Giornale di guerra e prigionia”, Einaudi, Torino, 1965 (edizione accresciuta di molte parti inedite). “Il guerriero, l’amazzone e lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo”, Garzanti, Milano, 1967. “Eros e Priapo: da furore a cenere”, Garzanti, Milano, 1967. “La Meccanica”, Garzanti, Milano, 1970. “La cognizione del dolore”, Einaudi, Torino, 1970 (edizione accresciuta di due capitoli inediti). “Novella seconda”, Garzanti, Milano, 1971. “Meditazione milanese”, Einaudi, Torino, 1973. 

Bibliografia critica. 
Diamo qui soltanto le linee generali di una possibile critica storia della gaddiana, ricordando soltanto i più significativi dei numerosi scritti apparsi su Gadda (anche se molti legati all’occasionalità di una recensione giornalistica). Gli esordi dello scrittore furono salutati affettuosamente dai critici più importanti di allora, come A. Gargiulo (ora in “Letteratura italiana del Novecento”, Firenze, 1940), G. De Robertis (ora in “Scrittori del Novecento”, Firenze, 1940), C. Bo, in Letteratura, II, 1939. Ma chi per primo intuì il valore di Gadda fu G. Contini, col saggio ormai celebre “C.E.G. o del pastiche”, apparso su Solaria, II, 1934, seguito da G. Devoto, con una penetrante analisi stilistica di un capitolo de “Il castello di Udine” (oggi in “Studi di stilistica”, Firenze, 1950). G. Contini, che si è occupato di Gadda più volte, è diventato, soprattutto col suo fondamentale saggio introduttivo a “La cognizione”, un nodo obbligato di ogni ricerca critica sullo scrittore, per le numerose suggestioni e gli acuti riferimenti. Dopo la guerra, e ancor più dopo la pubblicazione del “Pasticciaccio” e de “La cognizione”, si intensificò enormemente la partecipazione della critica. Nella quale, per comodità di schema, si possono distinguere tre specifiche tendenze: la prima, dietro le indicazioni continiane, analizza lo stile e tende ad evidenziarne la linea scapigliata, come C. Segre (in “Lingua, stile e società”, Milano, 1963); l’altra invece tende piuttosto a rilevare il realismo gaddiano (E. Cecchi, A. Seroni, G. Manacorda eccetera) o, con giudizio molto limitativo, l’impasse naturalistico, come R. Barilli (“La barriera del naturalismo”, Milano, 1964). La terza infine punta sullo sperimentalismo gaddiano come operazione, in ultima analisi, di gioco letterario puro e fa di Gadda il capostipite della letteratura neoavanguardistica (i cosiddetti nipotini): vedi soprattutto A. Guglielmi, in Venti anni di impazienza, Milano, 1963. Fondamentali inoltre sono per il linguaggio e la comprensione dell’animo dello scrittore gli studi di P.P. Pasolini (ora in “Passione e ideologia”, Milano, 1958) e di P. Citati (“Il male invisibile”, su Menabò, 6, 1963). Degli altri interventi, ricordiamo: W. Binni, in “Critici e poeti dal ’500 al ’900”, Firenze, 1951; G. Barberi Squarotti, in “La narrativa italiana del dopoguerra”, Bologna, 1965; S. Antonielli, “Bravura e storicità di G.” in Belfagor, settembre 1956; A. Bertolucci, “Conoscete l’ing. Gadda?” su Palatina, luglio, 1957; G. Cattaneo, in “Bisbetici e bizzarri nella letteratura italiana”, Firenze, 1957; L. Piccioni, “Una sostanza modificata dall’interno” su La Fiera letteraria, I, 1951; G. Raboni, “La macchina di C.E.G., in Poesia e critica I, 1962; M. Luzi, “C.E.G.”, su Paragone, 44, 1963; C. Guglielmi, in “La letteratura come sistema e come funzione”, Torino, 1967; E. Golino, “Il laccio di Gadda”, su Tempo presente, 6, 1967; A. Arbasino, in “Sessanta posizioni”, Milano, 1970. 
Solo in questi ultimi anni la bibliografia critica su Gadda si è arricchita di studi di più ampio respiro, di cui segnaliamo particolarmente, per l’originale e intelligente angolazione, G.C. Roscioni, “La disarmonia prestabilita”, Torino, 1969. Si leggano inoltre le agili e intelligenti monografie: A. Seroni, “C.E.G.”, nella collana Il Castoro, Firenze, 1969; E. Ferrero, “Invito alla lettura di G.”, Milano, 1972; e una voce discorde: G. Baldi, “C.E.G.”, Milano, 1972. Infine un primo approccio biografico: un affettuoso e lucido ritratto del l’uomo, dei suoi umori e delle sue memorabili battute nel libro di G. Cattaneo, “Il gran lombardo”, Milano, 1973. 

Su Il pasticciaccio. 
Oltre agli studi già menzionati di P.P. Pasolini e P. Citati e alle monografie suddette, segnaliamo: P. Milano, “Rabelais non c’entra”, su L’Espresso, 42, 1957; E. Cecchi, ora in “Libri nuovi e usati”, Napoli, 1958; L. Baldacci, in Letteratura, V, 1957; E. Falqui, in “Novecento letterario”, VI, Firenze, 1961; C. Bo, su La Stampa, 24-8-57; C. Cases, su Mondo operaio, suppl. V, 7-5-58; M. Tondo, in Convivium, I, 1960; A. Moravia, “L’arte di scrivere le parole con la gobba”, su L’Espresso XLIX, 1965; P. Gelli, su Paragone, 230, 1969; A. Ceccaroni, su Lingua e stile, I, 1970. 

PIERO GELLI 
INDICE 

  
1. 
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5. 
6. 
7. 
8. 
9. 
10. 
APPENDICE: C.E. GADDA: vita; profilo critico; bibliografia. 
La vita. 
Milano, l’infanzia, la guerra. 
I viaggi. L’attività letteraria. 
Firenze. 
Roma. 
L’opera. 
Le prime prove. 
Le opere maggiori. 
Le opere minori. 
La lingua e lo stile. 
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. 
Guida critica. 
Bibliografia critica. 
Su Il pasticciaccio. 
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