martedì 2 dicembre 2025

CRITICA DELLA QUESTIONE EBRAICA. KARL MARX E L’ANTISEMITISMO Manuel Disegni,

 


CRITICA DELLA QUESTIONE EBRAICA. KARL MARX E L’ANTISEMITISMO 

Manuel Disegni,

 Recensione 

Secondo Manuel Disegni Marx non solo non era antisemita, ma anzi ha dato un contributo fondamentale per comprendere in modo critico e quindi combattere l’antisemitismo. Una tesi  meritevole di essere discussa e eventualmente anche criticata, non prima però di avere letto con attenzione il libro. 

La tesi  del libro è che Marx con la parola “ebreo” intenda il fantasma proiettato dalla collettività sulla minoranza ebraica. Questo fantasma è l’ideologia della società borghese moderna, che attribuisce all’ebreo in astratto quello che non vuole vedere di sé stessa. L’ebreo, di questa società, è dunque specchio tanto inconsapevole quanto fedele.

Quando parla degli ebrei Marx si riferisce non a persone in carne e ossa, ma all’immagine stereotipata dell’ebreo. E questo è esattamente quello che fanno gli antisemiti. 



CRITICA DELLA QUESTIONE EBRAICA. KARL MARX E L’ANTISEMITISMO 

Introduzione


La lettera B sottosopra come nella scritta sul cancello di Auschwitz

Sul limite estremo della civiltà moderna, cioè all’ingresso di Auschwitz, c’è scritto ARBEIT MACHT FREI. In realtà sappiamo bene che il lavoro forzato del lager non lasciava sperare altra libertà che la più astratta e assoluta: la morte. Ma sebbene lo sappiamo siamo irrefrenabilmente portati a pensare che ci sia qualcosa di vero, in fondo. Non senza fatica possiamo sottrarci alla perturbante aura di verità che emana da quella frase, poiché non si tratta di una semplice verità di senso comune ma piuttosto di una verità fondativa del nostro senso comune. Forgiata in ferro battuto bugiardo, è una profonda verità filosofica e sociale quella che si rivolge a noi dal limitare dei campi di sterminio. Ci si rivolge esigendo di essere ancora riconosciuta quale assioma fondamentale della nostra esistenza individuale e collettiva, del nostro stesso pensiero. Non è forse proprio questo l’aspetto più cinico di quella menzogna: che dice il vero? Che mobilita una veneranda verità rivoluzionaria e un messaggio di speranza cui non si riesce a non credere, per poi farne cenere al di là della soglia?


Siamo soliti pensare all’antisemitismo come a una forma di rifiuto della modernità, eppure l’idea espressa all’entrata dei suoi stabilimenti di distruzione industriale è moderna da cima a fondo. È anzi l’idea moderna per eccellenza, il concetto che l’epoca moderna ha di se stessa, la sua insegna. Arbeit macht frei vuol dire: emancipazione. Non vi è forse espressione più sintetica e pregnante per spiegare questa nozione capitale delle rivoluzioni borghesi.


La concezione illuminista del progresso storico afferma che l’uomo può fare di se stesso un soggetto autonomo, che in virtù dei suoi propri sforzi, e soltanto di essi, può affrancarsi da dogmi, vincoli, rapporti di dipendenza, insomma da tutti i limiti naturali e storici impostigli dalla sua nascita. La nuova società prefigurata dalla borghesia rivoluzionaria dipende interamente dalla potenza emancipatrice del lavoro umano. Il lavoro ci rende non soltanto liberi. È anche l’attività in cui si realizza la nostra essenza e la nostra superiorità sulla natura, ciò che ci rende veramente umani, e come tali uguali, sorelle e fratelli nel lavoro.


Moderno è l’uomo che si accorge di essere artefice attivo del mondo in cui vive e del proprio destino. Da questa conoscenza discendono tutte le dottrine politiche, economiche e filosofiche più avanzate dell’epoca e la loro comune, audace affermazione del valore universale del lavoro. John Locke fa piazza pulita di secolari privilegi e vincoli feudali dichiarando che il lavoro è l’unica fonte legittima del diritto di proprietà. Dopo tante peripezie in giro per il mondo Candido, il protagonista del più noto romanzo illuminista sull’ottimismo, trova infine la sua felicità nel coltivare l’orto, mentre Adam Smith, il maggior pensatore egualitario dell’epoca, supera le distinzioni obsolete dei mercantilisti e dei fisiocratici postulando per primo il valore universale di ogni lavoro umano. Kant definisce l’illuminismo come l’iniziativa propria dell’uomo attraverso la quale egli si cava dallo stato di minorità in cui colpevolmente versa, e l’intera sua filosofia trascendentale rende merito al soggetto conoscente del suo lavoro attestando che gli oggetti di cui facciamo esperienza sono sempre già costituiti dall’attività organizzatrice del nostro intelletto. «Immane lavoro della storia universale» è la figura con cui Hegel illustra non del tutto metaforicamente la sua concezione della libertà come risultato dell’azione umana nella storia. «Lavoro» viene quindi scritto sulle bandiere rosse del movimento operaio. È l’immancabile parola d’ordine di tutti i sindacati e tutte le socialdemocrazie che non cessano di ripetere che il lavoro è l’unica vera fonte di ogni ricchezza e ogni progresso. Mentre Stalin, a ben vedere, fa rima con Stachanov.


Il lavoro è uno strumento di libertà e la libertà non può che esser frutto del lavoro. Affermano ciò tutti gli eroi classici della nostra civiltà e tuttora gli fanno eco i partiti di governo in coro con quelli di opposizione, sovranisti populisti e neoliberali globalisti, attivisti e qualunquisti, giornalisti, costituzionalisti, giovani influencer e vecchi moralisti. Volenti o nolenti, ci crediamo un po’ tutti. Arbeit macht frei non è solo uno slogan nazi. È anche il cardine dell’organizzazione sociale e ideologica di un’intera epoca storica che si deve esitare a considerare passata. Infatti, se il progetto moderno di fondare libertà, eguaglianza e fratellanza universale sul lavoro umano è certamente morto, sepolto là sotto le sue stesse insegne, i lineamenti di un nuovo disegno, o anche soltanto di un piano B, stentano ancora a farsi riconoscere.


La differenza specifica dell’antisemitismo moderno – ciò che lo distingue sia da altri fenomeni di discriminazione razziale, sessuale, religiosa, sia dalle discriminazioni contro gli ebrei di epoche precedenti – risalta con massima chiarezza quando si pone mente alla categoricità delle sue intenzioni. I nazisti e i loro collaboratori si impegnarono a scovare ogni individuo ebreo nascosto nelle città e nelle campagne dalla Norvegia alla Tunisia per deportarlo e ucciderlo. A differenza di altri stermini e genocidi perpetrati dall’umanità nel corso della sua storia, questo non aveva scopi ulteriori, né di ordine militare, né politico, né economico. Si trattava di una priorità assoluta: distruzione fine a se stessa, distruzione per la distruzione. Non si comprende il significato della questione ebraica della società borghese senza considerare il carattere di fine in sé della sua soluzione finale. Una teoria dell’antisemitismo moderno deve poter dare conto del fatto che negli ultimi mesi di guerra, mentre le truppe tedesche sul fronte orientale venivano sgominate dall’Armata rossa, un’ingente quantità di risorse materiali e logistiche è stata sottratta agli sforzi bellici e destinata a trasportare gli ebrei verso le camere a gas.1 Da questo punto di vista non appare sufficiente spiegare l’antisemitismo moderno come anacronistica sopravvivenza di un antico astio religioso, né come un’ideologia del capro espiatorio strumentalizzata dalle classi dominanti per ingannare masse malcontente. Per quanto tali spiegazioni possano essere fondate e cogliere aspetti reali del fenomeno, non giungono neanche lontanamente a dare conto della sua specificità. Rispetto ai secoli precedenti, il pensiero antisemita si fa universale, sistematico, scientifico. Da semplice credenza superstiziosa che era diventa una concezione complessiva del mondo capace di fornire risposte all’apparenza coerenti a tutti gli interrogativi più inquietanti dell’epoca.


Nel corso dell’Ottocento l’antisemitismo non si estingue, come pronosticato dai teorici liberali dell’emancipazione, ma si trasforma: diventa moderno.2 Non è un caso che proprio verso la fine di quel secolo venga coniato il termine «antisemitismo», che prima non c’era. Quali fattori hanno determinato questa trasformazione? Perché le rivoluzioni moderne e la secolarizzazione della politica non hanno mantenuto la promessa di liberare la società dall’antisemitismo, ma al contrario lo hanno consolidato tanto da condurlo a guadagnare il concetto di se stesso? Come si è affermata la convinzione di poter essere più felici in un mondo senza ebrei?


Quel truce apoftegma è un indizio, un punto di partenza per provare a capire. Certamente non si può escludere una funzione dissimulatrice: camuffare i lager da rassicuranti campi di lavoro e rieducazione, simili a quelli che hanno affiancato lo sviluppo della società borghese fin dai suoi albori, poteva ben servire a tenere lontani i curiosi o a tranquillizzare gli osservatori internazionali. Né vi è motivo di escludere un intento beffardo.3 Forse però è possibile attribuirgli anche un significato maggiore di un trucco o uno scherno. Che cosa vi legge un nazista? Possiamo immaginare che, così come noi, anche un ufficiale SS in servizio ad Auschwitz sapesse benissimo che l’insegna mente, ma che pure, leggendola, vi riconoscesse una qualche verità ricca di senso. Forse proprio la verità per cui era lì, per cui lavorava lì. «Un tedesco», si suol dire, «è una persona che non può dire una bugia senza crederci».4 Che si trattasse di un fanatico infervorato dall’odio o di un banale esecutore di ordini, verosimilmente non fa molta differenza (il che testimonia della natura rigida e fuorviante di tale opposizione). È ipotizzabile che la scritta abbia genuinamente a che fare con la ragione – sit venia verbo – di quanto avveniva in quei luoghi: la ragione dei carnefici. Si può pensare, cioè, che l’installazione stia lì a enunciare la verità in difesa, in onore, in esaltazione della quale veniva consumato l’olocausto di tanti ebrei, zingari, omosessuali, disabili, comunisti, anarchici e altri asociali. Non per caso quelle sistematicamente deportate e sterminate sono tutte categorie di persone ritenute sterili e improduttive, congenitamente inabili o refrattarie al lavoro. Parassiti. Incapaci di imparare la lezione impartita dall’insegna.


Non varrebbe forse la pena indagare quale concezione della libertà e del lavoro stia alla base dell’antisemitismo moderno, e se l’antisemitismo non sia, nel suo nucleo essenziale, proprio un modo specifico di concepire la libertà e il lavoro? In fondo è stata proprio la brama di lavoro a portare il Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi al governo di un paese colpito da una crisi occupazionale senza precedenti. Nella propaganda di quel partito, il lavoro rappresenta l’onore della Germania, il valore etico e politico supremo della comunità di popolo, il mistico fondamento della superiorità fisica e morale della razza ariana. La disciplina del lavoro costituisce realmente l’ossatura del regime hitleriano, il suo metodo di governo, la sostanza della sua funzionalità, l’organizzazione scientifica dello sterminio.5 È immaginabile che alla radice della barbarie manifestatasi nel cuore della civiltà moderna possa trovarsi una cosa così onesta, quotidiana e poco appariscente come il lavoro? È lecito domandarsi se l’antisemitismo moderno non sia anche e in primo luogo una forma di idolatria del lavoro, e se «lavoro» non sia, nella forma in cui lo conosciamo, un’istituzione divina dell’antisemitismo?


Il rifiuto dell’idolatria è l’idea religiosa centrale dell’ebraismo. Fra le proibizioni della Legge ha gravità eccezionale e alla sua trasgressione la saggezza rabbinica raccomanda come preferibile la morte.6 Il termine ebraico per idolatria è avodah zarah, il cui significato letterale viene reso il più delle volte come «culto straniero», ma che non meno propriamente potrebbe essere tradotto «lavoro estraneo», «lavoro estraniato» oppure – perché no? – «lavoro alienato». Il tema dell’alienazione del lavoro, come è noto, ha grande rilievo negli scritti filosofici del giovane Marx. Nelle opere mature invece non compare più, ma le sue tracce sono conservate nella nozione cruciale di feticismo, la quale, come è noto, proviene dalle scienze religiose e appartiene allo stesso campo semantico di «idolatria». Una semplice coincidenza lessicale? Può darsi. Ma la liberazione di Israele dal giogo spirituale dell’idolatria coincide, nella narrazione biblica, con la sua liberazione materiale dalla schiavitù egiziana.


La verità dell’emancipazione moderna, l’idea che il lavoro renda liberi, occupa una posizione centrale nell’opera di Marx. Si potrebbe dire che è il suo ombelico: segna il luogo in cui è più direttamente connessa con la tradizione borghese di cui è figlia bastarda e, insieme, il punto di cesura. Marx non nega che la libertà sia (anche) un prodotto del lavoro, ma è proprio perciò che la nozione di «forma di merce del prodotto del lavoro» con cui incomincia Il capitale implica un’intera teoria critica della libertà borghese. Che altro è il capitale se non lavoro, lavoro che vuole altro lavoro? Cosa rappresenta, questo moderno faraone descritto da Marx, se non una forma di organizzazione sociale della produzione il cui fine ultimo è la produzione medesima? «Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia».7 Il concetto principale della teoria sociale di Marx ha una struttura logica straordinariamente complessa ed è ricco di contenuto storico. Volendo spiegarlo a un principiante in equilibrio su un piede solo bisognerebbe dire: il capitale è l’imperativo categorico di lavorare e lavorare di più. Il resto della teoria è un commento a questo imperativo, un’illustrazione dettagliata dei modi della sua efficacia, un’analisi della coazione ad accumulare indefinitamente valore e plusvalore, cioè lavoro e pluslavoro, che domina la società moderna. L’idolatria che osanna le proprietà salvifiche del lavoro è riconosciuta da Marx come un risvolto ideologico del suo reale sfruttamento e progressivo annientamento: promette libertà ma genera morte. La più importante e attuale delle sue lezioni, nonché quella forse meno recepita, è che una società che produce per produrre, che si fonda sul lavoro come valore supremo, la cui sopravvivenza materiale e il cui benessere dipendono, cioè, da un consumo produttivo delle risorse naturali e della forza lavoro umana in linea di principio illimitato; che una tale società deve necessariamente condurre i suoi membri a distruggere il loro ambiente naturale e la loro stessa umanità. Le forze produttive che non trovano più sfogo si convertono in forze distruttive. Il lavoro è ormai un idolo evidentemente agonizzante, la guerra la sua cura palliativa. Non è giunto già da tempo il momento di emanciparsene? Quante crociate ancora si mobiliteranno contro i suoi vampiri e parassiti reali e immaginari? Proletari di tutti i paesi, quanto a lungo sarete ancora disposti a uccidere e a soccombere sull’altare del lavoro?


Che libertà e lavoro siano i temi principali di Marx, è noto. Quando si discute del suo presunto antisemitismo, tuttavia, si è soliti prescinderne. Nella forma in cui si protrae almeno dal secondo dopoguerra e in cui tuttora, dalla pubblicistica accademica alla stampa generalista, gode di considerevole risonanza, questa discussione è dominata dall’opposizione di due convincimenti o partiti principali.8 Secondo quello egemone, Marx era antisemita. Con ciò si intende dire innanzitutto che gli stavano antipatici gli ebrei o l’ebraismo. Tale presunta avversione fornirebbe, inoltre, una chiave sia per la corretta valutazione del suo pensiero, sia per datare le tendenze antisemite che attraversano la storia della sinistra. Secondo l’altro partito, quello di opposizione, Marx non era antisemita. Personalmente non avrebbe nutrito sentimenti né mantenuto atteggiamenti particolarmente ostili nei confronti degli ebrei, certo non più della gran parte dei contemporanei, e comunque l’ebraismo e la questione ebraica avrebbero un ruolo marginale nel suo pensiero, se non addirittura nullo.


A dispetto di questo contrasto, i due partiti si incontrano in un comune presupposto dogmatico, il quale può essere enunciato all’incirca così: l’antisemitismo è l’avversione per gli ebrei. Argomentano le loro tesi contrapposte prescindendo parimenti dalla questione delle condizioni storiche e del significato sociale dell’insorgere, al tempo di Marx, di una forma nuova, secolare, post-emancipatoria e anti-emancipatrice di antisemitismo. Determinato in maniera astratta come «avversione per gli ebrei», il capo d’accusa pare non necessitare alcun ulteriore chiarimento. L’arbitrio della definizione vorrebbe sostituire il lavoro della teoria e della ricerca. L’antisemitismo viene presupposto come qualcosa di noto da tempo immemorabile, di ovvio, immediatamente evidente, antichissimo, sempre identico a se stesso e suscettibile perciò di una definizione tanto tautologica. Prigioniera di una nozione astratta e dogmatica di antisemitismo, la discussione su Marx ruota da oltre settant’anni e con poche eccezioni intorno alla questione se egli gradisse o meno gli ebrei – questione di dubbio interesse che non promette di contribuire a una miglior comprensione della teoria marxiana, né del fenomeno antisemita, quindi neanche dei loro rapporti.


Tipicamente, i contributi alla discussione hanno come oggetto i pochi luoghi dispersi nei suoi scritti che contengono riferimenti all’ebraismo o in cui compaiono cliché più o meno tradizionali e più o meno sprezzanti sugli ebrei.


La strategia argomentativa del partito denunciatore segue uno schema rigido e ricorrente. In buona sostanza consiste nell’estrapolare singoli testi di Marx dal loro contesto politico e pubblicistico, singole frasi dal testo, addirittura singoli sintagmi dal periodo in cui compaiono, per poi addurre l’immediata evidenza di avversione per gli ebrei prodotta con tale procedura come prova della tesi che Marx fosse «antisemita» o addirittura – come più di un commentatore suggerisce apertis verbis9 – un precursore ideale del genocidio. La decontestualizzazione delle citazioni sotto accusa non è solo incuria filologica, ma riflette la mancanza di contesto storico che è propria dell’astratta nozione di antisemitismo di cui l’accusa si sostanzia. Si presuppone un suo concetto prefabbricato e universalmente valido e lo si pone arbitrariamente di fronte alla realtà, alla storia, in particolare alla storia delle idee e della cultura, per sussumere sotto di esso quanto più materiale possibile. In questo modo è possibile classificare come antisemiti autori quali Dante, Shakespeare, Spinoza, Kant, Hegel, Marx o Freud (e volendo anche gran parte delle barzellette ebraiche più comuni).10 Più in generale è l’intero dibattito contemporaneo sull’antisemitismo a procedere per casistica. Identifica il suo compito principale nel decidere chi o cosa sia «antisemita», chi o cosa non lo sia. È o non è antisemita quel politico, quella giornalista, quel calciatore, quell’ubriaca al bar, che ha chiamato gli ebrei «spilorci» o scherzato sulla forma del loro naso? E se ha detto che Israele è uno Stato razzista, George Soros un poco di buono o Woody Allen un regista sopravvalutato? È antisemita o no? L’antisemitismo però non è solo un’opinione soggettiva o un sentimento privato. È sempre e innanzitutto un fenomeno collettivo. Robinson Crusoe poteva forse essere razzista nei confronti di Venerdì, ma non antisemita. Questo fenomeno storico e collettivo andrebbe analizzato come tale, a maggior ragione se il fine pratico è contrastarlo adeguatamente. Invece ci si limita per lo più a sospettarlo, rilevarlo, biasimarlo come una colpa individuale. Il beneficio di tale considerazione censoria del problema consiste unicamente nel fatto che tende a produrre, presso coloro che la esercitano, la convinzione di avere penetrato il mistero dell’antisemitismo eterno e potersi dunque esimere dall’indagare ulteriormente.


Dal canto suo, il partito apologetico sminuisce. Respinge l’accusa di antisemitismo tentando, imbarazzato, di giustificare o relativizzare i commenti marxiani più caustici o che gli paiono più inopportuni. Le espressioni problematiche sarebbero intese in senso ironico, dunque da non prendersi sul serio. Facezie, magari un po’ triviali ma certamente prive di importanza, del tutto estranee al nucleo della riflessione. Ai suoi occhi, sia l’ebraismo che i suoi nemici avrebbero rappresentato semplici residui di un vecchio ordine sociale, dunque un fenomeno non attuale né degno di particolare considerazione. Gli innocentisti concedono talvolta che Marx abbia mancato di percepire il pericolo che si celava nei rigurgiti di antisemitismo del suo tempo. Se di tanto in tanto gli è capitato di indulgere alla retorica antiebraica allora in voga, si è trattato dell’errore di un uomo che non poteva avere il minimo sentore delle forze nefaste che in quella voga si annunciavano.11 È certamente vero che la gran parte dei riferimenti all’ebraismo e ai pregiudizi sul suo conto disseminati nell’opera marxiana hanno carattere ironico. Ciò però non autorizza il lettore a minimizzare il loro significato o a non prenderli sul serio. Non basta riconoscere le battute di spirito, bisogna anche capirle, altrimenti si sa solo quando ridere, ma non perché. D’altronde, chi ha frequentato almeno un po’ gli scritti di Marx sa bene che l’uomo amava scherzare, soprattutto se di mezzo c’era la religione. E se li ha frequentati abbastanza ha certamente capito che quando scherzava, molto spesso, era serissimo.


Dunque: era o non era Marx antisemita? Per stabilirlo occorrerebbe disporre di un’idea chiara e distinta di: (1) che cos’è l’antisemitismo moderno; (2) di che cosa parla Marx. Due problemi nient’affatto scontati. Questo libro vuole gettare nuova luce su entrambi e scommette che ciò sia possibile mettendoli in relazione. Più che le opinioni o i sentimenti personali nei confronti dell’ebraismo, si tratta di approfondire il giudizio di questo autore sull’antisemitismo. La rinnovata diffusione di dicerie e persecuzioni contro gli ebrei nel mezzo del XIX secolo illuminato, liberale, industriale, era un fenomeno di entità e problematicità tali da non passare inosservato. Certamente non in Germania; certamente non da un attento osservatore dei costumi quale era il nostro, ebreo di nascita e convertito al cristianesimo luterano in età prescolare.


Sulle origini ebraiche di Marx e il loro influsso sul suo pensiero si sono avanzate molte e variopinte congetture. Vi è chi parla di «odio di sé ebraico» e chi al contrario rintraccia le radici della filosofia marxista nelle fonti profetiche dell’ebraismo. Certo è che la conversione non può considerarsi frutto di una scelta autonoma: aveva appena sei anni. Questo genere di esperienza non è soltanto privata, ma propriamente generazionale. Per molti ebrei tedeschi contemporanei di Marx il battesimo fu una scelta obbligata, una extrema ratio per non vedere vanificata l’antica speranza di emanciparsi. Anche la famiglia Marx si sottopose all’umiliazione del libero battesimo coatto. Non va forse considerato tutto ciò come parte integrante del contesto storico e biografico in cui ha avuto origine la critica di Marx alla libertà borghese e al suo carattere di coazione?


Più ancora che la biografia religiosa e familiare, però, è quella politica e intellettuale a offrire elementi per ricostruire la sua esperienza dell’antisemitismo. Marx vi ebbe a che fare per tutta la vita, soprattutto all’interno del suo stesso campo politico. Si pensi ai contrasti politici e teorici che lo videro impegnato con figure quali Feuerbach, Proudhon, Bakunin, Bruno Bauer, Joseph Dietzgen, Alfred Wagner, per menzionare solo alcuni dei più significativi. Tutti gli ambienti in cui fu attivo erano attraversati dalle più moderne tendenze antisemite. Non mancavano loro rappresentanti fra i filosofi atei della sinistra hegeliana, né nei movimenti democratici e radicali del ’48, né fra i cospiratori insurrezionalisti e avvinazzati della bohème parigina, né nei grandi partiti socialdemocratici della seconda metà del secolo, né ai più alti livelli dirigenziali della Prima Internazionale. Non di rado fu la stessa, influente persona di Marx oggetto di attacchi e vituperi antisemiti da parte di rivali. Un’analisi del tessuto delle sue relazioni politiche e intellettuali sembra giustificare l’ipotesi che proprio una sensibilità particolarmente spiccata per il problema dell’antisemitismo – quale mai gli è stata riconosciuta e che nella vastissima ricezione della sua opera non rappresenta finora un tema – abbia contribuito, a livelli più o meno consci della sua vita psichica, a fare di lui una delle figure più iraconde e litigiose della storia della filosofia moderna; a fargli rompere bruscamente rapporti personali e politici con compulsiva periodicità; a fargli aggredire pubblicamente, con sarcasmo anche amaro e violento, persone cui fino a poco prima lo legavano stima e amicizia; infine a far sì che una gran parte delle sue riflessioni si dedichino a criticare senza compromessi teorie e programmi cosiddetti di sinistra, insomma della «sua» parte politica assai più che di quella avversa. Marx è un testimone di primo rango dell’antisemitismo moderno. Lo ha potuto osservare da vicino, quasi dall’interno, nella sua fase genetica. Si è confrontato durevolmente con le formulazioni più sottili, profonde, avanzate, «rivoluzionarie», si può dire con l’avanguardia della nascente protesta antisemita contro la società borghese.


Le radici ideologiche del fascismo e nazionalsocialismo affondano nel XIX secolo, ma non solo nella tradizione anti-illuminista dell’aristocrazia reazionaria, nelle dottrine anti-democratiche dello Stato cristiano germanico o nella propaganda nazionalista delle «guerre di liberazione». Vanno cercate anche nei movimenti classificati come progressisti o di sinistra.12 Gli elementi di novità dei regimi di destra del Novecento sono maturati nel secolo precedente nel pensiero di uomini e donne radicali, animati sovente da ideali di giustizia, votati al progresso sociale e alla realizzazione della libertà. La questione ebraica è innanzitutto una questione di emancipazione. L’antisemitismo moderno non presenta una chiara appartenenza di classe o di partito, ma la capacità di coinvolgere tutti gli strati della società borghese e il suo intero spettro politico. È rossobruno fin dall’inizio, anzi: è forse il vero punto archimedeo di ogni rossobrunismo. Sino a oggi la sinistra non ha saputo fare i conti fino in fondo con questo aspetto della sua storia, e in ciò potrebbe risiedere una ragione non secondaria della sua attuale miseria; certamente una manifestazione di sudditanza culturale e politica nei confronti di forme di pensiero contrarie ai suoi scopi e a ogni emancipazione. In tal senso, l’autocritica del socialismo ottocentesco formulata da Marx offre solide fondamenta sia per lo studio dell’antisemitismo di destra del secolo successivo, sia per il programma di una sinistra che volesse riflettere sulla propria storia e contrastare l’antisemitismo al suo interno e nel mondo.


Marx è intervenuto un’unica volta pubblicamente e in modo esplicito nel dibattito sull’emancipazione ebraica che ha attraversato il suo secolo. L’occasione era l’introduzione dell’espressione «questione ebraica» nel lessico politico europeo a opera di un omonimo saggio del 1843 di Bruno Bauer, filosofo di punta della scena radicale tedesca, 99 anni prima della conferenza di Wannsee. Di regola, tuttavia, le sue polemiche con autori antisemiti non vertono su questo tema. Per una ragione o per l’altra, si limitano a sfiorarlo talvolta fugacemente con allusioni criptiche e perlopiù semiserie. Si tratta proprio delle famigerate citazioni sovente addotte come corpus delicti a suffragio dell’accusa di «antisemitismo». A una considerazione più attenta, tuttavia, esse rivelano tanto poco la presunta avversione personale quanto indifferenza o sventatezza. Se letti nel loro contesto e intesi nel loro senso, proprio e perfino i passaggi più malfamati esprimono un atteggiamento polemico del loro autore nei confronti dei contemporanei rigurgiti di antisemitismo, un atteggiamento dunque consapevole e critico. Le numerose incomprensioni che ancora essi suscitano si devono, fra l’altro, al fatto che i codici di correttezza discorsiva propri dell’odierna politica identitaria progressista non coincidono con quelli di Marx. Marx non era un liberale. Di fronte ai detrattori dell’emancipazione ebraica, non puntava il dito contro la loro avversione, già sufficientemente manifesta, né s’industriava a smentirne i pregiudizi, alla moda degli illuministi. Non protestava le virtù dei «cittadini tedeschi di fede israelitica» o la possibilità di un loro «miglioramento borghese», né manifestava interesse a illustrare i pregi della tolleranza.13 Con gli antisemiti Marx non discute quasi mai di ebrei, quasi sempre di lavoro e libertà. Non esamina le loro opinioni avverse all’ebraismo, bensì le moderne concezioni filosofiche, politiche ed economiche nel contesto e sul fondamento delle quali soltanto quelle opinioni acquisiscono il loro reale significato. Le polemiche che ha ingaggiato con piccoli e grandi autori antisemiti, numerose, aspre e talvolta decennali, sono interessanti non solo per lo storico che voglia approfondire lo sviluppo del pensiero di Marx, che per critica procede. Offrono anche analisi penetranti delle strutture di pensiero elementari, per così dire dell’impalcatura logica dell’antisemitismo moderno. In ciò risiede la loro originalità e capacità di contribuire significativamente a ricostruire la fisionomia di questo fenomeno e la sua genesi sociale.


Ciononostante, tanto la ricerca sull’antisemitismo quanto quella marxista hanno finora trascurato di recepire i risultati di questo lavoro critico. L’una e l’altra non hanno saputo o voluto vedere che il tema dell’antisemitismo moderno ha effettivamente un peso assai maggiore nell’opera di Marx di quello che può spettare a qualche colorita osservazione marginale. Benché il problema emerga alla superficie testuale perlopiù occasionalmente e non a chiare lettere, in realtà rappresenta un filone tematico sommerso che attraversa e orienta tutta la sua ricerca. La «critica della questione ebraica»14 abbozzata nella replica a Bruno Bauer non è un progetto concluso con quella recensione giovanile e poi abbandonato. Ha invece un ruolo decisivo in tutte le fasi di sviluppo del pensiero di Marx, dalla critica dell’ideologia tedesca a quelle più tarde del socialismo francese e dell’economia politica britannica. È forse uno dei principali elementi di continuità fra i presunti due Marx, il giovane filosofo e l’economista dalla barba grigia. Il vero garante della coerenza metodologica e politica fra la concezione materialistica della storia e la critica dell’economia politica.


Marx teorico dell’antisemitismo invece che teorico antisemita: questa ipotesi non vuole soltanto sfatare una buona volta la pertinace calunnia. Lungi dal simpatizzare con le tendenze antisemite del suo tempo, Marx è stato il primo a riconoscervi tendenze proprie del tempo. Le idee filosofiche e sociali dell’antisemitismo con cui ha avuto a che fare lungo il suo itinerario critico non rappresentano soltanto un bersaglio su cui esercitare la vis polemica, concezioni sbagliate da confutare scientificamente e avversarie della rivoluzione da contrastare politicamente. Sono anche una risorsa conoscitiva d’importanza primaria per i suoi occhi di diagnosta dell’epoca. Egli fu il primo a comprendere che non si trattava di un semplice residuo di vecchi pregiudizi e superstizioni, ma di qualcosa di nuovo, di un prodotto specifico della società borghese. Per di più un sintomo particolarmente acuto e rivelatore della sua patologia. La teoria sociale di Marx si presta perciò a essere ricostruita, letta e valorizzata come risultato di un confronto vita natural durante con il problema dell’antisemitismo moderno.


Per noi si tratta dunque di recuperare questa vecchia diagnosi precoce dalla pesante cartella ricolma di referti disattenti e interpretazioni fuorvianti sotto cui è schiacciata, per riconsiderare, alla sua luce, la storia clinica della nostra civiltà e le sue attuali condizioni di salute. Ciò vuol dire, da una parte, recepire finalmente il contributo di Marx allo studio dell’antisemitismo: fra i suoi meriti scientifici certamente il meno riconosciuto. D’altra parte è istruttivo riflettere sugli altri suoi meriti scientifici e su come li ha maturati, per quali vie, ponendosi quali domande, spronato da quali motivazioni. Occorre chiedersi non solo come l’autore valutasse l’antisemitismo del suo tempo, ma anche quale ruolo l’antisemitismo abbia avuto nella genesi della sua teoria sociale e nel novero delle problematiche che ne hanno mosso lo sviluppo. La questione non è soltanto scolastica: si tratta di capire come e perché nasce il pensiero critico.


Così come lo studio clinico di una patologia deve fondarsi su adeguate conoscenze anatomiche, chi voglia comprendere la natura e le cause dell’antisemitismo moderno deve conoscere le strutture fondamentali della società capitalistica entro cui si è generato. Questo è ovvio. Ma la vicenda biografica e intellettuale di Karl Marx insegna che è vero anche l’inverso: che proprio l’analisi della violenza antisemita può consentire un accesso privilegiato alla comprensione generale di quelle strutture. Tale circostanza può essere detta storpiando una celebre tesi di Kant. Se la società moderna, con i suoi limiti e le sue contraddizioni, è ratio essendi dell’antisemitismo, la realtà di quest’ultimo è la più eloquente manifestazione di quei limiti e quelle contraddizioni, vale a dire che l’antisemitismo è una ratio cognoscendi della libertà borghese.


A chi la si osserva attentamente la scritta all’ingresso di Auschwitz rivela un dettaglio irregolare. La B di ARBEIT è capovolta: l’occhiello superiore è insolitamente più grande di quello inferiore. A forgiarla fu un prigioniero politico polacco di nome Jan Liwacz. Secondo ogni evidenza storica il suo errore fu intenzionale: astuto sabotaggio, appena percettibile ma imperitura espressione di dissenso dell’uomo fabbro. Dixi et salvavi animam meam. Si può pensare a questo gesto come a un emblema della riflessione di Marx, la quale muove dalla verità dell’emancipazione moderna: che il lavoro rende liberi, e il cui intero svolgimento è determinato a mostrare che la storia della società moderna è la storia del ribaltamento di quella verità, del suo pervertimento nel suo contrario, della sua autodistruzione

Parte seconda

Critica dell’economia politica

Antisemitismo e capitale

1. Economia politica dell’antisemitismo

Bellum cano perenne, between

Usura and the man who wants

To do a good job.


Ezra Pound, Lavoro ed usura (1972)1


1.1. Il tempo del lavoro

«Antisemitismo» non è l’unico caso di un concetto coniato in epoca moderna per designare una cosa che già esiste ed è nota a tutti da tempo immemorabile.2 Un altro esempio è: «lavoro». La coscienza ordinaria considera il lavoro come una condizione eterna della vita umana, una necessità naturale che accomuna tutte le società, dall’inizio alla fine dei tempi. «Mangerai pane col sudore del tuo volto», sta scritto nella Genesi, «finché tornerai alla terra dalla quale sei stato tratto».3 Tutti, bene o male anche i bambini, sanno da sempre che cos’è il lavoro. Eppure Marx non si stanca di ripetere che il concetto di lavoro ha un’origine affatto recente.


Il lavoro sembra una categoria semplicissima. Anche la nozione di lavoro in questa generalità – come lavoro in generale – è antichissima. Nondimeno, compreso in questa semplicità dal punto di vista economico, il «lavoro» è una categoria moderna quanto i rapporti che creano questa semplice astrazione.4


La nozione economica di lavoro come attività produttiva di valore risale alla stagione classica dell’economia politica moderna e ne costituisce il principale progresso conoscitivo. Il primo a comprendere che il valore delle merci è determinato dal lavoro umano in esse contenuto è stato Adam Smith. L’economista scozzese teorizza non soltanto che il lavoro è la fonte di ogni ricchezza, ma anche che ogni lavoro è fonte di ricchezza. Nella sua affermazione della dignità e del pari valore di ogni lavoro umano si esprime lo spirito egualitario e progressista dell’emancipazione borghese.


È stato uno straordinario progresso che Adam Smith abbia rigettato ogni determinatezza dell’attività creatrice di ricchezza e l’abbia considerata lavoro in quanto tale, non lavoro manifatturiero, né commerciale, né agricolo, ma sia l’uno che l’altro.5


In quanto sostanza di valore comune a tutte le merci, il lavoro umano non conosce differenze formali e qualitative, ma solo di quantità. È lavoro in generale, lavoro senz’altro, lavoro determinato puramente come fonte di ricchezza generica, lavoro sans phrase, fatica umana indifferenziata. Proprio perché è tanto astratto e universale, questo concetto appare valido per tutte le epoche. Ma il merito scientifico che Marx attribuisce ad Adam Smith non consiste nell’avere egli capito per primo il significato di Genesi 3,19 e scoperto finalmente l’eterna verità della produzione della ricchezza e della vita umana.6 La sua innovazione teorica va intesa piuttosto come un riflesso delle trasformazioni sociali del tempo, una presa d’atto dei nuovi rapporti e delle nuove condizioni in cui gli esseri umani lavorano. L’astrazione lavoro non è un’idea della ragione pura, non è priva di presupposti empirici e storici – tutt’al più ne è inconsapevole.


Ora potrebbe sembrare che con ciò sia stata soltanto trovata l’espressione astratta per la relazione più semplice e antichissima in cui gli uomini – in qualunque forma di società – compaiono come produttori. Per un verso questo è giusto. Per l’altro non lo è. L’indifferenza verso un genere di lavoro determinato presuppone una totalità molto sviluppata di generi di lavoro reali, nessuno dei quali domini più sull’insieme. Così le astrazioni più generali sorgono solo dove più ricco è lo sviluppo concreto.7


La riflessione scientifica che ha condotto gli economisti moderni a formulare un concetto universale e apparentemente eterno di lavoro muove dall’osservazione del tipo specifico di lavoro proprio del loro tempo: industriale e salariato. Incaricati di mansioni sempre più parziali e ripetitive, i lavoratori e le lavoratrici della grande industria moderna non hanno alcun rapporto diretto con il risultato del processo produttivo cui partecipano, né esercitano alcun controllo sul suo corso complessivo. L’utilità concreta dell’attività che svolgono è loro estranea e ignota. Lo scopo di tutto l’allestimento non è quello di produrre un tale bene piuttosto che un altro. Chi lavora lo fa per il salario, chi fa lavorare ha per fine il profitto. Che si produca dentifricio o artiglieria pesante, è indifferente a entrambi: ciò che conta è il valore di scambio. Ma è proprio questa indifferenza rispetto al contenuto la caratteristica precipua del nuovo concetto economico di lavoro.


L’indifferenza verso un lavoro determinato corrisponde a una forma di società nella quale gli individui passano con facilità da un lavoro all’altro e in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito, quindi indifferente. Non solo nella categoria, ma nella realtà il lavoro è qui divenuto mezzo per la creazione della ricchezza in generale, e come determinazione ha cessato di concrescere con gli individui in una dimensione particolare … Quindi l’astrazione più semplice, che l’economia politica colloca al vertice e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società, appare però praticamente vera in questa sua astrazione solo come categoria della società più moderna.8


«Lavoro» non è una legge eterna per le generazioni. La considerazione di questo concetto come un paradigma idoneo a pensare le strutture immutabili del rapporto fra l’uomo e la natura deriva dalla dimenticanza (o dall’occultamento) della sua origine moderna. Al metodo astorico degli economisti borghesi Marx contrappone una genealogia materialista dei concetti economici: per così dire una deduzione sociale delle categorie, la cui oggettiva validità non viene semplicemente contestata, astrattamente negata, bensì analizzata e criticata nei suoi limiti e presupposti storici. Il concetto astratto, quasi tautologico, di lavoro come attività producente ricchezza generica – «il lavoro è lavoro» – esprime una forma di pensiero specificamente borghese e non trova al di fuori del contesto borghese alcun correlato oggettivo. Le generazioni precedenti di pensatori economici ne erano prive perché l’astrazione «lavoro» presuppone la diffusione universale (o almeno in via di universalizzazione) della grande industria e del regime salariale; presuppone il capitale come modo di produzione dominante.


Al medesimo contesto storico risale anche il concetto di antisemitismo come odio eterno e incondizionato degli ebrei da parte dei gentili. Infatti la prima società a porsi una «questione ebraica» è stata quella moderna, e soltanto verso la fine del XIX secolo tale questione ha assunto la dimensione universale, l’abito scientifico e il significato politico e sociale decisivo propri del senso in cui la intendono Wilhelm Marr, il padre del concetto, e dopo di lui gli antisemiti del ’900.


Circa cent’anni separano la vita e l’opera di Adam Smith da quelle di Wilhelm Marr. Il trattato del primo su La ricchezza delle nazioni fu pubblicato appena prima della Rivoluzione francese, agli albori della nuova società, nella sua fase liberale e ascendente. L’agitazione antisemita del secondo invece ha luogo in una fase di sviluppo avanzata e declinante della società borghese, durante la grande depressione, nel momento del passaggio dal modo liberale di espansione della produzione capitalistica, fondato sulla concorrenza e il libero mercato, a quello imperialista fondato su violenza, conquista ed espropriazione. Ma sebbene collocati ai due estremi opposti, Smith e Marr appartengono alla stessa epoca. Li accomuna il punto di vista di una razionalità universale e astratta che si avvale di categorie indifferenti al contenuto particolare dei loro oggetti: la razionalità borghese.


Nelle Dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo e del cittadino, la borghesia rivoluzionaria afferma che tutti gli uomini sono uguali, senza obsolete distinzioni di sesso, razza, religione eccetera; che un essere umano è pur sempre un essere umano.


Con la teoria del lavoro come fonte, sostanza e misura universale della ricchezza, Adam Smith afferma che tutti i lavori sono uguali, senza obsolete distinzioni di settore, corporazione o prestigio sociale; che il lavoro è pur sempre lavoro.


Quando dice «semiti», Wilhelm Marr sta dicendo che gli ebrei costituiscono una minaccia universale per l’umanità e il suo lavoro, indipendentemente dalle loro convinzioni e dai loro comportamenti religiosi, senza obsolete distinzioni teologiche fra ortodossi, riformati, convertiti o imborghesiti; che un ebreo è pur sempre un ebreo.


1.2. Il potere del denaro

Il lavoro eterno ha un nemico altrettanto longevo: il denaro.


Che cos’è il denaro? Indipendentemente da chi io sia e cosa faccia per vivere, basta che abbia un po’ di soldi in tasca, ed ecco che tutto mi è dovuto. Se ne ho voglia posso entrare in una pizzeria e farmi preparare una margherita, persuadere un tassista a portarmi alla stazione, eccetera.9 Il denaro è comando immediato sul lavoro degli altri. Ha tutta l’apparenza di essere una cosa – ma che genere di cosa consente, a chi la possiede, di impossessarsi dei frutti del lavoro altrui senza lavorare a sua volta? Le occulte proprietà della cosa-denaro contrastano, in primo luogo, con il buon senso. Contraddicono, inoltre, anche la dottrina liberale della proprietà privata, per la quale, come è noto, l’unica fonte legittima del diritto di proprietà è il lavoro.10 Il potere del denaro minaccia di far collassare la ragione naturale e le istituzioni borghesi che su di essa si fondano.


Dal punto di vista di un produttore di merci, il rapporto di scambio fra lavoro e denaro appare sbilanciato a favore del secondo. A dispetto dei principi di eguaglianza giuridica e di equivalenza economica che si suppone presiedano al libero scambio, il denaro gode di notevoli privilegi rispetto ai prodotti del lavoro. Questi ultimi, ad esempio, devono essere alienati il prima possibile dai loro possessori: sono deperibili, comportano costi di mantenimento, costi di trasporto, costi di magazzino; inoltre possono sempre non incontrare domanda, rimanere invenduti e trasformarsi in una perdita. Chi intende scambiare denaro, invece, può attendere il momento che ritiene più vantaggioso. Poiché è una cosa astratta, la moneta non va a male. Può essere incamerata o dislocata senza costi. Inoltre non corre mai il rischio di non riuscire a realizzare il proprio valore, di non poter essere scambiata. Sta forse qui l’arcano del suo inafferrabile e onnipervasivo potere?11


La questione pare assolutamente decisiva, come se nascondesse la soluzione del mistero dell’epoca. Di quell’epoca, cioè, che ha destituito tutte le autorità e i valori tradizionali per incoronare il denaro sovrano universale. L’invettiva morale contro la sete di denaro, il biasimo dell’avarizia, la condanna dell’usura ecc., non sono fenomeni soltanto moderni. Tuttavia, solo nella società borghese questi elementi giungono a organizzarsi in una struttura ideologica apparentemente solida, coerente e in grado di fornire una spiegazione complessiva della vita sociale. L’universalità che è propria del concetto di denaro, la sua funzione di equivalente universale, si realizza praticamente soltanto a partire da un certo grado di avanzamento dello sviluppo capitalistico. Soltanto nel mercato mondiale il denaro diventa propriamente denaro e il suo potere assoluto. Le rivoluzioni borghesi lo hanno emancipato dalla marginalità sociale in cui versava e hanno levato ogni freno al dispotismo delle sue pretese. Il potere feudale era legato al signore locale, al suo onore personale, alla tradizione della sua famiglia. Aveva un volto e un nome. Nella società moderna, al contrario, il semplice possesso di denaro consente al primo arrivato di assoggettare tutti gli altri – siano essi contadini, artigiani, principi o governi nazionali – alla propria volontà, senza esibire meriti e titoli ulteriori. Per la sua forza sovrannaturale il denaro pare sostituirsi, agli occhi dei moderni, perfino a Dio: come oggetto di culto e venerazione e come facitore di miracoli.12


Intorno alla nozione oscuramente metafisica di potere del denaro si è raggruppato, fra il XIX e il XX secolo, un corpus più o meno coerente di teorie e rappresentazioni economiche generali della società moderna. In virtù della sua facoltà di alterare e falsificare lo scambio di equivalenti – questa la tesi centrale – il denaro costituisce il principale fattore di disturbo del naturale ordine economico; è il responsabile ultimo di tutti gli squilibri del mercato, delle disuguaglianze, delle crisi, della miseria nell’opulenza.


Con le teorie del potere del denaro si è diffusa, più in generale, una determinata mentalità economica, un nuovo modo di pensare ai problemi della società. Si è affermata cioè la tendenza a interpretare i mali economici dell’epoca come altrettante deviazioni dal corso naturale della produzione di merci, come irregolarità del libero scambio, piuttosto che come prodotti specifici della sua propria evoluzione storica.


All’idea di un simile ordine economico «naturale» – una «semplice produzione di merci» non viziata dal potere del denaro e dall’accumulazione di capitale, una pacifica associazione di piccoli produttori privati, tutti liberi e uguali tra loro, ognuno proprietario degli strumenti e dei prodotti del proprio lavoro, che scambiano le proprie merci alla pari – non corrisponde, naturalmente, nulla di reale. Si tratta di una fantasia proiettata nostalgicamente nel passato ovvero utopisticamente nel futuro. Che venga proposta come immagine romantica di una comunità premoderna di artigiani o come progetto per l’avvenire socialista dell’umanità, l’idea di una «semplice produzione di merci» presuppone che la società umana sia la semplice somma di individui isolati. I suoi teorici concepiscono la totalità sociale come un aggregato naturale di produttori di merci, indipendenti l’uno dall’altro, che stabiliscono rapporti reciproci scambiandosi i prodotti del lavoro. Perciò Marx sostiene che non si elevano al di sopra dell’orizzonte borghese. Poiché il nesso sociale fra questi atomi è immaginato costituirsi attraverso lo scambio, l’equità degli scambi è indicata come la chiave di volta della giustizia sociale. Ne consegue che l’attenzione politica è tutta focalizzata sul momento dello scambio, sulla sfera del traffico e della circolazione. È qui che il denaro esercita il suo potere, compromettendo le naturali proporzioni dello scambio e il tranquillo equilibrio del tutto. La lotta per l’emancipazione del lavoro deve dunque combattersi su questo terreno. Si tratta di garantire una libera circolazione delle merci fondata su reciprocità e mutualismo, nella quale, cioè, ogni singolo produttore ottenga un compenso effettivamente equo per le proprie merci. L’attività produttiva che precede gli scambi, invece, è considerata come un processo meramente tecnico-scientifico, neutrale, impolitico e presociale. Il suo carattere privato e la forma di merce dei suoi prodotti sono presupposti come naturali. La sfera della produzione è posta così al di fuori dell’ambito di ciò che è storicamente trasformabile. La forma o qualità sociale del lavoro viene esclusa dalla riflessione politica. La concentrazione esclusiva sul denaro e la circolazione consente di formulare una varietà di modelli economici «alternativi» al «capitalismo moderno», senza mettere in discussione i fondamenti della produzione capitalistica. Consente di «criticare» l’economia borghese rimanendo nei limiti delle sue categorie e del suo individualismo metodologico.13


Dove il denaro è concepito come il lato negativo, l’aspetto deteriore del «capitalismo», il contraltare positivo è rappresentato dal lavoro: la fonte di ogni bene. Come attività produttiva indifferenziata, genericamente umana, «lavoro» è un’astrazione prodotta dalla modernizzazione capitalistica tanto quanto il potere universale del denaro. Ciononostante i detrattori del denaro esaltano il lavoro come eterna quintessenza della prassi «umana», vera sostanza della libertà. Il lavoro rende nobili: sacrosanto sudore dell’uomo perbene che nutre la propria famiglia mentre allo stesso tempo contribuisce, in forza di un’astuta o mistica eterogenesi dei fini, al benessere e al progresso della collettività. Il dominio sempre più incontrastato del denaro è lo scandalo della civiltà borghese, l’incrementata produttività del lavoro il suo motivo d’orgoglio.


La condanna del denaro e l’encomio del lavoro non sono due opinioni isolate, né semplicemente interdipendenti. Rappresentano i due punti cardinali di un rigido schema interpretativo attraverso cui la collettività guarda alla propria prassi reale e ne prende coscienza. Definiscono cioè una forma bipolare di intelligenza del mondo che ha accompagnato la società moderna fin dai suoi esordi, contribuendo in maniera decisiva alla formazione della sua coscienza economica e morale. La parvenza del processo capitalistico della riproduzione sociale viene scissa in due e organizzata idealmente intorno a una coppia di principi antitetici: uno buono, l’altro cattivo. Le astrazioni «denaro» e «lavoro» non vengono colte nella loro genesi comune, quali espressioni complementari di un’unica razionalità produttiva improntata alla valorizzazione del valore e all’accumulazione di capitale. Vengono invece contrapposte l’una all’altra come due istanze antitetiche, due principi elementari eternamente coinvolti in un conflitto metafisico e ultrastorico in cui ne va del destino dell’umanità.


Questo modo di concepire i conflitti e le contraddizioni dell’epoca ha ispirato, fin dal XIX secolo, utopie e programmi di riforma economica – ma insieme anche etica, religiosa, igienica – della società moderna. Ad accomunarle è l’obiettivo finale: abolire ogni forma di reddito senza lavoro, eliminare il denaro, annientare i parassiti. Lo slogan: «Chi non lavora, non mangia!». Nella letteratura economica e nella propaganda politica afferenti a questa variopinta tradizione, la lotta per l’emancipazione del lavoro dal denaro assume, di volta in volta oppure in combinazione, i tratti di un conflitto fra:


– la produzione delle merci / la loro circolazione mediata dal denaro;


– le officine locali / gli agenti mobili del mercato mondiale;


– la ricchezza concreta e materiale / la ricchezza astratta e virtuale;


– l’onesta fatica / l’accaparramento fraudolento;


– l’agricoltura e l’industria / il credito e l’usura;


– lo sforzo fisico del lavoro manuale / la speculazione intellettuale, borsistica, giuridica;


– il bene comune / l’egoismo e l’individualismo;


– l’organismo sociale / i suoi parassiti;


– il popolo / l’élite;


– il radicamento nazionale dei produttori / il cosmopolitismo del mercato e della finanza;


– il suolo, il sangue le tradizioni / la loro dissoluzione nel freddo calcolo impersonale;


– la creatività, la fertilità, l’ingegno / la sterilità, il cavillo, l’aridità di spirito;


– il capitale produttivo / il capitale predatorio;


– la comunità di popolo, la razza ariana, l’umanità / gli ebrei.


In questa forma di pensiero dualistica e manichea non è difficile riconoscere all’opera il meccanismo ideologico di sdoppiamento delle parvenze illustrato da Marx sull’esempio della filosofia tedesca del suo tempo.14 In ambito economico, quel medesimo meccanismo produce la convinzione che l’uomo moderno sia schiavo del denaro, che il lavoro invece renda liberi.


Con l’avvento della grande industria e del mercato mondiale, il dominio del denaro sul lavoro pare avvolgere l’umanità intera nelle nubi del suo mistero – nubi fra le quali la notizia di una cospirazione internazionale ordita da una minoranza esclusiva ai danni dei popoli produttori appare come un raggio di luce. Da questo punto di vista, l’antisemitismo si rivela essere non soltanto, né primariamente, un prolungamento di antichi pregiudizi sugli ebrei. È innanzitutto un tentativo di spiegazione sistematica della società moderna e delle sue trasformazioni economiche. La connessione archetipica dell’ebreo errante al denaro e alla circolazione è senza dubbio un presupposto storico dell’antisemitismo moderno, ma non la sua causa scatenante. Determina la scelta del bersaglio, non però l’impulso, non la sua genesi, non la domanda di distruzione totale che lo caratterizza. Il fatto che gli ebrei vengano indicati come gli ominosi agenti del «capitalismo moderno» non dipende in prima istanza né dal reale comportamento economico degli ebrei, né dalle tradizionali credenze su di esso. Dipende dal «capitalismo moderno» stesso, dalla struttura dicotomica della sua parvenza; dipende dal fatto che il processo in cui la società borghese lavora e riproduce la propria esistenza materiale non si mostra immediatamente per quel che è, ma viene percepito come un equilibrio naturale compromesso dalle forze occulte di alcuni ominosi agenti.


Nella storia della società borghese, la questione ebraica è intrecciata a quella del potere del denaro e si sviluppa con la stessa dinamica totalizzante, tendendo così a identificarvisi. L’antisemitismo moderno si propone come soluzione finale di entrambe. Gli ebrei non sono oggetto di una semplice avversione arbitraria da parte degli antisemiti. Rappresentano un elemento fondante della loro coscienza economica, indispensabile a mantenere compatta la loro immagine del mondo. Se la protesta contro il capitale portatore d’interesse non fa sempre esplicita professione di antisemitismo, per l’antisemitismo moderno, invece, il riferimento al potere «ebraico» del denaro e della finanza è costitutivo. Vale a dire che il programma di emancipazione del lavoro dal potere del denaro e l’antisemitismo moderno non hanno un rapporto soltanto estrinseco, ma sono legati l’uno all’altro da un nesso storico e insieme sistematico, strutturale, intrinseco. Tale nesso consente di parlare – con Robert Kurz – di una «economia politica dell’antisemitismo».15

2. Il popolo del denaro

Ogni mito nasce in un determinato ambiente sociale, entro una determinata cultura; e la formulazione di ogni mito risulta strettamente allacciata al linguaggio di quell’ambiente, di quella cultura – dunque alle esperienze di vita tipiche. Il giorno in cui l’ambiente sociale cambia, la memoria dei miti che di quell’ambiente erano propri sopravvive, ma viene nuovamente interpretata in base alle nuove condizioni della società e della cultura.


Furio Jesi, Trasmissione sulla favolistica (1969 circa)1


2.1. Le connessioni archetipiche

L’attribuzione agli ebrei di una disposizione particolarmente spiccata per il traffico di denaro non è un’idea soltanto moderna. Questo cliché della cultura economica mondiale vanta una storia assai più lunga di quella della società borghese. La sua diffusione risale perlomeno all’epoca ellenistica, ricorre con assiduità lungo tutto il medioevo per raggiungere l’epoca moderna e, con ogni evidenza, sopravviverle.2 Non è dunque l’antisemitismo moderno a inventarsi la connessione ebreo-denaro. Semmai la rinviene, come un materiale mitologico tramandato dal passato, la accoglie all’interno della propria coscienza e ne fa un cardine della propria interpretazione ideologica del mondo contemporaneo.


Per comprendere le ragioni e i modi della straordinaria longevità di questo luogo comune può essere utile ricorrere al concetto di «connessione archetipica» proposto da Furio Jesi. In un tentativo di rileggere le teorie sul folklore dell’antropologo e linguista sovietico Vladimir Jakovlevič Propp attraverso le lenti della psicoanalisi e della scienza del mito, Jesi scrive:


Esaminando materiale folkloristico di varia provenienza … ci si accorge della presenza costante di immagini affini, di ‘luoghi comuni’: motivi che si ripetono nelle differenti forme … Le ricerche condotte in questo campo dagli etnologici dell’Università di Leningrado … hanno confermato il rapporto costante fra i motivi in questione e gli istituti sociali, il ‘regime sociale’ sotto il quale sono stati creati, secondo la definizione di Propp. Constatando l’impossibilità di giustificare ogni motivo con un istituto corrispondente, Propp prende in considerazione il fenomeno della trasformazione e della trasmissione dei motivi ... [Lo] stesso motivo, con la scomparsa degli istituti sociali così strettamente connessi alle sue origini, perde qualsiasi rispondenza con le condizioni di vita e risulta sempre meno comprensibile. Subisce alterazioni chiarificatrici, spesso opposte al significato originario, fino a che … non viene rielaborato e gli è quindi attribuito un significato del tutto estraneo a quello iniziale, ma chiaro agli occhi degli uomini del momento … Come automanifestazione dell’inconscio, compaiono gli archetipi … Già Jung ha notato che con estrema frequenza i prodotti archetipici non si presentano come miti formati, ma piuttosto come elementi mitici: i ‘motivi’ cui abbiamo già accennato. La mia critica ai concetti tradizionali nel campo della mitologia procede inizialmente dalla constatazione che soltanto le connessioni fra due elementi possono ritenersi archetipiche.3


Una connessione fra motivi mitologici si instaura in un ambiente sociale e culturale dato. Quando le condizioni della sua origine vengono meno, però, il collegamento associativo non si allenta. Resta saldo nella memoria. Ciò che si modifica è il suo significato, che dev’essere di volta in volta reinterpretato in accordo con le nuove circostanze sociali e culturali. La connessione ebreo-denaro può esser detta archetipica nel senso indicato dallo studioso di miti. Può essere intesa, cioè, come l’accostamento di due figure simboliche che affiorano ripetutamente alla coscienza accoppiate con solidarietà costante lungo l’evoluzione dell’immaginario teologico e sociale dell’Occidente, veicolando però messaggi diversi in corrispondenza dei mutevoli contesti sociali in cui si ripropongono.


Nei secoli vissuti in diaspora di fianco ai popoli pagani e cristiani, gli ebrei hanno trovato nel commercio la loro principale fonte di sostentamento. L’ordine sociale tradizionale, basato sul lavoro, in gran parte agricolo, di schiavi o servi della gleba, riservava agli ebrei la funzione economica di intermediari fra le diverse comunità nelle quali non erano integrati (né come servi, né come padroni). La sfera del traffico e della circolazione è divenuta così l’ambiente economico privilegiato della poco sedentaria esistenza di questa minoranza.4 Tale circostanza li rendeva, agli occhi delle popolazioni gentili, una sorta di personificazione nazionale del capitale commerciale e dei suoi sviluppi espansivi. L’odio e il disprezzo di cui sono tradizionale bersaglio possono essere intesi come una forma di risentimento contro il traffico di valori di scambio proprio di una società agraria che pratica un’economia prevalentemente naturale, produzione di valori d’uso immediati, ossia una società in cui lo scambio di merci e di denaro è un fenomeno soltanto marginale.


A partire dal XII e XIII secolo, quando in Europa iniziavano a formarsi le prime classi mercantili autoctone e cristiane, gli ebrei vennero progressivamente estromessi da gran parte delle relazioni commerciali e sospinti in quel ramo specifico del commercio che è il prestito, il commercio di denaro. La loro funzione economica si ridusse così a un’unica specifica sottocategoria di capitale commerciale: il capitale portatore d’interesse (capitale monetario, capitale usurario, capitale bancario, capitale finanziario). Ciò li mise in una posizione di potenziale conflitto con quasi tutte le altre classi sociali del Basso Medioevo, costrette sempre più spesso a ricorrere ai loro servizi finanziari. L’espulsione degli ebrei dalla Spagna decretata dai «re cattolici» nel 1492 può essere vista come l’episodio culminante di queste tensioni. Una rappresentazione iconica dei rapporti fra gli ebrei e le vecchie classi dominanti in declino all’alba della società moderna si trova nella commedia di Shakespeare Il mercante di Venezia.


Con la vittoria delle rivoluzioni borghesi, l’aristocrazia del sangue viene definitivamente soppiantata da quella del denaro. La costituzione del mercato mondiale accresce il volume della circolazione, ossia la sfera di influenza del denaro, a dismisura. Se prima il traffico commerciale riguardava soltanto un numero esiguo di prodotti specifici, ossia le eccedenze della produzione che venivano scambiate fra comunità perlopiù geograficamente contigue, all’epoca della grande industria la sfera della circolazione si è espansa fino ad assorbire tutti i prodotti del lavoro e fino ad avvolgere l’intero pianeta. Il denaro diviene in breve il sovrano universale dell’epoca, «la visibile deità» e «l’universale prostituta, l’universale mezzana di uomini e popoli».5


Il denaro esercita ruoli differenti nella vita e assume significati differenti nella coscienza di un contadino sassone del XVI secolo e di un cittadino della Repubblica di Weimar. Allo stesso modo, anche Lutero e Goebbels, quando parlano di «ebrei», non intendono lo stesso problema. Nei contesti precapitalistici, in cui si praticava un’economia prevalentemente naturale e la produttività del lavoro era poco sviluppata, la produzione era destinata in larga misura al consumo diretto, mentre solo una piccola parte del prodotto veniva alienata sotto forma di merce. Era soltanto un esiguo surplus a convertirsi finalmente in denaro, il ruolo del quale nella vita sociale era perciò marginale. Al tempo della grande industria, al contrario, l’intera ricchezza prodotta è destinata, in quanto merce, alla circolazione, il ritmo, il volume e l’estensione della quale aumentano perciò spropositatamente. L’apparente potere del denaro diventa irresistibile e totalizzante, ingloba il mondo intero e allo stesso tempo penetra all’interno delle comunità, fin dentro i rapporti più intimi e personali, sottomettendosi così ogni aspetto della vita sociale.


Proprio in quanto assume tali macroscopiche dimensioni, tuttavia, la funzione economica del denaro diventa sempre meno specifica. L’avvento della manifattura moderna e della grande industria introduce la logica del valore di scambio all’interno della vita produttiva, ne fa anzi il suo principio organizzativo centrale, il suo cuore pulsante. Il profitto cessa di essere prerogativa esclusiva di una casta commerciale separata dalla maggioranza produttiva della società. Nella transizione dalla società feudale a quella capitalista vengono meno le condizioni storiche che avevano determinato la separazione sociale degli ebrei e confinato la loro attività economica a un’unica funzione esclusiva. Il capitale commerciale e il capitale usurario vengono progressivamente subordinati alle esigenze del capitale agrario (la grande proprietà terriera) e di quello industriale.


Il luogo sistematico deputato da Marx alla trattazione del capitale commerciale e del suo «fratello gemello» il capitale usurario, nel terzo libro del Capitale, è perciò il capitolo sulle «Condizioni precapitalistiche». Entrambi appartengono «alle forme antidiluviane del capitale, che precedono di gran lunga il modo di produzione capitalistico e che si trovano nelle formazioni economiche più diverse». Addirittura avrebbero raggiunto l’apice del loro sviluppo «nella Roma antica, a partire dagli ultimi tempi della Repubblica». La ragione di ciò è che il commercio e l’usura detengono una posizione sociale dominante soltanto in quei contesti in cui la produzione è poco sviluppata e di tipo prevalentemente naturale, come appunto nell’economia schiavistica.


Il capitale usurario, in quanto forma caratteristica del capitale portatore d’interesse, corrisponde al prevalere della piccola produzione, dei contadini che lavorano in proprio, dei piccoli artigiani. Quando al lavoratore, come si verifica nel modo di produzione capitalistico sviluppato, le condizioni di lavoro e il prodotto del lavoro si contrappongono come capitale, egli non ha bisogno di prendere in prestito il denaro come produttore … Dove invece il lavoratore è proprietario nominale o effettivo delle sue condizioni di lavoro e del suo prodotto, egli come produttore entra in rapporto con il capitale di chi dà il denaro in prestito e questo capitale sta di fronte a lui come capitale usurario … Di qui l’odio popolare contro l’usuraio, che raggiunge il suo culmine nel mondo antico.6


Con l’affermazione della produzione propriamente capitalistica, le forme di capitale più obsolete vengono quindi progressivamente marginalizzate. Contestualmente a queste trasformazioni ha inizio anche il processo di integrazione e assimilazione delle comunità ebraiche, che in tutti i paesi più sviluppati dell’Europa occidentale cominciano ad aggregarsi alle borghesie gentili, ai movimenti dei lavoratori, alle aspirazioni nazionali. L’emancipazione civile degli ebrei e il loro ingresso nella società moderna coincidono con l’esaurimento storico della loro funzione sociale tradizionale specificamente legata al capitale portatore d’interesse.


Avviene però che, quanto più questa funzione sociale si esaurisce, tanto più pertinacemente il suo ricordo si radica nella coscienza antisemita e diventa il perno ideologico della sua intelligenza del mondo moderno. Se per un verso l’attribuzione agli ebrei di un rapporto privilegiato con il denaro e il traffico cessa di aderire alla realtà economica oggettiva, per l’altro acquisisce un significato politico e psicologico via via più pregnante, sistematico e totalitario. L’ebreo della società borghese non viene semplicemente deprecato per la brama di denaro e per la sua attività feneratizia, come avveniva in epoche precedenti. Nel potere ebraico del denaro e nelle sue articolazioni istituzionali (il moderno sistema bancario, la finanza internazionale) l’antisemitismo moderno identifica il responsabile ultimo delle conseguenze più deleterie dell’incalzante sviluppo industriale. All’ebreo sono imputabili le crisi cicliche dell’economia mondiale, la dissoluzione dei ceti e dei legami sociali tradizionali, l’urbanizzazione incontrollata, il declino di valori etici e religiosi del cristianesimo, il pauperismo moderno, la formazione di un proletariato industriale e di un movimento socialista, le guerre, eccetera. In quanto rappresentante del denaro e padrone della circolazione, l’ebreo diventa l’emblema dell’insondabile e soverchiante modernizzazione economica in tutte le sue più deleterie dimensioni, l’oscuro agente di una nuova forma di dominio cosmico e impersonale che è sul punto di assoggettare il mondo intero. Una maschera del cosiddetto «capitalismo».


2.2. Werner Sombart: l’ebreo eterno e il capitalismo moderno

Strettamente legato al denaro fin da tempo immemorabile, nell’epoca moderna «l’ebreo» giunge a impersonare l’astrazione suprema che va dominando porzioni crescenti della vita sociale. Teorie e leggende sul ruolo storico degli ebrei nello sviluppo dell’economia moderna ricorrono con alterne accezioni ma costante frequenza nella letteratura e nella pamphlettistica sociale del XIX secolo, di stampo sia romantico e reazionario che progressista, liberale o socialista.7 A compendiare queste rappresentazioni in una veste pseudo-scientifica fu l’economista tedesco socialista e antimarxista Werner Sombart (1863-1941). Il suo celebre saggio del 1911 Gli ebrei e la vita economica ribalta le ipotesi di Max Weber sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo, identificando per quest’ultimo piuttosto un’origine e un carattere ebraici.8


Nella storiografia economica dell’Ottocento a cui Sombart attinge, l’apprezzamento dei successi commerciali degli ebrei fra il Basso Medioevo e la prima età moderna aveva un senso per lo più liberale, da intendersi nello spirito cosmopolita della borghesia illuminata. Se perfino autori ebrei vi avevano fatto riferimento, l’intento era certamente quello di sottolineare le capacità dei loro avi di adattarsi alle persecuzioni, oppure il loro contributo alla costruzione di una società più ricca, tollerante e aperta.9 È evidente che invece, nel contesto dell’aggressiva Germania guglielmina in cui operava Sombart, caratterizzato da spinte nazionaliste, politiche imperialistiche e dall’insorgenza delle teorie della razza, l’enfatizzazione dei successi commerciali e finanziari delle reti internazionali ebraiche aveva tutt’altro senso. Più che alla borghesia liberale strizzava l’occhio alle inclinazioni antisemite dell’anticapitalismo nostalgico e reazionario che andava maturando in quel contesto.10


Oltre ad amplificare fuori misura il ruolo dei mercanti ebrei (soprattutto sefarditi) come artefici delle principali innovazioni della finanza pubblica e privata fino a farne la vera forza motrice dello sviluppo capitalistico, l’indagine storica di Sombart si spinge a rintracciare le ragioni profonde di questo presunto protagonismo economico. Il motivo di tanti e tali successi commerciali è che gli ebrei sono dediti a questo genere di attività fin dai tempi antichi. Nel corso dei secoli, l’abilità nel maneggiare il valore astratto e impersonale del denaro sarebbe divenuta una loro caratteristica peculiare ineguagliabile.11 A sua volta, questa durevole specializzazione viene spiegata da Sombart non sulla base dell’emarginazione e delle persecuzioni storicamente subite dagli ebrei, ma a partire dalla loro religione. Riallacciandosi all’antico biasimo paolino, l’economista istituisce un collegamento fra l’attitudine legalistica della cultura rabbinica e la fredda logica calcolatrice della speculazione finanziaria.


Il problema che ora si pone è di sapere se sia possibile riconnettere con una certa verosimiglianza il moderno titolo al portatore al diritto talmudico-rabbinico. Indico gli elementi che a mio avviso depongono a favore di questa ipotesi …12


Mescolando come un abile alchimista motivi mitologici provenienti da epoche differenti – il perfido adoratore della lettera morta, l’avido usuraio medievale, lo spregiudicato mercante di età rinascimentale, l’astuto speculatore borsistico –, Sombart mira a far coincidere l’immagine dell’ebreo eterno con il tipo sociologico ideale di ciò che egli chiama «capitalismo moderno».13


L’Ebreo rivela una vocazione a essere «mercante»: egli trabocca, gronda addirittura delle qualità richieste alla mercatura. Il mercante … vive immerso nelle cifre, e da sempre le cifre sono state elemento dell’Ebreo. La sua predisposizione per l’astrazione gli consente di muoversi in mezzo ai conti con la massima disinvoltura … Cogliere rapidamente i termini d’una situazione, scorgerne il complesso delle possibilità, afferrarne in un attimo quella più favorevole volgendo poi l’affare nella direzione segnalata da tale possibilità: queste sono le qualità che il commerciante deve possedere, e che l’Ebreo possiede in modo superlativo.14


Queste tesi hanno destato controversia fin dal momento della loro pubblicazione, anche fra gli ebrei. Se i più liberali fra loro vi riconobbero subito una ricostruzione tendenziosa e malevola della storia ebraica che prestava il fianco alle calunnie antisemite del tempo, molti sionisti accolsero invece con favore il ritratto del nuovo homo oeconomicus ebreo come un soggetto spregiudicato che ottiene ciò vuole senza chiedere il permesso a nessuno.15 È riportato che il dibattito organizzato in occasione della pubblicazione dal Centralverein deutscher Staatsbürger jüdischen Glaubens (Associazione centrale dei cittadini tedeschi di fede ebraica) si risolse in una rissa.16


2.3. Abraham Léon: la concezione materialistica della storia ebraica

Fra i critici delle tesi di Sombart su ebrei e capitalismo conviene ricordare lo storico e partigiano Abraham Léon. Nato a Varsavia nel 1918, militante delle sezioni belghe della Hashomer Hatzair e della Quarta internazionale, in seguito all’occupazione nazista del Belgio nel 1940 si unì alla Resistenza. Venne arrestato nel 1944 nel corso di un’azione politica presso le miniere di carbone di Charlereoi e deportato ad Auschwitz. Quando fu ucciso in una camera a gas aveva la stessa età di Karl Marx al tempo dello scritto Sulla questione ebraica: 26 anni.17 Poco prima era riuscito a terminare, in circostanze di guerra, la stesura di una pionieristica storia sociale del popolo ebraico dall’antichità al XX secolo. La conception matérialiste de la question juive è fra l’altro il primo tentativo sistematico di spiegare l’antisemitismo con i concetti di Marx.18


Al fine di comprendere i tragici sviluppi contemporanei della questione ebraica era necessario, secondo Léon, ricostruire la vicenda storica di questo popolo vessato. La storia ebraica era stata fino ad allora «il campo prescelto di ogni specie di ricercatori di Dio» e il suo studio non era progredito al di là di una «improvvisazione idealistica».19 Si trattava di applicare finalmente anche in questo campo un metodo scientifico.


Al centro della rilettura léoniana della storia ebraica vi è il concetto di popolo-classe. Ispirandosi alla formula «popolo commerciale» riferita da Marx agli ebrei e alle sue ricerche sul ruolo del capitale usurario e del capitale mercantile nella preistoria della produzione capitalistica, Abraham Léon argomenta che quelle di «popolo» e «classe» non sono categorie alternative o addirittura contraddittorie; che al contrario è possibile stabilire un rapporto di interdipendenza fra caratteristiche nazionali e religiose da una parte e determinazioni sociali ed economiche dall’altra (soprattutto con riguardo alle epoche precapitalistiche). Se Marx scrive:


Noi umanizziamo la contraddizione tra lo Stato una una determinata religione, ad esempio il giudaismo, nella contraddizione tra lo Stato e determinati elementi mondani.20


Léon ne ricava un principio metodologico generale per analizzare i conflitti religiosi come conflitti sociali.21


L’interrogativo fondamentale della storia ebraica è come mai gli ebrei, a differenza di molti popoli antichi ben più copiosi e potenti, si sono conservati fino al presente. Come ha potuto questa sparuta minoranza attraversare tanti secoli, continenti e persecuzioni senza soccombere o dissolversi? Per Léon, le ragioni di questa longevità vanno cercate non tanto fra i caratteri nazionali o religiosi dell’ebraismo, non nella presunta «ostinazione» degli ebrei o nella forza intrinseca al loro principio monoteistico, come avviene nelle «interpretazioni idealistiche della storia ebraica», benevole o malevole che siano, quanto piuttosto negli interessi propri di una classe delle società antica e feudale specializzata nella mediazione commerciale. In questa prospettiva materialistica, il vero fondamento della continuità storica, linguistica, religiosa e culturale degli ebrei, nonché dell’odio e delle persecuzioni al loro indirizzo, sarebbe la funzione economica che hanno esercitata fin dai tempi dell’esilio babilonese e lungo tutto il medioevo. Sulla base dello stesso principio si spiegherebbe, inoltre, anche la grande controtendenza della storia ebraica, la spinta a integrarsi nella società circostante. Léon formula la seguente «legge dell’assimilazione»:


Allorché gli ebrei cessano di costituire una classe, perdono, più o meno rapidamente, le loro caratteristiche etniche, religiose e linguistiche e vengono assimilati.22


Un esempio di assimilazione socialmente determinata è fornito dalla grande borghesia ebraica dei secoli moderni: «L’ebreo, come grande imprenditore o azionista della Compagnia delle Indie sia inglese sia olandese, era già sulla soglia del battesimo».23 Un altro esempio sono quegli ebrei che nel medioevo si dedicarono all’agricoltura. Lo zoccolo duro delle comunità che hanno serbato la propria identità ebraica attraverso i secoli è sempre stato formato dalle frange impegnate nel commercio. Fu la loro concentrazione nelle città a consentire la creazione di comunità stabili e sufficientemente cospicue per condurre una vita sociale relativamente separata dal resto della popolazione. Di qui il «carattere tipicamente urbano» di questo popolo.


L’epoca di maggior fioritura per gli ebrei sarebbe stata quella feudale, nella quale il capitale commerciale aveva ampie prospettive di espansione. In una situazione in cui i prodotti del lavoro erano destinati in gran parte al consumo immediato e soltanto il surplus veniva alienato come merce, quasi tutto il plusvalore creato dalla società finiva per cadere nelle mani della borghesia mercantile, nelle casse del capitale commerciale. Ciò spiegherebbe, secondo Léon e secondo Marx, l’ingente e compatta presenza ebraica nei paesi non industrializzati dell’Europa orientale («nei pori della società polacca»). Dove invece la forma di merce non si applica più soltanto al surplus della produzione, bensì alla totalità o quasi dei prodotti del lavoro – compreso il lavoro stesso: la forza lavoro come merce –, l’appropriazione del plusvalore avviene nella sfera della produzione, ovverosia prima che il prodotto venga commercializzato e faccia il suo ingresso nella circolazione. L’avvento della manifattura moderna rappresenta perciò una minaccia per gli interessi economici di un popolo-classe mercantile come gli ebrei. La produzione di merci su larga scala sopprime i rapporti feudali e con loro le condizioni della prosperità e del potere sociale del capitale commerciale. È infatti una conseguenza necessaria e caratteristica di questi sviluppi che il capitale commerciale e il capitale portatore d’interesse vengano subordinati al capitale industriale e ridotti a una funzione della sua accumulazione, a uno strumento al servizio dei bisogni di espansione e modernizzazione dell’industria.24


Le ipotesi di Sombart sull’origine sefardita del capitalismo sono perciò smentite dalla storiografia economica marxiana non soltanto empiricamente, ma in linea di principio.


Nella misura in cui gli Ebrei continuavano a esistere nell’Europa occidentale … essi presero parte allo sviluppo del capitalismo. Ma la teoria di Sombart, che attribuisce loro un’attività decisiva per lo sviluppo del capitalismo, appartiene al mondo della fantasia. Proprio per il fatto che gli Ebrei rappresentavano un capitalismo primitivo (mercantile e usurario), lo sviluppo del capitalismo moderno poteva solo essere fatale alla loro posizione sociale.25


Le attività finanziarie degli ebrei non solo non spiegano la genesi dell’economia borghese: per Léon, la funzione economica che per secoli ha segnato il destino sociale del popolo ebraico termina proprio là dove inizia il dominio della produzione capitalistica.26


Come mai, allora, la questione ebraica continua a venir posta anche nella società borghese, per giunta con crescente radicalità? L’approccio materialista di Léon non indaga i meccanismi di trasmissione e alterazione dei miti. Cerca invece elementi esplicativi nell’attualità sociale e li trova nell’afflusso di masse ebraiche dell’Europa orientale (Ostjuden) verso occidente. Il suo secolo, il XX, corrisponde per lui alla fase monopolistica e declinante del capitalismo. In questa situazione è soprattutto la piccola borghesia, minacciata dallo sviluppo dei grandi monopoli, a indirizzare i timori per la propria imminente proletarizzazione verso la concorrenza di piccoli commercianti e artigiani ebrei provenienti da est – timori che con la crisi economica del 1929 diventano terrore. Sarebbe questa la vera base sociale dell’antisemitismo moderno. Da parte sua, la grande borghesia avrebbe colto la palla al balzo servendosi dell’antisemitismo per canalizzare i sentimenti anticapitalisti delle masse verso un obbiettivo surrogato. Antisemitismo e razzismo appaiono ideologie utilissime al fine di armonizzare le aspirazioni imperialistiche del grande capitale con gli interessi della piccola borghesia in lotta per la sopravvivenza nella concorrenza del mercato interno.


Seppure non esauriscano il potenziale esplicativo della teoria marxiana rispetto al fenomeno antisemita, le osservazioni di Léon sulla piccola borghesia alla fine dell’epoca liberale conservano una certa attualità ancora oggi, alla fine dell’epoca neoliberale. Secondo la lezione di Marx ed Engels, Léon definisce la piccola borghesia come una classe insieme capitalista e anticapitalista; una classe che presenta caratteri e tendenze borghesi in miniatura, ma che allo stesso tempo è colta da un’intensa – seppur vaga – percezione di essere depredata dal grande capitale. Nella sua incomprensione della propria situazione storica nel tardo capitalismo, la piccola borghesia desidera mantenere l’ordine produttivo e proprietario presente, ma inveisce contro il potere del denaro; vuole eliminare il carattere negativo del capitalismo (il proprio impoverimento), ma lasciar sussistere quello positivo (il proprio piccolo capitale). «Ma poiché non esiste un capitalismo che possieda tendenze buone senza anche possedere quelle cattive, la piccola borghesia è costretta a immaginare un sistema che vive nel mondo dei sogni». Ecco la «fantasia» da cui nascono le idee di Sombart sull’origine (e sulla natura) del «capitalismo moderno». Gli interessi oggettivamente ambivalenti della sua classe di riferimento producono nella sua coscienza un’immagine scissa e incoerente della realtà sociale. Da questa ambivalenza deriva, secondo Léon, la distinzione fra capitale produttivo (nazionale) e capitale predatorio (cosmopolitico), nonché alcuni corrispondenti pseudo-concetti economici duri a passare di moda.


Non è a caso che la piccola borghesia abbia inventato il supercapitalismo, la deviazione cattiva del capitalismo, il suo spirito maligno. Non è a caso che i suoi teorici abbiano lottato con forza per più di un secolo (Proudhon) contro il cattivo capitalismo speculativo difendendo l’utile capitalismo produttivo. Il tentativo dei teorici nazisti di distinguere fra capitale produttivo nazionale e capitalismo parassitario ebraico è probabilmente l’ultimo tentativo del genere.27


Il problema per Léon non sta in una qualche deviazione malvagia o corruzione del capitalismo, ma nel capitale, nell’essenza stessa del modello capitalistico di sviluppo.


Sullo stesso principio si fonda anche la critica di Léon al sionismo. Dal suo punto di vista di comunista internazionalista, l’idea dello Stato ebraico è una risposta ideologica della piccola borghesia ebraica alla questione ebraica del XX secolo. L’unica soluzione affidabile del problema antisemita sta per lui, come già per il giovane Marx, nel superamento rivoluzionario della divisione della società in classi.28

3. Il lavoro dei fascisti

Confesso: senza lavoro io non so stare. E così centinaia di migliaia, milioni di persone resisterebbero forse 3, 5 o 10 giorni, ma non 90 o 100 … Se davvero esistesse questo cosiddetto paese di Cuccagna, il nostro popolo non potrebbe trovarvi la sua felicità.


Adolf Hitler, Warum sind wir Antisemiten? (1920)1


3.1. «Perché siamo antisemiti?»

Il fascismo non ha un concetto economico della società che vorrebbe rivoluzionare. Quand’anche parla di «capitalismo», non sa di che parla. Invece che intorno a una nozione scientifica dell’assetto sociale della produzione, la propaganda fascista organizza la sua visione dell’economia moderna intorno alla nozione mistica di «potere del denaro». La sua «critica» equivocamente riduttiva della società borghese è rivolta contro una cerchia ristretta di eletti (un’élite) imputati di affermare i propri interessi privati a discapito di quelli collettivi mediante un impiego fraudolento del denaro. Il termine che nel lessico politico novecentesco designa tale contesto (suggerendo una falsa derivazione dal greco antico): «plutocrazia», costituisce la principale categoria della critica fascista della democrazia liberale.2


A dispetto dei suoi proclami illiberali, di tutto il suo risentimento e disprezzo per la civiltà borghese, il fascismo non si sogna di metterne in discussione il principio cardinale: il diritto di proprietà sui frutti del proprio lavoro. Al contrario: si erge a difesa di questo diritto contro il potere usurpatore del denaro.3 In certa misura, coincide con tale difesa. Nel suo immaginario, la vile pecunia espropria i produttori della ricchezza, domina il mondo del lavoro e delle merci, determina il destino dei popoli, riduce intere nazioni sul lastrico, sottomette gli uomini e la natura – il sangue e la terra – all’insaziabile appetito della sua accumulazione priva di scrupoli: auri sacra fames. Questo genere di pensiero economico configura propriamente un caso di occultismo. A determinare la fortuna del lavoro e la distribuzione dei suoi prodotti non sarebbero gli esseri umani e i loro rapporti sociali, bensì la moneta, cioè una cosa, un oggetto-soggetto, un feticcio, una creatura golemica, una divinità maligna che esercita il proprio ominoso potere alle spalle dei produttori.4 Le crisi economiche, il debito pubblico e privato, la disgregazione dei rapporti sociali e delle forme di vita tradizionali, il declino di intere classi sociali e la loro esclusione dall’accesso al consumo, l’alienazione dell’uomo moderno, il pauperismo, le diseguaglianze, le ingiustizie e tutti gli altri fenomeni negativi di cui fa esperienza la società borghese nel corso del suo sviluppo storico rappresentano, agli occhi del fascismo, altrettante prove della forza magica e deleteria della moneta – eliminando la quale, tutto volgerebbe al meglio. L’eliminazione del denaro assurge a orizzonte utopico dell’emancipazione economica del popolo.


Con i fascisti al potere nel XX secolo, il desiderio di reprimere il potere del denaro e abolire ogni forma di reddito senza lavoro è giunto a organizzarsi in un ampio e violento programma di eliminazione della parte della società identificata come inoperosa, sterile e parassitaria: zingari, malati di mente, asociali, disabili, comunisti, mendicanti, banchieri, omosessuali e altre categorie di soggetti ritenuti congenitamente inabili o refrattari al lavoro produttivo. La posizione preminente degli ebrei fra i perseguitati si spiega, almeno in parte, col fatto che, nella guerra totale al parassitismo, l’antisemitismo combatte la battaglia campale: quella contro il denaro. Il pensiero economico del fascismo e la sua spinta riformatrice antimonetaria rivelano la sua caratteristica pulsione eliminazionista.


«Perché siamo antisemiti?» – Il 13 agosto 1920 il neonato Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi si riuniva in assemblea a Monaco di Baviera per discutere questa fondamentale questione politica. Fin dalle prime battute del suo lungo intervento, Adolf Hitler afferma che la risposta alla domanda del giorno va cercata nella «concezione del concetto di lavoro» («Auffassung des Begriffs Arbeit»). «Che significa propriamente lavoro?», domanda.


Il lavoro è l’attività che io svolgo non per me stesso, ma per il bene del mio prossimo … Lavoro per senso morale del dovere … Nel lavoro sta la forza che ha unito dapprima i clan, poi le tribù, e che infine ha fondato gli Stati (Acclamazioni: «Giustissimo!»)5


Dunque perché siamo antisemiti? Semplice: perché di questo ethos tedesco del lavoro l’ebreo rappresenta «l’opposto contrario» («das konträre Gegenteil»).


Per l’ebreo il lavoro non è un dovere morale … Fin dai tempi antichi l’ebreo ha vissuto come un parassita nel corpo degli altri popoli … Un popolo che rifiuta di lavorare, che aborre il lavoro nelle miniere, nelle fabbriche, nei cantieri … non fonderà mai un proprio Stato. Preferirà sempre vivere da straniero in un altro Stato, dove altri compiono queste fatiche e lui è il mediatore degli affari: il mercante, nel migliore dei casi, che tradotto nel tedesco di oggi si dice predone, nomade, razziatore come sempre. (Fragorosi «Bravo!» e applausi).


Vediamo allora due grandi differenze razziali. Essere ariani vuol dire avere una concezione etica del lavoro, vuol dire tutte le cose di cui parliamo noialtri: socialismo, sentimento di comunanza, primato del bene comune sull’interesse privato. Ebraismo significa concezione egoistica del lavoro e dunque mammonismo e materialismo, l’opposto contrario del socialismo. («Giustissimo!»).6


Perciò – spiega il futuro Führer ai seguaci della prima ora – tutti i tentativi di distinguere fra un tipo di ebreo e un altro, fra un individuo e un altro, sono sottigliezze prive di senso. Un ebreo è pur sempre un ebreo: parassita per l’eternità.


Una razza che non possiede queste qualità [concezione etica del lavoro, senso di comunanza ecc.] finisce necessariamente per distruggere le altre razze e gli altri Stati, a prescindere dal comportamento del singolo, se sia buono o malvagio.7


La libertà del lavoro tedesco e la realizzazione del socialismo esigono dunque una soluzione radicale della questione ebraica.


Noi siamo convinti che il socialismo potrà esistere ed esisterà soltanto presso nazioni e razze ariane … siamo convinti che il socialismo sia inseparabile dal nazionalismo. (Caloroso consenso) … Comprendiamo perciò la necessità di conservare in salute il corpo e l’anima di ciò che un popolo ha di più prezioso, cioè la somma di tutte le forze attivamente creatrici dei suoi lavoratori, manuali o intellettuali. («Bravo!») Questa concezione della nazione ci impone di fare immediatamente fronte comune contro l’opposta concezione semitica del concetto di popolo e soprattutto contro la concezione semitica del concetto di lavoro. Se siamo socialisti, allora dobbiamo assolutamente essere antisemiti … Il socialismo non può essere realizzato senza nazionalismo, né senza antisemitismo. Questi tre concetti sono legati indissolubilmente. Costituiscono i fondamenti del nostro programma ed è per questi che noialtri ci chiamiamo socialisti nazionali, nazionalsocialisti. («Bravo!»).8


La «concezione» hitleriana «del concetto di lavoro» non è interamente riconducibile a un senso del dovere di matrice protestante o kantiana. «Lavoro» è qui una parola d’ordine politica, un principio etico-civile, un concetto metafisico e teologale. Nella filosofia neopagana del fascismo tedesco, il lavoro è un’entità numinosa, una potenza sacrale, un simbolo totemico di fertile virilità. È la linfa vitale del Volk, è il sangue puro che irrora le vene delle razze del Nord. È la gloria della nazione. È l’energia primigenia con la quale il popolo, in mistica comunione con la natura, eternamente produce e riproduce se stesso. Potenza del «noi». Lavoro è il fondamento ontologico della comunità di popolo (Volksgemeinschaft), la quale è perciò sempre anche e soprattutto una comunità ariana di lavoro. L’insegna all’ingresso di Auschwitz è un’espressione macabramente caratteristica di questa idolatria del lavoro – allo stesso tempo un’ideologia dell’abolizione del reddito senza lavoro, dell’annientamento del denaro, dell’eliminazione del parassita.9


Dopo la presa del potere nel 1933, fra i primi disegni di legge presentati da Joseph Goebbels nella sua nuova funzione di Ministro del Reich per la Propaganda e l’Illuminismo del Popolo (Propaganda und Volksaufklärung) vi fu l’introduzione in Germania di una nuova festività nazionale: il 1° maggio, Giorno del lavoro nazionale. Nella solenne allocuzione rivolta alla folla oceanica convenuta al Tempelhofer Feld di Berlino, Hitler da poco nominato Cancelliere celebra il «lavoro produttivo» come la forza della «resurrezione del nostro popolo» e del suo «trionfo sui suoi persecutori».


Perciò abbiamo scelto questo giorno di risveglio della natura come giorno di ricostituzione della nostra forza e vigoria per tutti i tempi a venire; giorno di ristoro di quel lavoro produttivo che non conosce limiti angusti, che non è legato al sindacato, alle fabbriche e agli uffici; di un lavoro che noi riconosciamo e che vogliamo promuovere ovunque esso sia svolto genuinamente per l’essere e per la vita del nostro popolo…


Il senso di questo 1° maggio, che da oggi in poi verrà celebrato in Germania nei secoli a venire, è che in questo giorno si ritrovino tutti coloro che sono attivi nel grande ingranaggio del lavoro produttivo nazionale e si tendano la mano, consapevoli che nulla può essere realizzato senza che ognuno faccia la sua parte in termini di prestazioni lavorative. Così abbiamo scelto come motto di questo giorno la frase: «Onorate il lavoro e rispettate il lavoratore!» …


Decine di migliaia fra di noi tendono a rispettare le persone a seconda del tipo di lavoro che svolgono. No! (Nein!) Ciò che conta non è cosa si produce, ma come si produce…


Questo 1° maggio significa che noi non vogliamo distruggere, che noi intendiamo costruire.10


Il giorno dopo, 2 maggio 1933, furono sciolte per decreto tutte le organizzazioni sindacali e occupate le loro sedi. Un esito preannunciato. Da circa una settimana, infatti, gli uffici di Goebbels facevano circolare questo appello:


A tutto il popolo tedesco!


Il governo della rivoluzione nazionale ha innalzato il 1° maggio a Festa del lavoro nazionale. Con ciò vuole affermare che il legame del popolo tedesco con il lavoro nazionale … è indissolubile e sigillato dal destino.


Finalmente, dopo decenni di lotte intestine e faide fra partiti, lo spirito immortale di Germania, rischiarato e purificato dalla benedizione del lavoro produttivo, torna a elevarsi sopra ogni discordia. Il marxismo giace a terra in frantumi. Le organizzazioni della lotta di classe sono state distrutte. Non per motivi reazionari, non per ostilità verso il popolo o i lavoratori abbiamo combattuto la minaccia del bolscevismo … Il marxismo doveva morire affinché il lavoro tedesco potesse aprirsi una via verso la libertà … Ora ci tocca la grave responsabilità di riportare la pace sociale nel mondo del lavoro (Arbeitstum) e di integrarlo nello Stato e nella comunità di popolo. Dove prima trionfava l’arido spirito del materialismo, noi annunciamo … un nuovo, ardente idealismo della solidarietà nazionale in forza del quale tutti i ceti, tutti i clan e tutti i mestieri formano un’unica Germania unita per far valere l’eterno diritto del nostro popolo alla libertà, al lavoro e al pane …


Onorate il lavoro! Inchinatevi al lavoratore! … Il contadino dietro l’aratro, l’operaio all’incudine e alla morsa, lo studioso nella sua stanza da studio, il medico presso il malato, l’ingegnere chino sui suoi progetti: nel Giorno del lavoro nazionale, tutti sapranno che la nazione e il suo futuro stanno sopra ogni cosa, che ognuno al suo posto vale tanto quanto è pronto a dare alla patria e per il bene generale. Il governo del Reich celebrerà insieme al popolo questo giorno di festa con festeggiamenti nazionali imponenti … Si fermino le ruote per un giorno, riposino le macchine. La Germania onora il lavoro che alimenta la vita del popolo durante tutto l’anno. Uomini e donne delle città e delle campagne, vi esortiamo! Gioventù tedesca, questo appello è soprattutto per te! Il 1° maggio il popolo tedesco si presenta unito e compatto. Sarà un segno per il mondo intero che Germania s’è desta, che cerca e trova la sua via verso la libertà e il pane. In questo giorno, fate riposare il lavoro! Addobbate le vostre case e le strade delle città e dei villaggi con fiori e con bandiere del Reich! Sventolino i vessilli dell’orgoglio nazionale su tutte le automobili! Che nessun treno e nessun tram viaggi in Germania senza addobbi floreali! Si issino le bandiere del Reich sulle fabbriche e negli uffici! Non un bambino resti senza il gagliardetto della croce uncinata! …


Il popolo onora se stesso se tributa al lavoro l’onore che gli spetta. Tedeschi di ogni ceto, stirpe e mestiere, tendetevi la mano! Marciamo compatti nella nuova era! Viva il nostro popolo, viva il nostro Reich!11


«Lavoro» e «antisemitismo» sono le due parole d’ordine basilari della mobilitazione fascista contro la lotta di classe. Due gridi di battaglia da lanciare all’unisono. La battaglia contro il comunismo internazionale è tanto necessaria alla libertà del lavoro tedesco quanto quella contro il potere del denaro. Anzi: è la stessa battaglia. Un celebre manifesto della propaganda nazista raffigura il popolo tedesco come un aitante lavoratore assediato contemporaneamente da un pingue plutocrate anglosassone sul fronte occidentale e da un grigio burocrate sovietico su quello orientale. Guardando bene si vede che plutocrate e burocrate sono in realtà due pupazzi retti da fili quasi invisibili facenti capo alle mani nodose di un unico figuro dai tratti somatici inconfondibilmente semiti che se ne sta sospeso nella penombra di un cielo denso di nubi, scrutando la Terra.12 Questa immagine significa che il grande capitale finanziario e il giudeo-bolscevismo sono alleati nell’intento di fomentare il conflitto sociale, compromettere la simbiosi del popolo tedesco e attentare alla sua stessa esistenza.13 Nei concetti gemelli di «lavoro produttivo» e «antisemitismo» è realizzato il connubio reazionario di anticapitalismo e anticomunismo.


L’uso enfatico e quasi mistico del concetto di lavoro da parte del fascismo ha una funzione tattica precisa: neutralizzare i contrasti interni al mondo della produzione. «Lavoro produttivo» è una conciliazione ideale del conflitto fra capitale e lavoro. Durante una visita agli stabilimenti della Fiat di Torino all’inizio del suo ventennio, Mussolini disse:


C’è un limite che non si può varcare, un limite per gli industriali e un limite per gli operai. È, cioè, nell’interesse degli industriali che gli operai siano tranquilli, che conducano una vita tranquilla, che abbiano il necessario alla vita e non siano assillati da bisogni insoddisfatti. Ma è anche nell’interesse degli operai che la produzione si svolga con ritmo ordinato, vorrei quasi dire solenne, poiché il lavoro è la cosa più alta, più nobile, più religiosa della vita.14


Chi voglia approfondire il significato economico-politico del concetto di lavoro produttivo nel pensiero fascista, può trovare un’importante fonte primaria nelle citate riflessioni hitleriane sul «Perché siamo antisemiti?».


Signori! Ci viene rimproverato di non combattere il capitale industriale, ma soltanto il capitale borsistico e creditizio … Che significa propriamente capitale industriale? … In passato era l’ago, il filo, la bottega del sarto … era la somma di quanto gli serviva per lavorare … Col tempo, la piccola bottega è diventata una grande fabbrica … il piccolo telaio di un tempo è diventato il grande telaio meccanico … Ma la bottega e gli attrezzi, la fabbriche e le macchine non hanno di per sé alcun valore … Ciò che produce valore è il lavoro … I pochi spiccioli che poteva possedere il mastro di bottega per superare i tempi più duri e per acquistare i suoi materiali si sono decuplicati e centuplicati, ma sono sempre la stessa cosa. Solo che noi oggi li chiamiamo: capitale per proseguire le operazioni in tempi difficili, capitale operativo … Ci tengo a sottolinearlo: non si può combattere contro l’attrezzo, la bottega, la macchina o la fabbrica … È questo il più grande inganno che viene perpetrato ai danni del nostro popolo. Lo si inganna per distoglierlo dalla vera lotta, dalla lotta contro il capitale che davvero dev’essere combattuto: il capitale creditizio e borsistico («Bravo! Bravo!» e applausi scroscianti).15


Pensata con conseguenza, la contrapposizione elementare di merci e denaro conduce a uno sdoppiamento del concetto di capitale. Le teorie economiche dell’hitlerismo sono imperniate sulla distinzione fondamentale tra schaffendes e raffendes Kapital, capitale produttivo e capitale predatorio.16 Viene definito «produttivo» il capitale impiegato, assieme al lavoro, nella creazione di ricchezza materiale e concreta. In tale categoria rientrano la grande proprietà terriera e il capitale industriale; la prima in quanto rappresentante della forza produttiva del suolo, il secondo dei macchinari industriali. La categoria di capitale predatorio comprende invece il capitale commerciale e il capitale portatore d’interesse, capitale usurario, capitale bancario, capitale finanziario. In queste astratte e sterili sue forme monetarie, e in esse soltanto, il capitale pare appropriarsi della ricchezza prodotta dal lavoro attraverso la mediazione improduttiva del traffico e della speculazione.


Questo capitale ha un’origine essenzialmente diversa … Il capitale industriale è legato allo Stato e al popolo; dipende dalla volontà del popolo di lavorare, dalla possibilità di reperire le materie prime, di trovare acquirenti … Invece l’altro capitale, il capitale borsistico e creditizio, matura i suoi interessi in ogni caso.17


La nozione di un genere di capitale specificamente distinto dal capitale «produttivo», cioè di un capitale sterile, dotato di funzioni esclusivamente speculative e socialmente parassitiche, vorrebbe individuare il principale fattore di disturbo dell’ordine naturale della produzione di merci, dell’onesto scambio e della mutua collaborazione fra il «lavoro produttivo» e il «capitale produttivo». A questo paradigma esplicativo possono essere facilmente ricondotti tutti i più penosi fenomeni economici della Germania di inizio anni trenta.


Per esempio il Reich tedesco ha contratto debiti per costruire le ferrovie di Alsazia e Lorena, e ora deve continuare a pagare gli interessi anche se le ferrovie non sono più in nostro possesso … Anche se è già stato ripagato – possiamo dire – 4 volte, il debito rimane, gli interessi continuano a maturare, e mentre un grande popolo, che non ha più nulla da guadagnare in questa impresa, continua a sanguinare, questo capitale creditizio continua ad accrescersi indisturbato.18


La distinzione fra capitale produttivo e capitale predatorio si sovrappone con quella fra ariani e giudei, fino a confondervisi. Non soltanto nel senso che il capitale industriale e produttivo è considerato nazionale, di proprietà tedesca, mentre quello finanziario e internazionale è attribuito a capitalisti apolidi di religione ebraica. Il nesso è più intimo. La contrapposizione razziale fra ariani e giudei e quella economica fra due tipi essenzialmente diversi di capitale coincidono nell’origine, esprimono un unico sistema di pensiero, un’unica concezione del mondo. Le moderne teorie della razza sono legate all’economia politica dell’antisemitismo in modo intrinseco, mentre solo nell’abito dipendono dallo spirito positivista delle scienze naturali del tempo. Nell’ordinamento mentale di un nazista, l’opposizione biologica fra ariani e giudei è – per così dire – una «sovrastruttura ideologica», lo sdoppiamento del concetto di capitale la sua «base economica».


Questo capitale è internazionale, l’unico capitale internazionale che ci sia sulla terra, e la ragione per cui è internazionale è che i suoi agenti, gli ebrei, sono disseminati in tutto il mondo. (Approvazione) … Così questo capitale è cresciuto e domina oggi di fatto su tutta la terra … e la cosa peggiore è che corrompe del tutto l’onesto lavoro … perché … l’uomo comune che oggi sopporta il peso degli interessi di questi capitali deve constatare che, nonostante la sua applicazione, solerzia, parsimonia, nonostante il suo vero lavoro, gli resti a malapena il necessario per sfamarsi … mentre questo capitale internazionale divora interessi per miliardi … e al contempo si fa largo nello Stato uno strato razziale il cui unico lavoro consiste nel riscuotere interessi e staccare cedole … Poiché siamo convinti che questo antisemitismo scientifico, che riconosce chiaramente il tremendo pericolo che questa razza rappresenta per ogni popolo, può essere soltanto un’avanguardia (Führer), che le grandi masse invece avranno sempre una percezione anche emotiva … la nostra preoccupazione dev’essere quella di risvegliare e fomentare l’istinto del nostro popolo contro gli ebrei finché questo non si decida a unirsi al movimento che è pronto a trarne le conseguenze. («Bravo!» e applausi).19


Quando Hitler, per chiudere il cerchio del ragionamento e stringere il nesso centrale del suo programma politico fra socialismo, nazionalismo, antisemitismo e anticomunismo, menziona, fra «applausi scroscianti», l’ebreo Karl Marx, mostra di averne intuito le intenzioni in maniera, seppure istintiva, meno sbagliata di molti sedicenti marxisti.


È in corso un tentativo di distruggere uno dei pilastri fondamentali della nostra forza, ossia la concezione etica del lavoro. Fu questa l’idea geniale di Karl Marx: distorcere il pensiero etico del lavoro … allo scopo di distruggere l’economia nazionale e proteggere il capitale internazionale borsistico e creditizio. (Applausi scroscianti).20


3.2. «Spezzare la schiavitù dell’interesse». Gottfried Feder e la politica economica del Terzo Reich

Un altro Leitmotiv della dottrina economica nazionalsocialista è compendiato dallo slogan «Spezzare la schiavitù dell’interesse» (Brechung der Zinsknechtschaft). Il potere del denaro sembra avere la sua manifestazione più cristallina nel fenomeno economico-metafisico della maturazione dell’interesse: l’occulta capacità del denaro di generare altro denaro dal proprio seno anorganico. È grazie a questa magia che il denaro si è emancipato dal suo ruolo tradizionale di mediatore dello scambio ed è diventato il re della circolazione, il dominatore universale di tutte le merci e, attraverso le merci, dell’intera vita sociale, politica, perfino religiosa? Brechung der Zinsknechtschaft campeggia a caratteri cubitali al centro del 25-Punkte-Programm stilato in occasione della fondazione dell’NSDAP. Nel punto 10 di quel programma si afferma che il primo dovere di ogni cittadino è lavorare, «darsi da fare» (schaffen). Il punto 11 reclama l’abolizione di ogni «reddito indipendente dal lavoro e dalla fatica». Chi lucra sul prestito di denaro – «gli usurai, i trafficanti eccetera» – non appartiene alla comunità di lavoro. Isolato nel suo egoismo antisociale, arricchisce se stesso senza creare alcuna ricchezza per la comunità. Appropriandosi in modo parassitario dei frutti del lavoro altrui commette un crimine contro la comunità di popolo – un crimine per il quale il punto 18 prevede la pena di morte, «senza riguardo per la confessione o la razza». L’unico altro slogan del programma stampato in grassetto recita: «Il bene comune prima dell’interesse privato» (Gemeinnutz vor Eigennutz).21


L’espressione Brechung der Zinsknechtschaft risale a un pamphlet di Gottfried Feder, ingegnere e costruttore di Würzburg, nazista della prima ora. Fallita la sua impresa edile nel primo dopoguerra, Feder, oberato dai debiti, decide di dedicarsi allo studio autodidattico dell’economia e della finanza per tentare miglior fortuna in campo pubblicistico. La nozione di schiavitù dell’interesse è appunto il risultato di questi studi.


L’interesse sul credito è l’invenzione diabolica del grande capitale creditizio che consente a una minoranza di potenti del denaro di vivere da pecchioni a spese dei popoli produttivi e del loro lavoro, che ha provocato i profondi contrasti e l’odio di classe da cui è nata la guerra civile fratricida.22


Nel 1920 fonda a Monaco una Lega tedesca combattente per spezzare la schiavitù dell’interesse (Deutscher Kampfbund zur Brechung der Zinsknechtschaft). Nell’estate di quell’anno tiene alcune conferenze sul suo tema preferito a un pubblico di paramilitari nazionalisti, i Freikorps, trattenutisi in città dopo aver soppresso nel sangue la Repubblica sovietica bavarese, il mese precedente, per conto del governo socialdemocratico di Berlino. Spiega che anche il programma di riparazioni e indennità imposto alla Germania dalla conferenza di Versailles è una forma di schiavitù dell’interesse. Fra gli uditori siede Hitler, la cui biografia politica ricorderà questo incontro come un evento decisivo per la nascita del partito e per la determinazione dei suoi obiettivi. «L’acuta distinzione» federiana fra «capitale borsistico» ed «economia nazionale» avrebbe indicato la giusta via per «opporsi all’internazionalizzazione dell’economia tedesca senza perciò compromettere … il popolo con una lotta contro il capitale».23


L’acuta distinzione e il fortunato incontro assicurano al palazzinaro fallito e insolvente alti incarichi di responsabilità nel partito e una significativa influenza sulla politica economica del regime.


La critica federiana del credito a interesse si colloca esplicitamente nella tradizione religiosa e ne assume l’atteggiamento moralistico. Il fatto che il denaro, cioè una cosa sterile, si riproduca da sé, che il mero possesso di denaro accresca se stesso senza l’aggiunta di lavoro produttivo, «contraddice la nostra sensibilità morale».


Non si ignori il carattere religioso del nostro movimento, il quale è caratterizzato delle più alte qualità morali dell’uomo, dal sacrificio, dall’abnegazione, dalla sacra collera. Noi ci vediamo come i migliori successori del Redentore quando cacciamo fuori dal tempio a suon di botte i trafficanti e i Giuda.24


Il sistema creditizio devia sistematicamente la ricchezza prodotta dal lavoro del popolo verso la borsa e le banche, cioè nelle mani del capitale finanziario. Di questo grande ladrocinio internazionale sono vittima allo stesso titolo


il contadino … l’operaio … l’intero ceto medio professionale e commerciale … chiunque si guadagni il pane col lavoro manuale o intellettuale … [e infine anche] l’industriale, che con il duro lavoro ha creato la sua azienda per poi essere costretto a trasformarla pezzo per pezzo in «società per azioni» … e non è più libero neanche di prendere le sue decisioni, ma deve rispondere all’insaziabile brama di profitto dei «consigli di amministrazione» e degli «azionisti» se non vuole essere licenziato (!) dalla sua stessa creatura.25


Le riforme finanziarie promosse da Feder miravano a realizzare: sovranità monetaria assoluta, tale per cui lo Stato potesse emettere arbitrariamente denaro e titoli non soggetti a interesse per finanziare la spesa pubblica; nazionalizzazione della Reichsbank; credito a interessi zero, ossia socializzazione del denaro tedesco quale espressione della ricchezza prodotta dal lavoro tedesco.26 Evidentemente l’utopia economica di abolire il capitale portatore d’interesse sulla base della produzione di merci si rivelò irrealizzabile. Nondimeno, l’influenza delle idee di Feder sulla politica economica del Terzo Reich fu profonda e durevole.27 La riforma bancaria varata dal governo nazista alla fine del ’34 vorrebbe affermare «il primato della politica sull’economia» e subordinare l’interesse privato delle banche a quello comune del popolo.28 Introduce restrizioni ai movimenti di liquidità, dispone inchieste sugli istituti di credito e sottopone la loro attività a commissioni di sorveglianza governative. La battaglia per «spezzare la schiavitù dell’interesse» dovette infine limitarsi a un più modesto programma di «riduzione organica dell’interesse», il quale in effetti colpì i banchieri ebrei a vantaggio di quelli non ebrei.29 «L’ariano produce il mondo, il giudeo lo sgraffigna», sentenzia Gottfried Feder (Der Arier erschafft, der Jude errafft sich die Welt).30

4. Una malattia infantile del movimento operaio

Elementi della biografia politica di Marx

Il denaro è il Dio del nostro tempo e Rothschild è il suo profeta.


Heinrich Heine, Lutezia (1855)1


La filosofia economica del fascismo ha radici nel XIX secolo. I suoi concetti e i suoi miti hanno improntato fin dall’inizio i dibattiti sulla «questione sociale» sollevata dalla rivoluzione industriale. La sua influenza ideologica, inoltre, non è affatto ristretta all’ambito della destra politica. È significativamente apprezzabile anche nel campo «progressista» della sinistra, nel socialismo e nell’anarchismo. Anzi: proprio in questi ambienti radicali ha preso corpo l’utopia di una società libera dal dominio del denaro. Intere generazioni di rivoluzionari hanno riconosciuto nell’onnipotenza del Dio denaro e nella pulsione dominante dei suoi adepti, l’egoismo, gli ultimi ostacoli alla finale realizzazione degli ideali di libertà, eguaglianza e fraternità universale. L’indignazione dei primi scrittori socialisti contro l’individualismo imperante nella società moderna si è andata via via dotando di terminologia e concetti economici, di una elaborazione teorica propria. Nel solco di questa forma primitiva, utopistica, morale e religiosa di protesta sociale è venuta articolandosi una visione generale dell’economia borghese con pretese di scientificità. I contributi più influenti si devono alla scuola proudhoniana, le cui teorie sull’origine dei mali economici della società moderna e le corrispondenti velleità di riforma hanno drammaticamente segnato la storia della sinistra, fino al tempo presente. L’idea di rimuovere le ingiustizie sociali attraverso il contrasto del parassitismo e l’abolizione di ogni forma di reddito senza lavoro ha fatto presa sulle menti e suoi cuori delle masse popolari. Ampie frange del movimento operaio e delle sue organizzazioni politiche hanno creduto loro compito primario la difesa del sistema produttivo – del lavoro – dalle cupide grinfie degli agenti della circolazione. Il credito, le banche, il grande capitale finanziario internazionale sono stati identificati come il fattore di corruzione della «semplice produzione di merci» fondata sull’equità degli scambi. La repressione del loro potere si è imposta al primo punto dell’agenda politica. L’obiettivo finale: garantire al lavoro il suo «giusto» compenso. In Proudhon, la giustizia distributiva è la principale rivendicazione del socialismo. La sinistra antisemita – così si può dire in estrema sintesi – odia il denaro invece del capitale.


A questi elementi di economia politica strutturalmente antisemita non mancavano di accompagnarsi dicerie e rappresentazioni direttamente antisemite. Come in generale nell’opinione pubblica più larga, così anche negli ambienti radicali frequentati da Marx a partire dai primi anni quaranta circolavano con rinnovata intensità i luoghi comuni su ebrei e denaro. E proprio in questi contesti iniziavano ad assumere il loro significato caratteristico per l’antisemitismo moderno: quello di un occulto dominio internazionale di una minoranza separata. Fra le tesi avanzate da Bruno Bauer contro l’emancipazione ebraica nel 1843, la seguente era destinata a eccezionale fortuna:


È una condizione menzognera anche quella che preclude in teoria all’ebreo i diritti politici, mentre nella prassi egli gode di un potere enorme ed esercita en gros la sua influenza politica, per quanto scorciata nel dettaglio. L’ebreo, che per esempio è appena tollerato a Vienna, determina con la sua potenza finanziaria (Geldmacht) il destino di tutto quanto l’impero. L’ebreo che nel più piccolo Stato tedesco può essere senza diritto, decide del destino dell’Europa.2


La critica teologico-politica all’ebraismo – religione esclusiva che comanda ai suoi fedeli di separarsi dal resto dell’umanità, vanificando in tal modo gli sforzi del moderno spirito universalista di realizzare i propri umanistici disegni – veniva integrandosi e confondendosi con i nuovi sospetti sulle attività finanziarie degli ebrei e con la condanna morale dell’egoismo, il nemico assoluto del bene comune. Non è solo l’ostinazione religiosa degli ebrei ciò che impedisce all’umanità moderna di elevarsi a uno stadio superiore di coscienza e solidarietà universali. È anche e soprattutto il loro comportamento economico. Perciò il campione della sinistra hegeliana può definire il desiderio degli ebrei di mantenersi tali una «guerra contro l’umanità intera».3 A questa minoranza rimprovera fra l’altro di non aver fornito alcun contributo all’avanzamento civile e scientifico dell’Europa. L’inadeguatezza dell’ebraismo a divenire un «terreno fertile per il sorgere di una nuova forma di verità» affermata sul piano religioso e politico da Bruno Bauer trova un corrispettivo estetico nelle coeve considerazioni di Richard Wagner sulla mancanza di creatività degli ebrei, sulla loro incapacità di esprimersi artisticamente, se non mediante plagio.4 Il nesso fra il tema dell’infecondità spirituale degli ebrei e la polemica contro il carattere sterile e improduttivo del denaro e del capitale predatorio tipica dell’economia politica dell’antisemitismo, appare evidente.


Le concezioni economiche grossolane e latentemente antisemitiche diffuse negli ambienti radicali del Vormärz vanno annoverate fra i motivi che hanno indotto Marx a intraprendere, da adulto, lo studio di una materia tanto lontana dalla sua formazione universitaria come l’economia. Ripercorrendo, molti anni dopo, le prime tappe del proprio itinerario in questa scienza, ricorderà il disagio intellettuale provato nei confronti della «eco, leggermente tinta di filosofia, del socialismo e comunismo francese» che cominciava allora a farsi sentire nella redazione del suo giornale, la «Gazzetta renana». All’origine dell’urgenza di approfondire la conoscenza delle cose economiche vi era la disapprovazione per l’abitudine, diffusa fra i colleghi e sodali della sinistra tedesca, di adottare le parole d’ordine e le idee utopiche dei primi socialisti francesi per integrarle nella cornice di una critica sociale «tedesca», cioè filosofica e abborracciata, priva di fondamento scientifico.


Mi dichiarai contrario a questo dilettantismo, ma nello stesso tempo … confessai senza reticenze che gli studi che avevo fatto sino ad allora non mi consentivano di arrischiare un giudizio indipendente qualsiasi sul contenuto delle correnti francesi. Fui invece sollecito nell’approfittare dell’illusione dei gerenti della Rheinische Zeitung, i quali credevano di poter far revocare la condanna a morte caduta sul loro giornale dandogli una linea più moderata, per ritirarmi dalla scena pubblica nella stanza da studio.5


Alla fine del 1843 Marx interruppe l’attività giornalistica, sposò Jenny von Westphalen, si trasferì a Parigi e iniziò la stesura dei Manoscritti economico-filosofici. Nella stanza dello studio economico rimarrà dunque per tutta la vita. Vi partorirà tutte le sue opere successive, fino a quella maggiore rimasta incompiuta: Il capitale. Critica dell’economia politica. Senza perciò trascurare la scena pubblica.


Quando tornò alla stampa quotidiana, nel movimentato 1848, come direttore della «Nuova gazzetta renana», ritrovò gli stessi problemi di cinque anni prima, se possibile acuiti.6 Fra le pagine di quel giornale spiccano per livore antisemita i contributi del corrispondente per l’Austria, tale «Tellering». Dai suoi reportage si apprende che «ai vertici di tutte le associazioni democratiche, ai vertici di tutta la stampa ci sono degli ebrei», i quali avrebbero «attirato a Vienna orde di altri ebrei provenienti da ogni dove», uno «sciame» di insetti pronti ad «approfittarsi dello stato di emergenza generale con vero appetito famelico per l’usura più abietta»; che «in Austria ci sono mezzo milione di ebrei che vivono solo di mercimonio: una sanguisuga ogni 30 abitanti»;7 che essi sono «più intelligenti della lobby (Kamarilla)» perché, «sfruttando la terribile situazione finanziaria, provano a impossessarsi della terra che un tempo non potevano acquisire»;8 che «l’umanità europea si è giudaizzata, ha perduto la sua morale interiore a vantaggio di un’unica fede redentrice: la fede nel mercimonio e nel denaro».9 Indipendentemente dal giornale di Marx, inoltre, questo pioniere delle teorie sulla lobby ebraica pubblica nel ’48 un opuscolo intitolato La libertà e gli ebrei. Una questione da prendersi a cuore per tutti gli amici del popolo, in cui spiega che


Gli ebrei sono il popolo che per principio ha rifiutato la civiltà in quanto tale e che seguiterà a rifiutarla in eterno, standosene fra i popoli civilizzati, i popoli del progresso democratico, come un’infesta e subdola barbarie.10


Chi era costui? Aspirante giurista di estrazione piccolo-borghese, Eduard von Müller-Tellering fu respinto più volte all’esame di abilitazione professionale nei primi anni quaranta e vide la propria carriera forense stroncata sul nascere. Questa circostanza ci è nota da alcune lettere inviate a enti e autorità pubblici dell’amministrazione prussiana e del governo Metternich, in cui Tellering, oscillando fra l’indignazione per il trattamento subito e la richiesta supplichevole di un impiego pubblico in magistratura, rappresenta se stesso come un giurista eccezionalmente dotato e competente, «vittima del gesuitismo e della burocrazia».11 Negli stessi anni iniziava la sua attività nell’ala estrema del movimento democratico. Dal luglio ’48 cominciò a inviare alla «Nuova gazzetta renana» corrispondenze contraddistinte dall’arditezza del tono e da un ostentato fervore rivoluzionario. L’esigenza del foglio di tenere il passo con l’acuirsi del conflitto sociale in quei mesi favorì la loro pubblicazione.12 La redazione, tuttavia, iniziò presto a guardare questo corrispondente con sospetto: sia per il contenuto antisemita e forcaiolo dei suoi articoli, sia per i comportamenti intriganti e le ambigue frequentazioni. Tellering si offese.13 Tentò dunque di impostare nuove collaborazioni con testate concorrenti o addirittura avversarie (come la «Westdeutsche Zeitung»). La situazione di rapporti tesi precipitò definitivamente il 7 febbraio 1850, in occasione di un ballo dell’Associazione dei lavoratori tedeschi a Londra, da cui il risentito pubblicista venne escluso.14 In seguito a questo episodio, Tellering si gettò in una campagna di diffamazione ai danni di Marx ed Engels. Mobilitò tutti i contatti raccolti nel corso (non costellato di successi) della sua attività pubblica per diffondere alcune «importanti rivelazioni sui capi della democrazia in Germania». La campagna era incentrata sull’accusa di rubare i fondi per i profughi e i rifugiati politici raccolti dai lavoratori tedeschi emigrati in Inghilterra, nonché sul riferimento all’essere Marx ebreo. Fra gli scopi di questo attacco pubblico alla credibilità di due leader rivoluzionari ormai noti a livello internazionale vi era, verosimilmente, anche quello di riguadagnare credito presso il governo prussiano e ottenere infine l’agognato riconoscimento. Tale è almeno il parere dell’avvocato Hagen di Bonn, un membro della Lega dei comunisti consultato da Tellering per l’occasione. La sua risposta coglie con precisa ironia alcuni tratti propri del carattere antsemita-rivoluzionario:


Signor Müller Tellering! … Mi rallegro che lei abbia ritrovato la sua giusta posizione e dismesso la pelle di lupo da rivoluzionario. Ho sempre pensato che, nonostante i suoi mugugni e strilli rivoluzionari, lei in realtà disdegnasse le speranze democratiche … Non è benaccetto a Colonia, dice lei. Perché non presenta il suo manoscritto al presidente del governo locale von Möller, o almeno non gli illustra le sue intenzioni? Forse riuscirà non solo a farsi accettare a Colonia, ma anche a guadagnare qualcosa … Ora non deve più disperare per il suo futuro. Se prima la carriera nell’amministrazione pubblica non era spianata per lei, ora che ritorna, purificato da amare esperienze e pieno di disprezzo per l’egoismo e l’arroganza dei democratici, a dare prova di massima fedeltà, il suo futuro è assicurato … Risulterà particolarmente spiritoso ed efficace se non dimenticherà mai di mettere la parola «ebreo» prima di «Marx». Il fatto che lei brami così intensamente vendetta, mi ha colpito e non è cristiano. Le consiglio di delegare questo compito alla giustizia divina, che certamente deve distruggere i suoi nemici meglio di quanto possano le sue deboli forze. Che Dio le dia forza nella sua impresa e la benedica.15


Il tenace Tellering non si fece dissuadere e nell’estate del ’50 pubblicò (a proprie spese) Un’anticipazione della futura dittatura tedesca di Marx ed Engels. Il testo non contiene molto più dell’esposizione delle accuse di cui sopra, contornata da ingiurie: solamente un’interpretazione dell’atteggiamento di Marx nei suoi confronti (nonostante i tratti paranoidi, non lontana dal vero), nonché l’indicazione di un più ambizioso progetto di ricerca da realizzarsi in futuro:


È noto che la vendetta dell’ebreo sia la più spietata … Marx, il futuro dittatore, è ebreo. Nel 1848 lo costrinsi ad attaccare gli ebrei nel suo giornale. Lo fece, mordendosi le labbra, perché anche gli altri suoi collaboratori ce l’avevano con gli ebrei. Ora il suo cuore vendicativo comincia la sua reazione contro di me. Da parte mia spero di avere presto occasione di esprimermi in maniera più incisiva sulla razza ebraica e la sua perniciosa influenza sul progresso dell’umanità.16


L’unica replica pubblica di Marx ed Engels fu uno sdegnoso silenzio. Le ultime parole a Tellering Marx le aveva già rivolte alcuni mesi prima, quando lo fece espellere dal Tribunale d’onore dell’Associazione dei lavoratori di Colonia. Tellering, che non era comparso al procedimento disciplinare a suo carico ma aveva fatto pervenire una piccata lettera di protesta, ricevette da Marx la seguente risposta a muso duro, appunto l’ultima:


Dopo la lettera che Ella ha scritto ieri all’Associazione operaia, dovrei sfidarLa a duello, se Ella fosse ancora all’altezza di dare soddisfazione … Io La attendo su un altro terreno, per strapparLe dal viso l’ipocrita maschera del fanatismo rivoluzionario, dietro la quale Ella fino a oggi è riuscita a nascondere abilmente i Suoi interessi meschini, la Sua invidia, la Sua vanità insoddisfatta e la Sua rabbia biliosa per il misconoscimento della Sua grande genialità da parte del mondo: un misconoscimento che ebbe inizio quando Ella fu bocciata all’esame di laurea … L’unica cosa che Lei poteva rimproverarmi era di non aver rotto immediatamente i rapporti con Lei e di non averLa denunciata agli altri … Confesso la mia debolezza … Del resto è stata un’accortezza da parte Sua che Ella ieri abbia finito per non presentarsi alla data ultima, fissata da Willich su sua richiesta. Ella sapeva che cosa aveva da attendersi da un confronto con me.


K. Marx17


Müller-Tellering non è un caso isolato nella vicenda di Marx. Gli ambienti politici frequentati dal fondatore del «socialismo scientifico» erano attraversati in profondità da tendenze antisemitiche. In più occasioni fu la stessa, influente sua persona a venir presa di mira da attacchi e vituperi antisemiti da parte di rivali e fazioni avverse. La documentazione dei suoi conflitti politici è ricca di riferimenti denigratori alle sue ascendenze. Emblematica a questo riguardo è la leggendaria rivalità con Bakunin nella Prima Internazionale. All’anarchico russo si deve l’idea, cara, poi, alla propaganda fascista, che Marx agisse più o meno direttamente in combutta con Rothschild:


Marx, ebreo egli stesso, è circondato … da una moltitudine di ebrei più o meno intelligenti, intriganti, speculatori … agenti di banca o di commercio, scrittori, politici, giornalisti di tutti i colori … con un piede nella banca, l’altro nel movimento socialista e il deretano ben poggiato sulla stampa quotidiana tedesca – hanno preso possesso di tutti i giornali … si può immaginare che letteratura nauseante essi producano. Ora, tutto questo mondo ebraico, un’unica setta di sciacalli, un popolo di sanguisughe, un unico avido parassita, unito strettamente non solo al di là dei confini nazionali ma anche al di là delle differenti opinioni politiche – tutto questo mondo ebraico risponde all’autorità di Marx e allo stesso tempo a quella di Rothschild. Sono certo che da parte sua Rothschild apprezza i meriti di Marx, e che Marx prova per Rothschild attrazione istintiva e un grande rispetto. Ciò può sembrare strano. Cosa può esservi in comune fra il comunismo e le grandi banche? Oh! Il comunismo di Marx vuole un’enorme centralizzazione del potere nelle mani dello Stato, e dove ciò avviene dev’esserci per forza una banca centrale; ma dove vi è una tale banca, la nazione parassitica degli ebrei, la quale specula sul lavoro del popolo, troverà sempre il modo di spadroneggiare.18


Al di là del maggiore o minore rilievo biografico che si voglia attribuire a queste polemiche personali, è innegabile che la diffusione delle idee economiche antisemite negli ambienti progressisti e rivoluzionari in cui Marx fu attivo politicamente – dalla sinistra hegeliana alla democrazia radicale, dai movimenti socialisti dei lavoratori e della piccola borghesia ai moti del ’48, dalla bohême parigina ai grandi partiti socialdemocratici della seconda metà del secolo, su su fino ai più alti livelli dirigenziali dell’Internazionale – abbia avuto un’influenza profonda sullo sviluppo del suo pensiero critico.


A misurare tale diffusione può valere la circostanza che perfino autori radicali ebrei e molto vicini a Marx incappano in questa forma approssimativa e volgare di critica sociale. «Il denaro è il Dio del nostro tempo e Rothschild è il suo profeta», sentenzia per esempio Heinrich Heine.19 Ancora più significative sono alcune esternazioni di Moses Heß – padre nobile del sionismo, per alcuni un suo profeta moderno, certamente una figura al di sopra di ogni ragionevole sospetto di antisemitismo.20 A Marx lo legava un rapporto di amicizia e intensa collaborazione, nel corso del quale i due esercitarono una vicendevole, profonda e durevole influenza intellettuale.21 Sebbene impegnato negli anni quaranta in difesa dell’emancipazione ebraica, Heß non esita a incorporare materiali mitologici provenienti dalla tradizione giudeofoba medievale nella sua critica della società borghese. In Filosofia dell’azione (1843), per esempio, cita e attualizza la tradizionale accusa del sangue estendendola all’intera società. Come nei tempi antichi la religione, così in quelli moderni la politica assorbe forzosamente la vita degli individui in un’astrazione universale. Il prezzo da pagare per ognuno di loro, oggi come allora, è il sacrificio umano. Nella religione statuale borghese l’individuo è chiamato a cedere la propria universalità interna, la propria umanità, a un’entità politica astratta e separata da lui. Come ogni divinità che si rispetti, anche lo Stato politico moderno esige il proprio tributo di sangue. Il suo modello originario è Moloch, la divinità pagana cui venivano offerti bambini in olocausto – un culto di cui si sarebbe conservata traccia nel rito ebraico del pidyon haben, il riscatto del figlio primogenito da pagarsi in scicli d’argento al sacerdote.22 È il denaro, infatti, l’altra figura che insieme allo Stato incarna l’universalità umana astratta e alienata dall’uomo. La società borghese è per Heß «il mondo del mercimonio moderno».


Ciò che Dio è per la vita teoretica del mondo all’incontrario, il denaro lo è per la sua via pratica: è il potere alienato degli esseri umani, è la loro attività vitale fatta oggetto di mercimonio.23


Heß vorrebbe svelare L’essenza del denaro attraverso la categorie della critica della religione. Il denaro è per lui quel Dio è per Feuerbach: Gattungswesen. È l’essenza del genere umano in quanto separata dall’individuo, l’umanità alienata dall’uomo e contrappostagli nelle vesti di una divinità esosa e spietata che ne opprime, o perfino sopprime, la vita. Vivendo e producendo in società le condizioni materiali della propria esistenza, gli uomini producono anche la propria stessa essenza umana. Nella società moderna, tuttavia, tutti i beni prodotti dal lavoro sono portati in sacrificio a Moloch-denaro – perfino l’uomo stesso.24 In questa analisi filosofica e religiosa del ruolo del denaro nella società moderna, Heß ripropone il tema dell’antropofagia rituale, indicando il molochismo e l’ebraismo antico come modelli originari del presente storico. «Poiché il denaro che noi usiamo e per il quale lavoriamo è la nostra stessa carne e il nostro sangue … siamo tutti cannibali, predatori, succhiatori di sangue».25


Queste riflessioni su L’essenza del denaro non possono dirsi latrici di intenzioni direttamente antisemite: non solo perché l’autore ci è noto come un difensore dell’emancipazione ebraica e un precursore del sionismo, ma anche perché il motivo della sete di sangue e di denaro non è associato specificamente agli ebrei. Concerne l’intera collettività, «il moderno mondo giudaico-cristiano mercantesco» («die christlich-jüdische moderne Krämerwelt»). Nondimeno è innegabile una parziale sudditanza intellettuale del «rabbino rosso» alle strutture di pensiero dell’antisemitismo moderno.26 Nella sostanza, la sua critica sociale non è altro che un trasferimento della teoria feuerbachiana dell’alienazione dal campo della religione a quello economico e politico. Nello sviluppo del pensiero di Marx, la percezione dell’immaturità teorica di Heß costituirà il punto di partenza per la riflessione matura sul problema del feticismo.


La costellazione di temi che definisce l’economia politica dell’antisemitismo – il potere del denaro, l’egoismo, l’alienazione dell’uomo moderno, l’usura, la sete di sangue, la schiavitù dell’interesse, la finanza e il capitale predatorio, l’onore del lavoro, la lotta al parassitismo – è parte integrante del patrimonio teorico, retorico e culturale della sinistra. Questa costellazione di motivi strutturalmente o immediatamente antisemiti non cessa tuttora di ricombinarsi in sempre nuove configurazioni e di esercitare la propria influenza sulla coscienza protestataria, ribelle, «critica» dei movimenti di emancipazione. Tale antisemitismo popolare si nutre delle istanze di ribellione contro lo sfruttamento e l’ingiustizia sociale e si caratterizza in una parte rilevante dei casi come «anticapitalista». Poiché ha accompagnato il movimento socialista in tutte le tappe della sua evoluzione, fornisce un fedele indicatore delle tendenze reazionarie che lo attraversano; segnala i momenti storici e i luoghi concettuali in cui le istanze di emancipazione tendono a ribaltarsi nel loro contrario. Nel suo studio su La nuova gazzetta renana e gli ebrei, Roman Rosdolsky parla di «una malattia infantile del movimento operaio».27 Occorre domandarsi se la diagnosi pediatrica dello studioso ucraino non sia stata troppo benevola o ottimista.


Critico intransigente delle teorie e dei movimenti radicali del suo tempo, Marx ebbe a confrontarsi prolungatamente con questa patologia «infantile». Al suo tempo non vi erano dei grandi partiti reazionari moderni come quelli fascisti del secolo successivo. Le nozioni economiche e sociali dell’antisemitismo moderno venivano propagate soprattutto nei circoli politici e intellettuali da lui frequentati. Considerando da questo punto di vista il contesto politico e intellettuale delle sue relazioni, viene fatto di chiedersi se una qualche sensibilità particolarmente precoce e spiccata per la questione antisemita non abbia contribuito a fare di lui una delle figure più iraconde e litigiose della storia della filosofia moderna, a indurlo a rompere bruscamente rapporti personali e politici con la periodicità compulsiva di una coazione a ripetere, a dedicare gran parte dei sui sforzi intellettuali a criticare senza compromessi le teorie e i programmi sociali promossi dalla sua propria parte politica. Quel che è certo è che Marx è stato un testimone accorto della genesi dell’antisemitismo moderno, avendo avuto occasione di viverla per così dire dall’interno. E che perciò la sua opera fornisce strumenti precisi per l’analisi di questo fenomeno sociale. Molto spazio occupa in essa il confronto con quelle che possono ben essere definite le formulazioni più sottili, più interessanti, più profonde, più radicali, più sistematiche, più genuinamente interessate al problema dell’emancipazione, insomma più moderne della nascente concezione antisemita della società borghese: con l’avanguardia dell’antisemitismo moderno. La teologia politica di Bruno Bauer, il materialismo antropologico di Feuerbach e l’economia politica di Proudhon rappresentano tre casi emblematici in questo senso. Questi autori condividono, oltre a un’avversione più o meno spiccata per l’ebraismo e gli ebrei, anche l’esperienza di essere stati collaboratori stimati di Marx – più giovane di loro di circa dieci anni – e di avere successivamente subito le sue critiche più aspre e distruttive. Tali critiche non si limitano affatto alla polemica sugli ebrei (che invece è quasi omessa, ovvero accennata in modo velato). Sono critiche teoriche che risalgono alle strutture di pensiero fondamentali dell’antisemitismo moderno e, di là da quelle, al contenuto oggettivo del pensiero, alla realtà sociale che vi è riflessa.

5. Parigi – Bruxelles – Londra

Tre posizioni di Marx rispetto all’antisemitismo

Bisogna ora esaminare, come introduzione più prossima al nostro argomento, le posizioni che sono state assegnate al pensiero rispetto all’oggettività.


Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817)1


Vi è più di un senso in cui il fenomeno dell’antisemitismo moderno è suscettibile di una spiegazione «economica». Ve ne sono almeno tre.


Quello più manifesto può essere colto da un esame anche superficiale della sua propaganda, la quale presenta in gran parte un carattere esplicitamente economico. La promozione delle idee antisemite fra il XIX e il XX secolo si appoggia a teorie e argomentazioni di tipo (più o meno volgarmente) economico in misura almeno pari a quella in cui l’antigiudaismo medievale si appoggiava a teorie e argomentazioni di tipo (più o meno volgarmente) teologico. In questo senso non occorre un’analisi critica dell’antisemitismo per rilevare i suoi motivi economici. È questa ideologia stessa a presentarsi come un’interpretazione complessiva del «capitalismo» e come una reazione politica contro i suoi mali: come teoria e prassi anticapitalista. In certa misura occorre dare credito agli ideologi antisemiti, prestare ascolto al loro discorso economico ammettendone, sia pure per ipotesi, la genuinità. Non si può comprendere il significato sociale della questione ebraica senza prendere sul serio il problema del «potere del denaro». Ma dare credito a queste teorie, d’altra parte, non può bastare – almeno non quando dell’antisemitismo si voglia ottenere una comprensione critica, non soltanto immanente, non essa stessa antisemita.


In secondo luogo l’antisemitismo può essere sottoposto, al pari di ogni altro fenomeno ideologico, a un’analisi socio-economica dei fattori materiali che ne hanno favorito la diffusione. È possibile, cioè, osservare le situazioni e congiunture in cui questa ideologia si è sviluppata e determinare con un grado più o meno alto di precisione scientifica le ragioni per cui essa ha preso piede in un certo momento, in un certo paese, presso certe classi sociali, raggruppamenti politici o individui. Si può mostrare quali interessi siano oggettivamente avvantaggiati dalle politiche antisemite e quali si illudano di esserlo. Le ricerche del giovane Marx sulla questione ebraica e sull’ideologia tedesca forniscono spiegazioni plausibili della fortuna di cui l’antisemitismo ebbe a godere particolarmente in Germania, nonché del fatto che la sua base sociale fu prevalentemente piccolo-borghese.2 La maggior parte delle analisi marxiste prodotte negli ultimi cent’anni considera l’antisemitismo come un’ideologia funzionale agli interessi delle classi dominanti; una sorta di manipolazione delle coscienze volta a deviare il rancore potenzialmente rivoluzionario delle classi oppresse verso un immaginario capro espiatorio.3 Se tale sociologia empirica può cogliere aspetti reali della storia moderna dell’antisemitismo, rischia d’altra parte di rivelarsi riduttiva e manchevole di fronte al compito di una sua comprensione storica complessiva, al compito di ottenerne un concetto. Spiegazioni di questo genere non rendono conto del fatto che l’antisemitismo ha coinvolto l’intera società borghese (o almeno una parte ampia e socialmente eterogenea dei suoi membri) e il suo intero spettro politico. Si limitano a porre in luce certe condizioni o congiunture esterne che hanno favorito la diffusione dell’antisemitismo. Si limitano cioè a illustrare alcuni aspetti del suo occorrere; ma non dicono che cos’è. L’antisemitismo viene rapidamente rubricato come «avversione degli ebrei», come un caso particolare del più generale fenomeno del razzismo e della xenofobia, senza che il problema di determinarne la differenza specifica venga anche soltanto posto. Il suo carattere di priorità assoluta, di distruzione per la distruzione, rimane inspiegabile. Proprio questo carattere peculiare, tuttavia, mostra che l’antisemitismo moderno non è un semplice pregiudizio contro gli ebrei, né soltanto l’utilizzo strategico di questo pregiudizio da parte del potere politico e sociale, ma che tanto il pregiudizio quanto la sua manipolazione politica sono fondati in un’unica forma di pensiero dominante, un’intelligenza sistematica del mondo, una concezione generale della società borghese per cui la questione ebraica è la più decisiva della storia universale e la sua soluzione finale l’orizzonte ultimo dell’emancipazione umana. La sociologia empirica e la semplice osservazione dei conflitti economici non sono sufficienti a rendere conto della costituzione e diffusione di questa forma di pensiero.


Il terzo senso in cui l’antisemitismo moderno può essere fatto oggetto di una considerazione economica contiene in sé i due precedenti e ne è la sintesi. Una teoria che ponesse in relazione sistematica i fattori economici alla base della diffusione dell’antisemitismo da una parte, e dall’altra le rappresentazioni economiche in cui esso viene espresso e propagato; il contesto storico-sociale da una parte, e dall’altra il contenuto ideologico; – una tale teoria sarebbe la sola in grado di fornire un quadro di riferimento adeguato per la costruzione di una spiegazione né unilateralmente psicologica o ideologica, né unilateralmente sociologica, ma complessiva e comprensiva di entrambi i lati del fenomeno, né immanente al pensiero antisemita, né puramente estrinseca e indifferente al suo contenuto rappresentativo: una spiegazione storica in senso eminente, capace di rendere conto ad un tempo del perché vi sia (stato) antisemitismo e di che cosa esso sia.


Sulla base di questi tre differenti ordini di spiegazione economica del fenomeno antisemita è possibile abbozzare una periodizzazione dell’itinerario scientifico di Marx. In altri termini: considerando il corso della sua riflessione economica dal punto di vista del confronto costante che egli ebbe a sostenere con l’economia politica dell’antisemitismo, è possibile individuare, certo schematicamente, tre successive fasi di sviluppo.


Marx non ricevette istruzione economica. Si accostò a questa disciplina in età adulta e autodidatticamente. I primi tentativi di comprendere la società borghese attraverso le lenti dell’economia risalgono agli anni dell’esilio parigino (1843-44). Nel testo teoricamente più significativo di questo periodo – Manoscritti economico-filosofici del 1844 – la riflessione si muove all’interno di un paradigma di pensiero che appare ancora definito, sul lato filosofico, dalla critica religiosa della sinistra hegeliana, su quello economico, da Proudhon. I concetti centrali sono quelli di «alienazione del lavoro» e «potere del denaro». Dello stesso anno è la pubblicazione della polemica con Bruno Bauer Sulla questione ebraica. In questa fase parigina o precritica del pensiero economico di Marx, ancora priva di un concetto di capitale, la critica dell’antisemitismo sta nello svelamento del meccanismo di proiezione per cui gli aspetti negativi della vita sociale della maggioranza antisemita vengono rimossi dalla sua coscienza per riapparire deformati e personificati nel fantasma del«l’ebreo». Tale è il senso dell’ironico ribaltamento della taccia di «giudaismo» sulla società intera. Le accuse economiche dell’antisemitismo vengono dissociate dal loro tradizionale bersaglio ed estese alla collettività. L’impianto accusatorio, tuttavia, rimane sostanzialmente lo stesso. Il giovane Marx, principiante in fatto di economia, adotta perlopiù acriticamente le categorie filosofiche ed economiche proprie dell’antisemitismo e le adopera nei suoi tentativi di interpretare criticamente la società borghese. Quest’ultima viene tipicamente denunciata come regno universale del denaro e dell’egoismo.


Espulso dal governo francese all’inizio del ’45, Marx prosegue i suoi studi economici a Bruxelles. Due anni dopo dà alle stampe in lingua francese il suo primo libro di argomento economico: Miseria della filosofia. Risposta alla «Filosofia della miseria» di Proudhon, seguito di poco dal Manifesto del partito comunista. Risalgono a questi anni nozioni cardinali della sua teoria quali la contraddizione fra lo sviluppo tecnologico delle forze produttive e la conservazione dei rapporti sociali della produzione, l’idea di un antagonismo che scaturisce sistematicamente non dagli individui, ma dalle condizioni sociali in cui vivono e lavorano: la lotta di classe, ecc. Le riflessioni brussellesi conducono a una revisione radicale dell’apparato concettuale marxiano. Si assiste a un progressivo congedo dalla terminologia filosofica dei primi anni, al tentativo di adottare un linguaggio più preciso e scientifico. Questa fase del pensiero economico di Marx può esser detta materialista in quanto è segnata dal tentativo di applicare il metodo elaborato nella critica della filosofia tedesca contemporanea, cosiddetto materialismo storico, all’ambito dell’economia. Questa prospettiva radicalmente anti-filosofica si distingue per un atteggiamento (a tratti: ingenuamente) empirista e nominalista. Il potere del denaro viene considerato alla stregua di una mera astrazione idealistica. Si insiste sulla necessità di abbandonare le vuote astrazioni della teoria per immergersi nell’analisi dei processi reali, dei «fatti». La comprensione teorica dei nessi sociali è ritenuta procedere immediatamente dall’osservazione empirica della realtà. La controversia con Proudhon può considerarsi un proseguimento del programma delineato ne L’ideologia tedesca, la cui «miseria» Marx ritrova ora anche al di fuori dei confini geografici delle Germania e di quelli disciplinari della filosofia. Che l’economista e riformatore sociale francese fosse ossessionato dagli ebrei, è noto.4 Come è noto che i suoi scritti siano stati un bersaglio privilegiato di Marx e un elemento di confronto d’importanza primaria nello sviluppo del suo pensiero.5 Meno nota, invece, è la relazione che lega queste due circostanze. In questa fase della sua polemica con l’antisemitismo economico, Marx riconosce che il bersaglio designato non è un elemento accidentale, tradizionale, esteriore alle concezioni economiche generali propagate dagli antisemiti, ma che invece l’intenzione di eliminare gli ebrei è insita nella struttura concettuale stessa della loro economia politica, che appartiene essenzialmente alla loro visione della società moderna. Alla radice delle tendenze reazionarie del socialismo francese Marx ritrova «astrazioni idealistiche» in tutto simili a quelle dell’ideologia tedesca. È questa la «miseria» della filosofia economica di Proudhon. Marx ne denuncia i tratti misterici e cospirazionisti, falsifica la teoria del potere del denaro, respinge l’ideologia dell’onesto lavoro come utopia reazionaria e piccolo-borghese, mette a nudo gli ideali di uguaglianza e giustizia (distributiva) sbandierati dal leader operaio francese nel tentativo di fondare l’armonia sociale sull’odio del parassita e vi contrappone, così in teoria come in politica, la lotta di classe dentro il mondo della produzione. Nella prosecuzione della controversia con gli epigoni di Proudhon si premurerà di confutare puntualmente tutte le spiegazioni di stampo antisemita dei più importanti fenomeni disfunzionali dell’economia di mercato, dalla semplice divergenza fra il prezzo e il valore di una merce fino ai collassi del mercato mondiale. Anche in seguito non smetterà di dedicare molto inchiostro e ingegno a smentire quell’eziologia delle disuguaglianze e delle crisi economiche, largamente diffusa in ambito socialista, che riconduce gli «inconvenienti» della modernità al denaro, al credito o qualsiasi altro fantomatico elemento turbativo del naturale equilibrio del mercato.


Dopo il movimentato biennio 1848/49 la famiglia Marx si trasferisce a Londra. La sua fonte di sostentamento principale negli anni cinquanta è il lavoro di Karl come corrispondente per la «New York Daily Tribune», cui invia regolarmente cronache e analisi dei principali fatti economici d’Europa lungo tutto il decennio. Oltre a questo lavoro giornalistico sono le circostanze della capitale inglese – l’ampia disponibilità di materiale sulla storia del pensiero economico presso la biblioteca del British Museum, la posizione privilegiata per osservare gli sviluppi della grande industria – a favorire l’inizio di un nuovo ciclo di studi economici, culminato molti anni dopo con la pubblicazione del primo volume del Capitale (1867) e mai concluso. In questo periodo londinese si colloca la fase più matura del pensiero economico di Marx, ossia la Critica dell’economia politica vera e propria. Questa fase può esser detta metafisica o speculativa perché il suo risultato più notevole consiste in una dottrina storica della realtà socialmente oggettiva dell’universale astratto. Le opere della maturità forniscono una rappresentazione dell’effettivo imporsi del lavoro astratto e della legge del valore quali principi ordinatori della produzione della ricchezza nell’epoca borghese. La natura critica della rappresentazione di questo processo sta nel suo carattere internamente contraddittorio, che in realtà è il carattere internamente contraddittorio del suo oggetto che diviene palese. Il problema teorico su cui più si esercita la riflessione in questa fase è l’origine del plusvalore, l’autonegazione del principio di equivalenza, la misura dello sfruttamento del lavoro e la madre di tutte le diseguaglianze. Dal punto di vista metodologico, questa fase si caratterizza per una correzione del materialismo proprio della giovanile critica all’ideologia e un superamento dei suoi aspetti più ingenuamente empiristi e nominalisti. Sullo sfondo di questa evoluzione va vista una rinnovata e approfondita ricezione della critica gnoseologica di Kant e della logica hegeliana. L’astrazione concettuale non è più criticata come semplice pensiero vuoto, privo di contenuto oggettivo, bensì è riconosciuta nella sua realtà pratica quale principio sintetico dell’organizzazione moderna del lavoro. Il «potere del denaro» non è più visto come una mera superstizione o ipostasi logica, come avveniva nella fase materialista, né torna a essere paventato in senso proprio, come nella fase precritica, bensì è compreso come una parvenza oggettiva e necessaria – «trascendentale» – dell’astrazione valore/lavoro. Vale a dire che i teoremi dell’economia politica dell’antisemitismo non vengono più soltanto confutati, ma anche spiegati geneticamente. Vengono illustrate, cioè, le ragioni per cui i rapporti sociali della produzione capitalistica devono necessariamente manifestarsi alla coscienza dei soggetti che ne sono coinvolti diversamente da come sono – come «ebraici». Nel nucleo gnoseologico e teologico della critica dell’economia politica – il noto paragrafo sul feticismo all’inizio del Capitale, dove Marx espone la sua teoria della costituzione sociale della coscienza e denuncia la più moderna e universale forma di idolatria mai praticata dall’uomo – il pensiero dell’antisemitismo moderno trova un fondamento esplicativo oggettivo. La critica dell’economia politica (dell’antisemitismo) non vuole soltanto scagionare gli ebrei dalle accuse che li riguardano, né si limita a smentire le teorie pseudoscientifiche che vi sono sottese. Riconosce invece tanto le calunnie antisemite, quanto la concezione sociale generale che vi fa da cornice, quali «forme di pensiero socialmente valide, quindi oggettive», manifestazioni necessarie dello spirito oggettivo della società borghese, antisemita esso stesso.

6. Dalla teologia all’economia, e ritorno

(fase parigina o precritica)

Il denaro è il geloso dio d’Israele, di fronte al quale nessun altro dio può esistere.


Karl Marx, Sulla questione ebraica (1843)1


6.1. «Rompere la formulazione teologica» (Sulla questione ebraica II)

Nella polemica sulla questione ebraica Marx rimprovera a Bruno Bauer di essere rimasto, nonostante tutto, un «teologo di fede cristiana».2 Il suo modo di impostare la «questione» – sostiene – riduce il problema sociale dell’emancipazione a una questione puramente religiosa. Per misurare la «capacità di diventare liberi degli ebrei», ad esempio, l’ateista hegeliano di sinistra ritiene di dover sottoporre le loro credenze e la loro legislazione religiosa a un esame critico. Ne conclude che l’ebraismo è un intralcio sulla via della libertà e che il suo superamento è una condizione decisiva per l’emancipazione. Seppure camuffato da un lessico filosofico illuminista e radicale, l’atteggiamento di Bauer ricorda a Marx quello di giudice della Santa Inquisizione. Egli esige dagli ebrei una «professione di fede».


Lo scrupolo teologico: chi ha maggiore possibilità di salvarsi, l’ebreo o il cristiano? si ripete nella formula illuminata: chi dei due è più capace di emancipazione? … Si tratta ancor sempre per gli ebrei di fare una professione di fede, ma non più di professare il cristianesimo, bensì un cristianesimo dissolto.3


Criticando questa impostazione della questione, Marx sostiene la necessità di sospendere l’indagine sulla compatibilità della religione ebraica con l’emancipazione moderna, di respingere metodologicamente la domanda se gli ebrei siano capaci di diventare liberi e risolversi una buona volta a guardare in faccia gli ostacoli reali del processo di emancipazione.


Noi cerchiamo di rompere la formulazione teologica della questione ebraica … Consideriamo l’ebreo reale mondano, non l’ebreo dello shabbat, come fa Bauer, ma l’ebreo di tutti i giorni.4


Quali sono dunque le forze antisociali che effettivamente si oppongono alla liberazione dell’uomo, e che Bauer chiama «ebraismo»? Nel tentativo di scoprirlo, la prima parte del saggio Sulla questione ebraica analizza le forme politiche e giuridiche dell’emancipazione borghese: lo Stato politico e i diritti umani.5 La seconda parte invece – assai più breve – si sofferma sugli aspetti economici. Ma è con conoscenze teoriche ancora poco solide che il giovane autore si appresta ad affrontare i temi materiali del dibattito sulla questione ebraica. Cerca il nemico reale della libertà che si nasconde dietro il fantasma de «l’ebreo» agitato da Bruno Bauer e ritiene di trovarlo, economista principiante, nella «potenza del denaro» («Geldmacht»).6 Bauer stesso aveva già suggerito questa possibilità.7 Marx raccoglie il suo accenno di considerazione economica del problema ebraico e tenta di svilupparlo in maniera più sistematica, senza perdersi in speculazioni religiose.


Qual è il fondamento mondano del giudaismo? Il bisogno pratico, l’egoismo.


Qual è il culto mondano dell’ebreo? Il traffico. Qual è il suo Dio mondano? Il denaro.8


Questi e analoghi passaggi delle ultime pagine dell’articolo Sulla questione ebraica sono famigerati. Scrivendo che «il denaro è il Dio d’Israele» Marx, in realtà, non scrive nulla di innovativo o scandaloso. Tale tesi doveva risultare familiare al lettore avvezzo al dibattito politico dell’epoca. L’idea di un legame speciale fra gli ebrei e il denaro era saldamente insediata nella mentalità comune. Nell’uso del tempo, le parole «Jude» e «jüdisch» comprendevano nel loro campo semantico un distinto richiamo al sordido.9 Non è certamente Karl Marx a mettere in circolo certe idee. Purtuttavia è vero che non esita a raccogliere questo repertorio di pregiudizi più o meno tradizionali sul conto degli ebrei e a porre l’ebraismo in relazione sistematica con le principali caratteristiche negative della società moderna. Bisogna capire in quale relazione.


Ciò che è originale e caratteristico dello scritto marxiano non è il contenuto del luogo comune, ma il senso in cui viene adoperato. Nel suo senso più comune e antisemita, la connessione archetipica ebreo-denaro suggerisce l’idea che l’ebraismo sia all’origine delle forze oscure che dominano l’economia moderna. Ma questa è esattamente la «concezione teologica» del problema che Marx si propone di «rompere». Il suo ragionamento non intende affatto ricondurre le contraddizioni politiche ed economiche del tempo alla religione ebraica. Viceversa, riconosce nella persistenza de «l’ebraismo» – l’ossessione di Bauer – un’espressione e una conseguenza di quelle contraddizioni. La copula fra «denaro» e «Dio d’Israele» esprime un significato e un’intenzione esattamente inversi rispetto a quelli correnti.


Da una parte, cioè, Marx sostiene che il rapporto privilegiato degli ebrei col denaro ha poco o nulla a che fare con la loro religione, che dipende piuttosto dalla funzione economica loro riservata nel quadro generale dei rapporti di forza nella società. «Tale rapporto risulta necessariamente dalla posizione particolare del giudaismo nell’asservito mondo odierno».10 D’altra parte, però, estende la portata del concetto di «ebraismo» oltre i limiti di questa minoranza religiosa fino a fargli comprendere l’intera collettività.11 Il risultato di questa operazione lessicale è che il termine «ebreo» conserva le tradizionali accezioni negative, ma perde la sua relazione nominale con i seguaci di una religione specifica, viene cioè spogliato dei suoi predicati teologici e religiosi e utilizzato come un sinonimo socialtipologico di «borghese». Il senso polemico e figurato in cui si parla di «ebraismo» è del tutto evidente. È «ebraica» perfino la religione cristiana. Il catechismo è già diventato, in America del Nord, un oggetto di commercio: nemmeno le istituzioni più sacrosante del cristianesimo sfuggono alla logica universale del denaro.12 Ma vi è pure una ragione più profonda per cui i cristiani vengono detti – con semiseria risonanza paolina – «ebrei». Marx, infatti, è dell’opinione che «soltanto sotto la signoria del cristianesimo» la società moderna abbia potuto sviluppare le proprie strutture, «separarsi completamente dalla vita politica dello Stato» e «dissolvere il mondo degli uomini in un mondo di individui atomistici, ostilmente contrapposti gli uni agli altri». «Il giudaismo raggiunge il suo vertice col perfezionamento della società borghese, ma la società borghese si compie soltanto nel mondo cristiano».13


Bauer sostiene che, concedendo pieni diritti agli ebrei, si rischierebbe di favorire ulteriormente il dominio sociale che essi già esercitano in forza del loro denaro. È pur vero – risponde Marx – che gli ebrei si sono emancipati «in maniera ebraica», che è grazie al denaro se hanno avuto accesso alla società borghese. Ciò dipende, in parte, dall’esclusione dalla proprietà immobile e dalle corporazioni artigiane che per secoli li relegati nella sfera della circolazione e del traffico di denaro. Ma in parte ancora maggiore dipende dal fatto che il denaro è in generale l’unica via di accesso alla società borghese. Gli ebrei si sono emancipati bensì grazie al denaro, ma il denaro ha conquistato il proprio potere sul mondo senza bisogno dell’aiuto degli ebrei.


L’ebreo si è già emancipato in modo giudaico … non solo in quanto si è appropriato della potenza del denaro, ma altresì in quanto il denaro per mezzo di lui e senza di lui è diventato una potenza mondiale, e lo spirito pratico dell’ebreo lo spirito pratico dei popoli cristiani. Gli ebrei si sono emancipati nella misura in cui i cristiani sono diventati ebrei.14


Il giovane Marx pensa la società del suo tempo come un grande «sistema del denaro».15 Per esprimere questo pensiero con sarcasmo polemico nei confronti dell’antisemita Bauer, dice che essa è tutta «ebraica». E che i più «ebrei» fra i suoi membri sono proprio i cristiani.


«Ebbene, l’emancipazione dal traffico e dal denaro, dunque dal giudaismo pratico e reale, sarebbe l’autoemancipazione del nostro tempo».16 «L’ebraismo» reale, pratico, da cui l’umanità ha bisogno di emanciparsi non è la religione ebraica. È piuttosto l’insieme di quegli elementi della prassi sociale che la coscienza ancora «teologica» e antisemita dell’epoca non riconosce come tali e proietta sugli ebrei. Quando la società moderna prenderà coscienza dei propri limiti interni e affronterà a viso aperto le proprie contraddizioni, allora cesserà di proiettarli al proprio esterno. Il fantasma de «l’ebreo» che agita la coscienza antisemita sarà finalmente dissolto.


Non appena la società perverrà a sopprimere l’essenza empirica del giudaismo, il traffico e i suoi presupposti, l’ebreo diventerà impossibile, perché la sua coscienza non avrà più alcun oggetto, perché la base soggettiva del giudaismo, il bisogno pratico si umanizzerà, perché sarà abolito il conflitto dell’esistenza individuale sensibile con l’esistenza generica dell’uomo.


L’emancipazione sociale dell’ebreo è l’emancipazione della società dal giudaismo.17


6.2. Il Dio denaro e l’alienazione del lavoro

Per comprendere il senso e i limiti di questo primo tentativo di criticare la questione ebraica occorre considerarlo nel più ampio contesto della teoria sociale che il giovane Marx andava elaborando in quegli anni. La concezione della società borghese come «sistema del denaro» trova la sua espressione più articolata nei Manoscritti economico-filosofici del 1844. In questo testo Marx si confronta per la prima volta con Adam Smith e l’economia politica classica. Il confronto avviene su un terreno ancora molto «tedesco», vale a dire in una prospettiva largamente influenzata dall’hegelismo di sinistra e dalla filosofia della religione di Feuerbach.18


La nozione centrale attorno a cui ruota la critica sociale a questo stadio della riflessione è quella hegeliana di «alienazione» («Entfremdung»). Se in Hegel e poi in Feuerbach «alienazione» era una categoria della vita spirituale, la virata materialistica di Marx consiste nel riferirla all’attività pratica dell’uomo: al lavoro. La critica filosofica della religione sosteneva che l’uomo degrada tanto più se stesso quanto più aliena da sé gli attributi della propria soggettività e li pone nella sostanza eterna e separata cui dà nome Dio. Analogamente, la critica «economico-filosofica» del giovane rivoluzionario constata che il mondo degli oggetti prodotti dal lavoro – il quale comprende, in ultima analisi, l’intera natura – diviene tanto più estraneo, ostile e potente nei confronti del soggetto che lavora, quanto più questi lavora.


Il capitolo dei Manoscritti intitolato «Il lavoro alienato» muove «da un fatto dell’economia politica, da un fatto attuale» – cioè dal «fatto» che «l’operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza … diventa una merce tanto più a buon mercato quanto più crea delle merci».


Questo fatto non esprime nient’altro che questo: che l’oggetto prodotto dal lavoro sta di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal produttore … La realizzazione del lavoro appare, nella condizione descritta dall’economia politica, come annullamento del lavoratore … come perdita e schiavitù dell’oggetto … come alienazione.19


Il lavoratore moderno si trova in condizione di alienazione non soltanto rispetto al prodotto del suo lavoro, che non gli appartiene, ma anche rispetto al lavoro stesso, alla sua propria attività, nella quale, lungi dal realizzare se stesso, egli è asservito e si perde.20 Inoltre, poiché l’attività produttiva è il nesso che lega gli uomini gli uni agli altri e fa di loro una specie, il lavoratore moderno è alienato anche rispetto alla dimensione sociale e umana del proprio sé, alla propria essenza di genere («Gattungswesen»).21 Con l’alienazione dell’uomo rispetto ai prodotti del suo lavoro, alla sua attività lavorativa e alla sua stessa essenza umana è posta, in quarto luogo, anche l’alienazione nei confronti dei suoi simili. Gli altri esseri umani non gli appaiono come individui appartenenti alla sua stessa essenza specifica, consimili, compagni, conviventi la sua stessa vita umana, bensì soltanto come estranei e ostili.22


Nella descrizione del giovane Marx, questo contesto di generale straniamento degli uomini gli uni rispetto agli altri è caratterizzato da tratti di egoismo, cupidigia, auri sacra fames. La vicinanza di Moses Heß salta all’occhio. I Manoscritti marxiani recepiscono l’indignazione morale dei giovani hegeliani nei confronti della società moderna, ne condividono il pathos emancipatore e l’afflato universalista, e vorrebbero elevare tutto ciò al livello di una riflessione scientifica sulla struttura economica. Gli atteggiamenti asociali che appaiono contrassegnare l’epoca vengono qui analizzati non come caratteristiche psicologiche o antropologiche proprie di certi individui, popoli o religioni, ma sulla base di quel che si ritiene essere il loro fondamento oggettivo: il «potere del denaro» («Geldmacht»).23 «Quanto più grande ed evoluta appare quindi la potenza sociale [del denaro] … tanto più egoista, asociale ed estraniato dalla sua propria essenza diviene l’uomo».24 Il compito scientifico è quello di comprendere il «fatto» dell’alienazione moderna nelle sue cause economiche. «Ora», scrive Marx, «dobbiamo comprendere il nesso essenziale … di tutta questa alienazione col sistema del denaro».25


Se il denaro è il legame che mi unisce alla vita umana, alla società, alla natura e agli uomini, non è esso il legame dei legami? Non può esso sciogliere e stringere tutti i legami? E non è perciò anche il generale mezzo di separazione? Esso è la vera moneta divisionale, come anche il vero legamento, la forza galvano-chimica della società.


Shakespeare rileva nel denaro particolarmente due proprietà:


1) è la visibile divinità …


2) è l’universale prostituta, l’universale mezzana di uomini e popoli …


La possanza divina del denaro consist[e] nella sua essenza, ossia nell’essenza specifica degli uomini alienata, estraniata e deprivata. Il denaro è il potere espropriato dell’umanità.26


La nozione filosofica e tedesca di Entfremdung e quella economica e antisemita di Geldmacht – i due perni concettuali della teoria sociale esposta nei Manoscritti e sottesa alla polemica con Bauer sulla questione ebraica – non sono semplicemente giustapposte. Il nesso «essenziale» che le lega sta alla base di un paradigma di pensiero antisemita che le riflessioni precritiche di Moses Heß e del giovane Marx forzano sino ai limiti estremi, al quale tuttavia rimangono immanenti e subalterne. L’affinità si rivela nel fatto che il denaro viene pensato, sul modello della critica feuerbachiana all’alienazione religiosa, come una divinità. «Le nazioni … abbagliate dallo splendore materiale dei metalli nobili … sono feticiste della valuta metallica».27 Il denaro è descritto come un feticcio moderno, un «ente onnipotente», un oggetto di venerazione, «l’oggetto in senso eminente», oggetto universale che diviene soggetto universale in quanto gli uomini vi alienano il proprio lavoro e la propria stessa socialità, il proprio Gattungswesen.28


6.3. Limiti della fase precritica

Questa fase del pensiero economico di Marx può esser detta precritica in quanto manca di un concetto determinato di capitale e di un’analisi del lavoro capitalistico. Il problema dell’alienazione del lavoro viene illustrato sulla base di una rappresentazione superficiale e semplificata dell’economia borghese, concepita come un «sistema del denaro». L’ambizione teorica dei Manoscritti parigini è quella di superare la critica ideologica della religione quale veniva praticata dagli intellettuali radicali della Germania del tempo, tutti più o meno cresciuti alla scuola di Feuerbach, e formulare una critica scientifica della società. Dal punto di vista politico, si tratta di recuperare le energie rivoluzionarie della lotta giacobina contro la religione per concentrarle verso «fatti» reali e rapporti materiali di cui la religione non sarebbe che un riflesso illusorio. Marx però non giunge a emanciparsi davvero dal metodo critico degli ideologi tedeschi: si limita ad applicarlo, piuttosto pedissequamente, all’ambito secolare dell’economia. Vale a dire che gli strumenti teorici con cui viene analizzata la società borghese sono pur sempre quelli della critica religiosa. Nei panni di Dio viene posto bensì il denaro. L’alienazione dell’uomo imputata alla religione viene ricondotta bensì al suo nucleo terreno: al lavoro sociale. Tuttavia – complici le carenti conoscenze economiche del giovane dottore in filosofia – la conoscenza del rapporto fra lavoro e denaro viene attinta per il tramite di concetti teologici. Che cosa effettivamente siano il potere del denaro e l’alienazione del lavoro: ciò è dato a conoscersi a partire da Dio e dalla religione. L’approccio conoscitivo non si discosta da quello feuerbachiano, «filosofico», il cui materialismo consiste in un movimento del pensiero che parte dal cielo della religione per ricondurne le figure fantastiche all’origine terrena. Esattamente l’inverso del metodo che lo stesso Marx, anni più tardi, definirà «l’unico materialistico e quindi scientifico», il quale prescrive di spiegare le forme ideologiche e religiose della coscienza a partire dal basso, «dai rapporti reali di vita che di volta in volta si presentano», e non viceversa.29


All’interno di questa cornice teorica, l’obiettivo di «rompere la formulazione teologica della questione ebraica» era destinato a non potersi realizzare compiutamente. Nella polemica con l’economia politica dell’antisemitismo, il giovane Marx è impegnato soprattutto a contestarne il falso bersaglio. Mostra che «l’ebraismo» sotto accusa è un riflesso fantastico dei mali reali della società moderna, e non la loro origine. Vale a dire che la posizione antisemita viene criticata solamente con riguardo al suo contenuto, non però dal punto di vista formale. Il rapporto fra contenuto e forma è pensato in termini poco dialettici, come se fossero indifferenti l’uno all’altra, congiunti arbitrariamente e altrettanto arbitrariamente separabili. La visione generale della società che caratterizza strutturalmente l’antisemitismo moderno non viene riconosciuta come tale, bensì sostanzialmente accettata. Viene respinta e delegittimata senza mezzi termini l’opposizione contro l’emancipazione civile degli ebrei, ma trova spazio il pensiero riformatore ed eliminazionista per cui l’emancipazione universale dell’uomo dipenderebbe in ultima istanza dalla soppressione del potere del denaro e dell’egoismo generalizzato. Si afferma che non è il caso di criticare l’ebraismo, che a dover essere criticata è piuttosto la società borghese. Ma quest’ultima viene criticata, in mancanza di strumenti teorici più raffinati, come «ebraica».


Il limite di questa riformulazione della questione ebraica è il limite proprio di tutti i tentativi di spiegare l’antisemitismo moderno come un’avversione soggettiva o un pregiudizio arbitrario. È il limite proprio delle spiegazioni unilateralmente psicologiche e ideologiche dell’antisemitismo, delle teorie del capro espiatorio. Da questo punto di vista limitato, l’antisemitismo – di cui pure vengono riconosciuti alcuni tratti essenziali – appare come un fenomeno contingente della storia moderna, come qualcosa che è stato ma che, nelle stesse condizioni, data cioè la società borghese, avrebbe anche potuto non essere.30 Marx prenderà coscienza di questi limiti studiando le opere di Pierre-Joseph Proudhon nella seconda metà degli anni quaranta.

7. Pierre-Joseph Proudhon e l’eguaglianza

(fase brussellese o materialista)

J’ai voulu savoir pourqui je ne suis point riche.


Pierre-Joseph Proudhon, Cahiers de lecture 10 (1839)1


7.1. Pierre-Joseph e gli ebrei

Proudhon era di umili origini. Nato nel 1809 a Besançon, nella Franca Contea, da Claude-François Proudhon, mastro bottaio, e Catherine Simonin, cuoca, fu educato ai valori cattolici e repubblicani della tradizione contadina familiare. Da bambino lavorò come guardiano dell’unica vacca posseduta dalla sua famiglia. In seguito, divenuto ormai un intellettuale affermato e un parlamentare della Seconda Repubblica, amò rivendicare le sue radici campagnole di «Franc-Comtois», «bon gros paysan» e «enfant du peuple français».2


Per la precoce attitudine alle lettere venne avviato agli studi classici presso il Collège Royal di Besançon, dove entrò in contatto con i rampolli della nobiltà e dell’alta borghesia. A 17 anni dovette abbandonare la scuola in seguito al fallimento della bottega di suo padre. Questa esperienza adolescenziale è all’origine dei primi pensieri sullo scandalo delle disuguaglianze economiche.3 Trovato lavoro presso la stamperia Gauthier di Besançon, il giovane studioso poté continuare a dedicarsi ai propri interessi teologici e filologici. Curò la pubblicazione di una bibbia in latino e di un Dictionnaire théologique. Decise dunque di tentare la fortuna investendo i suoi pochi averi nell’acquisizione di un’altra stamperia, la Lambert et Cie. La fortuna non gli sorrise. In pochi anni di attività imprenditoriale Proudhon accumulò debiti per diecimila franchi con un tasso di interesse del 5%, 500 franchi l’anno, all’incirca il salario medio di un lavoratore del tempo.4


Le prime opere pubblicate da Proudhon sono di carattere teologico e manifestano segni già evidenti della sua ossessione. A onor del vero contengono anche alcuni apprezzamenti a proposito del ruolo storicamente progressivo della legislazione mosaica. Nella distribuzione della terra come possesso ereditario delle tribù d’Israele viene visto un modello di ordine sociale egualitario, basato sulla «uguaglianza della ripartizione» e sulla «giustizia commutativa».5 È semmai il popolo ebraico a essere considerato indegno della sua Legge, incline piuttosto all’adorazione del vitello d’oro. La storia d’Israele successiva all’epoca biblica è rappresentata come un lungo e perdurante processo di degenerazione morale e spirituale.


Quando si paragonano gli Ebrei della restaurazione di Ciro con Gli ebrei di Samuele, di Salomone e di Ezechia, si ha l’impressione di vedere due diverse razze. La grandezza e la semplicità del genio israelitico hanno ceduto il posto allo spirito cavilloso, puntiglioso e falso dei rabbini; fra i Profeti e il Talmud, il contrasto è mostruoso.6


In questi scritti religiosi giovanili si fa già strada il pensiero del dominio mondiale degli ebrei. Nella voce Apôtre (apostolo) curata per l’Encyclopédie catholique, Proudhon indica la principale funzione storica dell’apostolato nella degiudaizzazione del mondo. «L’orgoglio giudaico lascia il posto alla carità cristiana». Se gli ebrei avessero accolto il messaggio evangelico e si fossero convertiti, dovrebbero con ragione essere considerati un popolo portatore di legge e progresso.


Ma gli ebrei non erano tagliati per un ruolo del genere, un messia di pace non faceva per loro; essi bramavano conquiste e vittorie, ricchezze, gloria e dominio mondiale.7


Dagli anni quaranta Proudhon inizia a dedicarsi prevalentemente alle scienze economiche e sociali. Fra i primi risultati di questi studi vi è il saggio che lo renderà famoso: Qu’est-ce que la la proprieté?. Non per questo cessa di coltivare gli interessi religiosi della gioventù. Però cambia opinione a proposito dell’Antico Testamento, di cui ora va sostenendo la non canonicità. Nega che sia possibile riconoscere nella Bibbia ebraica qualsivoglia anticipazione del messaggio evangelico e contesta l’esistenza di un rapporto di filiazione fra le due religioni.8 Gesù è per lui «l’anti-Messia … distruttore delle speranze giudaiche».9 Il Gesù di Proudhon ha tutte le sembianze di un alter ego di Proudhon: è raffigurato come un socialista piccolo-borghese ante litteram, un semplice artigiano venuto dalla provincia nella grande città per portare un messaggio di giustizia e fare piazza pulita degli elementi sordidamente ebraici della vita spirituale della società del suo tempo.10 Aver fatto di lui una figura messianica e con ciò un prosecutore del giudaismo sarebbe stato il maggiore equivoco degli evangelisti. «Pas de Messie; liberté, egalité, fraternité!».11


Le concezioni religiose di Proudhon ricordano per molti aspetti l’eresia marcionita.12 Il teologo del II secolo Marcione sosteneva la tesi della discontinuità fra Antico e Nuovo Testamento. Affermava l’opposizione irriducibile fra la Legge e il Vangelo, l’incompatibilità del diritto ebraico con l’amore cristiano, la differenza radicale fra il Dio ebraico e quello cristiano. Promuoveva un cristianesimo strettamente neotestamentario, epurato dagli elementi giudaici con cui i falsi apostoli lo avrebbero corrotto.13 Benché vi sia chi classifica il suo pensiero come un «deciso socialismo ateo», in realtà Proudhon non combatte affatto il cristianesimo.14 Dal punto di vista religioso, in realtà, Proudhon non combatte affatto il cristianesimo. Si limita a invocarne la purificazione, la degiudaizzazione. «Separare completamente la questione cristiana dalla questione ebraica ... Io non sono anticristiano. Sono antigiudaico (Je suis anti juif)».15 Più che l’ateismo, egli propugna una visione teologica dualista e neomarcionita che contrappone il Dio geloso, oppressivo e dispotico dell’Antico Testamento a un Dio cristiano immanente al mondo e fautore del suo progresso.


Considerando questi elementi del suo pensiero, si potrebbe esser tentati di vedere in Proudhon piuttosto il continuatore di antiche tradizioni antigiudaiche di matrice cristiana che non un fondatore dell’antisemitismo moderno. Ma un dettaglio deve far ponderare più attentamente la questione. A differenza dei teologi tradizionali, Proudhon non ammette alcuna conversione. Gli ebrei battezzati sono per lui ancora più falsi e ipocriti dei loro correligionari che persistono nel dichiararsi tali. La loro tendenza a disseminarsi su tutti i continenti, l’incapacità di diventare sedentari e assimilarsi, l’inclinazione alla speculazione e al lucro disonesto sono proprietà razziali, inscritte nella loro natura. Nessuna acquasanta potrà lavare queste macchie.


Gli ebrei hanno un ruolo specifico anche negli scritti economici di Proudhon: incarnano lo spirito del credito e della speculazione.16 Il tema del dominio ebraico sul mondo moderno è sviluppato a partire da Deuteronomio 15, 6:


Poiché il Signore tuo Dio ti benedirà come ti promise, potrai fare prestiti a molte nazioni, ma tu non avrai bisogno di prendere a prestito; dominerai su molte nazioni, ma nessuna dominerà su di te.


Il pauperismo moderno viene spiegato come effetto del credito «ladro e assassino» e come compimento della promessa di Mosè.17


Il pericolo del «ritorno» degli ebrei costituisce un tema centrale anche della sua attività parlamentare e degli interventi politici. In una serie di articoli pubblicati nel 1848 dal periodico socialista parigino Le représentant du peuple, Proudhon addita gli ebrei come il soggetto principale della controrivoluzione mondiale. Mette in guardia tutti i cittadini da questi nemici mascherati.18 Dopo aver rivelato come la monarchia di luglio spazzata via dalla rivoluzione non fosse altro che una messinscena ebraica, accusa (come già Alphonse Toussenel) anche la neonata repubblica di essere «venduta agli ebrei» e questi ultimi di tramare con gli inglesi a danno della Francia.19 Il 13 luglio di quell’anno, in una Parigi sconvolta dai moti rivoluzionari e dalla repressione del generale Cavaignac, tiene un lungo discorso all’Assemblea nazionale nel quale annuncia trionfale l’avvento prossimo del socialismo e intima agli ebrei di guardarsi dal «ritornare» (come se l’insurrezione di giugno li avesse scacciati, il che non era affatto avvenuto al di fuori della sua immaginazione).20


La polemica antisemita di Proudhon è spesso associata a quella contro il sansimonismo. I massimi rappresentanti dell’alleanza dell’ebraismo con questa corrente socialista sono i fratelli Jacob e Isaac Pereire, fondatori del Crédit Mobilier, la prima banca d’affari francese. Per mezzo di obbligazioni di piccolo taglio a rendita fissa, i Pereire consentivano alla piccola borghesia di provincia di partecipare con il proprio capitale alle grandi innovazioni in corso (dalla costruzione della rete ferroviaria all’edilizia urbana).21 Se Proudhon riconosceva in ciò un artificio ebraico per lo sfruttamento del popolo, d’altra parte denunciava gli ideali sansimoniani di emancipazione femminile ed emancipazione sessuale come un attacco all’istituzione della famiglia (Proudhon era notoriamente misogino e sosteneva posizioni conservatrici in materia sessuale). Il pericolo del giudeo-sansimonismo incombe sulla vita sociale del Secondo Impero.22


Un sunto della concezione proudhoniana della questione ebraica si trova nell’opera maggiore della maturità, La giustizia nella rivoluzione e nella chiesa (1858). Il ruolo storico e attuale degli ebrei nella società è illustrato come segue:


È stata la passione per il traffico a provocare la dispersione degli ebrei assai più che le armi di Tito e di Adriano … Dal tempo di Gesù Cristo fino alla Rivoluzione francese, essi hanno vissuto, malgrado le più abominevoli persecuzioni, a spese di altre nazioni, osservando tra loro il precetto della carità … ma ricattando spietatamente lo straniero, secondo il precetto di Mosè, Non foenerabis proximo tuo, sed alieno … L’ebreo è rimasto ebreo, razza parassitica, nemica del lavoro, dedita alle pratiche del traffico anarchico [!] e ingannevole, della speculazione e dell’usura bancaria … Tutta la circolazione è nelle mani degli ebrei; più che i re e gli imperatori, sono loro i sovrani dell’epoca, indifferenti al progresso e alla libertà dei popoli che opprimono … L’operaio francese, disgustato dal lavoro, è rimpiazzato dall’operaio straniero: mentre gli ebrei si impadroniscono su tutti i fronti delle banche, del credito, dei finanziamenti, dominano le manifatture di cui detengono la proprietà per mezzo dell’ipoteca, eserciti di lavoratori belgi, tedeschi, inglesi, svizzeri e spagnoli prendono il posto dei lavoratori francesi nell’industria e già invadono anche le campagne.23


Nella storia dell’antisemitismo, Proudhon è fra i primi a porre la questione ebraica esplicitamente in termini di questione sociale. Gli ebrei sono i profittatori dell’emancipazione moderna e i veri responsabili della miseria in cui versa il popolo. Razza incapace di produrre ricchezza e di formare uno Stato, essi vivono sfruttando il lavoro e le istituzioni politiche delle altre nazioni. In ciò «sono simili ai boemi o agli zingari, agli emigranti polacchi, ai greci, agli armeni e a tutti questi vagabondi». A differenze di questi ultimi, tuttavia, essi formano una «franc-maçonnerie à travers l’Europe», una società segreta dentro la società che mira a estendere il proprio dominio.24


In seguito a una polemica con Marx, Proudhon giungerà a invocare la deportazione della «razza ebraica» e il suo «sterminio».25


7.2. La proprietà, il furto e la terza via

A che vale denunciare un furto, se non a difendere una proprietà? Proudhon si domanda che cosa sia, la proprietà. Nell’incendiaria risposta che l’ha reso famoso – la propriété, c’est le vol! – è già implicito l’indirizzo sostanzialmente conservatore della sua rivoluzione.26


La tesi che Proudhon sia stato un precursore del fascismo trova nella sua ostilità verso gli ebrei un’importante conferma, ma non ne dipende.27 L’affinità può essere colta anche prescindendo dal tema ebraico.


Grazie al suo stile spavaldo, dissacrante, lapidario, traboccante d’indignazione, arditezza e solennità rivoluzionaria, Che cos’è la proprietà? (1840) destò grande clamore e s’impose al centro del dibattito sulla questione sociale che in quegli anni impegnava l’opinione pubblica francese ed europea. L’autore presentava il proprio attacco al cardine della civiltà borghese – la proprietà – come un evento storico, non soltanto editoriale:


Ho compiuto l’opera che mi ero proposto; la prprietà è vinta; non risorgerà mai più. Ovunque questo discorso sarà letto e fatto conoscere, sarà deposto un germe di morte per la proprietà.28


Proudhon vuole rivelare, combinando il rigore ottocentesco della dimostrazione scientifica all’afflato morale di un antico profeta, la vera ed eterna idea della giustizia. Una volta compresa correttamente, tale idea porrà fine per sua propria forza a tutte le disuguaglianze e ai soprusi, a tutte le calamità che affliggono il genere umano.29 L’ordine sociale giusto, che per realizzarsi non ha bisogno d’altro che d’esser pensato, si fonda sul principio dell’eguaglianza. Più precisamente: «eguaglianza delle condizioni».30 Nel regno della giustizia spariranno tutti i privilegi e gli svantaggi legati alla nascita. Ogni individuo sarà ricompensato proporzionalmente al proprio impegno, merito e talento. Questo ordine sociale ideale è pensato come il «fine» verso cui la società umana immancabilmente tende, approssimandosi giorno per giorno al trionfo di «civiltà», «amore» e «carità» su «isolamento», «barbarie» ed «egoismo» (la retorica è tanto manichea quanto il pensiero che esprime).31


La proprietà è nemica della giustizia in quanto causa e fondamento dello scambio non equivalente, dell’espropriazione della ricchezza prodotta dal lavoro e perciò del pauperismo moderno. Proudhon si riferisce particolarmente alla nozione di proprietà del diritto romano (recepita anche da quello napoleonico): jus utendi et abutendi re sua, il diritto di usare e abusare del proprio. Passi l’uso, pensa Proudhon, ma l’abuso proprio no! Nel diritto di abuso si rivelerebbe la natura esclusiva e antisociale di questo istituto, il quale pertanto dev’essere soppresso.32


Che si intende per «morte della proprietà»? Certamente non la comunità dei beni evocata dai comunisti à la Babeuf, da cui Proudhon, nonostante il tono minacciosamente rivoluzionario del suo scritto, appare molto solerte nel prendere le distanze. Nel nuovo ordine giusto ed egualitario, la proprietà sarà sostituita dal «possesso individuale» («possession individuelle»). Questo istituto rivoluzionario viene distinto, anzi contrapposto, al diritto di proprietà in termini tanto drastici quanto vaghi:


Il possesso individuale è la condizione della vita sociale…; la proprietà è il suicidio della società. Il possesso è nel diritto; la proprietà è contro il diritto. Sopprimete la proprietà conservando il possesso; e, con questa sola modifica nel principio, cambierete tutto nelle leggi, nel governo, nell’economia, nelle istituzioni: caccerete il male dalla terra.33


A differenza dei socialisti e comunisti utopisti del suo tempo, Proudhon non intende affatto abolire la proprietà privata. Vuole piuttosto riformarla. Vuole eliminare i suoi aspetti negativi. Intende proteggere la proprietà dalle sue stesse degenerazioni. «Possesso individuale» è la nozione di una proprietà epurata dai suoi aspetti deteriori, dalle sue conseguenze più immorali e antisociali. Una sorta di jus utendi sed non abutendi, sulla base del quale i membri uguali della società giusta possano scambiare liberamente le loro merci in modo eticamente corretto, senza privilegi né imbrogli commerciali.34


La proprietà non è dunque l’unico bersaglio preso di mira. Il libello si rivolge con altrettanta aggressività verso un altro nemico: lo spettro del comunismo. La «comunità» («communauté»), la proprietà comune degli strumenti e dei prodotti del lavoro, è definita senza mezzi termini come «ingiustizia irreparabile», «violenza», «tortura morale», «il maggior pericolo al quale la società sia oggi esposta». La comunità dei beni «incatena la personalità libera»: è capace di produrre soltanto una «uniformità beata e stupida» e di far prevalere la pigrizia sul lavoro, la mediocrità sul talento, il vizio sulla virtù.35 La sua colpa maggiore consiste nell’invertire l’ordine naturale delle gerarchie umane, subordinando i forti ai deboli, gli ingegnosi agli imbecilli, i volenterosi ai lavativi e ai parassiti. Per costruire la loro communauté, i comunisti intendono degradare tutti gli uomini al grado più infimo d’ignoranza e inanità. «Gracco Babeuf voleva che ogni superiorità fosse repressa severamente … per fondare l’edificio della sua comunità, egli abbassava tutti i cittadini all’altezza del più piccolo».36 Nel comunismo, l’uomo depone il proprio sé, la propria spontaneità, il proprio talento produttivo, e si sottomette alla dittatura della mediocrità. Anche la communauté, come la proprietà, è una forma d’ineguaglianza e sfruttamento – una forma ancora peggiore, perché proveniente non dalla forza del più forte, ma da quella del più debole.


La comunità è l’ineguaglianza, ma nel senso opposto a quello della proprietà. La proprietà è lo sfruttamento del debole da parte del forte; la comunità è lo sfruttamento del forte da parte del debole. Nella proprietà l’ineguaglianza delle condizioni risulta dalla forza … Nella comunità, l’ineguaglianza nasce dalla mediocrità del talento e del lavoro, glorificata allo stesso modo della forza. Questa equazione ingiuriosa fa ribellare la coscienza e suscita le proteste del merito … La comunità è essenzialmente contraria al libero esercizio delle nostre facoltà … Se la proprietà è impossibile per l’emulazione nell’acquisire, la comunità lo diventerebbe ben presto per l’emulazione nell’ozio (fainéantise).37


Propriété e communauté sono pertanto da considerarsi «forme politiche altrettanto contrarie, l’una e l’altra, alla natura dell’uomo».38 La soluzione mediana di Proudhon – «possesso individuale» – prevede che ogni cittadino potrà esprimere autonomamente le sue capacità produttive, avrà pieno possesso dei prodotti del suo lavoro individuale e sarà libero di scambiarli equamente con quelli altrui. L’eguaglianza riguarderà «le condizioni»: non il grado di benessere dei singoli, che invece corrisponderà – secondo la giustizia salariale immaginata dal filosofo – alla validità del contributo lavorativo che avranno fornito alla società, variando quindi al variare di ingegno e dedizione. La proprietà non sarà abolita, ma universalizzata e moralizzata. Una volta spogliata dei suoi tratti esclusivi e antisociali, legata strettamente alle prestazioni lavorative del singolo, divenuta cioè «possesso individuale», la proprietà potrà essere estesa alla totalità della popolazione (più precisamente: alla totalità della sua parte produttiva), la quale formerà così una società di piccoli proprietari indipendenti, laboriosi, liberi e uguali nelle condizioni. Una «meritocrazia», si direbbe forse oggi.


Attacco rivoluzionario alla proprietà e apologia conservatrice della medesima, requisitoria contro le sperequazioni sociali e insieme pamphlet anticomunista, Che cos’è la proprietà? può considerarsi un documento fondativo della «terza via», la dottrina con la quale, nel secolo seguente, il fascismo si presentò come alternativa sia alla plutocrazia delle potenze occidentali e borghesi, sia al bolscevismo sovietico.39 Non è un caso che questo pamphlet abbia goduto di ampia fortuna proprio in Germania: dapprima presso i cosiddetti «socialisti tedeschi o veri socialisti» denigrati nel Manifesto di Marx ed Engels; poi nel nazionalsocialismo. I giuristi del Terzo Reich seguiranno il rivoluzionario francese nel rifiutare il concetto di proprietà del diritto romano. Vi contrapporranno una nozione «germanica» di proprietà come provento immediato del lavoro, simile in tutto al «possesso individuale» di proudhoniana memoria.40


È lo stesso Proudhon a definire la sua proposta una terza via: «Questa terza forma di società, sintesi della comunità e della proprietà, la chiameremo LIBERTÀ».41 Sulla scorta di un modello filosofico pseudo-hegeliano costruisce uno schema triadico dell’evoluzione storica della società umana.


Per rendere tutto con una forma hegeliana, dirò: La comunità, primo modo, prima determinazione della socialità, è il primo termine dello sviluppo sociale, la tesi; la proprietà, espressione contraddittoria della comunità, forma il secondo termine, l’antitesi. Resta da scoprire il terzo termine, la sintesi, ed avremo la soluzione richiesta. Ora, questa sintesi risulta necessariamente dalla correzione della tesi con l’antitesi; occorre dunque … eliminare ciò ch’esse racchiudono di contrario alla società; i due resti, riunendosi, formeranno il vero modo d’associazione umanitaria.42


Il metodo «dialettico» di Proudhon è più semplice dell’originale hegeliano cui si ispira. Fino al raggiungimento del fine ultimo dell’umanità – «l’eguaglianza delle condizioni» – tutto ciò che esiste presenta un lato conforme alla natura umana e alle leggi della socialità, e uno difforme, un lato buono e uno cattivo. Eliminare di volta in volta il secondo elemento è l’unica forma reale di progresso storico e approssimazione alla giustizia. Nella filosofia della storia dell’antisemitismo moderno, l’evoluzione umana procede per sottrazione.


La communauté primordiale è buona, giusta e vera in quanto favorisce l’eguaglianza; cattiva, ingiusta e falsa in quanto genera uniformità e livellamento. La propriété è buona, giusta e vera in quanto promuove l’indipendenza personale; cattiva, ingiusta e falsa in quanto genera disuguaglianza. La «sintesi» di Proudhon, soluzione metafisica della questione sociale, sopprime gli aspetti indesiderabili dell’una e dell’altra.


Noi non riuniamo senza discernimento la comunità e la proprietà, il che sarebbe un eclettismo assurdo. Cerchiamo invece con metodo analitico quel che ciascuna contiene di vero, di conforme al desiderio della natura e alle leggi della socialità, eliminando quel che contengono d’estraneo; il risultato dà un’espressione adeguata alla forma naturale della società umana, in una parola la libertà.


La libertà è eguaglianza … La libertà è anarchia … La libertà è proporzionalità.43


Come Feuerbach e Bruno Bauer, anche Proudhon era circa dieci anni più vecchio di Marx e fu per lui un compagno e un maestro, o almeno una fonte d’ispirazione, prima di diventare bersaglio della sua critica.44 Per avere indicato il tema rivoluzionario del XIX secolo nell’economia politica, il teorico e riformatore sociale francese ha rappresentato per il giovane Marx un modello di pensiero da contrapporre all’emancipazione astrattamente filosofica dell’ideologia tedesca. Per quanto caute e in certa misura anche esplicitamente diffidenti, le prime impressioni ricavate dalla lettura di Che cos’è la proprietà? sono abbastanza positive. Nel 1842 definisce lo scritto «penetrante», ma ammette di non essere in grado di valutarlo in maniera critica prima di aver compiuto «uno studio lungo, assiduo e molto approfondito» della scienza economica.45


L’eco di Proudhon era giunta in Germania proprio quell’anno.46 Il circolo dei collaboratori più stretti di Marx – la redazione della «Gazzetta renana», Arnold Ruge, Moses Heß – aveva immediatamente cercato di stabilire un contatto. «Lo scrittore più importante» e «più filosofico» del comunismo francese (così lo descriveva Engels nel 1843) pareva destinato a diventare una figura centrale di quella alliance intellectuelle franco-allemande progettata dall’ala più radicale dell’intellighenzia progressista tedesca.47


Quando infine incontrò l’astro nascente della sinistra francese, nell’autunno del ’44, Marx, però, aveva già maturato alcune fondamentali riserve nei suoi confronti. I due condividevano, fra l’altro, l’interesse per il tema della proprietà. Ma quale proprietà? Per Marx si trattava di analizzare la proprietà privata: non una proprietà vaga e generica, ma la forma specifica di proprietà caratteristica per la sua epoca storica. Nei Manoscritti dei mesi precedenti aveva cercato di dedurre la proprietà privata come conseguenza del lavoro alienato. Particolare attenzione aveva dedicato a smentire la credenza che i rapporti di proprietà siano la causa della miseria e dello straniamento dei lavoratori. La proprietà privata – argomentava – non è che un riflesso giuridico, un riassunto istituzionale dell’alienazione generale della società borghese.


Nell’analisi di questo concetto si mostra che, se la proprietà privata appare come ragione e causa del lavoro espropriato, essa è piuttosto una conseguenza di quest’ultimo, così come gli dèi sono in origine non causa ma bensì effetto dello smarrimento dell’intelletto umano.


Quella che appariva come una contraddizione fra il lavoro e la proprietà si rivelava essere, all’analisi di Marx, «una contraddizione del lavoro con se stesso»: una contraddizione interna al sistema alienante del lavoro salariato. Aver smascherato questa falsa parvenza consentiva all’autore di fare luce su «diverse collisioni finora irrisolte»:


L’economia politica parte dal lavoro come anima autentica della produzione, e tuttavia al lavoro non dà nulla e alla proprietà privata dà tutto. Proudhon da questa contraddizione ha concluso a favore del lavoro contro la proprietà. Ma noi comprendiamo che questa apparente contraddizione è la contraddizione del lavoro alienato con se stesso e che l’economia politica ha espresso soltanto le leggi del lavoro alienato.48


Il pensiero di una contraddizione del lavoro con se stesso sarà sviluppato da Marx successivamente nella teoria del lavoro astratto e della produzione capitalistica. Nel 1844 era ancora a uno stadio embrionale. Nondimeno bastava a fondare il sospetto che la soluzione proudhoniana della questione sociale fosse intesa a lasciare intatto il nocciolo dell’organizzazione economica borghese: il lavoro salariato.


Proprio come Bruno Bauer, anche Proudhon canalizza la sua aggressività rivoluzionaria verso un fenomeno, una manifestazione, un’espressione particolare dei rapporti sociali dominanti invece che verso l’essenza di questo dominio. Il primo verso la religione, e in particolare quella sua forma degenere che è l’ebraismo; il secondo verso la proprietà, e in particolare quella sua forma degenere che è l’usura. Così facendo, entrambi sottraggono il contenuto reale a ogni possibilità di critica. Lo accettano come dato. Sulle loro proteste contro la società borghese pesa perciò l’ipoteca di un’identificazione acritica con il punto di vista della medesima.


Dei primi movimenti comunisti e socialisti Proudhon rifiuta non soltanto l’idea della proprietà comune dei beni, ma anche e soprattutto il programma di trasformare l’organizzazione sociale del lavoro. Con particolare sdegno respinge l’utopia dei falansteri di Charles Fourier. Lungi dal criticare il lavoro salariato, Proudhon si erge a suo difensore. Denuncia il «furto» perpetrato ai suoi danni. Rivendica giustizia salariale. Suggerisce di distruggere «la» proprietà per salvare il sistema del lavoro salariato.


Alcuni riformatori … che, senza appartenere ad alcuna scuola, si occupano del miglioramento della sorte della classe più numerosa e più povera, contano molto oggi su una migliore organizzazione del lavoro. I discepoli di Fourier non cessano di gridarci: Al falansterio! … A che serve riformare l’industria e l’agricoltura … se la proprietà viene mantenuta? Senza l’abolizione della proprietà, l’organizzazione del lavoro non è che una delusione in più.49


A partire da questo atteggiamento conservatore nei confronti della forma di lavoro vigente, la critica dei Manoscritti marxiani giunge a colpire il cuore del pensiero sociale di Proudhon: l’idea dell’eguaglianza. Di che tipo di eguaglianza si tratterebbe? – domanda Marx –. Di «eguaglianza salariale». Di un’immagine idealizzata di quel sistema di lavoro che Proudhon rifiuta di mettere in discussione: il lavoro salariato. Agli occhi – pure ancora inesperti – del giovane Marx, la «sintesi» egualitaria proposta dal francese manifesta tratti propriamente distopici. Rivela il desiderio di purificare, universalizzare e assolutizzare la forma moderna di assoggettamento del lavoro umano, di rendere l’alienazione totale, di trasformare l’intera società in un unico grande «capitalista astratto» che sfrutta il lavoro di tutti i suoi membri – soltanto: in egual misura.50


«Il lavoro ci conduce all’eguaglianza», scrive Proudhon («Nous marchons, par le travail, à l’égalité»).51 C’est-à-dire: il lavoro rende uguali.


7.3. Filosofia della miseria

In un ritratto richiestogli dal direttore del «Social-Demokrat» Johann Schweitzer in morte di Proudhon all’inizio del ’65, Marx ricorda di averlo frequentato personalmente, vent’anni addietro, per un breve periodo.


Accenno qui a tale circostanza poiché, fino a un certo punto, sono responsabile della sua ‘sophistication’, parola usata dagli inglesi per indicare la contraffazione di una merce. Lo contagiavo, durante lunghe discussioni che spesso si protraevano per tutta la notte, con suo grave pregiudizio, di hegelismo, che egli tuttavia, per la sua ignoranza della lingua tedesca, non poteva studiare ordinatamente. L’opera da me iniziata fu proseguita, dopo la mia espulsione dalla Francia, dal signor Karl Grün. Questi, in quanto professore di filosofia, aveva inoltre un vantaggio su di me: non capiva niente di quello che insegnava.52


In quelle discussioni erano emersi ulteriori segnali di disaccordo fra i due: tanto sulla filosofia tedesca, quanto sulla strategia politica. Proudhon era scettico rispetto allo sciopero e alla lotta di classe, mentre Marx andava ponendo l’uno e l’altra sempre più al centro delle sue riflessioni. Non ci è dato di sapere se e in che termini questi colloqui notturni abbiano toccato anche la questione ebraica. Uno degli interlocutori ne era ossessionato e voleva parlarne sempre. L’altro era uso riferirvisi il meno possibile.


La frequentazione si interrompe con il trasferimento della famiglia Marx in Belgio all’inizio del ’45. Ciononostante, e a dispetto delle discrepanze, il buon senso politico suggeriva di mantenere buoni rapporti con un leader tanto influente del movimento operaio francese.53 Di qui il tentativo di Marx di ristabilire un contatto l’anno seguente. Da Bruxelles aveva dato vita, con Engels e altri, a una rete epistolare fra associazioni di lavoratrici e lavoratori belgi, francesi, tedeschi e inglesi per favorire lo scambio di notizie e la collaborazione scientifica, coordinare la propaganda e l’azione politica, internazionalizzare la lotta (Kommunistisches Korrespondenz-Komitee). Il 5 maggio 1846 scrive a Proudhon invitandolo a unirsi come corrispondente parigino. La scelta di includerlo era stata presa dal collettivo, come testimoniano i brevi messaggi di benvenuto degli altri membri posti in calce alla lettera. Il compito di scrivergli toccò a Marx in quanto suo conoscente più diretto. Quale fosse la sua opinione personale al riguardo, non ci è dato a sapere. Nondimeno, la preghiera con cui si apre la lettera di «credere» che chi scriveva non lo aveva più fatto sin dal giorno in cui aveva lasciato Parigi esclusivamente in ragione di «fastidi collegati a un cambiamento di domicilio» (avvenuto ormai da quindici mesi) presta il fianco – se non strizza addirittura l’occhio – al pericolo di risultare ipocrita, mentre lascia intendere come vi fossero altre ragioni almeno possibili a motivo del lungo silenzio. Nel prosieguo del messaggio si precisa che il comitato di corrispondenza ha lo scopo, fra gli altri, di far «venire alla luce le divergenze di opinioni» (la cui sussistenza appare quindi presupposta) e di spogliare i movimenti socialisti della loro «limitatezza nazionale». Conclude la missiva un post scriptum in cui il destinatario viene messo in guardia da tale Grün in Parigi, un «avventuriero letterario» e un «ciarlatano», per giunta «pericoloso».54


La risposta di Proudhon esordisce in toni gentili ma esprime nella sostanza un netto rifiuto. Sarà contento di ricevere la corrispondenza, ma i molti impegni gli impediranno di partecipare attivamente. Segue una presa di distanza da «quella che voi tedeschi chiamate comunità», dal «dogmatismo a priori dei comunisti» e, soprattutto, dall’idea della lotta di classe come strumento di trasformazione sociale (temi che la lettera di Marx non riguardava neanche tangenzialmente). Il riscatto dei lavoratori dalla miseria – scrive Proudhon – non può avvenire per mezzo della forza. Vale a dire: non per mano dei lavoratori medesimi.


Io pongo il problema in questo modo: riportare nella società, attraverso una combinazione economica, la ricchezza che è uscita dalla società attraverso un’altra combinazione economica.55


Come a dire: simpatica l’idea di un comitato di corrispondenza, ma le notizie su scioperi e proteste ai quattro angoli d’Europa non sono di grande aiuto nella ricerca della giusta «combinazione economica» per un’equa distribuzione della ricchezza. Siccome me ne sto occupando io stesso, Pierre-Joseph Proudhon, e proprio ora, anno domini 1846, sto per rivelare al mondo la formula eterna della giustizia sociale, i problemi organizzativi dei lavoratori stranieri possono interessarmi solo limitatamente.


Questo cortese scambio epistolare conclude il rapporto personale fra i due. Il loro confronto teorico e politico proseguirà, d’ora in avanti, soltanto per via pubblicistica.


Entrambi ambiscono a dare un fondamento teorico al movimento socialista in via di costituzione. Nei mesi successivi al loro ultimo incontro, Marx studia a fondo la letteratura economica contemporanea, soprattutto britannica e francese, e pianifica una voluminosa Critica della politica e dell’economia, la quale tuttavia non vedrà mai la luce (almeno non nella forma e nei tempi inizialmente previsti). A impedirne la realizzazione saranno l’intensa attività politica di quegli anni e, non da ultimo, la censura prussiana, preoccupatissimo della quale l’editore Carl Wilhelm Leske di Darmstadt decide, nel settembre del ’46, di rescindere unilateralmente gli accordi pretendendo da Marx la restituzione dell’acconto di 1500 franchi.56


Nel frattempo Proudhon porta avanti il progetto già oggetto dei colloqui parigini: applicare la logica hegeliana all’economia politica. Il risultato di questi studi è un imponente Sistema delle contraddizioni economiche, pubblicato in due volumi nell’ottobre di quell’anno con il sottotitolo Filosofia della miseria. Immediatamente tradotto da Karl Grün per la casa editrice Leske di Darmstadt, il libro di Proudhon ottiene ampia e compiacente risonanza in Germania.57


L’opera offre una ricostruzione dell’evoluzione economica dell’umanità come un processo di separazione e ritorno all’unità originaria. Spezzando l’unità originaria e priva di contraddizioni dello «scambio equo», lo sviluppo sociale ha dato origine a un ordine imperfetto, soggetto a crisi economiche e generatore di diseguaglianze. La «filosofia della miseria» è un tentativo di trovare la formula di una nuova sintesi, una «combinazione economica» che concili i conflitti sociali e si sostituisca all’azione violenta dei lavoratori nel compito di realizzare un «ordine nuovo» di libertà ed eguaglianza.


Sulla base di una lunga premessa teologica che pone a fondamento del ragionamento la «ipotesi di Dio» (cap. 1), Proudhon annuncia l’avvento di un nuovo ordine sociale – una «associazione universale» – come risultato ineluttabile del progresso dell’umanità. Questa certezza viene attinta con un metodo che Proudhon ritiene hegeliano e chiama «metafisica» o «dialettica seriale».58 Si tratta di un procedimento filogenetico, imperniato su una nozione goffamente logico-metafisica di contraddizione, nel quale i concetti dell’economia politica vengono considerati e posti in relazione alla stregua di fasi storiche o stadi di sviluppo. L’evoluzione economica passata, presente e futura dell’umanità viene ricostruita come un processo di generazione delle categorie economiche per mezzo della loro opposizione logica. Se la prima epoca economica successiva alla comunità originaria è caratterizzata dalla divisione del lavoro (cap. 3), la seconda corrisponde all’introduzione delle macchine, che invece accorpano il lavoro (cap. 4). La concorrenza, terzo stadio, ripartisce il lavoro concentrato dalle macchine (cap. 5). Le succede il monopolio, sua antitesi e limite estremo (cap. 6). Quindi intervengono le tasse a correggere i difetti del monopolio (cap. 7). Dopo una riflessione epistemologica sul problema della certezza (cap. 8), Proudhon introduce i momenti del bilancio commerciale (cap. 9) e del credito (cap. 10). Il capitolo dedicato alla proprietà riprende il pamphlet di sei anni prima ma ribadisce ancora più nettamente la necessità di conservarla, eliminandone le storture (cap. 11). Segue un’esposizione degli svantaggi legati alla comunità dei beni (cap. 12).


La sintesi generale di tutte queste opposizioni, il cristallo della totalità delle categorie economiche, la pietra angolare dell’intero Sistema è il valore. Proudhon lo chiama «valore costituito» (cap. 2) e lo introduce come un’importante e originale «scoperta scientifica». Concede che prima di lui «gli economisti» siano giunti a distinguere il valore di scambio dal valore d’uso. Costoro tuttavia, difettosi in materia di logica dialettica, non avrebbero colto la «contraddizione» fra questi due tipi di valore.


Gli economisti hanno benissimo fatto emergere il doppio carattere del valore; ma non ne hanno espresso con la medesima nettezza l’indole contraddittoria. Qui comincia la nostra critica … Non basta l’aver notato nel valore utile e nel valore permutabile questo sorprendente contrasto là ove gli economisti sono avvezzi a non vedere altro che una cosa semplicissima; bisogna mostrare come questa pretesa semplicità celi un mistero profondo che abbiamo il dovere di penetrare.59


Come la tesi genera l’antitesi, così, anche il valore d’uso genera il proprio contrario: il valore di scambio. Vale a dire che il concetto dello scambio di equivalenti trae origine, per la pura forza della logica, dall’attitudine dei prodotti del lavoro a soddisfare bisogni umani. Il contributo critico di Proudhon al progresso del pensiero economico consiste dunque nell’avere egli per primo riconosciuto e analizzato l’antinomia del valore e nell’averne perciò «penetrato» il profondo mistero.


Ma come il valore d’uso diventa valore di scambio? … Il valore permutabile è dato da una specie di riflesso del valore utile, come i teologi insegnano che nella Trinità, il Padre, contemplandosi nell’eternità, genera il Figlio. Questa generazione del valore non è stata fatta notare con sufficiente accuratezza dagli economisti; è bene fermarvisi alquanto.


Non trovando nella natura un gran numero delle cose che mi bisognano se non in quantità assai limitata o non trovandone affatto, sono costretto a cooperare alla produzione di quanto mi manca; né potendo mettere le mani a tante cose, proporrò ad altri uomini, i miei collaboratori in occupazioni diverse, di cedermi parte dei loro prodotti in cambio di quello che io produco.60


Poiché «io», cioè un individuo, ho bisogni molteplici, la soddisfazione dei quali richiede molteplici mansioni cui non sono in grado di attendere individualmente, a un certo punto dovrò giocoforza «proporre» ad altri individui, i «miei collaboratori», di scambiare dei beni. Ecco l’origine dello scambio di equivalenti.


Il «valore costituito» è la vera equivalenza. Il concetto coniato da Proudhon esprime la giusta «proporzionalità dei prodotti», il giusto rapporto in cui le merci devono essere scambiate.61 Esso è «l’idea sintetica del valore», nella quale l’antitesi fra valore d’uso e valore di scambio è finalmente conciliata.


Il valore, concepito come proporzionalità dei prodotti, o in altre parole, come valore costituito, suppone necessariamente e in egual misura utilità e venalità, indivisibilmente e armonicamente unite.62


Da che cosa è dunque costituito il valore costituito? Dal lavoro. Proudhon afferma che l’unica vera fonte di ogni valore è il lavoro, che perciò la giusta proporzione in cui devono scambiarsi i beni è determinata dal tempo di lavoro impiegato nella loro produzione.


La proposizione: il lavoro è il principio di proporzionalità dei valori, non soltanto è vera perché risulta da un’analisi irrefragabile, ma è la meta del progresso, la condizione, la forma del progresso sociale, il principio e la fine dell’economia politica. Da questa proposizione e dai suoi corollari: ogni prodotto vale ciò che costa e i prodotti si comperano coi prodotti; si deduce il dogma dell’eguaglianza delle condizioni.63


La piena realizzazione dell’idea sintetica del valore coinciderebbe (coinciderà) con la piena eguaglianza di tutti i lavori e di tutti i lavoratori. Là dove il valore sarà realmente «costituito», ognuno godrà dei frutti della propria fatica e nessuno potrà appropriarsi di quelli altrui senza cedere un equo corrispettivo. Il lavoro otterrà riconoscimento universale. Ogni prodotto sarà acquistato e venduto esattamente per quel che vale: né più, né meno. La realizzazione della «giustizia commutativa» metterà fine a ogni arbitrio e privilegio, escluderà gli imbrogli di mercanti e trafficanti, gli interessi degli speculatori e tutte le altre forme indebite di lucro e appropriazione. Sarà così eliminato il problema del pauperismo, sparirà la miseria in cui versano le masse di lavoratori. Ogni individuo, libero e uguale agli altri, sarà insieme produttore e consumatore, venditore e compratore, datore di lavoro e lavoratore, capitalista e salariato; sarà la sintesi di queste opposizioni obsolete. «Eguaglianza delle condizioni». Ciascuno avrà il suo. Chi non lavorerà, non mangerà.


Il valore costituito rappresenta perciò il fine dell’evoluzione della società, lo scopo ultimo di quel movimento storico sospinto dalla forza dialettica della contraddizione e giunto finalmente, con la pubblicazione del Sistema, alla consapevolezza di sé. Questo concetto realizzerà compiutamente quel che le altre categorie economiche non realizzavano che parzialmente. La «costituzione del valore» porrà fine ai conflitti sociali e alle crisi economiche, eliminerà i governi, ripristinerà la morale pubblica, realizzerà l’eguaglianza delle condizioni. Forte di questa scoperta rivoluzionaria, Proudhon può annunciare di avere dimostrato l’eterna formula della giustizia sociale, la «combinazione economica» della associazione progressiva, la vera sintesi armonica di valore di scambio e valore d’uso, «venalità e utilità», «proprietà e comunità».


7.4. Miseria della filosofia

Marx riceve un esemplare dell’ultima fatica di Proudhon nella settimana di Natale del 1846 e – come sappiamo dalla lettera del 28 dicembre in cui «confessa» all’amico Pavel Vasilevič Annenkov di averlo trovato un «libro cattivo, anzi pessimo» – lo legge d’un sol fiato.64 Pochi mesi dopo appare in lingua francese il suo primo libro di argomento economico: Miseria della filosofia. Risposta alla ‘Filosofia della miseria’ di Proudhon.65 La critica al francese è espressa in termini tanto caustici e radicali che la sua pubblicazione esclude categoricamente qualsiasi spazio di riconciliazione (personale, teorica o politica). Il diretto interessato ne sarà molto seccato. Subito dopo averla letta si annoterà questo appunto:


GIUDEI. – Fare un articolo contro questa razza, che tutto intossica insinuandosi dappertutto, senza mai mescolarsi con alcun popolo. – Esigere la loro espulsione dalla Francia, a eccezione degli individui sposati con donne francesi; – abolire le sinagoghe, non ammetterli a nessun impiego, perseguire in ultima istanza l’abolizione di questo culto. Non per nulla i cristiani li hanno chiamati deicidi. L’ebreo è il nemico del genere umano. Bisogna rispedire questa razza in Asia, oppure sterminarla (ou l’exterminer). H. Heine, A. Weil e altri sono solo degli agenti segreti; Rothschild, Crémieux, Marx, Fould, esseri malvagi, biliosi, invidiosi, rancorosi ecc., che ci odiano. Con il mescolamento, l’espulsione oppure a colpi di spada, bisogna che l’ebreo scompaia. – Tollerare i vecchi che non possono più generare dei figli. Lavoro da fare. – Ciò che i popoli del medioevo odiavano per istinto, io odio con riflessione e in modo irrevocabile. L’odio dell’ebreo, come l’odio dell’inglese, dev’essere un articolo della nostra fede politica.66


L’articolo progettato da Proudhon non ci è pervenuto.


Se la Risposta di Marx ha un carattere effettivamente poco amichevole, ciò è dovuto non soltanto alla sua «razza», alla sua «invidia» o alla sua intolleranza nei confronti degli antisemiti. A motivo di tanta acredine va sospettata anche l’inquietudine per la vicinanza del pensiero reazionario di Proudhon al proprio; l’esigenza politica, forse anche personale, psicologica, di prendere le distanze, di affermare la propria estraneità a questo teorico socialista. Il progetto scientifico del francese presenta infatti non pochi elementi comuni con quello proprio di Marx, in particolare con i pensieri della fase precritica (la filosofia della storia hegelianizzante, l’applicazione del metodo dialettico all’economia, la denuncia delle ingiustizie sociali). La Risposta rappresenta perciò anche una resa dei conti con il proprio precedente punto di vista, un’autocritica, un punto di svolta nel percorso di formazione della sua teoria.67 A questa apparente e perniciosa somiglianza Marx si riferirà ancora molti anni più tardi, definendo «il socialismo proudhoniano che oggi è fashionable in Francia» un «falso fratello» del comunismo, di cui «disfarsi» al più presto.68


Il pomo della discordia filosofica ed economica è la teoria del valore.


Il signor Proudhon ha la sventura di essere misconosciuto in Europa in un modo singolare. In Francia egli ha il diritto di essere un cattivo economista perché passa per un buon filosofo tedesco. In Germania ha il diritto di essere un cattivo filosofo, perché passa per uno dei migliori economisti francesi. Noi, nella nostra duplice qualità di tedeschi e di economisti, abbiamo voluto protestare contro questo duplice errore.69


Per criticare Proudhon, Marx indossa alternamente i panni dell’economista politico e del tedesco, ossia del filosofo. Il concetto del valore, l’anima sovrasensibile delle merci, segna un punto d’incrocio fra queste due discipline. Attorno a questa nozione mezzo economica e mezzo metafisica ruotano tanto il sistema del primo, quanto la critica del secondo.


Il primo commento di Marx alla teoria del «valore costituito» è che non è affatto originale come afferma di essere. La legge per cui il valore delle merci è determinato dalla quantità di lavoro necessaria a produrle è già stata enunciata da David Ricardo nel 1817. Il principale rappresentate della scuola dominante di pensiero economico, un banchiere inglese e sefardita, ha formulato la «sintesi» di Proudhon molto prima di lui e, secondo Marx, anche molto più precisamente.70 Perché mai spacciare le idee di un classio dell’economia borghese, di cui peraltro si dice malissimo, come proprie e come rivoluzionarie? Marx ipotizza «che Proudhon, temendo di offendere l’anglofobia dei suoi lettori, [abbia] preferito farsi editore responsabile delle idee di Ricardo».71 Alla disonestà intellettuale si aggiunge così la provinciale anglofobia del «figlio del popolo francese» a caratterizzare il personaggio. Manca invece un cenno al suo, per altro ben noto, risentimento antiebraico.72 Ci si può interrogare sulle ragioni dell’omissione, domandare perché, all’indomani della polemica con Bauer sulla questione ebraica, Marx abbia assunto un atteggiamento piuttosto schivo nei confronti di questo tema, che traspare fra le righe dei suoi scritti in mille allusioni ma non viene mai più approcciato direttamente. Il vero punto, però, è un altro; è teorico. La critica si concentra sul


fatto che Proudhon scodelli come «teoria rivoluzionaria dell’avvenire» ciò che Ricardo ha scientificamente esposto come la teoria della società attuale, della società borghese, e che Proudhon prenda in tal modo per risoluzione dell’antinomia fra utilità e valore di scambio, quello che Ricardo e la sua scuola hanno assai prima di lui presentato come formula scientifica di un solo termine dell’antinomia, del valore di scambio.73


La teoria ricardiana del valore di scambio rappresenta per Marx la più importante conquista scientifica dell’economia politica classica. Si tratta di una concezione oggettiva del valore nel senso che quest’ultimo viene individuato nell’oggetto stesso, nel lavoro che vi è incorporato (perciò è anche detta «teoria del valore-lavoro»). La concezione opposta e concorrente è soggettiva in quanto fa dipendere il valore di scambio delle merci dall’apprezzamento della loro attitudine a soddisfare bisogni di cui esse godono presso soggetti bisognosi, cioè dalla domanda in rapporto all’offerta («teoria marginalista del valore»). Nel 1847 Marx è ancora lungi dall’aver sviluppato la concezione critica del valore che sarà poi il fondamento teorico del Capitale. Tuttavia non ha dubbi. Ha ragione Ricardo: l’unica fonte del valore di scambio è il lavoro e la grandezza del primo dipende dalla durata del secondo.


Sia Marx che Proudhon accettano per vera la teoria del valore-lavoro. Questa eredità scientifica costituisce un bagaglio comune ai due rivoluzionari. Il problema è quale uso farne, come interpretarla. Secondo Marx, l’interpretazione di Proudhon è «utopistica»:


Ricardo ci mostra il movimento reale della produzione borghese, che produce il valore. Proudhon, astraendo da questo movimento reale, si agita per inventare nuovi processi, al fine di regolare il mondo secondo una formula che egli pretende nuova e che invece non è se non l’espressione teorica del movimento reale esistente, tanto bene esposto da Ricardo … La teoria dei valori di Ricardo è l’interpretazione scientifica della vita economica attuale, la teoria dei valori di Proudhon è l’interpretazione utopistica della teoria di Ricardo.74


L’economista della borghesia inglese parte dall’osservazione empirica della realtà sociale e costruisce il modello teorico del valore-lavoro per descriverne scientificamente lo schema di funzionamento. Il rivoluzionario francese, viceversa, parte dal concetto di valore (che è già, misteriosamente, «costituito») per costruire su di esso, nella propria testa, un’ideale società futura perfettamente giusta. Trasforma, cioè, un modello descrittivo dei rapporti economici vigenti in una norma, un ideale da realizzare. Nella proporzionalità del tempo di lavoro come misura dello scambio – il principio regolatore della circolazione delle merci e del capitale –, Proudhon ritiene di aver «scoperto» la «combinazione economica» del socialismo. Il suo «valore costituito» non si distingue in nulla dal concetto di valore di scambio teorizzato dall’economista Ricardo, se non per il fatto di essere elevato al rango di una nozione teologica, spacciato come norma eterna dell’eguaglianza universale, sintesi di ogni contraddizione e conflitto, principio rivoluzionario di equità e giustizia. A dispetto del fatto che la legge del valore domina già effettivamente nella società moderna e si fa valere sulle contingenze empiriche e le oscillazioni dei prezzi con l’ineluttabilità di una legge di natura, la Filosofia della miseria dichiara di volerla «instaurare», e che questa instaurazione è lo scopo ultimo dell’evoluzione economica, la sintesi definitiva di libertà ed eguaglianza, il punto finale verso cui tende la struttura dialettica e teleologica del progresso storico – la soluzione finale della questione sociale.


Quando espone i risultati delle sue ricerche, David Ricardo non si fa scrupoli di carità cristiana. Per illustrare la legge che regola i salari, ad esempio, spiega che il costo della forza lavoro umana si determina come quello di tutte le altre merci: in base ai costi di produzione. L’eguaglianza universale intesa dalla legge del valore consiste – almeno agli occhi di chi non vuole vederci a ogni costo un ideale di giustizia sociale – nel fatto che tutte le merci, senza eccezione, valgono il tempo di lavoro necessario a produrle.


Diminuite le spese di fabbricazione dei cappelli e il loro prezzo finirà per precipitare … Diminuite le spese per il sostentamento degli uomini, diminuendo il prezzo … dell’alimentazione e del vestiario necessari all’esistenza, e vedrete che i salari finiranno con l’abbassarsi.75


Il ricco banchiere sefardita non esita a paragonare gli esseri umani a dei cappelli. «Quale cinismo!», s’indigna il bigotto socialista francese. «Certo, il linguaggio di Ricardo è quanto mai cinico», risponde Marx. «Ma non gridiamo troppo al cinismo. Il cinismo è nei fatti e non nelle parole che esprimono i fatti».76 Proudhon non si limita a «criticare» il linguaggio crudamente scientifico di Ricardo invece della realtà economica che tale linguaggio descrive, ma allo stesso tempo idealizza tale realtà e ne fa un principio normativo per il movimento socialista e per le generazioni a venire. Se da un lato accoglie (o meglio: plagia) la teoria del valore di Ricardo e addirittura la promuove a ideale eterno di eguaglianza sociale, dall’altro rifiuta le conseguenze che questi ne ha tratto relativamente al problema del costo del lavoro, imputandole al suo cinismo. Poiché l’ignoranza della «dialettica» impedisce agli economisti borghesi di riconoscere nei loro stessi concetti altrettante manifestazioni dell’idea divina della giustizia, Proudhon fa appello «in tono paternalista» al loro «cuore» affinché riconoscano il significato umanitario ed egualitario dello sviluppo economico e si avvedano dell’errore che li ha portati a considerare gli esseri umani alla stregua di articoli commerciali.77


Questa pietas pelosa, questo sentimentalismo umanitario, questa creanza linguistica che censura l’espressione degli aspetti meno nobili della società borghese a vantaggio della sua rappresentazione idealizzata (dunque apologetica) – tutto ciò fa parte del concetto di utopia quale è determinato criticamente negli scritti politici del giovane Marx. Parafrasando un titolo di Friedrich Engels, si può dire che la teoria proudhoniana del valore rappresenta un’involuzione dell’economia politica dalla scienza all’utopia.


Il carattere utopistico e regressivo della Filosofia della miseria accomuna il suo autore ai «nuovi filosofi rivoluzionari tedeschi» e antisemiti affrontati da Marx negli anni precedenti. La seconda parte della Miseria della filosofia si occupa del metodo speculativo di Proudhon. «Eccoci in piena Germania! Dovremo dunque parlare di metafisica, pur trattando di economia politica».78 Negli abiti da economista francese di Proudhon, Marx riconosce il vecchio «nemico dell’umanesimo reale», l’ideologia tedesca. Ritenute fino ad allora un problema dei provinciali intellettuali tedeschi ingabbiati nelle loro diatribe metafisico-teologiche, le distorsioni cognitive dell’ideologia tedesca si rivelano diffuse in realtà su scala internazionale, anche in ambiti del sapere più mondani come, ad esempio, l’economia. D’ora in avanti l’ideologia tedesca non potrà più dirsi propriamente né «ideologia», né «tedesca», ragion per cui entrambi i termini spariscono dal lessico marxiano.


Il punto di vista ideologico e «cristiano» dei «filosofi tedeschi» stigmatizzato dal giovane Marx si distingue, da una parte, per ridurre tutti i fenomeni reali a categorie, astrazioni, nozioni puramente logiche, eternamente valide e vuote di vita concreta.


Che tutto ciò che esiste, che tutto ciò che vive sulla terra e nell’acqua possa, a forza d’astrazione, essere ridotto a una categoria logica; che a questo modo l’intero mondo reale possa annegare nel mondo delle astrazioni, nel mondo delle categorie logiche – è forse sorprendente?


D’altra parte, i filosofi sono soliti scambiare i risultati delle loro astrazioni per essenze reali, ipostatizzare i loro concetti. Il mondo dei fenomeni, da cui in prima battuta s’è fatta astrazione, viene idealisticamente interpretato come un’incarnazione delle categorie risultanti da quella prima astrazione. Se il cristiano tradizionale considerava soltanto la divinità come incarnazione dell’idea, quello moderno e «filosofico» interpreta in questi termini l’intera realtà.


Ecco ciò che distingue il filosofo dal cristiano. Il cristiano conosce una sola incarnazione del Logos, a dispetto della logica; il filosofo non la finisce più con le incarnazioni.79


Questo metodo filosofico-cristologico, che Proudhon apprende dai suoi studi hegeliani e vuole applicare alle scienze sociali, consiste in una composizione di astrazione (germanesimo) e ipostasi (cristianesimo). L’economia politica diventa un sapere metafisico. Da questo punto di vista «cristiano-germanico» non c’è da aspettarsi, secondo Marx, alcun progresso nella scienza economica. Proudhon non fa che trasfigurare in senso idealistico la realtà dei rapporti economici che Ricardo aveva già rappresentato in modo asciuttamente scientifico, senza fronzoli e falsi pudori. «Se l’inglese trasforma gli uomini in cappelli, il tedesco trasforma i cappelli in idee».80 Il Sistema delle contraddizioni economiche non è altro che un’idealizzazione apologetica della produzione di merci presentata nelle vesti di una Filosofia della miseria, una dottrina dell’eradicazione dei mali economici della società moderna.


Incapace o indisponibile a considerare i rapporti sociali reali, Proudhon prende i concetti con cui gli economisti borghesi descrivono quei rapporti e li trasforma in altrettanti principi eterni della ragione pura, «pensieri spontanei indipendenti dai rapporti reali». In questo modo, la storia dell’evoluzione economica può essere rappresentata come un processo puramente logico, un concatenamento di idee.


Ma come nascono queste idee? Come fa la «ragione pura, eterna, impersonale» a generarle?


Se in fatto di hegelismo fossimo intrepidi come Proudhon, diremmo: essa si distingue in se stessa da se stessa. Che mai significa? Dal momento che la ragione impersonale non ha al di fuori di sé né terreno sul quale possa poggiare, né oggetto al quale possa opporsi, né soggetto col quale comporsi, si vede costretta a fare il salto mortale, ponendosi, opponendosi e componendosi: posizione, opposizione, composizione. Parlando in greco, abbiamo la tesi, l’antitesi e la sintesi. Per coloro che non conoscono il linguaggio hegeliano pronunceremo la formula sacramentale: affermazione, negazione, negazione della negazione. Questo si chiama parlare! Certo, questo non è ebraico, col permesso del signor Proudhon; ma è semplicemente il linguaggio di questa ragione tanto pura da essere separata dall’individuo. Invece dell’individuo ordinario, con la sua maniera ordinaria di parlare e pensare, non ci resta che questa maniera ordinaria in sé, senza più l’individuo.81


La «metafisica dell’economia politica» – fa osservare Marx per inciso e «col permesso del signor Proudhon» – non parla ebraico. La sua lingua è quella impersonale della ragione universale, dello Spirito puro e separato dagli uomini storici reali. È la lingua ecumenica che reca testimonianza dell’incarnazione del Logos. L’ebraico è piuttosto la lingua della negazione di tanto lieto evento: un fattore di disturbo, di corruzione, di dilazione. Gli ebrei e le loro frodi finanziarie ritardano l’avvento del Regno, ostacolano il compimento della giustizia, impediscono la piena realizzazione del «valore costituito». Impediscono, cioè, l’inverarsi della «ipotesi di Dio» su cui poggia il Sistema delle contraddizioni economiche. Trafiggono la carne della società egualitaria con i metalli nobili della loro ricchezza astratta.82


Criticare la metafisica antisemita sottesa all’economia politica di Proudhon è per Marx un’occasione di presentare i lineamenti fondamentali del proprio metodo storico e materialista di trattare i concetti economici. I concetti dell’economia politica (a cominciare da quello del valore) «non sono che le espressioni teoriche … dei rapporti sociali di produzione». Considerandoli invece come principi puramente razionali, «Proudhon, il filosofo» finisce per vedere nei rapporti reali soltanto una manifestazione necessaria dei suoi propri principi.


Secondo Marx, al contrario, non vi sono idee eterne e impersonali che presiedono al corso della storia. Sono gli uomini realmente viventi a fare la storia e a dare forma ai loro rapporti sociali. «Proudhon, l’economista» vorrebbe pensare questi rapporti, ma non comprende che essi «sono prodotti dagli uomini esattamente come lo sono la tela, il lino ecc.». Pensare i rapporti sociali fra le persone – e dunque i concetti economici – in modo materialista significa pensarli in relazione al lavoro. Significa comprenderli nella loro connessione con ciò che le persone fanno e con le condizioni tecniche e materiali in cui lo fanno.


Impadronendosi di nuove forze produttive, gli uomini cambiano il lor modo di produzione e, cambiando il modo di produzione, la maniera di guadagnarsi la vita, cambiano anche tutti i loro rapporti sociali. Il mulino a braccia vi darà la società col signore feudale, e il mulino a vapore la società col capitalista industriale. Quegli stessi uomini che danno ai rapporti sociali una forma corrispondente alla loro produttività materiale, danno anche ai principi, alle idee, alle categorie, una forma corrispondente ai loro rapporti sociali. Così queste idee, queste categorie sono tanto poco eterne quanto i rapporti che esprimono. Sono prodotti storici e transitori.


La critica metodologica di Marx non si limita a destituire il Sistema delle contraddizioni economiche di fondamento scientifico, ma smentisce altresì le pretese rivoluzionarie della Filosofia della miseria. Com’è possibile sovvertire la società borghese sulla base dei suoi stessi principi? Proudhon sta spacciando come scientifica una teoria sociale fondata sulla superstizione, e come rivoluzionario un progetto politico volto alla conservazione dei rapporti sociali vigenti. Entrambi gli intenti fanno di lui un precursore del fascismo.


Una teoria che ambisca a essere scientifica e a servire come tale la causa dell’emancipazione deve saper pensare la trasformazione. Deve riconoscere il carattere storico e transitorio delle forme in cui la società si organizza: delle sue forme organizzative pratiche e teoriche, produttive e ideologiche. Si tratta di cogliere la vita sociale degli uomini nel suo «movimento reale».


Viviamo in un continuo movimento di accrescimento delle forze produttive, di distruzione di rapporti sociali, di formazione d’idee. Di immobile non vi è che l’astrazione dal movimento: «mors immortalis».83


Quello costruito da Proudhon è un Sistema mortifero: un rappresentazione metafisica dell’evoluzione economica della società, astratta dalle sue reali trasformazioni, dal suo movimento vitale. «Morte immortale» che annulla la vita mortale e sopprime ogni differenza storica.84


È forse questa l’ultima parola di Marx sulla dialettica di Hegel? L’importanza della Miseria della filosofia nello sviluppo della teoria marxiana sta nel confronto ingaggiato, per il tramite di Proudhon, con il «metodo assoluto» del filosofo tedesco per eccellenza. «Fino a questo momento non abbiamo esposto che la dialettica di Hegel. Vedremo in seguito come Proudhon sia riuscito a ridurla alle più meschine proporzioni».85 Chi è dunque il bersaglio della polemica antimetafisica del materialista storico? Hegel o Proudhon? La dialettica, o la sua riduzione a proporzioni meschine? La filosofia in generale, o soltanto la sua miseria?


Nel 1847 Marx appare risoluto nel respingere il programma proudhoniano di applicare la logica dialettica all’economia politica. Ma è pur vero che in seguito sarà lui stesso a tentare la stessa impresa. Non considererà più l’astrazione come un pensiero vuoto e distante dalla realtà, ma anzi ne farà il principale medio di esposizione della sua critica dell’economia politica, il cui perno concettuale è appunto la nozione metafisica del valore.


La Miseria della filosofia critica Proudhon bensì per il suo hegelismo, ma anche e soprattutto per avere travisato Hegel e immiserito la sua lezione. Lo critica in quanto «filosofo» e allo stesso tempo in quanto «cattivo filosofo»; in quanto «tedesco», incapace, però, di leggere il tedesco.


La differenza più evidente fra la dialettica hegeliana e quella proudhoniana sta nella struttura dualistica di quest’ultima.


Poiché Proudhon mette da una parte le idee eterne, le categorie della ragione pura, dall’altra gli uomini e la loro vita pratica, che secondo lui è l’applicazione di queste categorie, Lei [, Annenkov,] troverà in lui fin dall’inizio un dualismo tra la vita e le idee, l’anima e il corpo: un dualismo che ritorna sotto molte forme.86


Se c’è un pensatore difficilmente tacciabile di dualismo, questo è Hegel. Il suo sistema, incentrato sul teorema dell’identità e unità di razionale e reale, figura nella storia della filosofia come un superamento di tutti i dualismi tradizionali (compreso quello kantiano, gnoseologico, di essere e dover essere). «L’idea» che conclude la Scienza della logica, «l’idea come unità dell’idea soggettiva e dell’oggettiva» ovvero «il concetto dell’idea», l’idea assoluta – è il metodo. Essa è la sola e unica totalità ed è insieme la comprensione di sé come tale.87 È l’unità sistematica della totalità e della conoscenza della totalità. La filosofia di Hegel può a ragione essere qualificata come un monismo: monismo dell’idea, monismo del concetto, monismo del concetto che si concepisce come concetto.88 Tutto meno che un dualismo. Dunque l’accusa di contrapporre dualisticamente le idee alla vita reale riguarda soltanto Proudhon. Da cosa dipende tale differenza? Perché il socialista francese, quando cerca di applicare il metodo hegeliano all’economia, finisce per dar luogo a un dualismo (il quale, per giunta, «ritorna sotto molte forme»)?


L’analisi comparata di un gigante della filosofia e un mediocre teorico sociale offre al sarcasmo di Marx ghiotte occasioni per canzonare l’avversario, e a noi quella di apprezzare una deformazione intellettuale costitutiva dell’antisemitismo moderno.


Vediamo ora a quali modificazioni Proudhon sottopone la dialettica di Hegel applicandola all’economia politica.


Per Proudhon, ogni categoria economica ha due lati, l’uno buono, l’altro cattivo. Egli considera le categorie come il piccolo borghese considera i grandi uomini della storia: Napoleone è un grand’uomo; ha fatto molte cose buone, ma ha fatto anche molte cose cattive. Il lato buono e il lato cattivo, il vantaggio e lo svantaggio presi assieme formano, per Proudhon, la contraddizione in ogni categoria economica.


Problema da risolvere: conservare il lato buono, eliminare quello cattivo.89


La dialettica di Proudhon – riassume Marx – consiste nella «semplice procedura di opporre il bene al male, di porre problemi che tendono all’eliminazione del male» – («das Schlechte auszumerzen»).90 Tale opposizione manichea, che nei termini della logica proudhoniana deve dirsi una contraddizione, si ritrova in ogni singola categoria economica e attraversa l’intero Sistema come un asse portante. La distinzione dogmatica e ossessiva – «ritorna sotto molte forme» – del male dal bene struttura la comprensione del mondo di Proudhon a tutti i livelli, dalle singole categorie economiche alla totalità dei rapporti sociali. La «contraddizione» è insieme la chiave di comprensione (logica) della realtà e la forza motrice (metafisica) della sua evoluzione storica.


Tutte le categorie economiche – che per Proudhon sono altrettante epoche economiche – presentano aspetti positivi e aspetti negativi; taluni elementi che favoriscono la realizzazione dell’ideale di Proudhon, l’eguaglianza, e altri contrari all’eguaglianza. Ogni categoria viene posta in essere dal Dio di Proudhon per emendare i lati negativi di quella che la precede storicamente. Per purificarla. Così ad esempio il monopolio viene introdotto per correggere i difetti della concorrenza, le tasse quelli del monopolio, il bilancio commerciale quelli delle tasse ecc.


E prendendo in tal modo successivamente le categorie economiche una per una, e facendo dell’una l’antidoto dell’altra, Proudhon giunge a comporre con questo miscuglio di contraddizioni e di antidoti alle contraddizioni due volumi di contraddizioni che egli – ben a ragione – intitola: Sistema delle contraddizioni economiche.91


Per Hegel la contraddizione è un’altra cosa: non una semplice opposizione, ma l’unità degli opposti. Nella seconda parte della Logica – «La dottrina dell’essenza» – introduce la nozione di contraddizione come una «determinazione della riflessione» («Reflexions-Bestimmung»), cioè un modo di apparire dell’essenza: una determinazione della parvenza. Questa determinazione contiene in sé le due precedenti: identità e opposizione. La contraddizione è l’unità inscindibile di identità e opposizione. È la relazione fra due determinazioni vicendevolmente escludentisi e implicantesi della riflessione, o parvenza, di una e una sola essenza. Il metodo dialettico consente di cogliere il lato positivo e quello negativo delle parvenze non soltanto come contrapposti, ma come «lo stesso», come coappartenenti all’essenza della cosa di cui sono momenti niente affatto indipendenti. Hegel definisce questo modo d’intendere la contraddizione «una delle conoscenze più importanti» senza la quale «non si può fare un passo in filosofia».92


Ma Hegel non è un aspirante riformatore sociale. È un logico. Non si pone il problema di migliorare il mondo, né quello di eliminare gli aspetti negativi delle contraddizioni. Proprio la capacità intellettuale di tollerare le contraddizioni, di far convivere e tenere uniti nel pensiero il positivo e il negativo e ancora l’unità e l’opposizione dell’uno e dell’altro – proprio questa capacità conferisce al suo pensiero il tratto dinamico che lo caratterizza e gli consente di rappresentare la totalità in maniera non rigida, non dogmatica, in movimento. Proudhon invece, nel nobile intento di annientare il male del mondo, conosce solamente rigide opposizioni morali, antitesi sterili: non, però, contraddizioni. «L’idea non funziona più; non ha più vita in sé».93 Mors immortalis.


Prendiamo per un istante il signor Proudhon stesso come categoria. Esaminiamo il suo lato buono e il suo lato cattivo, i suoi vantaggi e i suoi inconvenienti.


Se egli ha su Hegel il vantaggio di porre dei problemi che si riserva di risolvere per il bene dell’umanità, ha però l’inconveniente di essere affetto da sterilità quando si tratta di dar concepimento, attraverso il travaglio della generazione dialettica, ad una categoria nuova. Ciò che costituisce il movimento dialettico è la coesistenza dei due lati contraddittori, la loro lotta e il loro passaggio in una nuova categoria. Come ci si pone il problema di eliminare il lato cattivo, si sta già scindendo il movimento dialettico in due.94


Questo scindere il movimento dialettico in due – («on coupe court au mouvement dialectique» nell’originale francese, «man schneidet die dialektische Bewegung entzwei» nella traduzione tedesca di Bernstein e Kautsky) – è un gesto non dissimile dallo sdoppiamento ideologico delle parvenze già al centro delle critiche di Marx alla filosofia della religione di Feuerbach e alla questione ebraica di Bruno Bauer. Lo sguardo dualistico e manicheo sui processi storici, l’intolleranza delle contraddizioni, l’illusione di poter identificare puntualmente i fattori negativi del «capitalismo», di poterli isolare, asportare dal loro contesto e annientare – sono tutti elementi caratteristici della visione antisemita della società moderna. L’antisemitismo è un programma di disinfezione della società dai suoi agenti patogeni; vuole purificare la comunità del popolo, ristabilire i suoi naturali equilibri. Nella sua indagine sulla Miseria della filosofia, Marx ha scomposto questa mentalità nelle sue determinazioni più astratte e formali; ha criticato la logica dell’antisemitismo moderno.


Conclude l’opera una citazione tratta da Jean Ziska, romanzo storico di un’autrice femminista contemporanea sulle persecuzioni degli hussiti:


«Il combattimento o la morte; la lotta sanguinosa o il nulla. Così, inesorabilmente, è posto il problema».


George Sand95


7.5. Socialismo reazionario

La Miseria della filosofia è documento di una battaglia in cui, al di là dell’interpretazione di Hegel e di Ricardo, ne va della guida politica e teorica del movimento operaio europeo. Nel confronto con Proudhon, Marx determina «il modo di vedere», «gli scopi» e «le tendenze» che all’inizio dell’anno seguente, insieme a Engels, esporrà «apertamente a tutto il mondo» per mettere a tacere «le fiabe dello spettro del comunismo».96


In questi anni di fermento politico va accrescendosi l’influenza proudhoniana nei circoli socialisti dell’Europa continentale. Nella prassi politica delle organizzazioni dei lavoratori, le teorie del leader francese si traducono nella rinuncia al conflitto diretto con i capitalisti e nel rifiuto dello sciopero – che in Inghilterra sta spopolando – denunciato come illegale, autoritario e violento. Alla strategia della lotta di classe i proudhoniani contrappongono un programma di conciliazione «socialista» fra borghesia e proletariato. Che a suo fondamento venga posta l’idea proudhoniana dell’eguaglianza e del valore costituito, quella feuerbachiana di Gattungswesen, quella cristiana di amore universale o una delle loro possibili combinazioni, tale programma interclassista manifesta invariabilmente tinte nazionali. Propone cioè una soluzione nazionale per la questione sociale.


In contrapposizione a queste tendenze, Marx, Engels e gli altri membri del Comitato di corrispondenza comunista (poi Lega dei comunisti) insistono sulla lotta di classe come via e sulla società senza classi come destinazione del movimento di emancipazione.97 Promuovono il rafforzamento delle organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori e il consolidamento delle loro relazioni internazionali. Fissano nell’antagonismo delle classi il tema centrale del partito comunista e il criterio per decidere della natura effettivamente emancipatrice di teorie e movimenti politici, «lo scibbolet col quale sceverano sé i falsi fratelli e amici del cosiddetto popolo».


Vi era almeno un altro criterio certo per riconoscere le tendenze reazionarie e anti-emancipatrici all’interno del movimento socialista: l’antisemitismo. Sebbene Marx avesse scelto di non esprimersi più in sede pubblica su questo tema, nulla autorizza a escludere che abbia voluto farlo per interposta persona.


Nelle settimane successive alla pubblicazione della sua Risposta a Proudhon appare sulla «Deutsche-Brüsseller Zeitung» un saggio di Engels contro il «socialismo tedesco». Sotto questa etichetta polemica Engels raggruppa le sette e conventicole politico-letterarie radicali che si andavano formando in Germania attorno alle teorie proudhoniane importate da Karl Grün. Il saggio comincia considerando l’ossessione dei socialisti tedeschi per Rothschild, lo spauracchio di tutti gli antisemiti. Sull’onda del successo della Filosofia della miseria, un socialista tedesco di nome Karl Beck aveva pubblicato una raccolta di Canti del pover’uomo, il primo dei quali s’intitola Alla Casa Rothschild. Engels lo commenta estesamente:


Subito nell’ouverture egli [Beck] constata la sua illusione piccolo-borghese secondo cui l’oro «regna a capriccio» di Rothschild: un’illusione che porta con sé tutta una serie di fantasie sul potere della Casa Rothschild.


Il poeta non minaccia di distruggere il potere reale dei Rothschild, le condizioni sociali su cui esso si fonda: desidera soltanto che esso sia impiegato a scopi filantropici. Lamenta che i banchieri non sono filantropi socialisti, entusiasti benefattori dell’umanità, ma appunto banchieri. Beck canta la vile miseria piccolo-borghese, il «pover’uomo» … con i suoi desideri poveri, pii e incongruenti … non il proletario minaccioso, orgoglioso e rivoluzionario. Nonostante tutta la buona volontà, le minacce e i rimproveri di cui Beck subissa la Casa Rothschild hanno sul lettore un effetto più burlesco di un predicozzo pretesco da quattro soldi. Alla loro origine c’è l’illusione più puerile sul potere dei Rothschild …


A p. 24 si rimprovera a Rothschild di succhiare il sangue al borghese, come se non fosse desiderabile che al borghese sia succhiato il sangue …


Abbiamo già avuto prove sufficienti del potere favoloso che Beck cerca di attribuire a Rothschild. Ma è un crescendo continuo … Lo sviluppo del commercio e dell’industria, la concorrenza, la concentrazione della proprietà, i debiti di Stato e l’aggiotaggio, insomma tutto lo sviluppo della società borghese moderna, il signor Rothschild avrebbe potuto impedirlo se fosse stato appena un po’ più coscienzioso. Ci vuole davvero toute la désolante naiveté de la poésie allemande per avere il coraggio di far stampare favolette simili. Rothschild è letteralmente trasformato in Aladino…


Rothschild deve ben compiacersi di sé quando vede che la sua piccola personalità si rispecchia nel cervello di un poeta tedesco come un pauroso fantasma così gigantesco.98


Il motivo per cui il cervello del poeta tedesco trasforma Rothschild in un fantasma pauroso e gigantesco sta, secondo Engels, nella sua incomprensione dei rapporti sociali del tempo. Il nome Rothschild sopperisce cioè alla mancanza di un concetto della società borghese. Per via di tanta ignoranza i «veri socialisti» tedeschi non sono in grado di produrre testi e idee realmente rivoluzionari, ma al massimo lagnanze moraliste e pretesche. A dispetto dei toni infervorati delle loro filippiche, Engels rimprovera loro non già eccessivo radicalismo, ma insufficiente radicalità. I socialisti tedeschi spaventati da Rothschild sono socialisti solidali con la classe borghese.


L’analisi engelsiana del fantasma di Rothschild segue fedelmente quella marxiana del fenomeno Proudhon. La causa ultima della miseria intellettuale del proudhonismo non sta, secondo Marx, nell’incomprensione della dialettica hegeliana o nell’interpretazione delle teorie di Ricardo.


Proudhon non ci fornisce una critica errata dell’economia politica perché possiede una filosofia ridicola, bensì invece egli ci fornisce una filosofia ridicola perché non ha compreso lo stato sociale attuale.99


Rimproveri analoghi Marx aveva già rivolto, negli anni precedenti, a Bruno Bauer e a Ludwig Feuerbach. È l’incapacità di comprendere la vita pratica e le trasformazioni sociali dell’epoca ciò che rende possibile, anche a intellettuali raffinati e d’animo progressista come quelli di cui si tratta, elevare vecchi pregiudizi religiosi al rango di spiegazioni sistematiche del mondo. Nella protesta aconcettuale contro la società borghese che ne deriva, cui tanta attenzione critica Marx ha dedicato, va riconosciuto un momento essenziale dell’antisemitismo moderno.


Ma perché tanta cecità e incomprensione? Cosa impedisce ai pensatori fra i più radicali e perspicaci dell’epoca di afferrare il processo storico e le trasformazioni sociali? Nella Miseria della filosofia Marx dà una risposta «materialista» a questa domanda; una risposta piuttosto sociologica che filosofica. La sua ipotesi è che Proudhon non comprenda il sistema dei rapporti sociali dell’epoca non tanto a causa di un limite proprio della sua coscienza individuale e soggettiva, quanto semmai per via della posizione oggettiva che egli occupa all’interno di quel sistema. Il fallimento scientifico di Proudhon è ricondotto in ultima analisi alla sua condizione sociale, in particolare alla sua appartenenza alla piccola borghesia.


Proudhon si vanta di aver fornito la critica dell’economia politica e del comunismo: mentre si trova al di sotto dell’una e dell’altro … Vuol essere la sintesi. Ed è invece un errore composto. Vuole librarsi come uomo di scienza al disopra dei borghesi e dei proletari; e non è che il piccolo borghese, sballottato costantemente fra il capitale e il lavoro, fra l’economia politica e il comunismo.100


La nozione sociologica di «piccola borghesia» è impiegata qui con significato immediatamente anche politico e gnoseologico. Si tratta di una classe che non è propriamente una classe: una classe determinabile come tale solamente per via negativa. Né classe dominante, né classe oppressa. La piccola borghesia sta fra l’incudine e il martello. Non controlla i mezzi di produzione, ma non è neanche del tutto dipendente dalla vendita della propria forza lavoro. È minacciata nella sua piccola proprietà privata tanto dalla concentrazione di capitali nelle mani della grande borghesia, quanto dalle ambizioni rivoluzionarie del proletariato, nel quale teme di sprofondare. La sua posizione sociale determinabile solo negativamente e il timore di perderla producono, nell’analisi di Marx, un punto di vista peculiare sulla totalità dei rapporti sociali: un punto di vista che esclude la conoscenza determinata della produzione di merci e delle sue contraddizioni immanenti e proietta i propri timori di classe – venduti come «critica sociale» – sul mercato, sulla vorticosa circolazione di merci e denaro che minaccia di trascinare via la sua piccola proprietà.


Agli occhi di Marx, l’utopia di una società borghese libera dagli aspetti negativi della società borghese – comunità di piccoli produttori privati e uguali, produzione di merci senza potere del denaro – non è che una rappresentazione idealizzata e universalizzata della condizione piccolo-borghese, immaginata come sintesi eterna di tutte le contraddizioni economiche.


Proudhon è dalla testa ai piedi filosofo, economista della piccola borghesia … è accecato dallo splendore della grande borghesia e ha compassione per le sofferenze del popolo. Egli è borghese e popolo al tempo stesso. Nell’intimo della sua coscienza si lusinga di essere imparziale, di aver trovato l’equilibrio giusto, che avanza la pretesa di essere qualcosa di diverso dal giusto mezzo. Un piccolo borghese del genere divinizza la contraddizione, perché la contraddizione è il nucleo del suo essere. Egli non è altro che la contraddizione sociale messa in azione.101


Nella sua disperata lotta per la sopravvivenza sociale, la piccola borghesia produce un’ideologia anticapitalista non del tutto priva di intuito. Sentendosi vicini alla rovina, i teorici di questa classe aguzzano lo sguardo e percepiscono le conseguenze deleterie della grande industria e della divisione del lavoro moderna; tematizzano le crisi economiche, le guerre commerciali, la dissoluzione dei costumi e delle relazioni familiari, la miseria del proletariato, le eclatanti sproporzioni nella distribuzione della ricchezza, infine il necessario declino sociale della loro classe. Tuttavia la condizione oggettiva in cui versano impedisce loro di elevarsi al di sopra dell’orizzonte borghese e di pensare una trasformazione sociale radicale. Il dualismo di Proudhon – lo sdoppiamento che egli opera nei confronti del movimento dialettico complessivo e di ogni categoria – riflette i dilemmi pratici in cui si dibatte questa classe precaria e congenitamente irrisolta.


Il «socialismo tedesco» (anche detto «vero socialismo») e il «socialismo piccolo-borghese» costituiscono, insieme al «socialismo feudale», le principali varianti di «socialismo reazionario» discusse nel Manifesto del partito comunista.


Nella concezione classista della politica affermata dal Manifesto, l’aggettivo «reazionario» significa che questo tipo di socialismo non rappresenta gli interessi della nuova classe rivoluzionaria in corso di formazione, ma quelli di ceti tradizionali che avvertono l’erosione del proprio potere sociale e sentono la loro propria esistenza di classe minacciata dall’impetuoso sviluppo della produzione capitalistica. L’elaborazione teorica dei socialisti reazionari è perciò determinata, oltre che dal sentimento della rovina imminente, anche dalla mancata comprensione della necessità storica del progresso capitalistico. Il loro socialismo si propone come alternativa sia al nuovo ordine borghese che si sta affermando sul continente, sia alla possibilità di una rivoluzione proletaria. Il suo obiettivo è un’impossibile restaurazione di condizioni sociali passate, di stadi precedenti dello sviluppo capitalistico supposti essere migliori o più sani. Questi presunti riformatori sociali «tentano di far girare all’indietro la ruota della storia»: non capiscono che le condizioni materiali e tecniche su cui si basavano i vecchi rapporti sociali sono tramontate irrevocabilmente e non possono essere ricostituite se non nella loro immaginazione nostalgica e dottrinaria.


Questo socialismo, o vuole ristabilire i vecchi mezzi di produzione e di scambio e con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, oppure vuole per forza imprigionare di nuovo i moderni mezzi di produzione e di scambio nel quadro dei vecchi rapporti di proprietà ch’essi hanno spezzato e che non potevano non spezzare. In ambo i casi esso è a un tempo reazionario e utopistico.102


Marx ed Engels descrivono questa corrente della letteratura socialista dell’epoca come un’utopia reazionaria che vorrebbe arrestare il processo storico e lo sviluppo dei rapporti sociali (donde la trasformazione della dialettica, in Proudhon, da logica del movimento a morte immortale).


Non appare improprio definire il contenuto di queste pagine come un embrione di teoria del fascismo, ovvero come una teoria del fascismo al suo stadio embrionale. Al netto delle differenze storiche, la base sociale del fascismo fu prevalentemente piccolo-borghese, al pari del socialismo reazionario del secolo precedente. Anche il fascismo e il nazionalsocialismo pretendevano di opporsi alle tendenze più antisociali dello sviluppo capitalistico, mantenendo però saldo il suo principio fondamentale: il valore-lavoro come fulcro dell’organizzazione sociale della produzione. Di qui l’interesse per le teorie di Proudhon. La sua considerazione «dialettica» (ossia dualistica e manichea) dei concetti economici si adatta perfettamente all’esigenza ideologica di distinguere fra capitale produttivo e improduttivo; fra capitale industriale e nazionale da una parte e capitale internazionale, speculativo, parassitico dall’altra. Più in generale si può dire che il rapporto di Proudhon con l’economia politica classica illustra, a livello teorico, l’atteggiamento fascista nei confronti della società borghese: virulenta protesta e insieme idealizzazione conservatrice.


L’aggressione fascista alla civiltà moderna non tematizza il suo modo di produrre la ricchezza; non tocca il lavoro. Si rivolge esclusivamente alla sfera della circolazione. Identifica il nemico nei flussi di merci (commercio internazionale), nei flussi di denaro (finanza internazionale) e nei flussi di forza lavoro (migrazioni internazionali). L’interruzione violenta di questi flussi è il suo fine primario. La sua politica economica – protezionismo, sostegno alle famiglie e alle imprese, incremento dell’occupazione, inquadramento corporativo dei lavoratori, spezzamento della schiavitù dell’interesse – configura un tentativo di controrivoluzione socialista e nazionale. La volontà di mantenere o ripristinare relazioni sociali protoindustriali, il romanticismo agrario e artigiano, l’ideale di unità organica della comunità nazionale, il rifiuto della lotta di classe, della democrazia e del commercio internazionale, la pretesa di subordinare l’economia alla politica e all’interesse nazionale, infine la concezione duale del capitale – sono le principali caratteristiche della sua continuità con il socialismo reazionario del XIX secolo.


La critica marxiana del socialismo proudhoniano rappresenta un prezioso contributo alla ricerca intorno alla genesi sociale della «terza via» fascista. Ciò è tanto più vero per il fatto che, agli occhi di Marx, chi indica questa «via» non è un semplice ideologo, ma un’intera classe sociale; non la persona di Proudhon, «con i suoi lati buoni e i suoi lati cattivi», le sue ossessioni e idiosincrasie individuali, ma «il signor Proudhon» nelle vesti – invero un po’ dozzinali – di «filosofo ed economista della piccola borghesia».103


7.6. Limiti della fase materialista

La critica alla «metafisica dell’economia politica» svolta sotto il titolo Miseria della filosofia costituisce il momento principale della seconda fase di sviluppo del pensiero economico di Marx e del suo confronto con l’antisemitismo moderno.


Nella fase precedente, precritica, le teorie della sinistra hegeliana sull’alienazione moderna, l’egoismo e il potere del denaro erano sostanzialmente accettate. L’ostilità verso gli ebrei e l’inclinazione eliminazionista non venivano colte come tendenze immanenti a quella visione ideologica della società, ma travisate come elementi estrinseci e separabili da essa; come la deviazione di una critica sociale per se stessa giusta verso un bersaglio sbagliato. Da questo punto di vista, l’antisemitismo appariva come una proiezione psicologica più o meno soggettiva e contingente, come secolarizzazione di un pregiudizio teologico più o meno anacronistico.


Fra i risultati teorici del confronto con Proudhon alla fine degli anni quaranta vi è il riconoscimento del nesso interno all’antisemitismo moderno fra la denuncia del potere del denaro e l’astio politico-religioso contro gli ebrei. L’economia politica dell’antisemitismo non viene più criticata solamente per il proprio bersaglio fantasmatico. Viene analizzata nella sua struttura concettuale e smascherata come utopia del lavoro piccolo-borghese e reazionaria.


Se perciò la Miseria della filosofia segna una svolta nello sviluppo della teoria marxiana, d’altronde rappresenta un proseguimento del programma giovanile di critica della filosofia. Vi si trova la medesima postura teorica assunta negli anni precedenti in contrapposizione all’ideologia tedesca: quell’atteggiamento ingenuamente nominalista che considera i concetti alla stregua di mere (o misere) astrazioni intellettuali, che insiste sulla necessità di indagare la realtà basandosi sulla sola osservazione dei «fatti» – come se i fatti fossero di per sé evidenti e non abbisognassero di lavoro concettuale per essere ricostruiti e intesi nei loro concatenamenti. La critica non si rivolge più soltanto alla pretesa «tedesca» di penetrare la realtà con il solo studio delle idee teologiche e filosofiche. Nondimeno, se anche ora Marx se la prende con un economista francese, lo fa pur sempre dal punto di vista empiristico del suo materialismo storico giovanile e orgogliosamente postfilosofico. L’economia politica di Proudhon viene respinta perché troppo filosofica. Cerca di conoscere la realtà astraendo da essa (o meglio dai manuali borghesi di scienza economica) concetti generali; s’illude di penetrarne l’essenza, quanto più se ne allontana. D’altro canto, i concetti generali che ottiene mediante astrazione intellettuale si trasformano magicamente in sostanze reali e indipendenti. Ecco scoperta la vera essenza eterna della realtà fenomenica. Perfino un economista – a maggior ragione se scadente – può comportarsi come un filosofo metafisico.


La critica materialista della coscienza antisemita – che Marx vede all’opera in Bauer, in Feuerbach e in Proudhon – mostra come essa si articoli in una correlazione di astrazione e ipostasi. In un primo momento l’antisemita isola gli aspetti della società moderna che percepisce come negativi, li astrae, li separa mentalmente dal loro contesto sociale in modo tale che quest’ultimo, spogliato da ogni negatività, non compreso nella dinamica internamente contraddittoria del suo sviluppo, viene fatto oggetto di una rappresentazione idilliaca e apologetica. In un secondo momento, questa negatività assoluta e priva di contesto viene ipostatizzata a essenza reale e indipendente: ritrova corpo e sostanza. Che poi la concrezione ipostatica della negatività sociale venga identificata con quella merce particolare e separata dalle altre che è il denaro o con quella nazione particolare e separata dalle altre che è Israele, ciò dipende dal fatto storico che fra le merci il denaro e fra i popoli gli ebrei appaiono come i più evidenti beneficiari dell’emancipazione borghese.


Il materialista storico non si limita a criticare questa forma di pensiero sul piano teorico. Non si domanda soltanto cosa o come gli antisemiti pensino, ma anche perché. Dopo aver identificato la struttura logica fondamentale del loro pensiero, procede a spiegarne la genesi sociale. Al centro di tale spiegazione vi è la nozione di piccola borghesia. Il fondamento oggettivo dell’utopia reazionaria dell’antisemitismo moderno viene cercato nell’ambito degli interessi materiali propri della sua classe sociale di riferimento.


Per quanto limitata e riduttiva, questa teoria sociologica dell’antisemitismo moderno consente a Marx di riconoscere precocemente alcuni aspetti reali di questo fenomeno – aspetti destinati a giocare un ruolo tutt’altro che secondario nel suo futuro, particolarmente nell’era fascista. In tal senso, le critiche all’utopia proudhoniana nella Filosofia della miseria e al socialismo reazionario nel Manifesto comunista – un programma di lotta politica più che una semplice polemica teorica – sono dei veri e propri scritti antifascisti ante litteram. Anticipano il fascismo e il nazionalsocialismo come movimenti politici controrivoluzionari, autoritari, forti di una base sociale prevalentemente piccolo-borghese, intesi a rappresentare un’alternativa sia al comunismo che alla democrazia liberale, contrari alla lotta di classe, saldamente imperniati intorno una concezione adialettica della società moderna e a un programma antisemita di rinnovamento sociale e nazionale.


Scrutando nelle zone più oscure del sottobosco politico della società borghese negli anni attorno ai moti del ’48, Marx ha individuato l’origine di tendenze autoritarie e reazionarie che erano destinate a vegetare per molti decenni e a manifestare tutto il loro potenziale distruttivo soltanto nel secolo seguente. Ha dedicato gran parte della sua attività e dei suoi scritti a mettere in guardia il movimento di protesta contro il capitalismo e la società borghese dal pericolo di deriva anti-emancipatrice che esso recava nel proprio seno.


Ciononostante, la determinazione dell’antisemitismo moderno quale fenomeno piccolo-borghese è limitata e riduttiva. Tende a sconfinare in determinismo sociologico. L’inclinazione al determinismo costituisce in generale l’aspetto più debole e dogmatico del materialismo storico del giovane Marx, pur sempre un figlio dell’Ottocento positivista, nonché di certo marxismo novecentesco. A far problema non sono i molti esempi di borghesi piccoli eppure nient’affatto antisemiti: l’autonomia dell’individuo e il tradimento di classe sono pur sempre possibili, come devono ammettere anche i più rigidamente deterministi fra i marxisti. Il limite della spiegazione materialista si rivela semmai nella sua incapacità di rendere conto del fatto che l’antisemitismo moderno non è un fenomeno che interessa soltanto la piccola borghesia, ma che anzi si è rivelato capace di fare breccia nei cuori e nelle menti anche della grande borghesia, della proprietà fondiaria, del proletariato e del sottoproletariato, insomma di tutte le classi della società borghese. Ha coinvolto l’intero corpo sociale e attraversato tutti i suoi strati gerarchici. Per spiegare questa vistosa circostanza è necessario non limitarsi né alla determinazione ideologica e soggettiva della forma di pensiero antisemita, né alla sua determinazione sociologica e oggettiva come espressione di certi interessi particolari. Queste sono le condizioni del problema da cui muove lo sviluppo della critica dell’economia politica a partire dagli anni cinquanta, dal periodo londinese di Marx.

8. Valore/Lavoro (fase londinese o metafisica)

– e far valere astrazioni nella realtà significa distruggerla.


Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia (1823-24)1


Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza.


Karl Marx, Critica al programma di Gotha (1875)2


8.1. Ancora Proudhon: l’utopia delle cedole orarie

La critica a Proudhon – «che vuole la merce, ma non vuole il denaro» – rimarrà ancora a lungo una priorità politica e scientifica di Marx. Il proposito di vedere «distrutto dalle fondamenta» il socialismo proudhoniano lo ha accompagnato durante gli anni di studio economico nella biblioteca del British Museum. Emerge con chiarezza quale motivo determinante in tutte le innumerevoli versioni, revisioni, ripensamenti e riformulazioni della critica dell’economia politica. È inscritto nella carne della teoria sociale di Marx, dà forma al suo scheletro concettuale.3


«Tutto il male proviene dal predominio che ci si ostina ad accordare ai metalli preziosi nella circolazione e nello scambio».4 Con questa citazione del proudhoniano Alfred Darimon si apre «Il capitolo del denaro», il primo dei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (Grundrisse) del 1857-58. Le ricerche londinesi di Marx muovono dall’impellenza di confutare le leggende sul potere del denaro – una mitologia economica che va condizionando in modo sempre più incisivo le aspettative e i programmi del movimento socialista. Non si tratta diuna semplice superstizione, una fra molte concezioni economiche obsolete ancora in circolazione. Le nuove teorie anti-monetarie si propongono come un paradigma esplicativo generale di tutti i problemi economici della società moderna, delle sue lampanti sperequazioni e delle sue crisi periodiche. Ambiscono cioè a dare forma a una comprensione dell’intero, ad afferrare la totalità sociale, a spiegare il «capitalismo».


Per Marx non si tratta di una spiegazione soltanto scorretta sul piano scientifico. La lotta al potere del denaro svolge anche una funzione efficacemente conservatrice sul piano politico. Accecati dal bagliore dei metalli nobili, i socialisti francesi e tedeschi indirizzano i loro intenti riformisti verso la sola sfera della circolazione, di cui il denaro è il re. La sfera privata della produzione è invece esclusa dalla loro critica e, più in generale, dall’ambito di ciò che è criticabile e storicamente trasformabile. Le più utopiche e ardite fra le loro fantasie rivoluzionarie non arrivano nemmeno a sfiorare il fondamento della società borghese: la produzione di merci. Sono anzi attivamente impegnate nella difesa dei rapporti di lavoro attuali. È dunque una necessità politica, oltre che scientifica, elaborare un concetto sociale di denaro da contrapporre alle leggende sul suo mistico potere.


L’indagine di Marx sull’economia politica comincia quindi con la questione del denaro. Sarà soltanto l’esposizione dei risultati di questa indagine, la rappresentazione del processo di produzione del capitale, a iniziare dalla merce.5 L’indagine vera e propria invece muove dal tentativo di comprendere l’essenza del denaro, la sua genesi logica e storica, che cosa ha a che fare con i rapporti sociali fra le persone. Per questo i Grundrisse si aprono con la discussione di un astruso progetto di riforma monetaria promosso in quegli anni dalla scuola proudhoniana.


La riforma puntava ad abolire il denaro metallico («i privilegi dell’oro»); i suoi promotori la presentavano come «la soluzione della questione sociale».6


L’oro e l’argento sono merci come le altre. L’oro e l’argento non sono merci come le altre: in quanto strumento generale di scambio, esse sono merci privilegiate e degradano le altre merci proprio in virtù di tale privilegio. Questa è l’ultima analisi a cui Darimon riduce l’antagonismo. Abolite il privilegio dell’oro e dell’argento, degradateli al rango di tutte le altre merci … allora non avrete gli inconvenienti specifici del denaro d’oro e d’argento o delle banconote convertibili in oro e argento. Così eliminate tutti gli inconvenienti.7


La moneta – sostengono questi socialisti – domina la circolazione in virtù dei privilegi di cui gode rispetto alle altre merci: la convertibilità universale (dunque la scambiabilità certa e immadiata); la natura inorganica (quindi indeperibile); l’immunità al rischio di deprezzamento (può forse deprezzarsi l’unità di misura dei prezzi?), eccetera.8


Per contrastare questi privilegi e risolvere finalmente la questione sociale, Proudhon e i suoi discepoli progettano la creazione di un nuovo tipo di denaro non più legato ai metalli nobili, né a nessun’altra materia, ma solo ed esclusivamente al lavoro. Sognano il «denaro-lavoro».9 Non è forse il lavoro l’unica vera fonte della ricchezza? Per invertire la deriva moderna che ha portato il denaro a trasformarsi da semplice mezzo di circolazione a fine ultimo e sovrano assoluto della medesima è necessario vincolare il suo valore al lavoro realmente svolto. Occorre escogitare un tipo di denaro che esprima il valore dei prodotti del lavoro immediatamente, cioè non mediante una merce terza, eletta fra le altre ad assolvere questa funzione esclusiva. Poiché il valore delle merci è dato dal lavoro soltanto e quest’ultimo si misura in termini di tempo, anche il denaro dovrà adottare, come espressione immediata del valore, la stessa unità di misura. Non più «sterline» o «franchi», ma «ore-lavoro». La cartamoneta della futura umanità socialista recherà impresso il segno della convertibilità non già con l’oro e l’argento, ma col tempo di lavoro.


L’introduzione di tali cedole orarie al posto del denaro dovrà servire, nelle intenzioni dei suoi fautori, a parificare il valore nominale delle merci al loro valore reale. La sostituzione del tempo di lavoro ai metalli nobili nelle funzioni del denaro quale mezzo di circolazione delle merci e misura del loro valore farà sì che il valore nominale a cui effettivamente vengono scambiate le merci, cioè il loro prezzo, corrisponda sempre ai loro costi di produzione. Impedirà ogni divergenza fra prezzo e valore. Ogni merce costerà esattamente quanto vale, cioè quanto dura la sua produzione: non x o y libbre d’argento, ma x o y ore di lavoro. Espresso schiettamente in tempo di lavoro, il prezzo delle merci giungerà a rispecchiare il loro valore reale – il valore-lavoro, la quantità di lavoro umano che contengono – finalmente in forma pura, inalterata, immediata. L’identità di prezzo e valore garantirà al lavoro l’universale riconoscimento che gli spetta quale unica fonte e sostanza della ricchezza, il suo giusto compenso. Sarà rimossa con ciò la radice di tutti gli imbrogli commerciali, delle speculazioni, delle ingiustizie, del pauperismo, degli squilibri del mercato e delle sue crisi.


Si comprende agevolmente – riassume Marx sarcastico – come la pura e semplice adozione del biglietto orario elimini tutte le crisi, tutti gli inconvenienti della produzione borghese. Il prezzo in denaro delle merci = al loro valore; la domanda = all’offerta; la produzione = al consumo … Basterebbe soltanto constatare il tempo di lavoro, il cui prodotto è la merce e che viene materializzato nella merce, per creare una sua controfigura in un segno di valore, denaro, in biglietti orari. Ogni merce in tal modo sarebbe direttamente trasformata in denaro e, dal canto loro, l’oro e l’argento sarebbero ridotti al rango di tutte le altre merci.10


Tale mezzo di scambio onesto e popolare dovrebbe consentire alla legge del valore-lavoro di dispiegare tutti i propri effetti e realizzare ciò che Proudhon chiama «valore costituito»: un equilibrio stabile di offerta e domanda, di produzione e consumo, fondato su un sistema di scambi diretti e realmente equi. In questa utopica repubblica delle merci e del lavoro, emancipata dal potere del denaro e dell’interesse, tanti piccoli produttori indipendenti scambieranno le proprie merci esattamente al loro valore, ognuno di loro riceverà un compenso individuale pari al contributo lavorativo che ha fornito alla società. Ne più, né meno.


Lasciando da parte la questione se una siffatta organizzazione economica della società sia o meno desiderabile, Marx si industria a dimostrare che essa non è affatto possibile – per ragioni logiche ancor prima che pratiche.


C’è da chiedersi se non sia il problema stesso a rivelare la sua assurdità, e se quindi l’impossibilità della soluzione non sia già implicita nelle condizioni poste dal problema.11


La questione di Proudhon è se l’esistenza del denaro sia compatibile con un sistema di scambio di merci libero ed equo. Con una strategia argomentativa simile a quella impiegata anni prima contro Bruno Bauer, che domandava se l’esistenza dell’ebraismo fosse compatibile con la libertà e l’eguaglianza moderne, anche in questo caso Marx sceglie di rispondere alla domanda ribaltandola in un’altra domanda: criticandola.


Spesso la risposta può consistere soltanto nella critica della questione, e può esservi soluzione solo nella negazione della questione stessa. La vera questione è questa: non è il sistema di scambio borghese stesso a rendere necessario uno specifico strumento di scambio? Non crea esso stesso necessariamente un equivalente particolare per tutti i valori?12


La critica della questione inizia dalla dimostrazione che il denaro non solo non è affatto incompatibile con la produzione di merci, ma che al contrario svolge in essa una funzione imprescindibile. Proudhon attacca il denaro perché non pensa fino in fondo le ragioni per cui la società ha dovuto dotarsi di un mezzo per lo scambio delle merci distinto dalle merci. Questa mancata riflessione lo porta a considerare come un «inconveniente» della produzione di merci ciò che in realtà è una sua condizione di possibilità. L’idea rivoluzionaria di parificare il prezzo e il valore delle merci sostituendo il denaro metallico (e quello cartaceo che riceve la sua denominazione dal peso del metallo) col denaro-lavoro (che riceve la sua denominazione del tempo di lavoro) presuppone implicitamente che quella che si vorrebbe livellare sia una differenza soltanto nominale e contingente. «Ma non è affatto così».13 La differenza tra prezzo e valore è invece sostanziale e necessaria, impossibile da eliminare sulla base della produzione di merci. Il primo capitolo dei Grundrisse è dedicato a spiegare perché non potrebbe esistere alcuna merce senza un denaro distinto dalla merce, né alcun valore senza un prezzo distinto dal valore.


La grandezza di valore di una merce – insegna Ricardo – è determinata dalla quantità di tempo di lavoro richiesto dalla sua produzione. Marx, come è noto, fa suo questo assioma, ma non senza apportare alcune decisive precisazioni. Il «tempo di lavoro» che costituisce il valore di una merce non è il tempo effettivamente impiegato nella produzione di quella singola merce (ne deriverebbe che il valore di una merce è direttamente proporzionale alla lentezza del suo produttore, il che è assurdo). Ciò che determina il valore di una merce è semmai il tempo di lavoro richiesto in generale per produrre, in una società, un’epoca e condizioni tecnologiche date, quel tipo di merce. Marx definirà questo tempo ideale, distinto da quello effettivo, «tempo di lavoro socialmente necessario».14


Il valore delle merci determinato mediante il tempo di lavoro è soltanto il loro valore medio. Una media che appare come una astrazione esteriore finché viene conteggiata come cifra media di un’epoca … che però è molto reale se al contempo in essa si individua la forza impulsiva e il principio motore delle oscillazioni che i prezzi delle merci subiscono … Da questo valore medio della merce differisce sempre il suo valore di mercato, costantemente inferiore o superiore a esso. Il valore di mercato si adegua al valore reale attraverso le sue continue oscillazioni … ponendo costantemente se stesso come diverso … Il prezzo si differenzia quindi dal valore, non solo come il nominale si differenzia dal reale; non solo per la denominazione in oro e in argento, bensì per il fatto che il secondo appare come la legge dei movimenti percorsi dal primo.15


Il valore è un rapporto sociale. Più precisamente, è ciò che Marx chiama un «rapporto di produzione»: è il rapporto fra le velocità a cui i diversi produttori che formano la società sono in grado di produrre le loro merci. È la loro media aritmetica. Poiché si tratta di una grandezza media, per misurare il valore di una singola merce non è sufficiente conoscere il tempo di lavoro concretamente impiegato nella sua produzione: è l’attività produttiva dell’intera collettività a determinarlo. Sebbene appaia come una proprietà della merce e come il frutto del lavoro del suo produttore, il valore è essenzialmente un parametro del sistema produttivo nel suo complesso, della totalità sociale. È l’espressione della sua produttività media: tempo di lavoro socialmente necessario.


I produttori di merci sono individui che lavorano privatamente, indipendentemente gli uni dagli altri. Nessuno di loro può conoscere con esattezza i tempi di lavoro altrui. Poiché il valore di una singola merce non dipende soltanto dal tempo di lavoro individuale del suo produttore, ma dal rapporto fra il suo e quello di tutti gli altri, nessuno è in grado di stabilire con esattezza il valore delle proprie merci. Ne consegue che il prezzo a cui proverà a venderle sulla pubblica piazza del mercato, ossia il loro valore nominale, non coinciderà con il valore reale se non in casi rari e fortuiti.


Il prezzo della merce è costantemente superiore o inferiore al suo valore, e il valore stesso esiste soltanto nell’up and down dei prezzi della merce. La domanda e l’offerta determinano costantemente i prezzi delle merci … ma i costi di produzione [ossia il valore, il tempo di lavoro socialmente necessario] da parte loro determinano le oscillazioni della domanda e dell’offerta …


La divergenza del prezzo dal valore non è una violazione incidentale (o intenzionale) della legge dello scambio di equivalenti imputabile ai privilegi del denaro e alle occulte speculazioni dei suoi agenti internazionali. Semmai è la sua regola: è il modo in cui quella legge esiste e si fa valere nella realtà. La differenza quantitativa non dipende dal fatto che il valore, espresso come prezzo in denaro, ottiene un nome diverso: 1 g di oro invece che 1 h di lavoro. Al contrario: è la differenza nominale a scaturire da quella reale come una sua necessaria conseguenza. Poiché la quantità di tempo di lavoro socialmente necessario contenuta in una singola merce non è misurabile direttamente, non può che essere misurata indirettamente. Vale a dire che il valore della merce non può che essere espresso come prezzo, come quantità di denaro con cui quella può essere scambiata.


… L’illusione fondamentale degli assertori del biglietto orario consiste nel fatto che, sopprimendo la diversità nominale tra valore reale e valore di mercato, tra valore di scambio e prezzo – esprimendo quindi il valore nel tempo di lavoro stesso, invece che in una oggettivazione determinata del tempo di lavoro, say in oro o in argento – essi eliminano anche la reale differenza e contraddizione tra prezzo e valore.16


Come nasce una simile illusione? Marx non si limita a smentirla. Profonde anche molto impegno nel tentativo di spiegarla, di tracciarne la genesi. Indaga le ragioni che inducono Proudhon (e con lui schiere di difensori del popolo e riformatori sociali di tutti i paesi) a individuare l’origine di «tutto il male» nel denaro e a sostenere un’idea tanto assurda come quella per cui basterebbe cambiare nome al mezzo di scambio per trasformare sostanzialmente la società moderna e porre fine una volta per tutte alle sue ingiustizie. Da dove trae la sua plausibilità questa «utopica» proposta di soluzione finale della questione sociale?


Tornando a porsi queste domande oltre dieci anni dopo la Miseria della filosofia, Marx trova nuove risposte. Risposte che non necessariamente sconfessano quelle precedenti. Semmai le approfondiscono: forniscono la cornice storica e categoriale entro cui comprenderle. Nei Grundrisse, il mito del dominio del denaro sul lavoro, la rappresentazione dualistica e manichea dell’economia moderna e l’utopia reazionaria dell’eliminazione del negativo non vengono più ricondotti al punto di vista soggettivo di Proudhon o agli interessi materiali della sua classe sociale di riferimento. Le fantasmagorie economiche dell’antisemitismo moderno trovano qui un fondamento esplicativo oggettivo e universale. Viene mostrata la loro genesi nel quadro di una deformazione socialmente indotta della coscienza che non riguarda soltanto i filosofi idealisti tedeschi e i socialisti piccolo-borghesi, ma che si estende oltre i confini nazionali, di classe e di partito, all’intera società moderna. Non si tratta più semplicemente di «ideologia». La forma o deformazione della coscienza che dà luogo alle fantasie antimonetarie e antisemite è riconosciuta come oggettiva, socialmente valida. È forma o deformazione non soltanto della coscienza, ma anche dell’oggetto, della struttura sociale; non soltanto un certo modo di vedere il mondo, ma anche il modo in cui il mondo si dà a vedere, la sua parvenza; non soltanto una forma di pensiero economico, ma una forma di economia, di prassi sociale, di lavoro: la forma di lavoro dominante nella società moderna. Il potere del denaro è una fantasia tutt’altro che arbitraria. È semmai la manifestazione più evidente e immediata delle contraddizioni «di questo modo di produzione sociale storicamente determinato, della produzione di merci».17


Proudhon fantastica di una produzione di merci libera dal denaro perché non capisce che il denaro è una rappresentazione necessaria del (e necessariamente distinta dal) valore di scambio delle merci. L’equivoco deriva certamente dalla sua concezione di quest’ultimo.18 Egli non definisce il valore come tempo di lavoro socialmente necessario, come la media dei tempi di lavoro di tutti i produttori; cioè non pensa il valore come un rapporto sociale di produzione. Lo considera invece come una proprietà naturale intrinseca alle merci, cioè come qualcosa di concreto e di tangibile, come il lavoro individuale materialmente cristallizzato in ogni singolo prodotto: «valore costituito». Poiché considera il valore di scambio alla stregua di una cosa, gli sembra giusto che tale cosa venga chiamata col suo nome, che venga scambiata direttamente per ciò che è e non per il tramite di un’altra cosa (il denaro). Non capisce che il valore, un rapporto di produzione, esiste come una cosa solo grazie al denaro e nel denaro. Ma questa incomprensione non è interamente imputabile a un suo difetto d’intelletto.


Ciò che rende particolarmente difficoltosa la comprensione del denaro … è che qui un rapporto sociale, una determinata relazione degli individui tra loro, si presenta come un metallo, come una pietra, come una cosa puramente corporea fuori di essi che viene rinvenuta come tale in natura.19


Prima ancora che nella testa di Proudhon, l’equivoco si origina nella cosa che quella vorrebbe afferrare. È il valore stesso, infatti, a non mostrarsi direttamente per quello che è. La sua necessità di manifestarsi nelle vesti di una grandezza assoluta e di una proprietà naturale e concreta dei prodotti, in vesti, cioè, che nascondono la sua natura di grandezza media e di rapporto sociale fra produttori, dipende dal suo stesso statuto logico e ontologico di astrazione. Per esistere realmente, per essere valore reale, l’astratta quantità di tempo di lavoro socialmente necessario deve presentarsi come una quantità concreta e finita di materia. Deve incarnarsi.


A determinare il fatto che i rapporti sociali manifestano se stessi in una forma materiale e reificata – come cose – è la conformazione dei rapporti sociali medesimi. La confusione categoriale del metafisico Proudhon è una confusione «oggettiva», «socialmente valida». Per questo la condividono con lui con anche gli economisti borghesi che egli vorrebbe criticare, dai grandi classici agli epigoni più volgari. Essa definisce il punto di vista della scienza dell’epoca così come del suo senso comune, del mainstream così come della coscienza protestataria.


A questo punto deve ormai essere del tutto chiaro che tali tentativi [di riforma monetaria] rimarranno ciarpame finché si mantiene la base del valore di scambio, e che anche l’illusione che sia il denaro metallico a falsare lo scambio risulta da una totale ignoranza della sua natura. D’altro canto è chiaro pure che nella misura in cui aumenta l’opposizione ai rapporti di produzione dominanti e questi stessi premono più energicamente in direzione di un mutamento di epidermide, la polemica si dirige contro il denaro metallico o il denaro in generale in quanto è il fenomeno più appariscente, più contraddittorio e più crudo in cui il sistema si presenta in forma tangibile … Si percuote il sacco ma per colpire l’asino. Ma finché l’asino non si accorge dei colpi dati al sacco, in realtà si colpisce soltanto il sacco e non l’asino … Finché le operazioni sono dirette contro il denaro in quanto tale, si tratta soltanto di un attacco alle conseguenze le cui cause continuano a sussistere.20


L’abbaglio del denaro irretisce l’intera società borghese. Nell’ultimo Marx, la critica dell’antisemitismo non è più rivolta soltanto a determinate costruzioni teoriche: mira direttamente alla realtà pratica che le occasiona.


8.2. Astrazione

Lo storico canadese Moishe Postone fa osservare che le caratteristiche del potere che il moderno immaginario antisemita attribuisce agli ebrei – «astrattezza, intangibilità, universalità, mobilità» – corrispondono perfettamente a quelle con cui Marx qualifica il valore e il capitale.21


Nei timori degli antisemiti, gli ebrei dominano larvatamente il mondo attraverso una rete internazionale occulta. Sebbene immenso, il loro potere non si lascia vedere, né dà a intendere da dove provenga. Ha una natura misteriosa, sinistra, «sensibilmente sovrasensibile». La sua fonte non è legata ad alcun territorio definito, né dipende da una forza fisica concreta, sia produttiva o militare. Il dominio mondiale degli ebrei non si manifesta direttamente, bensì al modo di una forza metafisica che non è identica con i fenomeni, sta dietro i fenomeni, ne è velata e al tempo stesso determina il loro corso.


La fase londinese della riflessione economica di Marx può essere detta metafisica o speculativa perché fra i suoi risultati più notevoli vi è una «dottrina storica della realtà sociale dell’universale astratto».22 Vale a dire che la teoria sociale sviluppata in questi anni non rifiuta per principio le astrazioni concettuali in quanto idealistiche. Semmai si fonda sul loro impiego: riconosce all’astrazione un potere oggettivo, reale, ed è intesa a illustrare la genesi storica di tale forma di potere e la sua espansione geografica. La critica dell’economia politica si avvale delle categorie più elementari e astratte di questa scienza per descrivere la società borghese come un «sistema» di rapporti impersonali di dominio e dipendenza sociale.23 Indaga la costituzione storica e logica di questo sistema universale – il capitale – per dare conto dell’angosciosa esperienza dell’individuo moderno di stare nella società come in un campo di forze estranee, destabilizzanti e imperscrutabili.


Il cardine sistematico della teoria dell’ultimo Marx è il concetto economico del valore, cioè il concetto di una cosa affatto immateriale. In quanto assolutamente distinto dal valore d’uso, dal corpo fisico delle merci, il valore viene descritto come la loro anima metafisica. Come si spiega tale stranezza? Il filosofo materialista è forse diventato, con l’avanzare dell’età, un economista spiritualista? A prima vista sembrerebbe di sì. «A prima vista» – scrive – «una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e capricci teologici».24


Le opere mature di Marx non presentano l’atteggiamento antifilosofico e la metodologia empiristica che caratterizzano i suoi scritti materialisti giovanili. Riconoscono invece che per rappresentare il capitale come sistema, come un complesso internamente articolato e autoriproducentesi di rapporti sociali, non è sufficiente limitarsi a osservare le sue molteplici manifestazioni. Se dei fenomeni economici si vuol mostrare anche il nesso sistematico, il principio della loro interdipendenza, è necessario procedere con un metodo specifico, distinto da quello dell’indagine empirica.


Certo, il modo di esporre un argomento deve distinguersi formalmente dal modo di compiere l’indagine. L’indagine deve appropriarsi il materiale nei particolari, deve analizzare le sue differenti forme di sviluppo e deve rintracciarne l’interno concatenamento. Solo dopo che è stato compiuto questo lavoro, il movimento reale può essere esposto in maniera conveniente. Se questo riesce, e se la vita del materiale si presenta ora idealmente riflessa, può sembrare che si abbia a che fare con una costruzione a priori.25


Il problema di dare forma scientifica alla rappresentazione di una totalità concreta conduce Marx a porre in questione i presupposti ingenuamente empiristici del materialismo storico. Il metodo espositivo impiegato nelle opere mature, che parte dai concetti più elementari e astratti per svilupparne progressivamente le contraddizioni immanenti, sembra quasi avvicinare il suo progetto scientifico a quello dell’apprendista dialettico Proudhon: costruire con la sola forza della logica un Sistema delle contraddizioni economiche. Se nella Misera della filosofia rimproverava al francese un uso «metafisico» delle categorie economiche «che conferisce loro la parvenza di essere di fresco sbocciate dal cervello della ragion pura» e di «generarsi le une dalle altre, concatenarsi e intersecarsi le une nelle altre, attraverso il solo lavorìo del movimento dialettico»; se lo accusava di ridurre l’evoluzione storica della realtà a un puro movimento formale di concetti («mors immortalis») e di «affogare l’intero mondo reale nel mondo delle astrazioni»;26 sarà lui stesso, vent’anni dopo, in un poscritto metodologico al primo libro del Capitale, a giustificare l’apriorismo dell’esposizione dialettica come soltanto apparente rivendicandone la capacità di rispecchiare idealmente «la vita del materiale».


Ha dunque cambiato idea? Non davvero. In realtà Marx non è diventato spiritualista. E nemmeno ha dato ragione a Proudhon. La critica dell’economia politica si mantiene sostanzialmente fedele ai principi del materialismo storico elaborati in gioventù. Ma non manca di sottoporli a una revisione radicale. Alla base di tale revisione può essere individuata un’articolazione più raffinata e complessa del concetto di astrazione, frutto di una rinnovata ricezione della logica trascendentale di Kant e di quella dialettica di Hegel.27 Questo sviluppo teorico è documentato nei Grundrisse. Qui l’astrazione non viene più criticata dal punto di vista ingenuamente nominalista dei decenni precedenti come una costruzione puramente intellettuale dei filosofi, priva di vita e contenuto reale. Viene invece riconosciuta come uno strumento necessario per la conoscenza del complesso concreto dei rapporti sociali dell’epoca, come l’unico modo per la coscienza di appropriarsi del mondo oggettivo, l’unico medio possibile per la rappresentazione di una totalità. In quanto consente «la riproduzione del concreto nel cammino del pensiero», l’astrazione ottiene una nuova centralità metodologica.28 Lungi dall’essere liquidata come una chimera avulsa dalla realtà concreta, l’astrazione concettuale viene pensata qui come «un concreto di pensieri» («ein Gedankenkonkretum»), come concrezione spirituale, come sintesi intellettuale di una molteplicità reale. Viene valorizzata come una forma di pensiero – l’unica – capace di afferrare in maniera sintetica la realtà concreta, l’unità del molteplice, la totalità delle determinazioni. Parafrasando una nota formula hegeliana si può dire che l’astrazione è la sua epoca, appresa in pensieri.29


Tuttavia, pur essendosi «professato apertamente scolaro di quel grande pensatore», Marx non cessa di ribadire la propria distanza da Hegel e dalla sua dialettica idealistica.30 In tal senso tiene a precisare che l’astrazione concettuale è soltanto uno strumento conoscitivo: è il modo in cui la coscienza s’impossessa dell’oggetto concreto traducendolo in un oggetto di pensiero, ma in nessun caso può essere pensata come sua artefice o causa efficiente.


Hegel cadde nell’illusione di concepire il reale come risultato del pensiero che si riassume e si approfondisce in se stesso e che si muove per energia autonoma, mentre il metodo di salire dall’astratto al concreto è per il pensiero solo il modo in cui esso si appropria del concreto, lo riproduce come qualcosa di spiritualmente concreto. Mai e poi mai è però il processo di formazione del concreto stesso.31


Nondimeno, aver ribadito la distinzione fra la concatenazione logica dei concetti e il processo genetico in cui si è storicamente costituito il loro contenuto oggettivo non gli impedisce di riconoscere alle categorie astratte dell’economia politica una loro specifica validità e oggettività quali determinazioni formali della reale esistenza della società moderna. Non gli impedisce di riconoscere alle astrazioni una loro specifica realtà.


«Il valore delle merci», scrive nella critica della riforma monetaria progettata da Darimon, «appare come un’astrazione esteriore … che però è molto reale».32 L’idea di rappresentare direttamente il valore delle merci per mezzo di un denaro-lavoro è destinata a fallire perché il valore, a differenza di quel che crede Darimon, non è una proprietà del singolo prodotto immediatamente quantificabile, bensì è anche un rapporto sociale di produzione: tempo di lavoro socialmente necessario. Quel che appare come una proprietà del singolo prodotto del lavoro è in realtà un rapporto fra le diverse velocità a cui i molteplici produttori sono in grado di realizzare i loro prodotti, la media aritmetica dei loro tempi di lavoro. In quanto tale, il valore è una mera astrazione. Ma non per questo è meno reale. Il tempo di lavoro socialmente necessario è la legge che prescrive ai loro produttori come devono lavorare: più veloce! Non è forse una legge reale? Eccome. La sua realtà viene percepita tutti i giorni da miliardi di lavoratrici e lavoratori sulla propria pelle – pure se delle astrazioni degli economisti non hanno mai neanche sentito parlare. x o y ore di lavoro, x o y litri di sangue umano «socialmente necessario». Per comprendere le fantasie eliminazioniste dei socialisti proudhoniani, Marx inizia a porsi il problema di un’astrazione, «che però è molto reale».


Come può il valore – una mera grandezza ideale, per giunta impossibile a misurarsi se non a posteriori e con ampio margine d’imprecisione – esercitare il suo comando nella realtà? Da dove trae la forza con cui impone la sua ferrea legge sopra tutti i continenti? Che significa che un’astrazione è reale?


Anche in questa fase della sua ricerca Marx si conferma un pensatore materialista. La questione metafisica e speculativa circa la realtà dell’astrazione viene posta bensì in primo piano, ma viene posta come tramite discorsivo per approssimarsi alla formulazione di un’altra questione, equivalente e pure assai più profana e materiale: la questione di come la società borghese si conservi in vita. È evidente infatti che questa società, bene o male, sopravvive e si riproduce. Meno evidente è come ciò sia possibile. Dal momento che i suoi membri sono liberi di produrre se, quando, quali e quante merci desiderano, che i loro lavori privati non sono determinati da alcun bisogno specifico, né da alcuna autorità, né da un piano sociale della produzione elaborato sulla base di una conoscenza complessiva dei molteplici bisogni; non è chiaro come sia possibile che si verifichi quella corrispondenza fra produzione e consumo che consente la sopravvivenza collettiva. Chi assicura questa corrispondenza? Com’è possibile che ciò che serve alla vita della società venga prodotto in quantità sufficiente (o quasi), e che tutto ciò che viene prodotto (o quasi) si riveli effettivamente servibile alla vita della società? La questione si fa particolarmente urgente quando l’equilibrio fra produzione e consumo viene meno, quando scoppia una crisi. Chi è il colpevole? Rispondere a queste domande metafisiche e insieme materiali è quanto si propone la teoria del valore di Marx.


Il valore esiste al modo di una legge non scritta. È la «mano invisibile» che regola la riproduzione materiale della società borghese sopperendo all’assenza di un’organizzazione razionale della produzione. È il coordinatore cieco e demiurgico della divisione sociale del lavoro, il bilanciere della domanda e dell’offerta, il motore delle oscillazioni dei prezzi. La legge del valore sovrintende alla ripartizione della ricchezza prodotta fra i membri della società. Garantisce che essa sia equa. Stabilisce quanto spetta a ciascuno: non ciò di cui ha bisogno, né una quantità di beni corrispondente al lavoro che ha effettivamente svolto, bensì una quantità di beni corrispondente alla parte che il suo lavoro si rivela a posteriori aver avuta nel processo generale della riproduzione della società. Si tratta di una legge, invero un po’ contorta, che non è stata decretata da alcuna istituzione umana. Non è sorta per via deliberativa, come un contratto sociale o una convenzione razionale. Certamente sono gli uomini e le donne a crearla attraverso il loro comportamento sociale – chi altri? Ma la legge del valore si impone per così dire alle loro spalle, al modo di una legge di natura, una legge fondata cioè sull’inconsapevolezza di coloro che le sono soggetti.


I proudhoniani concepiscono il valore di scambio delle merci come un prodotto del lavoro concreto svolto dagli individui. In realtà, il prodotto immediato dei diversi lavori concreti svolti dagli individui (per esempio la sartoria o la metallurgia estrattiva) consiste in una gran varietà di valori d’uso differenti (abiti, oro, eccetera). Un valore di scambio uniforme viene attribuito dagli individui ai loro prodotti soltanto in un secondo momento, appunto in vista dello scambio. L’equivalenza dello scambio si basa sul fatto che essi, facendo astrazione dai valori d’uso qualitativamente diversi dei loro prodotti, prendono a considerarli come altrettanti frammenti di un’unica sostanza indifferenziata (tertium comparationis), come altrettante quantità del medesimo valore. Considerati nella specificità del loro valore d’uso, l’oro e l’abito sono evidentemente prodotti di lavori molto diversi eseguiti da diversi individui. Ma come merci equivalenti, fatte per essere scambiate, l’oro e l’abito rappresentano due prodotti di un unico lavoro sociale privo di qualità specifiche. È questa astratta omogeneità a garantire la convertibilità di merci eterogenee.


Il lavoro che crea valore di scambio, in quanto è indifferente nei riguardi della particolare materia dei valori d’uso, lo è anche nei confronti della forma particolare del lavoro stesso. I differenti valori d’uso sono inoltre prodotti dall’attività di individui differenti, sono dunque il risultato di lavori individualmente differenti. Ma come valori di scambio rappresentano lavoro uguale, indifferenziato, ossia lavoro in cui è cancellata l’individualità di chi lavora. Il lavoro che crea valore di scambio è quindi lavoro astrattamente universale.33


Gli individui possono anche non esserne consapevoli, ma nel momento in cui equiparano i propri eterogenei prodotti come valori di scambio uniformi, «come puri involucri materiali di lavoro umano omogeneo», essi in realtà stanno mettendo in relazione i loro diversi lavori riducendoli a un unico, semplice e medesimo lavoro umano uniforme, a un omogeneizzato di Lavoro. «Non sanno di far ciò, ma lo fanno».34


Per misurare i valori di scambio delle merci in base al tempo di lavoro in esse contenuto, i differenti lavori dovranno essi stessi essere ridotti a lavoro semplice, indifferenziato e uniforme … Questa riduzione sembra un’astrazione, ma è un’astrazione che nel processo sociale della produzione si compie ogni giorno … Il lavoro, così misurato mediante il tempo, non appare infatti come il lavoro di soggetti differenti, bensì i differenti individui che lavorano appaiono invece come semplici organi del lavoro.35


Lavoro – questo lavoro genericamente umano, indifferenziato, senza caratteristiche distintive, privo di materiali, tecniche, strumenti e fini produttivi specifici; questo mero «dispendio produttivo di muscoli nervi, cervello ecc., umani» in cui «è cancellata l’individualità di chi lavora»; questo lavoro che «non appare come il lavoro di soggetti differenti», del quale semmai «i differenti individui che lavorano appaiono come semplici organi» – Lavoro è dunque un’astrazione reale. È un’astrazione in quanto non ha alcuna esistenza autonoma osservabile empiricamente al di fuori delle molteplici attività produttive svolte dagli individui, che sono sempre attività concretamente determinate. Ma è reale in quanto è la forma che queste attività produttive devono assumere per entrare in rapporto l’una con l’altra, il principio della loro inconsapevole organizzazione sociale.


I diversi lavori concretamente svolti dai produttori di merci non sono attività direttamente sociali. Sono lavori per definizione privati, eseguiti cioè in modo libero, autonomo, anarchico, indipendentemente l’uno dall’altro. Soltanto mediante lo scambio essi diventano attività sociali. Vale a dire che i diversi lavori eseguiti dagli individui entrano in rapporto l’uno con l’altro e si qualificano come contributi al benessere collettivo non per quel che essi sono e per ciò che concretamente producono, ma soltanto in guisa di parti aliquote di un’unica sostanza, di un unico Lavoro. Questa astrazione dal proprio contenuto e dalle proprie qualità è l’unico modo in cui il lavoro dell’individuo può sperare di vedersi riconosciuto (e retribuito) quale parte integrante della produzione sociale.36


Il tempo di lavoro socialmente necessario è una grandezza puramente ideale: è la media aritmetica dei molteplici tempi di lavoro individuali. Tuttavia, ai fini della loro comparazione come valori di scambio, i molteplici tempi di lavoro individuali non esistono che come altrettante porzioni di tempo di lavoro socialmente necessario. E così come la sua durata media, anche il «lavoro» stesso non è altro che un’astrazione ideale. Infatti non vi è alcun lavoro che non sia al contempo sartoria, oreficeria o qualche altra attività produttiva specifica. Ma come fatto socialmente rilevante, ciascuna di queste attività vale solo come anonima rappresentante di «lavoro». La riduzione di ogni attività umana a «lavoro» sembra solo un’astrazione, «ma è un’astrazione che nel processo sociale della produzione si compie ogni giorno». Il lavoro astratto è qualcosa di reale perché degrada realmente le specificità e i fini di ogni attività umana a mere modalità della propria esistenza universale. Che io scriva un libro su questo o quell’argomento, che guidi un taxi o fabbrichi calzature, non fa alcuna differenza. Posso forse illudermi soggettivamente sulla natura specifica, individuale, libera della mia attività. In realtà, oggettivamente, sto soltanto lavorando. L’esistenza oggettiva del particolare concreto è ridotta a quella di un’ombra dell’universale astratto.


Che una semplice astrazione concettuale giunga a impossessarsi del mondo concreto e a modificare oggettivamente, con potere impalpabile, la struttura materiale del lavoro umano e dei suoi prodotti – questo è «l’arcano» della merce che Marx si propone di dissolvere.37 L’usurpazione del concreto da parte dell’astratto, del valore d’uso da parte del valore di scambio, di ogni umana attività da parte di Lavoro, è un’usurpazione reale, misteriosamente materiale. Il processo metafisico in cui l’universale astratto acquisisce realtà trasformando il mondo concreto in una propria incarnazione non è altro che il reale processo storico di universalizzazione della produzione di merci, rappresentato in concetti; appreso in pensieri. È la strategia argomentativa con cui Marx prova a rendere intelligibili le trasformazioni sociali della modernità e l’espansione mondiale del dominio del modo di produzione capitalistico: «la riproduzione del concreto nel cammino del pensiero». L’analisi della merce mette a nudo la struttura logica della circostanza storica che l’attività dell’uomo, il suo proprio lavoro, gli sta di fronte come qualcosa di estraneo e oggettivo, di inumano, come una cosa, una cosa ignota e insieme sinistramente familiare, come qualcosa di perturbante che lo domina con un potere invisibile e intangibile, astratto però reale: «sensibilmente sovrasensibile», universale, oscuramente metafisico, imperscrutabile e assolutamente soverchiante.38


Nella teoria del lavoro astratto va vista certamente una prosecuzione delle riflessioni parigine sul tema dell’alienazione, ma anche un suo radicale ripensamento. Nel 1844 Marx prendeva le mosse «da un fatto dell’economia politica, da un fatto attuale» – la miseria delle classi lavoratrici – per approdare a una tesi filosofica, cioè l’alienazione dell’essenza dell’uomo.39 Nei cinquanta e sessanta procede all’inverso: comincia da un problema metafisico – il valore immateriale delle merci, la realtà dell’astrazione – per costruirvi intorno una rappresentazione concreta dell’insieme dei rapporti sociali dell’epoca. Ma non si tratta di una semplice inversione del senso dell’argomentazione, di rilievo soltanto metodologico. Il ripensamento riguarda anche il contenuto dell’argomentazione, tocca il suo nucleo politico, economico, filosofico, finanche teologico. Insomma è la tesi centrale a uscirne stravolta.


In entrambi i casi – così nei Manoscritti economico-filosofici come nella critica dell’economia politica – si tratta di spiegare perché la società moderna esperisce il prodotto del proprio lavoro (in ultima analisi, quindi, se stessa) come un potere estraneo. Le spiegazioni offerte però sono molto diverse: mentre il Marx precritico identifica il soggetto di tanto sinistro potere nel dio Denaro, quello maturo lo individua nell’idolo Lavoro.


Sulla scorta delle teorie di Feuerbach, i Manoscritti descrivevano il problema del lavoro moderno in termini di alienazione. Gli individui separano da sé le proprie prerogative umane, la propria forza e creatività, la propria socialità e comune umanità, insomma la propria stessa essenza (Gattungswesen) per proiettarla su di un oggetto esterno il quale diventa, perciò stesso, oggetto di venerazione e come tale soggetto onnipotente. La svolta materialistica del giovane Marx era consistita nel sostituire il denaro contante al Dio della tradizione religiosa criticata da Feuerbach nelle veci di questo (s)oggetto.


La possanza divina del denaro consist[e] nella sua essenza, ossia nell’essenza specifica degli uomini alienata, estraniata e deprivata. Il denaro è il potere espropriato dell’umanità.40


A differenza di Dio, gli idoli e i feticci sono fatti dalle mani dell’uomo. Gli scritti economici londinesi continuano a cercare l’origine della minaccia che pende sulla soggettività degli esseri umani e la rintracciano nel loro stesso lavoro: nella forma sociale del loro lavoro e nel lavoro come forma esclusiva della loro socialità, nel «lavoro in generale», nel lavoro astratto quale concretissimo principio organizzativo della loro vita sociale. Il problema non sta più nel fatto che il lavoro umano viene alienato nel denaro. Al contrario. Proprio perché è lavoro umano, universalmente e genericamente umano, astratto dalle sue qualità concrete individuali, il lavoro appare alienato dal suo soggetto concreto. Il motivo per cui l’individuo moderno percepisce la propria attività produttiva come un potere estraneo che lo schiaccia è che la socializzazione di tale attività avviene sistematicamente attraverso l’astrazione dal suo contenuto concreto, la negazione della sua specificità individuale, la sua riduzione a mero «dispendio produttivo di muscoli nervi, cervello ecc., umani», la sua idolatrica elevazione a Lavoro. La società borghese non viene più concepita come un «sistema del denaro», quale quello teorizzato negli anni parigini, bensì come un sistema di lavoro.41


Il duplice carattere del lavoro che produce merci – concreto e astratto, privato e sociale al medesimo tempo – viene rivendicato da Marx come la propria scoperta scientifica più decisiva: «questo punto è il perno intorno a quale ruota la comprensione dell’economia politica».42 Forma il nocciolo del concetto di capitale, il quale indica l’esperienza collettiva di straniamento nel lavoro e l’apparente predominio del denaro come riflessi inevitabili della produzione industriale di merci.


8.3. Feticismo

Una volta chiarito che l’esperienza alienante del lavoro moderno non dipende dal potere del denaro, bensì dalla contraddizione del lavoro con se stesso, si tratta di capire come mai l’opposto appaia vero alla coscienza dei più. È questo il problema centrale della teoria marxiana del feticismo – una teoria della costituzione sociale della coscienza soggettiva e allo stesso tempo una teoria della parvenza oggettiva del mondo sociale.


Nel significato allora corrente, il termine «feticismo» indicava la devozione pagana tributata a idoli e statuette ai quali, seppure oggetti inanimati prodotti dagli uomini, questi ultimi attribuiscono vita propria e autonome attività. Per comprendere il ricorso a questa categoria delle scienze religiose nell’ambito di uno studio scientifico sull’economia politica moderna bisogna cogliere il suo senso caratteristicamente semiserio. Si tratta di un concetto con cui l’etnografia dei conquistatori europei usava riferirsi ai culti religiosi delle popolazioni sottomesse in Africa e nelle Americhe, considerate barbare e primitive.43 Per un verso Marx si serve dell’ironia per operare uno spostamento del punto di osservazione tradizionale e rivolgere lo sguardo etnografico del colonialismo europeo verso la società europea medesima al fine di mettere a nudo, a dispetto di tutte le mitologie cristiane e secolari del progresso, la sua propria barbara e primitiva costituzione. D’altro canto invece non scherza affatto, ma in tutta serietà si riallaccia alla critica biblica dell’idolatria, quasi ad attualizzare lo sdegno degli antichi profeti contro Baal e il vitello d’oro per la sua critica dell’esaltato e cannibalesco delirio capitalistico, avodah zarah.


Alle riflessioni giovanili sull’alienazione del lavoro nella società moderna – una condizione in cui gli uomini e le donne che lavorano percepiscono se stessi non come soggetti e padroni della loro propria attività, ma come oggetti inermi e passivi della medesima – la teoria del feticismo aggiunge un’analisi del processo storico di reificazione dei rapporti sociali e del processo parallelo di soggettivazione delle cose. Un processo nel quale i prodotti del lavoro diventano sempre più autonomi e indipendenti dai loro produttori, mentre le gerarchie sociali e i rapporti di dominio fra i produttori si presentano, transustanziati, nella forma impersonale, oggettuale, naturale e materiale di cose, res extensae: merci, denaro, capitale.


Inoltre, l’esistenza di merci, ed ancora di più di merci in quanto prodotto di capitale, implica l’oggettivazione delle determinazioni sociali della produzione e la soggettivazione dei fondamenti materiali della produzione, che caratterizzano l’intero modo di produzione capitalistico.44


Un tavolo è un tavolo. Quando si presenta sotto forma di merce, tuttavia, il tavolo – e come il tavolo ogni altro prodotto del lavoro umano e ogni altra conquista della civilizzazione – manifesta una natura ambivalente, infida, sensibilmente sovrasensibile.45 Caratterizza un tavolo come merce il fatto di essere atto non soltanto ad appoggiarci sopra altri oggetti, secondo il suo evidente valore d’uso, ma anche a essere scambiato con altre merci, secondo il suo valore. Questa seconda proprietà è meno evidente della prima. Anzi, non è affatto visibile, né tangibile. Il valore è una proprietà «immateriale», «metafisica», «mistica», «fantasmagorica» – così si esprime il materialista Marx a proposito della nozione cardinale della sua teoria economica – del tavolo.


Il rozzo materialismo degli economisti, che si risolve nel considerare qualità naturali delle cose i rapporti sociali di produzione degli uomini … è un idealismo altrettanto rozzo, anzi un feticismo che attribuisce alle cose dei rapporti sociali come loro determinazioni immanenti, e così le mistifica.46


Abbozzata nei suoi lineamenti fondamentali già a partire da Grundrisse, la teoria del feticismo otterrà la sua espressione più compiuta e articolata all’inizio del primo libro del Capitale. Il capitolo su «Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano» rappresenta una sorta di premessa gnoseologica a quell’opera. Ha la funzione di chiarire il rapporto fra la critica marxiana e la scienza che ne è l’oggetto: l’economia politica. Gli autori classici di questa disciplina – Smith e Ricardo su tutti – sono giunti a formulare un concetto adeguato e oggettivo del valore. Hanno scoperto, cioè, che il valore delle merci è dato dal lavoro umano e che la sua grandezza è determinata dal tempo di lavoro in esse contenuto. Solo che non sanno perché. Nessuno di loro si è


mai posto neppure il problema del perché quel contenuto assuma quella forma, e dunque del perché il lavoro rappresenti se stesso nel valore, e la misura del lavoro mediante la sua durata temporale rappresenti se stessa nella grandezza di valore del prodotto del lavoro.47


Poiché esclude metodologicamente il problema della genesi storica delle sue proprie categorie fondamentali, l’economia politica non si rende conto che esse sono bensì «forme di pensiero oggettive», valide, ma soltanto nell’ambito della società borghese e della produzione capitalistica di merci. Finisce così per considerarle come categorie trascendentali, come forme eterne, naturali e necessarie, mentre invece esse «portano segnata in fronte la loro appartenenza a una formazione sociale nella quale il processo di produzione padroneggia gli uomini e l’uomo non padroneggia ancora il processo produttivo».48 L’apparente autonomia dei prodotti del lavoro umano rispetto ai loro produttori pregiudica l’analisi scientifica degli economisti borghesi. Avviluppata nella rete dell’astuzia demoniaca dei suoi oggetti, l’economia politica rimane, a dispetto della sua oggettività e di tutti i suoi progressi scientifici, anzi: proprio in virtù della sua oggettività e dei suoi progressi scientifici, una forma di sapere mitico.


Ma il feticismo non è un problema solamente epistemologico. È un problema pratico. Che i rapporti sociali entro cui gli uomini lavorano si presentino ai loro occhi come rapporti fra cose, le proprietà del lavoro umano come proprietà oggettive delle merci, che insomma il dominio e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo appaia fondato nella natura delle cose, è una parvenza necessaria. «Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci».49 Poiché la società borghese non domina la riproduzione materiale della propria esistenza, ma è invece nel suo complesso sottomessa all’idolo Lavoro e preda della sua cieca coazione a perseguire l’incremento indefinito della produzione, la produzione per il fine della produzione, è inevitabile che le leggi che regolano tale processo le appaiano non come prodotti della sua propria attività, bensì come leggi naturali o divine che la dominano. Alla permanenza dell’umanità in questa condizione di soggezione a una dinamica cieca e destinale non è possibile porre fine mediante un processo di illuminismo soltanto teorico, quale è quello inteso dalla critica della religione e dai teorici borghesi dell’emancipazione moderna. Tale soggezione è infatti fondata non tanto, o almeno non soltanto, nella coscienza delle donne e degli uomini, ma in quello che fanno, nella loro prassi, nella parvenza oggettiva dei loro rapporti sociali. Il feticismo delle merci e del Lavoro, la forma più moderna e universale di idolatria mai praticata dall’umanità, ha una natura pratica, cultuale piuttosto che teologica, e non conosce giorni feriali.50 È un rituale reiterato quotidianamente e senza tregua nei campi e nelle officine della società borghese, e solo in seconda istanza si presenta nella forma dottrinale e «metafisica» dell’economia politica.


Prima di Marx aveva già riflettuto sull’esistenza di parvenze ingannevoli eppure necessarie il padre del concetto moderno di critica Immanuel Kant. Marx fa propria questa nozione centrale della critica kantiana della conoscenza per volgerla nel senso di una teoria critica della società. Proprio come le parvenze trascendentali di Kant, così anche quelle feticistiche criticate da Marx non sono illusioni «in cui si irretisca, per incompetenza, un improvvisatore», né sono «il frutto delle artificiose elucubrazioni di un sofista per trarre in inganno le persone di buon senso». Kant riconduceva le parvenze ingannevoli a una «dialettica inscindibilmente connessa con l’umana ragione, sicché, anche dopo il chiarimento della sua infondatezza, non cesserà per questo di sedurre la ragione».51 Le parvenze di cui si occupa Marx sono altrettanto necessariamente ingannevoli, ma storicamente determinate, «socialmente valide» e «oggettive» più che trascendentali, tali cioè che emergono dall’oggettività sociale stessa prima di comparire nella coscienza soggettiva dei suoi osservatori. Esse però si presentano come forme eterne e per così dire apriori del pensiero perché definiscono la struttura cognitiva di tutti i soggetti che vivono e lavorano nell’ambito della società borghese, scambiando merci. Lungi dall’essere arbitrarie o superstiziose, le illusioni del feticismo hanno un solido fondamento nell’oggettività della struttura sociale da cui emergono. Sulla nozione di questa sorta di illusioni per così dire socialmente trascendentali, parvenze ingannevoli eppure valide e oggettive della produzione capitalistica, si fonda una vera e propria critica materialista della conoscenza. Nella fase matura della sua riflessione economica Marx sviluppa una teoria della costituzione storica e sociale della coscienza e delle sue forme a priori; una teoria che riconduce le determinazioni formali e categoriali del pensiero all’oggettività dei rapporti sociali dell’epoca. Questa critica insieme sociale e gnoseologica istituisce una relazione sistematica fra il contenuto rappresentativo dell’autocoscienza economica della società moderna e il contesto materiale entro cui tale coscienza prende storicamente forma.


Nella polemica coi socialisti proudhoniani e il loro programma di abolizione del denaro, Marx scrive: «Non è il denaro che genera queste antitesi e contraddizioni; è invece lo sviluppo di queste contraddizioni e antitesi che genera la potenza apparentemente trascendentale del denaro».52 Con questo termine tecnico della filosofia kantiana Marx intende dire che le forme fenomeniche assunte dai rapporti sociali nella sfera della cricolazione costituiscono vere e proprie forme di pensiero, forme a priori dell’intelletto economico – «a priori» perché non risultano semplicemente dall’esperienza, ma piuttosto organizzano e strutturano l’esperienza della vita sociale moderna. Sono le sue reali condizioni di possibilità. Alla sintesi conoscitiva operata dalle astrazioni concettuali dell’economia politica corrisponde, nel mondo materiale e oggettivo, la sintesi sociale operata dal valore, l’organizzazione della molteplicità di lavori privati affidata all’astrazione «lavoro umano» cristallizzata in denaro. La realtà sociale dell’universale astratto si spinge infatti fino al punto in cui questo ottiene un’esistenza materiale, fino al denaro. È solo in questa forma fenomenica che il lavoro astratto si rende conoscibile: quando ormai è del tutto irriconoscibile. «L’enigma del feticcio denaro è soltanto l’enigma del feticcio merce divenuto visibile e che abbaglia l’occhio».53


Il giovane Marx rimproverava a Feuerbach di conoscere la realtà soltanto mediante la sua dissoluzione in categorie astratte, attraverso «gli occhiali del filosofo».54 In questa metafora era già udibile l’eco di un noto esempio kantiano. La teoria del feticismo torna a tematizzare le forme costitutive del pensiero e ne individua l’origine nella costituzione del nesso sociale fra i soggetti conoscenti. Mostra il fondamento reale e oggettivo delle astrazioni del pensiero nel lavoro astratto quale principio pratico di organizzazione della riproduzione sociale. Le questioni metodologiche ed epistemologiche della critica dell’ideologia ricompaiono, nella critica dell’economia politica, come questioni propriamente metafisiche. La coscienza cristiana e tedesca di un Bruno Bauer, un Feuerbach, un Proudhon, che ama formulare i propri concetti puri astraendo dalla realtà che la circonda per poi interpretare la realtà che la circonda come un’incarnazione dei suoi concetti puri, trova qui un fondamento oggettivo e universale nella produzione di merci. Si rivela una forma di pensiero determinata dal processo reale e quotidiano di astrazione «tedesca» dal contenuto concreto del lavoro e ipostasi «cristiana» del lavoro astrattamente umano nel valore delle merci e nel denaro, di reificazione dei rapporti sociali e soggettivazione feticistica delle cose. L’ideologia tedesca e cristiana dunque non è più né particolarmente tedesca, né particolarmente cristiana, e nemmeno semplicemente ideologia: è concepita e criticata come un feticismo universale e oggettivo.


L’arcano della merce consiste precisamente nel fatto che i membri della società borghese percepiscono come proprietà oggettuali delle cose esterne ciò che mancano di riconoscere come proprietà sociali del proprio lavoro. La svolta copernicana operata da Kant nell’ambito della teoria della conoscenza riconduce al soggetto ciò che questo è indotto dalle illusioni trascendentali a predicare delle cose in sé; restituisce al soggetto conoscente la sua propria autonomia e spontaneità. Similmente, anche la rivoluzione copernicana della questione sociale operata da Marx critica un’ipostasi, ossia la confusione della parvenza reificata in cui i rapporti sociali di produzione si manifestano nella sfera della circolazione con i rapporti sociali medesimi, del fenomeno con l’essenza. Dimostra come propri dei produttori di merci quei caratteri sociali che essi sono indotti dal feticismo ad attribuire ai loro prodotti. Il dominio del denaro sul lavoro non è una superstizione arbitraria di qualche ideologo marginale. È una parvenza trascendentale, un’illusione che scaturisce necessariamente dalla struttura formale socialmente determinata della coscienza dei produttori di merci.


Il potenziale esplicativo della teoria marxiana del feticismo nei confronti del fenomeno antisemita è stato colto con la massima chiarezza da Moishe Postone. Secondo lo storico canadese, questa teoria consente di superare la rigida alternativa fra spiegazioni di carattere ideologico o psicologico e spiegazioni socio-economiche in quanto fornisce il «quadro di riferimento storico-epistemologico» entro cui connettere le une alle altre. Porta alla luce il nesso che unisce la concezione dualistica, manichea e antisemita del «capitalismo» alla struttura oggettiva di quel modo di produzione. Postone considera l’antisemitismo moderno consistere essenzialmente in una forma di protesta sociale nella quale l’ebreo figura come una personificazione del potere astratto e universale del capitale. La teoria del feticismo lo aiuta a spiegare perché, dal canto suo, il potere astratto e universale del capitale si manifesti alla coscienza dei più come personificato nell’ebreo.55


Ciò che distingue in linea di principio l’indagine di Marx dall’economia politica classica è il discrimine critico fra l’essenza delle cose e la loro parvenza o forma fenomenica. La rottura con il pensiero economico tradizionale è radicale: non riguarda soltanto l’una o l’altra opinione economica, ma attiene alla concezione generale di che cosa sia una scienza e quali i suoi compiti. «Ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero».56


La difficoltà principale dello studio economico della società borghese sta nel fatto che in essa i rapporti sociali di produzione non si mostrano direttamente per quello che sono. Un antico schiavo sapeva perfettamente di essere uno schiavo. La sua condizione di schiavo, cioè la sua posizione nel processo di produzione, gli appariva chiaramente in ogni momento e ogni aspetto della sua esistenza da schiavo: nel suo status giuridico, nei vincoli impostigli con coercizione immediata ed esplicita, nel suo rapporto personale con il padrone cui era sottomesso e dalla cui volontà dipendevano direttamente la sua vita e la sua morte. Nella società moderna le rispettive posizioni di dominio e dipendenza degli individui non appaiono in maniera altrettanto trasparente. Si manifestano invece per il tramite di forme impersonali, astratte e universali; vi si manifestano e al contempo ne sono velate.


La sfera di queste forme impersonali, astratte e universali nelle quali il dominio sociale si manifesta e insieme si nasconde è quella dello scambio di merci: la sfera della circolazione. Come la maggior parte delle affermazioni ironiche di Marx, va presa del tutto seriamente anche quella per cui la sfera della circolazione è «un vero Eden dei diritti innati dell’uomo» dove «regnano soltanto Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham».57 In quest’ambito infatti, in cui gli individui si rapportano gli uni agli altri come compratori e venditori di merci, le loro azioni appaiono determinate esclusivamente dalla loro libera volontà individuale. Non vi sono autorità esterne, privilegi o gerarchie sociali fisse. Tutti quanti godono di pari diritti e scambiano le loro merci (almeno in linea di principio) equamente.


La vita sociale tuttavia non si esaurisce nella sfera della circolazione. Come diviene chiaro non appena si assume il punto di vista della classe lavoratrice vessata, questo Eden dei diritti umani è soltanto la superficie immediatamente visibile della società: la pubblica piazza del mercato illuminata dalla luce del sole. Se il merito scientifico degli economisti classici è stato quello di indagare e concettualizzare le forme fenomeniche della produzione capitalistica visibili in superficie, di sistematizzare la sfera della circolazione, il compito della critica consiste nel penetrare questa superficie manifesta per portare alla luce l’essenza nascosta nell’oscurità degli opifici, nel cuore produttivo della società borghese. Per «essenza» Marx intende dunque i rapporti sociali entro cui avviene la produzione e riproduzione della vita materiale. Sono invece «parvenze» le forme politiche, giuridiche, culturali e ideologiche nelle quali questo processo si dà a conoscere pubblicamente. In particolare sono parvenze o forme fenomeniche le principali categorie dell’economia politica quali merce, valore, denaro e capitale. Per conoscere il contenuto reale delle categorie economiche non è sufficiente osservare le cose che esse indicano. Bisogna procedere ad analizzare i rapporti sociali che in esse si esprimono e di cui tali cose (merci, valore, denaro, capitale) sono allo stesso tempo espressione e mascheramento, forma e deformazione. La coscienza feticista è quella che non compie questo passo critico, ma si limita a riflettere le forme fenomeniche della circolazione e non conosce altro nesso sociale al di fuori del mercato.


Quando non viene riconosciuta come tale, la duplicità inerente ai concetti economici più elementari, che sono insieme concreti e astratti e indicano allo stesso tempo oggetti materiali e rapporti sociali, dà luogo a uno sdoppiamento della coscienza. I due aspetti inscindibilmente uniti del medesimo concetto appaiono come altrettanti elementi contrapposti l’uno all’altro e indipendenti l’uno dall’altro. Da una parte le cose, dall’altra i rapporti; da una parte il valore d’uso, dall’altra il valore di scambio; da una parte la materia, dall’altra lo spirito; da una parte la natura, dall’altra la società; ecc.


Marx fa osservare che un tale sdoppiamento non avviene soltanto nella coscienza feticista dei produttori di merci, ma anche nella realtà esterna, nel regno della materia. Se il prodotto del lavoro che diventa merce si sdoppia idealmente in valore d’uso e valore di scambio, nel momento dello scambio esso si sdoppia anche fisicamente: merce da una parte e denaro dall’altra.


Per il fatto che il prodotto diviene merce, e la merce diviene valore di scambio, il primo viene ad assumere, intanto, una duplice esistenza nella mente. Questo sdoppiamento ideale comporta (e deve comportare) che nello scambio reale la merce si presenta sotto un duplice aspetto: come prodotto naturale da un lato, come valore di scambio dall’altro. Ossia il suo valore di scambio acquista un’esistenza materialmente separata da essa … Il valore di scambio distaccato dalle merci ed esistente esso stesso come una merce accanto a esse è – denaro. Nel denaro, tutte le qualità della merce in quanto valore di scambio appaiono come un oggetto differente da essa, come una forma sociale di esistenza, distaccata dalla sua forma naturale di esistenza.58


Ecco dunque che il fenomeno dello sdoppiamento delle parvenze, analizzato in precedenza come una deformazione ideologica della coscienza piccolo-borghese sull’esempio della filosofia della religione di Feuerbach e della teoria economica di Proudhon, ricompare qui in termini completamene diversi. Non si tratta più di un fenomeno meramente ideologico, bensì di un processo oggettivo e materiale: lo scambio di merci. La singola merce, portatrice di un duplice carattere quale valore d’uso e valore di scambio, si presenta nella sfera della circolazione – nel mondo dei fenomeni – letteralmente divisa in due, incarnata in due oggetti realmente differenti: il corpo naturale della merce da una parte come rappresentante del valore d’uso e il corpo del denaro dall’altra come rappresentante del valore di scambio. Inoltre non si tratta più di un fenomeno riguardante una classe o una frazione specifica della società moderna, ma l’intera collettività e la coscienza di chiunque abbia a che fare nella propria vita con merci e denaro.


Postone ricapitola questo processo di sdoppiamento nei termini seguenti:


Un aspetto del feticismo sta dunque nel fatto che i rapporti sociali capitalistici … si presentano in maniera antinomica, come opposizione dell’astratto e del concreto. Poiché, inoltre, entrambi i lati dell’antinomia sono oggettivati, ognuno di essi appare come qualcosa di quasi naturale … Le forme di pensiero anticapitalista che rimangono imbrigliate nell’immediatezza di questa antinomia tendono a percepire il capitalismo … soltanto come l’insieme delle manifestazioni della dimensione astratta dell’antinomia; così per esempio il denaro viene considerato «la radice di ogni male». Alla dimensione astratta viene quindi contrapposta positivamente quella concreta come l’elemento «naturale», ontologicamente umano, estraneo alla specificità della società capitalistica. Così il lavoro concreto viene concepito – è il caso di Proudhon – come il momento non-capitalistico in opposizione all’astrattezza del denaro. Non si comprende che il lavoro concreto stesso incarna i rapporti sociali capitalistici ed è materialmente costituito da essi.59


La teoria del feticismo illustra la genesi storica di quella forma dicotomica di pensiero economico che contrappone frontalmente il concreto e l’astratto, Lavoro e Denaro (e quindi produzione e circolazione, industria nazionale e speculazione internazionale, capitale produttivo e capitale predatorio, eccetera). Questa forma di intelligenza rigidamente antinomica, non dialettica, non riconosce l’astratto e il concreto come due dimensioni consustanziali di un’unica realtà sociale, come due facce complementari di un unico sistema di lavoro, ma le contrappone come due essenze ontologicamente indipendenti l’una dall’altra contrapposte in una lotta all’ultimo sangue in cui è in gioco il destino dell’umanità. Non riconosciuto come la forma sociale propria del lavoro concreto e dei suoi prodotti, il potere reale dell’astrazione viene ipostatizzato nel denaro e appare di fronte al lavoro concreto come concreto a sua volta, personificato dall’ebreo.


«L’antisemitismo moderno», conclude Postone, «è quindi una forma particolarmente pericolosa di feticismo».60 Se questa sia una definizione dell’antisemitismo più calzante di quelle attualmente in circolazione, può rimanere in sospeso. Dalle polemiche che innervano gli scritti economici di Marx risulta però evidente che la teoria del feticismo – il nocciolo gnoseologico, filosofico, in fondo teologico della critica dell’economia politica – è la sua risposta alla sfida intellettuale e politica posta dal dilagare di un malcontento anticapitalista che difende l’essenza del capitale, la forma universale e astratta del lavoro moderno, e chiama il popolo a una guerra santa di annientamento contro la sua personificazione.

9. Denaro ebraico di fronte a merci cristiane

La questione ebraica nel Capitale

Percioche ben giova la Circuncisione, se tu osservi la Legge: ma, se tu sei trasgreditor della Legge, la tua Circuncisione divien preputio. Che se gl’incircuncisi osservano gli statuti della Legge, non sarà il lor preputio reputato Circuncisione? E, se ‘l preputio ch’è di natura adempie la Legge, non giudicherà egli te, che, con la lettera, e con la Curcuncisione, sei trasgreditor della Legge? Percioche non è Iudeo colui, che l’è in palese: e non è Circuncisione quella, ch’é in palese nella carne. Ma Iudeo è colui, che l’è in occulto: e la Circuncisione è quella del cuore in Ispirito, non in lettera: e d’un tal Iudeo la laude non è dagli huomini, ma da Dio.


Paolo di Tarso, Lettera ai Romani (55-58 d.C.)1


9.1. Quale prepuzio?

Fra i luoghi più citati a riprova dell’antisemitismo di Karl Marx vi è quello in cui si afferma che


tutte le merci, per quanto possano aver aspetto miserabile o per quanto possano aver cattivo odore, sono in fede e in verità denaro, sono giudei intimamente circoncisi.2


In realtà sono sufficienti competenze neotestamentarie e senso dell’umorismo tutto sommato rudimentali per capire che non si tratta di un’affermazione antisemita. «Intimamente circoncisi» sono infatti coloro che l’apostolo Paolo indica come i veri ebrei, cioè i cristiani. La polemica paolina contro il rito della circoncisione è un motivo tradizionale dell’antigiudaismo cristiano. Per il teologo di Tarso, la rivelazione cristiana implica la sospensione della Legge d’Israele. La superiorità del cristianesimo sulla religione da cui discende starebbe nel fatto che i cristiani hanno interiorizzato lo spirito della Legge, mentre gli ebrei rimangono legati a un rispetto meramente esteriore per la lettera. La circoncisione è l’emblema della religiosità ebraica in quanto segno estrinseco del patto con Dio. I cristiani non hanno più bisogno di simili pratiche rituali perché il loro patto con Dio si fonda sulla fede e l’amore che albergano nei loro cuori, non sulla morta lettera della Legge: è divenuto interiore. Perciò Paolo parla di peritomé kardias, «circoncisione del cuore».3


Poiché gli ebrei, come è noto, non usano circoncidersi il cuore, appare evidente che la citazione apostolica nel contesto profano del quarto capitolo del Capitale – «La trasformazione del denaro in capitale» – non esprime alcuna intenzione antisemita. Semmai può essere giudicata polemica nei confronti del cristianesimo. Ma in che senso? Che hanno a che fare merci e denaro con cristianesimo e giudaismo?4


Per chiarire il significato di questa criptica annotazione conviene richiamare alla mente l’articolo di molti anni prima Sulla questione ebraica. Là Marx argomentava che l’opposizione di Bruno Bauer all’emancipazione civile degli ebrei dipende dalla sua incomprensione dell’emancipazione medesima, dalla sua incapacità o indisponibilità a considerare i limiti storici delle rivoluzioni borghesi. La critica dell’ebraismo proposta dal filosofo veniva letta da Marx come un surrogato di quella – assente – della società moderna. In particolare, la genesi della questione ebraica veniva ricondotta al carattere surrettiziamente duplice del soggetto dei diritti universali, all’inconsapevole scissione interiore dell’individuo moderno. Bauer – si osservava – proietta questa contraddizione generale sugli ebrei e la interpreta come una loro mefistofelica doppiezza. Imputa alla sola minoranza ebraica la condizione collettiva e paradossale di essere individui divisi, bourgeois e citoyen a un tempo, portatori di interessi privati e membri della comunità politica. Parlando di «giudaismo della società borghese» – parole per cui si è attirato molte critiche – Marx intendeva mettere a nudo quel meccanismo di difesa che alcuni decenni più tardi la psicoanalisi avrebbe descritto come proiezione inconscia. Stava dunque anticipando una nozione destinata a un ruolo di primo piano in molte significative interpretazioni novecentesche del fenomeno antisemita. Antisemiti? Sordidi giudei!


Il ragionamento del giovane Marx conduceva a concludere che la specie borghese di antisemitismo rappresentata da Bruno Bauer consiste fondamentalmente nel fatto che:


– la contraddizione interna all’individuo moderno fra bourgeois e citoyen si manifesta alla sua coscienza nella forma di un’opposizione esteriore fra se stesso e l’ebreo.5


Tornando ad aprire il Capitale, troviamo che la prima sezione del primo volume consiste in una lunga e articolata argomentazione dialettica intesa a mostrare che:


– la contraddizione interna alla merce fra valore d’uso e valore di scambio deve necessariamente manifestarsi alla coscienza del suo produttore nella forma di un’opposizione esteriore fra la merce stessa e il denaro.


Per come è descritto all’inizio del Capitale, nei capitoli in cui Marx sviluppa la griglia concettuale fondamentale della sua critica all’economia politica, il rapporto fra merci e denaro richiama, riassume e formalizza quello fra la maggioranza gentile e la minoranza ebraica della società borghese analizzato ventitré anni prima nella polemica con Bauer.


9.2. Forma di merce del prodotto del lavoro

La critica dell’economia politica di Marx non tratta soltanto di economia in senso stretto (ammesso che una tal cosa esista). Il suo oggetto è più ampio e coincide con l’insieme generale dei rapporti sociali del tempo – sia per come questi realmente sono, sia per come appaiono alla coscienza dei soggetti coinvolti. Oltre ai conflitti propriamente economici, l’indagine intende fornire strumenti teorici per comprendere anche «le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, in una parola le forme ideologiche» in cui gli uomini prendono coscienza di questi conflitti e li ingaggiano.6


Alla convinzione materialista per cui «l’anatomia della società borghese è da cercare nell’economia politica» corrisponde quella per cui l’anatomia del singolo membro di quella società è da cercare nel concetto più elementare di questa scienza, cioè nel concetto di merce.7 In tal senso si può affermare che nell’opera principale della sua maturità Marx, quando analizza la merce, prosegua e approfondisca l’analisi della soggettività borghese intrapresa un quarto di secolo prima nella controversia sulla questione ebraica. Proprio come il titolare dei diritti universali dell’uomo e del cittadino esaminato in quell’occasione, infatti, anche la nozione di merce introdotta nelle prime pagine del Capitale presenta un carattere enigmaticamente duplice come propria determinazione essenziale.


I due lati della merce sono detti «valore d’uso» e «valore di scambio». Come cosa individuale dotata di proprietà particolari e concrete atte a soddisfare bisogni particolari e concreti, la merce è un «valore d’uso». Il «valore di scambio» è la stessa merce, considerata però con riguardo a un’unica sua proprietà immateriale, puramente sociale: la proprietà universale di essere scambiabile con le altre merci. Ogni singola merce è dunque un individuo sdoppiato. È insieme una cosa privata, particolare, destinata a soddisfare certi specifici bisogni e non altri; e una cosa pubblica, per così dire una citoyenne della repubblica delle merci (il mercato), un essere sociale che si relaziona con i propri simili come portatore della stessa natura universale di merce – senza distinzioni di razza, religione, genere eccetera.


Il bourgeois è un individuo privato cui è garantita la libertà di essere cristiano, ebreo, ateo, ricco, povero eccetera – à son gré, a sua discrezione. La garanzia della sua libertà, della sua proprietà, della sua stessa esistenza come private consiste nella loro rigida separazione da quelle di tutti gli altri. Ne consegue che le sue relazioni con gli altri membri della società civile hanno luogo in una sfera separata dalla società civile: sono mediate e regolate attraverso lo Stato politico. A questa sfera, tuttavia, l’individuo non accede nella sua qualità di cristiano, ebreo, ateo, ricco, povero o quant’altro, non come il singolo individuo che è, ma solo in quanto citoyen uguale a tutti gli altri.


Analogamente, una merce può essere un vaso, un romanzo, una bottiglia, un dipinto eccetera – a discrezione del suo produttore. A garanzia di questa discrezionalità sta il carattere privato della sua produzione, il confine che la divide rigidamente da quella delle altre merci. Tale confine fa sì che merci differenti non entrino in relazione le une con le altre direttamente, ma possano scambiarsi soltanto attraverso la mediazione e regolazione del mercato, cioè in una sfera separata da quella privata in cui le merci vengono prodotte e consumate come valori d’uso. A questa sfera, tuttavia, la singola merce non accede nella sua qualità di vaso, romanzo, bottiglia o dipinto, bensì come merce uguale a tutte le altre. Ciò significa che la relazione sociale fra diversi produttori di merci si fonda sulla riduzione di tutte le loro varie attività ad altrettante incarnazioni di Lavoro: lavoro in generale, lavoro senza ulteriori specificazioni, lavoro umano in senso onnicomprensivo e universale (in greco: katholikós).


La nozione critica di «forma di merce del prodotto del lavoro» stabilisce la differenza metodologica decisiva fra l’economia politica classica e il progetto scientifico di Marx. Se per l’economia classica i concetti di «merce» e «prodotto del lavoro» coincidono senza resto, la critica marxiana muove dalla considerazione che i prodotti del lavoro umano non sono sempre e comunque, per natura, merci. «Merce» è semmai un modo d’essere della ricchezza, una specifica forma che i prodotti del lavoro hanno assunto sotto certe condizioni storiche e sociali e che, sotto altre, dismetteranno. In particolare si tratta di una forma fenomenica della ricchezza caratteristica per le società nelle quali domina il modo di produzione capitalistico. «Società in cui domina il modo di produzione capitalistico» è la determinazione più precisa del concetto di società borghese che Marx sia giunto a formulare (in luogo della quale è successivamente invalsa l’espressione, non altrettanto precisa, «capitalismo»).8 La fallacia fondamentale per cui l’economia borghese dev’essere criticata sta dunque nel considerare la merce come forma naturale ed eterna di tutti i prodotti del lavoro umano.


Corrisponde a ciò il fatto – già segnalato dal giovane Marx – che le dichiarazioni dei diritti universali e le costituzioni liberali chiamano il bourgeois, semplicemente, «l’homme». Non per natura, tuttavia, l’uomo conduce un’esistenza separata da quella della comunità politica. Questa è soltanto la forma in cui la sua libertà, la sua proprietà, la sua vita si presentano nel contesto della società moderna: una forma socialmente e storicamente determinata che esse, come hanno assunto, dismetteranno.


9.3. Forma di valore della merce

Nel senso in cui bourgeois e citoyen, così diversi fra loro, sono in realtà sono lo stesso individuo, Marx insiste nel definire l’esistenza della merce come «unità immediata di valore d’uso e valore di scambio».9 La caratteristica distintiva della ricchezza borghese e della sua forma elementare, la merce, è quella di essere allo stesso tempo una cosa, cioè un valore d’uso, e una relazione sociale, cioè un valore di scambio. È diffusa fra i marxisti l’opinione che le merci (e dunque il denaro, il capitale ecc.) non siano cose, bensì relazioni sociali. Si tratta di un’opinione falsa e idealistica, indice di cattivo costruttivismo sociale. Il punto dialettico di Marx è che le merci sono a un tempo e inseparabilmente entrambe le cose: cose e relazioni sociali. È con la scissione di questa unità contraddittoria, con lo sdoppiamento della sua parvenza, che iniziano i guai per gli ebrei.


Il motivo per cui è facile confondersi è che il valore di una merce, in quanto assolutamente distinto dal suo valore d’uso, non è mai visibile presso la merce stessa. La mela che acquisto dal fruttivendolo come merce può essere tanto gustosa e nutriente quanto una mela donatami per esempio da un’amica o tributatami da un mezzadro che lavora la mia terra. A renderla una merce non è alcuna proprietà sensibile. «Potremo voltare e rivoltare una singola merce quanto vorremo, ma come cosa di valore rimarrà inafferrabile».10 Il suo intrinseco valore, ciò che la rende una merce proprio in quanto non è il suo valore d’uso, può manifestarsi soltanto nel rapporto di scambio con altre merci (ragion per cui tale manifestazione è detta «valore di scambio»). Senza avere di fronte a sé la merce B come proprio equivalente, la merce A non ha modo di rivelare il proprio valore. Il valore immateriale di A è bensì una sua proprietà, ma non potendo esprimersi come tale deve necessariamente apparire nel corpo materiale di B. Ciò significa che la semplice equazione di due merci (x merce A = y merce B) va pensata come manifestazione secondaria ed esteriore di una dualità originaria già tutta interna alla singola merce.


Una merce è una cosa incompatibile con se stessa. Per scambiare come equivalenti merci differenti è necessario renderle convertibili, livellare le loro differenze. L’universale convertibilità che mette in relazione fra loro merci differenti non si fonda sulle qualità concrete delle medesime, che sono invece irrilevanti ai fini dello scambio, bensì su un’unica proprietà informe comune a tutte quante e suscettibile di determinazioni soltanto quantitative: il valore, la proprietà astratta e universale d’esser prodotte dal lavoro umano. Ciò che entra in gioco nel processo di scambio è soltanto questa informe determinazione formale delle merci quali valori di scambio; non dunque il loro contenuto materiale. Lo scambio si basa perciò sul fatto (nient’affatto teorico) che tutte le merci vengono ridotte a un astratto denominatore comune. Ogni ulteriore proprietà della singola merce – il suo materiale, la forma naturale in cui è venuta alla luce, il tipo di lavoro e le tecniche richieste per la sua produzione, i bisogni che è in grado di appagare o i desideri che può esaudire ecc. – viene praticamente rimossa. Per ottenere il riconoscimento che le spetta quale prodotto di lavoro umano, la merce deve negare se stessa come individuo particolare. Per diventare uguale a tutte le altre deve diventare qualcos’altro da sé. L’affermazione della sua universale dignità di prodotto del lavoro umano non può avvenire che mediante l’abiura di ogni particolarità e distinzione. Se desidera entrare a far parte della repubblica delle merci, la singola merce deve – parafrasando Bruno Bauer – «rinunciare alla propria prerogativa». Tutto ciò che di bello, utile, appetibile o interessante ha in sé, tutto ciò che la rende quel bene che essa realmente è e non invece un altro, dev’essere soppresso. È la violenza dell’astrazione. Recisa ogni relazione con l’uso, perduto ogni carattere realmente umano, il prodotto del lavoro umano vale solo in quanto numero.11


«L’arcano» della produzione di merci, ciò che la rende poco trasparente e bisognosa di analisi critica, risiede nel fatto che il carattere sociale del lavoro non appare come tale, bensì come una proprietà naturale o cosale dei suoi prodotti. Chi produce valori d’uso volti immediatamente alla soddisfazione di bisogni umani – siano questi bisogni suoi, dei suoi familiari, dei suoi padroni o di chiunque altro – s’interessa in primo luogo alle proprietà materiali e funzionali del suo prodotto. Sono queste a determinare il processo produttivo, l’intero itinerario economico del prodotto e la sua destinazione, in modo tale che il produttore è già sempre consapevole del senso e dell’utilità sociale della propria attività. Chi produce e vende merci, al contrario, non ha in principio alcun interesse al loro valore d’uso. Di più: non può neanche decidere se le sue merci posseggono effettivamente una qualche utilità sociale basandosi sull’esperienza dei suoi bisogni privati o sull’osservazione diretta. Se i suoi prodotti sono utili, se rispondono effettivamente a un bisogno, se il suo lavoro è dotato di senso, ciò può essere verificato soltanto post festum, appurando a fine giornata se i prodotti sono stati acquistati, in che quantità e a quale prezzo. È il mercato a decidere se realizzano o meno il fine per cui li ha fabbricati. Vale a dire che l’effettiva utilità del lavoro privato di una produttrice di merci dipende dall’intero processo sociale dello scambio, un processo ampio e complesso sul quale non può avere cognizioni esaustive e meno ancora influsso diretto. Tutto quel che le è dato di sapere sul senso del suo lavoro e sul valore dei suoi prodotti, ella lo apprende dopo la conclusione del lavoro stesso e del successivo processo di scambio, quando risulta chiaro se e quanto ha incassato.


Il processo di scambio è dunque il luogo in cui si decide il destino delle merci e quello dei loro produttori. La sua rappresentazione più elementare e semplificata è un’equazione fra due sole merci:


(x merce A = y merce B),


dove il corpo materiale della merce B ha la funzione di esprimere il valore immateriale di A come suo equivalente. A partire da questa equazione, detta «Forma di valore semplice, singola ossia accidentale», il primo capitolo del Capitale sviluppa deduttivamente una «Forma di valore totale o dispiegata», nella quale la merce A esprime il proprio valore in innumerevoli altri elementi del mondo delle merci:


schema del concetto sopra esposto: il valore x della merce A è espressione di enne altri elementi del mondo delle merci


e quindi una «Forma di valore generale», rovesciamento della precedente:


schema che rappresenta il rovesciamento del precedente


In quest’ultima forma di valore, tutte le merci esprimono il loro valore in un’unica merce particolare, la quale perciò assume la funzione di «equivalente universale». Questa singola merce diventa così una rappresentazione tangibile del nesso sociale di tutte le altre. Nel suo corpo fisico si materializza l’astrazione su cui si fonda la loro universale convertibilità. Dal momento della storia del commercio in cui questa equazione ha preso a essere ripetuta stabilmente e su larga scala, l’umanità ha il denaro.


Il parallelismo fra l’analisi dei diritti umani del saggio Sulla questione ebraica e l’analisi della merce nel Capitale include quindi anche il fatto che in entrambi i casi la scissione interiore – quella del soggetto borghese in bourgeois e citoyen e quella della merce in valore d’uso e valore di scambio – viene oggettivata nella figura di un corpo estraneo. Nel primo caso, l’ebreo, nel secondo, il denaro.


9.4. Forma di denaro del valore

Il denaro è una merce come tutte le altre, ma allo stesso tempo diversa e separata dalle altre. Il suo ruolo di equivalente universale lo rende una merce speciale, privilegiata: la merce eletta. Anche se non ha alcun valore d’uso specifico, tutti lo desiderano. I possessori di merci ordinarie sono sempre preoccupati di non trovare abbastanza acquirenti per i loro prodotti in tempi sufficientemente rapidi. Chi dispone di denaro, al contrario, può scambiarlo immediatamente con qualsiasi altra merce desideri; se invece preferisce tenerselo, può star certo che non marcirà. Il denaro pare esercitare un dominio universale ed esclusivo su tutte le merci del mondo e sull’intero mondo mercificato. Perché? In virtù di quale forza o diritto?


Le analisi di Marx intorno all’origine e alla natura del misterioso potere del denaro mostrano che la sua aura magico-religiosa, ciò che lo rende tanto agognato e disprezzato, indice di grazia divina e sterco del diavolo, altro non è che un riflesso della forma sociale del lavoro moderno e dei suoi prodotti. «L’enigma del feticcio denaro è soltanto l’enigma del feticcio merce divenuto visibile e che abbaglia l’occhio».12 Non per sua propria virtù il denaro assurge a feticcio della società borghese. Piuttosto è il carattere di feticcio delle merci – ossia la loro proprietà di riflettere la forma sociale del lavoro che le produce come una loro qualità cosale, come il loro proprio valore – che si rende indipendente, trasmigra in un corpo distinto, tutto suo, si separa cioè da quello della merce e gli si pone di fronte. È il lavoro genericamente umano svolto dalla società borghese che s’incarna nel denaro. L’astrazione sociale «lavoro» si conquista un posto nel mondo reale e diventa visibile nel luccichio dei metalli nobili. Ma fin troppo visibile: finisce per abbagliare l’occhio. Invece di svelare l’arcano, lo approfondisce.


Il denaro è una merce in cui il valore di tutte le altre merci viene rappresentato come separato e indipendente da loro. Quella merce particolare cui è storicamente toccato di essere eletta dalla collettività delle merci a equivalente universale – l’oro – diviene perciò una forma fenomenica oggettiva dell’astrazione «lavoro umano», un’incarnazione di Lavoro in quanto entità distinta da tutti i particolari lavori concretamente e privatamente svolti dagli individui. Marx sottolinea come la reputazione dell’oro, la buona come la cattiva, l’eccezionale considerazione di cui gode nella storia, nelle scienze religiose e morali, nella magia e nell’alchimia, nella gioielleria, nella politica e nell’economia, insomma nella cultura e nella vita degli uomini, dipenda non tanto dalle sue caratteristiche fisiche o estetiche, quanto piuttosto dal valore di scambio di tutte le altre merci. Sono queste a isolare quella merce particolare che è l’oro, a escluderla dal loro universo di merci eleggendola a equivalente universale per poter esprimere, nella sua materia, la propria socialità alienata. Non è altro che un risultato della «opera comune del mondo delle merci» se il denaro assurge a incarnazione tangibile del carattere sociale o umano del lavoro di tutti i produttori.13 «Di qui la magia del denaro»: lavoro astratto che posso comodamente trasportare, oggettivato, nella tasca dei pantaloni.14


La funzione del denaro in un sistema di produzione di merci è tanto oscura ed enigmatica, quanto imprescindibile. Il denaro è essenziale alla merce al punto da poter essere dedotto per via puramente logica dal suo stesso concetto.15 Marx ha dedicato molto studio a polemizzare contro il pensiero economico che identifica il denaro come la fonte ultima dell’instabilità, delle disfunzioni e delle crisi della produzione di merci. Protagonista di queste polemiche è il teorico e riformatore sociale francese Pierre-Joseph Proudhon, del quale, oltre alle battaglie contro i privilegi dispotici del denaro nell’economia moderna, è noto che non amasse gli ebrei.


Il nocciolo della teoria marxiana del denaro è racchiuso nel seguente enunciato: «In breve, tutte le qualità che vengono enumerate come qualità particolari del denaro, sono qualità della merce come valore di scambio».16 Il fatto che ogni caratteristica propria del denaro sia ricondotta alla merce che gli sta di fronte nel rapporto di scambio chiarisce il senso della tesi richiamata in apertura del presente capitolo: tutte le merci sono, «in verità», denaro. Ma perché anche «in fede»? Che c’entra la religione? Perché il riferimento alla definizione paolina dei cristiani come «giudei intimamente circoncisi»? Come va intesa quest’improvvisa trasposizione di un problema della teoria economica nel campo teologico-politico della questione ebraica?


Il raffronto dei primi capitoli del Capitale con il saggio Sulla questione ebraica aiuta a comprendere il senso di questo salto disciplinare. Proprio come «l’ebreo, che sta nella società borghese come membro particolare, è solo la manifestazione particolare del giudaismo della società borghese»,17 così il denaro


non è altro in realtà se non una particolare espressione del carattere sociale del lavoro e dei suoi prodotti, che tuttavia, in opposizione alla base della produzione privata, deve sempre apparire in ultima istanza come una cosa, come una merce particolare accanto alle altre merci.18


Entrambi incarnazioni di astrazioni universali, agli occhi della società moderna gli ebrei e il denaro rappresentano due specchi in cui si riflettono, in particolare, i caratteri generali della sua propria costituzione politica e del suo modo di produzione.


Poiché il nesso formale non potrebbe essere più evidente, è bene, ora, considerare anche le differenze. Riflettendo sulla questione ebraica di Bauer nell’inverno 1843/44, il giovane Marx aveva colto la tendenza del «filosofo rivoluzionario tedesco» a proiettare i propri conflitti interiori sulla figura di un nemico estraneo e intruso. All’epoca in cui (per primo) identificò questo meccanismo difensivo inconscio alla base dell’antisemitismo moderno, ancora non era in grado di spiegarlo. Studiando le tesi dei critici moderni dell’emancipazione ebraica aveva indovinato quel che avveniva nella loro mente, ma non sapeva perché ciò avvenisse.


Un quarto di secolo dopo, le cose stanno diversamente. La teoria economica del tardo Marx mostra che la distorsione antisemitica della coscienza borghese non è un fatto puramente soggettivo e psicologico, ma che invece ha un fundamentum in re nella prassi della società moderna, nella struttura oggettiva dei suoi affari quotidiani. La lettrice del Capitale impara non soltanto che il denaro è una manifestazione della natura intimamente contraddittoria delle merci e del lavoro che le produce. Viene anche accompagnata a comprendere perché la contraddizione interna alla merce debba necessariamente manifestarsi alla coscienza delle sue produttrici e dei suoi produttori come qualcosa di diverso da ciò che è, ossia nella forma di un’opposizione esteriore fra la merce medesima e il denaro. La rappresentazione di contraddizioni interne come opposizioni esterne si rivela essere una forma di coscienza socialmente determinata oppure, il che è lo stesso, un modo di apparire proprio del mondo oggettivo.


9.5. «Trasformazione del denaro in capitale»

La teoria del plusvalore e la rivoluzione copernicana della questione sociale

L’illusione che porta a confondere il denaro con ciò di cui è forma fenomenica, il capitale, proviene dal passato. Il denaro è infatti la forma fenomenica più antica del capitale, la prima in cui esso ha fatto la sua comparsa nel mondo e perciò quella cui la coscienza popolare lo associa più strettamente. L’illusione viene però rafforzata e riprodotta sistematicamente anche nel presente, nella sfera della circolazione, la superficie della società borghese, dove il capitale si presenta di nuovo ogni giorno sotto forma di denaro.


Dal punto di vista storico, il capitale si contrappone dappertutto alla proprietà fondiaria nella forma di denaro, come patrimonio in denaro, capitale mercantile e capitale usurario. Tuttavia, non c’è bisogno dello sguardo retrospettivo alla storia dell’origine del capitale, per riconoscere che il denaro è la prima forma fenomenica nella quale esso si presenta: la stessa storia si svolge ogni giorno sotto i nostri occhi. Ogni nuovo capitale calca la scena, cioè il mercato … in prima istanza come denaro, ancora e sempre: denaro che si dovrà trasformare in capitale attraverso processi determinati.19


Poiché il denaro non è, di per sé, capitale, come fa a diventarlo? «Denaro come denaro e denaro come capitale si distinguono in un primo momento soltanto attraverso la loro differente forma di circolazione».20 Il quarto capitolo del Capitale, «La trasformazione del denaro in capitale», tratta l’origine del capitale per come essa appare nella sfera della circolazione, cioè a prima vista.


La formula che sintetizza il processo della circolazione delle merci è M-D-M (merce-denaro-merce).21 Vi è espressa una sequenza di transazioni nella quale un produttore converte la sua merce in denaro per poi convertire il denaro in un’altra merce. Il singolo produttore – per esempio un bottaio, si chiami Piergiuseppe – non è in grado di soddisfare i suoi molteplici bisogni unicamente col proprio lavoro. Per soddisfarli tutti (o anche soltanto quelli primari) deve potersi appropriare anche di prodotti altrui. Ciò può avvenire per mezzo della violenza, la quale può essere occasionale e criminale, come nel caso di un furto, ma anche sistematica e istituzionalizzata, come nel caso di una società fondata sulla schiavitù o sul servaggio. Al contrario, in una società di persone che rispettano i reciproci e uguali diritti quale è quella borghese in cui poniamo viva Piergiuseppe, l’indispensabile appropriazione del prodotto altrui avviene per il tramite di uno scambio consenziente ed equo, mediato dal denaro.


Il denaro è dunque un mezzo indispensabile a Piergiuseppe, ma non il suo fine. Egli vende per comprare; trasforma la sua merce in denaro con lo scopo di ritrasformare il denaro in altre merci: M-D-M. Nella sequenza di transazioni che costituisce la sua attività di scambio, D costituisce un passaggio intermedio e un mero strumento. Il punto di partenza è una merce, quello d’approdo un’altra merce. M costituisce tanto il presupposto iniziale quanto lo scopo finale dell’intero processo. Il presupposto iniziale degli scambi di Piergiuseppe è il suo lavoro (la produzione di M1), il fine è il consumo (M2). Con la soddisfazione dei bisogni di Piergiuseppe, l’intero processo esaurisce la sua funzione e si conclude definitivamente. Può essere bensì ripetuto, e in tal caso si ha a che fare con un nuovo processo, preceduto da un nuovo lavoro e destinato a concludersi con il soddisfacimento di nuovi bisogni. Ammesso che si svolga in maniera effettivamente equa, che non intervengano imbrogli o simili fattori di disturbo esterni, il processo di scambio produce ogni volta il risultato che ogni singolo produttore si appropria di una parte della ricchezza sociale equivalente al prodotto del suo lavoro. Il tutto avviene nel rispetto della libertà, dell’eguaglianza e della proprietà dei produttori individuali e con la massima utilità per tutti. Piergiuseppe pensa che vendere i propri prodotti per acquistare ciò di cui si ha bisogno con i proventi del proprio lavoro sia la condotta economica più naturale e onesta del mondo.


Tuttavia, M-D-M non è l’unica forma di circolazione possibile. «Accanto a questa forma, ne troviamo una seconda, specificamente differente, la forma D-M-D: trasformazione del denaro in merce e ritrasformazione della merce in denaro».22 Questa nuova forma di circolazione è ciò che distingue a prima vista il denaro come capitale dal semplice denaro come denaro: la formula magica della «trasformazione del denaro in capitale».


Accanto a chi vende per comprare, alle volte si trova anche qualcuno che compra per vendere. Capita sempre più spesso, pensa Piergiuseppe. Poniamo che qualcuno compri per vendere e che si chiami Isacco. La sua sembrerebbe un’innocente inversione delle transazioni che non cambia nulla della natura complessiva del processo di scambio. Ma aguzzando l’ingegno Piergiuseppe si avvede di una differenza decisiva. Mentre nella sequenza delle sue transazioni (M-D-M) il denaro è un semplice mezzo di scambio, per Isacco il denaro rappresenta il presupposto e il fine ultimo di tutto il processo (D-M-D). A questo punto un dubbio insidioso lo assale: a che serve convertire denaro in merci e riconvertire le merci in denaro, se non per ottenere più denaro? Fra M1 e M2 possono esserci differenze qualitative, fra D1 e D2 soltanto quantitative. Lo scopo dell’inversione della sequenza non può che risiedere in un incremento del denaro, un Δ fra la somma iniziale e quella finale. La formula che più correttamente descrive il comportamento economico di Isacco è quindi D-M-Dʹ (denaro – merce – denaro + Δ).


La domanda allora è: come si produce Δ? Il problema del plusvalore è la croce dell’economia politica, il suo punto cieco.23 Come può lo scambio di equivalenti generare una differenza di valore? La legge del valore-lavoro esclude in linea di principio ogni possibilità di Δ. Dispone che ciascun individuo ottenga dalla circolazione un valore né maggiore né minore di quello che vi ha immesso. Per incrementare il denaro iniziale, Isacco deve per forza aver violato quella legge – probabilmente falsando i prezzi, comprando a un prezzo inferiore al valore e rivendendo a un prezzo superiore. Piergiuseppe non se ne capacita.


M-D-M è un processo fondato sul lavoro e finalizzato al consumo. Cominciando con M, un prodotto del lavoro, garantisce che partecipi alla circolazione solamente chi davvero ha lavorato e si è reso utile alla comunità. A Piergiuseppe, che passa la vita a fare ottime botti per il bene della sua comunità, sembra giusto che chi non lavora non debba neanche mangiare. E come è vero che lui mangia solo poiché lavora, è vero altrettanto che lavora solo per mangiare. Vende per comprare. Una volta che ha comperato tutto ciò di cui ha bisogno, Piergiuseppe non ha più bisogno di niente; è contento. In M-D-M il denaro non è che un momento intermedio e transeunte della circolazione delle merci, un semplice passaggio del movimento da merce a merce, del quale al fondo, nel risultato finale dello scambio, non rimane alcuna traccia.


D-M-D invece illustra un movimento il cui presupposto e fine ultimo è il denaro. In questa variante della circolazione il denaro appare essersi emancipato dai limiti della sua funzione specifica di mezzo di circolazione delle merci. La merce d’altra parte appare degradata a passaggio intermedio del movimento circolatorio del denaro.


Nella sua figura di mediatore della circolazione, l’oro ha sofferto danni di ogni genere, è stato circonciso e perfino appiattito a pezzo di carta meramente simbolico. Come denaro si vede restituito il suo splendore aureo. Da servo diventa padrone. Da semplice manovale diventa dio delle merci.24


Dalla semplice rappresentazione formale della condotta economica di Isacco (D-M-Dʹ), Piergiuseppe può dedurre che il suo vicino non lavora (infatti il suo punto di partenza non è un prodotto del lavoro); che si appropria in modo parassitario del frutto del lavoro altrui; che è avaro e si astiene quanto più possibile dal godimento della ricchezza naturale al fine di trattenere il denaro; che truffa il suo prossimo speculando sui prezzi; che è molto intelligente, poiché riesce a imbrogliare il suo prossimo non solo occasionalmente, ma in modo sistematico; che immani e mostruosi istinti lo guidano: ciò che brama infatti non è la ricchezza naturale, non sono i beni capaci di soddisfare bisogni e desideri concreti come quelli che ha Piergiuseppe, «ad esempio vestiti, armi, gioielli, donne, vino ecc.», bensì l’accumulazione illimitata di ricchezza astratta, l’incremento infinito del denaro: «auri sacra fames»;25 che è un nemico mortale del lavoro umano e dell’umanità, a scapito dei quali soltanto l’accumulazione di ricchezza astratta nei suoi forzieri può avere luogo. D-M-Dʹ è la formula economica dell’ebreo.


Marx definisce D-M-Dʹ come «la formula generale del capitale, come esso appare immediatamente nella circolazione» (corsivo mio: l’elemento decisivo per comprendere la concezione marxiana del plusvalore è la subordinata concessiva).26 Dal punto di vista di Piergiuseppe che osserva la circolazione, la produzione di plusvalore e capitale appare come un incremento del denaro, come denaro che diventa magicamente più denaro – né può apparire altrimenti. Ma il plusvalore in realtà – ed è questo un punto dottrinale cruciale della teoria di Marx – non può avere origine nella sfera della circolazione. Nella circolazione il valore può solamente cambiare la propria forma fenomenica, ma non la sua grandezza. Lo scambio non produce valore. Dal punto di vista immediato della semplice circolazione, l’origine del capitale rimane un’aporia.


Dunque è impossibile che dalla circolazione scaturisca capitale; ed è altrettanto impossibile che esso non scaturisca dalla circolazione. Deve necessariamente scaturire in essa, ed insieme non in essa. Dunque, si ha un duplice risultato … Queste sono le condizioni del problema.27


Questo risultato aporetico indica nel plusvalore un concetto limite dell’economia politica e dunque l’oggetto eminente della sua critica. L’indagine sulla sua genesi conduce a un bivio, scientifico e insieme politico, a un bivio storico. «Hic Rhodus, hic salta!».28 O si oltrepassa il limite epistemico dell’economia politica, si riconosce cioè l’insufficienza delle sue categorie, si abbandona la sfera della circolazione e per cercare altrove l’origine del plusvalore, nella sfera della produzione; oppure si rimane sul medesimo terreno categoriale del pensiero economico borghese, dove non c’è altra possibilità di spiegare il plusvalore oltre a quella di ipotizzare una violazione delle leggi generali della circolazione, un rialzo nominale del prezzo, una divergenza del prezzo effettivo dal valore reale, insomma una frode. La prima opzione è quella indicata da Marx come scientifica; la seconda è la scelta metodologica che sta a monte dell’economia politica dell’antisemitismo, la quale in tutte le sue variazioni politiche è sempre una «critica» dell’economia borghese sul terreno delle sue stesse categorie, cioè una critica acritica.


Le considerazioni di Marx sulla trasformazione del denaro in capitale sono dedicate in gran parte a discutere nel dettaglio i più comuni argomenti del senso comune e degli scrittori economici volti a spiegare l’origine del plusvalore a partire dalla circolazione; a discutere le ipotesi di Piergiuseppe su Isacco.


Può darsi che il possessore di merci A sia tanto furbo da abbindolare i suoi colleghi B o C e che, nonostante la loro buona volontà, questi non riescano a render pan per focaccia. A vende vino per il valore di quaranta sterline a B ed ottiene in cambio grano per il valore di cinquanta sterline; A … ha fatto più denaro da meno denaro, e ha trasformato la sua merce in capitale. Guardiamo le cose più da vicino. Prima dello scambio avevamo per quaranta sterline di vino in mano di A e per cinquanta sterline di grano in mano di B: valore complessivo di novanta sterline. Dopo lo scambio, abbiamo lo stesso valore complessivo di novanta sterline. Il valore circolante non s’è ingrandito neppur di un atomo … È evidente che la somma dei valori circolanti non può essere aumentata da nessun cambiamento nella loro distribuzione, così come un giudeo non aumenta la massa dei metalli nobili in un paese vendendo per una ghinea un farthing della Regina Anna.29


Gli ebrei possono realizzare tutte le truffe numismatiche e finanziarie che vogliono – non arriveranno mai per questa via a creare plusvalore. Il riferimento polemico ai cliché antisemiti dell’epoca ormai non ci stupisce più; abbiamo imparato a interpretarlo. Marx si sforza per far capire che la misteriosa generazione del plusvalore non è affatto una faccenda «ebraica», cioè che non ha a che fare con un utilizzo truffaldino del denaro. L’abilità di un commerciante capace di raggirare i suoi partner può al massimo influenzare i rapporti in cui una quantità data di valore è distribuita, ma certamente non alterare la quantità medesima generando plusvalore. La semplice inversione di M-D-M in D-M-D, così come qualsiasi altra possibile ricombinazione formale dello scambio di merci, non è in alcun modo sufficiente a spiegare l’origine del plusvalore e la differenza fra denaro e capitale, fra il denaro come denaro e il denaro come capitale.


Perché dunque Marx parla di «trasformazione del denaro in capitale»? Vale la pena domandarsi quali siano le ragioni per cui ha scelto di affrontare problema del plusvalore dapprima nella prospettiva della circolazione. Perché finge di voler spiegare l’origine del capitale servendosi della distinzione di D-M-D da M-D-M?


L’interpretazione equivoca per cui non si tratterebbe di una finzione, l’idea cioè che la distinzione formale dei due tipi di circolazione rappresenti il vero nucleo della teoria marxiana del plusvalore, ha segnato e continua a segnare drammaticamente la ricezione del Capitale e la storia del marxismo. La lettrice accorta comprende tuttavia facilmente che la distinzione di denaro e capitale sulla base delle rispettive forme di circolazione rappresenta in realtà la premessa di una dimostrazione per assurdo, cioè di un argomento inteso alla negazione delle proprie premesse. Tale argomento va compreso nel contesto del metodo espositivo dialettico e ancora di più della strategia didascalica dell’opera, la quale è scritta in modo tale da accompagnare la lettrice in un percorso conoscitivo dal senso comune alla scienza, dalla parvenza all’essenza.


La distinzione fra M-D-M e D-M-D nasce dal tentativo feticista di spiegare la generazione del plusvalore a partire dalla circolazione ed è priva di senso al di fuori di questo tentativo. Il reale processo di circolazione va pensato come un flusso ininterrotto di compravendite (… M-D-M-D-M-D …), anzi un intreccio sistematico di molteplici flussi ininterrotti di compravendite:


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– un processo in cui non è possibile né istruttivo stabilire un ordine oggettivo della successione di compra e vendita. Un ordine simile può avere un senso soggettivo: io posso decidere privatamente di anticipare una vendita o di procrastinare un acquisto. Dal punto di vista complessivo del processo sociale questo non fa alcuna differenza.


Poiché la circolazione delle merci è la superficie apparente della loro produzione, si può dire che la distinzione di due forme di circolazione specificamente differenti e indipendenti è uno sdoppiamento ideologico della parvenza della produzione di merci. Lo stesso sdoppiamento avviene già al livello elementare della singola merce, la cui contraddizione interna fra valore e valore d’uso diviene visibile nella forma di un’opposizione esteriore fra merce e denaro. Ne segue l’impressione che il denaro stia come rappresentante del capitale di fronte alla merce come rappresentante del lavoro, mentre la realtà è che sia la merce che il denaro non sono che due momenti della circolazione del capitale, due cristalli materiali di lavoro umano astratto.30 Il capitale appare pubblicamente ora come denaro, ora come merce, mentre il nesso interno che lega queste sue due forme fenomeniche rimane un segreto del suo proprietario.


Il capitalista sa che tutte le merci, per quanto possano aver aspetto miserabile o per quanto possano aver cattivo odore, sono in fede e in verità denaro, sono giudei intimamente circoncisi e, per di più, mezzi taumaturgici per far del denaro più denaro.


Il pensiero che vi sia una forma di circolazione D-M-D «accanto» a M-D-M e da essa specificamente distinta equivale alla rappresentazione di «popoli di commercianti» separati e indipendenti dagli altri, spina nel fianco della massa dei produttori. D-M-Dʹ, la «formula generale del capitale per come appare immediatamente nella circolazione», è la formula del capitale commerciale. Suo fratello gemello il capitale portatore d’interesse (usurario, creditizio, ecc.) ha una forma di circolazione ancora più concisa: D-Dʹ, denaro che diventa più denaro senza neanche passare per la forma di merce. Secondo Marx, l’analisi del capitale commerciale e del capitale portatore d’interesse non può spiegare l’origine del plusvalore, né rivela alcunché di specifico a proposito dell’anatomia della società moderna, del capitale in quanto principio determinante della produzione sociale. Capitale commerciale e capitale usurario sono per Marx due «forme popolari e per così dire antidiluviane» del capitale.31 «Di fatto, l’accumulazione del denaro per amor del denaro è la forma barbarica della produzione per amor della produzione».32 Nelle società sviluppate, il capitale non si manifesta solamente, né primariamente, nella forma di patrimoni monetari che si accaparrano in modo parassitario i frutti del lavoro. È incarnato piuttosto dalla grande industria moderna e determina esso stesso il principio tecnico dell’organizzazione sociale del lavoro.


Aristotele aveva buone ragioni per contrapporre «l’economica alla crematistica», l’arte di amministrare la casa da quella di far soldi.33 La polemica aristotelica contro l’usura, «fra tutti i modi di guadagno il più contro natura» e «giustamente biasimata», è legata al fatto che il suo autore non disponeva di un concetto di valore (e, va da sé, neanche di plusvalore).34 Non certo per mancanza d’ingegno: Aristotele non poteva avere un concetto del valore perché viveva in una società fondata sul lavoro schiavistico, una società che dell’idea dell’eguaglianza universale di tutto il lavoro umano, presupposto culturale, storico e logico della produzione industriale di merci, non aveva neanche il minimo sentore.35 Aristotele però è morto da millenni, il lavoro schiavistico non è più la forma di organizzazione principale della società e il concetto dell’eguaglianza universale degli esseri umani ha ormai la solidità di un pregiudizio popolare. Nel contesto della società moderna, queste contrapposizioni antinomiche – economia e crematisitca, equità ed egoismo, merce e denaro, M-D-M e D-M-D, popoli produttori e popoli commercianti, capitale industriale e capitale commerciale – non sono che sintomi di uno sdoppiamento ideologico nella coscienza dei contemporanei, del feticistico sdoppiamento della parvenza di un unico e medesimo processo di produzione.36


La soluzione proposta da Marx al problema del plusvalore è sufficientemente nota da poter essere qui richiamata in brevi cenni. L’incremento del valore non può provenire dal denaro, né dal valore di scambio delle merci. Deve quindi provenire dal valore d’uso delle merci. Vi è solo una merce il cui valore d’uso consiste nell’essere fonte di valore, o il cui consumo produce valore: la forza lavoro umana. Ciò che caratterizza specificamente la produzione di capitale non è dunque il modo in cui circolano merci e denaro, non una forma di circolazione: è invece la forma del lavoro, la forma di merce della forza lavoro umana. Il valore di questo articolo si determina come quello di tutti gli altri: tempo di lavoro socialmente necessario. Vale a dire che la forza lavoro vale tanto quanto l’insieme dei beni necessari alla sua riproduzione. Il suo valore è pari a quello dei mezzi di sostentamento della lavoratrice, del lavoratore e della loro prole. Il suo prezzo è il salario, che è da considerarsi equo quando il valore delle necessità esistenziali del venditore è corrisposto interamente. Ora: che cosa propriamente sia da considerarsi necessario per l’esistenza di donne, uomini e prole non è una questione economica, bensì attinente alla filosofia morale e alla lotta di classe. Perciò la critica dell’economia politica, che ha rapporti con entrambe ma competenze differenti, assume che il salario sia equo. Il plusvalore non deriva dalla differenza fra il valore e il prezzo della forza lavoro (né di qualsiasi altra merce), ma dalla differenza fra il valore della forza lavoro e il valore prodotto dal suo consumo. Δ esprime il valore dell’eccedenza del prodotto di una giornata lavorativa rispetto alle necessità esistenziali del lavoratore.


L’introduzione della nozione di questa merce particolare, la forza lavoro, consente di spiegare la genesi del plusvalore senza bisogno di ammettere alcuna divergenza del prezzo dal valore reale, alcuna falsificazione dello scambio di equivalenti, alcuna violazione delle leggi della circolazione. Allo stesso tempo, con la merce forza lavoro viene introdotta un’altra nozione cruciale della teoria sociale di Marx: la nozione delle classi. Per come appare in superficie, la società borghese è composta da individui liberi e uguali, produttori privati che scambiano volontariamente le loro merci in regime di equivalenza. La comparsa della merce forza lavoro nella sfera della circolazione cambia le carte in tavola. La disponibilità di una simile merce, che sola consente al suo acquirente di trasformare il proprio denaro in capitale, comporta che non tutti gli individui si rechino al mercato per scambiare i prodotti del proprio lavoro, ma che alcuni di essi, non avendo altri prodotti da scambiare, siano costretti a vendere l’unica merce che possiedono: la propria forza lavoro o la propria prole. Marx chiama l’insieme dei venditori di forza lavoro «classe lavoratrice» e l’insieme dei suoi acquirenti «classe capitalista». Il rapporto che vi è fra un individuo del primo e uno del secondo gruppo non è descrivibile in maniera esaustiva con le categorie della semplice circolazione, le quali presuppongono individui liberi e uguali, ma può essere compreso solo tenendo conto dell’appartenenza di tali individui alle loro rispettive classi. Per conoscere l’anatomia della società borghese non basta analizzare i rapporti individuali fra compratori e venditori di merci nella circolazione. È necessario considerare i rapporti sociali fra le classi nella sfera della produzione.


Il processo di consumo della forza-lavoro è allo stesso tempo processo di produzione di merce e di plusvalore. Il consumo della forza-lavoro, come il consumo di ogni altra merce, si compie fuori del mercato ossia della sfera della circolazione. Quindi, assieme al possessore di denaro e al possessore di forza-lavoro, lasciamo questa sfera rumorosa che sta alla superficie ed è accessibile a tutti gli sguardi, per seguire l’uno e l’altro nel segreto laboratorio della produzione sulla cui soglia sta scritto: No admittance except on business. Qui si vedrà non solo come produce il capitale, ma anche come lo si produce, il capitale. Finalmente ci si dovrà svelare l’arcano della fattura del plusvalore.37


Lo spostamento del focus di analisi dalla sfera della circolazione a quella della produzione operato da Marx costituisce una rivoluzione copernicana della questione sociale. La critica sociale non viene più esercitata dal punto di vista del lavoro nei confronti del denaro e dell’interesse, ma è rivolta verso il lavoro stesso. Nelle concezioni pre-marxiane della questione sociale, l’emancipazione e il progresso apparivano come questioni da decidersi interamente nella sfera della circolazione. La produzione era considerata alla stregua di un processo puramente tecnico, soggetto soltanto alle leggi di natura, privo di determinazioni sociali e storiche. L’idea di socialismo prefigurava un sistema di produzione di merci senza accumulazione di denaro, una comunità di produttori individuali che scambiano i prodotti del loro lavoro in rapporti di assoluta reciprocità, senza privilegi di sorta, senza inganni, soprusi né speculazioni. Marx non perde occasione per criticare il desiderio «pio quanto sciocco» di rivoluzionare la distribuzione della ricchezza sociale senza toccare la sua produzione, di trasformare i rapporti di proprietà senza trasformare i rapporti di lavoro.38 Il suo contributo più originale alla riformulazione della questione sociale sta nell’aver posto il tema della forma sociale del lavoro, della sua trasformabilità. Sta qui la svolta di Marx: una rottura a un tempo epistemologica, rispetto all’economia politica classica, e politica, rispetto al socialismo dell’Europa continentale.


Nel cammino analitico del Capitale, il quarto capitolo sulla «Trasformazione del denaro in capitale» è un capitolo di passaggio. È l’unico di 25 capitoli che coincide nel titolo e nell’estensione con una delle sette sezioni in cui è suddivisa l’opera (la seconda). Rappresenta la soglia che divide e collega la sfera della circolazione (oggetto della prima sezione: «Merci e denaro») e quella della produzione (oggetto della terza sezione: «La produzione del plusvalore assoluto»). Oltrepassandola, Marx e la lettrice si lasciano alle spalle quel «vero Eden» che è il mercato e iniziano una catabasi dantesca agli inferi della produzione capitalistica: la critica dell’economia politica.39 L’insegna che campeggia sull’ingresso del «segreto laboratorio della produzione» – l’immagine che chiude il quarto capitolo e introduce l’analisi della produzione – rappresenta il limite epistemico dell’economia politica e dell’illuminismo, il limite storico del progetto borghese di emancipazione umana. Ciò che avviene all’interno dell’edificio – lo sfruttamento della classe lavoratrice, la produzione di plusvalore – contraddice il senso di quel progetto, senza minimamente violare le regole della circolazione. Avviene nel pieno rispetto dei principi di libertà ed eguaglianza universale, dei diritti innati dell’Uomo e del Lavoro, insomma della legge del valore. Anzi è la vera essenza del valore: è il fondamento reale della sua legge, oltre che la sua negazione assoluta. No admittance except on business è un altro modo per dire che il lavoro rende liberi.40


9.6. La religione del capitale

Abbiamo sin qui considerato il parallelismo fra la critica della questione ebraica e i primi capitoli del Capitale in termini soltanto astratti e formali. Del resto fa parte del metodo espositivo impiegato da Marx suscitare nel lettore l’impressione «che si abbia a che fare con una costruzione a priori». Ma se ciò avviene – spiega l’autore nella prefazione– è soltanto perché si tratta di un riflesso ideale della «vita del materiale».41 I concetti più elementari e astratti della teoria racchiudono già un contenuto di esperienza storica reale. E in effetti è un nesso storico e reale, non meramente categoriale, quello che lega il soggetto borghese alla merce.42 Per non parlare di ebrei e denaro, la cui secolare associazione è un vero e proprio luogo comune della cultura economica europea e mondiale.


Il punto di vista di Marx sul legame privilegiato degli ebrei con il traffico e il denaro emerge da un’altra osservazione allusiva. Si trova nel capitolo sul feticismo, e in particolare nell’ambito di una riflessione sulla religione positiva più conforme all’economia capitalistica.


Per una società di produttori di merci, in cui il rapporto di produzione generalmente sociale consiste nell’essere in rapporto coi propri prodotti in quanto sono merci, e dunque valori, e nel riferire i propri lavori privati l’uno all’altro in questa forma di cose, come eguale lavoro umano, il cristianesimo, col suo culto dell’uomo astratto, e in ispecie nel suo svolgimento borghese, nel protestantesimo, deismo, ecc., è la forma di religione più corrispondente. Nei modi di produzione della vecchia Asia e dell’antichità classica, ecc., la trasformazione del prodotto in merce, e quindi l’esistenza dell’uomo come produttore di merci, rappresenta una parte subordinata, che pure diventa tanto più importante, quanto più le comunità s’addentrano nello stadio del loro tramonto. Popoli commerciali veri e propri esistono solo negli intermondi del mondo antico, come gli dèi di Epicuro o come gli ebrei nei pori della società polacca.43


L’ultima frase della citazione, in cui gli ebrei vengono qualificati come «popolo commerciale», ricorre in molti luoghi degli scritti marxiani di storia economica in forma pressoché identica e con insistente ripetitività, quasi come una formula fissa.44 Anch’essa è stata interpretata come un’evidenza del fatto che Marx non si farebbe scrupoli a usare gli stereotipi correnti sugli ebrei e la loro innata passione per il traffico e il denaro. Nonostante l’importanza non secondaria che questa formula sembra rivestire per l’autore, nessun commentatore ha finora rilevato che si tratta di una citazione nascosta. La fonte non dichiarata è, per l’appunto, Bruno Bauer: La questione ebraica, un testo che a quanto pare non aveva ancora smesso di impensierire il nostro a oltre vent’anni di distanza. Nelle prime pagine di quel trattato infatti si legge:


Al modo che gli dèi di Epicuro abitano negli intermondi, dove se ne stanno elevati al di sopra del lavoro determinato, così anche gli ebrei si sono stabiliti al di fuori degli interessi cetuali e corporativi determinati, si sono annidati negli interstizi e nelle fessure della società civile e si sono appropriati dei sacrifici che quell’elemento di insicurezza della società civile reclama per sé.45


Gli dei di Epicuro abitano spazi vuoti e separati dai mondi reali. Inoltre, come è noto, sono del tutto indifferenti ai destini degli uomini. Con questo paragone Bauer intende denunciare l’estraneità degli ebrei al mondo sociale della produzione e il loro modo parassitario di appropriarsi dei frutti del lavoro altrui.


«Non è vero!», protesterebbe un sincero liberale. «Pregiudizio!». Proverebbe magari a difendere gli ebrei dimostrando che in realtà non sono così male come vengono descritti; che anche loro possono essere bravi e laboriosi cittadini. Assumerebbe cioè quell’atteggiamento ingenuamente illuminista che nell’antisemitismo vede semplicemente una vecchia credenza superstiziosa da confutare. L’argomento di Marx è un altro. Il problema per lui non sta tanto nelle opinioni del signor Bruno Bauer sul conto degli ebrei. Sta piuttosto nella sua rappresentazione generale della società contemporanea. L’obiezione è che una tale caratterizzazione economica del popolo ebraico può forse trovare riscontro oggettivo nel mondo antico e medievale, negli interstizi della società feudale, ma non è applicabile alla situazione contemporanea nei paesi sviluppati, né è in alcun modo adeguata a cogliere i rapporti economici specifici della società moderna. La separazione denunciata da Bauer fra una massa di produttori e una minoranza di improduttivi mediatori commerciali identificabile con una nazione particolare, gli ebrei, non è altro che la considerazione dei due caratteri della merce come separati e indipendenti l’uno dall’altro, estesa alla totalità sociale.


L’idea economica che è alla base di questo argomento e dell’intera questione ebraica è quella di una società divisa in due: di fronte alla sua parte maggioritaria onestamente dedita alla produzione di valori d’uso si staglia una potente minoranza interamente devota al valore di scambio. Ciò che Marx contesta non è tanto il contenuto stereotipato della sociologia economica di Bauer, secondo cui gli ebrei sono un popolo di mercanti e trafficanti di denaro staccati dalla sfera della produzione, quanto semmai il suo utilizzo come categoria per interpretare la società moderna. Il legame speciale fra il valore di scambio e l’attività economica di una nazione o un gruppo sociale particolare, separato dagli altri, è un fenomeno che può darsi solo in un contesto in cui la produzione di merci è un aspetto marginale della vita economica. Si ritrova forse soltanto in alcune sacche di arretratezza della «società polacca», dove i rapporti capitalistici non sono ancora pienamente sviluppati. Nella società moderna, al contrario, la produzione industriale di merci è dominante, il che significa che la produzione di valori d’uso è sempre anche produzione di valori di scambio, che la produzione di beni materiali è sempre anche produzione di capitale. Le funzioni economiche legate al valore di scambio, le quali sembrano soggiogare il lavoro concreto dei produttori, non riguardano più solo una casta di banchieri e usurai, ma divengono funzioni universali di pertinenza di tutti i prodotti del lavoro e di tutto il lavoro. Tutte le merci, per quanto cenciose o maleodoranti, sono in verità denaro.


Se proprio si vuole caratterizzare l’economia capitalista sotto l’aspetto religioso – come avviene nella parte iniziale della citazione – questa dev’essere detta cristiana assai più che ebraica. Marx spiega (quarant’anni prima di Max Weber) che è «il cristianesimo … in ispecie nel suo svolgimento borghese, nel protestantesimo … la forma di religione più corrispondente» a una società la cui riproduzione materiale è fondata sul principio astratto del lavoro umano.46 Con questa annotazione, per così dire, teologico-economica, sta confermando una tesi già abbozzata molti anni addietro nel saggio Sulla questione ebraica:


La società borghese si compie soltanto nel mondo cristiano. Soltanto sotto la signoria del cristianesimo, che rende esteriori all’uomo tutti i rapporti nazionali, naturali, etici, teoretici, la società borghese poteva separarsi completamente dalla vita dello Stato … [e] dissolvere il mondo degli uomini in un mondo di individui atomistici, ostilmente contrapposti gli uni agli altri.47


La separazione dello Stato politico dalla società civile, del citoyen dal bourgeois, ricordava al giovane Marx il dualismo cristiano di anima e corpo, spirito e carne. Alle tesi baueriane ribatteva che l’origine della vita atomizzata, impolitica, asociale, insomma «ebraica» della società borghese va collocata sotto il dominio del cristianesimo. Appare conseguente che ora, ormai canuto, egli attribuisca al valore metafisico delle merci distinto dal loro corpo profano un’ascendenza cristiana piuttosto che giudaica. Il lavoro astrattamente e universalmente umano che costituisce la sostanza di valore delle merci gli appare un’espressione del «culto dell’uomo astratto» proprio della religione dello Spirito Santo e dell’amore universale. Questo pensiero viene formulato ripetutamente nel Capitale, volentieri in forma allusiva e semiseria.


Il valore si distingue, come valore originario, da se stesso come plusvalore, allo stesso modo che Dio Padre si distingue da se stesso come Dio Figlio, ed entrambi sono coetanei e costituiscono di fatto una sola persona, poiché solo mediante il plusvalore di dieci sterline le cento sterline anticipate diventano capitale, e appena sono diventate capitale, appena è generato il Figlio e, mediante il Figlio, il Padre, la loro distinzione torna a scomparire, ed entrambi sono uno, centodieci sterline.48


Se il capitale sia ebraico o piuttosto cristiano è questione non solo faceta, né soltanto teologica. La partita è fra due modelli contrapposti di concepire e criticare la società moderna.


Il pensiero economico dell’antisemitismo moderno denuncia un sistema di appropriazione parassitaria dei frutti del lavoro del popolo da parte di pochi potenti del denaro. Non coglie le contraddizioni della produzione di merci e di capitale come inerenti alla produzione di merci e di capitale medesima, ma se le rappresenta come forze occulte che, dall’esterno, minacciano di provocarne il collasso. Il fattore di disturbo che incrina la naturale e prosperosa armonia dell’onesto scambio di merci fondato sul principio dell’eguaglianza universale di tutto il lavoro umano è identificato nel denaro, nella setta dei suoi adepti, nell’inaccessibile casta dei suoi trafficanti e speculatori.


Aggirandosi per l’Europa, lo spettro dell’ebreo svolge una funzione cruciale nella coscienza della società moderna. Conferisce un contorno netto alla sua inquietudine, una risposta alle sue più profonde preoccupazioni. Si presenta come una scorciatoia cognitiva capace di fornire orientamento in un mondo in rapida e imponderabile trasformazione. Dà l’illusione di capire. Il «capitalismo» viene «capito» come un fatto doloso, come una grande frode universale. Nel cuore dell’antisemitismo moderno sta il progetto politico di punire questa frode e abolire ogni forma di reddito senza lavoro: eliminare i parassiti.


Gli economisti antisemiti del XX secolo costruirono il loro sapere intorno alla contrapposizione fondamentale tra schaffendes e raffendes Kapital, capitale produttivo, nazionale, ariano da una parte e capitale predatorio, internazionale, ebraico dall’altra. Di questo dualismo economico, che già iniziava a prendere forma nella Nationalökonomie del secolo precedente, il concetto marxiano di capitale rappresenta, nella sua struttura logica e sistematica unitarietà, la più puntuale confutazione. Per i regimi antisemiti del Novecento, la distinzione teorica fra due tipi di capitale era funzionale al progetto di sopprimere la lotta di classe istigando tutti i ceti produttivi della nazione (lavoratori e industriali) a una reazione compatta contro i parassiti della finanza globale. Ma non si sente forse ripetere ancora oggi, da destra come da «sinistra», che la radice di tutti i nostri problemi starebbe nel predominio della speculazione finanziaria internazionale sulla «economia reale»?49 – Come se questa cosiddetta economia reale fosse già, di per sé, un sistema razionale, stabile, ed equo; come se tutte le crisi e le ingiustizie economiche di cui siamo testimoni fossero conseguenza di espedienti fittizi; come se l’indebitamento dei popoli e delle nazioni non fosse una funzione vitale e imprescindibile dell’espansione produttiva che quei medesimi popoli e quelle medesime nazioni ciecamente perseguono.


Al contrario, insistendo sul carattere cristiano piuttosto che ebraico del capitale, Marx segnala che l’oggetto della sua critica non è tanto un modo di appropriarsi della ricchezza, quanto un modo di produrla. L’antisemitismo prende di mira i parassiti della società moderna; Marx il principio stesso della sua produttività. Incita i lavoratori di tutti i paesi a lottare e a scioperare – non contro qualche nemico reale o presunto del lavoro umano, ma contro la forma astrattamente «umana» del loro stesso lavoro. Spiega e dimostra che il potere che li opprime non è quello del denaro, il Dio unico e geloso di Israele, ma quello del capitale, il Dio trino e amoroso dell’umanità universale.


Il contributo critico di Marx alla riformulazione della questione sociale consiste principalmente nel porre la questione della forma sociale della produzione, ossia della sua trasformabilità. Intende mostrare che ogni emancipazione reale, ogni trasformazione storica della società deve necessariamente passare attraverso la trasformazione del suo modo di lavorare. Nel far ciò non si stanca di mettere in guardia da teorie, utopie e programmi di tutti i colori politici che millantano altri tipi di soluzione della questione sociale, tali da lasciare immutato il lavoro.


L’antisemitismo moderno associa capitalismo e giudaismo attraverso il denaro come termine medio. Marx non insegna soltanto che il capitale è un sistema di produzione di merci assai più che un sistema di potere del denaro. Né si limita ad aggiungere che per un tale sistema è «il cristianesimo», non il giudaismo, la religione più confacente. Mostra anche perché il capitale debba necessariamente apparire diverso da quello che è, e cioè come potere del denaro – come ebraico.


La teoria del denaro come «forma fenomenica» del capitale e la concezione economica antisemita della società moderna illuminano l’una la genesi dell’altra. È abbastanza ovvio, sebbene spesso lo si dimentichi, che per comprendere la natura e le cause dell’antisemitismo moderno è necessario conoscere i meccanismi di funzionamento dell’economia capitalistica. La vicenda di Marx mostra che è vero anche l’inverso: che proprio la riflessione sul fenomeno antisemita garantisce un accesso privilegiato alla comprensione generale della società in cui viviamo.

Note

Parte seconda. Critica dell’economia politica. Antisemitismo e capitale

1. Economia politica dell’antisemitismo

1 Ezra Pound, Lavoro ed Usura. Tre saggi, All’insegna del pesce d’oro, Milano MCMLXXII, copertina.


2 Cfr. supra, pp. 52-75.


3 Genesi 3, 19, trad. it. di Dario Disegni, in Id., a cura di, Bibbia ebraica, vol. Pentateuco e Haftaroth, con traduzione italiana e note, La Giuntina, Firenze 1995, p. 10.


4 Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (Grundrisse 1), MEO XXIX, p. 36.


5 Ibid., p. 37.


6 L’economia politica borghese rappresenta bensì un grande progresso scientifico e civile, ma non è l’incarnazione del Verbo. Alla fine del primo volume del Capitale Marx si premura di dimostrare che le idee economiche Adam Smith non coincidono con quelle dell’autore di Genesi distinguendo la funzione del mito del peccato originale – spiegare perché gli esseri umani sono condannati a lavorare – da quella della teoria smithiana dell’accumulazione originaria – spiegare perché alcuni ne sono esentati –. Karl Marx, Il capitale 1, p. 777. Cfr. Disegni, Die Aktualität des Ursprungs, cap. 1; Michael Perelman, The Invention of Capitalism. Classical Political Economy and the Secret of Previous Accumulation, Duke University Press, London 2000.


7 Marx, Grundrisse 1, p. 37.


8 Ibid., pp. 37-38.


9 «Se io desidero un cibo o voglio servirmi della diligenza, perché non sono abbastanza forte da far la strada a piedi, il denaro mi procura così il cibo e la diligenza, cioè trasforma i miei desideri-rappresentazioni, traduce la loro esistenza pensata, rappresentata, voluta, nella loro esistenza sensibile, reale, la rappresentazione in vita, l’essere rappresentato nell’essere reale. In quanto è questa mediazione, il [denaro] è la forza veramente creatrice». Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, MEO III, p. 352.


10 «Sebbene la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, pure ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nessun altro che lui. Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani possiamo dire che sono propriamente suoi. A tutte quelle cose dunque che egli trae dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate, egli ha congiunto il proprio lavoro, e cioè unito qualcosa che gli è proprio, e con ciò la rende proprietà sua. Poiché son rimosse da lui dallo stato comune in cui la natura le ha poste, esse, mediante il suo lavoro, hanno, connesso con sé, qualcosa che esclude il diritto comune di altri. Infatti, poiché questo lavoro è proprietà incontestabile del lavoratore, nessun altro che lui può avere diritto a ciò ch’è stato aggiunto mediante esso, almeno quando siano lasciate in comune per gli altri cose sufficienti e altrettanto buone». John Locke, Due trattati sul governo e altri scritti politici, a cura di Luigi Pareyson, Utet, Torino 1982, p. 249.


11 «La moneta non è uno strumento semplice come una vanga. Contiene due elementi; quello che misura i prezzi sul mercato, e quello che dà il potere di comprare la merce. Su questa duplicità gli usurai hanno giuocato … [La moneta] conferisce, a chi la possegga, il diritto di ricevere in contraccambio qualsiasi merce offerta sul mercato sino al prezzo pari alla cifra indicata … Questa universalità conferisce alla moneta certi privilegi … La durabilità conferiva al metallo certi vantaggi commerciali, che le patate e i pomodori non posseggono. Chi possiede metallo può aspettare il momento buono per scambiarlo contro merce meno durevole. Quindi i primi strozzinaggi da parte dei detentori dei metalli … Un grande errore dell’economia liberale è stato l’oblio della differenza fra cibo, e quel che non si può mangiare, né adoperare come vestito [la moneta]. Un realismo repubblicano richiamerebbe l’attenzione pubblica su certe realtà basilari». Pound, Lavoro ed Usura, pp. 19-28.


12 «Oro? Prezioso, scintillante, rosso oro? … Tanto di questo fa il nero bianco, il brutto bello, il cattivo buono, il vecchio giovane, il vile valoroso, l’ignobile nobile. Stacca il prete dall’altare … sì, questo rosso schiavo scioglie e annoda i legami sacri; benedice il maledetto; fa la lebbra amabile; onora il ladro e gli dà il rango, le genuflessioni e influenza nel consiglio dei senatori; conduce dei pretendenti alla troppo stagionata vedova; ringiovanisce, balsamico, in una gioventù di maggio, colei ch’è respinta con nausea, marcia com’è d’ospedale e di pestifere piaghe. Maledetto metallo, comune prostituta degli uomini, che sconvolge i popoli». William Shakespeare, Timone d’Atene, cit. in Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, p. 351.


13 L’utopia di una repubblica del lavoro e delle merci libera dalla violenza usurpatrice del denaro accompagna la storia della produzione capitalistica fin dai suoi albori. Per la storia e la critica di questa rappresentazione, dai fisiocratici e i primi scrittori socialisti fino ai giorni nostri, cfr. Nadja Rakowitz, Einfache Warenproduktion. Ideal und Ideologie, ça Ira, Freiburg 2000. Emblematiche le teorie sull’economia naturale del mercante anarchico e attivista vegetariano Silvio Gesell. Cfr. Silvio Gesell, Die natürliche Wirtschaftsordnung durch Freiland und Freigeld, Selbstverlag, Les Hauts Geneveys 1916.


14 Cfr supra, pp. 211-14.


15 Robert Kurz, Politische Ökonomie des Antisemitismus. Die Verkleinbürgerung der Postmoderne und die Wiederkehr der Geldutopie von Silvio Gesell, «Krisis» 16/17 (1995), https://exit-online.org/textanz1.php?tabelle=autoren&index=18&posnr=18&backtext1=text1.php.