domenica 21 dicembre 2025

ANGELO, GUARDA IL PASSATO Thomas Wolfe

 



 ANGELO, GUARDA IL PASSATO
Thomas Wolfe 



PARTE PRIMA

 

 

             …Una pietra, una foglia, una porta 

            non trovata.

 E di tutti i volti dimenticati.

Nudi e soli veniamo in esilio. Non conosciamo il volto di nostra madre, nel suo utero buio; Dalla prigione della sua carne dobbiamo giungere nella indescrivibile e incomunicabile prigione di questa terra.

Chi di noi ha conosciuto suo fratello? Chi di noi ha guardato nel cuore di suo padre? Chi di noi non è rimasto per sempre un prigioniero? Chi di noi non è per sempre solo e straniero?

O spreco di energia, nei caldi labirinti, fra le stelle lucenti su questa cenere opaca e stanca, perduta! Ricordando, senza parole, cerchiamo il grande linguaggio dimenticato, la fine del sentiero perduto che porta in Cielo, una pietra, una foglia, una porta non trovata. Dove? Quando?

O spirito perduto, e pianto dai venti, ritorna.

 

 

 

 

1.

 

 

              Un destino che conduce un inglese dagli olandesi è già piuttosto strano; ma un destino che conduce da Epsom fino in Pennsylvania, e di qui alle colline che chiudono Altamont, sopra il fiero canto di corallo del gallo, e il morbido sorriso di pietra di un angelo, quello è toccato da quell’oscuro miracolo del caso che crea nuove magie in un mondo polveroso.

Ognuno di noi è tutte le somme che non ha contato: se venissimo sottratti e portati di nuovo nella nudità e nella notte, vedremmo cominciare a Creta, quattromila anni fa, l’amore che è finito ieri in Texas.

Il seme della nostra distruzione fiorirà nel deserto, la medicina per curarci cresce vicino ad una roccia in montagna, e le nostre vite sono tormentate da una sgualdrina della Georgia, perché un tagliaborse di Londra è sfuggito alla forca.

Ogni momento è il frutto di quattromila anni. I giorni che vincono i minuti, ronzano come mosche volando da casa alla morte, e ogni momento è una finestra su tutto il tempo.

Questo è un momento.

 

Un inglese di nome Gilbert Gaunt, nome che più tardi cambiò in Gant (probabilmente una concessione alla fonetica Yankee, essendo giunto a Baltimora da Bristol nel 1837 su un vascello), fece presto rotolare giù per la sua gola imprevidente i profitti di un’osteria che aveva comprato.

Vagabondò verso ovest fino in Pennsylvania, sbarcando pericolosamente il lunario facendo combattere galli contro i campioni di aie di campagna, e spesso fuggendo, dopo una notte passata in una prigione di paese, con il suo campione morto sul campo di battaglia, senza l’ombra di un quattrino in tasca, e a volte con l’impronta delle grosse nocche di un fattore sulla sua faccia impudente.

Ma riuscì sempre a scappare, e alla fine, giunto fra gli Olandesi nell’epoca del raccolto, fu così commosso dalla ricchezza della loro terra, che gettò là la sua ancora.

Entro un anno sposò una giovane e rozza vedova con una graziosa fattoria, vedova che, come tutti gli altri olandesi, era stata affascinata dalla sua aria di viaggiatore, dal suo grandioso eloquio, soprattutto quando recitava Amleto allo stesso modo del grande Edmund Kean. Tutti dicevano che egli avrebbe dovuto fare l’attore.

L’inglese ebbe figli – una femmina e quattro maschi – visse nell’agio e senza affanni, e sopportò pazientemente il peso della lingua onesta ma dura della moglie.

Gli anni passarono, i suoi occhi lucenti e attenti divennero opachi e con le borse; l’inglese alto, cominciò a camminare con le movenze di un gottoso: una mattina, quando la moglie andò a tirarlo giù dal letto, lo trovò morto di apoplessia. Lasciava cinque figli, un’ipoteca e – nei suoi strani occhi scuri che adesso erano aperti e brillanti – qualcosa che non era morto: un desiderio appassionato e oscuro per i viaggi.

Così, con questa eredità, lasciamo quest’inglese e occupiamoci da ora in poi dell’erede a cui egli la lasciò, il suo secondo figlio, un ragazzo di nome Oliver. Di come questo ragazzo, fermo sul ciglio della strada accanto alla fattoria della madre, vide i Ribelli, impolverati, tornare marciando a Gettysburg, di come i suoi occhi freddi si incupirono quando udì il grande nome Virginia, e di come l’anno che la guerra finì, quando aveva ancora quindici anni, aveva camminato lungo una strada a Baltimora, e visto in un negozietto lapidi tombali di granito, con scolpiti agnelli e cherubini, e un angelo posato su freddi piedi rachitici, con un sorriso di pietra da idiota – ma questa è una storia più lunga. Ma io so che i suoi piccoli occhi freddi si erano incupiti per la voglia oscura e appassionata che era vissuta negli occhi del morto, e che aveva portato colui da Fenchurch Street a oltre Philadelphia.

Mentre il ragazzo guardava il grande angelo col gambo di giglio scolpito, una eccitazione fredda e senza nome lo possedette. Le lunghe dita delle sue grandi mani si chiusero.

Egli sentì che voleva, più di ogni altra cosa al mondo, scolpire delicatamente con un cesello. Voleva trasferire sulla pietra fredda qualcosa di scuro e inesprimibile che si trovava dentro di lui.

Voleva scolpire la testa di un angelo.

Oliver entrò nel negozio e chiese ad un uomo grosso con la barba che aveva un mazzuolo di legno, di dargli un lavoro. Egli divenne l’apprendista dello scalpellino. Lavorò in quel cortile polveroso per cinque anni. Divenne un intagliatore di pietra. Quando il suo apprendistato fu finito, egli era divenuto un uomo.

Non lo trovò mai. Non imparò mai a scolpire la testa di un angelo. La colomba, l’agnello, le mani unite nella morte, le lettere belle ed eleganti – ma non l’angelo. E di tutti gli anni perduti – gli anni turbolenti a Baltimora, di lavoro e ubriacature selvagge, e il teatro di Booth e Salvini, che ebbe un effetto disastroso sul tagliatore di pietra, che ricordava ogni accento del nobile artista, e girava per le strade borbottando, con rapidi gesti delle enormi mani parlanti – questi sono passi ciechi e barcollamenti del nostro esilio, l’affannarsi della nostra fame, mentre, ricordando senza parole, cerchiamo il grande linguaggio dimenticato, la strada perduta che porta al cielo, una pietra, una foglia, una porta. Dove? Quando?

Non lo trovò mai, e vagò attraverso il continente fino al Sud in ricostruzione – una strana selvaggia figura di un metro e ottanta con occhi freddi e difficili, una gran lama di naso, e onde crescenti di retorica, una invettiva comica e assurda, usata come se fosse una lingua classica, seriamente, ma con un sorrisetto strano intorno agli angoli della sua bocca crucciata.

Si mise in affari a Sydney, la piccola capitale di uno degli stati centrali del sud, visse sobriamente e industriosamente sotto lo sguardo attento di un popolo ancora esacerbato dalla sconfitta e dall’ostilità, e, alla fine, fattosi un buon uomo ed essendo stato accettato, sposò una zitella magra e tubercolotica, di dieci anni più vecchia, ma con un gruzzoletto e una volontà di sposarsi indistruttibili.

Dopo diciotto mesi era di nuovo un pazzo urlante, i suoi affari andarono a rotoli senza che lui facesse niente, e Cynthia, sua moglie – la cui vita, dicono quelli del posto, egli non era certo riuscito a prolungare – morì improvvisamente una notte di emorragia.

Così, tutto era di nuovo andato – Cynthia, il negozio, la fama di sobrietà così faticosamente acquisita, la testa dell’angelo – camminò per le strade di notte, urlando in pentametri la sua maledizione verso i modi dei Ribelli, verso la loro indolenza; ma abbattuto dalla paura, e dalla perdita, e dal pentimento, si accasciò sotto lo sguardo di riprovazione della città, convincendosi, mentre la carne se ne andava dalla sua figura già magra, che la maledizione di Cynthia stava compiendo la sua vendetta su di lui.

Aveva solo poco più di trent’anni, ma sembrava molto più vecchio. Il suo viso era giallognolo e scavato; il suo naso sembrava un becco. Aveva lunghi baffi scuri che spiovevano luttuosi.

I suoi tremendi eccessi nel bere avevano minato la sua salute. Era magro come un chiodo e tossiva. Pensava a Cynthia, adesso, nella città abbandonata e ostile, e cominciò ad avere paura. Pensò di avere la tubercolosi e di star per morire.

Così, di nuovo solo e perduto, non avendo trovato nel mondo né un ordine né una sistemazione, e con la terra che gli mancava sotto i piedi, Oliver riprese il suo vagabondaggio nel continente.

Si diresse a ovest verso la grande fortezza delle colline, sapendo che al di là di esse la sua brutta fama non era conosciuta, e sperando che avrebbe potuto trovare là solitudine, una nuova vita, e recuperare la salute.

Gli occhi di quel magro spettro si scurirono di nuovo, come avevano fatto nella sua gioventù.

 

***

 

Per tutto un giorno, sotto un cielo di ottobre grigio e piovoso, Oliver viaggiò verso ovest attraverso quel grande stato. Mentre guardava malinconicamente fuori dal finestrino la grande terra incolta punteggiata da futili e occasionali piccole fattorie, che sembravano aver fatto solo piccole aree coltivate nella terra selvaggia, il suo cuore diveniva freddo e di piombo. Pensava ai grandi granai della Pennsylvania, le spighe mature di grano dorato, l’opulenza, l’ordine, l’aria pulita della gente. Pensava a come era partito per farsi una posizione, e alla confusione della sua vita, agli anni sporchi e oscuri, alla perdita della sua giovinezza.

Per Dio! pensava. Sto invecchiando! Perché qui?

L’orribile corteo degli anni trascorsi si affollava nel suo cervello.

All’improvviso, vide che la sua vita era stata incanalata da una serie di circostanze: un Ribelle pazzo che cantava di Armageddon, il suono di una tromba lungo la strada, il calpestio dei muli dell’esercito, la sciocca faccia bianca di un angelo in un negozio polveroso, l’ondeggiare di anche di una donnina facile mentre passava. Aveva lasciato il calore e l’abbondanza per venire in questa terra desolata: mentre guardava fuori dal finestrino e vedeva la terra incolta, si levò la grande catena del Piedmont, le strade di argilla rossa, la gente zotica che si affollava alle stazioni – un fattore magro che si dondolava sulle reni, un negro ozioso, un contadino sdentato, una donna pallida e dura con un bambino sporco – la stranezza del destino lo colpì con paura. Come era giunto fin qui, lui, dalla pulita colonia olandese della sua giovinezza in questa vasta terra desolata di rachitici?

Il treno procedeva sulla terra maleodorante. La pioggia cadeva fitta. Un frenatore entrò deciso nella carrozza sudicia e vuotò un secchio di carbone nella grande stufa ad una estremità. Alte e sciocche risate scuotevano un gruppo di contadini sdraiati su due sedili rovesciati.

Il suono triste della campanella sovrastava il rumore del treno sulle rotaie. Ci fu un’interminabile attesa in una stazione di coincidenza vicino alle colline. Poi il treno riprese la sua corsa attraverso la vasta campagna ondulata.

Venne la sera. La grande massa delle montagne emergeva confusa; piccole luci fumose si accendevano nei pendii. Il treno attraversava fantastici corsi d’acqua su ponti da vertigine.

Su in alto, giù in basso, incappucciate da pennacchi di fumo, case giocattolo si attaccavano agli argini, ai precipizi, ai fianchi della collina. Il treno avanzava sinuosamente su, fra due rosse pareti tagliate con lenta fatica. Come si fece buio, Oliver scese alla cittadina di Old Stockade dove finiva la linea ferroviaria. L’ultima grande parete della collina su di lui. Lasciata la stazioncina, mentre osservava la lampada fumosa di un negozio di campagna, Oliver sentì che era giunto, come una grande bestia, nel cerchio di queste enormi colline per morire.

La mattina dopo riprese il viaggio in carrozza. La sua destinazione era la cittadina di Altamont, ventiquattro miglia al di là della cresta della più grande cerchia esterna delle colline. Mentre i cavalli si affaticavano lentamente salendo la strada di montagna, lo spirito di Oliver si sollevò un po’. Era un giorno di tardo ottobre, grigio–dorato, luminoso e ventoso. L’aria di montagna frizzava e brillava: la catena sorgeva sopra di lui, vicina, immensa, pulita e nuda. Gli alberi sorgevano rigidi e scheletrici: erano quasi senza foglie. Il cielo era pieno di stracci di nuvole bianche strappate dal vento; una spessa striscia di nebbia bagnava lentamente il lato di una montagna.

Sotto di lui un ruscello di montagna spumeggiava lungo il suo letto roccioso, ed egli poteva vedere gruppetti di uomini che tracciavano la pista diretta ad Altamont che avrebbe attraversato la collina.

Poi i cavalli sudati risalirono il fianco della montagna, e, fra i picchi maestosi sospesi in una nebbia purpurea, cominciarono la lenta discesa verso l’altopiano sul quale era stata costruita la città di Altamont.

Nella spaventosa eternità di queste montagne, immersa nella loro enorme conca, egli trovò, sparsa sulle sue centinaia di colline e valli, una città di quattromila persone.

Ecco nuove terre. Il suo cuore si sollevò.

 

***

 

Questa città di Altamont era stata fondata subito dopo la guerra della Rivoluzione. Era stata una tappa comoda per i guidatori di bestiame e per gli agricoltori che si spostavano verso est dal Tennessee verso la Carolina del Sud. E, per diversi decenni prima della Guerra Civile, aveva goduto dei favori estivi della società alla moda che veniva da Charleston e dalle piantagioni del caldo sud.

Quando Oliver giunse lì la prima volta, la città aveva cominciato a godere di una certa fama non solo come stazione di villeggiatura, ma come sanatorio per i tubercolotici. Alcuni ricchi che venivano dal Nord avevano costruito padiglioni di caccia sulle colline, e uno di loro aveva comprato ampie aree della montagna e, con un esercito di architetti, di carpentieri e di capomastri di importazione, stava progettando il più grande edificio di villeggiatura d’America, in pietra, con tetti spioventi in ardesia, e centottantatré stanze. Era ispirata al castello di Blois. C’era anche un grande hotel nuovo, una sontuosa costruzione in legno, in una bella posizione in cima ad una collina dominante.

Ma la maggior parte della popolazione era del posto, giunta dalle colline e dalle campagne circostanti. Erano montanari di linea scozzese, rudi, provinciali, intelligenti, e lavoratori.

Ad Oliver erano rimasti circa milleduecento dollari dal naufragio delle proprietà di Cynthia.

Durante l’inverno affittò una capanna ad un capo della piazza della città, acquistò un piccolo stock di marmi, e si mise in affari. Ma all’inizio aveva poco da fare se non pensare alla prospettiva della sua morte. Durante l’inverno amaro e solitario, mentre pensava di star per morire, quello scheletrico Yankee che ciabattava borbottando per le strade divenne l’oggetto delle chiacchiere degli abitanti della città.

Tutte le persone della sua pensione sapevano che di notte camminava nella stanza come una belva in gabbia, e che un lungo e basso lamento che sembrava venisse dalle sue viscere tremava incessantemente sulle sue labbra sottili. Ma egli non ne parlava a nessuno.

E poi giunse la meravigliosa primavera delle colline, verde–dorata, con brevi venti leggeri, la magia e il profumo dei fiori, e caldi profumi balsamici. La grande ferita di Oliver cominciò a guarire. La sua voce si udì ancora sulla terra, ci furono lampi porpora della vecchia retorica, lo spettro dell’antico entusiasmo.

Un giorno d’aprile, mentre stava davanti al suo negozio con i sensi freschi e risvegliati, osservando il vibrare della vita nella piazza, Oliver udì dietro di sé la voce di un uomo che passava. E quella voce, piatta, compiacente, strascicata, riportò con luce improvvisa un’immagine che era stata dentro di lui, quiescente, per vent’anni.

“Sta per arrivare'! Secondo i miei calcoli l’11 giugno 1886.”

Oliver si girò e vide allontanarsi la grossa e persuasiva figura del profeta che aveva visto scomparire nella strada polverosa che portava a Gettysburg e Armageddon.

“Chi è?” chiese a un uomo.

L’uomo guardò con una smorfia.

“Quello è Bacchus Pentland” disse. “È un personaggio. Ce ne sono tanti dei suoi da queste parti.”

Oliver si succhiò il pollice per un attimo. Poi, con una smorfia, disse:

“È già giunto l’ Armageddon?”

“Se lo aspetta da un giorno all’altro”, disse l’uomo.

 

***

 

Poi Oliver incontrò Eliza. Un pomeriggio di primavera stava sdraiato sul suo divano di pelle nel suo piccolo ufficio, ascoltando i vivaci rumori della piazza. Una pace ristoratrice era calata sul suo grande corpo.

Pensava alla scura terra di argilla con le sue improvvise luci di fiori, alla birra fredda e schiumosa, ai fiori cadenti del susino. Poi udì il rumore svelto dei tacchi di una donna che si avanzava tra i marmi, e si tirò su svelto. Proprio mentre lei entrava, egli stava indossando la sua giacca nera pesante ben spazzolata.

“Vi voglio proprio dire”, disse Eliza, spingendo un po’ in fuori le labbra come per rimproverarlo, “vorrei essere un uomo e non avere altro da fare che star sdraiato tutto il giorno su un bel divano comodo.”

“Buon pomeriggio, signora” disse Oliver con un ampio inchino. “Sì” disse, mentre un debole sorriso piegava la sua bocca sottile, “credo che mi abbiate colto mentre facevo il mio pisolino. Di fatto io mi sdraio molto raramente durante il giorno, ma nell’ultimo anno sono stato malato, e non riesco più a lavorare come una volta.”

Egli rimase zitto per un momento, la sua faccia si volse all’ingiù in un’espressione di cane bastonato. “Ah, Signore! Non so che cosa sarà di me!”

“Evvia!”, disse Eliza vivacemente e sprezzante. “Secondo me voi non avete niente che non vada. Siete un bell’uomo forte, nel fiore della vita. È tutta immaginazione. La maggior parte delle volte che pensiamo di essere malati è tutta un’invenzione della nostra mente. Ricordo che tre anni fa stavo insegnando in una scuola di Hominy, quando mi ammalai di polmonite. Nessuno si aspettava che ne uscissi viva, ma in qualche modo ce la feci; ricordo bene che un giorno stavo riposando – credo che fossi convalescente; la ragione per cui lo ricordo è che il vecchio Dr. Fletcher mi aveva appena visitato e che quando se ne andò lo vidi che scuoteva la testa parlando con mia cugina Sally. ‘Diamine, Eliza,’ mi disse ella, appena lui se ne fu andato, ‘mi dice che sputi sangue ogni volta che tossisci; è sicuro che hai la tisi.’ ‘Macché,’ dissi io. Ricordo che risi di cuore, decisa a prendere la cosa come uno scherzo; dissi a me stessa: ‘non gliela darò vinta, e mi farò beffe di tutti loro; ‘non credo una parola’, io dissi a mia cugina”, ella gli fece un cenno con la testa, vivacemente, e sporse un po’ le labbra, “e d’altronde, Sally’, io dissi, ‘tutti noi dobbiamo andarcene prima o poi, e non serve a niente preoccuparsi di ciò che accadrà. Può accadere domani, o più in là, ma accade a tutti, alla fine’.”

“Ah Signore!” disse Oliver, scuotendo la testa tristemente. “Coglieste proprio il punto quella volta. Non fu mai detto niente di più vero.”

Dio misericordioso! pensava con un angoscioso sogghigno interiore. Quanto durerà? Una cosa certa però è che è davvero fresca.

Guardava con apprezzamento la sua figura svelta e dritta, notando la sua carnagione color latte, i suoi occhi marroni–neri, con il loro curioso sguardo da bambina, e i suoi capelli scuri tirati all’indietro, a scoprire la sua fronte bianca. Ella aveva il curioso vezzo di spingere le labbra in fuori, riflettendo prima di parlare; le piaceva prendersi il suo tempo, e giungere al punto dopo interminabili divagazioni lungo tutte le strade della memoria, godendo del racconto dorato di tutto ciò che aveva detto, fatto, sentito, pensato, visto, o replicato, con delizia egocentrica. Poi, mentre Oliver la osservava, ella smise bruscamente di parlare, si pose la sua mano pulita e guantata sul mento, e fissò lo sguardo nel vuoto con una bocca sporgente e pensierosa.

“Bene”, disse dopo un momento, “se vi state rimettendo in salute e passate buona parte del tempo a star sdraiato, avrete bisogno di qualcosa per tenere occupata la mente.”

Ella aprì la borsa di cuoio che portava e ne estrasse un biglietto da visita e due grossi volumi. “Mi chiamo”, disse ella con importanza, e lenta enfasi, “Eliza Pentland, e rappresento la Larkin Publishing Company.”

Ella pronunciò le parole con fierezza, con gusto e dignità. Grazie a Dio! Una rappresentante di libri! pensò Gant.

“Offriamo”, disse Eliza, aprendo un gran libro giallo con fantastici disegni di lance, bandiere e corone di alloro, “un libro di poesie intitolato ‘Gemme di Versi per il Cuore accanto al Camino’, e anche ‘La medicina pratica in casa vostra' di Larkin’, e il ‘Libro dei Rimedi Casalinghi’, che danno indicazioni per la cura e la prevenzione di oltre cinquecento malattie.”

“Bene”, disse Gant, con un sorrisetto, bagnandosi un attimo il pollice, “dovrei trovarci anche la mia.”

“Oh, certo”, disse Eliza, annuendo vivacemente, “come dice quel detto, puoi leggere poesie per il bene dell’anima e Larkin per il bene del corpo.”

“Mi piace la poesia”, disse Gant, sfogliando le pagine, e fermandosi interessato alla sezione intitolata ‘Canti di Lancia e di Spada’. “Quando ero ragazzo ero in grado di impararle a memoria velocemente.”

Egli comprò i libri. Eliza rimise a posto i suoi campioni, e si fermò guardando attentamente e con curiosità il negozietto polveroso.

“Fate molti affari?” disse.

“Molto pochi”, disse Oliver triste. “A malapena per tenere insieme anima e corpo. Sono uno straniero in terra straniera.”

“Sciocchezze!” disse Eliza allegramente. “Dovreste uscire e conoscere gente. Avete bisogno di qualcosa che vi distragga dal pensare a voi stesso. Se fossi nei vostri panni, mi ci tufferei dentro e mi interesserei dei progressi della città. Qui abbiamo tutto ciò che serve a farne una bella e grande città – scenario, clima, risorse naturali, e dobbiamo lavorarci tutti insieme. Se avessi qualche migliaio di dollari so cosa farei…” Ella gli strizzò l’occhio con intelligenza, e cominciò a parlare muovendo la mano con un gesto curiosamente mascolino – l’indice teso, il pugno raccolto. “Vedete questo angolo – quello dove siete voi? Raddoppierà di valore nei prossimi anni. Ecco!” ella indicò con quel gesto mascolino. “Costruiranno una strada là un giorno o l’altro, statene pur certo. E quando lo faranno”, ella sporse le labbra, riflettendo, “questa proprietà varrà dei soldi.”

Ella continuò a parlare di proprietà con una strana, pensosa avidità. Sembrava che per lei la città fosse un’enorme cianografia: la sua testa era piena zeppa di cifre e di stime – chi possedeva un lotto, chi l’aveva venduto, il prezzo di vendita, il valore reale, il valore futuro, la prima e la seconda ipoteca, e così via. Quando ebbe finito, Oliver disse, con l’enfasi derivante da una profonda avversione, pensando a Sydney: “Spero di non possedere, finché vivo, nessuna proprietà – ad eccezione di una casa in cui vivere. Non è altro che una preoccupazione e una maledizione, e alla fine le tasse se la portano via tutta.”

Eliza lo guardò con una espressione meravigliata, come se egli avesse detto una dannata eresia.

“Ehi, dico! Questo non è il modo di parlare!” ella disse. “Vorrete mettere qualcosa da parte per i giorni di pioggia, no?”

“I miei giorni di pioggia sono adesso”, disse lui cupamente. “Tutta la proprietà di cui ho bisogno sono otto piedi di terra per esserci seppellito.”

Poi, parlando più allegramente, la accompagnò alla porta del negozio, e la guardò mentre attraversava energicamente la piazza, mentre si teneva la gonna per salire sul marciapiede con grazia signorile.

Poi Oliver ritornò trai suoi marmi, sentendo un guizzo di quella gioia che pensava di aver perduto per sempre.

 

***

 

La famiglia Pentland, di cui faceva parte Eliza, era una delle più strane tribù che fossero mai venute fuori da quelle colline. Non aveva un diritto certo al nome di Pentland: un inglese–scozzese chiamato così, che era un ingegnere minerario, il nonno dell’attuale capofamiglia, era giunto nelle colline dopo la Rivoluzione, cercando il rame, e aveva vissuto là per diversi anni, avendo diversi figli da una pioniera. Quando se ne andò, la donna si prese il nome di Pentland, per sé e per i suoi figli.

L’attuale capo della tribù era il padre di Eliza, il fratello del profeta Bacchus, il maggiore Thomas Pentland. Un altro fratello era stato ucciso durante i Sette Giorni. Il titolo militare di maggiore di Pentland era stato guadagnato onestamente anche se in modo non molto notevole. Mentre Bacchus, che non era mai salito sopra il grado di Caporale, si faceva venire le vesciche alle mani dure a Shiloh, il maggiore, comandante di due compagnie di volontari, era a difesa delle colline natie. Questo caposaldo non fu mai minacciato fino agli ultimi giorni di guerra, quando i volontari, imboscati convenientemente dietro alberi e rocce, spararono tre scariche contro un distaccamento di soldati sbandati di Sherman, e poi si dispersero tranquillamente per difendere le loro mogli e bambini.

La famiglia Pentland era la più vecchia di tutte nella comunità, ma era stata sempre povera, e aveva sempre avuto poche pretese di nobiltà. Attraverso i matrimoni, anche fra parenti, poteva vantare qualche legame con i grandi, qualche traccia di pazzia, e un po’ di idiozia. Ma, a causa della sua ovvia superiorità nell’intelligenza e nella fibra, essa rivestiva una posizione di solida rispettabilità fra la gente di montagna.

I Pentland avevano marcate caratteristiche di famiglia. Come la maggior parte delle ricche personalità nelle famiglie più strane, la loro potente caratteristica di gruppo divenne ancora più impressionante a causa delle loro differenze individuali.

Avevano nasi ampi e pronunciati, con narici ben marcate e carnose, bocche sensuali, con una miscela straordinaria di delicatezza e ruvidezza, che quando pensavano muovevano con straordinaria flessibilità, larghe fronti intelligenti, e guance piatte, un po’ incavate.

Gli uomini erano in genere un po’ rubizzi in viso, e la loro struttura era tipicamente forte, piazzata, di media altezza, nonostante potesse esservi anche la varietà cadaverica.

Il maggiore Thomas Pentland era il padre di una famiglia numerosa di cui Eliza era l’unica figlia sopravvissuta. Una sorella minore era morta pochi anni prima di una malattia che la famiglia definiva con dispiacere ‘la scrofola della povera Jane’.

C’erano sei ragazzi: Henry, il maggiore, aveva ora trent’anni, Will aveva ventisei anni, Jim ventidue, e Thaddeus, Elmer e Greeley ne avevano, nell’ordine, diciotto, quindici, e undici. Eliza aveva ventiquattro anni.

I quattro figli maggiori, Henry, Will, Eliza, e Jim, avevano trascorso la loro infanzia negli anni immediatamente successivi alla guerra. La povertà e la privazione di quegli anni era stata così terribile che nessuno di loro adesso ne parlava, ma quell’amarezza era rimasta nel loro cuore, lasciando cicatrici che non sarebbero guarite.

L’effetto di quegli anni sui figli maggiori fu di sviluppare in essi un’insana taccagneria, un amore insaziabile per la proprietà, e un desiderio di fuggire il prima possibile dalla casa del maggiore.

 

***

 

“Padre”, aveva detto Eliza con dignità signorile, mentre accompagnava Oliver per la prima volta nel salotto del cottage, “voglio presentarti il signor Gant.”

Il maggiore Pentland si alzò lentamente dalla sedia a dondolo vicino al fuoco, ripiegò un grande coltello, e posò sulla mensola del camino la mela che stava sbucciando. Bacchus alzò lo sguardo benevolmente da un bastone che stava intagliando, e Will, sollevando gli occhi dalle unghie tozze che come al solito si stava limando, salutò il visitatore con un ammiccare come di uccello. Gli uomini giocavano sempre con coltelli a serramanico.

Il maggiore Pentland avanzò lentamente verso Gant. Era un uomo in carne sui cinquantacinque anni, con un viso rubizzo, una barba da patriarca, e la fisionomia benevola della sua tribù.

“Lei è il signor W.O. Gant, vero?” chiese con voce strascicata e untuosa.

“Sì”, disse Oliver, “è così.”

“Da quello che Eliza mi dice di voi”, disse il maggiore, dando il segnale al suo uditorio, “stavo per dire che dovevate essere L.E. Gant.”

La stanza risuonò della grassa risata compiaciuta dei Pentland.

“Via!” urlò Eliza, appoggiandosi la mano sul largo naso, “ma dico, padre! Dovresti vergognarti.”

Gant sogghignò con una parvenza di falsa allegria.

Vecchia canaglia, pensava. Ce l’ha pronta da almeno una settimana.

“Will l’hai già conosciuto prima”, disse Eliza.

“Sia prima che dopo”, disse Will con una furba strizzatina d’occhi.

Quando le risate si spensero, Eliza disse: “E questo – come si dice – è lo Zio Bacchus.”

“Sì, signore”, disse Bacchus raggiante, “in grandezza naturale e in gamba il doppio.”

“Lo chiamano Back–us dappertutto”, disse Will, ammiccando a tutti, “ma qui in famiglia lo chiamiamo Behind us.”

“Immagino”, disse il maggiore Pentland deliberatamente, “che abbiate fatto parte di molte giurie?”

“No”, disse Oliver, deciso adesso a sopportare il peggio con un sorriso gelido. “Perché?”

“Perché”, disse il maggiore guardandosi di nuovo attorno, “pensavo che foste un tipo che ha fatto un sacco di ‘corte’.”

Poi, mentre ridevano, si aprì la porta, ed entrarono diversi altri – la madre di Eliza, una scozzese ordinaria e sciupata, e Jim, un ragazzo rubizzo dall’aspetto porcino, il sosia di suo padre senza la barba, e Thaddeus, mite, rubicondo, con occhi e capelli scuri, bovino, e infine Greeley, il più giovane, un ragazzo con un sorriso idiota, pieno di strani tic rumorosi dei quali tutti ridevano. Aveva undici anni, ed era un degenerato, debole, scrofoloso, ma da quelle bianche mani umidicce sapeva trarre dal violino una musica che recava in sé qualcosa di istintivo e ultraterreno.

E mentre sedavano nella stanzetta calda, col suo caldo odore di mele mature, il vento forte urlava scendendo dalle colline: si udiva un ruggito tra i pini, remoto e folle, e i rami nudi si urtavano rumorosamente. E mentre essi sbucciavano, o limavano, o intagliavano, il discorso scivolò dalle loro grezze canzonature alla morte e ai funerali: essi raccontavano monotonamente, incattivendosi, chiacchiere sul destino, e su uomini che erano stati seppelliti da poco. E mentre i loro discorsi procedevano, e Gant udiva il gemito spettrale del vento, si ritrovava chiuso, sepolto nella solitudine e nel buio, e la sua anima si tuffava nel pozzo della notte, poiché egli vedeva che doveva morire da straniero – che tutto, tutto tranne questi trionfanti Pentland, che banchettavano sulla morte – doveva morire.

E come un uomo che sta morendo nella notte polare, pensò ai ricchi prati della sua infanzia; il mais, il pruno, il grano maturo. Perché qui? O, perduto!


 

 

 

2.

 

 

              Oliver sposò Eliza in maggio. Dopo il loro viaggio di nozze a Philadelphia, ritornarono alla casa che egli aveva costruito per lei in Woodson Street. Egli aveva scavato le fondamenta con le sue grandi mani, scavando cantine muschiose nella terra, e aveva rivestito le alte pareti con intonaco scuro ben lisciato.

Egli aveva pochissimi soldi, ma la sua strana casa crebbe seguendo il ricco progetto della sua fantasia: quando fu finita, era un po’ a strapiombo sullo stretto cortile in salita, un po’ con un gran portico sul davanti, e stanze calde in cui si saliva o si scendeva, a seconda del suo capriccio.

Costruì la sua casa vicino alla tranquilla strada in salita, cosparse il terreno fertile di fiori; piastrellò il breve passaggio verso gli alti gradini della veranda di grandi quadrati di marmo colorato, e mise un recinto di punte di ferro tra la sua casa e il mondo.

Poi, nella fresca, lunga radura che si apriva per quattrocento piedi dietro la casa, piantò alberi e viti. E qualsiasi cosa toccasse, in quella ricca fortezza della sua anima, germogliava e diventava vita dorata: via via che gli anni passavano, gli alberi da frutto – peschi, pruni, ciliegi, meli – crescevano e si piegavano sotto il peso dei frutti.

Le sue viti si irrobustirono, diventarono grosse corde scure, e si arrampicarono tortuose lungo il filo di ferro, e pendevano come un denso tessuto dal sostegno, circondando in doppia fila la sua proprietà.

Si arrampicavano ad un’estremità del portico della casa e si appoggiavano alle finestre superiori con una densa cornice.

E i fiori crescevano nel suo giardino gloriosamente ribelli – il nasturtium con le foglie di velluto, striate da centinaia di sfumature ramate, la rosa, la palla di neve, il tulipano della coppa rossa, e il giglio. Il caprifoglio lasciava cadere la sua massa abbondante al di là del recinto; dovunque le sue grandi mani toccassero la terra essa diventava ricca di frutti, per lui.

Per lui la casa era il ritratto della sua anima, l’abito della sua volontà. Ma per Eliza era un pezzo di proprietà, il cui valore essa apprezzava con astuzia, come un inizio per il suo patrimonio. Come tutti i figli maggiori del maggiore Pentland ella, fin dai vent’anni, aveva iniziato ad accrescere lentamente i suoi possedimenti di terra.

Con i risparmi del suo scarso stipendio di insegnante e rappresentante di libri, si era già comprata uno o due pezzetti di terra. Su uno di questi, un piccolo lotto ai margini della piazza, lo aveva persuaso a costruire un negozio. E lui lo fece con le sue mani, e col lavoro di due negri: era una costruzione di mattoni a due piani, con ampi scalini di legno, che conducevano alla piazza attraverso un portico di marmo.

Su questo portico, a fianco alle porte di legno, aveva posto alcuni marmi; vicino alla porta aveva posto la pesante e leziosa figura di un angelo.

Ma Eliza non era contenta del suo commercio: non si guadagnava abbastanza con la morte. La gente, lei pensava, moriva troppo poco. E prevedeva che suo fratello Will, che aveva cominciato a quindici anni come apprendista in un magazzino di legname, e adesso era il padrone di una piccola ditta, fosse destinato a diventare ricco.

Perciò, essa persuase Gant ad entrare in società con Will Pentland: alla fine dell’anno, tuttavia, egli perse la pazienza, il suo egocentrismo non resistette alla costrizione, ed urlò che Will, che trascorreva le ore di lavoro principalmente occupato a scarabocchiare su una busta sudicia con un mozzicone di matita, o a limarsi assorto le unghie, o a fare i soliti scherzi ammiccando come un uccello, li avrebbe mandati tutti in rovina.

Perciò Will tranquillamente comprò la sua parte della società e procedette verso l’accumulo di una fortuna, mentre Oliver ritornò al suo isolamento e ai suoi sudici angeli.

La strana figura di Oliver Gant gettava la sua ombra famosa su tutta la città. La gente lo udiva notte e giorno lanciare la sua grande maledizione contro Eliza. Lo vedevano andare da casa al negozio, lo vedevano chino sui suoi marmi, lo vedevano modellare con le sue grandi mani – con appassionata devozione, e urla, e bestemmie – il ricco arazzo della sua casa. Essi ridevano del suo folle eccesso di parole, di emozioni, di gesti. Essi restavano muti davanti alla furia maniacale delle sue baldorie, che accadevano quasi puntualmente ogni due mesi, e duravano per due o tre giorni.

Lo raccoglievano sporco e senza sensi dalla strada, e lo portavano a casa – il banchiere, il poliziotto e un corpulento svizzero devoto di nome Jannadeau, uno sporco gioielliere che aveva in affitto un piccolo spazio recintato fra le pietre tombali di Gant. E sempre lo trasportavano con attenzione affettuosa sentendo che c’era qualcosa di strano e fiero e glorioso nascosto in quell’ubriaco avanzo di Babele.

Era uno straniero per loro: nessuno – nemmeno Eliza – lo chiamò mai col suo nome proprio. Egli fu – e rimase sempre – Mister Gant.

E nessuno mai seppe il dolore e la paura e la gloria che Eliza sopportò.

Egli alitava su di loro tutto il suo respiro caldo di leone pieno di desiderio e furia: quando era ubriaco, la bianca faccia di lei, e i suoi movimenti calmi lo facevano diventare pazzo furioso.

In tali occasioni ella rischiava realmente di essere aggredita da lui: doveva chiudersi a chiave e star lontana da lui. Poiché fin dall’inizio, più profonda dell’amore, più profonda dell’odio, profonda come le ossa scarnificate della vita, una guerra oscura e definitiva si svolgeva tra loro.

Eliza piangeva o stava in silenzio di fronte alle sue maledizioni, rispondeva brevemente in risposta alla sua retorica, cedeva come un cuscino preso a pungi di fronte ai suoi attacchi – e lentamente, implacabilmente, restava sulla sua strada.

Anno dopo anno, nonostante le sue urla di protesta, egli non sapeva come, ma essi mettevano da parte qualcosa, comprando piccoli pezzi di terra, pagavano le odiate tasse, e mettevano i soldi che avanzavano ancora in altra terra. Oltre a moglie, oltre a madre, la donna che amava la proprietà, che era come un uomo, lentamente avanzava.

In undici anni ella gli diede nove figli, di cui sei vissero. La prima, una bambina, morì a venti mesi di colera infantile; altri due morirono alla nascita. Gli altri sopravvissero alla sporcizia e alla trascuratezza.

Il maggiore, un maschio, nacque nel 1885. Fu chiamato Steve. Il secondo, nato quindici mesi dopo, fu una femmina – Daisy.

La seguente, una bambina – Helen – giunse tre anni dopo.

Poi, nel 1892, giunsero due gemelli – maschi – a cui Gant, sempre appassionato di politica, diede i nomi di Grover Cleveland e Benjamin Harrison. E l’ultimo, Luke, nacque due anni dopo, nel 1894.

In questo periodo due volte, ad un intervallo di 5 anni, i bagordi periodici di Gant si prolungarono in una continua ubriachezza che durò settimane.

Fu trovato che stava annegando nel mare della sua sete.

Ogni volta Eliza lo mandò a fare una cura contro l’alcolismo a Richmond.

Una volta, Eliza e quattro dei suoi figli si ammalarono nello stesso periodo di febbre tifoidea. Ma durante una faticosa convalescenza ella spinse in avanti le sue labbra e li portò in Florida.

Eliza, attraverso la sua stolidità, giunse alla vittoria. Mentre marciava lungo questi enormi anni di amore e di perdita, colorati con i ricchi colori del dolore e della gloria e della morte, e con la grande fiamma selvaggia della vita di lui appassionata e diversa, le gambe le cedettero, prese nelle rovine, ma ella continuò, attraverso la malattia e la consunzione, fino alla forza vittoriosa.

Ella sapeva che c’era stata della gloria in tutto questo: da quanto insensato e crudele egli era spesso stato, ed ella ricordava l’enorme colore pulsante della vita di lui, e quel lato nascosto e spezzato in lui che egli non riuscì mai a trovare.

E la paura e una muta pietà sorgevano dentro di lei quando a volte vedeva i piccoli occhi turbati fermarsi e scurirsi per la sventata e cieca fame dell’antica frustrazione. O, perduto!

 

 

 

3.

 

 

Nella lunga processione degli anni attraverso cui si evolve la storia dei Gant, pochi anni portarono un maggior peso di dolore, terrore e miseria: nessuno era destinato a recare con sé eventi più conclusivi di quell’anno che segnò l’inizio del ventesimo secolo.

Per Gant e sua moglie, l’anno 1900, in cui un giorno si trovarono, dopo essere giunti alla maturità in un altro secolo – una transizione che deve aver portato, dovunque sia avvenuta, un breve ma intenso senso di solitudine a migliaia di persone ricche di immaginazione – offrì coincidenze, troppo forti per passare inosservate, che lo legarono ad altre pietre miliari delle loro vite.

In quell’anno Gant compiva cinquant’anni; sapeva che era vecchio come la metà del secolo che era appena morto, e che spesso gli uomini non vivono a lungo quanto i secoli.

E in quell’anno, anche, Eliza, incinta dell’ultimo bambino che avrebbe avuto, giunse al limite del terrore e della disperazione e, nella opulenta oscurità di una notte d’estate, mentre stava sdraiata a letto con le mani sopra la pancia rigonfia, cominciò a progettare la sua vita per gli anni in cui avrebbe smesso di essere una madre.

Nel golfo che si era già aperto e sulle cui rive separate le loro due vite avevano posto le fondamenta, ella stava cominciando a guardare, con infinita compostezza, con quella tremenda pazienza che aspetta un singolo evento per una vita intera, non tanto per una sicura lungimiranza, quanto per un istinto profetico e intimo. Questa qualità, questo compiacimento quasi buddhista, che, radicato nella struttura fondamentale della sua vita, ella non poteva né sopprimere né nascondere, era la qualità che egli poteva capire meno, e che lo faceva infuriare di più.

Egli aveva cinquant’anni: aveva una tragica consapevolezza del tempo – vedeva l’appassionata pienezza della sua vita che andava in declino, e questo lo rendeva simile ad una bestia insensata ed infuriata.

Ella aveva forse una ragione maggiore di lui per essere calma; poiché proveniva da una infanzia crudele, passata nella malattia, nella debolezza fisica, nella povertà, nel costante pericolo della morte e della miseria.

Aveva perso il primo figlio, ed era riuscita a salvare gli altri nonostante le varie epidemie; e ora, a quarantadue anni, col suo ultimo figlio che si agitava nel grembo, aveva la convinzione, rinforzata dalle sue superstizioni scozzesi, e dalla cieca vanità della sua famiglia, che vedeva la morte degli altri ma non dei suoi membri, che ella era stata destinata ad un scopo.

Mentre stava sdraiata a letto, una grande stella bruciò nella sua visione del settore occidentale del cielo; ed ella si immaginò che ascendesse lentamente verso il Paradiso. E nonostante ella non sapesse dire verso quale vetta la sua vita si stava dirigendo, tuttavia vide nel suo futuro una libertà che non aveva mai conosciuto, il possesso di potere e ricchezze, desiderio che si era inestinguibilmente mescolato con la corrente del suo sangue.

Pensando a questo, nell’oscurità, ella spinse in fuori le labbra con soddisfazione riflessiva: si vedeva seriamente al lavoro in questa festa, portando via dalle mani della follia ciò che quest’ultima non aveva mai saputo conservare.

“Ci riuscirò!” pensava. “Ci riuscirò. Will l’ha fatto! Jim anche. E io sono più intelligente di loro.” E con un rimpianto tinto di dolore e di amarezza, ella pensò a Gant:

“Ufff! Se non gli fossi sempre stata dietro, egli oggi non avrebbe neanche un bastone da poter chiamare suo. Quel poco che abbiamo me lo sono dovuto conquistare io, non avremmo neanche un tetto sopra la testa; avremmo passato il resto della vita in una casa in affitto” – che era per lei l’ignominia massima che poteva toccare alle persone imprevidenti e incapaci.

E continuò: “coi soldi che spreca ogni anno per bere ci si potrebbe comprare un bel pezzo di terra: potremmo essere dei benestanti se avessimo cominciato fin dall’inizio. Ma lui ha sempre odiato l’idea di possedere qualcosa: non poteva sopportarlo, mi disse una volta, da quando perse i suoi soldi nel commercio di Sydney. Se io fossi stata là, ci si può scommettere che non avrebbe perso un dollaro. Oppure che la perdita sarebbe stata dall’altra parte”, ella aggiunse cupamente.

E, sdraiata là, mentre il vento d’autunno scendeva dalle colline meridionali, riempiendo l’aria di foglie morte, e facendo, a folate intermittenti, un lontano tuono triste tra i grandi alberi, ella pensava allo straniero che era arrivato a vivere dentro di lei, e a quell’altro straniero, causa di così tanto dolore, che aveva vissuto con lei per quasi vent’anni.

E pensando a Gant, sentì nascere ancora una meraviglia dolorosa, ricordando la lotta selvaggia fra loro, e la grande lotta nascosta dentro di loro, basata sull’odio e sull’amore per la proprietà, nella quale ella non dubitava della propria vittoria, che però le sfuggiva, la deludeva.

“Giuro!”, ella bisbigliò. “Giuro! Non ho mai visto un uomo simile!”

Gant, di fronte alla perdita del piacere sensuale, sapendo che era giunto il tempo in cui tutti i suoi eccessi rabelaisiani nel mangiare, nel bere, e nell’amore dovevano morire, capiva che nessun guadagno avrebbe potuto compensarlo per la perdita del libertinaggio; sentiva anche il dolore acuto del rimpianto, sentendo che aveva posseduto poteri, aveva sprecato occasioni, come la sua società con Will Pentland, che avrebbe potuto portargli una posizione e il benessere. Sapeva che era morto il secolo in cui era trascorsa la parte migliore della sua vita; sentiva, più che mai, la stranezza e la solitudine della nostra piccola avventura sulla terra; pensava alla sua infanzia nella fattoria olandese, ai giorni di Baltimora, al vagabondaggio senza scopo attraverso il continente, all’impressionante svolgersi della sua vita governato da una serie di casualità.

L’enorme tragedia del caso era sospesa sopra la sua vita come una nuvola grigia. Vedeva più chiaramente che mai che egli era uno straniero in una terra straniera fra persone che gli sarebbero sempre state estranee. La cosa più strana di tutte, egli pensava, era questa unione, dalla quale aveva avuto figli, con la quale aveva creato una vita dipendente da lui, con una donna così lontana da tutto ciò che poteva comprendere.

Egli non sapeva se l’anno 1900 segnasse per lui un inizio o una fine; ma con la familiare debolezza della persona dedita ai sensi, si decise di farne una fine, riducendo il fuoco che già si stava spegnendo in lui fino a una fiammella tremolante.

Nella prima metà di gennaio, ancora ligio come un penitente ai buoni propositi dell’anno nuovo, egli generò un figlio: in primavera, quando fu evidente che Eliza era di nuovo incinta, si era lanciato in un’orgia senza precedenti, che non poteva neanche paragonarsi a quell’ubriacatura durata quattro mesi del 1896.

Giorno dopo giorno divenne dipendente dall’alcool, finché si stabili in lui uno stato di follia costante: in maggio ella lo mandò di nuovo in un sanatorio a Piedmont per fare ‘la cura’, che consisteva semplicemente nel nutrirlo semplicemente e a poco prezzo, e nel tenerlo lontano dall’alcool per sei settimane, un regime che contribuì a rendere vorace la sua fame, oltre che la sua sete.

Verso la fine di giugno egli ritornò, esternamente pentito, ma interiormente una fornace furiosa, ardente: il giorno prima che tornasse, Eliza ovviamente in avanzata gravidanza, con il suo viso bianco, fermo e compatto, entrò decisa in ognuno dei quattordici bar della città, chiamando il proprietario o il barista dietro al banco, e dicendo chiaramente e ad alta voce in presenza degli ubriachi e dei clienti del bar:

“State a sentire: sono venuta a dirvi che il signor Gant domani torna, e voglio che sappiate tutti che se io so che qualcuno di voi gli ha venduto da bere, lo mando in galera.”

La minaccia, lo sapevano, era assurda, ma la faccia pallida e severa, lo sporgersi in avanti pensoso delle labbra, e la mano destra, che ella teneva a pugno, come fa un uomo, col dito indice puntato in avanti, a enfatizzare il suo proclama con una gestualità calma ma in qualche modo potente, li gelò di un terrore che non avrebbe potuto essere causato da nessun tipo di violenza fisica.

Essi accolsero il suo annuncio in uno stupore ebete, al più mormorando un accordo esterrefatto mentre essa usciva.

“Per Dio”, disse un montanaro, lanciando con imprecisione un getto scuro verso una sputacchiera, “e lo farà anche. Quella donna fa quel che dice.”

“All’inferno!” disse Tim O'Donnel, sporgendo il suo viso scimmiesco comicamente al di sopra della cassa, “non darei da bere a W.O. adesso neanche se fossimo soli in privato e mi pagasse quindici centesimi un quarto… Se n’è già andata?”

Ci fu una gran risata alcolica.

“Chi è lei?” chiese qualcuno.

“È la sorella di Will Pentland.”

“Per Dio, allora lo farà”, esclamarono in diversi; e il posto tremò di nuovo dalle risa.

Will Pentland era da Loughran quando lei entrò. Ella non lo salutò. Quando se ne fu andata, egli si girò verso un uomo vicino, accompagnando la sua frase col solito ammiccare di uccello: “Potete scommetterci che non ci riuscirete”, disse.

Gant, quando ritornò, e fu rifiutato pubblicamente ad un bar, divenne pazzo di rabbia e di umiliazione. Naturalmente riuscì ad avere facilmente del whisky, facendoselo comprare da qualche negro o da qualche carrettiere che passava dal suo negozio; ma, nonostante la notorietà della sua condotta che era, lo sapeva, divenuta un mito classico fra i bambini della città, egli si irritava tutte le volte che se ne parlava pubblicamente; egli diveniva, anno dopo anno, più sensibile alla cosa, invece che farci l'abitudine; e la sua vergogna, la tremante umiliazione del mattino dopo, prodotto dell'orgoglio ferito e dei nervi scossi, faceva pena. Egli sentiva con amarezza che Eliza, con malizia deliberata, lo aveva degradato pubblicamente: ed egli, al suo ritorno a casa, le urlava insulti e accuse.

 

***

 

Per tutta l'estate Eliza attraversò questo orrore con fredda placidità della quale era avida ora, aspettando in una quiete terribile che ritornasse la paura di notte. Arrabbiato per la sua gravidanza, Gant andava quasi tutti i giorni alla casa di Elizabeth, in Eagle Crescent, da dove di notte veniva restituito da una banda di prostitute esauste e terrorizzate nelle mani di suo figlio Steve, il maggiore, che a questo punto era in confidenza con quasi tutte le donne del distretto, che lo coccolavano con affettuosa volgarità, e ridevano di cuore alle sue facili insinuazioni, sopportando perfino che egli desse loro delle sonore pacche sul sedere, e sgattaiolasse poi via.

“Figlio”, disse Elizabeth, scuotendo vigorosamente la testa ciondolante di Gant, “quando cresci, non comportarti come questo vecchio gallo qui. Ma lui è un buon vecchio ragazzo, quando vuole”, continuò, baciando l’area calva in cima alla testa, e facendo scivolare nelle mani del ragazzo il portafogli che Gant le aveva dato, prima, in un impeto di generosità. Ella era scrupolosamente onesta.

Il ragazzo in genere era accompagnato in queste sortite da Jannadeau e Tom Flack, un facchino negro che aspettava pazientemente fuori della porta di graticcio del bordello finché il rumore sempre più forte gli annunciava che a Gant era stata intimata la partenza. Ed egli se ne andava, o lottando goffamente e urlando eloquenti insulti ai suoi carcerieri supplichevoli, o gioviale e acquiescente, cantando una canzone oscena della sua giovinezza lungo il sentiero del giardino, e lungo le strade della città, silenziose all’ora di cena.

“Su nella stanza di dietro, ragazzi,

su in QUELLA stanza di dietro,

Tutti fra pulci e mosche,

Con–piango il vostro destino.”

A casa, egli era blandito per fargli salire gli alti gradini della veranda, e convinto ad andare a letto; oppure, resistendo ad ogni pressione, voleva cercare sua moglie, in genere chiusa nella sua stanza, urlandole minacce, e accuse di infedeltà, dal momento che albergava tali oscuri sospetti, frutto della sua età e della sua energia in declino.

La timida Daisy, pallida di paura, scappava fra le braccia della vicina Susie Isaacs o dai Tarkinton; Helen di dieci anni, anche allora la sua preferita, lo governava imboccandolo di minestra calda e picchiandolo con la manina quando diventava recalcitrante.

“BEVI questo! Ti fa bene!”

A lui faceva un enorme piacere; erano tutti e due della stessa pasta.

E poi, perdeva di nuovo la ragione. Pazzo in modo stravagante, accendeva enormi fuochi nel camino del salotto, innaffiando la fiamma con una latta di petrolio, sputando esultante nel fuoco che si alzava in risposta; e ripeteva fino all'esaurimento una canto blasfemo, fatto di poche righe di musica, che durava per quaranta minuti, in una solfa del genere:

“O–ho... Dannato

Dannato, Dannato

O–ho... Dannato

Dannato, Dannato”

adottando in genere il ritmo con cui il pendolo batte l'ora.

E fuori, appesi come scimmie al fil di ferro della recinzione, Sandy e Fergus Duncan, Seth Tarkinton, a volte gli stessi Ben e Grover, che si univano all'allegria dei loro amici, cantavano in risposta:

“Vecchio uomo Gant

tornato a casa ubriaco!

Vecchio uomo Gant

tornato a casa ubriaco!”

Daisy, al sicuro dai vicini, piangeva di vergogna e paura. Ma Helen, piccola furia magra, non rinunciava; dopo, lui si metteva a sedere, e accettava la zuppa calda e le pacche, con un sorrisetto.

Al piano di sopra Eliza, distesa, pallida e in guardia.

 

***

 

Così passò l'estate. Gli ultimi grappoli risecchiti e distrutti pendevamo dalle viti; il vento rumoreggiava, distante; settembre era al termine.

Una notte l'asciutto dottor Cardiac disse: “Penso che tutto finirà prima di domani sera.” Se ne andò, lasciando in casa una donna di campagna di mezza età. Era un'infermiera decisa e pratica.

Alle otto Gant ritornò da solo. Il ragazzo Steve era rimasto a casa per essere pronto in caso di necessità di Eliza; per il momento la sua attenzione non era rivolta al capo.

Sotto, la sua grossa voce, che cantava oscenità, arrivava fino ai vicini; appena ella sentì l'improvviso ruggito della fiamma su per il camino, che scuoteva, divampando, la casa, ella chiamò Steve accanto a sé, preoccupata: “Figlio, ci farà bruciare tutti!” bisbigliò.

Udirono una sedia che cadeva pesantemente, sotto, la sua bestemmia; sentirono la sua camminata barcollante attraverso la sala da pranzo e su per l'ingresso; sentirono lo scricchiolio della ringhiera mentre il suo corpo pesante vi si appoggiava.

“Sta venendo!” ella bisbigliò. “Sta venendo! Chiudi la porta a chiave, figlio!”

Il ragazzo chiuse la porta.

“Sei lì?” ruggì Gant, picchiando pesantemente il suo grosso pugno sulla porta sottile. “Signorina Eliza; sei lì?”

E le urlava quel titolo ironico con il quale la chiamava in momenti come questo.

E urlò una giaculatoria intessuta di invettive e bestemmie...

“Poco io mi curai…” iniziò, entrando subito in quello stile di retorica pomposa che usava per metà furiosamente, per metà ironicamente: “Poco io mi curai il giorno che la vidi la prima volta diciotto amari anni fa, quando ella venne dimenandosi lungo la strada verso di me, come un serpente sul suo ventre... (un epiteto classico dei suoi che, a forza di essere ripetuto, era adesso per lui quasi un balsamo)... poco io mi curai del fatto che... che... si sarebbe giunti a questo.” Egli finì in sordina. Aspettò quietamente, nel profondo silenzio, che giungesse qualche risposta, sapendo che lei era sdraiata, con la sua calma pallida, al di là della porta, e pieno della vecchia furia che lo soffocava perché sapeva che lei non avrebbe risposto.

“Sei lì? Dico, sei lì, donna?” urlò, pestando le sue grosse nocche in un bombardamento furioso.

Non c’era altro che un bianco silenzio pulsante.

“Ahimè! Ahimè!” singhiozzò con autocommiserazione, poi scoppiò in singhiozzi forzati, che fornivano un continuo accompagnamento alle sue accuse.

“Dio misericordioso!” piangeva, “è spaventoso, è terribile, è cru…u…dele… Che cosa ho mai fatto perché Dio mi debba punire così nella mia vecchiaia?”

Non ci fu alcuna risposta.

“Cynthia! Cynthia!” egli urlò improvvisamente, invocando la memoria della sua prima moglie, la magra zitella tubercolotica la cui vita, si è detto, non era stata certo allungata dalla sua condotta, ma che adesso gli piaceva supplicare, sapendo che, facendo così, avrebbe causato ad Eliza rabbia e dolore.

“Cynthia! O, Cynthia! Guarda verso di me nella mia ora del bisogno! Soccorrimi! Proteggimi da questo demonio dell'inferno!” E continuò, piangendo e tirando su col naso comicamente: “O…bu…bu…! Scendi a salvarmi, ti prego, ti scongiuro, ti imploro, o io perirò.”

Rispose il silenzio.

“Ingratitudine, più fiera di quella delle bestie selvagge”, riprese Gant, prendendo un’altra pista, ricca di citazioni mischiate e storpiate, “tu sarai punita, sicuro come c'è Dio in cielo. Tutti voi sarete puniti. Prendete a calci questo vecchio, battetelo, buttatelo in mezzo ad una strada: egli non è più buono a niente. Non è più capace di mantenere la famiglia – mandatelo all'ospizio in cima alla collina. È là il suo posto. Trascinate le sue ossa sulle pietre. Onora tuo padre se vuoi che i tuoi giorni durino a lungo. Ah, Signore!

 

'Guardate, qui volò il pugnale di Cassio

Guardate lo squarcio che fece l'invidioso Casca,

qui pugnalò il beneamato Bruto;

E, quando ritrasse il suo maledetto ferro,

Guardate come lo seguì il sangue di Cesare.”

 

“Jeremy”, disse in questo momento Mrs. Duncan a suo marito, “forse è meglio che tu vada. È di nuovo fuori e lei ha il bambino.”

Lo scozzese spinse indietro la sedia, strappato a forza dall'ordinato rituale della sua vita, e dal caldo profumo del pane appena cotto.

Al cancello della casa trovò il paziente Jannadeau, chiamato da Ben. Discussero su cosa fare, e corsero su appena udirono al piano di sopra un frastuono e il grido di una donna.

Eliza, con la sola camicia da notte, aprì la porta.

“Fate presto!” bisbigliò. “Fate presto!”

“Per Dio, la ucciderò!” urlava Gant correndo giù per le scale con maggior pericolo per sé più che per altri. “Ora la uccido, e metterò fine alla mia miseria.”

Aveva in mano un pesante attizzatoio. I due uomini lo afferrarono; il gioielliere corpulento gli prese di mano l'attizzatoio con una forza tranquilla.

“Si è tagliato la testa con la spalliera del letto, mamma!” disse Steve scendendo. Era vero: Gant sanguinava.

“Va a cercare tuo zio Will, figlio. Veloce!” Fu fuori, veloce come un levriero.

“Credo che questa volta facesse sul serio…”, Eliza sussurrò.

Duncan chiuse la porta davanti alla folla di vicini giunti al cancello.

“Vi prenderete un raffreddore a star così, Mrs. Gant.”

“Tenetelo lontano da me! Tenetelo lontano!” ella gridò con forza.

“Sì, certo, lo farò!” egli rispose, con tranquillo accento scozzese.

Ella si voltò per risalire, ma sul secondo gradino cadde pesantemente sulle ginocchia. L'infermiera di campagna, che stava ritornando dal bagno, in cui si era chiusa a chiave, corse in suo aiuto.

Ella salì lentamente le scale fra l'infermiera e Grover. Fuori, Ben cadde agilmente da una grondaia bassa sull'aiuola di gigli. Seth Tarkinton, aggrappato al fil di ferro del recinto, urlò dei saluti.

Gant si avviò docilmente, come stranito, fra i suoi due guardiani: appena le sue grosse gambe si accasciarono nella sua sedia a dondolo, essi lo svestirono.

Helen si era data da fare già da un po' in cucina: adesso comparve con il brodo bollente.

Gli occhi spenti di Gant si accesero di riconoscimento quando la vide.

“Ehi piccola!”, ruggì facendo allargando le braccia a cerchio in modo enfatico, “come stai?” Ella posò la minestra, ed egli afferrò il suo corpo sottile stringendoselo forte, strofinandole le guance e il collo con i suoi baffi brizzolati, e alitandole addosso l'odore acre del whisky di segale.

“Oh, si è tagliato!” Alla bambina sembrava di star per piangere.

“Guarda cosa mi hanno fatto, piccola!” egli indicò la sua ferita e piagnucolò.

Will Pentland, il vero figlio di quel clan i cui membri non si dimenticavano mai gli uni degli altri, e che si vedevano solo in occasione di morti, pestilenza, e terrore, entrò.

“Buona sera, Mr. Pentland”, disse Duncan.

“Appena passabile”, disse lui, col suo solito ammiccare di uccello, rivolto ad entrambi gli uomini con naturalezza. Si fermò di fronte al fuoco, limandosi pensieroso le unghie corte con un coltellino smussato. Era il suo gesto familiare quando era in compagnia: nessuno, pensava, può leggere i tuoi pensieri, se ti stai limando le unghie.

La vista di lui strappò immediatamente Gant dal suo letargo: egli ricordò la società sciolta; l'attitudine familiare di Will Pentland, mentre stava davanti al fuoco, evocava tutte le caratteristiche che egli odiava cordialmente in quel clan – la boria evidente, le continue freddure, il successo.

“Bestie di montagna!” ruggì, “bestie di montagna! i più bassi dei bassi! i più vili dei vili!”

“Mr. Gant! Mr. Gant!” lo pregò Jannadeau.

“Che cos'hai che non va, W. O.?” chiese Will Pentland, alzando lo sguardo dalle dita con aria innocente. “Hai mangiato qualcosa che non ti è andato giù?” Ed ammiccò evidentemente a Duncan, tornando poi alle sue unghie.

“Il tuo miserabile vecchio”, urlò Gant, “è stato frustato sulla pubblica piazza per non aver pagato i suoi debiti.” Questo era un insulto di pura immaginazione, che era però riuscito a diventar vero, nella mente di Gant, così come tanti altri epiteti del genere, perché gli dava una grande soddisfazione.

“Frustato sulla pubblica piazza, vero?” Will ammiccò ancora, incapace di resistere alla provocazione. “L'hanno tenuto ben nascosto, vero?” Ma dietro l’espressione benevolente della faccia, gli occhi erano duri. Egli spinse avanti le labbra pensando, mentre lavorava sulle unghie.

“Ma ti dirò qualcosa di lui, W. O.”, continuò dopo un attimo, con calma profetica e assennatezza: “Ha lasciato che sua moglie morisse nel proprio letto di morte naturale. Lui non ha cercato di ucciderla.”

“No, per Dio!” riprese Gant. “Lui l'ha fatta morire di fame. Se la vecchia ha mai raccapezzato un pasto in vita sua, l'ha fatto sotto il mio tetto. C'è una cosa sicura: ella sarebbe potuta andare all'inferno e ritorno due volte prima di avere un pasto dal vecchio Tom Pentland, o da qualcuno dei suoi figli.”

Will Pentland chiuse il suo coltellino e se lo mise in tasca.

“Il vecchio maggiore Pentland non ha mai lavorato in vita sua un giorno onestamente!”, urlò Gant, felice, come se si fosse ricordato anche di questo.

“Via, Mr. Gant!” disse Duncan con rimprovero.

“Zitto! Zitto!” bisbigliò decisa Helen avvicinandoglisi con la minestra. Ella gli spinse un cucchiaio fumante in bocca, ma egli scansò la testa per vomitare un altro insulto. Ella lo picchiò forte sulla bocca.

“PRENDI questo!” ella bisbigliò. E con un sorrisetto mite mentre i suoi occhi si posavano su di lei, egli cominciò ad inghiottire il brodo.

Will Pentland guardò la ragazza con attenzione per un momento, poi osservò Duncan e Jannadeau ammiccando. Senza dire altre parole, uscì dalla stanza, e salì le scale. Sua sorella stava sdraiata sulla schiena, in silenzio.

“Come ti senti, Eliza?” La stanza era fragrante dell'odore forte di pere mature; un fuoco di rami di pino bruciava nel camino, insolitamente: egli si mise a sedere lì davanti e cominciò a limarsi le unghie.

“Nessuno sa... nessuno sa…” ella iniziò, scoppiando rapidamente in lacrime, “che cosa ho passato”. Si asciugò gli occhi, dopo un attimo, con un angolo della coperta; il suo largo e grosso naso, rosso sulla sua faccia pallida, spiccava come una fiamma.

“Che hai di buono da mangiare?” disse lui ammiccando verso di lei con comica ghiottoneria.

“Ci sono delle pere là sulla mensola, Will. Le ho messe là a maturare la settimana scorsa.”

Egli andò nello stanzino e ritornò subito dopo con una grande pera gialla; si sedette di nuovo per terra e aprì la lama piccola del coltellino.

“Giuro, Will”, disse lei con calma, dopo un attimo, “sono proprio arrivata al limite. Non so cosa gli è preso. Ma puoi scommetterci il tuo ultimo dollaro che non sopporterò altro. So come cavarmela da sola”, disse lei con un cenno furbo della testa. Egli riconobbe quel tono.

Egli quasi dimenticò se stesso. “Senti, Eliza”, cominciò, “se stai pensando di costruire da qualche parte, io…”, ma si riprese in tempo... “…io ti farò il miglior prezzo che potresti trovare per il materiale”, concluse. Si spinse velocemente una fetta di pera in bocca.

Ella sporse la bocca in avanti rapidamente per qualche momento.

“No”, disse. “Non sono ancora pronta per questo, Will. Ti farò sapere.” Nel focolare, le braci crollarono.

“Ti farò sapere”, disse lei di nuovo. Egli chiuse il coltello e se lo mise in una tasca dei pantaloni.

“Buona notte, Eliza”, disse. “Credo che Pett verrà a trovarti. Le dirò che stai bene.”

Egli scese le scale tranquillamente, e uscì dalla porta anteriore.

Mentre scendeva gli alti gradini della veranda, Duncan e Jannadeau scesero con calma nel cortile venendo dal salotto.

“Come sta W. O.?” chiese lui.

“Ah, adesso sta bene”, disse Duncan di buon umore. “Dorme sodo.”

“Il sonno del giusto?” chiese Will Pentland ammiccando.

Lo Svizzero si risentì dell’implicita presa in giro del suo Titano. “E' un vero peccato”, cominciò Jannadeau con una voce bassa e gutturale, “che Mr. Gant beva. Con la sua testa potrebbe andar lontano. Quando è sobrio non c'è nessuno più in gamba di lui.”

“Quando è sobrio?” disse Will, ammiccando verso di lui nell'oscurità. “E quando dorme, allora?”

“Egli si rimette a posto nell'istante in cui Helen si prende cura di lui”, Mr. Duncan affermò con la sua voce pastosa. “È straordinario cosa riesce a fargli quella ragazzina.”

“Ah, ve lo dico io perché”, Jannadeau rise con un piacere di gola: “Quella ragazzina conosce suo padre dentro e fuori.”

La bambina sedeva nella grande sedia in salotto vicino al fuoco che si stava spegnendo: lesse finché le fiamme non divennero braci, poi quietamente le coprì di cenere.

Gant, immerso profondamente nel sonno, giaceva abbandonato sul divano di pelle appoggiato al muro. Ella l'aveva avvolto bene in una coperta: adesso mise un cuscino su una sedia e vi posò sopra i piedi di lui.

Emanava un forte odore di whisky; la finestra tremava al suo russare.

Così, immerso nell'oblio, passò la notte; dormiva quando le doglie di Eliza cominciarono alle due; dormì durante tutto il lungo travaglio e durante le cure del dottore, dell'infermiera, e l’affanno della moglie.


    

 

 

4.

 

 

              Il bimbo, per dire un epigramma a rovescio, ci mise un tempo eccessivo a nascere; ma quando finalmente Gant si svegliò, poco dopo le dieci della mattina dopo, gemendo per il nervoso e rabbrividendo per la vergogna del vago ricordo, udì, mentre beveva il caffè nero portatogli da Helen, un lungo e sonoro pianto proveniente dal piano di sopra.

“Oh, mio Dio, mio Dio”, egli gemette. E fece un gesto indicando il suono. “È un maschio o una femmina?”

“Non l’ho ancora visto, papà”, rispose Helen. “Non ci fanno entrare. Ma il Dottor Cardiac è uscito e ci ha detto che se siamo bravi ci potrebbe portare un maschietto.”

Ci fu un gran rumore sul tetto di metallo, e la voce da contadina dell’infermiera che rimproverava qualcuno: Steve cadde come un gatto dal tetto del portico sull’aiuola di gigli fuori della finestra di Gant.

“Steve, dannata canaglia!”, ruggì il padrone del castello con un momentaneo ritorno alla salute, “che cosa stai facendo, nel nome di Gesù?”

Il ragazzo aveva già scavalcato lo steccato.

“L’ho visto! L’ho visto!” urlava dal retro la sua voce.

“L’ho visto anch’io!” urlò Grover correndo dentro la stanza e di nuovo fuori, con una semplice esultanza.

“Se vi becco ancora su quel tetto, monellacci!” urlò in alto l’infermiera contadina, “lo vedrete!”

Gant si era temporaneamente rallegrato nel sentire che il suo ultimo erede era un maschio; ma ora camminò lungo la stanza, cominciando un lamento senza fine.

“Oh mio Dio, mio Dio! Mi doveva capitare questo in vecchiaia? Un’altra bocca da sfamare! È spaventoso, è terribile, è cru…u…dele”, e cominciò a piangere in modo affettato. Poi, realizzando che lì vicino non c’era nessuno che potesse commuoversi per le sue pene, si fermò all’improvviso e si precipitò verso la porta, attraversando la sala da pranzo, e, salendo verso l’ingresso, si lamentò ad alta voce:

“Eliza! Moglie mia! Oh, piccola, dì che mi perdoni!” Salì su per le scale, singhiozzando esageratamente.

“Non lasciatelo entrare qua dentro!” urlò acutamente con notevole energia l’oggetto di questa preghiera.

“Ditegli che adesso non può entrare”, disse Cardiac, con la sua voce secca, all’infermiera, che guardava attentamente le scale. “Non abbiamo niente da bere fuorché il latte, comunque”, aggiunse.

Gant era fuori.

“Eliza, moglie mia! Abbi pietà, ti prego. Se io avessi saputo...”

“Sì”, disse l’infermiera aprendo bruscamente la porta, “se il cane non avesse smesso di muovere le zampe avrebbe catturato il coniglio! Andate via di qui!” E gli sbatté violentemente la porta in faccia.

Egli scese giù con l’aspetto di un cane bastonato, ma sorrideva astutamente mentre ripensava alla risposta dell’infermiera. Si inumidì in fretta il pollice sulla lingua.

“Dio misericordioso!” disse, e sogghignò. Poi riprese il suo lamento di bestia in gabbia.

“Credo che questo funzionerà”, disse Cardiac, sollevando per i talloni qualcosa di rosso, brillante e raggrinzito, e battendolo vivacemente sul sederino, per rianimarlo un po’.

L’apparente erede aveva in realtà fatto il suo debutto completamente equipaggiato di tutti i requisiti, annessi, connessi, viti, cannelle, rubinetti, ganci, occhi, unghie, considerati necessari per la completezza dell’aspetto, dell’armonia delle parti e dell’unità dell’effetto in questo mondo energico, stancante e competitivo.

Era il perfetto maschio in miniatura, la piccola ghianda da cui deve crescere la potente quercia, l’erede di tutte le epoche, della fama non raggiunta, il figlio del progresso, il prediletto della sorgente Età dell’Oro, e, ancor più, la Fortuna e le Fate, non contente di averlo soffocato di tutte queste benedizioni del tempo e della famiglia, lo protessero con cura finché il Progresso fu maturo e marcio di gloria.

“Bene, come lo chiamerete questo?” chiese il Dr. Cardiac, riferendosi così, con sconvolgente brutalità medica, a sua maestà.

Eliza si intonava meglio alle vibrazioni cosmiche. Con un senso pieno, anche se inesatto, di ciò che prediceva, ella diede al fortunato ragazzo il nome di Eugene, un nome che con la sua bellezza significa ‘ben nato’, ma che, come ognuno potrà testimoniare, non significa, né significò mai, ‘di buona razza’.

 

***

 

Questa speciale incandescenza, a cui era già stato dato un nome, e da cui devono partire la maggior parte degli eventi di questa cronaca, nacque, come abbiamo detto, proprio nel momento cruciale della storia.

Ma forse, lettore, l’avevi già pensato? No? Allora rinfrescherò la tua memoria storica.

Intorno al 1900, Oscar Wilde e James A. Mc Neill Whistler avevano quasi finito di dire ciò che fu poi riportato che dissero, e che Eugene era destinato ad udire, venti anni dopo; la maggior parte dei Grandi Vittoriani era morta prima che cominciassero i bombardamenti; William McKinley si candidava per la seconda volta, e la marina spagnola era ritornata a casa in un rimorchiatore.

All’estero, la vecchia e cattiva Inghilterra aveva inviato il suo ultimatum ai sudafricani nel 1899; Lord Roberts (‘Little Bobs’, come era affettuosamente noto ai suoi uomini) fu nominato comandante in capo dopo parecchie sconfitte inglesi; la Repubblica del Transvaal fu annessa alla Gran Bretagna nel settembre 1900, e annessa formalmente nel mese di nascita di Eugene.

Due anni dopo ci fu una Conferenza di Pace.

Nel frattempo, cosa stava accadendo in Giappone? Ve lo dirò: il primo parlamento si riunì nel 1891, ci fu una guerra con la Cina nel 1894–95, e Formosa fu ceduta nel 1895. Inoltre, Warren Hastings era stato accusato e giudicato; Papa Sisto V era venuto e andato; la Dalmazia era stata sottomessa da Tiberio, Belisario era stato accecato da Giustiniano, le nozze e i funerali di Carlotta Guglielmina di Brandenburg–Ansbach e del re Giorgio II erano stati celebrati solennemente, mentre quelli di Berengaria di Navarra con Re Riccardo I, erano a malapena un ricordo lontano; Diocleziano, Carlo V, e Vittorio Amedeo di Sardegna, avevano tutti abdicato ai loro troni; Henry James Pye, poeta laureto di Inghilterra, era con i suoi padri; Cassiodoro, Quintiliano, Giovenale, Lucrezio, Marziale e Alberto l’orso del Brandeburgo avevano risposto all’ultima grande chiamata; le battaglie di Antietam, Smolensko, Drumclog, Inkerman, Marengo, Cawnpore, Killiecrankie, Sluys, Azio, Lepanto, Tewkesbury, Brandywine, Hohenlinden, Salamina, e del West erano state combattute per terra e per mare; Hippias era stato espulso da Atene dagli Alcemonidi e dai Lacedemoni; Simonide, Menandro, Strabone, Mosco, e Pindaro avevano chiuso i loro conti terreni; i beati Eusebio, Attanasio e Crisostomo erano saliti nelle loro nicchie celesti; Menkaura aveva costruito la terza piramide; Aspalta aveva guidato eserciti vittoriosi; le lontane Bermude, Malta e le isole Windward erano state colonizzate. Inoltre, l’Armata Spagnola era stata sconfitta; il presidente Abraham Lincoln assassinato, e le Premiate Pescherie Halifax avevano dato all’Inghilterra 5,500,000 dollari per dodici anni di privilegi di pesca. Infine, solo trenta o quaranta milioni di anni prima, i nostri antenati erano strisciati fuori dal brodo primordiale; e poi, senza alcun dubbio, trovando spiacevole questo cambiamento, vi si erano reimmersi.

 

***

 

Tale era il momento storico quando Eugene entrò nel teatro degli eventi umani, nel 1900.

Racconteremmo volentieri molto di più del mondo che girava intorno a lui nei suoi primi anni, mostrando, con tutte le sue implicazioni e punti di vista, il significato della vita come viene vista dal pavimento, o dalla culla, ma queste impressioni vengono soppresse sul nascere, non per difetto di intelligenza, ma per mancanza di controllo muscolare e della capacità di articolazione, e a causa delle ricorrenti ondate di solitudine, stanchezza, depressione, aberrazione e di vuoto assoluto che combattono l’ordine nella mente umana finché non ha tre o quattro anni.

Stando sdraiato al buio nella sua culla, lavato, imborotalcato, e nutrito, egli pensava quietamente a molte cose prima di cadere nel sonno – il sonno interminabile che cancellava il tempo, e che gli dava la sensazione di aver perso per sempre un giorno di vita scintillante.

In questi momenti, il suo cuore soffriva di uno stanco orrore, mentre pensava al disagio, alla debolezza, al mutismo, agli infiniti fraintendimenti che avrebbe dovuto sopportare prima di raggiungere almeno la libertà fisica.

Si sentiva male pensando alla grande distanza che aveva di fronte, alla mancanza di coordinazione dei centri di controllo, alla vescica indisciplinata e turbolenta, alle esibizioni che era costretto a dare, impotente, di fronte ai suoi fratelli e sorelle che, ridacchiando e scalpitando, lo asciugavano, lo pulivano e lo rivoltavano.

La sua agonia stava nell’essere poverissimo di simboli: la sua mente era intrappolata in una rete perché non aveva parole per liberarsi. Non aveva nemmeno nomi per gli oggetti intorno a sé: probabilmente li definiva per se stesso con qualche gergo, aiutato dalla storpiatura delle parole che ruggivano intorno a lui, che egli ascoltava attentamente, un giorno dopo l’altro, realizzando che la sua prima salvezza sarebbe giunta attraverso il linguaggio.

Appena poté, egli manifestò la sua furiosa fame di disegni e di scritti: a volte qualcuno portava grandi libri profusamente illustrati, ed egli lo corrompeva disperatamente tubando, strillando deliziato, facendo facce strane, e facendo tutto ciò che poteva per farsi capire.

Si domandava furioso come si sarebbero sentiti se avessero saputo cosa egli pensava davvero; altre volte egli doveva ridere di loro e della loro assurda commedia, delle loro sciocchezze mentre gli giravano intorno. La situazione era allo stesso tempo profondamente fastidiosa e comica: mentre sedeva in mezzo al pavimento e li guardava entrare, vedendo il viso di ognuno trasformato da una smorfia idiota, e udendo le loro voci divenire assurde e sentimentali tutte le volte che si rivolgevano a lui, dicendogli parole che egli non poteva ancora capire, ma che vedeva che storpiavano nell’assurda speranza di rendergli intelligibile ciò che era stato prima mutilato, egli doveva ridere di quegli sciocchi, nonostante il suo dispetto.

E, lasciato solo a dormire in una stanza chiusa, con la forte luce del sole stampata a righe sul pavimento, una solitudine e una tristezza insondabili lo pervadevano; vedeva la sua vita in fondo al sentiero di una foresta, e sapeva che sarebbe sempre stato triste: ingabbiata nella piccola prigione del suo cranio, imprigionata nel battito del suo cuore nascosto, la sua vita avrebbe sempre camminato per strade solitarie.

Perduto. Capiva che gli uomini erano sempre sconosciuti gli uni agli altri, che nessuno riesce mai a conoscere nessun altro, che, imprigionati nell’utero buio di nostra madre, veniamo alla luce senza averla vista in faccia, che le siamo messi in braccio da sconosciuti, e che, catturati in quella definitiva prigione dell’essere, non ne fuggiamo mai, non importa quali siano le braccia che ci afferrano, quale bocca ci possa baciare, quale cuore ci possa scaldare. Mai, mai, mai, mai, mai.

 

***

 

Vedeva che le grandi figure che gli giravano attorno, le enormi teste ghignanti che si piegavano orribilmente sulla sua culla, le grosse voci che rotolavano incoerentemente sopra di lui, avevano l’una dell’altra una comprensione non maggiore di quella che avevano di lui: che perfino le loro frasi, la loro intera fluidità e facilità di movimento non erano altro che scarsi mezzi di comunicazione dei loro pensieri o emozioni, e spesso servivano non a promuovere la comprensione, ma ad approfondire e ad ampliare il conflitto, l’amarezza, e il pregiudizio.

Il suo cervello diveniva nero di terrore. Vedeva se stesso come uno straniero inarticolato, un piccolo clown divertente, da essere vezzeggiato e nutrito da queste figure remote e enormi. Era stato inviato da un mistero in un altro: da qualche parte all’interno o all’esterno della sua consapevolezza egli udiva una grande campana che suonava debolmente, come se suonasse sotto il mare, e mentre la ascoltava, lo spettro del ricordo attraversava la sua mente, e per un momento sentiva che aveva quasi recuperato ciò che aveva perduto.

A volte, tirandosi su fino al torace contro le alte mura della sua culla, egli guardava con vertigine i disegni del tappeto, in basso, così lontani; il mondo oscillava dentro e fuori dalla sua mente come una marea, ora stampandoci per un istante tutto il suo quadro dettagliato, ora ritraendosi nebbioso e assonnato, mentre egli metteva insieme pezzo per pezzo il puzzle delle emozioni, vedendo solo il tremolio della luce del fuoco sull’attizzatoio, udendo il magico chiocciare delle galline al sole, chissà dove, lontano, in un mondo distante e incantato.

E ancora, sentiva il loro verso, la mattina presto, chiaro e sonoro, diventando improvvisamente un effettivo e attento cittadino della vita; oppure, in un va e vieni di onde alternanti di fantasia e realtà, egli udiva il tuono alto e incantato della musica di Daisy in salotto.

Anni dopo, egli lo udì ancora, e una porta si aprì nella sua mente: ella gli disse che era il Minuetto di Paderewski.

La sua culla era un grande cesto, con un bel materasso e un cuscino; via via che cresceva, era capace di farvi straordinarie acrobazie, facendo capitomboli, o modellandosi come un cerchio, e tirandosi su facilmente dritto e fermo: con sforzi pazienti egli riusciva a scavalcarne il bordo e a strisciare sul pavimento. Là, egli si trascinava sul vasto disegno del tappeto, i suoi occhi fissi sui grandi blocchi di legno impilati caoticamente sul pavimento.

Essi erano appartenuti a suo fratello Luke: sopra di essi c’erano tutte le lettere dell’alfabeto, intagliate e dipinte di tutti i colori.

Tenendoli goffamente con le piccole mani, egli studiava per ore i simboli delle parole, sapendo di avere, qui, le pietre fondanti del tempio del linguaggio, e lottando disperatamente per trovare la chiave che avrebbe portato l’ordine e l’intelligenza in questa anarchia.

Molto sopra di lui, grandi voci si libravano, vaste forme andavano e venivano, sollevandolo ad altitudini vertiginose, e depositandolo poi con forza inesauribile. La campana suonava sotto il mare.

Un giorno, quando l’opulenta primavera del sud si dispiegava nella sua ricchezza, quando la terra umida e scura del giardino si copriva all’improvviso di erba tenera e di fiori umidi, il grande ciliegio ribolliva lentamente del gioiello di una linfa ambrata, e le ciliegie pendevano mature in grappoli generosi, Gant lo prese dal suo cesto e lo portò al sole, nel portico anteriore, e andò con lui intorno alla casa vicino all’aiuola di gigli, portandolo sotto gli alberi, in fondo al terreno, dove cantavano, nascosti, gli uccelli.

Qui il terreno non era ombreggiato: era secco, rivoltato dall’aratro.

Eugene capì dalla quiete che era domenica: lungo l’alto filo del recinto c’era il forte odore della romice calda. Dall’altra parte, la mucca di Swain strappava l’erba grossa e fresca, sollevando ogni tanto il muso, e cantando con la sua forte voce profonda la sua esuberanza domenicale.

Nell’aria pulita e tiepida, Eugene udì con assoluta chiarezza tutti i suoni vivaci dei cortili del vicinato, divenne acutamente conscio di tutta la scena, e, appena la mucca di Swain muggì di nuovo, egli senti i cancelli sommersi, dentro di lui, che si spalancarono. Egli rispose: “Muuu!” componendo il suono timidamente ma perfettamente, e ripetendolo con sicurezza dopo poco, quando la mucca rispose.

La delizia di Gant non aveva limiti. Egli si girò e corse verso la casa con tutta la forza che aveva nelle gambe. E mentre andava, strofinava i suoi baffi ispidi nel tenero collo di Eugene, che continuava laboriosamente a fare i suoi muu, e ne riceveva sempre risposta.

“Misericordia divina!” esclamò Eliza, guardando dalla finestra della cucina mentre lui si scapicollava nel giardino: “Così ucciderà il bambino!”

E mentre saliva di corsa i gradini della cucina – tutta la casa, a parte il piano superiore, era rialzata sul terreno – ella uscì sulla piccola veranda di traliccio, le mani infarinate, il naso rosso per il calore della stufa.

“Ma cosa diamine state facendo, Mr. Gant?”

“Muuuu. Ha detto muuuu! Sì, l’ha detto!” Gant parlava più a Eugene che ad Eliza.

Eugene gli rispose immediatamente: sentiva che tutto ciò era abbastanza sciocco, e capiva che per parecchi giorni sarebbe stato impegnato ad imitare la mucca di Swain, ma nonostante questo era tremendamente eccitato, sentendo che adesso in quel muro si era aperta una breccia.

Anche Eliza era emozionata, ma il suo modo di mostrarlo fu di tornare alla stufa, nascondere il suo compiacimento, e dire: “Giuro, Mr. Gant. Non ho mai visto nessuno fare così l’idiota con un bambino.”

Più tardi, Eugene stava sdraiato, sveglio, nel suo cesto sul pavimento del soggiorno, guardando i piatti fumanti che passavano nelle mani ansiose dei membri della famiglia, perché Eliza a quel tempo cucinava magnificamente, e un pranzo della domenica era qualcosa di indimenticabile.

Per due ore dal momento del loro ritorno dalla chiesa, i ragazzini avevano gironzolato affamati nei pressi della cucina: Ben con un fiero cipiglio, si manteneva dignitosamente alla larga, facendo solo frequenti escursioni in casa per sorvegliare i progressi del pranzo; Grover entrava e guardava con esplicito interesse finché non veniva allontanato; Luke, il largo visino simpatico che si apriva in un ampio sorriso esultante, correva in tutta la casa, strillando felice:

“Weenie, weedie, weeky,

Weenie, weedie, weeky,

Weenie, weedie, weeky,

Wee, Wee, Wee.”

Egli aveva udito Daisy e Josephine Brown che studiavano insieme Cesare, e il suo canto era la sua interpretazione del detto di Cesare:

“Veni, Vidi, Vici.”

Mentre Eugene giaceva nella culla, egli udiva attraverso la porta aperta, l’acciottolio della sala da pranzo, le urla di eccitazione dei ragazzi, il suono del coltello che veniva affilato mentre Gant si preparava a tagliare l’arrosto, l’accoglienza del grande evento della mattina ripetuto sempre senza variazioni, ma con entusiasmo crescente.

“Presto”, egli pensava, mentre il forte profumo del cibo lo inondava, “sarò là con loro”. E pensava voluttuosamente ai cibi misteriosi e succulenti.

Per tutto il pomeriggio sulla veranda Gant raccontò la storia, convocando i vicini e invitando Eugene ad esibirsi. Eugene udì chiaramente tutto quello che fu detto quel giorno: non era in grado di rispondere, ma capiva adesso che il parlare era imminente.

Così, più in là, egli vedeva i suoi primi due anni vita, in isolati flash brillanti. Egli ricordava vagamente il suo secondo Natale come un periodo di grande festa: lo preparò al terzo, quando giunse. Con la miracolosa abitudine che i bambini acquisiscono, sembrava che egli avesse sempre conosciuto il Natale.

Egli era consapevole della luce del sole, della pioggia, del fuoco fiammeggiante, della sua culla, la cupa prigione dell’inverno; nella sua seconda primavera, un giorno caldo, vide Daisy che andava a scuola su per la collina: era verso la fine della ricreazione del pranzo, e lei era stata a casa a mangiare. Andava alla scuola per ragazze di Miss Ford; era una costruzione in mattoni rossi sull’angolo in cima alla salita della collina; egli la osservò che raggiungeva, poco prima di entrare, Eleanor Duncan. I suoi capelli erano divisi in due lunghe trecce sulla schiena; ella era contegnosa, timida, una ragazza riservata che arrossiva facilmente; ma egli temeva le attenzioni che aveva verso di lui, perché gli faceva il bagno con furia, sfogando su di lui tutto ciò che di esplosivo e violento si trovava dietro la sua apparenza placida.

Lei davvero lo strofinava fortissimo. Lui urlava da far pietà. Mentre lei saliva su per la collina, lui la riconobbe. Vide che era la stessa persona.

Egli compì il suo secondo compleanno con una maggior luce. All’inizio della primavera successiva divenne consapevole di un periodo di abbandono: la causa era mortalmente tranquilla; la voce di Gant non gli ruggiva più intorno, i ragazzi andavano e venivano con passi felpati.

Luke, il quarto ad essere colpito dall’epidemia, era molto malato di febbre tifoidea: Eugene era affidato pressoché completamente ad una giovane negra sciatta.

Ricordava benissimo la sua alta figura da sciattona, i suoi piedi pigri che ciabattavano, le sue calze bianche sporche, e il suo forte odore, nero e acre. Un giorno ella lo portò fuori a giocare nel portico: era una fresca mattina dell’inizio di primavera, che si apriva umida dalla terra in disgelo.

La negra sedeva sugli scalini laterali e sbadigliava mentre lui sgambettava col suo vestitino sporco sul sentiero e sull’aiola dei gigli. Poi, ella si addormentò appoggiata al palo. Lui infilò furbescamente il suo corpo attraverso le maglie del filo del recinto, nella strada che curvava passando sul retro della casa degli Swain, e andava su al bel palazzo di legno degli Hilliard.

Questi facevano parte della più alta aristocrazia della città: erano giunti dal Sud Carolina, “vicino a Charleston”, che già in sé dava loro, a quel tempo, un prestigio importante.

La casa, una grande costruzione color noce scuro, che dava l’impressione di avere molti angoli e nessun piano, era costruita sulla cima della collina che scendeva poi alla casa di Gant; sul terreno, sulla cima davanti alla casa, torreggiavano querce patriarcali. Sotto, lungo la strada che fiancheggiava l’orto di Gant, c’erano alti pini fruscianti.

La casa di Mr. Hilliard era considerata una delle più belle residenze della città. La zona era borghese, ma la sua posizione era magnifica, e gli Hilliard si comportavano con gran tono, signori del castello che discendevano al villaggio, ma che non si mescolavano con la gente.

Tutti i loro amici arrivavano in macchina da lontano; ogni giorno puntualmente alle due un vecchio negro in livrea risaliva velocemente la strada tortuosa dietro a due magre cavalle brune, aspettando accanto all’entrata che i suoi padroni uscissero. Cinque minuti dopo essi andavano via e restavano fuori per due ore.

Questo rituale, seguito attentamente dalla finestra del soggiorno di suo padre, in seguito affascinò Eugene per anni: le persone e la vita della porta accanto erano crudelmente e simbolicamente al di sopra di lui.

Quella mattina provò una grande soddisfazione nel trovarsi sulla strada degli Hilliard: era la sua prima fuga, ed era avvenuta in una regione proibita e misteriosa. Sgambettò nel mezzo della strada, irritato dalla qualità del fondo di carbonella. La squillante campana del tribunale suonò undici colpi.

Ora, ogni mattina, esattamente a tre minuti dopo le undici, talmente perfetto e infallibile era l’ordine di questa grande casa, un enorme cavallo grigio trottava lentamente su per la collina, portando un pesante carro di merce di drogheria, ammuffito, speziato, che profumava dei buoni odori del negozio e carico esclusivamente di vettovaglie per gli Hilliard, e del guidatore, un giovane negro che, alle undici e tre minuti di ogni mattina, secondo il rituale, dormiva tranquillamente.

Niente poteva andare storto: nemmeno un sentiero di avena avrebbe potuto tentare il cavallo a tradire la sua sacra missione.

Dunque stava trottando pesantemente su per la collina, girò poderosamente nella strada, e avanzò pesantemente finché, sentendo il grande cerchio sotto la sua zampa anteriore di destra ostruito da qualche piccolo corpo estraneo, guardò in basso e lentamente rimosse il suo zoccolo da ciò che prima era stata la faccia di un bambino.

Poi, allargando con cura le zampe per scavalcarlo, continuò, tirando il carro al di là del corpo di Eugene, e fermandosi. Entrambi i negri si svegliarono contemporaneamente; ci furono grida nella casa, e Eliza e Gant corsero fuori dalle porte.

Il negro spaventato sollevò Eugene, che era totalmente inconscio del suo improvviso ritorno sulla scena, e lo depose sulle braccia massicce del Dottor McGuire, che maledì con eloquenza il guidatore del carro.

Le sue grosse dita sensibili si mossero abilmente sulla piccola faccia sanguinante e non trovarono alcuna frattura.

Fece un cenno veloce alle loro facce disperate: “Si è salvato per il Congresso!” disse. “Avete sfortuna e teste dure, W.O.!”

“Tu maledetta canaglia di un negro!”, urlò Gant rivolgendosi al guidatore con un violento sollievo. “Ti manderò in galera per questo." Infilò le sue lunghe mani attraverso il recinto e afferrò per il collo il negro, che mormorava preghiere e non aveva idea di cosa gli stava capitando, salvo che era al centro di una forsennata agitazione.

La ragazza negra, era corsa in casa, piangendo rumorosamente.

“Sembra peggio di quel che non sia” osservò il Dr. McGuire, deponendo l’eroe sul divano. “Un po’ d’acqua calda, per favore.” Ciò nonostante, ci vollero due ore per farlo rinvenire. Tutti lodavano il cavallo.

“Ha avuto più buon senso del negro”, disse Gant, umettandosi il pollice.

Ma tutto questo, come Eliza sapeva in cuor suo, era parte del piano delle Parche. Da molto tempo avevano tessuto e letto le viscere: il fragile guscio del cranio che custodiva la vita, e che avrebbe potuto essere rotto con la stessa facilità con cui si può rompere un uovo, si era mantenuto intatto.

Ma Eugene portò il segno del centauro per molti anni, anche se, per vederlo, la luce doveva colpirlo con una inclinazione particolare.

Quando fu più grande, Eugene si chiese a volte se gli Hilliard fossero usciti dalla loro casa, in alto, quando egli aveva così sacrilegamente disturbato l’ordine del castello.

Non lo chiese mai, ma credeva di no: se li immaginava, al più, in piedi, superbi, accanto ad una tenda tirata, non del tutto certi di cosa fosse accaduto, ma sentendo che era qualcosa di spiacevole, con del sangue.

Poco tempo dopo questo avvenimento, Mr. Hilliard affisse sul terreno un cartello di: “Vietato il passaggio”.

 

5