sabato 16 gennaio 2016






«Il vero protagonista di Bronte è e rimane il popolo in rivolta»

Ho rivisto su Rai 3 un bellissimo film : "Bronte- Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato"  di Florestano Vancini .
Leonardo Sciascia recensì il film di Vancini, subito dopo l'uscita, con il seguente articolo pubblicato l'8 Agosto 1972 dal quotidiano La Stampa
«Bronte perché»
Giustamente Florestano Vancini ha detto che, in ordine alla verità storica, il suo film sui fatti di Bronte è inattaccabile. Ma è stato attaccato, e anche furiosamente
E ne è seguita una polemica che dirci (anche per quel che mi riguarda) fuorviante, incentrata tutta sulla figura di Bixio: se eroe purissimo, costretto da maggior forza a un crudele e inevitabile atto, o se — come scrisse con sottile giudizio Benedetto Radice, storico di quei fatti — «uomo che la rivoluzione salvò forse da un destino ignobile».
Ora il problema non è questo: il proposito del film non era quello di degradare Bixio da eroe a carnefice, ma, di dare attraverso un fatto determinato, sicuro, accertato in ogni dettaglio, l’immagine di un errore già sufficientemente analizzato e definito nelle opere di più avvertita coscienza risorgimentale e meridionalista. Evidentemente questo errore, scontato in sede diciamo culturale, è tutt’altro che scontato negli intendimenti e nella pratica di una larga (e maggiore) parte della nazione.
Innanzi tutto, la domanda: perche le popolazioni contadine del circondario etneo si sollevano in così sanguinose rivolte, mentre nella Sicilia occidentale l’esercito garibaldino si trova di fronte a problemi di normale, o appena più accentuato, disordine pubblico?
La risposta credo si trovi in una pagina del Viaggio in Sicilia di Tocqueville (1827):
«Qui (nella zona dell’Etna) si direbbe che non vi sia angolo di terra sprecato: dovunque coltivazioni arboree, intramezzate da capanne e da graziosi villaggi; dovunque un’aria di prosperità e di abbondanza. Potei rilevare, così, che nella maggior parte dei campi coltivati il grano, le viti e gli alberi da frutta crescevano e prosperavano insieme: e fui indotto a chiedermi da dove potesse derivare una così grande prosperità. E’ evidente che non la si può attribuire soltanto alla ricchezza del suolo perché l’intera Sicilia è un paese fertilissimo...
«La prima ragione che mi venne in mente per un tale fenomeno è questa: le terre intorno all’Etna, essendo poste tra due delle più grandi città della Sicilia, Catania e Messina, trovano in queste due direzioni vasti mercati per la vendita dei loro prodotti, che non esistono affatto nel centro dell’isola o sulla costa meridionale.
«La seconda ragione, che accettai con maggiore difficoltà, finì, poi, col parermi la migliore. Le terre che circondano l’Etna erano soggette a distruzioni spaventose, e i signori feudali e i monaci se ne liberarono ben volentieri, sì che il popolo ne e divenuto proprietario. Ora la divisione della terra vi e quasi senza limiti, ed ognuno ha qualche interesse alla terra, per piccolo che sia tale interesse. Questa è la sola parte della Sicilia in cui il contadino sia proprietario.
 Pure, a questo punto dobbiamo porci una domanda: perché questo spezzettamento della proprietà, che tante persone sensate considerano in Francia un male, deve essere consideralo un bene, anzi un gran bene, in Sicilia?
«Mi sembra facile dare una spiegazione a questo fenomeno, ed anzi la situazione siciliana mi sembra costituire un nuovo esempio da aggiungere a tutti gli altri, i quali provano che sotto il sole non ci sono principi assoluti
«Si capisce perfettamente, infatti, che in un paese molto avanzato, nel quale il clima porta all’attività e tutte le classi sono possedute dal desiderio di arricchirsi, come in Francia e soprattutto in Inghilterra, l’estrema divisione della proprietà terriera possa nuocere all’agricoltura e conseguentemente alla prosperità interna, poiché essa toglie grandi mezzi di migliorie ed anche di azione a uomini che avrebbero la volontà e la capacità di farne uso.
«Al contrario quando si tratta di risvegliare e stimolare una popolazione infelice e paralizzata per metà, per la quale il riposo è un piacere e presso la quale i ceti elevati sono come sepolti nella loro pigrizia ereditaria e nei loro vizi, non c’è mezzo più efficace che la divisione della terra».
Questa risposta vale anche per l’altra domanda, frequentemente formulata e mai nettamente esaudita, sul perché non si registrano fenomeni propriamente mafiosi nella Sicilia orientale. Intanto, rispetto ai fatti di Bronte e di altri paesi etnei nell’estate del 1860, ci dice come il feudo, che nella Sicilia occidentale appariva una realtà inamovibile, quasi un fatto di natura più che di storia, in quella orientale era già un anacronismo, una sopravvivenza.
E del resto le rivendicazioni erano rivolte verso le terre dei demani comunali, e da ciò la denominazione di «comunisti » assunta da coloro che ne propugnavano la divisione. Ma alla divisione si opponevano i galantuomini, e per tante ragioni. Non ultima, quella che prima di dividere bisognava ricostituire il catasto demaniale che avevano roso e usurpato da ogni parte. Non tutti i galantuomini, in effetti: ma per quelli che stavano dalla parte dei «comunisti» è difficile dire se davvero erano di diversa pasta degli altri, e se lo stare dalla parte del popolo non tosse per loro spregiudicato giuoco di potere.
Ma chi vuol saperne di più, sulla situazione economica, sociale e politica di quella zona, cerchi l’esemplare studio di Giuseppe Giarrizzo: Un comune rurale della Sicilia etnea. Che dice di un solo paese, Biancavilla, e ne svolge i fatti, e le cause, dal 1810 al 1860: ma si può considerare come un campione, e forse più probante di Bronte, dell’intera zona.
A Bronte la presenza degli inglesi, il coagularsi intorno a loro degli interessi più retrivi, confonde un po’ le cose, il giudizio, così come allora «precipitò» diversamente i fatti.
Certo è che per Biancavilla, per Bronte, per tutti gli altri comuni (anche per quelli che non sollevarono atroci jacqueries), la conclusione cui arriva Giarrizzo è esattissima: «... l’angustia municipale della protesta non può nascondere il carattere generale della sconfitta politica dei "liberali" di Biancavilla.
Questi languiscono in carcere, mentre gli "antiliberali" riprendono il timone della cosa pubblica, e la turpe storia dei furti, delle malversazioni, delle usurpazioni ricomincia... Non c’è ormai posto per altri valori, per altre ragioni ideali: la roba, col suo peso esclusivo, domina la realtà morale, politica, psicologica di questo piccolo mondo.
Ed è sull’amarezza di questa disfatta, sulla insensatezza della lunga tensione cospirativa che sorgono i dubbi più seri sul carattere liberale del nuovo regime... La torbida eredità di delusioni e di sconfitte in loro, il senso della giustizia offesa nei comunisti, la certezza orgogliosa del potere che vuol dire profitto e prevaricazione nei civili, costituiscono il bagaglio morale con cui la nostra piccola comunità è entrata nella vita nazionale».
«La giustizia offesa»: e dirci che, in prevalenza sugli altri, questo è il punto dell’interesse che ho sempre avuto ai fatti di Bronte. Doppiamente offesa: e nella legalità rivoluzionaria che i «comunisti» brontesi credevano di dover legittimamente difendere, e nella legalità processuale cui Bixio e il tribunale di guerra avrebbero dovuto attenersi.
Sul primo punto svolse poi la sua arringa l’avvocato Michele Tenerelli Contessa, difensore di altri imputali nel processone che si svolse a Catania tre anni dopo. Ovviamente, non convinse (e non si può non ricordare Verga: I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesello lassù, quando avevano fatto la libertà»). Sul primo e sul secondo, Florestano Vancini ha svolto il suo film. Dopo cento e dodici anni, non si può dire che abbia convinto. E non è buon segno.»
[Leonardo Sciascia, La Stampa - numero 170 dell'8 Agosto 1972, Pagina 3]


LO STRANIERO IN ITALIA
Sulla cronaca d’un massacro
di Jacques Nobécourt
Si può parlare di capolavoro, quando per un film ci sono non più di una decina di spettatori, il sabato pomeriggio, in un enorme cinema che cinquant’anni fa era un music-hall? Quanto «terrà» il film? Poche settimane. Verosimilmente. Poi partirà per l’estero, e il pubblico italiano verrà a sapere con stupore di aver perduto l’occasione di conoscere una delle opere più significative della cultura contemporanea. Non sarà la prima volta, né l’Italia ne ha l’esclusiva.
Verità d’ogni tempo
Il film in questione è l’ultimo lavoro di Florestano Vancini: Bronte, cronaca di un massacro. Ad essere giusti, il film avrebbe dovuto essere presentato a Cannes, e ricevervi i più alti onori. Al suo confronto, Fellini sembra folkloristico, e Petri un autore di cinema di consumo. I più fastosi e i più festeggiati registi, paragonati a Vancini, finisco­no per suscitare quasi compassione, con i loro piccoli mondi personali, con i loro problemi esibiti in una storia «che piace al pubblico».
Vancini, invece, non cerca affatto di piacere, ne di «apparire» personalmente nel suo film. Dignitoso, riservato, in disparte, come senza volerlo, è riuscito a raggiungere, attra­verso la realtà di un piccolo gruppo umano, verità drammatiche che sono di ogni tempo.
Rimettendo lo spettatore con le spalle al muro, imponendogli la sua lucidità — che, in que­sto caso, non è certo autolesionismo, — Vancini suscita la stessa qualità di fervore che negli adolescenti di Parigi, all’indomani della guerra, creava la scoperta del giovane cinema italiano, nelle salette del Quartiere Latino.
Roma, città aperta, Paisà o Umberto D erano visti e sentiti come drammi che toccavano tutti gli europei, di là dalla testimonianza che davano sulla realtà italiana. Bronte si pone allo stesso livello.