lunedì 30 settembre 2019

Il grande scrittore non è un oracolo: non indica, ma svela

Marco Archetti
Il foglio
29 SETTEMBRE, 2019
“Una domenica” (Einaudi) è il nuovo romanzo di Fabio Geda. Un romanzo che sembrerebbe germinare – in senso letterale – dalla frase di Raymond Carver che l’autore, non a caso, affigge in esergo. La frase recita: “C’è da scriverci un racconto: prendiamo un uomo che vive da solo tranne nei fine settimana quando un paio di nipoti scendono da Spokane”. E così, grazie alla voce narrante della figlia Giulia, Geda ci racconta di un uomo, un vedovo, un ex costruttore di ponti in giro per il mondo, che un giorno, assalito dai ricordi intermittenti di quando era la moglie a farlo, per la prima volta si cimenta nella preparazione di un pranzo di famiglia (se vi interessa il menù: tagliatelle, pollo in gelatina, cipolle ripiene e budino di Seraiss). Ma all’ultimo momento, per sopraggiunte urgenze ospedaliere, la famiglia non si presenta. L’uomo è disorientato: grande l’amarezza, lunga la passeggiata per prenderne atto – passeggiata al termine della quale, in un parchetto frequentato da alcuni skater, l’uomo incontra Elena e suo figlio. E siccome da qui il racconto abbandona la strada vecchia per la nuova e una rampa “quarter pipe” sarà solo il primo passo verso nuove e insperate possibilità perfino per un uomo che sembrerebbe aver perso tutte le possibilità, a parte consigliarne la lettura, altro non si farà.
Un passo indietro, però, sì. E precisamente a pagina 42. Perché è lì che la scrittura di Geda, in un solo paragrafo, riesce a darci tanto quanto un intero corso di scrittura creativa. Facendo quel che dovrebbe fare sempre la scrittura, ossia: trattenere un istante e riempirlo di un significato. La scena è semplicissima. E vede un padre e un figlio che stanno parlando via Skype. La comunicazione è disturbata, a un certo punto si interrompe, e “l’immagine di Alessandro restò congelata sullo schermo in una smorfia in cui papà – e raccontandomelo, anni dopo, ha fatto una pausa e ha assunto un’espressione di delusione infantile, quella di un bambino cui a causa del maltempo è negato il permesso di andare al parco e scopre di dover passare a casa il resto della giornata – ecco, una smorfia in cui papà, dicevo, riconobbe qualcosa di mamma: le sopracciglia inarcate, forse, o le labbra invisibili, o la fossetta sulla guancia dove io, un milione di anni prima, lo avevo colpito con uno schiaffo”. Ecco: trattenere un istante – quello in cui occorre un contrattempo normalissimo, di quelli che capitano quotidianamente come una linea che salta – e riempirlo di qualcosa che non fugga, ma che resti; che resti sulla carta così come nell’animo di chi legge. Qualcosa che assomigli a un momento reale, breve come un respiro, affollato come un moto interiore.
Inevitabile ripensare a Primo Levi, il quale si riferiva sempre allo scrittore come a un cacciatore. Un cacciatore di dettagli, di inavvertiti accadimenti, e di tutti quei momenti che andrebbero perduti nel tempo come lacrime nella pioggia, momenti in cui la vita solamente accenna e poi se ne va da un’altra parte senza spiegarci niente. Alla letteratura, il compito di rivelare. Alla letteratura il compito di farsi segno tangibile di ciò che è intangibile. Alla letteratura, l’onere di nominare. La letteratura, in fondo (ma anche in superficie), non è altro che la prosecuzione della vita con altri mezzi, non nel senso che ne sia un’appendice della vita o una sua verbosa didascalia, ma al contrario, il compimento di ciò che, nello srotolarsi irregolare delle cose e dei giorni, è a malapena accennato, oscuramente imbozzolato, pura allusione. La letteratura esiste per afferrare quei bozzoli e per svolgerli, per dispiegarli, perché li prende e li rigenera, dà loro un nome, un volto, il pensiero di un personaggio, li fa parlare, si fa acuto lirico del balbettio frettoloso delle cose. Ma sempre coi mezzi necessari – cioè i giusti mezzi. Basterebbe leggere anche solo un grande romanzo nella vita per godere di innumerevoli occasioni di comprensione della complessità dell’esistenza. È proprio per questo che leggere è un’esperienza che allarga la vita, la arricchisce e la moltiplica: laddove la vita, con la sua lallazione semi-incomprensibile, è avara, brutalmente sintetica, crudamente implicita, ecco che il grande scrittore (e Carver lo era, anche se è andato un po’ troppo di moda e nel suo fan club siedono, a volte, dei grandi insopportabili) – fa il contrario dell’oracolo di Delfi: non indica, ma svela. Non suggerisce, ma definisce. Non allude, ma conclude.
La vita è solo una scusa perché esista la letteratura

domenica 22 settembre 2019



Victor Šklovskij
VIAGGIO SENTIMENTALE MEMORIE 1917-1922 Traduzione di Mario Caramitti Nota introduttiva di Serena Vitale
Adelphi eBook

Dì che sei di carta
Serena Vitale

Grigorij Semënov nacque nel 1891 a Jur’ev (oggi Tartu), ultimo rampollo di una nobile famiglia. Anarco-comunista, ospite abituale delle patrie carceri fin da quando aveva quattordici anni, si andò progressivamente accostando al Partito socialista rivoluzionario, che dopo la rivoluzione di Febbraio contava un milione d’iscritti. Alla fine del ’17 ne guidava l’organizzazione militare. A partire dal maggio ’18 Semënov organizzò una serie di attentati contro i capi di quella che per i socialrivoluzionari era l’aborrita, antidemocratica «dittatura bolscevica». Il 20 giugno 1918 fu ucciso Volodarskij, membro del Presidium del Comitato esecutivo centrale panrusso; il 30 agosto (lo stesso giorno in cui a Mosca Fanja Kaplan sparò a Lenin –di propria iniziativa, sostenne prima di essere giustiziata, ma la pistola apparteneva a Semënov) venne assassinato Urickij, capo della Čeka di Pietrogrado. Nelle fucilazioni che immediatamente seguirono, morì, tra l’altro, un fratello di Šklovskij. Il 2 settembre Sverdlov annunciò l’inizio del «terrore rosso». Abile politicante, coraggioso quanto spregiudicato guerrigliero, Semënov finì col richiamare la non disinteressata attenzione dei bolscevichi: i socialrivoluzionari gli portavano un grandissimo rispetto e mai nessuno ne avrebbe messo in dubbio l’integrità morale, la devozione alla causa. Indotto a tradire, entrò segretamente nel Partito comunista. L’uomo («ottuso», con il «vuoto torricelliano nell’anima»), che portava sempre una grossa Mauser infilata nella cintura, intorno alla metà del ’19 iniziò la sua nuova carriera di spia, di agente segreto. Era il febbraio del ’22 quando pubblicò a Berlino un libretto di quarantatré pagine, senza indicazione dell’editore: Attività militare e sovversiva del Partito socialista rivoluzionario nel 1917-18. Vi si leggeva, fra l’altro: «Capo della sezione Mezzi blindati era Šklovskij, suo assistente Bergman. Un po’per volta la sezione creò una divisione segreta di mezzi corazzati di riserva; ritenevamo che ci sarebbe servita quando fossimo passati all’azione. Approfittando delle conoscenze che aveva nell’ambiente, Šklovskij, che per molto tempo aveva prestato servizio come militare in un battaglione di mezzi corazzati, raccolse gli uomini ... Il centro militare operativo fu trasferito a Saratov ... Lì venne mandata anche la nostra divisione segreta con a capo Šklovskij...». Non a caso il libricino di Semënov, delatorio vademecum dell’opposizione armata clandestina, presto ripreso dalla stampa sovietica, vide la luce quando si stava preparando il processo ai «socialrivoluzionari di destra» –primo grande processo politico dimostrativo nella Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa e primo processo, nella storia, in cui gli accusati erano divisi in «pentiti» e «non pentiti». Sarebbe stato celebrato a Mosca dall’8 giugno al 7 agosto 1922.     La sera del 4 marzo 1922, tornando alla Casa delle arti con lo slittino su cui trasportava la legna che l’indomani avrebbe consegnato ai genitori, Šklovskij notò che le luci alle finestre della sua stanza erano accese. Non poteva essere il fantasma di Eliseev, padrone del palazzo prima che venisse espropriato, né quello di Quarenghi, che oltre un secolo prima ci aveva abitato. Chiese a Efim Egorovič, unico custode rimasto dai vecchi tempi: «Efim, c’è qualcuno da me?». «Proprio così, Viktor Borisovič, avete ospiti». E Viktor Borisovič si dileguò nella notte. Portò ai genitori la legna, dormì non si sa dove, il giorno dopo andò a visitare Tynjanov: «Era un po’teso ma per nulla spaventato. Era più o meno quello di sempre, non particolarmente allegro, ma in grado di raccontare non solo che la Čeka lo stava cercando dappertutto –parlò anche delle forme prosodiche di Nekrasov, su cui in quel periodo Tynjanov stava lavorando...» (V. Kaverin). Nessuno sa dove trascorse le due settimane successive all’imboscata, al mancato arresto. Una notte, portandosi dietro quello stesso slittino, simbolo della nuova preistoria in cui era precipitata la Russia («... epoca tremenda, primordiale. È sotto i miei occhi che hanno inventato la slitta»), ripeté l’itinerario di Lenin nel 1907: sulle acque ghiacciate del golfo di Finlandia abbandonò clandestinamente la Russia. Il 16 marzo scrisse a Gor’kij da Raivola:   «Caro Aleksej Maksimovič, «su di me si è abbattuto un fulmine. «Nella brochure pubblicata a Berlino Semënov ha fatto il mio nome. «Volevano arrestarmi, mi hanno cercato dappertutto. Alla fine sono fuggito ... Non so come riuscirò a vivere senza la Russia. Ora sono nel posto di quarantena. Sto per scrivere il seguito di La rivoluzione e il fronte...».   In una lettera successiva (24 marzo) chiese a Gor’kij di offrire quel «seguito» all’editore Gržebin –«... poiché comunque Semënov ha reso pubblico molto di quello che ho fatto, voglio scriverne io». Così nacque Viaggio sentimentale. Talvolta la delazione giova alla letteratura.     Nel Punteggio di Amburgo Šklovskij raccontò: «Ho scritto Viaggio sentimentale in Finlandia; in dieci giorni, credo, perché avevo davvero bisogno di soldi. Non è che io sia capace di scrivere un libro ogni dieci giorni –il libro ovviamente era già pronto dentro di me e si è risvegliato in soli dieci giorni». In realtà Viaggio sentimentale si compone di almeno tre testi scritti in epoche diverse: 1) La rivoluzione e il fronte (giugno-agosto 1919), pubblicato nel 1921 dall’editore Gržebin, che però non volle far comparire il proprio nome. Autobiografia di un intellettuale russo inquieto, insofferente, in ogni senso nemico dell’immobilismo. Il giovane ricciuto che non ha portato a termine gli studi di filologia all’università ma ha già pubblicato La resurrezione della parola («Oggi le parole sono morte e la lingua somiglia a un cimitero...»), sodale dei cubofuturisti e dei membri di quello che sarà l’OPOJAZ, nel ’14 parte volontario per il fronte. L’anno successivo torna a Pietrogrado e, «spinto dalla fame», diventa istruttore in una scuola per autieri. Riparte –per il fronte sud-occidentale, questa volta; il coraggio gli vale una Croce di San Giorgio. Mosso da un’angosciosa malinconia, un malessere che lo incalza «come la luna spinge un sonnambulo sul tetto», incapace di restare per lungo tempo fermo nello stesso luogo, riesce a farsi mandare in Persia, dove sta per iniziare l’evacuazione delle truppe russe. Ciò che ogni volta vede al fronte, russo o sovietico (nell’estate del ’20 combatte con l’Armata Rossa nel Sud), lo conferma nell’idea che l’esercito del suo paese sia da tempo, da ancor prima della rivoluzione, gravemente malato. Avrebbe bisogno di delicati interventi chirurgici, ma i nuovi padroni della Russia sono chiaramente più inclini alla vivisezione. 2) Epilogo, pubblicato nel febbraio 1922. Sulla copertina del piccolo libro sono indicati due autori: Viktor Šklovskij e Lazar’Zervandov. Racconto, dalle cadenze a tratti bibliche, di un tragico esodo –quello degli assiri dalla Persia, dove i più sanguinosi massacri erano ormai routine quotidiana. 3) La scrivania. Paralipomeni dolenti, qua e là risentiti, del libricino di Semënov. Il lavoro –brutto, sporco, pericoloso –cospirativo. Il fallimento della congiura antibolscevica di Saratov, dove Šklovskij è costretto a nascondersi in un manicomio. L’amnistia. Il tentativo di abbattere Skoropadskij, autoproclamatosi «etmano di tutta l’Ucraina», in una caotica e opulenta Kiev (quella della Guardia bianca, dove Bulgakov ritrae beffardamente Šklovskij come il «fantasmista-futurista Špoljanskij»), che sembra abitata soltanto dai fuoriusciti russi in attesa degli «alleati» e dagli occupanti tedeschi. Di nuovo Pietrogrado: la fame, il gelo, le infinite code ovunque si vendesse o «distribuisse» qualcosa da mangiare, da ardere. La Casa delle arti, stultifera navis (O. Forš) e salvifico rifugio per molti grandi –poeti, prosatori, studiosi di letteratura –del tempo. I «Serapionidi», i «fratelli» di cui Šklovskij era anche l’amato maestro. La morte di Aleksandr Blok –fine di un’intera epoca, di una civiltà. Sempre in movimento, spesso in fuga, ora con i capelli viola, ora giallo come un canarino per l’itterizia, Šklovskij viaggia anche sui tetti o sui pavimenti dei treni, si lancia dai vagoni in corsa, con i suoi racconti da «narratore professionista» incanta come Shahrazad i funzionari della Čeka e torna in libertà, si sposa, si batte in duello per una donna che non è sua moglie... E legge, scrive. Lavora essenzialmente al Legame tra i procedimenti di composizione dell’intreccio e i procedimenti generali dello stile. È infatti «il fondatore della scuola russa del metodo formale (o morfologico)».     L’«eroe» del Viaggio sentimentale: quanto di meno eroico si possa immaginare. È audace fino alla spericolatezza, intelligente, ingegnoso, astuto, capace di adattarsi alle più ingrate circostanze (non lo fermano la povertà, la fame, la devastazione –nulla: «Posso scorrere come acqua e trasformarmi...»), eppure la sua storia è una quasi ininterrotta teoria di insuccessi. Dal fallimento della congiura socialrivoluzionaria di Saratov al sabotaggio delle autoblindo di Skoropadskij, che finisce per risolversi a favore dei nazionalisti di Petljura, dal vano tentativo di arrestare lo sfacelo dell’esercito russo in Persia alla tragicomica disavventura dell’esperto artificiere che per poco non si ammazza facendo esplodere il detonatore a cui ha incautamente avvicinato la sigaretta accesa. Il vero eroismo di Šklovskij è altrove –nella sua inafferrabilità. Non soltanto la Čeka è incapace di catturarlo. Perché il Percy Blakeney russo vive negli intervalli, nelle lacune, negli spazi vuoti, «nei buchi delle ciambelle». Una sera, nascondendolo in una stanza del Circolo linguistico di Mosca, Roman Jakobson gli disse: «Se stanotte ci sarà una perquisizione, tu fruscia, e di’che sei carta». Consiglio quasi superfluo. Šklovskij era «carta»: la sua vita si trasformava immediatamente in testo. Un testo, una pagina «ironica e distruttiva», come è sempre l’arte che ridà vita all’esistente. Nella Mosca postrivoluzionaria alcuni soldati occupano il secondo piano di un edificio ormai deserto. Chiuso a chiave l’appartamento al primo piano, aprono un largo foro nel pavimento e lo usano come latrina: «Più che una porcheria era un utilizzo delle cose da un nuovo punto di vista»... Significativa benché non olezzante variazione sul tema dell’arte e del fin troppo famoso, citato, «straniamento» šklovskiano: guardare le cose da un nuovo punto di vista, semplicemente. E poi scriverne. Con frasi essenziali, brevissime, in cui i legami sintattici sono ridotti al minimo. Con molti spazi vuoti, bianchi. Tutto il resto –anche le lacrime –è andato a finire nel piano inferiore della vita. 
    P.S. Accusato di crimini immaginari, l’8 ottobre del funesto anno 1937 Grigorij Semënov venne giustiziato.

Abbiamo usato la cosiddetta traslitterazione scientifica dal russo oggi di uso comune. La c si legge come la z sorda di «zucchero», č come la c di «cibo», ch come ch nel tedesco ich, š come la sc di «scimmia», ž come la j nel francese jamais, ë come il dittongo io in «rivoluzione». Delle località citate nel testo si è mantenuto il nome con cui erano note all’epoca degli eventi narrati. Ciò non vale per Pietroburgo: benché ribattezzata Pietrogrado nel 1914, Šklovskij continua a chiamarla prevalentemente col suo vecchio nome (o, talvolta, con l’affettuoso, familiare Piter). Quanto ai toponimi ucraini e dei territori che allo scoppio della prima guerra mondiale facevano parte dell’Impero russo, si è sempre adottata la grafia russa. 


PARTE PRIMA LA RIVOLUZIONE E IL FRONTE
Prima della rivoluzione ero istruttore in un battaglione corazzato di riserva: una posizione privilegiata nell’esercito. Non dimenticherò mai il tremendo senso di oppressione che provavamo io e mio fratello, scritturale allo stato maggiore. Ricordo le corse furtive per strada dopo le otto di sera, i tre mesi di fila chiusi in caserma, ma soprattutto i tram. La città era stata trasformata in un accampamento militare. I «duesoldi», così chiamavano i soldati delle ronde, che, si diceva, ricevevano due copechi per ogni arrestato, ci davano la caccia, ci inseguivano nei cortili, ci portavano davanti alla commissione di disciplina. Causa di quella guerra erano i tram stracarichi di soldati che si rifiutavano di pagare il biglietto. Gli alti gradi ne facevano una questione d’onore. Noi, la massa dei soldati, li ricambiavamo con un sabotaggio sordo e incattivito. Sarà infantile, ma sono convinto che quel tenerci nelle caserme, strappati a casa e lavoro, senza mai una licenza, a far nulla e marcire sulle brande, l’accidia da caserma, la cupa estenuazione e la rabbia dei soldati ai quali si dava la caccia per le strade, hanno, tutt’insieme, alimentato la rivolta nella guarnigione di Pietroburgo più che le continue disfatte al fronte e le insistenti, sempre più diffuse voci sul «tradimento della corte». Attorno ai tram si andava creando uno specifico folklore, squallido e inconfondibile. Ad esempio: una crocerossina viaggia con dei feriti, un generale se la prende con i feriti, offende pure la crocerossina. Allora quella getta via il mantello e si scopre che ha l’uniforme da granduchessa; dicevano proprio così: «uniforme». Il generale si mette in ginocchio e chiede perdono, ma lei non lo perdona. Un folklore, come vedete, ancora a tutti gli effetti monarchico. L’episodio veniva ambientato ora a Varsavia, ora a Pietroburgo. C’era anche la storia del cosacco che ammazza un generale perché quello voleva tirarlo giù dal tram e strappargli le onorificenze. Un omicidio per via del tram sembra ci sia stato davvero da noi in città, anche se il generale lo ricondurrei piuttosto a una rielaborazione epicizzante; a quell’epoca i generali ancora non andavano in tram, salvo alcuni a riposo e in miseria. Nei reparti non si faceva propaganda politica; almeno non nel mio, dove passavo tutto il tempo con i soldati, dalle cinque-sei del mattino fino alla sera. Non si faceva, cioè, propaganda di partito, ma indipendentemente da quella la rivoluzione era comunque data per certa: si sapeva che ci sarebbe stata, solo ci si aspettava che sarebbe scoppiata dopo la guerra. Chi potesse fare propaganda nei reparti proprio non c’era: gli iscritti ai partiti erano pochissimi e, se anche c’erano, si trattava di operai che non avevano quasi nessun legame coi soldati; l’intelligencija, nel senso più elementare della parola, cioè chiunque avesse fatto almeno due classi di ginnasio, era finita tutta tra gli ufficiali, che si comportavano, per lo meno nella guarnigione di Pietroburgo, non meglio, o forse peggio, degli ufficiali di carriera. I sottotenenti erano impopolari, soprattutto nelle retrovie, attaccati com’erano coi denti al battaglione di riserva. Di loro i soldati cantavano: Prima «razza di pezzente», ora «sì, signor tenente». Molti di loro avevano l’unica colpa di essersi lasciati attrarre con troppa leggerezza dall’aura sontuosa di cui era ammantata l’estenuante disciplina delle scuole militari. In gran numero questi stessi hanno poi sposato la causa della rivoluzione, pur se, va detto, con troppo facile trasporto, analogo a quello con cui erano diventati ottusi e brutali esecutori di ordini. Non meno diffusa era la storia di Rasputin; storia che a me non piaceva, perché nel modo in cui veniva raccontata era evidente lo sfacelo spirituale della popolazione. Il successo dei libelli postrivoluzionari della serie «Grigorij: brogli e onori» mi ha fatto capire che, per le più vaste masse, Rasputin era una specie di eroe nazionale, un po’come il Van’ka dei canti popolari, quello che va a letto con la principessa. Ma ecco che per effetto di tutta una serie di cause, alcune delle quali laceravano i nervi e innescavano scintille, mentre altre agivano dall’interno, modificando progressivamente la psiche del popolo, le catene arrugginite che imprigionavano la Russia si sono tese oltre ogni limite. La città era sempre peggio approvvigionata, c’era penuria di tutto, almeno per come eravamo abituati allora. Il pane scarseggiava, davanti ai negozi si formavano lunghe file, al canale Obvodnyj avevano cominciato a saccheggiare i forni, e i fortunati che erano riusciti a procurarsi il pane lo portavano a casa tenendolo ben stretto, rimirandolo deliziati. Rivendevano il pane anche i soldati, nelle caserme erano scomparsi i tozzi secchi e le croste, prima marchio di fabbrica, assieme all’aria inacidita, di quei luoghi di costrizione. Il grido «pane!» risuonava sotto le finestre e davanti ai portoni delle caserme, dove si era di molto allentata la vigilanza di sentinelle e sottufficiali di picchetto, che ormai lasciavano uscire liberamente i commilitoni. Senza più alcuna fiducia nel vecchio ordinamento, schiacciata dalla mano crudele ma ormai titubante dei superiori, la caserma era in fermento. All’epoca non solo i soldati di carriera, ma qualunque coscritto che raggiungesse i ventidue-venticinque anni era una rarità. Tanto spietato e insulso era stato il massacro della guerra. I sottufficiali di carriera erano stati inseriti come soldati semplici nei primi contingenti ed erano morti in Prussia, a L’vov e durante la celebre «grande» ritirata, quando l’esercito russo aveva lastricato la terra di cadaveri. Il soldato pietroburghese di quei giorni era un contadino insoddisfatto o un borghesuccio. Non li avevano neanche vestiti di pastrani grigi: glieli avevano gettati addosso, formando quella marmaglia, quelle bande e combriccole che venivano chiamate battaglioni di riserva. In sostanza, le caserme erano diventate stalle dove a suon di cartoline precetto venivano rinchiuse mandrie di uomini. In termini di percentuale numerica, rispetto alla massa dei soldati, i graduati probabilmente non erano più numerosi degli aguzzini che sorvegliavano gli schiavi imbarcati sulle navi negriere. Ma dietro le pareti delle caserme le voci correvano: «Gli operai si preparano a scendere in piazza», «quelli di Kolpino vogliono marciare sulla Duma il 18 febbraio». Metà contadini, metà popolino, i soldati nel loro insieme avevano scarsi legami con gli operai, ma le circostanze andavano delineandosi in modo da favorire una deflagrazione. Ricordo i giorni della vigilia. Gli istruttori autieri e i carristi che andavano fantasticando di rubare un blindato, sparare contro la polizia e poi abbandonarlo fuori porta con il biglietto: «Da riportare al maneggio». Un tratto molto caratteristico: non veniva meno l’attaccamento ai mezzi. Evidentemente non c’era ancora la convinzione di poter abbattere il vecchio regime, volevano soltanto fare gazzarra. E con i poliziotti ce l’avevano da un pezzo, in primo luogo perché quelli avevano scampato il fronte. Ricordo che un paio di settimane prima della rivoluzione, mentre marciavamo a ranghi compatti per la strada (almeno in duecento), abbiamo incontrato un drappello di poliziotti di quartiere, e li abbiamo sfottuti subissandoli di grida: «Scagnozzi! Scagnozzi!». Gli ultimi giorni di febbraio la gente saltava letteralmente addosso alla polizia, i reparti di cosacchi mandati di rinforzo giravano a cavallo per le strade senza toccare nessuno, scherzando allegramente. Il che rinfocolava ancora di più gli umori insurrezionali della folla. Sul Nevskij prospekt ci sono stati degli spari, anche dei morti, un cavallo morto è restato a lungo sulla strada, non lontano dall’incrocio con il Litejnyj. Mi è rimasto impresso, tanto allora era uno spettacolo insolito. In piazza Znamenskaja un cosacco ha ucciso un ispettore di polizia che aveva dato una sciabolata a una dimostrante. Le pattuglie sulle strade non sapevano che cosa fare. Ricordo la perplessità di un plotone con piccole mitragliatrici a rotelle (l’affusto Sokolov) e le cartuccere nelle bisacce dei cavalli: evidentemente un plotone di mitraglieri con il supporto di animali da soma. Erano fermi in via Bassejnaja, all’angolo con via Baskovaja. Una mitragliatrice, come una bestiolina, se ne stava afflosciata sul selciato, pure lei perplessa, circondata da una folla che non l’attaccava ma spingeva con le spalle, come priva di mani. Sul Vladimirskij prospekt c’erano le pattuglie del reggimento Semënovskij, di famigerata crudeltà. Titubanti anche loro: «Non c’entriamo niente, facciamo come tutti gli altri». Il poderoso apparato repressivo predisposto dal governo si era bloccato. Durante la notte ha rotto i freni il reggimento di Volinia: si sono messi d’accordo tra loro, e al comando: «Tutti alla preghiera!» si sono precipitati ai fucili, hanno assaltato l’armeria per rifornirsi di munizioni, sono corsi in strada e, dopo aver coinvolto alcuni piccoli reparti lì nei pressi, hanno cominciato a piazzare pattuglie nella loro zona, il Litejnyj prospekt. Tra l’altro i voliniani hanno dato l’assalto pure alle nostre celle di rigore, che stavano vicino alla loro caserma. I soldati liberati si sono presentati ai superiori. I nostri ufficiali avevano assunto una posizione neutrale, anche loro nella moderata forma di opposizione del giornale «Večernee vremja». La caserma era in subbuglio, aspettavano che arrivasse qualcuno per farli uscire. I nostri ufficiali dicevano: «Fate quello che volete». Per strada, nel mio quartiere, gli ufficiali già venivano disarmati da uomini in borghese che saltavano fuori a gruppetti dai portoni. Benché di tanto in tanto si sentissero degli spari, davanti ai palazzi c’era molta gente, anche donne e bambini. Sembravano aspettare un matrimonio, o un funerale solenne. Già tre o quattro giorni prima, per ordine dei superiori, erano stati resi inservibili tutti i nostri mezzi. Nel nostro garage Belinkin, un ingegnere, volontario nell’esercito, ha restituito ai soldati e agli operai i pezzi che erano stati smontati. Ma i blindati del nostro garage li avevano trasferiti al maneggio del castello Michajlovskij. Sono andato al deposito, già pieno di gente che portava via le macchine. Per i blindati mancavano i pezzi. La prima cosa che mi è sembrato opportuno fare è stato rimettere in sesto un’autoblindo Lanchester armata di cannoncino. I pezzi di ricambio li avevamo noi alla scuola. Dove subito sono tornato. I sottufficiali di picchetto e i soldati di turno, pur in grande agitazione, erano ai loro posti. La cosa in quel momento mi ha sorpreso. Più tardi, quando alla fine del 1918 a Kiev ho provato a sollevare un battaglione di blindati contro l’etmano, ho visto che quasi tutti i soldati si tiravano indietro dicendosi di picchetto o di turno, ma per me non era già più una sorpresa. Alla scuola ero molto amato. Il soldato che ha aperto la porta mi ha chiesto: «Lei, Viktor Borisovič, è per il popolo?», e alla mia risposta affermativa ha cominciato a baciarmi. Era un momento in cui ci si baciava tutti. Mi hanno dato i pezzi, promettendo anche che non avrebbero detto chi li aveva presi. Da lì sono tornato al mio reparto: ancora adesso non saprei dire se erano venuti a ordinare lo scioglimento o se era stata un’iniziativa spontanea. I nostri vagavano attorno alla caserma. Ho preso due capisquadra del garage, Gnutov e Bliznjakov, e con gli strumenti siamo andati a riparare il blindato.



  • Tutto questo è successo di mattina, due o tre ore dopo che il battaglione di Volinia si era sollevato: il primo giorno della rivoluzione. Fatico a rendermi conto di come tanti eventi abbiano potuto concentrarsi in una sola giornata. Abbiamo preso il blindato e lo abbiamo rimorchiato fino a un garage in vicolo Kovenskij, dove, occupati i locali e staccato il telefono, abbiamo cominciato a ripararlo, trafficando fino a sera. Il serbatoio era stato riempito d’acqua, che si era ghiacciata. Ci è toccato rimuovere il ghiaccio e asciugare il serbatoio con degli stracci. In una pausa dal lavoro ho fatto un salto da un amico letterato. Nelle sue stanze non ci si muoveva e mancava l’aria, cibo ovunque, una muraglia di fumo, tutti che giocavano a carte e avrebbero continuato a giocare per due giorni di fila. In seguito quest’uomo è diventato –molto presto e con piena convinzione –bolscevico e membro del partito. Così come sono divenuti comunisti quasi tutti quelli che giocavano a quel tavolo. A me però resta ancora nitidamente impressa nella memoria la loro altezzosa ironia nei confronti dei «disordini di strada». Prima ancora di tutto questo, in città era stato proclamato lo sciopero. I tram non andavano. I vetturini che non avevano aderito allo sciopero venivano fermati. All’angolo tra il Nevskij e via Sadovaja ho incontrato un mio conoscente, professore universitario, uomo tanto dotato di talento quanto sconclusionato, un tempo vicino ai membri dell’antirivoluzionaria Unione accademica, perché quelli, evidentemente, gli pagavano da bere. Urlava, e comandava un gruppo di persone che fermava le carrozze. Era sobrio, ma completamente fuori di sé. Tutto il quartiere intorno alla Duma era in preda alla rivolta. La vicinanza al Palazzo di Tauride della caserma dei voliniani, ma anche di quelle di altri reggimenti –Preobraženskij, di Lituania, del genio (in via Špalernaja) –, molto più che la memoria dei discorsi parlamentari, avevano fatto della Duma il centro dell’insurrezione. Sembra che il primo a guidare un distaccamento alla Duma sia stato il compagno Linde, che poi sarebbe stato ucciso dai soldati dell’Armata Speciale, dove era commissario. Si tratta dello stesso Linde che in aprile ha portato in piazza il reggimento di Finlandia e ha provato a mettere agli arresti il Governo provvisorio dopo la celebre nota di Miljukov. Il nostro blindato è sceso in strada e si è messo a scorrazzare per la città. Le vie buie erano animate da gruppetti non molto folti di persone. Dicevano che qua e là c’erano poliziotti che sparavano. Sul ponte Sampsonievskij abbiamo visto dei poliziotti, ma non siamo riusciti a sparargli perché sono corsi via prima. C’era già chi saccheggiava le cantine, i miei compagni volevano prendere il vino che veniva distribuito, ma, quando gli ho detto di non farlo, non hanno obiettato. Nello stesso tempo erano avanzati dei blindati anche da via Dvorjanskaja, guidati dai compagni Anardovič e Ogon’nec. Hanno subito occupato la zona della Peterburgskaja storona e sono andati verso la Duma. Non so chi ce l’abbia detto, ma ci siamo diretti alla Duma anche noi. Davanti all’ingresso c’era già, mi sembra, un blindato Garford. Alle porte della Duma ho incontrato L., un volontario, mio vecchio commilitone, allora sottotenente d’artiglieria. Ci siamo baciati. Sono stati momenti molto belli. Un unico fiume trasportava tutti, e la saggezza stava nell’abbandonarsi alla corrente. È scesa la notte. Nel Palazzo di Tauride il caos era assoluto. Portavano armi, arrivava gente, ancora alla spicciolata, trascinavano provviste requisite non si sa dove; in una camera vicino all’ingresso erano stati sistemati dei sacchi. Già arrivavano, sotto scorta, i primi arrestati. Alla Duma una signorina mi ha nominato comandante del blindato e mi ha persino dato delle disposizioni militari. Munizioni per il cannone ne avevo, non so dove me le fossi procurate, forse ancora al deposito del maneggio. Le disposizioni naturalmente non le ho eseguite: chi, del resto, in quel momento eseguiva qualcosa? Ho dormito un’ora o due dietro a una colonna, avvolto nella pelliccia. Alla Duma ho incontrato Suchanov. Lo avevo conosciuto alla redazione della rivista «Letopis’», con cui avevo collaborato pubblicando note bibliografiche nella rubrica letteraria. Ma in redazione avevo anche tenuto una lezione sulla poetica, spiegando l’arte come forma pura, il che aveva scatenato un’aspra discussione con i marxisti. Per questo, forse, Suchanov si è stupito di vedermi lì: io e l’insurrezione, per lui, eravamo due cose inconciliabili. E anch’io, per via della mia ingenuità politica, mi sono stupito della sua presenza: non sapevo nemmeno che già si fossero formati e strutturati i centri politici bolscevichi. Che certo però, in quel momento, non potevano ancora influenzare gli eventi. La massa andava per conto suo, come aringhe a deporre le uova, obbedendo all’istinto. Nella notte hanno portato il tenente D., comandante delle officine dei mezzi corazzati, in stato d’arresto. I soldati che gli facevano da scorta non sembravano molto convinti, e l’arrestato mi ha detto, con aria di riprovazione: «Stava così male agli ordini del capitano Sokolichin che gli si è messo contro?». Gli ho risposto che non avevo nulla contro il capitano Sokolichin. Tempo una mezz’ora e il tenente è uscito tutto allegro. La commissione militare della Duma, avendolo riconosciuto tra i primi ufficiali autieri lì «convenuti», gli aveva assegnato l’incarico di organizzare tutto quanto riguardava i mezzi di trasporto a Pietroburgo. Era una persona furba e a suo modo intelligente, avida, se non di potere, almeno di carriera; in seguito sarebbe figurata tra i comunisti anarchici. Mi ci sono soffermato in quanto è stato il primo fantino che io abbia visto lanciarsi nella corsa alle cariche. In seguito di persone così ne ho incontrate a frotte. Di mattino presto siamo nuovamente usciti in città. Qualcuno mi aveva anche dato un incarico militare e un artigliere per comandante. Questo comandante me lo sono perso, o è lui che si è perso me, e mi sono mescolato all’allegro carosello del popolo insorto. Mi sono diretto alle caserme del reggimento Preobraženskij, in via Millionnaja. Qualcuno aveva detto che stavano facendo resistenza. Siamo arrivati. Era un mattino di sole del più fenomenale azzurro. Sparando allegre salve, correvano fuori dalle caserme gli insorti del reggimento Preobraženskij, indossando pastrani nuovi con mostrine di un rosso fiammante. Qua e là c’erano stati tentativi di resistenza. Sembra che a sparare fossero stati gli allievi del 6° battaglione del genio e del reggimento di Mosca. La compagnia ciclisti del Lesnoj prospekt ha resistito abbastanza a lungo. Penso che sia successo perché ci sono andati solo gli operai, senza soldati, e quelli hanno avuto paura a unirsi a loro. Gli hanno mandato contro alcune autoblindo Fiat, che hanno fatto saltare un’ala in legno della caserma, con tutta la gente che c’era dentro. Quella notte è morto uno dei nostri carristi, Fëdor Bogdanov. Si è imbattuto, con la torretta del blindato aperta, in un appostamento di poliziotti (l’unico in cui, correttamente, avessero piazzato la mitragliatrice alla finestra di una cantina e non sul tetto, da dove la mitragliatrice fa solo rumore e le traiettorie sono incontrollabili). Il corpo di Bogdanov non è sepolto al Campo di Marte, i parenti sono venuti a prenderlo e lo hanno portato fuori città. Qualcosa in più a proposito delle mitragliatrici sui tetti. Per quasi due settimane mi hanno chiamato a toglierle di mezzo. Di solito, quando sembrava che ci sparassero dalle finestre, cominciavamo a sparare scompostamente con i fucili contro i palazzi, scambiando per fuoco di risposta la polvere che si sollevava dagli intonaci. Sono convinto che la maggior parte dei morti della rivoluzione di Febbraio vada imputata alle nostre stesse pallottole, che letteralmente ci piovevano in testa dall’alto. La mia compagnia ha perlustrato quasi per intero i quartieri Vladimirskij, Kuznečnyj, Jamskoj e Nikolaevskij, e non ho trovato alcuna conferma alle segnalazioni di mitragliatrici sui tetti. In aria invece si sparava molto, anche cannonate. Sul mio blindato sono capitati cannonieri di varia estrazione. Ricordo soprattutto il primo, che, ferito a un braccio, era rimasto al pezzo. Era un gendarme delle caserme di via Kiročnaja. Diceva che i gendarmi erano stati tra i primi a passare dalla parte degli insorti. E non c’è stato cannoniere che non mi abbia chiesto l’autorizzazione a sparare per far vedere che avevamo persino un cannone, e si sparava in aria sul Nevskij prospekt. Quel giorno l’ho passato quasi tutto stando in vedetta davanti alla stazione Nikolaevskij. La stazione era priva di ogni difesa, e io proponevo (all’aria, perché non c’era nessuno a cui proporre) di occupare l’ultimo piano degli alberghi Severnaja e Znamenskaja per tenere l’intera stazione sotto tiro, ma le nostre forze erano assolutamente insufficienti. Se pure si mettevano di sentinella dei soldati che passavano di lì, quelli o andavano via, o provavano a resistere fino allo svenimento, e comunque non arrivavano al cambio della guardia. Responsabili del comando erano –o così mi sembrava –uno studente senza un braccio e un ufficiale di marina molto anziano, in uniforme, se ricordo bene, da guardiamarina. Era stravolto dalla stanchezza. Arrivavano convogli che trasportavano truppe –non era chiaro da dove venissero né dove andassero –, noi ci avvicinavamo al treno con il blindato e quattro o cinque fanti, e l’esausto guardiamarina chiedeva agli ufficiali al comando: «La città è nelle mani del popolo insorto: voi volete unirvi al popolo insorto?». Dai vagoni sgranavano gli occhi uomini e cavalli. Gli ufficiali rispondevano che non c’entravano nulla, che erano lì di passaggio; i soldati ci guardavano, e non sapevamo se sarebbero scesi o no dal loro alto vagone. Venivano in supporto autoblindo con carristi che conoscevo. Stavano un po’lì, poi se ne andavano. La città era percorsa in lungo e in largo dalle muse e dalle erinni della rivoluzione di Febbraio: camion e automobili, straripanti e rigurgitanti soldati, che andavano non si sa dove, trovavano la benzina non si sa come, e si aveva l’impressione di campane suonate a festa in tutta la città. Sfrecciavano in lungo e in largo, giravano in tondo, ronzavano come api. Era la strage delle macchine innocenti. Per reintegrare le compagnie autotrasportate, un numero sterminato di autoscuole militari aveva sfornato a nugoli autieri con appena mezz’ora di pratica. Ed ecco arrivato il momento della festa per questi semiautisti che finalmente avevano messo le mani sulle macchine. In città uno schianto dopo l’altro. Non saprei dire quanti incidenti ho visto in quei giorni. In poche parole, tutti i miei allievi avevano imparato a guidare in due giorni. Dopo di che la città si è riempita di autovetture abbandonate al loro destino. Erano stati organizzati dei punti di ristoro, dove con oche e salame preparavano piatti mostruosamente grassi. Ero felice in mezzo a quella marea di gente. Era insieme Pasqua e un allegro, carnascialesco, ingenuo, sgangherato paradiso. Nel frattempo quasi tutti si erano armati a spese degli ufficiali e soprattutto saccheggiando i depositi. Le armi erano tante, passavano di mano in mano, non venivano vendute, ma circolavano liberamente. C’erano molte splendide Colt. Non eravamo in alcun modo una reale unità di combattimento, ma non ce ne preoccupavamo. C’erano notti di panico, notti in cui aspettavamo l’attacco di non si sa quali contingenti. Ma intanto la guarnigione di Pietroburgo si andava sempre più infoltendo. Erano arrivati, tirandosi dietro le mitragliatrici con le corde, trasportando mitragliatrici senza affusti gettate come legna da ardere su un furgone, drappeggiandosi nelle cartuccere, soldati dei reggimenti di mitraglieri e delle Accademie di Strel’na e di Oranienbaum. Nei pressi di Strel’na un gruppo dei nostri in esplorazione ha incontrato un colonnello che viaggiava in macchina e somigliava vagamente allo zar. È stato accolto, prima che si chiarisse l’equivoco, con impetuoso, frenetico entusiasmo. Le mitragliatrici che arrivavano a Pietroburgo erano per lo più inutilizzabili, la maggioranza, ad esempio, non aveva manicotti di raffreddamento, di modo che era impossibile versarci l’acqua. Ce n’erano fin troppe, ma la quantità non aumentava il nostro potenziale bellico. Ricordo che attorno alle stazioni Baltijskij e Varšavskij c’erano mitragliatrici piazzate quasi a ogni passo. È ovvio che, con quella dislocazione, sparare sarebbe stato tremendamente scomodo. Ma il potenziale bellico non aveva importanza. Stava ormai diventando chiaro che la Pietroburgo insorta non aveva avversari. Dalla parte degli insorti erano comparsi gli ufficiali, era passata a ranghi compatti l’Accademia d’Artiglieria Michajlovskoe. Un po’più tardi si è unito a noi anche il 1° reggimento di riserva con tutti gli ufficiali. I nostri ufficiali è andato a prenderli casa per casa un ingegnere ebreo molto energico, un volontario che di fatto ormai da un anno e mezzo dirigeva la scuola. Gli ufficiali si sono radunati. Avevano trovato anche il comandante del battaglione; in quel periodo di comandanti temporanei ne avevamo già avuti ben tre, ma tutti quanti si facevano dare l’autorizzazione scritta della Duma e sparivano non si sa dove. Gli ufficiali, dunque, si sono radunati. Senza troppa convinzione hanno deciso di unirsi agli insorti, perfino di opporre resistenza alle truppe governative. Il Governo provvisorio era già stato formato. Hanno deciso anche di indossare, a differenza di chi non partecipava all’insurrezione, delle fasce rosse –all’inizio le volevano cremisi –sulle maniche. I reparti ormai non esistevano praticamente più. Non funzionavano più nemmeno le mense. Le compagnie erano disperse. Il maneggio era occupato. I mezzi erano andati a finire chissà dove. Un po’migliore era la situazione della nostra compagnia. I plotoni si erano organizzati in turni di vigilanza, in caso di allarme accorrevano tutti, anche di notte. Abbiamo organizzato delle pattuglie che fermavano le vetture in giro senza meta e le radunavano nel cortile della caserma. In questo modo si sono salvate un gran numero di macchine. Ma alle macchine abbandonate e congelate già avevano tolto le dinamo, il cui costo era molto diminuito dopo la rivoluzione. Per effetto dello strano, eterogeneo assortimento di armi, la compagnia aveva assunto il variopinto aspetto di un gruppo di liceali in armi. Di quei giorni restano due pellicole cinematografiche. In una si vede come diamo da mangiare ai piccioni nel cortile della compagnia, nell’altra un’uscita della compagnia in assetto da combattimento, con un’autoblindo Austin in testa e dietro i soldati e gli ufficiali con le sciabole sguainate. Con gli ufficiali non c’erano particolari tensioni. Il nostro comandante, il capitano Sokolichin, lo amavano tutti perché non maltrattava la compagnia e si dava un gran da fare per rifornirci di scarpe. Il primo giorno della rivoluzione gli avevano dato una pelliccia da autista senza gradi e una scorta armata di cinque persone, perché nessun estraneo gli facesse del male. A un altro nostro ufficiale, per strada, non avevano tolto le armi perché aveva la spada di San Giorgio conferita al coraggio. Sono cominciate le elezioni degli ufficiali, la compagnia delle autofficine ha chiesto la rimozione del comandante del battaglione. Sono cominciati gli intrighi per ottenere posti con l’aiuto dei soldati. Ma continuava, senza posa, il flusso delle truppe verso il Palazzo di Tauride, dal rumore dei passi sembrava che dovesse sfondarsi il selciato, il colore rosso era un luccichio ininterrotto. Il Soviet di Pietrogrado già si riuniva, ma ancora non c’era stato l’Ordine n. 1, e Rodzjanko era popolare tra i soldati. Ma erano riunioni in armi, tra grida e invettive. Per molti dei reparti arrivati al Palazzo di Tauride, quelli di Čcheidze e di altri erano i primi discorsi rivoluzionari che sentivano. Cosa pensavano della guerra? Mi sembra che credessero che sarebbe finita da sé; era una convinzione generale al momento dell’appello ai popoli di tutto il mondo. Ricordo che i soldati di ritorno dall’Operazione Albion, nell’arcipelago di Moonsund, dicevano che lì era già stato trovato un accordo con i tedeschi: non avrebbero sparato né loro né noi. Insomma, dominava l’euforia, si stava bene e c’era fiducia che quello fosse solo l’inizio della pace e del benessere. I volantini con l’Ordine n. 1 sono stati lanciati tra i soldati schierati nella piazza del Maneggio per una parata. Tutti hanno cominciato a salutare con: «Buongiorno, signor colonnello!» invece del vecchio «eccellenza», e lo facevano con lo spirito giusto, in tono cordiale e amichevole. Penso che l’Ordine n. 1, per quanto sembrasse anticipare gli eventi –di comitati politico-militari nei reparti ancora non ce n’erano –, sia stato assolutamente tempestivo e necessario. Non si potevano lasciare i reparti in mano ai soli ufficiali, che si erano appena ripresentati dopo una lunga assenza. I comitati, è vero, sono del tutto inadatti all’esercito, ancor più che i comandanti eletti, eppure erano l’unico modo per tenere in piedi l’esercito. L’aspetto più negativo dei comitati era che in brevissimo tempo perdevano il contatto con chi li aveva eletti. E i delegati al Soviet non si facevano vedere nei loro reparti per mesi. I soldati non erano minimamente informati di quello che succedeva nei Soviet. Giovava alla causa solo la fiducia enorme e non ancora sperperata di cui godeva la rappresentanza diretta dei soldati. Nel primo Soviet di Pietrogrado sono stati eletti in gran numero volontari e soldati istruiti, il che evidentemente accentuava il distacco. D’altra parte nelle caserme non lavorava quasi più nessuno, l’intelligencija si era data alla fuga, e non c’erano uomini disposti a occuparsi delle attività formative. In uno dei battaglioni del genio, mi pare il 6°, tra alcune centinaia di volontari se ne sono trovati meno di dieci che hanno dato la disponibilità a lavorare nelle scuole di alfabetizzazione. Per i più la rivoluzione non era che una licenza fuori programma. Nel comitato politico-militare del nostro reparto sono stati eletti dei comandanti di plotone e capomeccanici: il comitato aveva carattere essenzialmente pratico. Intanto, reggimento dopo reggimento, i soldati continuavano ad attraversare la Sala di Caterina del Palazzo di Tauride. Sui manifesti c’era ancora: «Fiducia al Governo provvisorio», e persino: «In guerra fino alla vittoria finale». Ma di combattere non eravamo più in grado. Mi riferisco, per il momento, alla sola guarnigione di Pietroburgo. Gli enormi reparti della riserva, che contavano fino a decine di migliaia di effettivi, ormai non mandavano più contingenti al fronte, ma anche in città avevano ben poco da fare, e senza armi non potevano difendere la rivoluzione: così se ne restavano a marcire e putrefarsi nelle caserme. Ancora nessuno pronunciava lo slogan: «Pace a ogni costo». Ancora non era tornato Lenin, i bolscevichi dicevano ancora che bisognava tenere il fucile pronto, ma la guarnigione ormai non c’era più, era solo un deposito di soldati. Tra le masse ancora divampava il fuoco della rivoluzione, ma non era la calda fiamma del carbone, piuttosto il focherello dell’alcol che non riesce a far bruciare la legna su cui è stato versato. Un focherello del genere era Kerenskij. La prima volta che ho visto Kerenskij era in preda alla sua isteria generalesca, quando, dopo un articolo delle «Izvestija» che lo attaccava, si è precipitato al Soviet dei soldati per chiedere se «avevano fiducia in lui». Urlava frasi incomprensibili, e davvero sembrava brillare con secche, lunghe, crepitanti scintille. Urlava con la faccia stravolta di un uomo che ha giorni contati, poi, sfinito, si è lasciato cadere su una poltrona. Ha suscitato un’impressione tremenda. La seconda volta ho visto Kerenskij dopo la mia nomina a commissario. Lo cercavo per consultarlo, e l’ho finalmente individuato davanti all’Accademia Navale. C’era la sua Locomobile grigia parcheggiata, così mi sono messo ad aspettarlo parlando con l’autista. «Adesso lo portano» mi ha detto quello. E in effetti, dopo qualche minuto, dall’Accademia hanno portato fuori Kerenskij. Era seduto, nella sua consueta posa esausta, su una sedia tenuta in alto sopra la folla. Sono salito con lui in macchina e ho cominciato a parlare. Labbra secche ed esangui, viso magro e livido, voce roca, ha detto stringendo debolmente i pugni: «Più di tutto contano la determinazione e la costanza». Mi ha fatto l’impressione di una persona ormai allo stremo delle forze, conscia di non avere scampo. Mi affretto a smettere di scrivere di quello che è già noto a tutti, per passare il prima possibile alla guerra. Come sono finito al fronte? È arrivato Lenin. Nelle officine del battaglione corazzato c’erano dei bolscevichi, iscritti al partito; hanno messo a disposizione di Lenin un blindato, che dalla stazione lo ha portato al palazzo della Kšesinskaja, occupato dal nostro reparto come residenza. Una parte del battaglione aveva simpatie molto marcate per i bolscevichi. Allora ero membro del comitato di battaglione, e con la mia scuola rappresentavo l’ala più propensa a una guerra difensiva contro i tedeschi. A questo punto devo introdurre un nuovo personaggio, Maksimilian Filonenko. A suo tempo era stato comandante delle officine dei mezzi corazzati, rivelandosi uomo di generosità impulsiva e a suo modo molto umano; poi era andato al fronte, pieno d’entusiasmo. Là non aveva avuto successo, si sentiva escluso, era incupito e non vedeva l’ora di tornare. È rientrato a Pietroburgo dopo la rivoluzione e ci ha messo radici. Quello che avveniva in città lo interessava enormemente di più che un ruolo di poco conto al fronte. Era un ometto con la casacca militare, i capelli corti, la testa piuttosto grande e rotonda che lo faceva assomigliare a un gattino. Ingegnere per formazione, sapevaquattro o cinque lingue straniere, ma soprattutto si compiaceva della sua pronuncia francese. Figlio di un importante ingegnere, aveva più volte ricoperto incarichi di responsabilità in grandi cantieri navali, e ogni volta li aveva lasciati dopo aver compromesso la sua posizione. Aveva buone qualità intellettuali, senza, però, il profumo del talento. Un primo della classe che avrebbe voluto essere genio. Il suo cuore non lo conosco, nei miei confronti nutriva sentimenti di amicizia e di affetto. Ma per fine non aveva altro che il proprio fine, e la sua stella era lui stesso. Tuttavia, non c’era una stella nel suo cielo, e invano lui continuava a cercarla. All’inizio aveva preso a frequentare il comitato di battaglione come ospite, e non c’è dubbio che nel deserto di uomini che era allora la Russia, in mezzo agli altri del comitato, apatici come pesci, lui avesse ogni agio di brillare. Poi ha iniziato ad accettare mansioni su richiesta di qualche compagnia, in prevalenza officine di mezzi corazzati, dove lo stimavano per il suo passato di servizio e da lui tolleravano quello che non avrebbero tollerato da nessun altro. Nella cupa penombra delle officine di montaggio, piene di blindati in condizioni mostruose, sopra ai quali, in mezzo ai fumi dei gas di scarico, si accalcavano gli stessi che nei giorni dell’insurrezione di luglio avrebbero abbandonato il proprio mezzo alla prima difficoltà, Filonenko intesseva i suoi viluppi dialettici, intelligenti e oculati, prensili e seducenti. Alla fine è riuscito a farsi mettere a capo di tutta l’area tecnica. Al fronte, nonostante glielo proponessero, non aveva nessuna voglia di tornare. Era stato coinvolto, come in seguito ho scoperto, in una brutta storia: un soldato frustato. Là era un uomo finito. Qui invece aveva scelto il giusto «angolo di attacco» e si preparava a decollare, come un aeroplano. La fiducia concessagli dal comitato di battaglione aveva del prodigioso: era stato eletto –a nome del comitato, non del reparto –al Soviet dei deputati. Va detto che di delegati al Soviet ce n’erano di ben più strani. Una volta tra loro ho incontrato un ebreo non privo di talento, il violoncellista Č., prima in servizio presso la banda musicale del reggimento Preobraženskij e ora rappresentante dei cosacchi del Don. Al Soviet Filonenko si è distinto per alcuni efficaci discorsi in polemica con Zinov’ev, e all’assemblea della guarnigione, dopo la sollevazione del reggimento di Finlandia, in aprile, ha difeso il governo di coalizione. Aveva apprezzabili qualità: immagine, volontà, chiarezza. E si capiva che avrebbe avuto un ruolo di peso. Allora il suo atteggiamento nei confronti del Soviet era della più assoluta lealtà. Ma aveva bisogno di una sua invenzione, di un’idea da brevettare; l’idea era quella di mandare al fronte commissari che prendessero parte di persona ai combattimenti. La proposta l’ha fatta a me e al compagno Anardovič. Ho accettato. Ero inquieto, mi mancava l’azione vera, e Filonenko mi si prospettava come persona competente e fedele alla rivoluzione. Ora qualcosa su Anardovič. Il compagno Anardovič, futuro commissario dell’Armata Speciale, era un operaio dei cantieri navali Sormovo di Nižnij Novgorod, ferito sulle barricate nel 1905. Di provata fede socialrivoluzionaria, aveva una grande influenza sui soldati delle officine e da solo aveva fatto uscire sedici o diciassette blindati pronti a combattere, quando compagni che si sono in seguito collocati ben più a sinistra di lui erano rimasti nella più assoluta inattività. Quest’uomo dal naso aquilino e dal volto energico era di una semplicità ed essenzialità commoventi. Scriveva versi strappalacrime alla maniera di Nadson, credeva alla missione del primo Soviet come un prete di campagna al messale, e alla rivoluzione era dedito senza timori né incertezze. La sua frase preferita era: «Semplice e chiaro ». Era capace di parlare per tre o quattro ore di fila, senza che niente potesse distrarlo. Come ho poi avuto occasione di constatare, sapeva gestire in modo eccellente le masse, senza alcuna paura, e sapeva imporre anche a una folla in subbuglio le proprie posizioni. Merita, fra l’altro, che ci si soffermi su di lui perché, nell’insieme dei commissari dell’esercito, Anardovič era l’unico di chiara estrazione operaia, un vero operaio appena prelevato dal banco di lavoro. Il comitato di battaglione aveva già esaminato e accettato la proposta di mandare al fronte persone che si impegnassero a prendere parte alla guerra, testimoni viventi delle capacità difensive della Russia democratica. Si erano proposti di partire tutti i non bolscevichi del battaglione. Ricordo come me ne stavo con la testa china, in pieno scoramento. Provavo la stessa sensazione di un operaio che, impigliato con un lembo della giubba alla cinghia di trasmissione, si sente trascinare via: oppone ancora resistenza, ma il cuore si è già rassegnato all’inevitabilità della morte. Sono stato mandato al fronte come terzo della lista: Filonenko, Anardovič, Šklovskij. Il battaglione ci ha sempre considerato, fino agli ultimi giorni di ottobre, suoi emissari, con un mandato preciso. Così mi consideravo anch’io, mentre Filonenko si è presto allontanato dal battaglione che gli aveva permesso di ottenere quell’incarico. È cominciata la complessa trafila per far approvare il nostro mandato dal Governo provvisorio, che mai su nulla aveva da ridire, e dal Comitato esecutivo del Soviet di Pietrogrado –riverita accademia del tipo Fabio Massimo il Temporeggiatore –, che aveva sempre da ridire, ma non sapeva assolutamente cosa voleva. Il Comitato esecutivo non aveva la minima idea di che cosa fare dell’esercito. Essendosi contrapposto al Governo provvisorio –o meglio, avendolo esso stesso creato e a sé contrapposto –, non poteva né prendere provvedimenti né non prenderli, aveva in mano tutto il potere reale ma chissà in testa cosa aveva. L’esercito non poteva capire questa situazione, intricata nella miglior tradizione del socialismo scientifico: esigeva un comando, degli ordini. Al Comitato esecutivo di Čcheidze frotte di uomini accorrevano dai vari reparti chiedendo ordini. Per questo il Comitato esecutivo era già pronto ad accettare l’idea di commissari con duplice mandato. Quando ripenso a quello stato di cose, mi convinco che l’istituzione dei commissari militari si debba a Filonenko. Era passato molto in fretta dall’idea di persone mandate a dare il proprio esempio a quella di persone che comandassero –commissari militari. Perché la sezione militare del Comitato esecutivo del Soviet di Pietrogrado ha accettato la candidatura di Filonenko? Penso che, per la totale mancanza di alternative, abbia dovuto chiudere un occhio e farselo andar bene. Sembra che un tempo fosse stato socialrivoluzionario, ma all’epoca della rivoluzione non aveva più legami col partito. Come suoi vice si sono messi in viaggio Anardovič e l’ingegner Cipkevič, anche lui con un passato da socialrivoluzionario, ma ormai, in sostanza, uomo «fuori dalla politica». Di Cipkevič ancora non ho parlato. Ne parlerò più avanti. Con il tempo ho avuto modo di convincermi del suo enorme talento organizzativo. Era un ingegnere, coordinatore dei processi produttivi. La rivoluzione, sovvertendo tutti gli schemi e i grafici, lo aveva turbato, e lui pensava di poterla regolare come se si trattasse di un motore o di una ferrovia. Io invece sono stato mandato come responsabile della propaganda. Ora spiegherò perché sono andato al fronte, perché ritenevo necessaria l’offensiva e perché all’offensiva ho partecipato. Ero a favore dell’offensiva perché consideravo la rivoluzione stessa un’offensiva. Per le mie convinzioni di allora, l’offensiva era possibile. Bisognava passare all’attacco, oppure piantare le baionette in terra e tornarsene a casa fischiettando. All’affratellamento col nemico non credevo, e avevo ragione. Il mio errore stava nel non capire l’impossibilità di un’offensiva avendo alle spalle questa sirena: un governo democratico con una coda borghese. Non si può combattere quando ci si combatte nelle retrovie. Ritenevo necessaria l’offensiva perché una vittoria delle forze repubblicane avrebbe rapidamente provocato la rivoluzione in Germania. Prospettiva ben più rosea che una rivoluzione sotto la scure della revanche. Bisognava attaccare finché ancora esisteva un esercito, ma sarebbe servito un governo unito, impegnato nella rapida attuazione di un programma minimo. E un’altra cosa. Gli alleati, che siano maledetti, non davano il loro assenso al nostro progetto di «pace senza annessioni né indennità»: parole abusate sui giornali, ma posso ben dire quanto sacre per ogni uomo in trincea, con i piedi spappolati dal fango e il collo roso dai pidocchi. Erano parole autenticamente sacre per i soldati scalzi. Quelli che le hanno rifiutate sono responsabili del sangue versato, delle lordure e delle crudeltà. Oh, se alla testa dei reggimenti di giugno avessimo potuto dispiegare il sacro vessillo di una guerra giusta, non dovrei adesso, miei cari compagni, piangere sulle vostre tombe. Ma sto tradendo i miei propositi: non voglio essere un critico degli eventi, voglio solo fornire un po’di materiale per i critici. Racconto gli eventi, e di me stesso faccio, per le generazioni a venire, un campione da laboratorio. Dunque, siamo partiti. Mi dispiaceva separarmi dalla mia compagnia, dalla nostra scuola, che avevamo portato a una perfezione senza precedenti per la Russia. La mia compagnia rimaneva in città, a logorarsi come tutta la guarnigione rivoluzionaria. Solo un po’più lentamente degli altri reparti. L’armeria, almeno, l’aveva conservata intatta. Ancora un ultimo ricordo su Pietroburgo. Il Soviet minore della sezione militare, che con un suo giornaletto assai moralistico si opponeva a Lenin di ritorno in patria, aveva pubblicato una risoluzione in cui si affermava che la propaganda leninista era nociva al pari della propaganda controrivoluzionaria. Lenin allora è venuto a spiegarsi al Soviet. È stato un giorno di grande turbamento. La sala era piena di delegati. Presiedeva il volontario Zavad’e. Lenin ha pronunciato il suo discorso con impeto elementare: i pensieri rotolavano come enormi ciottoli. Spiegando quanto fosse facile avviare una rivoluzione sociale, schiantava i dubbi innanzi a sé come un cinghiale abbatte i giunchi. Gli astanti, così incalzati, concordavano con lui e si sentivano invasi da qualcosa di simile all’angoscia. Ricordo un soldato barbuto che gridava all’indirizzo del Soviet minore: «Borghesucci!», «Figli di papà!», e reclamava: «Čcheidze presidente! Čcheidze!». Posso immaginare che guazzabuglio d’idee avesse in testa quel soldato.

sabato 21 settembre 2019



NON IN DIALECTICA
"Non in dialectica complacuit Deo salvum facere populum suum."
(Ambrogio)
"Dio non ha salvato il suo popolo con la via della dialettica".
Questa citazione è diventata celebre grazie a Newman. 
Egli l'ha riportata come motto sul frontespizio della sua "Grammar of Assent"
Egli nutriva «una grande avversione per gli scritti di logica», come scrive nella "Apologia pro vita sua" . Il pensiero che conduce ad agire o a cambiare punto di vista è per Newman sempre una questione che riguarda l'uomo considerato nella sua totalità. Il cuore non viene mosso dalla logica e dalla comprensione concettuale-astratta di uno stato di cose ( notional apprehension ), ma da una comprensione reale-vivente ( real apprehension ), da immagini mentali per la facoltà immaginativa, da simboli e dalla testimonianza di fatti ed eventi. Questo vale per le cose della fede come per quelle del mondo.

mercoledì 11 settembre 2019


TAMARA


Estratto da "Le città invisibili "
Italo Calvino

[...] L'occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose[...]

 

TAMARA
L'uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre. Raramente l'occhio si ferma su una cosa, ed è quando l'ha riconosciuta per il segno d'un'altra cosa: un'impronta sulla sabbia indica il passaggio della tigre, un pantano annuncia una vena d'acqua, il fiore dell'ibisco la fine dell'inferno. Tutto il resto è muto e intercambiabile; alberi e pietre sono soltanto ciò che sono.
Finalmente il viaggio conduce alla città di tamara. ci si addentra per vie fitte d'insegne che sporgono dai muri. L'occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose: la tenaglia indica la casa del cavadenti, il boccale la taverna, le alabarde il corpo di guardia, la stadera l'erbivendola. Statue e scudi rappresentano leoni delfini torri stelle: segno che qualcosa - chissà cosa - ha per segno un leone o delfino o torre o stella. Altri segnali avvertono di ciò che in un luogo è proibito - entrare nel vicolo con i carretti, orinare dietro l'edicola, pescare con la canna dal ponte - e di ciò è lecito - abbeverare le zebre, giocare a bocce, bruciare i cadaveri dei parenti. Dalla porta dei templi si vedono le statue degli dei, raffigurati ognuno coi suoi attributi: la cornucopia, la clessidra, la medusa, per cui il fedele può riconoscerli e rivolgere loro le preghiere giuste. Se un edificio non porta nessuna insegna o figura, la sua stessa forma e il posto che occupa nell'ordine della città bastano a indicarne la funzione: la reggia, la prigione, la zecca, la scuola pitagorica, il bordello. Anche le mercanzie che i venditori mettono in mostra sui banchi valgono non per se stesse ma come segni d'altre cose: la benda ricamata per la fronte vuol dire eleganza, la portantina dorata potere, i volumi di Averroè sapienza, il monile per la caviglia voluttà. Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte: la città dice tutto quello che devi pensare, ti fa ripetere il suo discorso, e mentre credi di visitare Tamara non fai che registrare i nomi con cui essa definisce se stessa e tutte le sue parti.
Come veramente sia la città sotto questo fitto involucro di segni, cosa contenga o nasconda, l'uomo esce da Tamara senza averlo saputo. Fuori s'estende la terra vuota fino all'orizzonte, s'apre il cielo dove corrono le nuvole. Nella forma che il caso e il vento dànno alle nuvole l'uomo è già intento a riconoscere figure: un veliero, una mano, un elefante...

L'UOMO CHE PARLAVA DUE VOLTE
James Hadley Chase 
(You Can Say That Again, 1980)

1

Nell'ultima settimana avevo continuato a restarmene seduto a casa mia, un piccolo appartamento in un edificio senza ascensore, fissando il vuoto e aspettando che succedesse qualcosa. Ero rimasto completamente al verde e, peggio ancora, non potevo più contare su nessuna forma di credito. La mia unica ancora di salvezza, al momento, era il telefono. Quando squillò - per la prima volta durante sette, orribili giorni - per poco non mi ruppi una gamba nell'ansia di andare a rispondere.
«Parla la segretaria di Lu Prentz.»
«Ciao, Liz!» Non per nulla facevo l'attore, anche se recitavo in parti piuttosto modeste. Conferii alla mia voce una nota di autentico piacere, invece di mettermi a strillare come se avessi un disperato bisogno d'aiuto. Parlavo in tono tranquillo, senza panico, completamente a mio agio. «Sei stata fortunata a trovarmi. Stavo giusto per uscire.»
Sapevo che questo genere di battute non avrebbe funzionato con Liz Martin, ma sapevo anche che in qualche modo lei sarebbe stata al gioco. Lavorando con Lu Prentz, aveva abbastanza esperienza per sapere che tutti i clienti del suo principale erano alla disperata ricerca di un lavoro.
«Il signor Prentz desidera vederla urgentemente, signor Stevens» mi disse. «Può passare?»
«Che significa urgentemente?»
«Nel primo pomeriggio. Le va bene alle tre?»
C'erano state occasioni nelle quali Lu Prentz parlava d'affari con me durante pranzi a dir poco sontuosi, consumati nei ristoranti più esclusivi, ma quello apparteneva ormai alla notte dei tempi. Ultimamente, se voleva vedere il sottoscritto, era solo per ricordarmi che gli dovevo cinquecentotré dollari.
«Teme che non saldi i miei debiti, Liz?» chiesi con voce annoiata. «È per quello che vuole vedermi?»
«Si tratta di un lavoro, signor Stevens.»
«Sarò lì alle tre.»
Mentre riagganciavo, tirai un lungo e profondo sospiro. Diavolo, finalmente un lavoro! Un qualsiasi fottutissimo lavoro!
Fino ad alcuni anni prima, avevo avuto un successone interpretando il ruolo del cattivo in numerosi film western. Poi mi ero calato nei panni dell'amico che non riesce mai a impalmare la ragazza che ama, e lì mi avevano assegnato solo particine secondarie. Poi ancora ero passato a interpretare il tizio che viene fatto fuori poco dopo l'inizio del film e infine il personaggio che se ne sta seduto e si guarda intorno con aria minacciosa: in quell'ultimo ruolo, il regista mi concedeva al massimo un'inquadratura di cinquanta secondi. Da allora non era successo un gran che: qualche modesta particina e una più importante in un serial televisivo. Al momento, come si dice nel nostro gergo, mi stavo riposando.
Fisicamente ero alto, affascinante e scuro di capelli. Stato civile: divorziato. Mi avvicinavo ai quaranta e il mio guardaroba, sempre molto accurato, cominciava a dar segni di un preoccupante logorio. Era da un pezzo che continuavo ad aspettare. Non facevo altro, praticamente. Ero arrivato così in fondo al tunnel che non uscivo nemmeno più, nel timore che in mia assenza potesse squillare il telefono. Non mangiavo più di un hamburger al giorno, che mi veniva puntualmente recapitato a domicilio, ma speravo sempre di fare il colpaccio.
Lu Prentz era noto come l'ultima spiaggia per gli attori disoccupati che cominciavano a invecchiare. E lo stesso valeva per le attrici, naturalmente. Quando tutte le grandi agenzie, quelle un po' meno grandi e quelle insignificanti non si interessavano più di un certo attore, allora interveniva Lu e tentava lui. Spesso diceva, sfoderando il suo sorriso untuoso: «Chissà, qualche gonzo potrebbe ancora farti recitare, no? E quelli sono tutti dollari sul mio conto, amico.»
A dire la verità, e a dare a Lu quello che gli competeva, negli ultimi sei mesi era stato l'unico a foraggiarmi quando i lupi avevano già cominciato ad appostarsi dietro la mia porta di casa. Nel passarmi il malloppo, mi aveva spiegato che aveva fiducia in me. Era convinto che avrebbe riavuto indietro il suo denaro, più naturalmente il venticinque per cento di interessi. Io avevo preso i suoi soldi e mi ero dichiarato felice di essere d'accordo con lui, ma in ogni caso pensavo che stesse correndo un rischio. Tanto per dirne una, avevo venduto anche la mia auto.
Ma se Liz aveva detto che c'era un lavoro, le sue parole andavano prese alla lettera.
Liz Martin era una donna di mondo, anche se aveva solo diciotto anni. Lavorava per Lu da circa tre anni, e se c'era una persona con un cuore d'oro quella era lei. L'avevo vista piangere quando qualche povera attrice vecchia e rinsecchita era stata sbattuta fuori dal modesto ufficio di Lu.
Entrai nella stanzetta che faceva da anticamera mentre Liz pigiava sui tasti della macchina da scrivere come un'ossessa. Le rivolsi il mio sorriso più franco e cordiale.
Liz era un'esile biondina dai grandi occhi azzurri. Aveva lo sguardo mesto che hanno certi spaniel, ma sotto sotto si capiva che aveva un grande bisogno di essere amata.
«Ciao, Liz» dissi, chiudendo la porta. «Il coccodrillo ha già finito di rosicchiare le ossa?»
Lei annuì e puntò l'indice verso la porta di Lu.
«Entri pure, signor Stevens, e buona fortuna.»
Lu Prentz sedeva dietro la scrivania, con gli occhi chiusi e le mani tozze posate sul tampone sporco d'inchiostro. Dal rossore del viso, si sarebbe detto che si fosse appena scolato una bottiglia di whisky, magari a spese di qualche malcapitato.
Lu era piccolo, tarchiato e decisamente grasso. Calvo e rasato di fresco, almeno quando si ricordava di rasarsi, aveva l'aspetto di uno zio buono a nulla che tornava a casa dopo un lungo esodo cercando di racimolare qualche dollaro. Indossava sempre lo stesso abito di un lucido blu. Gli piacevano le cravatte floreali dipinte a mano e le camicie verde bottiglia. Fu solo quando aprì gli occhi e mi guardò che mi ricordai di un particolare interessante: Lu non era semplicemente acuto e perspicace, ma all'occasione sapeva anche essere duro come l'acciaio.
«Siediti, Jerry» mi disse, indicandomi con un gesto vago la poltrona riservata agli ospiti. «Crèdo che sia saltato fuori qualcosa che potrebbe interessarti.»
Mi accomodai con una certa cautela, sapendo in base alla mia lunga esperienza che quella poltrona era confortevole quanto la ghigliottina. L'avevano progettata apposta in modo che Lu potesse sbarazzarsi dei suoi clienti nel più breve tempo possibile.
«È da un pezzo che non ci vediamo, Lu» dissi. «Hai una bella cera.»
«Lascia perdere queste battutacce» disse lui, mettendosi a eruttare piano. «Sembrano prese da un film di quart'ordine. Stammi bene a sentire.» Mentre mi guardava, socchiuse le palpebre. «Tu mi devi cinquecentotré testoni.»
«Adesso non mettiamoci a rivangare il passato, Lu. Cos'è saltato fuori?»
«Te lo ricordavo giusto perché, se riesci ad avere questo lavoro, la prima cosa che dovrai fare è saldare i tuoi debiti.»
«Ma che lavoro? Si tratta della TV?»
«Non so che lavoro sia, ma il mio sesto senso mi dice che ci potresti fare un bel po' di soldi.» Si grattò il naso a becco. «Sempre posto che tu riesca a fartelo dare.»
«Devi avere mangiato troppo a pranzo. Stai delirando.»
«Piantala di farmi perdere tempo! Adesso ascolta e non fare commenti.»
Feci quello che mi aveva consigliato lui.
Quella mattina, alle dieci, era venuto in ufficio un uomo che gli aveva detto di chiamarsi Joseph Durant. Lu l'aveva guardato e ne aveva tratto un'impressione decisamente positiva. Sui quarant'anni, era scuro di capelli e aveva un'aria molto curata. Portava un abito immacolato, dal taglio sartoriale, che sembrava decisamente costoso. Completavano l'abbigliamento un paio di scarpe nere di coccodrillo e una cravatta Cardin. Quei particolari avevano fatto colpo su Lu. Il signor Durant sembrava trasudare ricchezza da ogni poro.
Il visitatore aveva detto che gli interessava ingaggiare un attore disoccupato. Avendo chiesto un po' in giro, sapeva che il signor Prentz era specializzato proprio nel reclutamento di quel tipo di attori.
Lu gli aveva lanciato il solito sorriso untuoso, affrettandosi a precisare che aveva anche altri clienti impegnati al cinema e in TV che stavano facendo un mucchio di dollaroni.
Il signor Durant si era messo a fare un gesto vago, come a voler liquidare quella ovvia menzogna. Il signor Prentz aveva alcune foto di quegli attori disoccupati che speravano ancora di rientrare nel giro?
Lu gli aveva detto che aveva circa quattrocento fotografie di attori eccellenti che, per loro disgrazia, al momento non avevano nulla da fare.
«Gradirei darci un'occhiata» aveva detto Durant.
«Be', ma quattrocento... forse però potrebbe darmi un'idea della persona che ha in mente. A quel punto basterebbe inserire i dati nel computer» che naturalmente era Liz Martin «e avremmo una selezione più precisa.»
Durant aveva chinato il capo in cenno di assenso.
«Mi serve un uomo tra i trentacinque e i quaranta, alto almeno un metro e ottanta. L'altezza è importante, badi bene. Dev'essere anche abbastanza snello: non più di settanta, settantacinque chili. In più, bisogna che abbia la patente, sappia andare a cavallo e nuoti bene. Deve anche avere un carattere tranquillo. Non voglio uno di quegli attori montati che si credono delle piccole divinità.»
Lu aveva solo cinque attori disoccupati in lista che corrispondevano vagamente a quella descrizione e, più che delle piccole divinità, si consideravano tutti dei padreterni. Aveva mostrato le foto a Durant con particolare ostentazione, e l'altro le aveva esaminate.
Lu mi lanciò il più untuoso dei suoi sorrisi.
«Ha scelto te, Jerry. Però vuole vederti, prima di decidere se assumerti o meno.»
«Ma cosa vuole che faccia?» chiesi. «E chi è? Un talent-scout?»
«Ne dubito.» Lu si strinse nelle spalle. «È stato molto riservato, al riguardo. Però ho capito che quello è pieno di soldi, e al momento noi non siamo interessati ad altro, no?»
«Puoi dirlo» risposi con estrema convinzione.
«Bene. Stasera, esattamente alle dieci e mezzo, devi andare nell'atrio dell'hotel Plaza. Una volta lì, ti dirigi al banco dei giornali e compri una copia di "Newsweek". Poi vai al bar principale e ordini un martini secco. Te ne resti seduto al bar per un po', sfogliando tranquillamente il giornale. Ti metti a fare quattro chiacchiere col barista, finisci il drink e te ne torni nell'atrio. Il tutto con estrema tranquillità, mi raccomando. Non fare le cose troppo in fretta, perché ti terranno d'occhio. Il tuo modo di comportarti e i tuoi movimenti saranno osservati con interesse dal signor Durant. Alla fine, accomodati in una delle poltrone nell'atrio. Se il signor Durant sarà soddisfatto, ti contatterà lui. In caso contrario se ne andrà, naturalmente. Tu aspetta mezz'ora, tornatene a casa e dimenticati tutto. Ecco come stanno le cose. Adesso dipende da te.»
«Non hai idea di cosa voglia?»
«No.»
«Non ha parlato di soldi?»
«No. Questo è solo un provino, in un certo senso. Come ho detto, ora dipende da te.»
Ci pensai sopra. Mi sembrava una richiesta un po' strana, ma alla fine poteva saltar fuori un lavoro.
«Ti è sembrato che se la passasse bene?»
«Mi è sembrato ricco sfondato.»
«Allora d'accordo. Cos'ho da perdere, in fondo? Ci sarò.»
Lu sfoderò di nuovo il suo sorriso viscido.
«Ottimo. E ricordati bene cos'ha detto Durant. Devi avere un carattere tranquillo. E quello mi è parso uno che non parla a vanvera.»
«Un carattere tranquillo? Significa che devo sempre dire di sì?»
«Eccellente pensata, Jerry. Significa proprio questo.»
«Supponiamo che mi prenda. Quanto potrei ricavarne? Non avete parlato di questo aspetto?»
Lu girò gli occhietti freddamente.
«Se salta fuori il problema dei soldi, digli che si metta in contatto con me. Sono io il tuo agente, no?»
«Be', direi proprio di sì. Mi sembra di non averne altri.» Gli lanciai un sorriso che potrei definire tranquillamente fanciullesco se non fosse stato per la sua mancanza di sincerità. «Allora va bene, ci andrò.» Feci una pausa e aggiunsi: «Però c'è un'altra cosuccia che dovrei chiarire prima di lasciarti alle tue lucrose occupazioni, Lu. Vado al Plaza. Compro "Newsweek" e un martini secco... esatto?»
Lui mi lanciò un'occhiata sospettosa.
«È quello che devi fare, sì.»
Io gli sorrisi in modo ancora più candido.
«E con che cosa?»
Lu mi fissò.
«Non ti seguo.»
«Guardiamo in faccia la realtà, anche se è sordida. Io non ho più il becco di un quattrino. Sono stato persino costretto a venire a piedi nel tuo sporco ufficio, perché, se non lo sapevi, mi sono venduto la macchina.»
Lu si appoggiò allo schienale della poltrona.
«Impossibile! Ti avevo prestato...»
«Quello è stato sei mesi fa. Adesso, però, mi sono rimasti esattamente un dollaro e venti cent.»
Lui chiuse gli occhi ed emise un piccolo gemito. Sapevo che stava lottando con se stesso. Alla fine riaprì gli occhi, esibì un portafogli decisamente rigonfio e ne estrasse un biglietto da venti dollari, che poi depositò sulla scrivania come se fosse un preziosissimo vaso Ming.
Mentre allungavo la mano per prendere la banconota, lui disse: «Meglio che ti fai dare quel lavoro, Jerry, perché questo è l'ultimo prestito che ricevi da me. In caso contrario, non rimettere più la tua sporca faccia in questo ufficio. Chiaro?»
Mi infilai i venti dollari nel portafogli vuoto.
«Ho sempre saputo che avevi un cuore d'oro, Lu» dissi. «Parlerò ai miei nipotini della tua generosità. Sono sicuro che quei piccoli bastardi non la finiranno più di piangere.»
Lui sbuffò.
«Ora mi devi cinquecentoventitré dollari, più il venticinque per cento di interessi. Avanti, smamma!»
Tornai in anticamera, dove due uomini di una certa età, dall'aria un po' abbattuta, se ne stavano appoggiati contro il muro in attesa di vedere Lu. La loro vista mi fece subito venire un attacco di depressione, ma riuscii lo stesso a congedarmi da Liz con un sorriso luminoso. Discesi a piedi lungo la strada. Mentre mi dirigevo verso il mio triste appartamentino, sperai, come non avevo mai sperato prima, che quella sera avrei avuto il colpo di fortuna di cui avevo assolutamente bisogno.

Quando entrai nell'atrio del Plaza, l'orologio alla parete segnava le ventidue e trenta.
Ai miei tempi d'oro frequentavo spesso quell'albergo, servendomi del bar e del ristorante specie quando avevo un appuntamento con qualche bambola. Allora il portiere si toglieva il cappello, appena mi vedeva passare, ma stavolta si limitò a lanciarmi un'occhiata distratta mentre si precipitava giù per le scale e andava ad aprire la portiera di una Caddy da cui uscirono un grassone e una grassona. Anzi, la donna sembrava persino più voluminosa dell'uomo.
L'atrio dell'hotel era piuttosto affollato. C'erano i soliti tipi che spesso stazionano negli alberghi di lusso e che si salutavano graziosamente a vicenda. Gli uomini portavano lo smoking di rito, le donne sfoggiavano le loro pitture di guerra. Nessuno mi prestò particolare attenzione mentre attraversavo l'atrio e mi dirigevo verso il banco dei giornali. L'anziana signorina che stava lì dietro praticamente da quando aveva aperto l'albergo mi sorrise.
«Salve, signor Stevens! Ma guarda un po' chi si vede! Ci è mancato molto, sa? È stato via?»
Be', perlomeno qualcuno si ricordava di me.
«In Francia» mentii. «E lei come sta?»
«Non mi lamento. Ma a ogni anno che passa si diventa sempre più vecchi, sa com'è. E lei, signor Stevens?»
«Tutto bene. Mi dà "Newsweek", bellezza?»
Lei mi fece un sorrisino sciocco. Era facile compiacere le persone senza soldi né fama. Mi diede la rivista e io pagai. Poi, consapevole del fatto che qualcuno poteva tenermi d'occhio, sfoderai il più radioso dei miei sorrisi, le dissi che sembrava più giovane dall'ultima volta che l'avevo vista e la lasciai sbalordita dalla gioia. Poi mi feci strada lentamente tra la folla e mi diressi al bar. Resistetti alla tentazione di guardarmi intorno per vedere se mi riusciva di scorgere il signor Durant. Speravo solo che fosse lì a osservare la mia esibizione.
Il bar era affollato. Dovetti aprirmi un varco a forza tra il grassone e la grassona carica di profumo che erano scesi dalla Caddy per arrivare al banco.
Jo-Jo, il barista negro, stava servendo dei cocktail. Aveva messo su un bel po' di chili da quando l'avevo visto l'ultima volta. Mi lanciò una rapida occhiata, poi strabuzzò gli occhi e alla fine mi sorrise.
«Salve, signor Stevens. Arrivo subito da lei.»
Io appoggiai i gomiti sul bancone: ecco un'altra persona che si ricordava di me.
Quando Jo-Jo mi chiese che cosa volessi, ordinai un martini secco.
«È da un mucchio di tempo che non ci si vede, signor Stevens» disse lui, afferrando lo shaker. «Ormai è diventato una specie di sconosciuto.»
«Già. Ma sai com'è, no?» Non provai a raccontargli la storiella che ero stato in Francia. Jo-Jo era troppo furbo per abboccare.
«Sicuro. Si va e si viene, ma alla fine si finisce sempre per tornare in questa città.» C'era uno sguardo di simpatia nei suoi occhi. «Comunque, è bello rivederla.» Mi versò il drink e si precipitò a servire alcuni clienti che rumoreggiavano per avere un bis.
All'improvviso, mi sentii decisamente bene. Erano mesi che nessuno mi diceva più quanto gli faceva piacere rivedermi. Molti dei miei cosiddetti amici attraversavano la strada quando mi vedevano arrivare.
Mi chiesi se il mio numero con Jo-Jo fosse stato sufficientemente lungo. Tenendo in mano il bicchiere, mi diedi un'occhiata in giro, ma c'era così tanta gente che non mi riuscì di scorgere nessuno che assomigliasse anche lontanamente al signor Durant. Sorseggiai il drink e sfogliai la rivista. Quando Jo-Jo ebbe terminato di servire gli altri clienti, gli feci un segno.
«Un pacchetto di Chesterfields, per favore.»
«Sì, signor Stevens.» Mi diede le sigarette. «Il martini andava bene?»
«Era perfetto. Non c'è nessuno che sappia miscelare un martini secco come te.»
Lui era raggiante.
«Be', credo di averne fatti un bel po'.»
«Ho una fretta del diavolo. Pago subito.» Posai una banconota da dieci sul bancone.
Lui mi diede il resto e io gli lasciai venticinque cent di mancia.
«Spero di vederla ancora, signor Stevens» disse, poi andò a servire altri drink.
Io terminai il martini, mi accesi una sigaretta e cominciai a vagabondare su e giù per l'atrio dell'albergo. Adesso sembrava meno affollato. La gente stava dirigendosi verso il ristorante e le uscite.
Il cuore aveva preso a battermi all'impazzata. Si sarebbe fatto vivo il signor Durant? Cercai di fingere indifferenza e mi diressi verso le poltrone. Poi mi sedetti, aprii la rivista e posai gli occhi sulle pagine stampate senza nemmeno vederle. E se avessi fatto fiasco? Chiunque stesse osservandomi, non sembrava molto ansioso di concludere.
"Stai calmo" mi dissi, e schiacciai il mozzicone dentro il portacenere che stava su un tavolino al mio fianco. Accavallai le gambe e presi di nuovo a sfogliare le pagine.
Passarono venti lunghi minuti e non accadde nulla. Ormai l'atrio era praticamente vuoto. Mi guardai intorno. Una coppia di una certa età sedeva un po' lontano da me. Un uomo piuttosto magro e una donna più magra di lui stavano parlando con l'addetto alla reception. Quattro fattorini sedevano su una panchina in attesa che arrivassero nuovi clienti. Una vecchietta sedeva tutta sola con lo sguardo triste e perduto nel vuoto. C'era solo un barboncino a tenerle compagnia. Due uomini, che fumavano sigari, stavano esaminando alcune carte. Non si vedeva nessuno che assomigliasse anche lontanamente al signor Durant.
Attesi. Non c'era null'altro che potessi fare, in ogni caso, e mentre me ne stavo seduto lì, una nuvola nera e deprimente cominciò a prendere forma sopra la mia testa. Quindici minuti dopo, quella nuvola era cresciuta a dismisura.
Avevo fallito.
Posai la rivista sul tavolino e accesi un'altra sigaretta. E adesso cosa potevo fare? Pensai alla lunga camminata che avrei dovuto sobbarcarmi per tornare a casa. Non potevo permettermi di prendere un taxi, e dei soldi che mi aveva prestato Lu mi erano rimasti solo undici dollari più qualche spicciolo. Certo, almeno per il momento avevo ancora un tetto sopra la testa, ma quanto sarebbe durato?
Lu faceva sul serio quando mi aveva detto di non passare più in ufficio, in caso di fiasco? Ci pensai e decisi che stava bluffando. Non mi avrebbe mai tolto le sue grinfie di dosso fino a quando non avessi saldato il debito che avevo con lui, fino all'ultimo cent.
Feci per avviarmi verso casa, preparandomi a passare ore interminabili accanto al telefono. Ma almeno il prestito di Lu mi avrebbe evitato di morire di fame, quella sera.
Si stava bene nell'atrio dell'hotel. Nessuno sembrava badare a me, e io provavo una certa riluttanza nell'imbarcarmi in quella lunga e triste passeggiata verso casa. Perciò tornai nuovamente a sedere e mi costrinsi a guardare le altre persone che stazionavano nei pressi. L'uomo magro e la donna più magra di lui se n'erano già andati. La coppia di una certa età si era incontrata con un'altra coppia anziana, e adesso i quattro stavano avviandosi verso il ristorante. I due uomini d'affari continuavano a fumare i loro sigari e a discutere tranquillamente.
I miei occhi si spostarono sulla vecchietta col barboncino.
Gli atri degli alberghi sono sempre pieni di vecchiette: alcune sono magre, altre grasse, ma tutte immancabilmente tristi e solitarie. Quella che stavo osservando io era un esemplare decisamente tipico. Mi pareva molto probabile che fosse rimasta vedova, avesse un mucchio di soldi e stesse partecipando a un viaggio organizzato in California, al termine del quale sarebbe tornata in una qualche villa solitaria dove un maggiordomo e un discreto numero di cameriere di una certa età avrebbero continuato a derubarla senza battere ciglio. Tutto in lei denunciava ricchezza: la parrucca biondo cenere era immacolata, gli occhiali ingioiellati, l'abito verde smeraldo molto probabilmente era un Balmain e vari anelli di brillanti le luccicavano sulle dita.
Mi accorsi che mi stava fissando e spostai rapidamente lo sguardo. Ma anche se non la guardavo più, mi pareva di sentire che lei avesse ancora gli occhi puntati su di me.
Accidenti, pensai, che quella vecchietta solitaria si fosse messa in testa qualcosa riguardo al sottoscritto? Sembrava proprio di sì, perché lei si alzò dalla poltrona, prese con sé il barboncino e si avvicinò a me.
«Credo che lei sia Jerry Stevens, vero?» disse, fermandosi al mio fianco.
Santo cielo, pensai mentre mi alzavo. Ci mancava solo quella. Le rivolsi un sorriso incantato.
«Mi scusi se la disturbo, signor Stevens, ma dovevo proprio dirle quanto mi è piaciuta la sua interpretazione ne Lo sceriffo del decimo ranch.»
Posto che sia mai esistito l'Oscar per il film più orripilante, Lo sceriffo del decimo ranch se lo sarebbe aggiudicato senza discussioni.
Mi incollai sulle labbra il sorriso più compiaciuto che riuscii a simulare.
«È molto gentile da parte sua, signora. Grazie.»
«Ho seguito tutti i suoi film, signor Stevens» insistette lei. «Ha proprio un talento eccezionale.»
La guardai in faccia e ricevetti una specie di piccolo shock. Quella non era la solita vecchietta solitaria che frequenta gli atri degli alberghi. I suoi occhi di un profondo azzurro sembravano magnetici, e le labbra erano sottili come un foglio di carta velina.
«Grazie» ripetei, non sapendo cos'altro dire.
Lei mi guardò e sorrise.
«Stavo giusto per andare a cena, anche se è un po' tardi. Vuole unirsi a me?» Fece una pausa e aggiunse: «Oh, signor Stevens, mi permetta di averla come mio ospite! Ci tengo davvero, glielo assicuro.» Dopo un'altra pausa, vedendo che io esitavo, cercò di persuadermi con altri argomenti. «Mi piacerebbe tanto sapere qualcosa del suo lavoro e... ma forse ha già cenato?»
Cenato? Il mio ultimo pasto era stato un hamburger consumato a mezzogiorno, e ormai stavo letteralmente morendo di fame.
Comunque, esitai lo stesso. Erano passati circa una quarantina di minuti. Il signor Durant aveva avuto tutto il tempo necessario per osservarmi e quindi assumermi. Quella vecchietta sembrava carica di soldi e mi aveva invitato a cena. Come potevo resistere a una simile offerta? Il pensiero di una grande e succosa bistecca e di una vagonata di patatine fritte mi fece venire l'acquolina in bocca.
«Be', è un'idea davvero molto carina. La ringrazio.»
Lei batté le mani, come se fosse sorpresa.
«Ma è fantastico! Non credevo...» Sorrise. «Andiamo subito, allora. Io adoro i film western, e sono sicura che lei può dirmi come li realizzano. Devono usare un mucchio di trucchi molto interessanti.» Iniziò a dirigersi verso l'uscita. Ero sempre più sconcertato. Pensavo che avremmo cenato nel ristorante dell'albergo, ma visto che lei continuava a muoversi, le andai dietro.
Fuori, il portiere si tolse il cappello e si inchinò al passaggio della vecchietta, poi emise un fischio. Quasi subito, dalle tenebre si materializzò una Rolls Royce Silver Cloud di un intenso blu scuro. La portiera venne aperta da un giapponese che indossava un'uniforme grigia e un berretto con visiera.
«C'è un ristorantino molto grazioso» disse lei, senza specificare dove si trovasse. «Ma sicuramente lo conoscerà. Il Benbow. Le dispiacerebbe se andassimo lì?»
Il Benbow! Non c'ero mai stato, ma lo conoscevo di fama. Era il miglior ristorante dell'intero distretto. Persino ai miei tempi migliori non avevo mai osato misurarmi con i prezzi che praticavano lì dentro.
Prima che potessi replicare, lei salì in macchina. Un po' perplesso, ma ormai senza più quella nuvola nera che mi gravava sulla testa, mi sedetti al suo fianco.
L'autista scivolò dietro il volante e mise in moto, inserendosi nel traffico.
«Signora» le dissi con un sorriso «mi scusi, ma non sono sicuro di aver capito il suo nome.»
«Oh, che sbadata!» Mi posò una mano sul braccio. Il barboncino che si teneva in grembo le sfuggì e balzò sulle mie ginocchia. La bestiola iniziò a leccarmi il viso. Se c'è qualcosa che mi fa uscire dai gangheri è essere leccato da un cane. Lo respinsi con una certa violenza e, nel farlo, sentii un'improvvisa puntura sulla coscia.
Il cane guaì e cadde ai miei piedi. Io mi drizzai sul sedile.
«Signora, il suo cane mi ha morso!» esclamai
«Caro signor Stevens, dev'essersi sbagliato. Sono certa che Cookie non farebbe mai una cosa simile. Lui è un piccolo gentiluomo, se così posso dire, e adora...»
Il resto delle sue parole si perse nell'oscurità.

La stanza era grande e confortevolmente ammobiliata. All'illuminazione provvedeva un certo numero di lampade schermate. Mi trovai steso su un letto matrimoniale, con la testa che mi scoppiava e la bocca asciutta. Feci uno sforzo terribile e mi drizzai a sedere per metà, guardandomi intorno con stupore. In fondo al letto c'era un grande specchio a muro. La mia immagine riflessa mi mostrò un uomo che non era solo perplesso, ma anche spaventato, almeno un pochino.
L'eleganza dell'arredamento contribuì in qualche modo a rassicurarmi. Dovevano essere stati spesi parecchi soldi per rendere quella stanza più che confortevole, e i soldi sono una componente che mi tranquillizza sempre. Dei pesanti tendaggi impedivano la vista delle finestre.
Diedi un'occhiata all'orologio. Le otto e quarantacinque. Era sera o mattina? Quanto era rimasto su quel letto? Erano le undici di sera quando ero salito a bordo della Rolls. Credevo che la puntura che avevo avvertito alla coscia fosse stata un morso del cane, ma adesso mi rendevo conto che esisteva un'altra, molto più inquietante possibilità. Quella vecchietta doveva avermi iniettato una qualche droga ad azione rapida.
"Buon Dio" pensai "sono stato rapito!"
Scivolai fuori dal letto e attraversai la stanza, dirigendomi verso le finestre. Scostai i tendaggi e vidi che all'esterno delle finestre c'erano delle solide persiane di acciaio. Provai ad aprirle gettandomici addosso con tutto il peso del mio corpo, ma era inutile. Voltandomi, feci correre lo sguardo intorno alla stanza e scorsi una porta. Ma mentre la raggiungevo, mi accorsi che non aveva maniglia. La porta era non meno inamovibile delle persiane. Andai in bagno: sanitari e finiture erano decisamente di lusso, ma mancava la finestra. Sbirciai all'interno dell'armadietto dei medicinali, che conteneva due spazzolini da denti avvolti nel cellophane, un rasoio elettrico, una boccetta di after-shave, alcune saponette e una spugna da bagno anch'essa avvolta nel cellophane. Mi guardai nello specchio sopra il lavabo. Dalla corta barbetta che mi era cresciuta in faccia, mi pareva che mi avessero drogato solo da poche ore.
Mi lavai i denti e mi rasai, cercando di tenere il mio panico sotto controllo. Quella fu una buona mossa. Dopo essermi sciacquato il viso, tornai nella stanza sentendomi decisamente meglio. Cominciavo anche ad avvertire i morsi della fame.
Mentre mi avvicinavo al letto, vidi un campanello accanto alla lampada schermata posta sul tavolino da notte. Esitai per un attimo, poi premetti il bottone. Ci tenni l'indice sopra per diversi secondi, prima di sollevarlo.
Quindi andai a sedermi in una grande poltrona e attesi, ma non per molto. La porta senza maniglia si aprì ed entrò un uomo che spingeva un carrello. La porta si richiuse subito alla sue spalle.
L'uomo sembrava un gigante. Era almeno quindici centimetri più alto di me, e io sono un metro e ottanta. Aveva due spalle che gli avrebbe invidiato anche un sollevatore di pesi e mani grosse e muscolose. La testa era completamente rasata e il viso sembrava uno strano incrocio tra un film dell'orrore e una comica: il naso era molto carnoso, la bocca praticamente senza labbra e gli occhi piccoli e luccicanti. Lavorando nei film western, mi ero spesso imbattuto in autentici bestioni che facevano la parte del cattivo, ma che fuori dal set diventavano non meno gentili dei gattini. Non quell'uomo, però; lui sembrava imprevedibile come un gorilla e pericoloso come una tigre ferita.
Spinse il carrello verso il centro della stanza, poi mi guardò. I suoi occhietti selvaggi mi raggelarono. Feci per dire qualcosa, ma poi mi fermai. A essere sinceri, quell'uomo mi spaventava più del diavolo. Me ne rimasi seduto dove mi trovavo e lo osservai dirigersi verso la porta, che si aprì e si richiuse di scatto subito dopo il suo passaggio.
Tirai fuori il fazzoletto e mi asciugai le mani e il viso, ma l'odore del cibo cucinato mi convinse ad alzarmi. Raggiunsi il carrello e finalmente mi tirai un po' su di morale. Era una vera festa. Una spessa e succosa bistecca, un piatto di patatine fritte ancora sfrigolanti, una pila di frittelle cosparse di un invitante sciroppo e poi pane tostato, burro, marmellata e un capace bricco di caffè.
Avvicinai una sedia al carrello e cominciai a rimpinzarmi. Il cibo dà forza, mi dissi mentre tagliavo la bistecca. D'accordo, mi avevano rapito, ma almeno non sarei stato costretto a fare la fame.
Quando ebbi terminato di mangiare, badando bene che non fosse avanzato niente, trovai un pacchetto di Chesterfields e un accendino sul carrello. Accesi una sigaretta, tornai alla poltrona e mi sedetti.
Adesso mi sentivo molto più rilassato. Pensai alla sera appena trascorsa e a quella diabolica vecchietta. Avevo la sensazione che fosse collegata in qualche modo col signor Durant, anche perché quella era l'unica spiegazione possibile del mio rapimento. Forse con eccessivo ottimismo dedussi che il signor Durant aveva deciso di assumermi, e per ragioni non meglio precisate mi aveva condotto in quella stanza per darmi modo di allargare il mio pubblico. Poi pensai allo scimmione che mi aveva portato il carrello e cominciai a sudare di nuovo. Mi dissi che era meglio non cercare di fare l'eroe con quel tipo. Misurarsi con lui sarebbe stato come misurarsi con una sega circolare, e io non avevo intenzione di fare da cavia.
Perciò attesi e continuai a sudare copiosamente.
Trascorse mezz'ora. Non facevo che guardare l'orologio, chiedendomi quando sarebbe successo qualcosa. Avevo fumato quattro sigarette e stavo cominciando a innervosirmi quando la porta si aprì e lo scimmione fece di nuovo la sua comparsa. Adesso, però, era seguito da un uomo piccolo e bruno. Mi bastò guardare le scarpe di coccodrillo del nuovo arrivato per rendermi conto che mi trovavo di fronte a Joseph Durant.
Mentre facevo per alzarmi, lui disse con voce dura e metallica: «Resti seduto, signor Stevens.»
Si diresse verso una poltrona e si sedette a sua volta. Lo studiai. La descrizione di Lu era stata accurata, ma il mio agente si era dimenticato di aggiungere che quell'uomo non sembrava solo pieno di soldi. Intorno a lui c'era come un aroma inconfondibile di minaccia.
Diedi un'occhiata allo scimmione, che se n'era rimasto in piedi accanto alla porta. Stava guardandomi come una tigre fissa un possibile pasto. Decisi di aspettare che fosse Durant a fare la prima mossa.
Ma lui non aveva fretta. I suoi occhi scuri, freddi come il ghiaccio, erano sempre fissi su di me. Poi chinò la testa in quello che mi parve un gesto di approvazione. O così sperai, perlomeno.
«Signor Stevens» disse alla fine «naturalmente si starà chiedendo che cosa le è successo. Ma desidero subito rassicurarla su un punto: non ha alcuna ragione di sentirsi in allarme. Era necessario condurla qui nel modo che è stato usato.»
«Il sequestro di persona è un reato di competenza federale» dissi, deluso dal fatto che la mia voce suonasse così arrochita.
«Ne sono perfettamente convinto.» Durant prese a guardarsi le unghie. «Ma adesso non è il momento di metterci a discutere degli aspetti legali di questa faccenda. Dopo forse ce ne occuperemo, ma non ora.» Accavallò le gambe e fece roteare una scarpa di coccodrillo nella mia direzione. «Ci sono alcuni elementi che la riguardano sui quali avrei bisogno di una conferma.» Fece una pausa e poi aggiunse: «Lei è un attore che ha recitato in parti secondarie, anche se con qualche successo, soprattutto nei film western. È disoccupato da sei mesi. Sta cercando lavoro.» Mi guardò. «È tutto esatto?»
«Be', sì, sto cercando lavoro» dissi sulla difensiva. «Quel genere di film non è molto in voga, al momento. Però...»
Durant tagliò corto.
«Lei è rimasto praticamente in bolletta. In effetti, signor Stevens, non solo non ha più un soldo, ma ha contratto pure qualche debito e deve ancora pagare l'affitto. È esatto anche questo?»
Io mi strinsi nelle spalle.
«Sì.»
Lui annuì.
«Credo di poterle offrire un lavoro» disse. «Il suo ritorno finanziario sarà più che adeguato, glielo assicuro. Sono pronto a pagarle mille dollari al giorno per almeno un mese, ma forse anche più, sempre posto che lei si dichiari pronto a rispettare certe condizioni.»
Per un lungo attimo me ne rimasi immobile a sedere, stupefatto.
"Mille dollari al giorno per almeno un mese, ma forse anche più!"
"Non può essere vero" pensai. "Dov'è il trucco?"
Eppure, guardando quell'uomo, mi resi conto che per lui mille dollari al giorno erano mangime per polli. Come aveva detto Lu, il signor Durant sembrava ricco sfondato.
Ma non ero così stupido da accettare quell'offerta a scatola chiusa. C'era qualcosa in quel tipo che mi avvertiva di stare in guardia, se non volevo finire in un mare di guai. Diedi di nuovo un'occhiata allo scimmione, che era sempre immobile e continuava a guardarmi in cagnesco.
«Mi sembra una proposta molto interessante, signor Durant» dissi con voce indifferente. «Ma quali sarebbero le condizioni?»
«Che lei dovrà collaborare in maniera totale e incondizionata» rispose Durant. «Da quanto capisco, lei ha un carattere tranquillo. È esatto?»
«Be', dipende. Non ho mai avuto guai con i miei registi, se è quello che vuole sapere. E poi...»
Lui mi fece segno di tacere con un gesto eloquente.
«Dovrà collaborare in maniera totale e incondizionata, ripeto. Per essere chiari fino in fondo, io la assumerò dandole mille dollari al giorno se lei farà esattamente quello che le dico e lo farà senza esitazioni e senza porre inutili domande. Ecco cosa intendo per collaborazione totale e incondizionata. Quello che le chiederò di fare non sarà pericoloso, non la porterà a violare la legge e non andrà al di là delle sue possibilità. Quindi, o lei mi dice che è disposto a collaborare in maniera totale e incondizionata, oppure non se ne fa niente.»
Pensai che doveva esserci una specie di tranello in quella proposta, ma ormai stavo già pregustando la gioia di poter contare su un migliaio di dollari al giorno.
«Ma di che si tratta? Cosa vuole che faccia?»
Lui mi studiò per alcuni, lunghi attimi, durante i quali mi sentii terribilmente a disagio.
«Così non è pronto a collaborare in maniera totale e incondizionata senza ulteriori particolari? Ci pensi bene, prima di rispondere.»
C'era una specie di nota minacciosa nella sua voce? Cominciai a sudare di nuovo. Essere pagati mille dollari al giorno sarebbe stato meraviglioso, ma io sentivo fin nei pori più riposti della mia pelle che sotto doveva esserci un imbroglio. Il rapimento, lo scimmione, l'esca fornita da quella montagna di soldi e Durant, che dai suoi modi di fare sembrava un mafioso... tutto contribuiva a formare uno scenario decisamente inquietante. "Quello che le chiederò di fare non sarà pericoloso, non la porterà a violare la legge e non andrà al di là delle sue possibilità." A sentir lui, era tutto estremamente facile. Ma nonostante avessi un estremo bisogno di soldi, decisi che non sarei mai andato a cacciarmi in un vicolo cieco con le mie stesse mani.
«No» risposi con fermezza «non sono preparato a collaborare in maniera totale e incondizionata se prima non mi fornisce qualche altro elemento. Cosa dovrei fare, per esempio?»
Sentii una specie di ringhio provenire dallo scimmione. Era un rumore che sembrava il rombo di un tuono in lontananza. Durant si grattò la fronte, inarcò le sopracciglia e poi scrollò le spalle.
«Molto bene, signor Stevens. Speravo che la mia offerta l'avrebbe persuasa a fare qualsiasi cosa le fosse stata proposta.»
«E lì ha commesso un errore, evidentemente. Allora, cosa vuole da me?»
Le sue labbra sottili si schiusero in un gelido sorriso.
«Visto che insiste, le darò un'idea di quello che ci aspettiamo da lei.» Fece una pausa, poi prese un portasigari di coccodrillo, ne estrasse un sigaro, se lo fece rotolare tra le labbra e ne tagliò un'estremità con un arnese dorato fatto a forma di ghigliottina. Quindi si guardò alle spalle in direzione dello scimmione, che avanzò di qualche passo, accese un fiammifero e tenne la fiammella ferma davanti a Durant mentre quest'ultimo aspirava vigorosamente dal sigaro.
Nel frattempo, io estrassi una sigaretta dal pacchetto di Chesterfields e l'accesi a mia volta.
«Ho bisogno che lei impersoni un uomo che le assomiglia» disse Durant, dietro una nuvola di fumo il cui aroma era piuttosto sgradevole.
Era l'ultima cosa che mi aspettavo di sentire.
«Impersonare? E chi sarebbe il tizio in questione?»
«Questa è una cosa che non deve sapere, per il momento.»
«Perché è necessario che io prenda il posto di quest'uomo?»
Durant fece un rapido movimento con la mano, come per scacciare una mosca importuna.
«L'uomo che dovrà impersonare ha bisogno di una certa libertà di movimenti» disse con un improvviso scatto d'impazienza nella voce. «È tenuto costantemente d'occhio da un certo numero di persone. E la sua libertà di movimenti è essenziale in vista di un certo importante affare che deve essere realizzato. Siccome la persona in questione è continuamente disturbata dai suoi rivali e dai giornalisti, noi abbiamo deciso di assumere una controfigura... è così che la si definisce nel gergo cinematografico, no? La controfigura si trascinerà dietro i curiosi e la stampa, che così la smetteranno di dare fastidio, mentre il nostro uomo avrà la possibilità di lasciare il Paese, di viaggiare in Europa e di completare la transazione che deve completare senza doversi preoccupare costantemente di essere seguito e spiato. Appena la transazione sarà stata ultimata, lei potrò tornare alla sua vita di tutti i giorni con un conto in banca di circa trentamila dollari.»
Mi appoggiai allo schienale della poltrona e pensai alle parole di Durant mentre lui continuava a fumare e adesso non mi guardava più. Avevo letto abbastanza su faccende di spionaggio industriale per rendermi conto di come stavano le cose. Una volta, avevo persino interpretato il ruolo di una spia industriale in un film di quart'ordine. Le macchinazioni che riescono ad architettare i pezzi da novanta per portare a termine i loro affari non mi sorprendevano più da un pezzo.
E se il tizio in questione era effettivamente spiato, mi sembrava una mossa intelligente quella di assumere una controfigura. A me essere spiato non faceva né caldo né freddo, e in più c'era l'esca dei mille dollari al giorno.
«Ma perché il rapimento?» chiesi tanto per guadagnare tempo.
Durant emise un sospiro di esasperazione.
«Ora che le ho detto quello per cui avremmo intenzione di assumerla» rispose con impazienza «probabilmente capirà da solo come fosse necessaria la più assoluta riservatezza da parte nostra. Nessuno sa che lei è qui. E lei non sa dove si trova. Se dovesse decidere di non collaborare, sarà di nuovo narcotizzato e trasportato a casa sua.»
Pensai di nuovo a quella situazione bizzarra, poi dissi: «Come faccio a essere sicuro che mi pagherete, quando avrò terminato il lavoro?»
Durant sfoderò un'altra volta il suo gelido sorriso. Estrasse dal portafogli una striscia di carta; lo scimmione si fece avanti, gliela prese dalle dita e me la porse.
Era una nota di accredito della Chase National Bank per mille dollari, a mio nome.
«Per ogni giorno che sarà qui e lavorerà per me, le daremo una ricevuta simile» disse Durant. «Perciò non deve preoccuparsi per i soldi.»
Ormai avevo smesso di esitare.
"Quello che le chiederò di fare non sarà pericoloso, non la porterà a violare la legge e non andrà al di là delle sue possibilità."
Perché no?
«Va bene, signor Durant» dissi. «Affare fatto.»
«Allora siamo intesi, signor Stevens» disse lui, gli occhi scuri che sembravano le punte di due scalpelli per il ghiaccio. «Posso contare sulla sua collaborazione totale e incondizionata? Farà esattamente quello che le verrà detto di fare?»
Ebbi un'ultima esitazione, ma alla fine vinsi anche quella.
«Affare fatto» ripetei.

2

Mi sedetti in poltrona e attesi.
Ormai non potevo più tirarmi indietro. Avevo assicurato a Durant la mia collaborazione totale e incondizionata, come si era espresso lui, e nel mio portafogli avevo una nota di accredito per mille dollari. Inoltre, secondo lui, domani avrei dovuto ricevere un'altra nota di accredito sempre per mille dollari.
Avevo il compito di impersonare qualche sconosciuto pezzo da novanta, probabilmente un uomo d'affari, il quale doveva effettuare una transazione che i suoi rivali volevano impedire o spiare. Come compenso per essermi sostituito a lui, fra circa un mese avrei trovato trentamila dollari a mio credito in un conto della Chase National Bank.
Quando gli avevo assicurato che l'affare era fatto, Durant aveva annuito e si era alzato, dirigendosi subito verso la porta. Poi si era fermato all'improvviso, mi aveva fissato col suo sguardo gelido e aveva detto: «Attenda, signor Stevens.» Infine se n'era andato, seguito immediatamente dallo scimmione, e la porta si era chiusa alle sue spalle.
Così io accesi una sigaretta e mi preparai a fare quello che mi aveva detto lui: aspettare.
Non mi sentivo per niente tranquillo. C'era qualcosa in Durant e nello scimmione che mi faceva venire i brividi, ma avevo bisogno di quei soldi. Durant mi aveva assicurato che non avrei corso alcun pericolo e che non sarei stato costretto a infrangere la legge, perciò, o almeno questa era la mia opinione, sarebbe stata una follia declinare un'offerta del genere.
Attesi sempre più a disagio per una mezz'oretta, poi la porta si aprì ed entrò la vecchietta del Plaza, che teneva in braccio il barboncino. Il battente doveva essere controllato da qualche congegno elettronico, perché si richiuse di scatto subito dopo che la donna aveva messo piede all'interno della stanza.
Indossava un pullover di cashmere beige e un paio di comodi pantaloni neri; come ulteriore tocco di classe, al collo portava una collana di perle, la cui lucentezza mi fece subito capire che non si trattava di un'imitazione.
Lei si fermò e mi rivolse un sorriso cordiale. Il barboncino emise una specie di gemito e prese a dimenarsi tra le braccia della sua padrona, come se fosse ansioso di correre da me e darmi un'altra delle sue terribili leccate.
«Signor Stevens» disse gentilmente lei «posso disturbarla un secondo?»
Io le rivolsi uno sguardo acido, poi mi alzai.
«Be', mi ha già disturbato, no?» dissi.
La donna mosse ancora qualche passo all'interno della stanza, sempre sorridendo, e si accomodò nella poltrona occupata di recente da Durant.
«Sono venuta a scusarmi con lei, signor Stevens. Posso capire cosa provi in questo momento. Dev'esserle sembrata un'esperienza piuttosto strana, no?»
Sempre restando in piedi, dissi: «Il signor Durant mi ha spiegato tutto.»
«Certo, ma non voglio che pensi male di noi, signor Stevens. Si sieda. Preferirei spiegarle le cose con maggiore dovizia di particolari.»
Feci quello che mi aveva detto.
«Molto gentile da parte sua» disse, fissandomi con i suoi occhi azzurri e freddi. «Mi dica una cosa, signor Stevens, sua madre è viva?»
«È morta cinque anni fa» risposi seccamente io.
«Oh, peccato. Ma se fosse ancora viva, signor Stevens, sono certa che avrebbe fatto quello che ho fatto io. L'uomo che le abbiamo chiesto di impersonare è mio figlio.»
Pensai a mia madre: una donnetta gentile e alla buona, senza molto sale in zucca ma con una coscienza morale inappuntabile.
«Mia madre non avrebbe mai drogato un uomo per poi rapirlo» osservai freddamente. «Perciò la lasci fuori da questa storia, la prego.»
Lei giocherellava con le orecchie del barboncino.
«Non si sa mai con le madri» disse, sempre sorridendo. «Quando si trovano in qualche situazione pericolosa, diventano capaci di tutto, anche delle cose più imprevedibili.»
Quella donna stava cominciando ad annoiarmi. Scrollai le spalle e non dissi nulla.
«Le assicuro dal profondo del cuore, signor Stevens, che ammiro il suo lavoro e il suo talento» disse. «E sono molto felice che abbia accettato di collaborare. Apprezzo moltissimo il suo aiuto, davvero.»
«Sono pagato bene per questo» dissi in tono inespressivo.
«Già. E, da quanto ne so, il denaro è piuttosto importante per lei.»
«Non lo è praticamente per tutti?»
«Temo che lei sia ancora un po' ostile, signor Stevens. Si rilassi, la prego. Sono sicura che se la caverà a meraviglia col suo nuovo lavoro e, quando avrà finito, si ritroverà con un conto in banca decisamente cospicuo.» Sorrise. «Lo faccio per mio figlio, sa.»
Ma io non riuscivo affatto a rilassarmi. C'era qualcosa in quella vecchia che mi spaventava non meno di Durant, ma alla fine decisi di fare un tentativo e sfoderai un sorriso forzato.
Lei annuì.
«Così va meglio.» Diede qualche colpetto affettuoso al barboncino. «Mentre guardavo i suoi film, ho pensato spesso a che bel sorriso aveva, signor Stevens.»
«Grazie.»
«Be', adesso occupiamoci di affari, come dice spesso mio figlio. Lei è stato abbastanza gentile da fornirci la sua collaborazione totale e incondizionata.» Per un attimo il suo sorriso divenne fisso, e nell'azzurro degli occhi brillò un chiarore metallico. «Perché è così, non è vero?»
«Francamente, comincio a stufarmi di questa espressione» dissi. «Ho già assicurato al signor Durant che ero d'accordo su tutto. Dobbiamo ripetere quella frase ancora parecchie volte?»
Lei si lasciò sfuggire un sorrisino.
«Deve perdonare una povera vecchia, signor Stevens. Le persone della mia età hanno il brutto vizio di essere molto ripetitive. Oh, tra parentesi, mi chiami Harriet, ci tengo. E io posso chiamarla Jerry?»
«Ma certo.»
«Cominciamo oggi pomeriggio, Jerry. Ho fatto venire un ottimo truccatore che la trasformerà in modo da farla assomigliare il più possibile a mio figlio. Sia paziente con quell'uomo, la prego. È un perfezionista, non c'è dubbio, ma devo ammettere che a volte è un po' noioso. Vogliamo assicurarci che lei assomigli talmente a mio figlio che da lontano nessuno possa rendersi conto della sostituzione. Questo è chiaro per lei?»
«Chiarissimo, signora.»
«Mi chiami Harriet, per favore.»
«Chiarissimo, Harriet.»
Sollevò una delle orecchie del barboncino e prese a strofinarla tra le dita, facendo uggiolare il cane di piacere.
«Poi ci saranno altre sessioni. Dovrà imparare ancora diverse cosucce, ma sono sicura che lei è un tipo che non ha difficoltà ad apprendere. Quasi tutti gli attori capiscono le cose al volo, no?» Mi sorrise.
«Farò del mio meglio» le assicurai.
«Certo che lo farà. Non c'è niente di difficile, ma quello che dovrà fare è molto importante.» Fece una breve pausa e poi aggiunse: «Lei è sposato, Jerry?»
Quella domanda inattesa mi colse alla sprovvista.
«Divorziato» risposi seccamente.
«Molta gente che fa parte del mondo del cinema è divorziata. Dov'è sua moglie?»
«Che importanza ha?»
Lei scosse la testa e mi rivolse un sorrisino di rimprovero.
«La prego, Jerry, cerchi di collaborare. Ho bisogno di avere risposte precise alle mie domande.»
«Vive a New York. Si è risposata.»
«Non la vede più?»
«Saranno cinque anni che non la vedo.»
«Figli?»
«Nessuno.»
«Sua madre è morta, mi ha detto. E suo padre?»
«È morto anche lui.»
«Parenti? Fratelli? Sorelle?»
Cominciai ad avvertire un brivido che mi saliva lungo la spina dorsale.
«Ora che mi ci fa pensare» dissi «mi viene in mente che non ho nessun congiunto.»
«Che triste!» Ma lei non sembrava molto afflitta. «Così è tutto solo soletto, eh?»
«Sì.»
Lei annuì.
«Ma un uomo attraente come lei avrà pure una ragazza, dico bene? Me ne parli.»
«Un attore che ha in tasca un dollaro e trenta cent non può avere nessuna ragazza.»
Lei annuì di nuovo.
«Sì, certo, capisco. Ma molto presto, Jerry, avrà tutte le ragazze che vuole, con trentamila dollari in banca. È solo una questione di tempo. Di tempo e di pazienza.»
Lì aveva ragione. Quando me la passavo bene dal punto di vista economico, tutte le ragazze mi cadevano ai piedi. E con trentamila dollari in banca, non avrei dovuto far altro che lanciare un fischio.
«Ora che ci siamo assicurati la sua collaborazione, Jerry» disse lei dopo una breve pausa «vorrei parlarle di Mazzo.» Accarezzò per qualche secondo il barboncino. «Non so proprio come me la caverei senza Mazzo, e dico sul serio. Ha un aspetto ingannevole, me ne rendo conto, ma lui sarebbe disposto a fare qualunque cosa per me, qualunque.»
Le rivolsi un'occhiata interrogativa.
«Lo ha già conosciuto. Mazzo è il mio fedele domestico. È stato lui a portarle quel pasto delizioso che avevo ordinato espressamente per lei, Jerry.»
La guardai a bocca aperta.
«Si riferisce a quel... a quella specie di scimmione?»
Lei prese ad accarezzare il barboncino.
«Non deve esprimersi in modo irriguardoso nei confronti di Mazzo. E so che non c'è nessuno più gentile di lei, Jerry. Mazzo diventerà il suo compagno più assiduo e fidato. Le darà una mano in molte cose. Senza di lui al suo fianco, non credo che ce la farebbe a impersonare con successo mio figlio. Ormai sono diversi anni che Mazzo gli fa da guardia del corpo. Quando la gente vi vedrà insieme, tutti penseranno che lei è mio figlio, Jerry.»
Il pensiero di avere quello scimmione costantemente al mio fianco mi faceva venire la pelle d'oca.
Accorgendosi che stavo per protestare, lei cambiò subito argomento: «Saltando di palo in frasca, Jerry, lei ha mai conosciuto Larry Edwards?»
«Be', certo» risposi, sorpreso dalla domanda. «Ma perché me lo chiede?»
Ricordavo molto bene Larry Edwards. Lui era esattamente come me: un attore di secondo piano che era rimasto disoccupato. Ci incontravamo spesso all'ufficio di Lu Prentz, entrambi a caccia di lavoro. Non stavamo molto spesso insieme, in quanto ciascuno temeva che l'altro potesse soffiargli un eventuale lavoro, ma di tanto in tanto, incontrandoci, ci facevamo una birra e ci consolavamo a vicenda.
«Era una cosa che avevo in mente. Lui le assomigliava molto dal punto di vista fisico: era alto e scuro di capelli» disse Harriet, sorridendo. «Però non aveva la sua personalità, naturalmente. Ci siamo rivolti anche a Larry Edwards per il lavoro che lei ha deciso di accettare, Jerry. In effetti, l'abbiamo condotto qui e abbiamo discusso l'idea con lui, ma il signor Edwards non ha voluto saperne di collaborare. Ha sollevato tutti i problemi possibili e immaginabili. Sono molto felice che lei si sia rivelata una persona decisamente più malleabile, Jerry... molto felice.»
La fissai, sentendomi avvolgere da un'ondata di gelo.
«Ha parlato di lui al passato» osservai.
«Sì. È molto triste.» Si alzò. «Chiederò a Mazzo di portarle qualche libro. Gli dica cosa vuole mangiare a pranzo, per favore.» Si diresse verso la porta.
«Cos'è successo a Larry?» chiesi, le mani appiccicose dal sudore.
Lei si fermò davanti alla porta.
«Oh, non lo sapeva? Ha avuto un incidente. Qualcosa che non andava nei freni della sua auto, mi pare.» Mi fissò con quegli occhietti freddi. «È morto.»
La porta si aprì e lei scomparve.

Un'ora dopo, la porta si riaprì ed entrò Mazzo, che aveva in mano un certo numero di tascabili. Li posò sul tavolo e disse: «Vuoi qualcosa da leggere?»
Era la prima volta che sentivo la sua voce, e il suono mi sorprese. Era rauca e piuttosto dolce, mentre io mi aspettavo una specie di ringhio.
«Grazie» risposi.
Lui si avvicinò alla poltrona in cui si era accomodata Harriet e si sedette. Poi mi lanciò un sorriso che mise in mostra due file di denti candidi che avrebbero fatto invidia a un roditore.
«Visto che dobbiamo stare insieme, amico, tanto vale che facciamo un po' di conoscenza, non ti pare?»
«Per me va bene.»
Lui annuì con la testa rasata.
«Tra noi due non ci saranno problemi, amico, sempre posto che fai esattamente quello che ti dico. Sono soldi maledettamente facili, sai, ma devi lasciar perdere le domande, di qualsiasi tipo. Se ti dico di soffiarti il naso, tu ti soffi il naso, chiaro? Se ti dico di guardare a sinistra, tu guardi a sinistra, chiaro? Se ti dico di guardare a destra, tu guardi a destra, chiaro? Se ti dico di correre, tu ti metti a correre, chiaro?»
«Non ci sono problemi» dissi.
Lui aggrottò le sopracciglia.
«Perciò è tutto chiaro?»
«Chiarissimo.»
«Bene. Quell'altro idiota non lo aveva capito.» Pronunciando quelle parole, Mazzo smise di sorridere e assunse l'aria di una tigre al cospetto di un pasto prelibato. «Peggio per lui.»
Sentii che la bocca mi si asciugava.
«Mi hanno detto che ha avuto un incidente stradale.»
«Sicuro... gli idioti come lui hanno spesso incidenti stradali.» Mi sorrise. «Ma tu sei un furbo di quattro cotte, amico. Tu non avrai nessun incidente.»
Non dissi nulla. Mazzo voleva farmi capire che l'incidente era successo perché Larry non aveva cooperato, e che quindi si trattava di un delitto. Non riuscivo a crederci, ma il senso delle sue parole era quello.
«Oggi pomeriggio iniziamo il lavoro, amico. Fai quello che ti dicono senza tante storie, chiaro?»
Annuii.
«Verrà un tizio a prenderti le misure. Tu stattene buono e lascialo lavorare, chiaro?»
Annuii di nuovo.
Lui sorrise.
«Sai, amico, credo proprio che tu e io andremo perfettamente d'accordo. Ho visto uno dei tuoi film; mi pare che si chiamasse Lo sceriffo del decimo ranch. E la sai una cosa? Faceva schifo.»
«Sono d'accordo» dissi con voce rauca.
Lui sorrise ancora di più.
«Vedi che avevo ragione? Andremo d'accordo, proprio come due amiconi.»
«Alla signora Harriet però è piaciuto.»
«Già. Ma sai com'è con le donne, no? A loro piace tutto quello che si muove.» Si alzò. «Cosa vuoi mangiare a pranzo, amico? Ordina e sarai accontentato.»
Avevo lo stomaco in ebollizione. Il pensiero del cibo mi fece venire la nausea.
«Ho già mangiato molto a colazione, perciò non voglio nulla, grazie.»
Lui si lasciò sfuggire un risolino soffocato. Era come se qualcuno si fosse messo a calpestare un mantice.
«Stai calmo, amico. Non c'è niente da preoccuparsi. Ti porterò qualcosa di leggero, va bene?»
Mosse il suo enorme corpo in direzione della porta, si voltò, sorrise con i suoi denti da roditore e sparì.
Era possibile che Larry fosse stato davvero assassinato?
Rimasi immobile dov'ero, sudando.
"Qualcosa che non andava nei freni della sua auto."
No, non potevo crederci. Respinsi quell'orribile pensiero dalla mia mente.
Me ne stavo sempre immobile. Non alzai nemmeno lo sguardo sui libri che mi aveva portato Mazzo. Ora avevo un chiodo fisso in testa, un pensiero che mi dava l'angoscia. Adesso che mi ero impegnato con quella gente e avevo accettato il primo pagamento, avrei dovuto fare qualunque cosa mi avessero ordinato di fare.
"Ha avuto un incidente. Qualcosa che non andava nei freni della sua auto. È morto."
Pensai al sorriso di Mazzo, con i suoi denti da topo.
In che diavolo di pasticcio mi ero cacciato? Era possibile che se non andavo d'accordo con quei tipi e non obbedivo agli ordini, loro avrebbero finito per farmi fuori?
Mentre restavo seduto nella mia poltrona, mi sentii travolgere da un panico indescrivibile.
All'una, Mazzo entrò col carrello.
«Prendi qualcosa, amico» disse. «Ti aspetta un lungo pomeriggio.» Mi lanciò un'occhiata perplessa. «Va tutto bene?»
«Sì, ma non voglio niente.»
«Devi mangiare qualcosa, chiaro?» Mi parve di captare una specie di ringhio nella sua voce morbida. «Hai del lavoro da fare.» Ciò detto, se ne andò.
Decisi di mangiare una parte della zuppa d'aragosta, perché avevo paura che potesse capitarmi qualcosa se rifiutavo. Era decisamente buona, ma quando alla fine la terminai mi sedetti lontano dal carrello, perché avevo paura di mettermi a vomitare.
Poi cominciò l'azione.
Mazzo entrò, ispezionò la zuppiera semivuota, mi sorrise e portò via il carrello. Poi arrivò Harriet, stavolta senza barboncino, seguita da un uomo piccolo e grasso che indossava un camice bianco con le maniche corte e teneva in mano quella che mi parve un'elegante borsa per il trucco.
L'aspetto del nuovo entrato era decisamente singolare. I capelli, folti e lunghi, erano tinti in un color albicocca. Le ciglia avevano una tonalità azzurrastra e le labbra erano rosa. L'uomo si fermò mentre la porta si chiudeva e mi lanciò un sorriso a metà tra il furbo e il malizioso.
«Jerry, caro» disse Harriet «questo è Charles. Sa lui cosa fare. La prego solo di collaborare lealmente. Voglio essere sicura che lei possa passare per mio figlio senza che nessuno se ne accorga.» Poi si rivolse all'ometto corpulento. «Charles, questo è Jerry Stevens.»
«Caro il mio ragazzo!» esclamò Charles, balzando in avanti. «Non so dire quanto sia contento di conoscerla! Ho visto molti dei suoi meravigliosi film, in passato. E che talento! Lo sceriffo del decimo ranch, poi... quel film mi ha davvero stregato!» Mi prese la mano e me la strinse con calore.
«Grazie» dissi, senza credere a una sola delle sue lodi sperticate.
«Charles!» Una nota imperiosa nella voce di Harriet lo fece irrigidire. «Non sprechiamo tempo, per favore.»
«Sì, sì, certo.» Il truccatore le indirizzò un sorriso servile.
«Suoni, quando ha finito.»
La osservammo andarsene entrambi; poi, quando la porta si richiuse, dissi: «Cosa devo fare?»
«Si sieda, signor Stevens, la prego.»
Prese la borsa, l'aprì e vidi che dentro aveva i classici arnesi del trucco. Frugando all'interno, Charles tirò fuori un taccuino, una matita e un compasso.
«Devo prenderle le misure del viso, signor Stevens. Mi scusi se le creerò qualche inconveniente.»
Io mi sforzai di tenere la testa ferma mentre lui prendeva le misure, annotandosi poi le cifre sul taccuino.
Mentre misurava la distanza tra un occhio e l'altro, mi resi conto che stava mormorandomi qualcosa. Così, tra un complimento ad alta voce e un messaggio sussurrato, la natura delle sue osservazioni fu più o meno questa:
«Lei ha due occhi meravigliosi, pieni di personalità! "Sono stato rapito." E dei lineamenti davvero molto regolari, signor Stevens. "Quella orribile donna mi terrorizza. Sono più di due mesi che mi tiene prigioniero." E adesso mi consenta di prenderle la misura delle orecchie. Volti la testa a destra, per favore. "Chi è quella donna? Me lo dica, la prego." Ecco, così. Perfetto. E adesso l'orecchio sinistro.»
Mi resi conto che quella vecchia checca si trovava nella stessa situazione in cui mi trovavo anch'io. Era stato rapito con il compito di trasformarmi nel figlio di Harriet.
«"Non lo so"» sussurrai di rimando. «"Io devo prendere il posto del figlio. Quelli hanno rapito anche me."»
Poi, guardando al di là delle sue spalle mentre Charles prendeva le misure del mio orecchio sinistro, mi accorsi che Mazzo era entrato in silenzio. La vista di quello scimmione che mi fissava mi fece venire la pelle d'oca.
Accorgendosi che avevo cambiato espressione, Charles sbirciò da sopra la spalla. Mi accorsi subito che il suo corpo flaccido aveva iniziato a tremare.
«Ah, Mazzo!» esclamò quasi in falsetto. «Ho finito. Andrà tutto bene, glielo assicuro.»
Mazzo entrò nella stanza. Portava del vestiario sul braccio. Rivolse a Charles il suo sguardo da tigre famelica e a me lanciò un sorriso poco rassicurante.
«Mettiti questo, amico» disse.
Posò l'abito su una sedia.
«Ah, ma certo!» disse Charles. «I vestiti.»
Immerso in un bagno di sudore, mi tirai in piedi, mi spogliai e indossai l'abito che Mazzo aveva posato sulla sedia.
Era un capo decisamente lussuoso: un tessuto di mohair che doveva essere costato un'ira di Dio. Mi calzava come un guanto.
Charles, che aveva lo sguardo terrorizzato, si agitò per un po' intorno a me, lisciandomi il vestito, poi si ritrasse.
«Non avremo nessun problema con gli abiti.»
Mazzo mi sorrise.
«Sei fortunato. A quell'altro non andavano bene.»
Mi spogliai di nuovo e mi rimisi gli abiti che avevo. Durante tutta l'operazione, quei due non mi tolsero mai gli occhi di dosso.
Il panico stava cominciando a trapanarmi il cervello. Mio Dio! In che situazione mi ero cacciato? Guardai Charles, anche lui tutto sudato, che sorrideva in modo ebete a Mazzo. Sembrava un cane timoroso di ricevere qualche bastonata.
«È tempo di passare ai capelli» disse Charles. «Qui bisogna fare molta attenzione. La prego, si sieda, signor Stevens.» Entrò in bagno e tornò subito dopo con un asciugamano che mi drappeggiò intorno alle spalle.
Poi estrasse dalla borsa un pettine e un paio di forbici. Iniziò a tagliare mentre Mazzo passeggiava avanti e indietro per la stanza.
Tra un colpo di forbici e l'altro, mentre Mazzo si trovava in fondo alla camera, Charles si sporse in avanti e mi sussurrò alcune parole, con le labbra quasi incollate al mio orecchio.
«Mi hanno dato un mucchio di soldi, ma ho una paura del diavolo! Cos'è successo a quell'altro uomo? Ho lavorato parecchio sul suo viso.»
Mazzo tornò proprio in quel momento e si fermò vicino a noi, così Charles fu costretto a smettere di sussurrarmi parole terrorizzanti all'orecchio.
Dopo qualche secondo, il truccatore fece un passo indietro ed esaminò il lavoro fatto. Nei suoi occhi dalle ciglia tinte si leggeva una chiara nota di paura.
«Molto bene. Perfetto» disse. «E adesso la zoppia. Signor Stevens, vuole darmi la sua scarpa destra, per favore?»
Mi sfilai la scarpa destra e gliela porsi. Lui si avvicinò al tavolo e si sedette. Estrasse un piccolo cacciavite dalla borsa degli arnesi e, usandolo come leva, staccò la parte inferiore del tacco. Poi tirò fuori sempre dalla borsa un vistoso cuneo di gomma e lo applicò con un po' di colla alla parte residua.
Non gli ci volle molto tempo. Io mi limitai a restarmene seduto e a osservarlo, mentre Mazzo stava in piedi con lo sguardo fisso su me e Charles.
«Vediamo» disse Charles. «E ora si rimetta questa scarpa, per favore, poi cammini fino alla finestra e torni indietro.»
Mi rimisi la scarpa e mi diressi verso la finestra. Il cuneo che aveva fissato al tacco della scarpa mi sbilanciava leggermente. Mi ritrovai a camminare come un uomo che avesse una gamba ferita. Tornai indietro zoppicando e mi fermai, in attesa che Charles si esprimesse.
«Perfetto» disse quest'ultimo.
Proprio in quel momento, la porta si aprì ed entrò la signora Harriet, che si portava dietro il barboncino.
«Allora, Charles?»
«I capelli. Vorrei un suo parere.»
Gli occhi azzurri della donna mi scrutarono per qualche secondo, poi lei annuì.
«Eccellente» disse. «Lei è davvero un grande artista, Charles.»
L'altro iniziò a sorridere in modo ebete, poi il sorriso si trasformò in una smorfia. Capivo la sua paura. Lui era stato rapito e veniva tenuto in cattività esattamente come me.
«E il problema dell'andatura?» chiese Harriet.
«È stato risolto anche quello.» Charles mi rivolse uno sguardo implorante. «Posso chiederle di andare alla finestra e tornare, signor Stevens?»
Mi avviai di nuovo verso la finestra con le persiane metalliche, sempre zoppicando, e feci il percorso inverso.
«Le dispiace ripetere l'esperimento, Jerry?» mi chiese Harriet.
Così lo ripetei.
«Sì, va bene» commentò lei. «Siamo proprio a buon punto. Conduci Charles nella sua stanza, Mazzo. Non dobbiamo perdere tempo. Ora continui pure a lavorare alla maschera, Charles.»
«Certo.» Uscì dalla stanza, subito seguito da Mazzo.
Harriet si sedette.
«E ora, Jerry, lei deve dimostrarci di meritare il denaro che le stiamo pagando. Per il momento è andato tutto bene, ma adesso l'attende un compito molto più difficile. Deve imparare a falsificare la firma di mio figlio.»
In quel preciso momento entrò anche Durant, che portava con sé una cartella. Si diresse al tavolo e si sedette, poi aprì la cartella e ne estrasse un pacchetto di carta da ricalco, una penna Parker e un taccuino che posò sul ripiano.
Harriet si alzò subito.
«La lascio in compagnia del signor Durant, Jerry. Lui le spiegherà cosa deve fare.» Poi se ne andò.
Durant mi lanciò un'occhiata.
«Venga qui e si sieda, Stevens» disse.
Io feci quello che mi era stato detto e mi sedetti al tavolo, di fronte a lui. Notai che adesso per lui non ero più il "signor Stevens", ma semplicemente "Stevens".
«È tutta una questione di pratica, Stevens» disse. «Qui c'è la firma che lei deve copiare, cercando di avvicinarsi il più possibile all'originale. Si servirà di questa carta da ricalco fino a quando non si sentirà abbastanza tranquillo da poter riprodurre la firma senza aiuto.» Posò un foglio di carta da ricalco sopra la firma.
«La copi più volte» disse. «Dev'essere in grado di firmare perfettamente quando glielo chiederemo noi. Ci vorranno diversi giorni, naturalmente, perciò continui a esercitarsi, Stevens.» Mi rivolse uno sguardo eloquente. «Nessuno viene pagato mille dollari al giorno senza un po' di fatica.»
Si alzò e si diresse verso la porta elettronica, che si chiuse con uno scatto alle sue spalle.
Guardai la firma scarabocchiata sul foglio: John Merrill Ferguson.
La fissai per un attimo che mi parve eterno, come se non credessi ai miei occhi.
"John Merrill Ferguson."
Se la firma fosse stata quella di Howard Hughes, non avrei provato maggiore sorpresa. Howard Hughes era morto, ma, almeno stando ai giornali, John Merrill Ferguson era vivo e vegeto. Mentre aspettavo al telefono in attesa che qualcuno mi chiamasse, di solito leggevo i giornali di cui mi faceva omaggio il mio vicino di casa. E spesso vi trovavo riferimenti alla persona di John Merrill Ferguson, il quale, secondo la stampa, aveva preso il posto di Howard Hughes. I giornalisti lo chiamavano l'oscuro miliardario che tirava i fili ai quali erano appesi i politici e che era in grado, schioccando semplicemente le dita, di far salire o scendere il mercato azionario di tutte le Borse del mondo. Quell'uomo sembrava influenzare in qualche modo tutti i grandi affari internazionali.
Me ne stavo seduto lì, a fissare quella firma. Pensavo, e la cosa mi terrorizzava non poco, che ero stato assunto per impersonare un magnate della finanza.
Proprio a me era capitato. Un modesto attorucolo chiamato a calarsi nel ruolo di uno dei più ricchi e potenti uomini del mondo.
Adesso capivo quale fosse la risposta ai misteri che avevano continuato a tormentarmi fino a quel momento. La vecchietta con la sua Rolls Royce; Durant che trasudava denaro; Mazzo, molto probabilmente un assassino; la stanza in cui mi trovavo, con la sua porta elettronica e il suo arredamento lussuoso; e il povero Charles, terrorizzato come me perché era stato rapito.
Un uomo del livello di John Merrill Ferguson non doveva far altro che dare ordini, e quello che era successo a me e a Charles mi pareva in un certo senso inevitabile.
Pensai a Larry Edwards.
"Gli idioti come lui hanno spesso incidenti stradali. Ma tu sei un furbo di quattro cotte, amico. Tu non avrai nessun incidente."
Mi venne in mente, e l'idea ebbe su di me un effetto devastante, che forse Larry era stato ucciso perché aveva rifiutato di collaborare. Sapendo quello che sapevo adesso, e cioè che tutta la messinscena doveva riguardare per forza un grande affare finanziario, mi pareva logico supporre che il fattore riservatezza fosse essenziale. Quella gente non poteva lasciar andare Larry dopo averlo rapito, perché la paura che parlasse era troppo forte. Così l'avevano fatto fuori simulando un incidente.
Ma io non ne sarei rimasto vittima, oh, no! Io avrei collaborato. Oh, come avrei collaborato!
Con mano sudata e tremante, tirai la carta da ricalco e la firma verso di me e cercai disperatamente non solo di guadagnarmi i miei mille dollari al giorno, ma anche di porre le premesse per continuare a vivere.

Due ore dopo posai la penna e fissai il mio ultimo sforzo. Il pavimento era pieno di cartacce che contenevano tutte le varie prove da me effettuate. Il mio ultimo tentativo di contraffare la firma di John Merrill Ferguson era anche peggio del primo.
La mano mi doleva, le dita erano rigide e il panico mi faceva battere il cuore all'impazzata.
Spinsi la sedia all'indietro e mi alzai. Cominciai a passeggiare su e giù per la stanza. E se non fossi riuscito a imitare bene la firma? Durant si sarebbe rivolto a qualcun altro? Il risultato sarebbe stato una nuova puntura e un nuovo incidente opportunamente predisposto?
Dovevo riuscirci, dovevo!
Piegai le dita, andai in bagno e feci scorrere l'acqua nel lavabo finché non divenne bollente. Riempii il lavabo, immersi la mano dolorante nell'acqua e ce la tenni per un po'. Quando l'acqua cominciò a raffreddarsi, svuotai il lavabo e lo riempii di nuovo con acqua bollente. Dopo qualche minuto, la mia mano divenne più elastica. Me ne tornai al tavolo e ripresi a lavorare.
Quando la porta si aprì, circa un'ora dopo, e Durant entrò, seguito da Mazzo, ero ancora intento a imitare quella maledetta firma.
Durant guardò la carta appallottolata sul pavimento, poi si avvicinò al tavolo, prese in mano il mio ultimo sforzo e lo esaminò con cura.
Io lo osservavo con il cuore che mi martellava nel torace.
«Niente male» disse alla fine. «Vedo che intende collaborare, Stevens. Come primo tentativo, mi sembra incoraggiante.»
Io mi appoggiai allo schienale della sedia, sentendomi crescere dentro un'ondata di sollievo.
«Per oggi basta così. Ritenteremo domani.» Mi lanciò uno dei suoi soliti sguardi freddi e poco cordiali. «Ha tre giorni di tempo per perfezionare la firma.» Si rivolse a Mazzo. «Togli le cartacce da terra e poi vedi se Stevens ha bisogno di qualcosa» gli ordinò. Quindi uscì.
«Amico, sono sicuro che ce la farai a sopravvivere. Chiunque riesce a compiacere quel figlio di puttana è un vero furbone.»
Io non dissi nulla, ma notai il fatto che Mazzo non andava tanto per il sottile parlando di Durant.
«Be', amico, che ne diresti di fare un po' di esercizio in palestra?» chiese Mazzo. «Un tipo grande e grosso come te non vorrà mica starsene seduto con le mani in mano tutto il santo giorno, no? Andiamo a scioglierci i muscoli.»
Ero felice di uscire dalla mia prigionia e di fare quattro passi. Percorremmo il corridoio in direzione di un ascensore. Entrammo e cominciammo a scendere. Quando l'ascensore si fermò, la porta si aprì.
Mazzo mi fece strada in una grande palestra perfettamente attrezzata.
«Ti ho visto in TV, amico. Te la cavavi bene quando c'era da menare le mani» disse, lanciandomi un sorriso poco invitante. «Ci mettiamo i guantoni, eh?»
In effetti, anch'io mi consideravo un buon combattente. Quando facevo la parte del cattivo in qualche film western, mi vantavo sempre di non avere bisogno di controfigure. Ma guardando quella specie di montagna umana, mi sentii le gambe improvvisamente molli.
«Devo fare attenzione alle mani, Mazzo» dissi. «Ho quel problema della firma, sai...»
Di nuovo quel sorriso da brivido.
«Sicuro, sicuro. Ma non c'è nessun problema, amico. Ci mettiamo i guanti, no? Solo un po' di allenamento, tranquillo.»
Si avvicinò a uno stipetto e ne tirò fuori due paia di guantoni da pugile. Capendo che non avevo via di scampo, mi tolsi la giacca e la camicia, subito imitato da lui. La vista di quei muscoli da lottatore mi allarmò non poco. M'infilai i guantoni e attesi che anche lui facesse lo stesso, poi ci fissammo a vicenda.
Gli girai intorno, accorgendomi che era lento di gambe; e in effetti, un uomo della sua stazza non poteva che essere lento. Lui allungò il sinistro e io abbassai la testa, colpendolo duramente al naso. Mazzo retrocesse e io colsi una nota di sorpresa nel suo sguardo. Poi si fece nuovamente sotto con un gancio sinistro. Il colpo era telefonato e io riuscii a pararlo col guantone destro, ma mi sbilanciai leggermente e fui costretto ad arretrare. Sapevo che se uno dei colpi di Mazzo fosse giunto a segno in tutta la sua potenza, sarei finito lungo disteso per terra. Quello scimmione colpiva con la forza di un maglio.
Prendemmo a girarci intorno reciprocamente. Io lo centrai alla testa quando si avvicinò un po' troppo e lui diede un grugnito. La cosa andò avanti per qualche minuto, poi vidi un piccolo guizzo sulla bocca priva di labbra. Istintivamente, sentii che stava per sparare un colpo formidabile, ma non gli diedi il tempo di centrarmi. Sgusciai verso di lui, colpendolo al viso con un sinistro che gli fece perdere l'equilibrio. Poi lasciai partire uno dei miei migliori ganci destri mettendoci tutta la forza che avevo in corpo. Il colpo s'infranse sulla sua mascella e lui andò giù come se le gambe gli fossero diventate di argilla. Batté pesantemente con le spalle sullo stuoino e roteò gli occhi all'insù, privo di sensi.
Io mi sfilai i guantoni e m'inginocchiai vicino a lui. Poi gli sollevai la testa rasata e gli diede alcuni colpetti sulle guance.
Avevo una paura folle che potesse squartarmi, una volta rimessosi in sesto.
Gli ci vollero più di dieci secondi per tornare in sé. Quando vidi che gli occhi riprendevano a muoversi, lo aiutai a sedersi e mi allontanai. Cercavo di stare lontano da lui come si sta lontani da una tigre drogata che sta per risvegliarsi.
Mazzo sbirciò verso di me, poi sorrise. Stavolta non era un sorriso cattivo, ma sincero, persino cordiale.
«Sei stato in gamba, amico» disse, scuotendo la testa. «Perdio se sai menare le mani!» Allungò il braccio verso di me e io lo aiutai ad alzarsi. Si strofinò per un po' la mascella e poi scoppiò a ridere. «E pensare che ti avevo preso per un cacasotto!»
Io tirai un lungo e profondo sospiro di sollievo.
«Mi spiace, Mazzo, ma mi avevi fatto davvero paura. Se mi avessi centrato con quella sventola, non avrei più potuto lavorare per il signor Durant. Così ho dovuto difendermi come meglio potevo.»
Lui si sfilò i guantoni e prese di nuovo a strofinarsi la mascella, fissandomi. Quindi annuì più volte con la testa rasata.
«Hai ragione, amico. Senti, non diciamo niente a quel figlio di puttana, va bene? Quello mi strapperebbe le balle a morsi, se lo sapesse.»
«Nessun problema. Ma piantala con questa storia dell'"amico". Chiamami Jerry.»
Lui mi fissò per un lungo attimo, poi annuì.
«Come vuoi. Be', Jerry, facciamo qualche esercizio.»
Anche se ero praticamente certo che fosse un killer e lo temevo, avevo la sensazione che ora lui si fosse schierato dalla mia parte. Lavorammo insieme per un po', lanciando in aria un pallone da ginnastica ed esercitandoci alla sbarra fino a quando non ci ritrovammo tutti e due madidi di sudore. Mi pareva proprio di aver fatto un enorme passo avanti.
Dopo che ci eravamo fatti la doccia e rivestiti, lui mi scortò nella mia stanza.
Ero affamato.
«Chiedi quello che vuoi» disse Mazzo quando gli feci presente che era ora di mangiare. «Qui abbiamo di tutto.»
Così gli chiesi del pollo arrosto.
Lui mi diede un colpetto sulla spalla.
«Ti piace il pollo, Jerry? Anche a me.» Si strofinò di nuovo la mascella e sorrise di gusto. «Sono sicuro che sopravviverai, te lo dico io.» Poi se ne andò.

Il giorno successivo fu l'esatta ripetizione di quello precedente.
Quando Mazzo entrò col carrello della colazione, io trovai un'altra nota di accredito a mio favore, per l'importo di mille dollari. La cosa era decisamente incoraggiante.
Terminata la colazione, mi rimisi al tavolo e lavorai nuovamente sulla firma di John Merrill Ferguson. Adesso, però, mi sentivo più rilassato e fiducioso.
Dopo circa un'ora, misi da parte la carta da ricalco e continuai a scrivere la firma su fogli di carta ordinaria. Ero ancora impegnato a scarabocchiare quando la porta si aprì ed entrò Durant. Lui si avvicinò al tavolo e, restando in piedi, prese a esaminare i miei numerosi tentativi.
«Prenda un pezzo di carta e firmi» mi ordinò.
Feci quello che mi aveva detto. Lui prese il foglietto ed esaminò la firma.
«Sì. Si sta comportando piuttosto bene, Stevens. Continui così. Voglio che questa firma le riesca familiare come la sua.» Si allontanò. «Ho fatto qualche piccolo accomodamento per lei. Le ho pagato l'affitto, poi ho fatto impacchettare i suoi vestiti e le altre cose, che adesso sono qui. Ho anche visto il suo agente, il signor Prentz, e gli ho pagato la commissione che lui mi ha chiesto. Gli ho detto che lei adesso era in Europa e che stava lavorando per me. Così ora non ha più né legami né debiti.» Fece una pausa e mi fissò. «È interamente a mia disposizione, in altre parole.»
Mi sentii invadere dalla paura. C'era qualcosa nei suoi occhi magnetici che fece scattare in me un campanello d'allarme.
«Continui a firmare» proseguì. «Domani, se sarò soddisfatto, lei verrà trasferito da qui e comincerà a impersonare il signor Ferguson.»
«Dove mi porterete?» chiesi con voce rauca.
«Glielo diremo dopo. Finora il suo apporto è stato soddisfacente, Stevens. E ricordi, non faccia domande» disse in tono brusco e se ne andò.
Mi ci vollero diversi minuti prima che riuscissi a rimettermi al lavoro. Quella era davvero un'occupazione noiosissima, ma ormai mi ero impegnato. Comunque, almeno fin lì, chi mi aveva assunto era contento di me e mi pagava tanti bei dollaroni.
Giunse l'ora di pranzo. Mazzo entrò col carrello. Il pasto consisteva in una enorme insalata di gamberetti con fette di aragosta.
«Va bene?» disse sorridendomi. «Devi sostenerti, Jerry. Oggi pomeriggio ti aspetta dell'altro lavoro.»
Due ore dopo, mentre stavo ancora esercitandomi con la firma, la porta si aprì. Entrò Mazzo, subito seguito da Charles.
Il truccatore aveva con sé la sua borsa con gli arnesi del mestiere. Mazzo teneva un vestito sul braccio e un paio di scarpe in mano.
«Signor Stevens!» esclamò Charles, come se fosse rimasto senza fiato. «Dobbiamo rimetterci al lavoro.» I suoi occhi dardeggiavano di paura e aveva la fronte imperlata di sudore. Posò sul tavolo la borsa con gli arnesi e ne estrasse quello che sembrava una grande guanto chirurgico di lattice.
«Mettiti questo vestito, Jerry» disse Mazzo.
Era lo stesso che avevo già indossato prima. Eseguii.
«E adesso le scarpe.»
Mi misi anche quelle.
«Si sieda, signor Stevens, la prego» disse Charles.
Spiegò il pezzo di gomma con estrema attenzione e io mi accorsi subito che si trattava di una maschera. Poi Charles me la applicò sul viso.
«Questo è il lattice più sottile che esista, signor Stevens» disse. «Non le darà fastidio, stia tranquillo. Io lavoro bene.» Stava modellando la maschera di gomma in modo che aderisse bene alla mia pelle. «Ora le sopracciglia e i baffi.» Quando ebbe terminato, fece un passo indietro e mi guardò. «È semplice, signor Stevens. Lei sarà dotato di una buona scorta di sopracciglia e baffi finti. E ho preparato tre maschere, nel caso lei abbia un incidente. Vedrà che sarà in grado di applicarsela da solo senza il minimo inconveniente.» Prese una fotografia dalla sua borsa, la esaminò e poi tornò a guardarmi. «Eccellente. Vada allo specchio, per favore. Controlli da sé.»
Mi alzai e, siccome nel tacco della scarpa c'era ancora il cuneo di gomma, mi diressi con andatura zoppicante verso lo specchio sulla parete. Una volta lì, guardai il riflesso davanti a me. Per un lungo attimo me ne rimasi con gli occhi spalancati, senza capire, sentendomi percorrere la schiena da un brivido freddo. Quello non ero io! L'uomo che vedevo nello specchio era un totale sconosciuto. La maschera di lattice mi mostrò un viso dai lineamenti regolari e piuttosto abbronzato, con un naso piccolo, una bocca energica e una mascella aggressiva. Le sopracciglia appena accennate e la linea sottile dei baffi conferivano a quell'immagine una nota di distinzione. Me ne rimasi lì, come imbambolato. Solo quando riuscii ad allontanarmi mi resi conto che l'immagine allo specchio ero io, non qualcun altro.
All'improvviso, mi accorsi che Harriet e Durant erano entrati nella stanza.
Mi voltai.
«Cammini» disse Durant.
Attraversai la stanza zoppicando, poi mi volsi e tornai al tavolo.
«Fantastico!» esclamò Harriet. «Nessuno riuscirebbe mai ad accorgersi della differenza. Il suo talento, Charles, è davvero degno della grande reputazione che la circonda.»
Charles sorrise in modo melenso.
«Grazie. Ci vuole molta accortezza quando ci si mette la maschera. Ma il signor Stevens imparerà subito. Non ci saranno problemi, sono sicuro.» Sorrise di nuovo, palesemente a disagio. «E adesso che ho finito, mi piacerebbe davvero tornarmene a casa. Ho tante, tante cose da fare.»
«Ma certo» disse Harriet. Fece un segno a Mazzo. «Il signor Charles vuole tornare a casa. Pensaci tu.»
«Grazie, grazie.» Il viso di Charles si accese per l'evidente sollievo. «Può contare sulla mia discrezione, naturalmente. Sono felice che tutto sia andato a meraviglia.» Si avviò alla porta, ma poi si fermò per indirizzarmi un timido sorriso. «È stato un piacere, signor Stevens. Addio.»
«Addio» gli dissi a mia volta, pensando che era proprio fortunato a tirarsi fuori da un pasticcio simile. Ma allora come potevo sapere che quello era davvero il suo ultimo addio?

3

Passai tutta la mattinata seguente a fare ulteriore pratica con la firma di John Merrill Ferguson. Ormai stavo cominciando a diventare piuttosto bravo, e non avevo più paura che quel compito andasse al di là delle mie possibilità.
Quando arrivò il carrello con la colazione, c'era un'altra nota di accredito per l'importo di mille dollari.
Mentre lavoravo, dopo colazione, ricordai quello che mi aveva detto Durant, e cioè che mi avrebbero trasferito di lì in giornata perché cominciassi a calarmi nei panni di John Merrill Ferguson. E prima la cosa cominciava, prima mi avrebbero liberato.
Dopo il pranzo, Durant apparve con un documento dall'aria legale che posò subito sul tavolo.
«Prenda una matita e firmi qui» mi intimò.
Io presi una matita e firmai col nome di Ferguson tracciando un piccolo svolazzo alla fine.
Durant esaminò quello che avevo scritto e annuì.
«Adesso firmi di nuovo, ma con una penna» disse.
Usando la Parker, tracciai il nome di Ferguson sopra la prima firma. Durant esaminò di nuovo quello che avevo scritto, poi mi guardò con i suoi occhi scuri e freddi. «Ha superato la prova, Stevens.» Si avvicinò a una poltrona e si sedette. «La personificazione comincerà stasera. Sarà condotto nella residenza del signor Ferguson a Paradise City, in Florida. Lì conoscerà la moglie del signor Ferguson. Lei sa tutto riguardo al nostro piano, perciò non deve preoccuparsi. Avrà le sue stanze riservate e non entrerà mai in contatto col personale. Il signor Ferguson non ha più rapporti con la servitù da qualche tempo, d'altra parte, così la circostanza non sarà giudicata inusuale. Mazzo baderà alle sue necessità. In certe occasioni, come poi le diremo, lei dovrà farsi vedere in pubblico portando sempre la maschera. In quelle occasioni, Mazzo sarà con lei. Poi sarà condotto negli uffici della società tre volte alla settimana, e anche in questo caso Mazzo e altri la accompagneranno puntualmente. Non sarà avvicinato da nessuno dei dipendenti, perciò non abbia timore. Tutto quello che dovrà fare sarà solo firmare lettere e documenti. Ci penserò io a dirigere le operazioni. Ho già fatto in modo che la segretaria personale del signor Ferguson andasse in ferie, e l'ho sostituita con una donna che non ha mai visto il principale in vita sua. Perciò anche qui non ci sarà nessun problema.» Fece una pausa e mi fissò. «Lei farà esattamente quello che le dirò di fare. Firmerà tutte le carte che le darò senza la minima obiezione.» Mi fissò di nuovo. «Chiaro?»
«Sì» risposi.
«Come vede, Stevens, lei è pagato molto bene per quello che in fondo è uno sforzo molto piccolo.»
Se la cosa fosse stata tanto semplice, mi sarei trovato d'accordo con lui. Ma era davvero così?
Durant si alzò.
«Partiamo alla sette di stasera. Lei si farà trovare pronto con la maschera. Per questo l'aiuterà Mazzo. Tutte le volte che il signor Ferguson fa un viaggetto, ci sono sempre spie e giornalisti dappertutto. Faccia esattamente quello che le dice Mazzo e vedrà che non ci saranno problemi.»
Prese i documenti che avevo firmato e se ne andò.
Paradise City! Avevo letto parecchie volte di quella splendida città per miliardari, e mi ero spesso sognato di poter fare una vacanza laggiù. Ecco dov'era la residenza di Ferguson. Inoltre, come ciliegina sulla torta, avrei fatto la conoscenza della signora Ferguson!
"Uomo" pensai "stai davvero salendo nella scala sociale". Quando fosse finita la messinscena, mi ripromisi di trovare una bambola di quelle da togliere il respiro e di passare una vacanza da sogno a Paradise City, spendendo parte dei trentamila dollari che mi avrebbero atteso alla Chase National Bank.
Con quei pensieri in testa a consolarmi, il resto del pomeriggio filò via tranquillamente.
Alle sei entrò Mazzo, che portava una valigia.
«Ci siamo, Jerry» disse, posandola sul tavolo. «Mettiti questi.»
Tirò fuori dalla valigia un abito di lino bianco, una camicia di seta, una cravatta rosso scuro e un paio di mocassini beige.
Mi cambiai.
«Bella roba, eh?» disse Mazzo con un sorriso. Poi prese la maschera di lattice da una scatola e aggiunse: «Ce la fai a mettertela?»
«Sicuro.» Mi avviai in bagno, zoppicando. Avevo paura di danneggiarla, ma alla fine riuscii a farla aderire perfettamente al mio viso. Poi mi applicai le sopracciglia e i baffi con un po' di colla.
Mazzo stava in piedi sulla soglia e mi guardava.
«Certo che è incredibile» disse. «Sei uguale identico al capo.»
«Be', l'idea è questa, no?»
«Eccoti il cappello e gli occhiali» disse Mazzo, esibendo un cappello bianco dall'ampia tesa che io mi calcai subito in testa. Quindi mi diede un paio di occhiali dalle lenti scure.
Mazzo mi fissò di nuovo.
«Vado a chiamare il signor Durant. Vorrà vederti prima che partiamo. Mettiti vicino al letto e aspetta.»
Quando se ne fu andato, mi fissai nel grande specchio alla parete.
Ecco come doveva essere John Merrill Ferguson, uno degli uomini più ricchi e più potenti del mondo.
Venni subito preso da uno straordinario senso di eccitazione. Dunque quell'uomo, l'uomo che mi stava di fronte, era John Merrill Ferguson! Alzai la mano destra e John Merrill Ferguson alzò la mano destra. Feci due passi indietro e John Merrill Ferguson fece due passi indietro. Gli sorrisi e lui mi restituì il sorriso.
Poi un pensiero mi attraversò il cervello. Cos'aveva quell'uomo che io non avevo? A parte i soldi e il potere, naturalmente. Ero ben consapevole di non avere il conto in banca che aveva lui, ma avevo il suo viso, i suoi abiti e adesso ero diventato anche capace di falsificare tranquillamente la sua firma.
Quel pensiero fu come un seme che si posò all'improvviso nella mia mente. Solo un piccolo seme, certo, ma i semi finiscono spesso per germinare. Appena sentii entrare Durant, però, dimenticai all'istante quel pensiero.
Uscii dal bagno zoppicando, attraversai la stanza e mi fermai accanto al letto, poi mi volsi e lo guardai.
Sentii un brivido di soddisfazione quando scorsi l'espressione meravigliata che gli era apparsa in viso.
Dopo avermi guardato ancora un po', disse: «Molto bene.» Poi si rivolse a Mazzo, che stava in piedi sulla soglia. «Andiamo» aggiunse seccamente, e lasciò la stanza.
«Te l'avevo detto, Jerry» fece Mazzo con un sogghigno. «Sei un fenomeno.»
Io non mi mossi, ma gli lanciai un'occhiata molto eloquente.
«È solo un suggerimento, Mazzo» gli dissi in tono confidenziale. «Ma non sarebbe più sicuro se d'ora in avanti mi chiamassi signor Ferguson, invece di Jerry?»
Lui mi guardò stupito.
«Come sarebbe a dire? Sentimi bene, amico, tu non sei il capo, perciò non mi passa nemmeno per l'anticamera del cervello di chiamarti signor Ferguson. Tu fai solo quello che ti dico di fare, punto e basta.»
«Ma se mi chiami Jerry o amico» dissi «qualcuno potrebbe sentirci e allora ci troveremmo automaticamente nella merda. Io sono il signor Ferguson, no? Faccio quello che mi dici, certo, ma chiamami signor Ferguson.»
Lui si passò la grossa mano sulla testa rasata e pensò al mio suggerimento. Mi pareva quasi di sentire cigolare gli ingranaggi del suo cervello, tanto era evidente lo sforzo, ma alla fine annuì.
«Be', forse hai ragione.» Sogghignò. «D'accordo, signor Ferguson, andiamo.»
Mentre lo seguivo fuori, non mi accorsi che quel seme aveva già cominciato a germinare.
Scendemmo lungo un'ampia scalinata e arrivammo in un atrio brillantemente illuminato.
Harriet Ferguson era in piedi sulla soglia del salotto principale e stava accarezzando il barboncino.
Durant, che aveva in mano una cartella, era vicino alla porta d'ingresso.
Mazzo si spostò da una parte.
«Avanti, signor Ferguson» disse.
Io gli passai davanti e vidi che la vecchia mi stava tenendo d'occhio. Così la guardai a mia volta e la sentii trattenere il respiro. Le sorrisi. Un sorriso rigido a causa della maschera, ma pur sempre un sorriso.
«Fantastico» esclamò, guardando Durant.
«Già» disse lui. «Ora dobbiamo andare.»
Mazzo mi diede un leggero colpetto col gomito. Io feci qualche passo avanti zoppicando e mi rivolsi alla vecchia.
«Signora» dissi «spero che sia soddisfatta.»
«Potrebbe essere mio figlio» disse lei, e vidi che gli occhi le si inumidivano.
«Sarebbe un privilegio» dissi, calandomi perfettamente nel ruolo. Poi le presi la mano e la sfiorai con le labbra: una scenetta davvero patetica, che sembrava uscita direttamente da un film degli anni Trenta.
Quindi mi volsi e zoppicai in direzione di Durant, che stava osservandoci con lo sguardo inacidito che di solito mi riservava un regista quando si accorgeva che stavo cercando di rubare la scena al primattore.
Fuori, nel crepuscolo che stava ormai addensandosi, ci aspettava la Rolls Royce. L'autista giapponese era in piedi e teneva aperta la portiera.
Durant entrò e io lo seguii subito dopo. Mazzo si sedette con l'autista.
Mentre ci dirigevamo verso l'autostrada, Durant disse: «Appena arriviamo in aeroporto, Stevens, troveremo la stampa ad aspettarci. I paparazzi non riusciranno ad avvicinarsi a lei, ma in ogni caso saranno lì. Prenderemo l'aereo personale del signor Ferguson. Mi raccomando, faccia esattamente quello che le dice Mazzo e non abbia fretta. Si ricordi, lei è John Merrill Ferguson e sarà ben protetto. Quando sale la scaletta dell'aereo, faccia una breve pausa, si volti e alzi la mano. È chiaro?»
«Sì, signor Durant» dissi.
«Una volta a bordo, Stevens, si limiti a fare un cenno di saluto col capo alle hostess e si metta a sedere. Non sarà disturbato fino al nostro arrivo. A quel punto, le darò personalmente nuove istruzioni.»
Il seme di quel pensiero stava continuando a germinare.
«C'è solo un piccolo punto, ma potrebbe essere importante» dissi. «Badi che è solo un suggerimento, signor Durant. Non sarebbe meglio smetterla di chiamarmi Stevens? Non so come si rivolge al signor Ferguson, ma credo che sarebbe più saggio se mi chiamasse esattamente come chiama lui. Un lapsus potrebbe mandare a gambe all'aria tutta l'operazione, e io non voglio fare da capro espiatorio.»
Non lo guardai mentre parlavo. Tenevo gli occhi puntati sulla nuca dell'autista.
Ci fu una lunga pausa, poi Durant disse: «Sì, forse ha ragione, signor Ferguson. Molto intelligente da parte sua ricordarmi questo piccolo dettaglio.»
«Se avessimo dei problemi, signor Durant, non vorrei mai che fosse per colpa mia.»
«Già.» Emise un pesante sospiro. «Allora forse è meglio che mi chiami Joe.» Ma il suono stridente della sua voce mi fece capire quanto poco la cosa gli piacesse.
«D'accordo, Joe.»
Non parlammo più fino al nostro arrivo in aeroporto. Poi Durant ruppe il silenzio. «Non dica niente e non faccia niente. Lasci parlare Mazzo.»
Non seppi resistere alla tentazione di prendermi un piccolo trionfo.
«Certo, Joe» dissi.
La Rolls era ovviamente attesa.
Alcuni guardiani aprirono il cancello e ci salutarono mentre noi passavamo. Sentendomi una specie di re, alzai la mano in cenno di saluto.
«Non faccia nulla!» ringhiò Durant.
L'auto girò intorno al perimetro dell'aeroporto. Davanti a noi vidi il raggio accecante dei riflettori e una grande folla in attesa. Più in là c'era l'aereo, illuminato a giorno.
Me lo sarei ricordato, quel viaggio.
La Rolls si fermò nei pressi di una barriera. La sbarra si alzò e ridiscese subito dopo il passaggio dell'auto. Una quindicina di uomini erano fermi ai piedi della scaletta che conduceva a bordo. Sembravano quelli che erano: delle ottime ed efficienti guardie del corpo.
Mazzo scese dalla macchina. Durant mi diede un colpetto col gomito, così scesi a mia volta e lui mi seguì.
«Continui ad andare» m'intimò Durant.
Alla luce abbagliante dei riflettori, mi diressi verso la scaletta.
Si sentì un immediato clamore.
«Signor Ferguson, guardi qui!»
«Signor Ferguson, solo due parole!»
«Signor Ferguson! Un attimo, per favore!»
Era il solito, inevitabile assalto dei giornalisti. I flash presero a scattare e mi pareva di sentire il ronzio delle telecamere. Era il momento più eccitante di tutta la mia vita. I giornalisti che gridavano e i fotografi che facevano a gara per avvicinarsi a me: era quello che avevo sempre sognato quando speravo di diventare un grande attore.
Mi avviai su per la scaletta con Durant che mi tallonava. Il cuore stava battendomi all'impazzata.
«Signor Ferguson!»
Quel nome venne ripetuto innumerevoli altre volte. Le urla dei giornalisti mi martellavano le orecchie.
In cima alla scaletta, feci una pausa, mi girai e abbassai lo sguardo verso le telecamere, le guardie del corpo, i fotografi che stavano ancora scalmanandosi e quel mare di facce indistinte sotto di me. Mi sembrava di essere il presidente degli Stati Uniti d'America. Sollevai una mano in segno di saluto, poi Durant, salendo, mi spinse praticamente a bordo e lo spettacolo terminò.

Avevo sentito spesso parlare degli aerei privati posseduti dai pezzi grossi della finanza, ma quello su cui mi trovavo mi fece spalancare la bocca dalla meraviglia.
Entrai all'interno passando davanti a due ragazze sorridenti che indossavano un'uniforme verde scuro con un cappellino marrone. Più in là c'erano alcune eleganti poltrone in pelle, una lussuosa scrivania con una poltroncina dallo schienale alto, anch'essa in pelle, un grande bar, un tavolo da riunioni d'affari e dieci poltrone disposte tutt'intorno. Per terra c'era una spessa moquette rosso scuro.
Da un lato, si vedeva una poltrona di pelle reclinabile che pareva abbastanza confortevole per schiacciarci un pisolino.
«Si sieda qui» disse Durant, indicandomi proprio quella.
Io mi sprofondai in quella delizia, mi tolsi il cappello e lo gettai per terra.
Mazzo si avvicinò, lo raccolse e lo portò via. Durant avanzò di qualche passo e scomparve proprio mentre sentivo chiudersi con uno scatto il portellone dell'aereo.
Sbirciai dalle tende che schermavano i finestrini e notai le luci delle telecamere. Morivo dalla voglia di scostarne una e dare un'occhiata ai giornalisti di sotto, ma quello non era il momento.
Alcuni minuti dopo, i motori si accesero. Passò ancora un po' di tempo e l'aereo iniziò il decollo.
Durant tornò e si sedette alla scrivania. Aprì la cartella, ne tirò fuori un fascio di carte e iniziò a leggere.
Io mi rilassai nella poltrona, chiusi gli occhi e pensai all'accoglienza che avevo ricevuto. Ecco cosa voleva dire essere miliardari. Pensai ai tristi anni in cui avevo tirato la cinghia cercando di sfondare come attore cinematografico. Adesso, all'improvviso, venivo trattato come uno degli uomini più ricchi e potenti del mondo, e la cosa mi piaceva maledettamente.
Ero felice di potermene stare lì in compagnia dei miei pensieri, e per una ventina di minuti me ne rimasi buono. Poi mi venne in mente che ero John Merrill Ferguson e che avrei dovuto ricevere qualche attenzione.
Durant era ancora immerso nella lettura, così mi diedi un'occhiata intorno e vidi che Mazzo sonnecchiava in una poltrona alle mie spalle.
«Mazzo!» esclamai.
Sia lui che Durant alzarono lo sguardo.
Mazzo esitò, poi si tirò in piedi e mi venne vicino.
«Un doppio whisky con ghiaccio» dissi. «Poi voglio anche qualcosa da mangiare.»
Mazzo batté le palpebre, poi guardò Durant. Quest'ultimo mi lanciò un'occhiataccia, esitò e alla fine annuì.
«Molto bene, signor Ferguson» disse Mazzo, allontanandosi.
Dopo avermi fissato per un lungo momento, Durant tornò a leggere.
Il doppio whisky mi venne portato da una delle hostess. Io le indirizzai un cenno di ringraziamento col capo. Appena terminai di bere, mi venne servita la cena su un carrello: era composta da un eccellente antipasto, un filetto al vino bianco e una selezione di formaggi.
Le due hostess si occuparono di me. Ero convinto che Durant fosse stato abbastanza furbo da assumere due persone che non avevano mai visto Ferguson. La loro reazione era quella di due ragazze che stavano servendo uno degli uomini più ricchi e potenti del mondo. Una di loro, una biondina decisamente graziosa, continuava a guardarmi con un sorriso molto sexy. Ero certo che se le avessi infilato una mano sotto la gonna, lei non si sarebbe nemmeno sognata di protestare.
Seguirono i sigari e il brandy.
Accidenti, quella sì che era vita!
«Vuole qualcosa da leggere, signor Ferguson?» mi chiese la biondina.
Mi venne in mente che ero fuori circolazione da tre giorni.
«Un giornale, grazie» dissi.
Lei andò via ancheggiando e tornò poco dopo con una copia del "California Times".
Cominciai a leggere.
Non c'era nulla di nuovo sul giornale: la solita crisi economica, le promesse vaghe del presidente e la Russia che mordeva il freno. Sfogliai le pagine e arrivai alle notizie su Hollywood. Il giornale dedicava due pagine al mondo cinematografico: chi stava facendo causa a chi, chi partecipava ai party più esclusivi, chi poteva vincere l'Oscar e via dicendo. Tutta roba che m'interessava, di solito.
Nella seconda delle due pagine c'era una fotografia di Charles, il truccatore che aveva realizzato la maschera che stavo portando.
Fissai la foto, poi lessi la didascalia: "Charles Duvine: mago del make-up di Hollywood si suicida".
Mentre leggevo, il cuore mi balzò in gola.
Charles Duvine, scriveva il giornalista, era stato via per un paio di mesi. Si pensava che fosse andato in vacanza nella Martinica. Era tornato nel suo lussuoso attico di Santa Barbara solo due sere prima. Il guardiano della vigilanza aveva detto che il signor Duvine sembrava molto depresso e irritabile. La mattina seguente, durante il suo abituale giro di perlustrazione, il guardiano aveva trovato il corpo del signor Duvine nel cortile del grande edificio. A giudicare dalle apparenze, il signor Duvine si era gettato dal terrazzo dell'attico in un momento di profonda depressione. La polizia aveva accettato l'ipotesi del suicidio.
Chiusi gli occhi mentre il giornale mi cadeva dalle dita tremanti.
Larry Edwards, che avrebbe potuto parlare, era morto per un incidente stradale causato da un difetto ai freni. E adesso Charles Duvine, che mi aveva trasformato in John Merrill Ferguson e che anche lui poteva aprire bocca, era morto per un apparente suicidio.
Mi sentii afferrare dalla morsa gelida della paura.
Poi la verità della situazione in cui mi trovavo mi colpì con la potenza di una martellata. Una volta adempiuto al mio compito, anch'io avrei cessato di vivere.
Quando quella misteriosa transazione d'affari fosse stata terminata, Ferguson e Durant non mi avrebbero mai lasciato in vita. Dovevano avere troppa paura che parlassi. Così mi avrebbero ucciso esattamente come avevano fatto con Larry Edwards e Charles Duvine.
Ero talmente terrorizzato che per poco non mi misi a vomitare. Sentivo il sudore freddo corrermi giù per la schiena e lungo il viso, sotto la maschera.
«Dell'altro brandy, signor Ferguson?» Era stata la hostess sexy a parlare. Stava in piedi accanto a me.
Forse a causa della maschera, non poteva accorgersi di quanto fossi spaventato.
Del brandy? Ma certo che ne avevo bisogno!
«Sì, grazie.»
Lei posò un bicchiere pieno per metà di brandy sul tavolo di fronte a me.
«Se vuole fare un sonnellino, signore, la sua stanza è pronta» disse. «Mancano ancora cinque ore all'atterraggio.»
«Molto bene» dissi, alzandomi prontamente.
Non sopportavo più di avere la maschera. Dovevo assolutamente togliermela.
La hostess prese il bicchiere col brandy, passò accanto alla scrivania di Durant e si diresse verso una porta.
«Vado a schiacciare un pisolino, Joe» dissi con voce roca mente Durant alzava lo sguardo.
Vidi che Mazzo stava per alzarsi, ma Durant scosse la testa e l'altro tornò a sedere.
Seguii la ragazza in una cabina dove c'erano un letto e un armadio attrezzato. Una porta in una parete si apriva su un bagno.
Lei posò il bicchiere sul tavolino da notte e mi sorrise.
«Le serve qualcos'altro, signor Ferguson? Non ho niente da fare nelle prossime due ore.» Inarcò le sopracciglia con fare invitante.
Se non fossi stato così terrorizzato e impaziente di togliermi la maschera, avrei ceduto volentieri alla tentazione.
«Per ora niente, grazie.»
«Mi chiami Phoebe, signor Ferguson. Sono interamente a sua disposizione.» Dopo un attimo di esitazione mi sorrise di nuovo e se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle.
Io chiusi col catenaccio, poi andai in bagno e mi tolsi attentamente la maschera. Mentre la posavo sulla mensola, fissai la mia immagine allo specchio.
Dio, sembravo uno straccio! Quello era Jerry Stevens, un attorucolo finito, spaventato a morte, col viso bianco come un cencio, il sudore che gli colava dalle guance e la bocca contorta in un'orribile smorfia. Era un'immagine molto diversa da quella che avevo visto quando mi ero specchiato l'ultima volta e mi ero chiesto che cosa non avessi io che invece aveva il potente e ricco signor Ferguson.
Mi lavai mani e viso, poi tornai in cabina. Bevvi quasi tutto il brandy e mi sedetti sul bordo del letto cercando di controllare il tremito alle mani. Quindi terminai di bere e posai il bicchiere prima che mi cadesse dalle mani.
Dopo alcuni minuti, il liquore cominciò a farsi sentire e il mio battito cardiaco tornò quasi normale. Accesi una sigaretta.
Pensavo a Charles Duvine. Forse c'erano due sicari, e magari lo stesso Mazzo, ad aspettarlo sulla terrazza del suo attico. Una piccola spinta e il "suicidio" era cosa fatta.
Rabbrividii.
Quello poteva accadere anche a me. Anzi, mi sarebbe successo di sicuro, quando non fossi stato più utile a Durant. Be', almeno sapevo cosa aspettarmi.
Durant mi aveva detto che avrei dovuto impersonare Ferguson per un mese, se non di più. Quello significava che ero salvo per almeno trenta giorni, durante i quali dovevo assolutamente trovare una via d'uscita per salvarmi da quell'incubo.
Cominciai a sentirmi meno terrorizzato.
Trenta giorni!
Possono succedere molte cose in trenta giorni. Ero stato preavvisato. Doveva esserci per forza un momento in cui sarei potuto scappare. E allora mi sarei rivolto alla polizia, chiedendo protezione. D'altro canto, avevo numerose prove in mio possesso. Avrei mostrato ai poliziotti la maschera. Avrei chiesto che controllassero il conto in banca che avevo alla Chase National Bank. Avrei chiamato Lu Prentz perché testimoniasse che Durant mi aveva assunto.
Cominciai a rilassarmi. Forse i due brandy mi avevano fatto nascere un minimo di fiducia.
Poi sentii un leggero rumore che mi fece saltare di nuovo il cuore in gola. Guardando la porta della cabina, vidi che la maniglia stava girando. Ma prima avevo tirato il catenaccio, così la porta non si aprì.
Ripresi a sudare.
«Va tutto bene, signor Ferguson?» sussurrò Mazzo dall'altro lato del battente.
Il brandy mi fece esclamare: «Fila via! Stavo cercando di dormire!»
«Senz'altro, signor Ferguson.»
Me ne rimasi immobile come un sasso a guardare la maniglia della porta. Si mosse su e giù per qualche secondo, poi si bloccò.
Mentre sedevo sul letto e fissavo la porta, capii quello che doveva provare un coniglio in trappola.

Fui svegliato da un leggero rumore di colpi. Qualcuno bussava alla porta.
«Mi scusi, signor Ferguson, ma atterreremo tra un'ora.»
«Grazie» dissi, dando un'occhiata all'orologio. Erano le undici e mezzo.
Non ricordavo di essermi addormentato. Mi pareva di essere rimasto sdraiato a letto e di aver combattuto con le mie paure. Il brandy doveva avermi dato un grande senso di autorità.
Mi spogliai, feci la doccia e mi rasai, guardandomi il viso allo specchio. Ero pallidissimo. Poi passai un po' di tempo a mettermi la maschera, le sopracciglia e i baffi.
Facendo un passo indietro, mi guardai di nuovo allo specchio. John Merrill Ferguson mi restituì lo sguardo e, vedendolo, cominciai a dimenticare le mie paure.
Nessuno sarebbe riuscito a uccidere John Merrill Ferguson! Ferguson poteva anche far eliminare persone come Larry Edwards e Charles Duvine, ma era troppo potente perché qualcuno potesse sopprimere lui.
Quel ragionamento infantile mi aiutò a riacquistare fiducia in me stesso. Mentre mi vestivo, mi persuasi che potevo affrontare con successo quella situazione fino a quando fossi rimasto dietro la protezione della maschera di John Merrill Ferguson.
Aprii la porta e mi diressi nella parte principale dell'abitacolo.
Durant sedeva alla scrivania e leggeva ancora le carte di prima. Mazzo stava bevendo una tazza di caffè.
«Sempre al lavoro, Joe?» dissi in tono cordiale, dandogli un colpetto sulla spalla. «Lavori troppo.»
Senza girarmi per vedere la sua reazione, raggiunsi la poltrona reclinabile e mi sedetti, consapevole del fatto che Mazzo stava guardandomi a bocca aperta.
Phoebe mi venne accanto.
«Caffè, signor Ferguson?» chiese.
«Certo» dissi. «Grazie.»
Quando ebbi terminato di bere il caffè e fumato una sigaretta, l'aereo stava girando intorno all'aeroporto di Miami.
Durant si diresse verso di me.
«Andremo nella residenza del signor Ferguson direttamente in elicottero» mi disse. «All'aeroporto troveremo di nuovo la stampa, ma a nessuno dei giornalisti sarà permesso di venirle vicino. Lei sarà scortato direttamente all'elicottero.» Fece una pausa e mi lanciò un'occhiata poco rassicurante. «Non voglio altre sparate da parte sua, chiaro?»
«Sicuro, Joe» dissi. «A tua completa disposizione.»
Dal leggero rossore che gli comparve in viso, capii che Durant detestava sentirsi chiamare Joe e dare del tu, ma d'altra parte sapeva che non c'erano alternative.
Phoebe, che adesso si era rimessa il cappellino, ci chiese di allacciarci le cinture di sicurezza, dato che ormai stavamo per atterrare.
Cinque minuti dopo, toccammo terra in un angolo oscuro dell'aeroporto di Miami.
Ci fu una piccola attesa. Guardando fuori da uno dei finestrini, vidi che le quindici guardie del corpo erano già scese e avevano formato un cerchio minaccioso ai piedi della scaletta. In lontananza, sotto una pioggia di luci, c'era una folla di giornalisti e operatori televisivi tenuta indietro da una barriera. Provai di nuovo un senso di tremenda eccitazione: quegli uomini stavano aspettando di vedere "me", di scambiare due parole con "me, John Merrill Ferguson".
Sentii ancora una volta lo strepito dei paparazzi. Le loro urla erano musica wagneriana per le mie orecchie.
Le guardie del corpo si chiusero intorno a me e formarono una specie di scudo. Io venni sospinto verso l'elicottero che era in attesa. Fui tentato di fermarmi e di fare un cenno di saluto alla stampa, ma venni costretto ad avanzare. Fui praticamente issato di peso in elicottero, con Durant alle mie spalle. Il portellone si chiuse di scatto.
Il pilota si voltò sul sedile.
«Salve, signor Ferguson» disse con un sorriso cordiale e rispettoso.
Mazzo, che mi sedeva accanto, mormorò: «È Lacey.»
«Salve, Lacey» dissi in tono amichevole. «È un vero piacere rivederla.»
Ma forse avevo detto qualcosa che non dovevo, perché gli occhi del pilota si spalancarono dalla sorpresa. La cosa non m'importava più di tanto, comunque. Ormai ero di nuovo fra le nuvole, in compagnia degli immortali.
Le pale cominciarono a girare e l'elicottero si alzò in volo.
«Tenga la bocca chiusa» ringhiò Durant sottovoce.
«Certo, Joe» dissi. «Nessun problema.»
Stavo guardando in basso, verso la folla dei giornalisti, dei fotografi e degli operatori televisivi, illuminata dai riflettori. Mentre ci alzavamo, a poco a poco quella ressa urlante sparì.
Ci vollero circa venti minuti prima che potessi avere la mia prima impressione di Paradise City, e fu un'impressione straordinaria. Nel chiarore lunare riuscii a vedere le spiagge, ancora affollate persino a mezzanotte con gente ancora in acqua, le palme, gli ampi viali ai cui lati erano state posteggiate auto di lusso e i sontuosi edifici. In breve, era un'immagine di ricchezza opulenta.
Volando sopra le grandi, lussuose ville con acri e acri di prato, l'elicottero attraversò una grande distesa d'acqua, con diversi yacht e cabinati attraccati a quella che sembrava un'isola. Avrei scoperto in seguito che quella era Paradise Largo, la zona dove si concentravano i ricconi. Costeggiando gli alberi, vidi la casa di John Merrill Ferguson: una villa baronale come se ne vedevano solo nei film degli anni Cinquanta. L'edificio era alto e imponente, circondato da prati e aiuole multicolori.
L'elicottero atterrò sul prato.
Mentre seguivo Mazzo, non potei resistere alla tentazione di dire al pilota: «Grazie per il viaggio, Lacey.»
«Piacere mio, signor Ferguson» disse lui, piuttosto sorpreso.
Ad aspettarci c'era una piccola utilitaria. Durant, che sembrava una specie di collera di Dio, mi fece segno di accomodarmi sul sedile anteriore e lui salì dietro. Mazzo si mise al volante e accese il motore, dirigendosi verso casa.
«Mi stia bene a sentire, Stevens» iniziò Durant, piegandosi in avanti e dandomi un colpetto sulla spalla. «Le ho già detto di tenere chiusa quella maledetta boccaccia. Il signor Ferguson non parla mai ai suoi dipendenti.»
«Mi spiace, Joe. La prossima volta cercherò di fare più attenzione.»
Ci fermammo davanti all'ingresso di casa. Tutte le luci esterne erano accese. L'ampia porta a due battenti era aperta. Scendemmo dall'auto e, scortato da Mazzo, io m'inerpicai su per i venti scalini di marmo del portico e feci una pausa per contemplare l'ampia terrazza, munita di tavoli e poltrone e arredata con vasi di begonie multicolori.
Entrammo in un grande atrio e iniziammo a percorrere un lungo e ampio corridoio. A una delle pareti erano appesi vari quadri. Arrivammo davanti a un ascensore.
«Portalo nelle sue stanze» sbottò Durant, rivolgendosi a Mazzo. «La signora Ferguson lo vedrà domattina.» Poi se ne andò.
Mazzo mi sorrise e aprì la porta dell'ascensore.
«Hai sentito cos'ha detto Mr. Big, no?» disse, facendomi segno di entrare in ascensore.
Mentre salivamo, osservai: «Ci scommetto che persino sua madre non lo sopporta.»
«Facilissimo. A meno che non sia già uscita di senno» disse Mazzo, sogghignando.
L'ascensore ci portò in un altro atrio. Davanti a noi c'erano due porte.
«Ecco il salotto, signor Ferguson» disse Mazzo, poi aprì una delle porte, accese le luci ed entrò in un'enorme camera, arredata in modo talmente sontuoso che mi fermai sulla soglia ad ammirarla.
Lì dentro c'era tutto quello che avrebbe potuto desiderare un miliardario: un'ampia scrivania con vari telefoni e registratori, numerose poltrone, due grandi divani, un televisore, un bar equipaggiato di tutto punto, un enorme camino e una soffice e folta moquette beige sul pavimento. Dalle pareti pendevano numerose opere d'arte moderna. Riconobbi almeno quattro Picasso. C'erano anche un'ampia finestra panoramica di circa una dozzina di metri e diverse porte a vetri che davano su una grande terrazza decorata con vasi di fiori.
«E questa è la camera da letto, signor Ferguson» disse Mazzo, aprendo una porta. Mentre guardava la mia espressione di stupore, sogghignava tutto divertito.
Lo seguii in un'altra enorme camera. Per terra c'era la stessa moquette beige di prima. Guardandomi intorno, vidi vari armadi a muro, un altro televisore e un enorme letto che avrebbe potuto ospitare tranquillamente sei persone. Le pareti erano decorate anche lì con quadri moderni.
«Bello, eh?» disse Mazzo.
Io ero sbalordito. Non mi pareva possibile che esistesse un lusso simile.
«Be', adesso andiamo a dormire» disse Mazzo. «Domani ci aspetta una giornata piena d'impegni. Il bagno è là.» Si avvicinò a uno degli armadi e prese un pigiama di seta grigio, un paio di pantofole Gucci e posò il tutto sopra il copriletto. «Ci vediamo domani mattina» aggiunse, e se ne andò.
Io rimasi in piedi per qualche secondo, guardandomi intorno, poi sentii un leggero scatto.
Mazzo mi aveva chiuso a chiave.

Mi svegliai da un sogno erotico in cui stavo attentando alla virtù di Phoebe, la hostess. A parte il cappellino, lei era completamente nuda. Stavo già per prenderla quando avvertii una mano pesante sul mio braccio.
Aprii gli occhi e vidi che Mazzo era chino su di me.
«Dovevi proprio arrivare adesso?» ringhiai, drizzandomi a sedere. «Stavo sognando una bella fanciulla e me l'ero quasi fatta.»
Lui sogghignò.
«La colazione, signor Ferguson.» Un istante dopo abbassò la voce e aggiunse: «Poi comincerai a occuparti degli affari.» Si diresse verso un armadio e ne prese una veste da camera di broccato. «Presto.»
Gemendo, io mi tirai fuori dal letto a fatica e andai in bagno. Feci una doccia, mi rasai, m'infilai la veste da camera e uscii proprio mentre Mazzo rientrava portando con sé un carrello. Mi sedetti. Lui versò del caffè e mi servì due porzioni di rognone che avevano un aroma molto speziato.
Dopo che ebbi terminato di mangiare, lui disse: «Qui dentro troverai tutti i vestiti possibili e immaginabili.» Spalancò le porte degli armadi. «Serviti pure.»
Io mi avvicinai e presi a ispezionare il contenuto dei guardaroba. Una volta, ero stato invitato in casa di uno dei più grandi attori cinematografici in circolazione, che era anche un esibizionista. Lui mi aveva mostrato i suoi abiti con aria sadica, e io avevo cominciato a rodermi il fegato dall'invidia. Ma quello che avevo visto allora era solo una bazzecola in confronto al guardaroba di John Merrill Ferguson. Dovevano esserci almeno duecento vestiti, dozzine e dozzine di camicie, infinite paia di scarpe e così via.
«Prima di cambiarti, ricordati di mettere la maschera» disse Mazzo. «Presto dovrai dare spettacolo.»
Andai in bagno, mi misi la maschera e completai il travestimento, poi tornai in camera da letto.
Mi ci vollero venti minuti per decidere, ma alla fine scelsi una camicia crème e un abito a righe blu che mi calzavano a pennello. Mentre stavo cambiandomi, mi venne in mente che Durant aveva detto che avrei dovuto incontrarmi con la moglie di John Merrill Ferguson.
«Che tipo è sua moglie, Mazzo?» chiesi mentre facevo il nodo a una Cardin blu scuro.
Lui emise un lungo fischio sussurrato.
«Lo scoprirai da solo, caro il mio signor Ferguson» disse. «Così come l'ho scoperto io.» Poi abbassò la voce e mi parlò in confidenza. «Guardala e te ne accorgerai. Ma se vuoi un consiglio da me, vacci piano.» Si grattò la testa rasata e mi guardò dritto negli occhi. «Il modo in cui ti sei comportato col signor D. è perfetto. Forse a lui la cosa non è andata molto a genio, ma non può farci niente e deve ingoiare il rospo. Ma guardati bene dalla signora F. Per quella tu sei solo Jerry Stevens, ricordalo. E lei è abituata a prendere a pesci in faccia gli attori di quart'ordine come te. Persino il capo la tratta con tutti i riguardi del caso, e il signor D. a volte pare persino spaventato da lei. Per quanto riguarda me, be', quella mi guarda come se fossi un cadavere vecchio di tre mesi con i vermi che mi escono dalla pelle. Stai in guardia, ti dico.»
Per un attimo le parole di Mazzo mi sconcertarono, ma poi mi guardai allo specchio e vidi l'immagine rassicurante di John Merrill Ferguson, così mi tranquillizzai.
«D'accordo, Mazzo, starò in guardia.»
Un segnale acustico risuonò nel salotto. Mazzo entrò, sollevò un ricevitore e disse: «Sì, signor Durant, è pronto.»
Entrai anch'io in salotto.
«La signora F. sta arrivando» disse Mazzo. «Attento a quello che fai. Finora te la sei cavata egregiamente, perciò vedi di non combinare stronzate.»
Provando all'improvviso le stesse sensazioni che avevo provato un tempo, mentre entravo per la prima volta in un set cinematografico, mi diressi verso la grande scrivania e mi sedetti. Tanto per fare qualcosa, presi un'agenda rilegata in pelle e ne sfogliai le pagine. Non c'era giorno in cui non fossero stati fissati appuntamenti con varie persone, spesso a distanza di mezz'ora l'uno dall'altro. John Merrill Ferguson era un uomo molto impegnato, su questo non c'era dubbio. Poi arrivai a giugno, e cioè a tre mesi fa. Gli appuntamenti cominciavano ad assottigliarsi. A luglio c'erano solo tre nomi. Ad agosto un nome. Settembre era vuoto.
Non sentii la porta aprirsi. Stavo fissando i fogli bianchi del mese di settembre. Poi udii un leggero colpo di tosse da parte di Mazzo. Alzai lo sguardo.
Lei era in piedi appena al di qua della soglia, e mi stava guardando.
Credo che ricorderò per sempre la prima visione che ebbi di Loretta Merrill Ferguson. Ci sono donne e donne; nel mio genere di lavoro ne avevo viste di belle e di brutte, di migliori e di peggiori: le grasse, le magre, le carine, le fascinose, le dure e le meno dure, le grandi stelle, le attricette, le facili, le disperate, le degenerate, le affamate di sesso, le ninfomani e... ma perché continuare? Le avevo viste praticamente tutte, ma non ne avevo mai incontrata nessuna come la signora Ferguson.
Era il tipo di donna che farebbe trattenere il respiro a qualsiasi uomo. Non c'è alcun modo di descriverla, se non dicendo che era alta, magra, con un seno prosperoso e due gambe lunghe: qualcosa che hanno un po' tutte le belle donne, ma in più lei aveva un viso straordinario. Fu il suo viso a inchiodarmi; incorniciato in una chioma corvina degna di Cleopatra, aveva il colore dell'avorio, con i lineamenti di una perfezione assoluta: il naso minuto, la bocca carnosa e due grandi occhi di un colore violetto.
Non era solo la donna più bella che avessi mai incontrato in vita mia, ma anche la più sensuale.
La sua vista mi fece venire la bocca secca e mi diede il batticuore.
Rimasi seduto a fissarla.
Durant entrò nella stanza.
«In piedi!» esclamò.
Mi alzai, sempre guardando quella donna fantastica.
Attraversai la stanza zoppicando, poi mi volsi e attesi, consapevole che lei mi stava osservando come se fossi un cane ammaestrato.
«Mi pare accettabile, signora, non crede?» le suggerì Durant.
«Gli dica di parlare.» Aveva una voce bassa e sensuale. Si era espressa come se io non esistessi.
«Dica qualcosa!» sbottò Durant.
Io mi guardai allo specchio e vidi John Merrill Ferguson. John Merrill Ferguson, uno degli uomini più ricchi e potenti del mondo! Nessuno poteva permettersi di dire a John Merrill Ferguson quello che doveva o non doveva fare.
Indicai la porta.
«Fuori dai piedi, Joe!» ringhiai. «E anche tu, Mazzo! Adesso voglio parlare a mia moglie.»

4

Ero in piedi accanto alla scrivania e avevo gli occhi sempre fissi su Loretta Merrill Ferguson.
Dopo il mio sfogo, Durant, rosso in viso, aveva iniziato a dare in escandescenze, ma Loretta Merrill Ferguson lo aveva zittito con un cenno della mano.
«Andatevene» aveva detto con una voce che sembrava lo schiocco di una frusta.
Sia Durant che Mazzo avevano lasciato la stanza, chiudendo piano la porta.
Adesso eravamo soli.
Lei mi studiò per qualche secondo, poi si diresse verso un divano e si sedette.
«Si tolga quella maschera. Voglio vedere che faccia ha.»
Andai in bagno e mi tolsi accuratamente le sopracciglia e i baffi, poi mi sfilai la maschera. Mi lavai il viso sudato e tornai in salotto.
Stavo in piedi accanto alla scrivania mentre lei mi guardava come un macellaio potrebbe guardare un trancio di bue, ma io ero talmente abituato a ricevere gli sguardi indagatori di registi, agenti e operatori che la cosa non mi faceva né caldo né freddo. Attesi, e mentre attendevo, la fissai dritto negli occhi. L'intensità del mio sguardo parve sconcertarla, perché dopo aver cercato di costringermi ad abbassare gli occhi, fu lei a guardare in un'altra direzione. Per me era una piccola vittoria.
«Si sieda!» Di nuovo quella nota perentoria nella sua voce.
Andai deliberatamente alla grande finestra e guardai in basso verso l'enorme prato immacolato, volgendole appena le spalle.
«Le ho detto di sedersi!» sbottò lei.
«Questo è un posto davvero meraviglioso, signora Ferguson, ma lei è ancora più stupenda» dissi. Poi estrassi il pacchetto di Chesterfields, presi una sigaretta e l'accesi. Non mi voltai, ma continuai a guardare il giardino, la grande piscina e i tre giardinieri cinesi che curavano le aiuole.
«Quando le dico di fare qualcosa, esigo di essere obbedita! Si sieda!»
Mi volsi e le sorrisi. Mazzo mi aveva avvisato a proposito di quella donna, ma io ero intenzionato a non farmi dominare da lei.
«Mi pagano mille dollari al giorno per impersonare suo marito, signora Ferguson. Io ho accettato di collaborare per quei soldi, ma non intendo ricevere ordini da nessuno, anche dalla donna più bella che abbia mai visto in vita mia, se non ha la buona creanza di dire "per favore".»
Lei rimase seduta a fissarmi per un lungo attimo, poi si rilassò all'improvviso e divenne molto più femminile. Il cambiamento fu impressionante. Il suo viso duro e arrogante si ammorbidì, gli occhi si accesero di una luce meno ostile e la bocca si schiuse in un sorriso.
«Finalmente un uomo come si deve!» esclamò, forse più rivolta a se stessa che a me. Poi diede un colpetto al divano e aggiunse: «Si sieda qui, per favore.»
Nonostante fossi solo un attore da strapazzo, e per giunta disoccupato, non fui per nulla ingannato da quel repentino mutamento. Avevo frequentato troppo a lungo certe autentiche streghe, che prima mi facevano sfuriate inverosimili, e un attimo dopo diventavano dolci come il miele. Una volta avevo visto una primadonna, che non era molto migliore di una puttana, mettersi a fare delle incredibili sfuriate sul set mentre il regista cercava di calmarla e io morivo dalla voglia di assestarle un calcione nel sedere. Le donne che erano troppo ricche e troppo belle, o che si comportavano in maniera sgarbata, meritavano tutte una bella lezioncina.
Mi diressi verso una poltrona di fronte alla signora Ferguson e mi accomodai, mettendo bene in chiaro con quel gesto il fatto che non mi sarei seduto accanto a lei.
«Sono a sua disposizione, signora» dissi.
«Potrei anche prenderla alla lettera, signor Stevens» disse lei, ancora sorridendo. «Che ne direbbe se chiamassi quello scimmione e gli ordinassi di romperle il suo bel faccino?»
Io le sorrisi di rimando. Era il sorriso che riservo ai bambini viziati.
«Vada pure a chiamarlo, se vuole. Noi due abbiamo già chiarito chi è l'uomo e chi il ragazzino. E durante il chiarimento, lui è finito lungo disteso per terra.»
Lei si appoggiò alla spalliera del divano e rise, sporgendo i seni all'infuori. Era una splendida risata argentina, così contagiosa che anch'io fui costretto a sorridere. Quando smettemmo, la signora Ferguson disse: «Lo sa che lei è davvero un tipo fantastico? Proprio una bella scoperta.»
Un altro cambiamento d'umore? C'erano occasioni in cui avrei desiderato sapere un po' meno cose sulle donne. Quante volte ero rimasto disilluso? Se quelle non riuscivano a trovare la strada in un modo, provavano e riprovavano fino a quando non avevano successo.
«Signora Ferguson» dissi «se ha qualche istruzione per me, sarei felice di sentirla.»
Il suo sorriso si affievolì e negli occhi le comparve una nota di diffidenza.
«Ovviamente, lei mi è ostile» disse «e questo posso capirlo. Mia suocera crede di essere una specie di dittatrice. Ma le assicuro che non è stata una mia idea quella di farla rapire.»
Provai un piccolo trionfo. Si era messa sulla difensiva, perlomeno.
«Il sequestro di persona è un reato federale, ma lasciamo perdere» dissi. «In fondo, sono ben pagato, perciò non mi lamento. Ho dato il mio consenso all'idea di impersonare suo marito. A proposito, è soddisfatta dei risultati?»
«Direi che sono eccellenti, ma la voce non va bene. Forse sarà necessario che parli con qualche persona al telefono. Riuscirà a imitare la voce di mio marito?»
«Non so cosa dirle, ma immagino che prima dovrei sentirla. In ogni caso, non credo che sarà un problema. Qualche tempo fa, ero stato assunto da un night club con l'incarico d'imitare le voci di personaggi noti.» A quel punto, mi lanciai in un'esibizione a beneficio della signora Ferguson, imitando le voci di Lee Marvin, di Richard Nixon e di Sir Winston Churchill.
Lei mi guardò molto interessata.
«Ma è fantastico!» disse in un tono che mi fece capire che non stava fingendo. «Adesso le faccio portare un nastro con la voce di mio marito, così potrà sentirlo.» Si alzò e mi sorrise. «Ci rivedremo quando sarà convinto di poter imitare anche la voce di John, signor Stevens.»
«È solo un suggerimento, badi bene» dissi mentre mi alzavo. «Non so come chiami suo marito, ma non sarebbe più sicuro che chiamasse anche me in quel modo?»
Lei mi fissò, ma mi parve che il suo sguardo fosse diventato improvvisamente lontano.
«Lo chiamo John e lui mi chiama Etta.»
«Bene. Aspetterò, Etta» dissi.
Dalla mia lunga e spesso deprimente associazione con il gentil sesso, capisco molto bene quando una donna comincia a eccitarsi. Me ne rendo conto dall'ammorbidirsi dell'espressione, dal leggero rossore sul viso, dallo sguardo invitante che le compare negli occhi. Quei segni erano tutti presenti, e io sapevo che mi restava solo da superare la barriera causata dalla differenza sociale. Fatto quello, avrei potuto stringere tranquillamente la signora Ferguson tra le braccia e lei non avrebbe opposto resistenza, ne ero certo. Ma per quanto fosse potente quella tentazione, non era ancora giunto il momento.
Così mi limitai a sorriderle e mi diressi verso la finestra.
Guardai il giardino per diversi minuti, poi mi voltai.
Lei non c'era più.
Mi venne voglia di bere. Andai al frigo bar e mi versai un'abbondante dose di whisky. Poi mi sedetti con il bicchiere in mano. Sentivo in cuor mio che Loretta Merrill Ferguson non sarebbe stata un problema.
Mezz'ora dopo, mentre ero ancora seduto e stavo pensando alla situazione, entrò Mazzo.
«Te la stai cavando egregiamente, signor Ferguson» disse con un sogghigno. «Personalmente, credo che la signora F. provi una certa simpatia per te.» Si diresse alla scrivania e inserì una cassetta in un registratore portatile. «Mi ha detto di farti avere questo. È un nastro su cui è incisa la voce del capo. Cosa vuoi per pranzo? Lo chef sta preparando una zuppa di pesce. Ti va bene?»
«Benissimo» risposi, alzandomi e puntando verso la scrivania.
«Sai come funziona questo? Devi solo premere il pulsante dove c'è scritto "play".»
«Lo so.»
Lui annuì e se ne andò.
Mi sedetti alla scrivania, premetti il pulsante e ascoltai la voce dell'uomo che stavo impersonando. Era una voce piuttosto distinta, che aveva una nota di autorità. Ferguson stava ovviamente dettando qualcosa al suo broker. Io non mi preoccupai di prestare attenzione alle parole, ma mi concentrai sull'intonazione, sulle pause, sul timbro vocale. Ero sicuro che sarei riuscito a produrre una buona imitazione. Ascoltai il nastro quattro volte. Poi, visto che sulla cassetta c'era ancora un po' di spazio, premetti il pulsante "record" e, imitando la voce di Ferguson, ordinai a un certo signor Bond di vendere azioni e a un certo signor Share di acquistarne altre, proprio come aveva fatto il vero Ferguson fin quasi alla fine del nastro. Poi feci riavvolgere la cassetta e mi preparai ad ascoltarla dall'inizio per la quinta volta. Lasciai la scrivania, mi diressi alla finestra e guardai fuori mentre sentivo la voce di Ferguson. Distinsi il momento in cui avevo cominciato a registrare solo per il fatto che sentii i nomi di Bond e di Share, che avevo espressamente inventato. Mentre premevo il pulsante "stop", Mazzo entrò col carrello.
«Ha un ottimo odore, Mazzo» dissi, imitando la voce di Ferguson. «Spero che anche il sapore sia soddisfacente.»
Lui stava apparecchiando. Lasciò cadere per terra le posate e si girò verso di me, guardandomi con un'aria stupefatta.
«Gesù, per poco non mi hai fatto venire un colpo!» esclamò. «Avrei giurato...»
«Sbrigati, Mazzo» dissi, sempre imitando la voce di Ferguson. «Ho fame.»
Lui rimase in piedi a fissarmi con la stessa espressione ebete di prima.
«Adesso hai anche la stessa voce del capo» disse.
«Be', devo imitarlo in tutto e per tutto, no?» Mi sedetti al tavolo. Vicino al mio piatto c'era un'altra nota di accredito per mille dollari. Mentre la riponevo nel portafogli, dissi con la mia voce: «Coraggio, Mazzo, non startene lì a fissarmi con quella faccia da pesce bollito. Come devo dirtelo che ho fame?»

Trascorsi il pomeriggio a giocare a tennis con Mazzo. Naturalmente, portavo sempre la maschera.
C'erano quattro campi da tennis sul retro della casa, tutti schermati da alte siepi. Mazzo era una specie di fenomeno, e io mi ritenni fortunato a strappargli due giochi in tre set. Mentre stavo recuperando una pallina, mi capitò di alzare lo sguardo e notai Loretta. Era in piedi su un balcone e mi guardava. Le feci un cenno di saluto con la mano, ma lei non me lo restituì. Quando alzai gli occhi la volta seguente, Loretta non c'era più.
Dopo aver terminato di giocare, io e Mazzo ce ne tornammo a casa.
«Se incrociamo il maggiordomo» disse Mazzo «non ti fermare. Si chiama Jonas. È molto miope, ed è abbastanza vecchio da avere già un piede nella tomba.»
Mentre mettevamo piede nel grande atrio, io vidi un negro molto alto e dall'aria solenne, con una chioma candida come la neve, dirigersi verso il salotto principale.
«Buon pomeriggio, signor Ferguson» mi salutò, fermandosi un attimo. «Posso dirle quanto mi fa piacere rivederla?»
Imitando la voce di Ferguson, dissi: «Anche a me fa piacere rivederti, Jonas.»
Quando fummo in cima alle scale, Mazzo disse: «Molto bene. Te la stai cavando alla perfezione.»
Mi lasciò nella mia suite; io mi tolsi subito la maschera e mi feci un'altra doccia. Poi, infilandomi un accappatoio, mi sdraiai sull'enorme letto. Cercai di ammazzare il tempo pensando alla mia situazione.
Alle sette, mentre sonnecchiavo, sentii un segnale acustico. Proveniva dal salotto. Scivolai fuori dal letto e vidi una lucetta rossa lampeggiare sull'interfono sopra la scrivania. Premetti il pulsante col pollice e dissi, imitando la voce di Ferguson: «Che cosa c'è?» Poi, pensando che fosse Loretta, aggiunsi: «Sei tu, Etta? Aspettavo che mi chiamassi.»
Sentii un rapido sospiro all'altro capo della linea.
«Fantastico!» esclamò lei. «Stasera ceneremo col signor Durant alle nove, in sala da pranzo. Mettiti la maschera, naturalmente. Mazzo mi ha detto che Jonas se l'è bevuta in pieno. Questa è la grande prova... John» e riagganciò.
Ma una prova del genere richiedeva almeno un Martini molto secco. Andai al frigo bar, ma mi accorsi che non c'era ghiaccio. Esitai un istante, poi mi diressi verso la scrivania con l'interfono e lessi le didascalie sotto i vari pulsanti. Quando trovai la parola "maggiordomo", premetti il bottone. Dopo qualche secondo, Jonas rispose.
«Sono rimasto senza ghiaccio, Jonas» dissi con la voce di Ferguson.
«È nello scompartimento in basso del mobile, signore» disse lui. «Vengo subito.»
Mi presi a male parole per essere stato così stupido.
«No, non ce n'è bisogno. Ho da fare. E poi va tutto bene.» Riagganciai.
Ecco cosa succede ad avere troppa fiducia in se stessi, mi dissi, aprendo lo sportello del mobile sotto le varie file di bottiglie. E lì, in effetti, trovai il ghiaccio.
"Che cos'avrà pensato, Jonas?" mi chiesi, un po' a disagio.
Mentre miscelavo il drink, sentii bussare alla porta. Spostandomi in fretta verso la finestra, le mani appiccicose dal sudore, dissi: «Avanti.»
«Signore, posso prepararle un drink?» chiese Jonas.
Sempre stando con le spalle ben voltate, perché non avevo indosso la maschera, scossi la testa.
«Va tutto bene, grazie. Adesso lasciami solo, per favore, ho del lavoro da fare.»
«Sì, signor Ferguson.» Sentii che la porta si chiudeva.
Bevvi tre quarti del Martini, posai il bicchiere sulla scrivania e mi asciugai il viso col fazzoletto, quindi terminai il drink e me ne preparai un altro.
Dopo tre Martini, ero tornato perfettamente calmo. Pochi minuti dopo le otto, fece la sua comparsa Mazzo.
«È una cena importante, signor Ferguson» disse sorridendo. Si diresse verso uno degli armadi e ne tirò fuori uno smoking. «Perciò ci vuole un vestito importante.» Produsse anche una camicia bianca ornata di pizzi e un papillon nero. «Meglio che vai a rifarti la faccia.»
Andai in bagno e mi misi la maschera. Ormai stavo diventando un vero esperto in questo tipo di esercizio. Dopo che ebbi terminato di truccarmi, mi diede molta fiducia in me stesso vedere nuovamente allo specchio la faccia di John Merrill Ferguson.
Tornando in camera da letto, m'infilai lo smoking. Mentre stavo facendo il fiocco al papillon, Mazzo disse: «Jonas dirigerà il servizio a tavola. Ci saranno due donne a dargli una mano, ma tu non devi preoccuparti. Quelle due non conoscono Ferguson, e Jonas è mezzo cieco. Però devi tenere bene a mente due cose: il capo non ha mai molto appetito, perciò non abbuffarti come un maiale. L'altra cosa è che il capo parla sempre poco a tavola, quindi non attaccare bottone con nessuno, chiaro?»
«Chiarissimo» risposi.
«Ah, dimenticavo: il capo non beve e non fuma.»
«Dev'essere proprio uno stinco di santo» commentai. «Cosa fa nel tempo libero?»
Mazzo sogghignò.
«C'è la signora F.»
Già, c'era Loretta. Ripensando a lei, mi sentii il sangue ribollire: era la donna più maledettamente sexy che avessi mai incontrato in vita mia.
Quando mancavano pochi minuti alle nove, Mazzo mi scortò lungo le scale e da lì in una sala da pranzo talmente grande che avrebbe potuto ospitare un centinaio di persone senza il minimo problema.
Loretta, che aveva un'aria meravigliosa nel suo abito da sera rosso scuro ampiamente scollato, con guarnizioni di brillanti, sedeva in una poltrona. Durant, che indossava lo smoking, stava in piedi accanto al caminetto vuoto e fumava un sigaro. Jonas era in continuo movimento.
Al centro della sala, c'era un tavolo apparecchiato per la cena.
Appena mi vide, Loretta si alzò, mi venne vicina e mi offrì la guancia. Io la sfiorai con le labbra, annusando il suo sottile profumo.
«Sperò che tu abbia appetito stasera, John. Lo chef ha preparato un nuovo piatto.»
Ricordando quello che mi aveva detto Mazzo, scrollai stancamente le spalle.
«Devi cercare di mangiare» disse Loretta, sorridendomi.
Consapevole che tutta quella sceneggiata era a beneficio di Jonas, io mi strinsi di nuovo nelle spalle.
Ci sedemmo a tavola e mi venne subito presentata una mousse d'aragosta. I miei succhi gastrici entrarono prontamente in azione. Poi sentii che Mazzo, in piedi alle mie spalle, si era messo a tossire piano.
Con aria riluttante, dissi: «Non mi va.» Ma temo che il mio sguardo esprimesse una voracità incontenibile.
Come se si aspettasse un'uscita del genere da parte mia, Jonas portò via il piatto e lo sostituì con un'insalata mista. Io giocherellai con l'insalata mentre osservavo Loretta e Durant mangiare la mousse. Ero decisamente invidioso.
Loretta s'imbarcò in una conversazione, per lo più futile, che non richiedeva repliche da parte mia. Di tanto in tanto, Durant faceva qualche osservazione d'affari mentre io annuivo per fargli capire che lo stavo ascoltando.
Poi mi venne presentato un piatto che aveva un profumo delizioso. Diedi un'occhiata al contenuto: pollo con tartufi in una ricca salsa cremosa.
«Un pezzettino, signor Ferguson?» Jonas cercava di persuadermi come avrebbe potuto fare una madre con un bambino capriccioso.
Un pezzettino?
Maledizione! Me lo sarei divorato tutto da solo!
«Sembra buono» dissi, sentendo che alle mie spalle Mazzo si era messo di nuovo a tossire. Al diavolo anche lui, pensai. «Sì, credo che lo assaggerò.»
Jonas mi servì un pezzetto di petto.
«Coraggio, Jonas, non fare lo spilorcio» dissi.
Loretta e Durant mi rissavano esterrefatti, mentre Mazzo continuava a tossire come un ricoverato in una clinica per tubercolotici.
Jonas era raggiante mentre mi metteva nel piatto altri pezzi di pollo.
«Molto bene, Jonas» dissi quando vidi che il piatto era ormai colmo.
Poi Jonas servì Loretta e Durant, che sedevano in un gelido silenzio.
Mentre masticavo di gusto, cercai di fornirgli una spiegazione.
«Quelle nuove pillole mi hanno fatto migliorare l'appetito» dissi, rivolto a Loretta.
«Sono contenta» commentò lei con un sorriso freddo.
«Le mie congratulazioni allo chef, Jonas» dissi mentre mi rimpinzavo. Poi mi voltai verso Durant e aggiunsi: «È incredibile quello che riescono a fare queste pillole moderne.»
«Già» ringhiò lui.
Non poteva importarmi di meno del suo umore. Terminai quello che era rimasto nel mio piatto. Loretta e Durant avevano già posato coltelli e forchette. Jonas mi si avvicinò e disse: «Un altro pezzetto, signor Ferguson?»
Mazzo fu assalito da un ennesimo attacco di tosse, ma io fui ben lieto d'ignorarlo.
«Perché no?» dissi. «È squisito.»
Al termine della cena, dopo aver mangiato due porzioni di torta di mele che Durant e Loretta avevano rifiutato, il primo lanciandomi un'occhiataccia, la seconda sorridendomi, mi alzai da tavola. Gli altri mi seguirono subito.
Durant si diresse in salotto.
Sentendomi rilassato e con la pancia finalmente piena, scortai Loretta sulla porta del salotto, poi mi fermai. Vidi che Durant si era piazzato in una poltrona e stava accendendosi un sigaro.
Non avevo nessuna intenzione di trascorrere il resto della serata con lui.
«Credo che me ne andrò a letto» dissi, fissandola negli occhi.
Lei sorrise.
«Ti sei comportato splendidamente, John» disse. «Dormi bene.» Poi mi passò davanti e andò a raggiungere Durant.
Con Mazzo alle calcagna, tornai nella mia suite.
«Senti, amico» iniziò lui appena chiusi la porta «ti avevo detto...»
«Chi diavolo credi di essere per parlarmi così?» gli chiesi, girandomi di scatto. «Chiudi il becco e vattene subito fuori dai piedi!» Entrai con passo deciso in camera da letto e gli chiusi la porta in faccia.
Rimasi un po' sulla soglia, temendo che entrasse a farmi una scenata, ma lui se ne guardò bene. Dopo qualche secondo, mi diressi in bagno, mi tolsi la maschera, feci una doccia, m'infilai il pigiama e andai a letto.
Spensi tutte le luci eccetto quella minuscola sopra la testiera del letto, poi cercai di rilassarmi e riandai con la memoria agli eventi delle ultime ore.
Mi pareva che durante l'intera giornata me la fossi cavata a meraviglia. Avevo superato il test con Jonas, e quello era importante. Inoltre, adesso avevo quattromila dollari in banca. Stavo tenendo Mazzo sotto controllo e avevo dato una piccola strigliata persino a Durant. Sì, era stata una giornata proprio soddisfacente.
Chiusi gli occhi e lasciai che la mia mente indugiasse su Loretta. Stavo ancora pensando a lei quando fui vinto dal sonno. Dormii per parecchie ore, o così mi parve, poi mi svegliai di soprassalto.
La stanza era immersa nelle tenebre.
Sentii il calore di un corpo nudo premuto accanto al mio. Una mano prese ad accarezzarmi gentilmente.
Ancora mezzo addormentato, mi stesi e le rotolai sopra, lasciando che la sua mano mi guidasse dentro di lei.

«No, non muoverti. Resta fermo.» Stava sussurrandomi, il viso premuto contro il mio. Mi teneva saldamente dentro di sé. Io cercai di non schiacciarla reggendomi sui gomiti.
«No, non farlo. Sdraiati su di me. Completamente» mormorò, così mi lasciai andare. Mi sentivo svuotato, come se avessi appena vissuto un sogno erotico.
Dopo, molto dopo, con la luce dell'alba che filtrava dalle imposte chiuse, mi svegliai di nuovo. Ero sdraiato accanto a lei e adesso, nel lieve ma diffuso chiarore, riuscivo a vederla. Loretta era sveglia e mi guardava, sul viso un sorrisino di saluto per il fatto che ero appena uscito da un lungo sonno ristoratore.
«Ciao, Jerry» disse.
Io l'abbracciai e la spinsi contro di me.
Facemmo di nuovo l'amore, meravigliosamente, poi mi addormentai un'altra volta.
Il sole era già alto nel cielo quando riaprii gli occhi.
Loretta stava parlando a Jonas, che era entrato con il carrello. Si era messa una veste da camera turchese e i suoi capelli corvini stile Cleopatra erano immacolati.
Mentre la guardavo, seminascosto sotto il lenzuolo, pensai che era la donna più affascinante del mondo.
Jonas versò il caffè senza guardarmi, poi fece un inchino sussiegoso e si congedò.
Rotolai fuori dal letto.
Lei si era seduta accanto al carrello, sorseggiando il caffè. Mi sorrise quando vide che la raggiungevo.
«Dormito bene, Jerry?»
Mi sedetti, bevvi qualche sorso di caffè a mia volta e poi accesi una sigaretta.
«Una donna eccezionale per una notte eccezionale» commentai, forse in modo un po' scontato.
Lei sorrise.
«John non mi avrebbe mai detto una cosa del genere, ma in fondo lui non è un tipo molto romantico.»
La guardai negli occhi.
«Dov'è tuo marito?»
«Sì, è giunto il momento che lo sappia anche tu. Dammi una sigaretta.»
Io accesi un'altra sigaretta e gliela porsi. Dopo una lunga pausa, lei disse: «Jerry, questa è una faccenda difficile e terribilmente complicata. Non devo dirti chi è mio marito e che posizione occupa, no?»
«Ormai lo so bene anch'io» osservai.
«Comunque, tutto quello che ti dirò adesso è strettamente confidenziale» precisò lei, fissandomi intensamente. «Chiaro?»
«Chiarissimo.»
«John soffre di un'oscura malattia mentale e non ha nessuna speranza di guarire. La malattia lo ha aggredito due anni fa. È iniziata con una perdita di memoria, un senso di vaghezza diffuso e una stanchezza mortale. Il progresso della malattia è lento. Stava già cominciando a diventarne vittima quando l'ho conosciuto. Credevo che fosse preoccupato per gli affari, e quando la sera si coricava con me tolleravo i suoi lunghi silenzi, pensando che stesse progettando qualche nuova transazione. Sei mesi fa la sua salute ha cominciato a deteriorarsi in fretta, e a sua madre è venuto il sospetto, molto prima di me, che John stesse diventando un malato di mente. C'è uno specialista a Vienna che ci ha assicurato la sua discrezione. Ha esaminato il paziente e ha detto a sua madre e alla sottoscritta che entro pochi mesi John sarebbe diventato una specie di vegetale. In breve, non c'è alcuna speranza di poterlo curare.»
«È terribile» dissi. «Non mi pare vero.»
«Già, ma ci sono pure alcune complicazioni. È assolutamente necessario tenere segreta la notizia della malattia. È questa la ragione per cui sei stato chiamato a impersonarlo: per darci il tempo e il modo di ricostruire l'impero dei Ferguson. Ed è un impero fantastico quello messo su da John, sai. Durant era ed è il suo braccio destro, ma nemmeno lui è stato messo a parte di un certo numero di affari segreti e importanti che John ha negoziato. Adesso che John non è più in grado di farsi vedere in pubblico, Durant sta cercando di mettere insieme tutti i pezzi del mosaico, cioè di conoscere esattamente le proporzioni dell'impero economico dei Ferguson. Ma poco dopo aver iniziato gli accertamenti, si è accorto che senza John al timone, senza la sua firma su vari documenti, quell'impero potrebbe crollare.»
Stavo ascoltandola con la massima attenzione.
«Perché mai dovrebbe crollare?» le chiesi.
«John ha fatto il passo più lungo della gamba. Ha preso in prestito somme enormi dalle banche e da varie assicurazioni. Lui ha una reputazione immensa, certo, e il suo nome è oro zecchino, ma se in giro si sapesse che era mentalmente malato all'epoca di quelle transazioni, i suoi creditori vorrebbero subito riavere le somme prestate. Ci sono molti grossi affari che devono essere ultimati entro un mese, e la firma di John è essenziale. Appena sistemiamo quelli, potremo far circolare la notizia che John è malato, sia pure con molta prudenza; poi, alla fine, diremo che non è più in grado di reggere il timone. Entro quella data, Durant avrà reclutato un nuovo consiglio d'amministrazione con se stesso al posto di John, e l'impero dei Ferguson continuerà a prosperare.»
«Un'ottima cosa per Durant» dissi, riflettendo.
«Già.» Loretta mi guardò. «Sei un amante meraviglioso, Jerry.»
«Anche tu» dissi io, sorpreso dal suo improvviso cambiamento d'umore.
«Ti ho guardato con attenzione, e devo dire che ti sei calato nella parte di John in modo straordinario. Ci sono dei momenti in cui mi sembra persino che tu creda di essere John Merrill Ferguson, più che impersonarlo semplicemente.»
Le rivolsi un sorrisino.
«Sai com'è, noi attori a volte esageriamo un po'.»
Mi esaminò con grande attenzione.
«Il travestimento è meraviglioso. La voce perfetta. Potresti davvero essere John.»
«Ma non lo sono.»
«Ho solo detto che "potresti" esserlo.»
La guardai. Ci fu una lunga pausa. Sentii un improvviso brivido di eccitazione.
«Sì, forse potrei.» Ci guardammo di nuovo, poi dissi: «C'è qualcosa che dovrei sapere. Dov'è tuo marito?»
«Nell'ala sinistra della villa. Ha la sua suite personale, e un infermiere lo segue giorno e notte. È ben pagato e assolutamente affidabile.»
Pensai a Larry Edwards e a Charles Duvine. Mi chiesi se, quando la notizia della malattia mentale di Ferguson si fosse risaputa, anche quell'infermiere non avrebbe avuto un incidente fatale.
Quella donna stupenda e sensuale, che sedeva vicino a me e che mi stava raccontando un mucchio di segreti, non mi dava alcuna fiducia. Una volta che avessi fatto quello che volevano loro, avevo la sensazione che anch'io sarei stato assassinato.
Lei guardò l'orologio sopra la mensola del camino.
«Devo andare. Stamattina ti porteranno in ufficio con Durant.» Si alzò sorridendomi, poi fece il giro del carrello mentre mi alzavo e si avvicinò a me. La presi tra le braccia.
«Devo venire, stasera?» Il suo bacio era morbido e invitante.
«Certo. Mazzo sa cosa bolle in pentola?»
«Non preoccuparti di lui.» Si staccò da me e aggiunse: «Ricorda, Jerry, tu potresti essere John.» Poi, voltandosi, se ne andò.
Io tirai un lungo e profondo sospiro. Cosa diavolo aveva voluto dire con quel "potresti essere John"? Stava architettando qualcosa, questo era certo, ma cosa? Avevo tempo. Mi servivano tutte le informazioni che avrei potuto raccogliere da lei. Ero certo di trovarmi in equilibrio su una corda sospesa nel vuoto. Ora sapevo che Ferguson era con un infermiere nell'ala sinistra di quella enorme villa e che stava trasformandosi rapidamente in un vegetale. Loretta mi aveva rivelato che l'impero economico del marito era stato costruito sul denaro preso in prestito dalle banche e da altri finanzieri, e una semplice soffiata sulle condizioni di salute di Ferguson avrebbe potuto distruggere quell'impero dalle fondamenta.
Mazzo entrò proprio mentre facevo quelle riflessioni.
«Oggi andiamo in ufficio, signor Ferguson» disse. «Meglio mettere la maschera.»
Venti minuti dopo, vestito di tutto punto con un abito d'affari scuro, un cappello e un paio di occhiali neri, più naturalmente la solita maschera, seguii Mazzo giù per le scale. All'esterno, ci aspettava la Rolls.
Durant era già seduto in macchina e stava leggendo alcune carte. Io mi accomodai al suo fianco.
Mazzo salì accanto all'autista giapponese.
Mentre Durant riponeva le carte nella borsa portadocumenti, disse: «Ci sono sempre i soliti paparazzi che aspettano fuori dalla villa. Quando scende dall'auto, vada avanti con Mazzo. Le guardie del corpo terranno i curiosi a distanza. Dovrà firmare alcune carte, una volta in ufficio. La sua nuova segretaria è Sonia Malcolm. Lei non ha mai visto il signor Ferguson, perciò non ci saranno problemi. Non incontrerà nessun altro membro del personale.»
«Molto bene, Joe.»
Lui mi si rivoltò contro.
«Le ho detto di chiamarmi signor Durant, quando siamo soli!» sbottò.
Sentendomi sicuro di me, dietro il paravento della maschera, gli sorrisi.
«Non parlarmi mai più in quel modo, Joe. Io sono il capo... non te lo ricordi più?»
Come se fosse sul punto di avere un colpo, lui disse con voce soffocata: «Stammi bene a sentire, lurido guitto da quattro soldi...»
Lo interruppi perentoriamente.
«Chiudi quella maledetta boccaccia!» ringhiai con la voce di Ferguson. «E ascoltami tu, piuttosto! I giornalisti ci stanno aspettando. Non devo far altro che togliermi la maschera e tu ti troveresti nella merda fino al collo. Perciò piantala di darmi addosso, altrimenti a rimetterci sarai solo tu.»
Lui mi fissò nel modo in cui Frankenstein doveva aver fissato il mostro a cui aveva dato vita. Aprì la bocca e la richiuse, ma non disse niente. Ci guardammo negli occhi per qualche secondo, in una sfida mortale, poi lui distolse lo sguardo e sbirciò fuori dal finestrino della macchina.
Diavolo, potevo essere proprio soddisfatto di me stesso!
"Ricorda, Jerry, tu potresti essere John."
Be', almeno stavo tentando.

Fu una mattinata tranquilla. Io giocai a fare la parte del miliardario, e la cosa mi piacque.
C'erano quattro fotoreporter all'ingresso della Ferguson Electronic & Oil Corporation, ma cinque guardie del corpo decise a tutto li fecero allontanare non appena entrai nell'atrio dell'edificio.
L'ufficio di John Merrill Ferguson sembrava uscito da un set cinematografico: c'erano grandi e lussuose finestre panoramiche che davano sul porto e sulla spiaggia, poi un'enorme scrivania e via discorrendo. Lì dentro, tutto sembrava di proporzioni colossali.
L'ascensore ci aveva condotto direttamente in quella stanza. Durant si era subito avvicinato alla scrivania.
«Si sieda qui. Ci sono molti documenti che deve firmare.» Adesso si era calmato e sembrava tornato normale. «Meglio che faccia ancora un po' d'esercizio con la firma. Queste carte sono estremamente importanti.»
Diedi a Mazzo il mio cappello, poi mi diressi verso la poltrona di Ferguson e mi accomodai. La scrivania era così grande che avremmo potuto giocarci a biliardo.
Durant mi guardò come un regista guarda un attore nel decidere una certa angolazione di ripresa.
«Abbassa le veneziane» disse a Mazzo.
Quando la stanza divenne un po' più buia, lui annuì e se ne andò.
Ci fu una lunga pausa mentre scrivevo la firma di Ferguson su un taccuino, esercitandomi. Quando fui soddisfatto, gettai i foglietti nel cestino delle cartacce accanto a me e presi una sigaretta da un portasigarette d'oro.
«Il capo non fuma» disse Mazzo.
«Ma la nuova segretaria non lo sa. Stai calmo e rilassati, Mazzo.»
Sentii bussare alla porta e subito dopo entrò una ragazza che portava una pila di cartelline.
«Buon giorno, signor Ferguson» disse, avvicinandosi alla scrivania. «Dovrebbe firmare tutte queste carte, per favore.»
Io mi appoggiai allo schienale della poltrona e la guardai.
Era una bella donna, senza essere uno schianto: alta, ben fatta, con i capelli color rame annodati sulla sommità del capo, i lineamenti graziosi e due grandi occhi verdi. Indossava un abito azzurro con un colletto e i polsini bianchi.
«Lei dev'essere la signorina Malcolm, è esatto?» dissi.
«Sì, signor Ferguson.» Mi guardò in viso.
«Spero che si troverà bene qui, signorina Malcolm.»
«Grazie.»
Lasciò le cartelline sulla scrivania.
In quell'esatto istante, entrò Durant.
«Molto bene, signorina» disse seccamente. «Prepari subito quel contratto in bella copia.»
«Sì, signore.»
La osservai mentre attraversava la stanza, ammirando la sua andatura aggraziata, i suoi fianchi magri e la sua schiena diritta.
Quando se ne fu andata, Durant disse: «Mi faccia vedere la firma.»
Firmai col nome di Ferguson e spinsi il foglietto dall'altra parte della scrivania, in modo che lui potesse vederlo. Durant lo esaminò e annuì.
«Adesso firmi tutte queste lettere e carte varie» disse, indicando la pila delle cartelline. Poi si rivolse a Mazzo e aggiunse: «Resta seduto vicino a lui. Non deve leggere niente di quello che firma, chiaro?»
«Chiarissimo, signor Durant» disse Mazzo, accostando una poltroncina alla scrivania. Poi si sedette accanto a me.
«E faccia molta attenzione a come firma» proseguì Durant, stavolta rivolgendosi a me. «Ci metta tutto il tempo che le serve e non commetta leggerezze.»
«D'accordo, Joe» dissi, allungando il braccio verso la prima pratica.
«Ci penso io» intervenne Mazzo. Estrasse un foglio di carta da un cassetto, aprì la cartellina e tirò fuori una lettera. Poi usò il foglio per coprire il contenuto della lettera. «Firmi qui, signor Ferguson.»
Durant osservò l'operazione per qualche momento, poi se ne andò.
Il ritornello delle firme andò avanti per due ore, durante le quali mi concessi lunghe pause per far riposare le mani e fumare un'occasionale sigaretta. Suppongo di aver firmato più di un centinaio di lettere e almeno una cinquantina di documenti legali.
Quando non rimase più niente da firmare, Mazzo premette un pulsante sull'interfono e disse: «Venga a prendere i documenti, per favore.»
La signorina Malcolm entrò e raccolse tutte le cartelline.
«Un caffè, signor Ferguson?» mi chiese, facendo una pausa studiata per lanciarmi un sorrisino.
«Ottima idea» risposi. «Grazie.»
Dopo la sua partenza, Mazzo mi disse in un tono di voce che esprimeva chiara disapprovazione: «Il capo non beve mai caffè.»
«Oh, piantala con questa storia!» sbottai. «Lei è come me: è nuova qui dentro.»
Mazzo scrollò le spalle e si sedette lontano dalla scrivania, grattandosi la testa. Sembrava piuttosto annoiato.
Io mi divertii a esaminare tutti gli oggetti sulla scrivania e i vari pulsanti situati in un apposito pannello. Non avevo idea della loro funzione, ma il fatto è che mi intrigavano.
La signorina Malcolm tornò col caffè.
«Vuole del latte, signor Ferguson?»
«No. E nemmeno zucchero.»
La osservai mentre versava il caffè. Più la vedevo, più mi piaceva. Cercai di indovinarne l'età: forse trenta o trentacinque. Le guardai il dito per controllare se avesse la vera nuziale, ma non vidi nulla.
Lei posò la tazza davanti a me.
«C'è altro, signor Ferguson?»
Le sorrisi. Mi sarebbe piaciuto molto invitarla a sedersi con me e a parlarmi un po' di lei, ma con Mazzo che cominciava ad agitarsi, non mi pareva il momento adatto.
«No, grazie.»
Lei se ne andò.
Avevo appena terminato di bere il caffè che entrò Durant.
«Voglio che faccia una telefonata» sbottò. «Qui c'è scritto quello che deve dire. Non aggiunga altro, chiaro? Ovviamente, dovrà imitare la voce del signor Ferguson.»
«Certo, Joe.»
Lui sollevò il ricevitore e disse: «Mi passi in linea Walter Bern, signorina.» Attese qualche secondo, poi annuì a mio beneficio, mi passò il ricevitore e si mise in ascolto da un altro telefono.
Leggendo dal foglio che mi aveva passato, dissi: «Qui è Ferguson. Come te la passi, Wally?»
«Santo cielo, John, è da un mucchio di giorni che cerco di parlarti!» Era una voce profonda e risonante, un po' agitata. «John, il mio gruppo sta cominciando a preoccuparsi riguardo a quel prestito. Continuano a starmi addosso. Dicono che non avrei dovuto anticiparti una somma simile. Gesù, trenta milioni di dollari! Senti, John, mi spiace, ma loro non sono molto contenti e...»
Leggendo sempre dal foglietto, lo interruppi e dissi: «Parlane con Joe. È lui che si occupa dei prestiti. Ma Wally, guarda che non c'è proprio niente di preoccupante. Se il tuo gruppo vuole perdere il quindici per cento sui trenta milioni, be', vorrà dire che mi rivolgerò da qualche altra parte.» Sempre seguendo le istruzioni, riagganciai.
Durant annuì.
«Molto bene» disse. «E adesso può tornare alla villa.»
Così, con Mazzo al mio fianco e cinque guardie del corpo che tenevano lontani i giornalisti, salii a bordo della Rolls e fui scortato nuovamente nella residenza di Ferguson.
Era stata una giornata molto interessante. Avevo conosciuto Sonia Malcolm.
Mentre l'autista guidava lungo il viale alberato, ripensai a quella donna. Per la prima volta nella vita, sentii uno strano rapporto di affinità con un mio simile. A differenza delle altre che avevo incontrato in molti anni di avventure, quella era una donna che mi sarebbe piaciuto conoscere. C'era qualcosa in lei che mi attirava. Inoltre, avevo appreso che la Ferguson Electronic & Oil Corporation si era indebitata con un gruppo per trenta milioni di dollari e che i creditori erano sul chi va là. Seduto alla grande scrivania, spostando lo sguardo in giro per quell'enorme ufficio, avevo assaporato il gusto del potere. Soprattutto, avevo dimostrato a Durant che non ero un burattino.
Sì, era stata una mattinata proprio interessante.
Pensai all'uomo che stava trasformandosi rapidamente in un vegetale, chiuso in una stanza con un infermiere.
"Jerry, tu potresti essere John."
"Sì", mi dissi, mentre la Rolls si fermava fuori dall'ingresso della residenza, "gioca bene le tue carte e potresti diventare John Merrill Ferguson."

5

Eravamo sdraiati fianco a fianco nell'enorme letto. L'orologio sul tavolino da notte segnava le tre e un quarto. La luce pilota sopra il letto gettava deboli ombre nelle quali riuscivo a intravedere la sua nudità: Loretta aveva un corpo che sembrava modellato direttamente da uno scultore.
Era entrata silenziosamente nella stanza una mezz'oretta prima, dopo di che avevamo fatto l'amore in maniera selvaggia. Ma quello non era fare l'amore, in fondo; piuttosto, era dare sfogo a un desiderio che non poteva più essere trattenuto. Quella donna era irresistibile, ma in cuor mio qualcosa mi diceva che avrei fatto meglio a non fidarmi di lei.
Stavamo lì, sdraiati l'uno accanto all'altra. L'orologio ticchettava. Restammo in silenzio fino a quando il nostro respiro non si normalizzò, poi io allungai il braccio per prendere una sigaretta.
«Vuoi fumare?»
«Sì.»
Accesi due sigarette e gliene porsi una. Mi chiesi quando se ne sarebbe andata. Avevo un sonno terribile dopo un amplesso così violento.
«Sei un amante meraviglioso, Jerry.»
«Anche tu.»
Quanto avremmo dovuto continuare ancora a ripeterci quelle banalità?
Seguì una lunga pausa, poi lei disse: «Durant è molto soddisfatto di te. Mi ha detto che hai gestito una telefonata in modo meraviglioso.»
«Sono pagato per questo, no?» dissi, chiudendo gli occhi. Perché non se ne andava?
«John peggiora sempre» disse lei. «L'ho visto anche oggi. E non mi ha riconosciuto.»
«Terribile.»
«Già.» Un'altra pausa, poi: «Dovresti sapere qualcosa di più su sua madre.»
Mi misi subito sul chi vive.
«L'hai conosciuta, no? È stata lei a predisporre il tuo rapimento. Come sai bene, è una donna spietata e pericolosa.»
Lo sapevo davvero? Be', forse sì. Mi vennero in mente le sue parole insinuanti sul mio talento di attore, poi pensai a come mi aveva drogato mettendomi nel sacco senza che nemmeno me ne accorgessi.
«È proprio un bel tipetto» dissi.
«Lei non pensa che ai soldi. Non ha nessun interesse per il figlio; l'unica cosa di cui si preoccupa sono le condizioni di salute di John. Vive a San Francisco e non viene mai a trovarlo. Telefona tutti i giorni per chiedere come sta, ma in realtà non gliene importa un accidente se John migliora o peggiora. A lei interessa solo sapere quando morirà. A quel punto, diventerà presidente della società ed erediterà tutte le sostanze del figlio. Il denaro è il suo Dio, perciò non vede l'ora che John muoia per impadronirsene.»
Adesso ero di nuovo in allerta.
«Tu sei sua moglie» dissi. «Sua madre può ottenere solo quello che lui le lascerà nel testamento. Ma non può lasciarle tutto, no? Come moglie, tu sei protetta dalla legge.»
Lei rotolò via da me per depositare il mozzicone nel portacenere. Aveva una schiena lunga e bellissima. Quella fu una manovra sensuale che non passò inosservata, così decisi di stare molto attento.
Mentre si sdraiava di nuovo sulla schiena, disse: «Ci sono due grossi problemi. Il primo è che John non ha mai fatto testamento.»
Pensai a quelle parole per alcuni secondi. Era difficile credere che un uomo come John Merrill Ferguson non avesse fatto testamento, ma ci sono persone arroganti che non sono disposte a prendere in considerazione la possibilità di morire.
«Come moglie, tu sei protetta» ripetei. «Ci sarà qualche guaio legale, certo, ma i tuoi avvocati ne verranno a capo. E poi non mi sembra troppo tardi, no? Non puoi persuaderlo a fare testamento?»
«Sarebbe inutile. Non è nemmeno più in grado di riconoscermi. Se ne sta seduto e fissa il vuoto davanti a sé.»
«Quel è il secondo problema?»
Lei si mise le mani sul seno e chiuse gli occhi.
«Posso fidarmi di te, Jerry? Noi siamo amanti, no? E due amanti dovrebbero fidarsi ciecamente.»
Dove avevo già sentito quelle scempiaggini? In qualche disastro di film dove avevo recitato anch'io?
«Se vuoi dire che qualunque cosa tu intenda riferirmi dovrà restare confidenziale, questo te lo posso concedere» dichiarai prudentemente.
«Grazie, Jerry. Sei l'unica persona a cui possa dirlo, e l'unica di cui mi fidi.»
«Allora, qual è il secondo problema?»
«Non sono sua moglie.»
Quella risposta mi fece davvero sobbalzare.
«Come sarebbe a dire?» Scivolai fuori dal letto e mi misi la veste da camera, dopo di che accesi una delle lampade schermate. La fissai, sdraiata sul letto come una di quelle splendide ragazze nel paginone di "Playboy". «Non sei sua moglie?»
«No. Vieni a sederti qui, Jerry, e lascia che ti dica tutto.»
Quello era un particolare che dovevo sapere, così mi sedetti sul bordo del letto, accanto a lei, e non opposi resistenza quando mi sentii stringere la mano.
«Vuoi dire che lui non si è mai sposato?»
«Esatto. Non si è mai sposato.» Lei fece scivolare le dita lungo il mio braccio. Perché mi pareva di sentire sulla pelle le zampe di un ragno? «Ci siamo conosciuti due anni fa. Lui era a Las Vegas e stava concludendo un affare. Voleva una donna. Io lavoravo in uno spettacolo, sai. Mazzo è venuto e mi ha assunto. Chi non sarebbe andata a letto con uno degli uomini più ricchi al mondo? John non è mai stato un amante focoso come te, Jerry, ma io mi sono innamorata di lui e lui di me. È stato John a propormi di sposarlo. E diceva sul serio, ma all'epoca aveva così tanti impegni che non c'è stato tempo di allestire quel matrimonio sontuoso che lui avrebbe voluto. Poi la sua terribile malattia ha cominciato a divorarlo. Continuava a dirmi che, appena avesse avuto un momento di libertà dagli affari, ci saremmo sposati e come viaggio di nozze avremmo fatto una splendida crociera in giro per il mondo. Mi ha portato qui. Aveva detto a tutti, alla madre, a Durant e al personale che ero sua moglie e che ci eravamo sposati in segreto. Tutti mi hanno accettato in questo ruolo e lo fanno ancora adesso, anche se la verità è che sono una moglie di nome ma non di fatto. Ho continuato a chiedergli di legalizzare la nostra unione, l'ho persino supplicato, ma la malattia era ormai a uno stadio troppo avanzato e lui si è limitato a farmi promesse vaghe.» Mi fissò. «Perciò vedi, Jerry, se lui muore, la mia vita, almeno così come la concepisco adesso, non esisterà più. Sua madre mi odia. Sospetta che non siamo sposati. Lei è una donna avida e cattiva, e quando John dovesse morire, lei sarà in grado di provare senza fatica che lui non mi ha mai sposato.» Restando sempre sdraiata sulla schiena, prese a fissare il soffitto. «Tutto questo lusso e tutti i soldi che sono abituata a spendere non ci saranno più. Non so cosa mi accadrà.» Guardò verso di me. «Ecco come stanno le cose, Jerry. E adesso ti chiedo di aiutarmi.»
Io mi alzai e presi a camminare su e giù per la grande camera da letto. Volevo allontanarmi dalle sue dita tentatrici.
Nella mia mente si era acceso un segnale di pericolo. Pensai a Larry Edwards. Loretta aveva detto anche a lui quello che aveva detto a me? Larry si era rifiutato di aiutarla? Era per quella ragione che lei ne aveva provocato la morte?
Sentii i sudori freddi scendermi lungo il corpo. Ero prigioniero in quella casa sontuosa. Avevo visto le guardie del corpo perlustrare la proprietà e sapevo che non c'era via di scampo.
«Aiutarti?» Cercai di tenere la voce sotto controllo. «Ma come vuoi che faccia ad aiutarti? Senti, io sono stato assunto per impersonare... Ferguson. E lo sto facendo, no? È per questo che vengo pagato.»
Lei si alzò dal letto e si diresse verso il punto dove aveva posato la veste da camera. Se la infilò lentamente.
«Siamo amanti, Jerry. Questo non significa niente per te?» mi chiese, guardandomi fisso negli occhi. Il suo viso sembrava scolpito nel marmo.
Avevo una paura terribile. Pensai a Larry Edwards e a Charles Duvine. "Gioca la carta sbagliata" mi dissi "e finirai per ritrovarti morto stecchito."
Sapevo che non potevo fare niente per impedire a quei tipi di assassinarmi, se mi fossi rifiutato di collaborare. Decisi di prendere tempo.
«Se posso» dissi «ti aiuterò.»
Mentre lei mi guardava, capii che si era accorta delle mie paure. Sul suo viso apparve un sorrisetto sardonico.
«Sapevo che lo avresti detto.» Si avvicinò a una poltrona e si sedette. «Ero certa di poter contare su di te.» Sorrise. «Dovrai sposarmi.»
Quell'uscita era così inattesa che le rivolsi uno sguardo inebetito.
«È l'unica soluzione possibile.» Di nuovo quel sorrisino sardonico. «Oh, siediti! Ti spiegherò tutto, ora che hai promesso di aiutarmi.»
Mi sedetti con le gambe malferme e la guardai.
«Che ne diresti se ti offrissi due milioni di dollari, Jerry?»
Non riuscii ad articolare parola. Continuavo a fissarla.
«Jerry! Non ti andrebbe di "guadagnare" due milioni di dollari?»
Cercai di farmi forza.
«È una bella sommetta, certo» dissi con voce rauca. «A chi non farebbe piacere?»
«Tu non devi far altro che sposarmi, ovviamente travestito da John, e in cambio riceverai due milioni di dollari.»
Doveva essere uscita di senno. Allungai un braccio per prendere le sigarette e ne accesi una mentre lei mi guardava.
«Non funzionerebbe» dissi alla fine. «È un'idea pazzesca. Se ci saranno delle indagini, e la cosa mi pare praticamente certa, il matrimonio non starà in piedi nemmeno per un secondo. Il certificato avrà la data, no? E sua madre sa bene che ormai John non è più in grado di sposarsi. Noi due ci cacceremmo in un guaio serio. No, te lo dico e te lo ripeto: non funzionerebbe.»
«Sì che funzionerà!» La sua voce era come una frustata che mi fece balzare il cuore in gola.
«Ma come?»
«Tu non sai nulla sul potere dei soldi. Quelli grossi, intendo. Col denaro si può fare tutto. Quando Durant mi ha detto che eri in grado di falsificare perfettamente la firma di John, ho visto subito la soluzione. Ho fatto qualche ricerca a Las Vegas. Lì c'è un prete anziano che è andato in pensione due anni fa, più o meno quando io e John ci siamo conosciuti, e che ha un registro matrimoniale. Ieri sono andata laggiù in aereo e gli ho parlato. Lui ha bisogno di soldi. Sua moglie ha il cancro e il figlio è un drogato. Così abbiamo fatto un patto.» Mi lanciò di nuovo il suo sorrisetto sardonico. «Dopodomani, Durant andrà a Washington. Io ho fatto in modo che il prete venga qui. Mi darà un certificato di matrimonio che avrà la data di due anni fa, quando ho conosciuto John. Tu firmerai il registro col nome di John e così, in un attimo, sarò legalmente sposata con lui.»
Ci pensai sopra e poi dissi: «Hai già predisposto tutto? Ma dovrebbero esserci anche i testimoni, no?»
Con due occhi freddi come il granito, lei fece un gesto d'impazienza.
«È tutto sistemato, Jerry. Questo supposto matrimonio si è svolto segretamente, così i due testimoni sono stati presi dalla strada. Ho trovato due poveri negri che si sono dichiarati disposti a firmare il registro per pochi dollari. La sola cosa necessaria, adesso, è che firmi tu, così io e John saremo sposati anche di fronte alla legge.»
Vedevo chiaramente il pericolo.
«Un attimo. Ti rendi conto che corri il rischio di farti ricattare? Il prete e quei due testimoni potrebbero succhiarti il sangue, a forza di richieste.»
Lei sorrise. Non avevo mai visto un sorriso tanto freddo e cattivo.
«Nessuno ricatta un Ferguson, Jerry.»
Pensai a Larry Edwards e a Charles Duvine. All'improvviso, mi resi conto con una sensazione orribile che presto il prete e gli altri due poveracci avrebbero fatto una brutta fine.
«E poi c'è un'altra cosa molto importante da fare» proseguì lei. «Devi firmare il testamento.»
«Il testamento?»
«Certo. Quando John mi ha sposato, due anni fa, ha stilato un testamento in cui mi lasciava tutti i suoi beni.»
«Ma prima mi hai detto che non era vero.»
«E infatti, luì non ci ha mai pensato. Ma ci ho pensato io. Ho steso un testamento perfetto e inattaccabile dal punto di vista legale, che mi fornirà una protezione completa. Tutto quello che mi serve è una piccola firma» Di nuovo quel sorrisetto maligno. «La tua firma contraffatta, Jerry.»
Mi afferrai all'ultima speranza.
«Perché un testamento sia valido, ci vogliono dei testimoni.»
Lei fece un movimento brusco.
«Quando ci siamo sposati a Las Vegas, due anni fa, quei due poveri negri hanno fatto da testimoni anche al testamento. Ho la loro firma sulle carte. Anche questo è stato predisposto, naturalmente.»
Me ne restai seduto a fissarla.
«Per la tua collaborazione e il tuo futuro silenzio, Jerry, ti darò due milioni di dollari. Allora, che ne dici?»
«Non li hai due milioni di dollari» replicai con voce rauca.
Di nuovo il suo sorrisino cattivo.
«Ma li avrò. Tu e io dovremo aspettare fino alla morte di John, ma non preoccuparti. Vale la pena attendere un po' per incassare due milioni di dollari, no? John potrebbe morire entro un mese o giù di lì. Te l'ho detto, peggiora rapidamente.»
Che stesse progettando di assassinare anche John Merrill Ferguson? Guardandola, e vedendo il suo onnipresente sorrisino, ebbi la certezza che le cose stavano proprio così. Di un'altra cosa fui certo: che non mi avrebbe mai pagato quei due milioni di dollari. Appena avesse avuto per le mani le mie firme falsificate, io avrei cessato di esistere.
Dovevo muovere le mie pedine per tempo.
«E Durant? Sa niente dei tuoi piani?»
«Non preoccuparti di Durant. Lui ha il suo futuro a cui badare. Quello va dove tira il vento.»
«E la madre?»
«Lei non può fare niente, una volta che si dimostrerà che io sono la moglie di John. Lascia stare quella orribile vecchia. Te lo chiedo di nuovo: per due milioni di dollari sei disposto a collaborare?» La sua voce era fredda e dura come l'acciaio.
Sapevo di trovarmi in trappola, e per il momento non vedevo alcuna via d'uscita. Sapevo anche che se avessi rifiutato, mi sarei scavato la fossa con le mie mani, perciò dissi: «Puoi contare su di me.»
Lei mi fissò per un lungo attimo, gli occhi scintillanti. Poi mi sorrise, si alzò e se ne andò.

Quattro ore dopo, quando Mazzo entrò con il carrello della colazione, ero ancora seduto sulla poltrona.
«Dormito bene, signor Ferguson?» mi chiese mentre versava il caffè. M'indirizzò un sorrisetto enigmatico.
Non persi tempo a rispondergli. Guardai con orrore le uova strapazzate e le salsicce nel piatto. Mi sentivo lo stomaco sottosopra.
«Non ho voglia di mangiare» dissi, allungando la mano verso la tazza di caffè.
La sesta nota di accredito della Chase National Bank faceva bella mostra di sé sul carrello.
«Stai diventando ricco, eh?» disse Mazzo. «Ormai hai un bel malloppo che ti aspetta in banca.»
C'era una nota di scherno nella sua voce o mi sbagliavo?
Presi il certificato di accredito e me lo misi in tasca.
«Oggi ci aspetta un'altra giornata campale» riprese Mazzo. «Dobbiamo tornare in ufficio. Quando sei pronto, mettiti la maschera.» Poi se ne andò.
Durante quelle quattro ore, avevo riflettuto parecchio. La promessa di Loretta di darmi due milioni di dollari non aveva avuto un grande impatto su di me. Ero certo che lei non mi avrebbe mai pagato, così come ero certo di essere prigioniero in quella casa. Mi ero diretto alla finestra e avevo guardato in giù verso il grande prato immacolato. Due figure dall'aria poco raccomandabile stazionavano nei paraggi. Ero andato in camera da letto e avevo guardato la piscina dalla finestra. Altri due tipi che avrei preferito non incontrare stavano in piedi accanto allo specchio d'acqua.
Ero un prigioniero sorvegliato accuratamente. Mentre tornavo in salotto, avevo cercato invano di trovare una via di scampo.
Adesso, sorseggiando il caffè, mi venne in mente un orribile pensiero, che forse mi era stato suscitato dallo sguardo ironico di Mazzo.
Come facevo a sapere che quei mille dollari al giorno venivano effettivamente accreditati su un conto a mio nome della Chase National Bank? Tirai fuori la nota di accredito e la esaminai.
Diceva semplicemente che la somma di mille dollari era stata accreditata sul conto N. 445990, intestato a Jerry Stevens.
Mi venne in mente che in passato, quando avevo effettuato dei pagamenti in contanti, la banca mi aveva sempre rilasciato una ricevuta col timbro e le iniziali. Quella non era stata timbrata, ma aveva le iniziali.
Forse mi stavo spaventando per nulla, ma dovevo sapere. Se quei sei certificati che avevo ricevuto erano dei falsi, allora forse non mi restava molto da vivere.
Dovevo sapere, a tutti i costi.
Di lì a poco sarei andato in ufficio. Pensai a Sonia Malcolm. Lei poteva costituire una remota ancora di salvezza.
Alzandomi, mi diressi alla scrivania, trovai un foglio e scrissi: "Top Secret. Chieda alla Chase National Bank, Seamore Street, San Francisco, se hanno un conto intestato a Jerry Stevens. In caso affermativo, venga davanti a me e annuisca. Altrimenti scuota la testa, ma non dica nulla".
Scarabocchiai la firma di John Merrill Ferguson, poi ripiegai più volte il foglio in modo da ridurlo a una striscia sottilissima e lo infilai sotto il cinturino dell'orologio.
Riflettei di nuovo.
Come avrebbe reagito Sonia? Mazzo sarebbe stato di sicuro presente e ci avrebbe tenuti d'occhio. Quando avesse visto il foglio, Sonia sarebbe riuscita a mantenere il sangue freddo? Decisi di sì. C'era qualcosa in quella donna che mi dava una grande sicurezza. Era tutt'altro che una segretaria stupida.
Andai in bagno e mi misi la maschera.
Mentre ci dirigevamo in macchina agli uffici della Ferguson Electronic & Oil Corporation, Durant, Mazzo e io affrontammo esattamente la stessa trafila del giorno prima. I giornalisti tentarono ancora una volta d'intervistarmi. I fotografi usarono i loro flash in quantità, ma furono respinti energicamente dalle guardie del corpo.
Durant, che mi pareva piuttosto di malumore, non disse nulla durante il tragitto. Studiava le solite carte, l'una dopo l'altra. E io non avevo niente da dirgli.
Nel grande ufficio, lui mi fece cenno di sedermi nella poltrona dietro la scrivania.
«Ho dei documenti da farle firmare. Aspetti qui.» Se ne andò.
Mazzo si sedette lontano dalla scrivania, incrociò le gambe e mi sorrise.
«Chissà cosa se ne farà di tutte quelle carte» osservò. «Io non ci capisco niente.»
«Quello morirebbe senza le sue carte» dissi.
«Già, forse hai ragione.»
Sonia Malcolm entrò con una pila di documenti.
«Buon giorno, signor Ferguson.»
La osservai mentre attraversava la stanza e la paragonai a Loretta. Che differenza abissale! Quanto poco si assomigliano a volte le donne!
Mi sfilai la striscia di carta sotto il cinturino proprio mentre lei posava i documenti sulla scrivania.
«Questi sono tutti da firmare, signor Ferguson.»
Diedi una rapida occhiata a Mazzo, che stava sbadigliando.
«Grazie, signorina Malcolm» dissi. Poi mi alzai, feci il giro della scrivania e, voltando le spalle a Mazzo, le infilai la strisciolina di carta in mano. Nel farlo, la guardai fisso negli occhi marroni.
Le sue dita si chiusero sulla carta, che scomparve subito. Nessuna reazione. Nessuna espressione di sconcerto. Non avrei potuto desiderare un'esibizione migliore.
«Quando è pronto, signor Ferguson, mi chiami per favore.» E se ne andò.
Ero così sollevato che mi sarei messo a gridare. Avevo puntato su di lei e avevo vinto!
Mazzo si avvicinò alla scrivania, poi si sedette in una poltroncina. Tirò fuori un pezzo di carta e disse: «Bene, signor Ferguson, credo che sia ora di cominciare.» Aprì una delle cartelline dove stavano i documenti, ne estrasse una lettera, la coprì col foglio e disse: «Firmi qui.»
Dovetti fare forza a me stesso per riuscire a concentrarmi. Che cosa avrebbe pensato Sonia nel leggere la mia nota? E se Durant era lì e l'avesse vista mentre la leggeva? O se Sonia fosse andata da lui e gliel'avesse mostrata?
«Ehi!» abbaiò Mazzo. «Le ho detto di firmare qui!»
Mi resi conto che stavo fissando nel vuoto e tenevo la penna in mano senza usarla. Dovetti di nuovo farmi forza per continuare a firmare. La cosa andò avanti per un'ora. Non ce la facevo più. Lasciai cadere la penna e spinsi la poltrona all'indietro.
«Ho i crampi» dissi. Mi alzai e cominciai a flettere le dita. «Andiamo a farci un drink, Mazzo.»
Lui sorrise, si alzò e si diresse al frigo bar.
«Che cosa desidera, signor Ferguson?»
«Una birra, Mazzo. Prendine pure una anche tu.»
«Bene.»
Aprì il frigorifero e trovò due lattine. Mentre le apriva tirando le linguette, disse sottovoce: «Domani è vacanza. Il signor D. va a Washington. Anzi, avremo due giorni di libertà. Che ne dici di una partita a tennis?»
Presi il bicchiere di birra che mi stava porgendo.
«Ottima idea.»
Alzammo il bicchiere ciascuno verso l'altro e bevemmo.
«Non hai più visto il capo?» chiesi in tono indifferente, «La signora Ferguson mi ha detto che è conciato piuttosto male.»
«Fa piacere a tutti pensare che sta per tirare il gambino, ma in fondo non è poi così mal...» S'interruppe di scatto e mi fissò. I suoi occhi mi sembravano quelli di una tigre pronta a cacciare. «Non fare domande» disse, terminando la birra e tornando alla scrivania. «Sbrighiamoci.»
Si era quasi tradito.
Che cosa voleva dire? Che non era poi così malridotto?
Mi diressi alla finestra dopo essermi infilato gli occhiali e guardai in basso verso l'oceano, la spiaggia e la gente allegra che se la spassava. Come avrei voluto essere uno di loro!
«Meglio tornare al lavoro» sbottò Mazzo. «Il signor D. vuole che finiamo presto.»
Tornai alla scrivania, mi sedetti e continuai a firmare.
Per mezzogiorno, avevo finito l'ultimo documento. Spinsi indietro la poltrona e osservai Mazzo azionare il pulsante dell'interfono.
Giuro che il cuore mi martellava in petto. Sonia mi avrebbe dato l'informazione di cui avevo un disperato bisogno? Mi provai a prevedere gli scenari possibili. Se lei mi avesse risposto in senso affermativo, avrei potuto sperare di salvarmi la pelle. Non mi pareva molto credibile che quella gente avesse versato seimila dollari in un conto bancario intestato a me per poi uccidermi. Ma se la sua risposta fosse stata negativa, in quel caso avrei capito di non essere più utile a chi mi aveva assunto e che quindi la mia vita non valeva un soldo bucato.
Cercai di restare calmo. Il sudore stava colandomi dentro quell'odiosa maschera. Mi sedetti alla scrivania e osservai Mazzo impilare le cartelline. Era il momento peggiore che avessi mai passato durante tutta quella storia.
La porta si aprì ed entrò Sonia. Lei si diresse alla scrivania e raccolse i documenti mentre Mazzo si metteva a passeggiare avanti e indietro per la stanza.
Lei mi guardò e io le restituii lo sguardo.
«È tutto, signor Ferguson?» mi chiese, tenendo le cartelline contro il seno.
Poi, sempre guardandomi, scosse lentamente la testa e mi diede così la risposta negativa che tanto temevo.
Se non fosse stato per la maschera, si sarebbe accorta subito della sensazione di incontenibile terrore che mi aveva assalito.
«È tutto, bambola» disse Mazzo, che si era frapposto all'improvviso tra noi due.
Lei si volse e se ne andò.
«Carina, eh?» disse Mazzo. «Non mi dispiacerebbe spassarmela un po' con lei.»
Io non dissi niente. Non potevo.
Mentre tornavo alla residenza dei Ferguson, Mazzo, che sedeva accanto a me nella Rolls, disse all'improvviso: «C'è qualcosa che ti rode?»
Se c'era qualcosa che mi rodeva? Ma se ero letteralmente divorato dalla paura!
C'era un pensiero che continuava a martellarmi il cervello in modo inesorabile. Quanto sarei rimasto ancora in vita? E a farmi fuori ci avrebbe pensato quello scimmione che ora sedeva al mio fianco? Mi venne in mente il suo tono sarcastico quando aveva detto che ad aspettarmi in banca avrei trovato un bel malloppo. Lui sapeva che Durant mi aveva imbrogliato, ne ero certo.
Feci uno sforzo per tenere sotto controllo quella sensazione di panico.
«Mettiti al mio posto, Mazzo» dissi. «Sto cominciando a stufarmi di fare sempre le stesse cose.»
Lui sogghignò.
«Ma pensa ai dollaroni che stai raggranellando, signor Ferguson. Io sarei disposto a fare qualunque cosa, pur di mettere insieme una somma simile.»
«Quanto durerà ancora questa messinscena?» chiesi.
«Non per molto. Il signor D. sta per concludere l'affare. Parte per Washington domani. Poi dovrai firmare ancora qualche altra carta e la cosa finirà lì.»
«Un paio di settimane?» Stavo cercando disperatamente di saperne qualcosa di più.
«Forse. Ma forse anche meno. Dipende da come se la cava il signor D. con i pezzi da novanta di Washington.»
«Il mio agente mi ha trovato una particina in televisione per la fine del mese» mentii. «Credi che ce la farò?»
Mazzo mi lanciò un'occhiataccia.
«Perché ti preoccupi di queste cose? Ormai sei diventato ricco sfondato, no? Cosa te ne fai di una particina in TV quando praticamente nuoti nell'oro?»
Ormai ne ero certo: quelli stavano progettando di uccidermi.
Ma dovevo sforzarmi di non far trapelare il panico che provavo.
«Già, hai ragione» dissi.
La Rolls si fermò fuori dall'ingresso della residenza. L'autista giapponese scese e aprì la portiera posteriore. Poi si tolse il berretto e fece un inchino.
Io e Mazzo prendemmo a salire i gradini del portico.
«Ti va una partita a tennis, oggi pomeriggio?» mi propose lui.
Mi resi conto all'improvviso che se avessi voluto sopravvivere, Mazzo non doveva avere il minimo sospetto che io avevo intuito quanto stava per succedermi. Bisognava che dessi l'idea di un uomo che sta facendo il suo lavoro in tutta tranquillità.
«Sicuro» risposi. «Cosa c'è per pranzo?»
«Ora vado a parlare con lo chef. Tu puoi salire da solo, no? Tanto conosci la strada.»
«Per quanto mi riguarda, prenderei volentieri un paio di costolette magre di agnello e un po' d'insalata. Meglio che non mangi niente di pesante, se poi dobbiamo giocare a tennis.» Mi avviai su per l'ampia scalinata e mi fermai una volta arrivato in cima, ma Mazzo era già scomparso. Esitai per un breve istante. Fui tentato di sfrecciare giù per le scale, attraversare il prato e da lì raggiungere il cancello. Ma la tentazione durò poco. Sentii un debole rumore, mi voltai e vidi una delle guardie del corpo che sedeva in un angolo buio e mi teneva d'occhio. Mentre lo guardavo, l'uomo si toccò il cappello. Ignorandolo, discesi lungo il corridoio, raggiunsi il salotto, entrai, chiusi la porta e mi diressi subito al frigo bar. Mi preparai un martini piuttosto forte, poi portai il drink alla scrivania e mi sedetti. Guardai i tre telefoni posati sul ripiano. Sollevai il ricevitore di quello più vicino a me, ma non sentii alcun segnale. Provai anche con gli altri due, ma il risultato non cambiò.
Accesi una sigaretta e considerai il mio futuro. A prima vista, sembrava orribilmente tetro. Ero certo che appena fosse stato completato l'affare per cui Durant doveva trasferirsi a Washington, io avrei fatto la fine che era già toccata a Larry Edwards e a Charles Duvine. Mentre pensavo, sorseggiai lentamente il drink. In breve, quella sensazione di panico scomparve e iniziai a pensare con chiarezza. Mi venne in mente che se quelli mi avevano intrappolato, anch'io potevo a mia volta metterli nel sacco. Senza la mia firma, quell'affare della massima importanza sarebbe morto ancor prima di nascere.
"Guarda la situazione da questo punto di vista, Jerry" mi dissi. "E guardala bene, senza fretta."
Quelli si erano spinti così in là che adesso non potevano più cavarsela, se io mi fossi rifiutato di collaborare.
Ammettiamo pure che fossero stati così stupidi da sbarazzarsi di me come avevano fatto con Larry Edwards. E allora? Avrebbero dovuto ricominciare tutto daccapo. Trovare un attore che potesse calarsi nei panni di Ferguson, per poi insegnargli a falsificare la firma del magnate e a imitarne la voce, era un vero problema. Già in precedenza Durant aveva individuato un sostituto, che però lo aveva piantato in asso. E adesso aveva trovato me. Nel mio caso, la fortuna lo aveva decisamente assistito. Perché io non ero solo un uomo che poteva passare per Ferguson, ma avevo anche abbastanza talento da riuscire a falsificarne la firma e imitarne la voce. Potevano volerci mesi, anche disponendo di tutto il denaro del mondo, per trovare un sostituto alla mia altezza.
Pensai a Loretta. Durant sarebbe partito per Washington l'indomani. E lei mi aveva detto che subito dopo la sua partenza, sarebbe arrivato un prete in pensione con un certificato di matrimonio.
In cambio della mia disponibilità a firmare il registro e il testamento, lei mi avrebbe dato due milioni di dollari. Ma quella stupida offerta non mi aveva tratto in inganno neppure per un secondo. Se avevo acconsentito, era solo perché ricordavo che fine avevano fatto Larry Edwards e Charles Duvine, ma Loretta e Durant erano troppo compromessi per pensare di uccidermi seduta stante.
Senza di me, loro erano nei guai fino al collo.
E questo pensiero mi fece intravedere una possibile via d'uscita.
"Tutto quello che devi fare" mi dissi "è rifiutarti di firmare altre carte. Ormai li tieni in pugno. Tu...".
La porta si aprì ed entrò Mazzo, spingendo il solito carrello.
«Il pranzo è servito, signor Ferguson. C'è tutto quello che è stato ordinato.»
Apparecchiò la tavola mentre io lo osservavo. Mi sentivo di nuovo bene. Dovevo ancora registrare qualcosa nei miei pensieri, ma per la prima volta da quando ero stato rapito, mi sembrava di vedere una luce in fondo a quell'orribile tunnel.
«Ecco qui, signor Ferguson» disse Mazzo, posando il piatto sulla tovaglia. «Ora vado a mangiare anch'io. Sarò di ritorno tra un'ora e mezzo, poi andremo a farci una partita a tennis... esatto?»
Mangiai con appetito. Adesso mi ero lasciato il panico alle spalle. In serata, Loretta sarebbe venuta nella mia stanza. E quella sarebbe stata la prima resa dei conti. Lei mi avrebbe detto che non poteva crederci, certo, ma non sarebbe stata in grado di muovere un dito per farmi cambiare idea.
Mi sentivo così bene che strappai a Mazzo otto giochi in tre set. Colpivo la pallina con tutta la mia forza. I miei passanti sfrecciavano accanto a Mazzo e lui mi guardava come se non potesse credere ai propri occhi. Dovette fare appello a tutta la sua esperienza per vincere la partita.
Al termine, mentre eravamo entrambi molto sudati e andavamo verso la rete per il saluto di rito, lui mi sorrise.
«Potresti diventare proprio un campione, signor Ferguson. Erano anni che non facevo una partita simile.»
«Prima o poi ti batterò, vedrai» dissi, dirigendomi verso il punto in cui avevo lasciato il pullover. Mi venne in mente una circostanza che Loretta mi aveva riferito tempo prima. John Merrill Ferguson viveva con un infermiere in una suite dell'ala sinistra della casa.
Mentre m'infilavo il pullover, girai lo sguardo a sinistra dell'enorme edificio. All'ultimo piano c'erano tre grandi finestre, ciascuna delle quali era protetta da pesanti sbarre di ferro.
Sbarre di ferro... Che fosse una prigione? E John Merrill Ferguson era un prigioniero? Ricordai che Mazzo aveva detto: "Fa piacere a tutti pensare che sta per tirare il gambino, ma...". Che avessi scoperto qualcosa?
«Andiamo a farci una doccia, signor Ferguson» disse Mazzo, prendendo le racchette.
Mentre lasciavamo il campo da tennis, nella mia mente si affollarono i pensieri. E se John Merrill Ferguson non fosse stato un malato di mente? Se fosse stato rinchiuso in quella parte della villa per dar modo a Durant e a Harriet di mettere impunemente le mani sul suo impero?
La storia che mi aveva raccontato Loretta, e cioè che Ferguson stesse soffrendo di una qualche strana malattia mentale, era una bugia architettata a bella posta? E l'avevano tirata in ballo per spiegarmi i motivi della mia assunzione? E perché tenere un uomo sotto chiave, sbarrando persino le finestre della suite in cui lo avevano confinato, se era davvero poco più di un vegetale?
Arrivammo ai gradini che conducevano all'ingresso della residenza. In quell'esatto momento, mi fermai di colpo.
In cima alla scala, c'era un barboncino bianco.

Mentre mi spogliavo in camera da letto prima di entrare nella doccia, Mazzo sporse la testa all'interno della porta.
«Presto, signor Ferguson, la vecchia vuole vederti» disse. Mi accorsi che era preoccupato.
«La signora Harriet?»
«Già. È appena arrivata. Sbrigati.»
Feci una rapida doccia. Nel frattempo, Mazzo aveva tirato fuori una camicia sportiva e un paio di comodi pantaloni di lino.
«Che ci fa qui?» dissi mentre mi davo da fare per infilarmi i vestiti.
«E io che ne so? Chiediglielo tu.»
«Devo mettermi la maschera?»
«No. Salirà tra un attimo. Vai in salotto e aspettala lì.»
Io mi misi un paio di sandali e andai in salotto. Lo sguardo turbato di Mazzo divenne subito contagioso. Anch'io cominciai a sentirmi preoccupato. Per quale ragione era venuta lì, quella donna? E che cosa voleva da me?
Mi trovavo nel salotto da pochi minuti quando la porta si aprì ed entrò Harriet, che reggeva tra le braccia il barboncino.
«Sorpreso di vedermi di nuovo?» Mi sorrise e si fermò subito dopo aver varcato la soglia.
«Be', almeno è una sorpresa piacevole.» Le rivolsi uno di quei sorrisi fascinosi a cui mi ero abituato nella mia carriera di attore.
«Bene.» Lei si avvicinò a una poltrona e si sedette. «Ho sentito palare molto bene di lei, Jerry. Il signor Durant è estremamente soddisfatto.»
Mi rilassai un po', mi diressi a mia volta verso una poltrona e mi sedetti.
«È per questo che vengo pagato, no?»
«Non ci vorrà ancora molto.» Mi guardò senza smettere di sorridere. «Deve firmare ancora un po' di documenti e fare qualche comparsa in ufficio, poi sarà libero di tornare a Hollywood e di riprendere la sua splendida carriera.»
Decisi che era quello il momento di passare al contrattacco.
«Signora Harriet» esordii, lanciandole un sorriso smagliante «mi spiace doverglielo dire, ma non sono per nulla contento della situazione.»
Il suo sguardo s'indurì all'istante.
«Non è contento?» Le era comparsa una nota stridula nella voce.
«No, ed essendo lei così benevola nei miei confronti e davvero troppo generosa nell'apprezzare il mio modesto talento, credo che non le farà piacere sapere che sono insoddisfatto.»
Lei aggrottò le sopracciglia e s'irrigidì.
«Perché è insoddisfatto, Jerry?»
«Il signor Durant aveva promesso di pagarmi mille dollari al giorno per impersonare suo figlio.»
Lei inclinò la testa. Ora i suoi occhi sembravano due pietre luccicanti.
«L'accordo era questo, Jerry. La somma che le paghiamo mi pare molto generosa e lei si è dichiarato d'accordo.» Mi guardò. «Intende chiedere altri soldi?»
«No.» Le rivolsi un altro dei miei sorrisi da attore. «Lei è una donna molto intelligente, signora Harriet. Si metta nei miei panni. Sono tenuto costantemente d'occhio, come se fossi un prigioniero. E, a dirle francamente quello che penso, non nutro alcuna fiducia nel signor Durant.»
«Un prigioniero?» Lei emise una risata squillante. «È necessario sorvegliarla, Jerry; credo che converrà con me su questo. Non le va bene Mazzo? Gli avevo raccomandato di accontentarla a tavola e di tenerla su di morale.»
«Per riacquistare la mia fiducia, dovrei essere sicuro che questi famosi mille dollari al giorno mi vengano effettivamente pagati, signora Harriet» le dissi con un altro sorriso.
«Caro il mio Jerry! Ma ha tenuto tutte quelle note di accredito, no? È stato il signor Durant a occuparsi dei versamenti. Stia tranquillo, quei soldi si trovano sul suo conto.»
«Chiunque è in grado di andare alla Chase National Bank e prendere un mucchietto di ricevute di accredito. Così come chiunque può scrivere su una di queste ricevute l'importo di mille dollari a beneficio di un certo Jerry Stevens. E scarabocchiare due iniziali non richiede molto tempo.» All'improvviso, assunsi un'espressione seria. «Anche se sono un attore da strapazzo, non è detto che debba essere per forza un idiota. Per tornare di nuovo sereno, voglio telefonare alla Chase National Bank e chiedere se è stato aperto un conto intestato a me.» Indicai i telefoni sulla scrivania. «Questi sono tutti fuori uso, perciò voglio che mi venga fornito un telefono funzionante. Quando sentirò personalmente che questi soldi, che mi sono stati promessi e che ho guadagnato lavorando, sono stati accreditati su un conto intestato al sottoscritto, tornerò nuovamente di buonumore.»
Lei mi guardò per un lungo attimo, il viso impietrito.
«Il signor Durant non vuole che lei usi il telefono, Jerry» disse alla fine. «Bisogna che sia ragionevole.»
«E così, signora Harriet, lei sta dicendomi che non mi permetterete di usare il telefono. Non intendo chiederle il perché. Voglio solo che ascolti le mie ragioni. Fino a questo momento, ho impersonato suo figlio con un certo successo. Ho collaborato esattamente come mi avevate richiesto. Ma adesso è il vostro turno di collaborare con me. Se non mi sarà permesso di telefonare alla banca entro le dieci di domani mattina, smetterò di collaborare seduta stante.»
Lei abbassò lo sguardo verso il barboncino e prese ad accarezzargli le orecchie. Poi alzò gli occhi, mi sorrise e annuì.
«Per essere un attore, Jerry, lei ha un'insospettabile perspicacia» disse, e si alzò. «Farò in modo che possa telefonare alla banca entro le dieci di domani mattina.» Si avviò alla porta.
Io ero davanti a lei e le tenni aperto il battente.
Harriet si fermò e mi posò una mano sul braccio.
«I giovani sono sempre molto saggi a non fidarsi di nessuno» disse.
La fissai negli occhi.
«Perché, lei si fida della gente, signora Harriet?»
Le sue labbra si mossero in un impercettibile sorriso.
«Be', io non sono più tanto giovane, caro Jerry» disse, e se ne andò.

6

Non volevo che Loretta strisciasse dentro il mio letto mentre ero sveglio, così rimasi in piedi e l'aspettai.
Mazzo mi aveva servito la cena in camera. Mi aveva detto che Harriet era nelle sue stanze e che sarebbe andata a letto presto. Aveva continuato a guardarmi con un'espressione preoccupata. Ero sicuro che voleva sapere che cosa mi avesse raccontato la vecchia, ma in ogni caso se n'era rimasto zitto.
Dopo cena, avevo cercato d'immergermi nella lettura di un tascabile, ma i miei pensieri si erano messi a vagare in modo disordinato. Avevo vinto la mia prima battaglia con la vecchia ed ero fiducioso che, quando mi avessero consentito di fare una telefonata alla banca, avrei saputo che i soldi erano stati effettivamente accreditati sul mio conto. Avevo giocato il mio asso nella manica, con la minaccia di smettere di collaborare.
Mi pareva che quel sinistro affare stesse avviandosi alla conclusione. Durant sarebbe tornato da Washington con l'accordo definito in ogni sua parte, e a quel punto sarebbe mancata solo la mia firma. Quindi, il momento più adatto per mettersi a giocare duro era proprio quello.
C'erano due antagoniste: Harriet e Loretta. Da come vedevo le cose io, tutte e due stavano progettando di mettere le mani sull'impero di John Merrill Ferguson.
Poi c'era anche Durant: da quale parte stava lui? Il fatto che appena era partito per Washington fosse apparsa Harriet, mi aveva fatto giungere a una conclusione precisa, e cioè che lui stava dalla parte della vecchia. Ma da quale parte stava Mazzo? A giudicare dalla sua espressione preoccupata, avrei detto che si fosse schierato con Loretta.
Chi aveva commissionato i delitti di Larry Edwards e di Charles Duvine? Harriet? Loretta? Ripensandoci, avevo deciso che a dare l'ordine doveva essere stata la vecchia, magari in combutta con Durant. Con i loro soldi, sarebbe stato un gioco da ragazzi ingaggiare un sicario e simulare un incidente. E, se le cose stavano così, forse Mazzo non era il killer che mi era sembrato in un primo tempo.
Nutrivo la speranza che Mazzo non mi fosse ostile. Per quanto fosse una specie di animale, trattandolo con le misure del caso, forse sarei riuscito a tirarlo dalla mia parte.
Poi c'era John Merrill Ferguson. Si trattava di un autentico malato mentale o di un prigioniero murato vivo nella sua stessa casa? Mi erano venute in mente le sbarre di ferro alle finestre. Le mie stanze si trovavano nell'ala destra della casa. Da lì sarebbe stato un viaggio non da poco raggiungere quelle in cui stava Ferguson. Sentivo l'urgenza di andare a controllare la prigione in cui era stato rinchiuso il miliardario. Forse avrei anche potuto vederlo. Quando andavo a letto, Mazzo non mi chiudeva dentro a chiave, però c'erano pur sempre le guardie del corpo. Sarei stato in grado di lasciare la mia stanza e di fare un viaggetto fino all'ala sinistra della villa senza che nessuno mi notasse?
Stavo pensando a tutto questo quando, silenziosa come un fantasma, entrò Loretta.
Mentre chiudeva la porta, mi lanciò un'occhiata sospettosa.
«Perché non sei ancora a letto?» Si era messa addosso una vestaglia e camminava a piedi nudi. Era molto pallida in viso e due cerchi scuri le segnavano gli occhi.
Era passata da poco l'una.
«Ti aspettavo» dissi, senza muovermi.
Lei si diresse verso una poltrona posta di fronte alla mia e si sedette.
«Cos'aveva da dirti quella vecchia strega?» mi chiese.
La guardai con attenzione e mi accorsi che stava trattenendo a fatica un'esplosione di collera.
«Nulla d'importante. Ha solo detto che era contenta del modo in cui stavo impersonando suo figlio.»
«Nient'altro? Nulla su di me?»
«Nient'altro.»
Tirò un profondo sospiro e le sue mani si rilassarono.
«Quel bastardo di un Durant!» Si sforzava di tenere la voce bassa, ma la collera la fece egualmente vibrare. «È stato lui a dirle di venire! Voleva farmi tenere d'occhio mentre era via. Sono stata costretta ad annullare l'appuntamento col prete. Doveva venire domani, ma non poteva farsi vedere qui mentre c'era quella vecchia strega!»
Non dissi nulla.
«Non so quando mi capiterà un'opportunità simile» proseguì lei, come parlando a se stessa. «Appena Durant ritorna, lo avrò sempre in mezzo ai piedi. E ora cosa posso fare?»
Io rimasi in silenzio.
Lei mi lanciò un'occhiataccia.
«Non startene seduto lì come una maledetta mummia! Hai detto che mi avresti aiutato, no? Devo avere a tutti i costi una prova che ho sposato John!»
«Sono qui per fare quello che mi dicono» osservai. «Non devi far altro che parlare.»
«Se vuoi metterti in tasca due milioni di dollari, bisogna che ti fai venire in mente qualcosa di più sostanzioso» disse lei, alzando il tono di voce.
«Puoi fidarti di Mazzo?»
Lei mi parve sorpresa.
«Certo. Ma lui cosa c'entra?»
«Sei sicura di poterti fidare di lui? Sei sicura che non ti tradirà spifferando tutto a Harriet?»
Lei fece un sorrisino furbo.
«Forse una volta l'avrebbe fatto, ma adesso non più.»
Non c'era bisogno che lei mi spiegasse quell'allusione. Capii subito che quella donna così sensuale aveva sedotto anche Mazzo. Lo aveva accalappiato come s'immaginava di aver accalappiato anche il sottoscritto.
Guardandola, mi venne all'improvviso un conato di vomito.
«Fammi pensare» dissi, cercando di restare assolutamente inespressivo. «Forse con Mazzo potremmo trovare una soluzione.»
Lei mi rivolse un'occhiata sospettosa.
«È fuori discussione. Quello, di sale in zucca, non ne ha neanche un po'.»
Lo sapevo anch'io, ma avevo bisogno di tempo, perciò dissi: «Però forse potrebbe servirci, in qualche modo. Pensaci.»
«Faresti meglio a trovare qualche soluzione più sensata. Comunque, c'è sempre il testamento. E almeno quello lo firmerai. Ho già contattato il prete. Ha spedito il testamento, con la firma dei due testimoni del matrimonio, e mi ha assicurato che arriverà domani. Te lo porterò io stessa domani sera, così potrai firmarlo.»
«Senza il certificato di matrimonio, quel testamento sarà inutile» replicai. Se c'era una cosa che non avrei mai fatto, perché mi ripugnava, era quella di falsificare la firma di John Merrill Ferguson su un testamento che avrebbe dato a Loretta il diritto di reclamare l'eredità del presunto marito.
All'improvviso, mi accorsi che lei mi stava fissando con un sorriso cattivo.
«Ma certo, hai ragione! La soluzione è proprio questa! Ora capisco perché hai detto che dovevamo rivolgerci a Mazzo.»
M'irrigidii.
«Ti dispiace spiegarti?»
«È un'idea brillante, Jerry! Ed è chiaro che bisogna rivolgersi a Mazzo. Sei stato un po' reticente perché non eri sicuro che avrei approvato, vero?»
Io la guardai sempre più stupito e sentii un brivido freddo salirmi lungo la schiena.
«Ma con me non ci sono problemi, Jerry.» Abbozzò un sorriso. «Io non mi scandalizzo mai. Anzi, non so quante volte ho desiderato di vedere morta quella vecchia puttana. Ma certo, Mazzo! Ero convinta che avresti trovato una via d'uscita.»
Gesù, pensai. Ma che cosa diavolo andava blaterando?
«Una via d'uscita? Non ti seguo» dissi con un filo di voce.
Di nuovo quel sorrisetto maligno.
«Mazzo farebbe qualunque cosa per me. Perciò striscerà nella camera da letto di quella vecchia strega e la soffocherà con un cuscino non appena si sarà addormentata. Così mi sbarazzerò di lei una volta per tutte. A qual punto avrò solo Durant da affrontare, ma so come prenderlo.» Si alzò. «Grazie, Jerry. Non te ne pentirai. Puoi contare sui due milioni di dollari che ti avevo promesso; te li sei ampiamente guadagnati.»
Ero così sconvolto che non riuscivo a proferire parola. La osservai lasciare la stanza, poi vidi la porta chiudersi alle sue spalle.
Ero in uno stato da far paura.
Me ne rimasi seduto per alcuni minuti, mentre il panico che sentivo crescermi dentro m'impediva di pensare con chiarezza. Poi mi diressi in bagno e mi spruzzai il viso con acqua fredda.
Dopo essermi asciugato, tornai in salotto e presi a camminare su e giù per la stanza. Adesso mi sentivo meno spaventato e riuscivo a pensare con maggiore chiarezza.
Quella donna era una pericolosa lunatica. E se fosse riuscita a persuadere Mazzo e lo avesse spinto ad assassinare la vecchia? Lui non era un tipo molto sveglio dal punto di vista intellettuale. La promessa di una notte d'amore e un po' di denaro potevano tranquillamente persuaderlo. Ma se qualcosa fosse andato storto? Se il medico avesse nutrito qualche dubbio, o avesse addirittura suggerito di chiamare la polizia? Se fosse stata coinvolta, perfida com'era, Loretta non ci avrebbe pensato due volte a gettare la croce addosso a me. Magari avrebbe detto alla polizia che l'idea era stata del sottoscritto. Forse avrebbe anche detto che io ero il suo amante. E la polizia avrebbe creduto alla storia che ero stato rapito e che mi tenevano prigioniero?
Dovevo scappare a tutti i costi da quella casa! Non me ne importava più niente dei soldi, che, adesso me ne rendevo conto, avrei trovato pronti sul mio conto in banca. Non me ne importava niente nemmeno dell'eventuale assassinio della vecchia. Sapevo solo che dovevo fuggire da lì e basta.
Ma come?
Andai alla finestra e guardai in basso, verso il prato. Come mi aspettavo, c'erano almeno due guardie che effettuavano le normali perlustrazioni. Dalla finestra della camera da letto, scorsi altre due guardie che vigilavano protette dalle tenebre.
Sembrava una situazione presa di peso da un film, e mi attendeva una sfida non da poco. Con molta prudenza e un pizzico di fortuna forse sarei stato in grado di raggiungere il cancello e, una volta lì, di squagliarmela. Nutrivo la confortante sensazione che le guardie del corpo di Ferguson non mi avrebbero sparato. Se mi avessero visto si sarebbero messi a inseguirmi, questo era certo, ma non avrebbero cercato di uccidermi. Almeno fino a quando non avessi firmato gli ultimi documenti, potevo considerarmi relativamente al sicuro.
Dopo qualche esitazione, mi decisi ad agire. Avrei tentato subito, e al diavolo le conseguenze.
Mi misi a frugare dentro i vari armadi. Dopo qualche ricerca, trovai una tuta sportiva blu e un paio di scarpe da ginnastica. Mi ci vollero solo pochi attimi per cambiarmi. Però mi serviva un'arma, di qualsiasi tipo. Pur di fuggire ero deciso a battermi fino in fondo, se ci fossi stato costretto.
Mi diedi un'occhiata in giro, poi andai alla scrivania. Trovai un pesante e stretto fermacarte d'argento che era della misura giusta per le mie mani. Entrai di nuovo in bagno e trovai un rotolo di cerotto, che utilizzai per fissare il fermacarte alle nocche. Un colpo con quell'aggeggio avrebbe stordito chiunque.
E adesso da quale parte mi conveniva dirigermi per tentare la fuga?
Spensi l'unica luce della stanza, camminai a tentoni fino alla finestra e l'aprii. Guardai in giù: era un salto nel vuoto di almeno una quindicina di metri, con la prospettiva di sfracellarsi sul lastricato. L'idea di scendere arrampicandomi al muro era fuori discussione. Andai in camera da letto e aprii la finestra. Anche lì non c'era alcun modo di calarsi di sotto con qualche prospettiva di successo.
Muovendomi con circospezione, aprii la porta del salotto e sbirciai nel lungo e oscuro corridoio. C'era una debole luce che saliva dall'atrio. Strisciai fino alla sommità della scala e abbassai lo sguardo.
C'era un uomo che sedeva in una poltroncina accanto alla porta. Ne distinsi a malapena la silhouette, perché quella parte dell'atrio era in penombra. Mentre lo osservavo, lui diede una specie di grugnito, come se si fosse appisolato. Non esitai. Muovendomi in fretta e silenziosamente, come un'ombra, scesi le scale e mi trasferii nel salotto principale. La guardia del corpo emise un altro grugnito. La stanza era immersa nella più totale oscurità. Cominciai a farmi strada come un cieco, tendendo il braccio sinistro davanti a me per non correre il rischio di far cadere una lampada o di rovesciare un tavolino. Mi ci vollero cinque lunghi minuti prima che potessi raggiungere le porte finestre. M'insinuai tra le tende e da lì riuscii a distinguere il grande prato, illuminato dal chiarore lunare. Mentre posavo la mano sulla maniglia per aprire la finestra, mi fermai di scatto.
"E se la casa fosse stata dotata di un sistema d'allarme contro i ladri?"
Passai un altro minuto facendo scorrere le dita intorno all'intelaiatura della finestra e, all'improvviso, mi accorsi che c'era un filo. Capii subito che se avessi aperto, avrei fatto scattare l'allarme. Dovevo aspettarmelo! Era logico che tutte le finestre del pianterreno fossero collegate col sistema d'allarme centralizzato.
Sempre determinato a fuggire, decisi comunque di riprovare partendo dal primo piano. Muovendomi in silenzio, aprii la porta del salotto di un leggero spiraglio e sbirciai nel grande atrio. Aspettai e rimasi in ascolto. Vedevo la silhouette della guardia del corpo di Ferguson, seduta accanto alla porta d'ingresso. Ma adesso l'uomo non sembrava più addormentato; in ogni caso, aveva smesso di russare. Attesi ancora qualche secondo. Osservando la guardia dallo spiraglio, la vidi alzarsi di scatto. Poi, all'improvviso, venni investito da un forte bagliore che proveniva da un punto sopra la mia testa. Qualcuno doveva aver acceso la luce dell'atrio. Vidi un uomo piccolo ma robusto che guardava con un'espressione allarmata verso la porta del salotto e teneva una pistola in mano. Non era l'arma che mi preoccupava. Ero sicuro che quel tizio non avrebbe sparato. Mentre me ne stavo in piedi, immobile, mi chiesi se anche la porta d'ingresso fosse stata collegata col sistema d'allarme.
Poi vidi Mazzo scendere le scale. Indossava una veste da camera di cotone verde su un pigiama arancione.
«Va bene, Marco» disse nel raggiungere l'atrio. «Ora ci penso io.»
La guardia puntò l'indice verso la porta del salotto.
«L'ho visto» disse Mazzo. «Rilassati.»
Allungai la mano, trovai l'interruttore e lo premetti. Il grande salotto s'illuminò all'improvviso. Io mi diressi verso il centro della stanza.
Toccando quel filo intorno alla porta finestra, avevo fatto scattare l'allarme! Mi strappai in fretta il cerotto che assicurava il fermacarte alla mia mano e riuscii a mettermi sia il primo che il secondo in tasca proprio mentre la porta veniva spalancata.
Mazzo mi guardò con aria sospettosa.
«C'è qualche problema, signor Ferguson?» chiese, con gli occhi che mi sondavano.
«Non riuscivo a dormire, Mazzo» dissi. «Sono sceso giusto per darmi un'occhiata in giro.»
Lui sogghignò.
«Non è che voleva uscire per fare un po' d'esercizio, signor Ferguson?» disse, guardandomi la tuta. «Ma è meglio rinviare a domani, eh?»
«D'accordo, Mazzo» dissi. «Vada per domani.»
Lui annuì e si scostò dalla soglia.
«Ora è meglio andare a letto. Se non riesce a dormire, posso sempre darle una pillola. A sua completa disposizione, signor Ferguson.»
Mi arresi. Con la guardia nell'atrio e Mazzo che mi aveva scoperto, ma soprattutto con la certezza che anche là porta d'ingresso doveva essere collegata col sistema d'allarme, non aveva più senso tentare di fuggire, almeno per il momento. Comunque, avevo imparato qualcosa. Non sarebbe stato facile scappare da quella casa, per niente.
«Adesso vado a dormire» dissi, salendo le scale accanto a Mazzo e ignorando la guardia del corpo che mi fissava in cagnesco. Poi entrai nella mia suite.
Mazzo mi raggiunse in salotto.
«Si può sapere che cosa ti è preso?» mi chiese dopo aver chiuso la porta. «Credi di poter uscire di qui? Ma se ogni uscita fa scattare l'allarme! Nemmeno io posso uscire, la notte.»
Gli rivolsi un sorriso mesto.
«Be', almeno ci ho provato.»
«Che ti succede?» insistette lui. «Ti pagano bene, no? Perché volevi andartene?»
Lo fissai.
Era davvero così tonto come voleva far credere?
«Va bene, Mazzo, vattene pure a letto. Mi spiace di averti fatto alzare.»
Entrai in camera da letto e sentii chiudersi la porta del salotto. Attesi qualche secondo, poi mi diressi alla porta e girai lentamente la maniglia.
La porta era stata chiusa a chiave dall'esterno.

Mazzo portò il carrello della colazione intorno alle nove e un quarto.
Io avevo dormito un paio d'ore, ma prima di cadere vittima del sonno mi ero messo a riflettere un bel po' sulla mia situazione. Ormai non mi restava più molto tempo, ed era decisamente possibile che non sarei riuscito a fuggire. Se la vigilanza era così stretta, le probabilità di una mia fuga mi sembravano molto scarse.
E se Loretta avesse persuaso Mazzo a uccidere Harriet? Con una donna come quella, c'era da aspettarsi di tutto. Dovevo assolutamente avvisare Harriet. Dovevo dirle che Loretta non era sposata con Ferguson e che stava cercando di persuadermi a falsificare la firma su un certificato di matrimonio e su un testamento. Dovevo mettere in guardia la vecchia contro Mazzo.
Ma cosa mi sarebbe capitato dopo che avessi avvertito Harriet riguardo ai propositi di Loretta? Avevo ancora un asso nella manica: potevo rifiutarmi di firmare qualsiasi altro documento. Poi, voltandomi e rivoltandomi senza posa nelle tenebre, pensai a Durant. Lui era un uomo spietato. Poteva obbligarmi a firmare quelle carte? Mi venne in mente mio padre, che aveva fatto la seconda guerra mondiale. Lui mi parlava sempre delle torture a cui venivano sottoposti i prigionieri, e persino alcuni dei più coraggiosi alla fine avevano dovuto cedere. Più pensavo a Durant, più mi sentivo sicuro che avrebbe fatto qualsiasi cosa, esclusa quella di uccidermi, pur di costringermi a firmare le ultime carte. Il mio asso nella manica era veramente tale? Alla fine mi addormentai, svegliandomi solo quando Mazzo entrò col carrello.
«Ti senti un po' giù, signor Ferguson?» disse. «Non c'è niente di meglio di un succo di pomodoro con uno spruzzo di vodka per tirarti su di morale.»
«Voglio solo un caffè, Mazzo» dissi.
«Vuoi fare un giretto nella tenuta, signor Ferguson?» mi chiese lui con un sogghigno.
«No. Di' alla signora Harriet che devo parlarle.»
I suoi occhietti ebbero un improvviso guizzo.
«Che cosa vuoi da lei?»
«Dille che voglio parlarle!» esclamai con forza. Poi rotolai fuori dal letto e andai in bagno. Dopo una rapida doccia, mi rasai e, al mio ritorno in camera da letto, vidi che lui non c'era più.
Bevvi il caffè, ignorando del tutto il piatto di uova strapazzate, quindi accesi una sigaretta e mi vestii.
Stavano avvicinandosi le dieci. Andai in salotto e vidi che Mazzo mi aspettava lì, seduto con lo sguardo perso nel vuoto.
«Hai parlato con la signora Harriet?» gli chiesi.
«È troppo presto per lei.» Indicò uno dei telefoni sulla scrivania. «Questo funziona. Puoi chiamare la banca.»
Il numero della Chase National Bank era scritto nella nota di accredito. Mi sedetti alla scrivania, sollevai il ricevitore e composi il numero. Attesi che qualcuno rispondesse dall'altro capo della linea, mentre il cervello mi si affollava di pensieri. Dovevo dire alla banca di allertare la polizia? Dovevo gridare aiuto? Quei pensieri andarono subito in fumo non appena Mazzo si alzò per piazzarsi alle mie spalle.
«Attento, signor Ferguson. Chiedi solo se c'è il conto, chiaro?»
Rispose una voce femminile. «Vorrei sapere se il signor Stevens, Jerry Stevens, ha aperto un conto da voi.»
«Un attimo, per favore.»
Arrivò un uomo in linea.
«Sono Jerry Stevens» dissi. «C'è un conto a mio nome nella vostra banca? Dovrebbero esserci dei versamenti per l'importo di settemila dollari.»
«La prego di restare in linea, signor Stevens.»
Ci fu una lunga pausa, dopo di che l'uomo disse: «Sì, signor Stevens. Ieri, per telex, è stata accreditata sul suo conto la somma di settemila dollari. È tutto in ordine.»
«Grazie» dissi. «Chi...?»
Ma Mazzo interruppe la comunicazione.
«Basta così, signor Ferguson. Ora sei contento?»
Be', almeno adesso sapevo che avrei trovato settemila dollari ad aspettarmi, se riuscivo a scappare da quel posto incubotico.
«Certo» risposi. «Ma ora vorrei parlare con la signora Harriet.»
«Va bene. Me l'hai già detto, se non mi sbaglio.» Mazzo sogghignò. «Lei è vecchia e si alza tardi. Ma le parlerai, non ti preoccupare. Ci penso io. Che ne dici di fare un po' d'esercizio?»
«Adesso no. Preferisco aspettare.»
«Come vuoi.» Mazzo scrollò le spalle. «Qualcosa di speciale per pranzo?»
«Voglio parlare con la signora Harriet!» urlai. «E al diavolo anche il pranzo!»
«Datti una calmata, signor Ferguson. Ora vado a parlare allo chef.» Entrò in camera da letto e portò fuori il carrello. «Rilassati, eh?»
Se ne andò chiudendosi la porta alle spalle. Sentii un debole rumore metallico che mi fece capire che la porta era stata chiusa a chiave.
Fu solo un'ora dopo che Harriet, sempre in compagnia dell'inseparabile barboncino, mi raggiunse in salotto. Indossava un completo nero formato da una giacca e un paio di pantaloni. Il bavero e i polsini della giacca erano rossi. La parrucca aveva un'aria immacolata. Una vistosa spilla di brillanti completava l'insieme.
«Buon giorno, Jerry caro» esordì, indirizzandomi un sorriso. «Mazzo mi ha detto che voleva parlarmi.» Si avvicinò a una poltrona e si sedette. «Spero che ora sia soddisfatto. Non è più arrabbiato con me, vero? Mazzo mi ha detto che ha telefonato in banca. Così adesso sa che il denaro pattuito è stato regolarmente versato sul suo conto.»
Mi sedetti di fronte a lei.
«Quei soldi sono stati versati solo ieri, con un telex» replicai. «Mi avevate promesso mille dollari al giorno. E mi avete pagato solo perché avevo detto che, in caso contrario, non avrei più collaborato. Ma questo non basta a ridarmi fiducia, signora Harriet.»
Lei se ne uscì con una risata squillante.
«Ma caro il mio Jerry! Lei non deve intendersene proprio per niente di questioni finanziarie, vero? Lasci che le spieghi. Pagarle mille dollari al giorno sarebbe stata una perdita di denaro per me. E il denaro fa guadagnare altro denaro. Anche mille dollari possono aumentare, se non li si sposta da una certa banca; non molto, glielo concedo, ma almeno un po'. E una piccola quantità di denaro ne produce una più grande, col tempo. Lei sarebbe stato pagato in un'unica soluzione alla fine del suo lavoro, glielo assicuro. I Ferguson non vengono mai meno alla parola data. Comunque, non c'è alcun bisogno di allarmarsi, Jerry caro. Visto che è così sospettoso, per ciascun giorno che rimarrà ancora qui le saranno accreditati mille dollari sul suo conto. Alla fine della settimana, potrà telefonare alla banca e accertarsene di persona.» Accarezzò le orecchie del barboncino e mi sorrise. «Ora è più tranquillo?»
Non c'era nulla che potessi replicare. Mi limitai a stringermi nelle spalle.
«Perfetto.» Lei continuava a sorridere. «Mazzo mi ha detto che lei ha tentato di scappare, Jerry. Ma com'è che le è saltato in testa di fare una cosa tanto sciocca? Noi contiamo su di lei. Forse si è trattato di una reazione nervosa?» I suoi occhietti scuri si accigliarono all'improvviso. «Non cercherà di farlo un'altra volta, vero?»
«E invece lo rifarei, se potessi» risposi. «Non ho fatto nessuna promessa.»
«Ma Jerry, non ci posso credere! Perché vuole scappare quando può raggranellare un mucchio di soldi senza il minimo problema?»
«È questa la ragione per cui ho chiesto di parlarle» dissi. «Loretta sta pensando di farla uccidere.»
Lei inarcò le sopracciglia.
«Ne è davvero convinto?»
«Signora Harriet, questa è una casa da incubi! Loretta mi ha detto che può convincere Mazzo ad assassinarla. Lui striscerà nella sua camera da letto, signora Harriet, e la soffocherà con un cuscino mentre è addormentata. Quella donna deve aver sedotto Mazzo, perché è sicura che lui farà tutto quello che gli dice. Adesso capisce perché volevo andarmene da questa maledetta casa? Glielo dico e glielo ripeto: lei potrebbe venir assassinata e io rischierei di essere arrestato come complice.»
«È stato molto gentile da parte sua pensare a me, Jerry.» Le sue dita continuavano ad accarezzare le orecchie del barboncino.
«Ha capito quello che le ho detto?»
«Ma certo, Jerry caro, certo. E che cos'altro le ha detto Etta?»
La fissai. Pensavo che avrebbe avuto una reazione non appena le avessi comunicato che Loretta progettava di ucciderla, ma lei se ne limitava a restarsene seduta e a sorridermi, completamente a suo agio.
«Lei e Loretta siete per caso impazzite?» chiesi, alzando all'improvviso la voce. «Non capisce che potrebbe venir assassinata in una delle prossime notti, signora Harriet?»
Lei se ne uscì con una risata squillante che mi scosse il sistema nervoso.
«Oh, povero Jerry! Apprezzo molto la sua lealtà, ma stia tranquillo: una cosa simile non potrebbe mai succedere. Perciò non si preoccupi.»
Cominciai a sudare.
«Be', io l'ho avvisata. Se poi crede che non le succederà niente, padronissima. In fondo, il funerale è suo. Io ho fatto il mio dovere.»
«Ma certo, Jerry caro, ma certo. È stato molto gentile da parte sua. Etta le ha detto per caso che mio figlio è malato di mente?»
Continuavo ad aprire e chiudere le mani.
«Sì. E che si trova nell'ala sinistra della casa, sorvegliato da un infermiere.»
«Ci scommetto che le avrà anche detto che lei e mio figlio non sono sposati, vero?» La guardai a bocca aperta.
«Lo sapeva?»
«Allora, gliel'ha detto sì o no?»
«Sì.»
Di nuovo quella risata squillante.
«E non le ha proposto di firmare un registro di matrimonio fasullo col nome di mio figlio? Non le ha parlato di un prete suo complice che doveva venire qui col registro?»
«Sapeva anche questo? Be', poi c'è la faccenda del testamento.»
«Certo. Povero Jerry! Deve sentirsi una grande confusione in testa, vero? Finora lei ha fatto un lavoro meraviglioso, sostituendo mio figlio. Come già le ho detto, attualmente John si trova all'estero. Visto che è stato molto leale nei miei confronti, anch'io voglio essere estremamente franca con lei.» Si protese in avanti e mi diede un colpetto sul ginocchio. «Voglio rivelarle la triste verità, anche se la notizia deve restare strettamente confidenziale. Temo che il signor Durant non approverebbe, ma lasciamo perdere. In ogni caso, lei si è guadagnato il diritto di conoscere la verità.»
Me ne rimasi seduto a fissarla.
«E adesso, caro Jerry, la prego di darmi la sua parola d'onore che non dirà nulla di quello che sto per rivelarle.» I suoi occhietti scuri incontrarono i miei. «Promette?»
Dovevo sapere. La situazione minacciava di portarmi alla follia.
«Sì, prometto» risposi.
«Molto bene, Jerry. Vede, era già successo tutto prima. Etta ha raccontato la stessa triste storia anche a Larry Edwards. Lui ha cominciato a preoccuparsi, proprio come lei, ed è venuto da me. Suppongo che Etta le abbia offerto due milioni di dollari per falsificare la firma di mio figlio sul testamento, vero?» Annuii. «Sì, lo immaginavo. Aveva fatto la stessa offerta anche a Larry. Ho fatto di tutto per rassicurarlo, ma lui non voleva più saperne di collaborare.» Mi rivolse un'occhiata molto eloquente. «Così gli ho pagato quello che gli spettava e lui se n'è andato.» Scosse la testa e gli occhi le divennero mesti. «Era proprio un bel giovanotto. Peccato che gli sia capitato quel terribile incidente.»
Mi sentii la bocca secca. Avevo captato una nota di minaccia in quelle parole.
«Immagino che adesso si starà facendo un mucchio di domande, Jerry» proseguì. «Certo, Etta è la moglie di John. Si sono sposati due anni fa, ma non le chiedo di accettare la mia parola a scatola chiusa. Posso fornirle una prova.» Mise giù il barboncino e si alzò, poi attraversò la stanza e si diresse verso un armadietto, che aprì. Quando tornò da me, in mano aveva una grande busta. «Verifichi lei stesso. Qui ci sono le fotografie del matrimonio. È stata un'occasione piuttosto mondana, come capirà.» Posò la busta sulle mie ginocchia.
Io ne estrassi una collezione di fotografie. Loretta, che sembrava raggiante, indossava un abito da sposa bianco col velo ed era stretta a John Merrill Ferguson. Gli sposi erano circondati da un mucchio di persone: Harriet, Durant e un certo numero di visi che. non significavano molto per me. Sfogliai le varie foto. In una si vedeva Loretta nell'atto di tagliare la torta. In un'altra, lei e John Merrill Ferguson brindavano a champagne e via di seguito.
Rimisi il tutto nella busta, poi guardai Harriet.
«Allora perché Loretta mi ha detto che lei e suo figlio non erano sposati?» chiesi con voce tremante.
«Be', quello è il triste segreto che io e mio figlio cerchiamo di tenere nascosto almeno da un anno» rispose tranquillamente lei. «Abbiamo bisogno della sua collaborazione, caro Jerry. Lei ha il diritto di sapere, come le ho detto. Ma ricordi che mi ha dato la sua parola di non dire niente a nessuno. E io ho accettato la promessa che mi ha fatto.» Allungò la mano e mi diede un altro colpetto sul ginocchio. «Loretta è malata di mente.»
La cosa non mi sorprese poi tanto. Mi ero già formato un'opinione simile in base al comportamento che Loretta aveva tenuto con me.
«Così tutti quei discorsi sono solo delle farneticazioni? Compreso il fatto che avrebbe cercato di persuadere Mazzo a ucciderla?»
«Ma certo, caro Jerry. A Mazzo non verrebbe mai in mente una cosa del genere. Io ho la più completa fiducia in lui.»
«Loretta mi ha detto che lei e Mazzo erano amanti.»
Di nuovo quella risata squillante.
«Etta è tormentata dall'idea delle tentazioni sessuali. Ha sedotto anche il povero Larry.» Mi lanciò un'occhiata maliziosa. «Ci scommetto che avrà sedotto anche lei, no? Be', posso capirlo. Gli uomini la trovano irresistibile, ma non il povero Mazzo. Lui ha perso parte della sua... ehm, virilità, diciamo così, in Vietnam. No, Mazzo non è più capace di andare a letto con una donna.»
Mi ci volle qualche secondo per assorbire quell'informazione. Poi dissi: «Suo figlio non è stato rinchiuso in una stanza con un infermiere? Ho visto delle sbarre alle finestre dell'ala sinistra della casa.»
«Ah, le ha notate? Ci sono delle occasioni in cui è necessario tenere Etta confinata dietro quelle sbarre. È per il suo bene, sa. Sì, abbiamo un'infermiera che risiede abitualmente qui. Se abbiamo messo quelle sbarre, è stato solo per ragioni di sicurezza. Una volta Etta ha tentato di buttarsi da una delle finestre dell'ultimo piano. La sua è una forma di malattia mentale decisamente strana.» Harriet fece una pausa per coccolare il barboncino, poi proseguì. «È cominciato tutto dopo che lei ha avuto un aborto. Sia mio figlio che Etta morivano dalla voglia di avere un bambino, ma purtroppo lei non è riuscita a portare a termine la gravidanza. Da quel momento, Etta ha cominciato a diventare mentalmente instabile. C'erano volte che s'immaginava persino le cose, come se avesse le visioni. Per esempio, ci siamo accorti che quando c'era la luna piena lei tendeva a perdere il controllo e dava in escandescenze, così non c'è rimasta altra soluzione che quella di rinchiuderla. Al tramonto della luna, di solito diventa abbastanza ragionevole da poter condurre una vita normale. Ma quando c'è la luna piena e John è via, come in questo caso, è meglio che io sia presente qui. Tra pochi giorni avremo di nuovo la luna piena, così non ci resterà altro da fare che rinchiudere Etta. Abbiamo consultato i migliori specialisti in grande segretezza, ma il suo è un caso senza speranza.» Si appoggiò allo schienale e riprese ad accarezzare il barboncino. «Ora sa tutto del nostro tragico segreto, Jerry. Mio figlio non sopporta l'idea che qualcuno possa venirne a conoscenza. Lui adora Etta. Perciò le chiedo di essere paziente e di continuare a collaborare con noi. Non sarà ancora per molto, glielo assicuro.»
Pensai a Larry Edwards. A quanto pareva, lui si era rifiutato di collaborare e aveva avuto un incidente fatale. Ma io non avrei fatto la stessa fine.
«Grazie per essersi confidata con me, signora Harriet» dissi in tono sincero. «Adesso che conosco i fatti, può contare di sicuro sulla mia collaborazione.»
Lei mi guardò raggiante.
«Oh, sapesse come sono felice! Non se ne pentirà, glielo prometto. E non badi a quello che dice la povera Etta. Sia gentile con lei. Finga di fare tutto quello che le chiede. Vedrà che nei prossimi giorni diventerà ancora più scatenata.» Si alzò. «Si ricordi, caro Jerry: John ha una notevole influenza in questo Paese, e i Ferguson sono sempre generosi con chi li aiuta.» Si avviò alla porta. «Faccia un buon pranzo e chieda a Mazzo di portarle quello che più le piace.» Aprì il battente con gli occhietti fissi su di me. «Buona giornata» disse. Poi se ne andò.

Dopo un leggero pranzo, Mazzo mi propose di fare una partita a tennis.
Non potevo restare in quella stanza per tutto il pomeriggio, specie dal momento che fuori c'era il sole, ma non mi sentivo dell'umore adatto per giocare. Il risultato fu che Mazzo vinse in tre set senza lasciarmi nemmeno un gioco.
Mentre ci infilavamo i pullover, lui mi lanciò un'occhiata pensosa.
«Hai qualcosa per la testa, signor Ferguson? Di solito, giochi un po' meglio.»
«Non mi sentivo dell'umore adatto, tutto qui.» Presi la mia racchetta. «Dimmi una cosa, Mazzo, hai mai combattuto in Vietnam?»
«Chi, io?» Sorrise. «In Vietnam? Il capo ha mosso qualche pedina e mi ha fatto distaccare dal reparto. Quello che dice il capo è legge per tutti, lo sapevi? Io ero troppo importante come guardia del corpo perché lui mi lasciasse andare a marcire in Vietnam.» Fece una pausa e mi fissò. «Ma perché t'interessa tanto?»
«Era solo una piccola curiosità. Io c'ero, così mi chiedevo se c'eri anche tu.»
«Nossignore. Quella merda andava bene per gli idioti.»
Mi lasciò mentre facevo la doccia. Dopo essermi rivestito, andai in salotto e mi sedetti.
Harriet mi aveva mentito sul fatto che Mazzo era stato ferito in Vietnam e che di conseguenza aveva perso la virilità. Ma perché? Se mi aveva mentito riguardo a Mazzo, poteva avermi mentito anche su Loretta? Era possibile che quelle fotografie che mi aveva mostrato fossero dei falsi? Con un buon fotomontaggio, non sarebbe stato difficile sostituire il viso di una qualsiasi altra ragazza con quello di Loretta. Mi diressi verso l'armadietto da cui Harriet aveva preso la busta con le foto, lo aprii e fissai le mensole vuote. Dopo aver esaminato le foto, le avevo rimesse dentro la busta e avevo lasciato quest'ultima sulla scrivania. Dovevano essere state rimosse mentre giocavo a tennis.
Tornai alla mia poltrona.
A chi dovevo credere?
John Merrill Ferguson era un prigioniero sorvegliato a vista, o le sbarre che avevo visto alle finestre erano state messe lì solo per impedire a Loretta di gettarsi di sotto?
Che entrambe quelle donne fossero un po' lunatiche?
Adesso era convinto che non sarei riuscito a scappare, quella notte. Potevo uscire di casa solo durante il giorno, quando mi permettevano di camminare dentro i confini della proprietà in compagnia di Mazzo. Andai alla finestra e guardai in basso, verso l'enorme prato. C'erano due guardie del corpo a perlustrarlo. Mi trasferii in camera da letto e diedi un'occhiata alla piscina. Nei pressi c'erano altre due guardie. Era possibile che tra gli alberi, ben mimetizzate, si nascondessero ulteriori guardie?
Ero fiducioso di potermi liberare di Mazzo, ma quale strada avrei dovuto prendere per cercare di fuggire?
La tenuta era circondata da muri alti tre metri e mezzo. Sarei riuscito a scavalcarli? Ma sarebbe stata di sicuro un'operazione molto lunga, e le guardie potevano accorrere da un momento all'altro. No, non era quella la strada. Tornai alla finestra del salotto. Alla mia sinistra c'era il triplo garage con i portelloni aperti. Vidi la Rolls, una Cadillac e una Jaguar. Mi venne in mente la grande cancellata di ferro in fondo al vialetto. Con una macchina robusta e pesante come una Rolls, procedendo a tutta velocità, molto probabilmente sarei riuscito ad aprirmi un varco sfondando il cancello. Con i finestrini sollevati e le portiere bloccate, le guardie del corpo non sarebbero state in grado di fermarmi.
Ecco come sarei fuggito!
Accostai una poltrona alla finestra e mi sedetti. Dal punto in cui mi trovavo, riuscivo a vedere molto chiaramente il garage.
Erano esattamente le cinque e un quarto del pomeriggio.
Dopo una decina di minuti, l'autista giapponese prese a scendere le scale esterne uscendo da un appartamento sopra il garage. Indossava una camicia e i pantaloni grigi dell'uniforme.
Mi ero dimenticato di lui. Poteva crearmi qualche problema. Avrei dovuto cimentarmi con l'autista, oltre che con Mazzo? Le mie speranze di fuga si attenuarono un po'. I giapponesi sono gente ostica, anche perché di solito conoscono bene il judo e il karatè. Mi venne in mente che avevo dovuto affrontare un giapponese in un film di spionaggio. Be', lui mi aveva messo praticamente al tappeto, e il regista era stato costretto a intervenire per dirgli di calmarsi.
Ma forse l'autista non sarebbe stato in giro quando avrei tentato la fuga.
Mi chiesi se il giapponese avesse l'abitudine di lasciare inserita la chiavetta d'accensione. Sarei riuscito ad avviare la Rolls, in mancanza della chiavetta? Aprire il cofano e trafficare con i fili avrebbe comportato di sicuro un ritardo che poteva essermi fatale.
Osservai l'autista chiudere i portelloni del garage, salire la scala e sparire.
L'indomani mattina, armato del fermacarte, avrei detto a Mazzo che volevo sgranchirmi un po' le gambe. Avremmo fatto una passeggiata nella tenuta e poi saremmo arrivati al garage.
Stavo ancora pensandoci quando Mazzo entrò col carrello della cena.
«Oggi pollo alle mandorle, signor Ferguson» disse. «Una specialità in tuo onore.»
«Harriet mi ha parlato, Mazzo» dissi, avvicinandomi al tavolo. «Secondo lei, Loretta è matta da legare. Tu che ne pensi?»
Lui servì il pollo e posò il piatto davanti a me.
«Non stare a spremerti le meningi su quello che dice la vecchia. Fai il tuo lavoro e vedrai che tutto andrà bene.»
«Un'altra cosa» dissi, guardandolo negli occhi. «Lei mi ha praticamente detto che hai perso le balle nella guerra del Vietnam.»
Lui mi restituì lo sguardo, ma la sua espressione era assente.
«Cosa?»
Gli ripetei quello che avevo detto.
«Vuoi metterti in testa che non sono mai stato in quel posto di merda?» ringhiò.
«Oh, certo.» Iniziai a mangiare, consapevole del fatto che lui stava continuando a tenermi gli occhi puntati addosso.
«Perché ha detto una cosa del genere?» borbottò.
«Perché, parlandomi, Loretta si è lasciata sfuggire che tu stavi scopandola, Mazzo, e io ho riferito la cosa alla vecchia. Così lei mi ha precisato che non potevi più farti nessuna donna e mi ha spiegato perché.»
«Io? Io avrei scopato la signora F.?» Mazzo stava quasi urlando. «Questa è una maledetta balla!»
«Loretta me l'ha detto perché ti tiene in suo potere, Mazzo. Tu dovresti assassinare Harriet: strisciare in camera sua e soffocarla con un cuscino.» Posai coltello e forchetta, poi mi volsi e lo guardai.
Lui era immobile, la fronte imperlata di sudore.
«Te lo dico, Mazzo, perché hai bisogno di avere un amico, così come me, d'altra parte. Loretta è abbastanza folle da uccidere Harriet e scaricare la colpa su di te.»
Mi pareva quasi di sentire il lavorio del suo cervello. Continuava a restarsene immobile, cercando di mettere ordine nei suoi pensieri.
«Ti avverto, Mazzo. Queste due donne sono pericolose. Tu potresti ritrovarti con un'accusa di omicidio sul groppone senza nemmeno accorgertene.»
Lui si riscosse.
«Chiudi il becco!» ringhiò. «Un'altra stronzata di questo genere e ti stacco la testa dal collo.»
Poi se ne andò, sbattendo la porta.
Avevo gettato un seme di paura in lui, ne ero certo.
E l'indomani avrei tentato la fuga.

7

Passai una notte inquieta. Anche se ero assolutamente determinato a fuggire la mattina seguente, più pensavo al mio piano e meno mi sentivo sicuro di farcela.
Ero abbastanza fiducioso che sarei riuscito a neutralizzare Mazzo, ma restava l'incognita dell'autista giapponese, che mi preoccupava non poco. Poi c'era il problema della chiavetta d'accensione. L'autista aveva l'abitudine di lasciarla inserita? Mi pareva improbabile, ma in fondo nei dintorni gironzolavano le guardie del corpo e lui poteva pensare benissimo che nessuno si sarebbe mai sognato di rubare la macchina.
Poi pensai al grande cancello di ferro. Avrebbe resistito all'impatto di una Rolls lanciata a tutta velocità?
Nonostante tutti quei dubbi, avevo intenzione di rischiare.
Mi stavo facendo la barba quando sentii Mazzo entrare col carrello della colazione. Terminai di radermi, mi applicai una piccola quantità di after-shave sulle guance e andai in salotto.
«Salve, Mazzo» dissi. «Ho voglia di sgranchirmi le gambe, stamattina. Che ne dici di un po' di jogging?»
Il mio piano era di fare una corsetta intorno alla casa e di fermarmi vicino al garage. Poi avrei detto a Mazzo che non avevo mai visto il motore di una Rolls e che mi sarebbe tanto piaciuto darci un'occhiata. Una volta dentro il garage, avrei trovato un modo per metterlo fuori combattimento, quindi sarei salito a bordo della Rolls, avrei chiuso le portiere col fermo e, sempre sperando che la chiavetta fosse inserita, sarei partito a tutta birra.
«Stamattina dobbiamo andare in ufficio» borbottò Mazzo.
Gli lanciai un'occhiataccia.
«È tornato il signor Durant?»
«Ordini della signora Harriet. E adesso mangia.»
Mi calmai all'improvviso. Che diavolo stava succedendo? Se Durant era tornato con le ultime carte da firmare, ciò voleva dire che il mio tempo stava scadendo.
Bevvi il caffè, mangiai una fetta di pane tostato e ignorai le uova al prosciutto.
Mazzo entrò in camera da letto. Io lo seguii e lo vidi prendere un vestito da uno degli armadi. "Quell'abito era mio!" Cominciai a sentirmi afferrare dal panico.
«Non metterti la maschera» disse Mazzo. «Devi andare in ufficio con la tua faccia, chiaro?»
«Perché?»
«Tu parli troppo. Sei pagato per fare quello che ti dicono, no? E adesso vestiti, partiamo tra mezz'ora.» E se ne andò.
Io restai in piedi, immobile, per alcuni terribili attimi, sentendo il cuore che mi martellava nel petto.
"Devi andare in ufficio con la tua faccia."
Quello poteva voler dire solo una cosa: che Durant era tornato con le ultime carte da firmare e che, al termine della seduta prevista, mi avrebbe lasciato andare via, libero. Forse avrebbe chiesto a Mazzo di accompagnarmi all'aeroporto di Miami, in modo che potessi prendere il primo aereo per Los Angeles.
Ma in realtà, durante il tragitto per l'aeroporto, mi avrebbero combinato qualche scherzetto, magari iniettandomi del veleno, e io avrei cessato di esistere.
Ero così terrorizzato che non la smettevo più di sudare.
Mi diressi al frigo bar e mi versai un whisky abbondante. Lo trangugiai d'un fiato, come se fosse acqua, poi attesi l'effetto. Dopo qualche secondo, cominciai a sentirmi meglio.
"Forza, Jerry" mi dissi "non sei ancora morto".
Appena mi fossi trovato in ufficio, decisi che mi sarei rifiutato di firmare. Quella mossa da parte mia avrebbe creato un po' di scompiglio nei loro piani omicidi. Cosa potevano fare? In ogni caso, con quella tattica dilatoria almeno avrei guadagnato un po' di tempo.
Sentendomi leggermente euforico, mi misi i miei vestiti e le scarpe. Dopo aver indossato gli abiti esclusivi di John Merrill Ferguson per tanti giorni, adesso il mio vestito aveva un'aria terribile. Mi guardai allo specchio con aria decisamente critica. Mi ero dimenticato di che cos'era il mio aspetto prima che iniziassi a impersonare Ferguson. Sembravo esattamente quello che ero: un attorucolo dall'aria afflitta in cerca di lavoro. Non c'era da meravigliarsi che Lu Prentz avesse smesso di invitarmi a pranzo. Poi mi venne in mente che avevo settemila dollari in banca. Se riuscivo a tirarmi fuori da quell'imbroglio, mi sarei rinnovato l'intero guardaroba e avrei continuato a tempestare Lu fino a quando non mi avesse trovato un lavoro. Ma prima dovevo trovare una via di scampo.
«Metti la maschera e il resto nella borsa del trucco» disse Mazzo, che era entrato silenziosamente nella stanza.
«Si può sapere che sta succedendo?» gli chiesi, fissandolo.
«Mi hai sentito, no? Impacchetta tutto!»
"Non ti agitare" mi dissi mentre entravo in bagno. "E ricorda: sei tu che hai l'ultima parola. Devi solo rifiutarti di firmare".
Infilai la maschera, i baffi e le sopracciglia nella borsa del trucco, che Mazzo mi strappò subito dalle mani. Sul letto c'era una valigia, dentro la quale si vedeva l'abito scuro di mohair che io avevo indossato ma che apparteneva a John Merrill Ferguson. Mazzo ripose la borsa dentro la valigia, chiuse il coperchio e fece scattare le serrature.
«Andiamo.»
Scendemmo le scale e ci dirigemmo all'uscita. Ad attenderci fuori c'era un taxi dall'aria piuttosto malconcia. Al volante sedeva Marco, una delle guardie del corpo.
Un uomo sbucò all'improvviso dall'atrio in penombra e prese la valigia dalle mani di Mazzo.
«Questo è Pedro» disse Mazzo. «Si occuperà lui di te. Fai quello che ti dice, chiaro?»
Guardai il tipo che era appena arrivato: era piccolo, robusto, aveva le spalle larghe e portava un abito azzurro dalla stoffa leggera e un panama marrone.
Durante i miei trascorsi cinematografici mi ero imbattuto in un mucchio di cattivi e lestofanti vari dall'aria indubbiamente poco raccomandabile, ma quello li batteva tutti. Si sarebbe meritato l'Oscar come il cattivo del secolo. Mi balenò nel cervello l'idea che forse sarebbe stato lui il mio carnefice. Aveva un'aria sufficientemente sinistra da poter interpretare quel ruolo a meraviglia. Era stato lui a uccidere Larry Edwards e Charles Duvine?
«Tu non vieni?» chiesi a Mazzo.
Lui mi rivolse un sorrisino furbo.
«Ho delle cose da fare. Vai con Pedro, ti dico. Ci penserà lui a starti dietro.»
Pedro mi fece segno di salire a bordo del taxi. Avevo una voglia terribile di scappare, ma mi accorsi che due guardie del corpo stazionavano nei pressi e ci tenevano d'occhio. Sudando, scesi i gradini del portico e salii in taxi. Mentre mi accomodavo sul sedile scarsamente molleggiato, Pedro prese posto al mio fianco. Il taxi partì subito.
«Si calmi, signor Stevens» disse Pedro in un soffio. «Lei fa il suo lavoro e io faccio il mio, va bene?»
Il suo lavoro? Cioè quello di assassinarmi?
Non dissi nulla.
Mentre ci avvicinavamo all'alto cancello, mi protesi in avanti. Una guardia aprì i due battenti e, guardandoli, ebbi la quasi totale certezza che sarei riuscito ad abbatterli con la Rolls, se ne avessi mai avuto l'opportunità.
Mi appoggiai allo schienale mentre il taxi lasciava la residenza dei Ferguson e si dirigeva verso il centro città. E se avessi cercato di fuggire appena sceso dal taxi, prima di entrare negli uffici della Ferguson Electronic & Oil Corporation? Avrei trovato la stampa ad aspettarmi, questo era sicuro. E Pedro non avrebbe osato tirare fuori la pistola che sicuramente aveva. Decisi che me la sarei data a gambe appena il taxi si fosse fermato. Le guardie del corpo e Pedro sarebbero rimasti con un palmo di naso. Non potevano mica seguirmi lungo la strada affollata, no?
Poi, all'improvviso, mi resi conto che il taxi aveva lasciato il viale e si era introdotto in una stradina laterale.
Sorpreso, guardai Pedro.
«L'autista ha sbagliato strada» dissi con la bocca secca.
Lui sogghignò.
«Stavolta passiamo dal retro, signor Stevens» disse. «Così non dovremo preoccuparci dei soliti sciacalli.»
Era come se mi avesse letto nel pensiero. Il panico si reimpossessò di me. Dovevo gettarmi fuori dall'auto; non c'era altra soluzione. Guardai la portiera dalla mia parte e vidi che la maniglia era stata rimossa.
La pesante mano di Pedro si posò sul mio braccio.
«Non si agiti, signor Stevens.»
Il taxi rallentò e imboccò una specie di rampa lunga e scura. Al termine della rampa c'era una sbarra; quando quest'ultima si alzò, noi entrammo in un grande garage sotterraneo.
Dalle ombre sbucarono tre uomini: le guardie del corpo di Ferguson, evidentemente. I tre si disposero a cerchio intorno alla macchina e presero a guardarci in silenzio, con aria sinistra.
Pedro scese e portò con sé la valigia.
«Andiamo, signor Stevens.»
Scesi anch'io dal taxi e mi guardai in giro. Come se avessero ricevuto l'imbeccata da un regista invisibile, le tre guardie del corpo mi si piazzarono alle spalle, così non mi restò altro che seguire Pedro fino all'ascensore. Entrammo e lui schiacciò un pulsante. Le guardie si fecero indietro poco prima che le porte dell'ascensore si chiudessero e noi cominciassimo a salire.
Pedro mi guidò attraverso un lungo corridoio, poi aprì una porta e si scostò.
«Stia calmo, signor Stevens» disse. «Si sieda e ascolti quello che le dicono, va bene?»
Entrai in una sala d'attesa arredata in modo molto elegante. C'erano almeno una ventina di poltrone e vari tavolini su cui erano state posate delle riviste.
«Si sieda» ripeté Pedro, chiudendo la porta. Si avvicinò a una poltrona e si accomodò, poi allungò il braccio per prendere una copia di "Penthouse".
Mi diressi alla grande finestra e diedi un'occhiata verso Paradise Boulevard, trenta piani più sotto. Gli esseri umani sembravano formiche, e le auto tanti giocatoli in miniatura. Più in là c'erano la spiaggia, le palme e infine il mare.
All'improvviso, Pedro si lasciò sfuggire un debole fischio.
«Questa bambola non si preoccupa nemmeno di tenere le gambe chiuse» borbottò. «Ragazzi! Mi piacerebbe farci qualche piccolo esercizio, con quella.»
Lo ignorai. La mia mente era concentrata su altri problemi. Tutte le volte che progettavo una fuga, le mie speranze venivano immancabilmente frustrate. E se adesso fossi scappato dalla stanza mettendomi a gridare aiuto? E se...
La porta si aprì di colpo. Sulla soglia era apparsa Sonia Malcolm.
La vista della segretaria mi fece tirare un sospiro di sollievo. Da quando mi ero trovato coinvolto in quell'incubo, lei era stata l'unica persona normale che avessi incontrato. Ma sapevo che non avrei mai potuto coinvolgerla. Come facevo a spiegarle in che pasticcio mi trovavo? Non avrei mai avuto l'opportunità, ma anche se fossi riuscito in qualche modo a comunicare con lei, molto probabilmente avrebbe pensato che fossi matto da legare.
«Signor Stevens?» mi disse, guardandomi. «Vuole seguirmi, per favore?»
Vidi che i suoi occhioni seri si soffermavano sul mio abito sdrucito e sulle scarpe consunte. Doveva essersi abituata a vedere solo ricchi e immacolati uomini d'affari in quell'ufficio, ma comunque la sua espressione non cambiò.
La guardai negli occhi, ma lei non mostrò alcun segno di avermi riconosciuto. Perché mai avrebbe dovuto? Addosso non avevo più la maschera di John Merrill Ferguson. Lei vedeva solo Jerry Stevens, un attore di quart'ordine e per di più disoccupato.
La seguii nel corridoio.
Borbottando, Pedro posò la rivista, prese la valigia e si accodò a noi due.
Mentre giravamo l'angolo del corridoio, davanti a me vidi la porta che conduceva all'ufficio di John Merrill Ferguson.
Dietro la porta, pensai, avrei trovato ad aspettarmi Joe Durant con le ultime carte da firmare. Mi feci coraggio.
Sonia aprì la porta e si spostò di lato.
«Prego, signor Stevens.» Mi fece segno di andare avanti.
Entrai nella stanza che ormai mi era familiare, aspettandomi di trovare Durant alla scrivania.
Mi fermai di colpo e fissai stupefatto davanti a me mentre Sonia chiudeva la porta alle mie spalle.
"Invece di Durant, alla scrivania dietro cui mi ero seduto un paio di giorni prima, c'era l'uomo che stavo impersonando: John Merrill Ferguson."

La mente si muove con la velocità della luce.
Mentre me ne restavo lì a guardare l'uomo seduto dietro la scrivania, ricordai un famoso attore cinematografico che una volta aveva attaccato bottone con me. L'uomo mi aveva raccontato un'esperienza terrorizzante che gli era capitata.
«Dormivo, Jerry» mi aveva detto. «Poi, a un tratto, mi sono svegliato e mi sono visto in piedi accanto al letto. Era come se fossi uscito fuori dal mio corpo. Guardavo me stesso... non un semplice riflesso allo specchio, bada bene, ma proprio me stesso. È stata l'esperienza più paurosa e incredibile che abbia mai vissuto. Io... fuori dal mio corpo!»
Sapevo che era ubriaco, eppure le sue parole mi erano rimaste impresse.
E adesso, anche a me pareva di guardare il mio riflesso allo specchio, solo che lo specchio non c'era. Avevo passato giorni interi a ripetermi che potevo essere John Merrill Ferguson.
Ma ora capivo bene quello che mi aveva detto l'attore, perché anch'io stavo vivendo la stessa esperienza. Ed era un'esperienza egualmente paurosa e incredibile.
John Merrill Ferguson si alzò, fece il giro della scrivania e mi sorrise in modo estremamente cordiale.
«Signor Stevens!» esclamò, avvicinandosi a me. «È una cosa piuttosto strana, no?» Mi afferrò la mano e la strinse con calore. «Dev'essere un po' sorpreso, immagino. Ma venga qui e si sieda. Adesso ne parliamo.»
Sempre stringendomi la mano, mi guidò verso una poltrona.
«Non sia così preoccupato. Ci sono molte cose di cui devo ringraziarla.» La voce di Ferguson, decisamente cordiale, mi rinfrancò non poco. «Si sieda e facciamoci un drink.»
Mentre mi accomodavo, lui si diresse verso l'armadietto dei liquori.
Poi si guardò da sopra la spalla e sorrise.
«È un po' presto, lo so, ma non è mai troppo presto per una coppa di champagne.»
Me ne stavo seduto lì, cercando di recuperare il mio equilibrio nervoso, mentre lui faceva saltare il tappo e versava lo champagne. Poi si avvicinò a me, posò il mio bicchiere su un tavolino e si sedette, guardandomi in faccia.
«Ha svolto un lavoro eccellente, signor Stevens» disse, alzando la coppa. «Alla sua salute.»
Quelle parole mi giunsero così inattese che per qualche secondo non riuscii ad aprire bocca, ma alla fine mi riscossi, presi il mio calice con mano tremante e mi associai al brindisi.
«Non mi pareva possibile che esistesse un uomo in grado di impersonarmi così brillantemente come ha fatto lei.» Posò lo champagne. «Mentre ero qui alla scrivania, ho visto alcune foto di lei che gioca a tennis e che entra nei nostri uffici. Ho continuato a fissarle sbalordito per un mucchio di tempo. Mi sembrava proprio di vedere me! Poi ho sentito un nastro in cui lei parlava con Walter Bern. E la sua voce era uguale identica alla mia!»
Mi pareva davvero molto cordiale ed entusiasta. Come avrebbero fatto molti attori, anch'io mi dimostrai sensibile ai suoi elogi. Cominciai a rilassarmi.
«Be', signore» dissi «sono stato assunto per fare questo lavoro e sono felice che lei sia soddisfatto.»
«Soddisfatto? Questa parola non rende affatto quello che provo, le assicuro.» Mi rivolse un sorriso molto sincero. «Lei mi ha fatto risparmiare un mucchio di soldi, signor Stevens... ma al diavolo anche questa storia del "signor Stevens". Cerchiamo di essere più informali. Che ne dice di Jerry e John?»
Io lo guardai stupefatto.
Uno dei più ricchi e potenti uomini del mondo mi chiedeva di chiamarlo per nome!
Il morale mi salì alle stelle.
«Come vuole, signore» dissi.
Lui sorrise.
«Va bene. Le darò un po' di tempo per rilassarsi, Jerry. Lei ha fatto un lavoro davvero eccellente. Ha preso in giro la stampa e ha ingannato persino il mio vecchio maggiordomo. Senza di lei, non sarei mai potuto andare a Pechino e concludere un grosso affare. Tutti i pescicani di qui, compresa la CIA, pensavano che fossi a casa.» Il suo volto s'incupì all'improvviso. «Le parlo in via strettamente confidenziale, Jerry. Tutto quello che le dirò non deve uscire da queste pareti, è chiaro?»
«Sì, signor Ferguson.»
«Ho una proposta da farle, ma prima voglio sapere cosa ne pensa del suo futuro di attore. Vuole tornare davvero a frequentare quella specie di bordello? Sia franco con me. Se è intenzionato a calcare di nuovo le scene, me lo dica sinceramente; io capirò. Ma se è pronto a rinunciare, ho un'offerta da farle che le assicurerà un cospicuo stipendio senza il minimo problema, togliendole qualsiasi preoccupazione finanziaria per il futuro.»
Mi tornarono in mente Lu Prentz e i giorni desolati trascorsi a casa attendendo disperatamente che squillasse il telefono. Pensavo di tornare a Hollywood, trovarmi un appartamentino e passare di nuovo le mie giornate accanto al telefono. Ma quel pensiero mi raggelò.
«Lasci che metta le carte in tavola, Jerry» disse Ferguson, vedendo la mia esitazione. «E badi che quello che le dirò deve restare tra noi. Il modo così brillante in cui si è calato nei miei panni mi ha fatto venire in mente un'idea. Le offro un impiego permanente nel mio staff. Quando avrò nuovamente bisogno di scomparire, lei prenderà il mio posto. Sarà il mio assistente di fiducia. Avrà un ufficio tutto per sé e le troveremo qualche lavoretto semplice semplice. Come copertura, s'intende. Così avrà un mucchio di tempo libero. Il suo vero lavoro sarà quello di impersonare me quando avrò bisogno di sottrarmi alla pubblicità. E firmerà documenti poco importanti, stia tranquillo.» Fece una pausa e sorrise. «Non credevo ai miei occhi quando ho visto come imitava bene la mia firma. Mi sembrava che quelle carte le avessi firmate proprio io. Questa è l'offerta. E adesso passiamo alle condizioni. Se accetta, le darò centomila dollari all'anno e inoltre le fornirò una casa e un'automobile. Il contratto sarà valido per sette anni, con un aumento di diecimila dollari dopo i primi tre anni. Potrà interrompere il contratto quando crede, non prima però di avermi dato sei mesi di preavviso.» Sorrise ancora. «Lei è troppo prezioso perché possa perderla, Jerry. In cambio dei miei soldi, mi toglierà un bel mucchio di grattacapi. Allora, cosa ne dice?»
Me ne restai seduto a fissarlo, incredulo. Mi pareva una specie di sogno.
«Certo, immagino che voglia pensarci. Non era mia intenzione farle fretta» riprese Ferguson. «Prima, comunque, voglio che lei veda il posto dove abiterà e la macchina che le ho assegnato, così potrà decidere meglio. Se accetta la proposta che le ho fatto, diventerà un membro del mio staff. È possibile che non abbia niente da fare per un paio di settimane, diciamo; poi, quando andrò via, lei dovrà prendere il mio posto. Quando non mi impersona, sarà libero di fare quello che le pare e piace in questa città. Se i suoi amici vogliono sapere quello che fa, dica che lei è il mio assistente personale e che a nessun membro dello staff è consentito di parlare del suo lavoro. I miei dipendenti sono tutti molto leali, e naturalmente mi aspetto che lo sia anche lei.»
Si alzò, andò alla scrivania e schiacciò un pulsante sull'interfono.
«Signorina Malcolm, le dispiace venire qui?» Poi si rivolse a me e aggiunse: «La signorina è la mia vicesegretaria. Sarà lei ad accompagnarla, visto che sa tutto della sostituzione. Il signor Durant, la mia segretaria, la signorina Malcolm e Mazzo sono al corrente di tutto. Perciò può fidarsi ciecamente di lei, Jerry.»
Sonia entrò.
«Le affido il signor Stevens, signorina Malcolm» disse Ferguson, sorridendole. «Sa cosa deve fare, no?»
«Sì, signore.»
Mi alzai ancora sbalordito.
«Ci pensi sopra, Jerry» disse Ferguson. Mi strinse la mano e aggiunse: «Mi farà sapere quello che ha deciso prima delle sei di oggi pomeriggio?»
«Senz'altro, signore» dissi, poi seguii Sonia fuori dalla stanza.
Il mio cervello era in subbuglio. Che offerta! Centomila dollari all'anno, un alloggio gratis e una macchina! E il tutto per un lavoro davvero poco ingombrante. Così sarei stato libero di esplorare questa meravigliosa città.
Basta con Mazzo, con Pedro, col terrore di poter essere assassinato da un momento all'altro.
Non riuscivo ancora a crederci.
Sonia si fermò vicino a una porta e l'aprì.
«Noi due divideremo questo ufficio, signor Stevens» disse, entrando in una stanza molto spaziosa dove c'erano due scrivanie perfettamente attrezzate con macchine da scrivere, telefoni e un interfono. La vista dava sulla spiaggia in lontananza.
«Non è meraviglioso?» disse lei, sorridendomi. «Quell'uomo è davvero una specie di Dio. Sceglie i suoi dipendenti e li rende felici. Ancora non riesco a credere che abbia scelto me.»
«Be', anch'io sono stato fortunato.»
«L'ho vista in televisione. Immagino che sia una cosa fantastica fare l'attore.»
«Non creda.» La guardai, sempre più conquistato dal suo fascino. «Sono contento di esserne uscito.»
Lei sorrise di gusto.
«Però deve parlarmene. Adesso andiamo. L'aspetta una casa stupenda, e la sua auto...»
Mi scortò lungo il corridoio fino agli ascensori, poi di nuovo nel garage.
«Ecco» disse, indicando una Mercedes blu a due posti. «Non è una bellezza?»
Avevo sempre desiderato una Mercedes. Feci il giro dell'auto, la accarezzai e alla fine sorrisi in direzione di Sonia.
«Fantastica!»
Lei aprì la portiera dalla parte del passeggero e scivolò all'interno.
«Dobbiamo sbrigarci, signor Stevens. Ho un mucchio di lavoro da fare, oggi pomeriggio.»
Mi sedetti dietro il volante, consapevole che due guardie del corpo stavano tenendomi d'occhio. Mi diressi verso la sbarra, che si alzò subito.
Mi pareva di guidare su una nuvola.
«Svolti a destra e costeggi il viale» mi disse Sonia. «Le dirò io quando svoltare di nuovo.»
Era come se vivessi in un sogno a colori. Avevo Una macchina meravigliosa e ad accompagnarmi c'era una stupenda ragazza.
In fondo al viale, lei mi disse di svoltare a sinistra, in direzione della spiaggia. Percorremmo il lungomare affollato e poi svoltai a destra, sempre su istruzione di Sonia. Imboccammo una stradina sabbiosa.
«Da qui si va alla spiaggia privata del signor Ferguson» disse lei.
Davanti a noi c'era un grande cancello. Un guardiano ci salutò e lo aprì. Io guidai ancora un po' lungo la stradina e alla fine vidi la casa, bordata da un'alta siepe a da vari palmizi.
Frenai e spensi il motore.
«È questa?»
«È solo una delle tante. Ma è la sua.»
«Una delle tante?»
«Ci sono quattro di queste villette sulla spiaggia, ma ciascuna è completamente privata. Il signor Ferguson non le usa più.»
Scesi dalla macchina e mi avvicinai alla casa, seguito da Sonia.
Era costruita in legno di pino e aveva una grande veranda con varie sedie a sdraio, dei tavolini e un bar. Trasudava opulenza da ogni sua parte.
Sonia salì i gradini che portavano alla veranda, aprì la porta e mi fece segno di avvicinarmi.
Entrai in un salotto ammobiliato in modo assai elegante. C'era praticamente tutto: una TV, uno stereo, una radio, un bar, varie poltrone, una scrivania, due telefoni e via discorrendo. Sul parquet, in legno di pino, erano stati posati dei tappeti persiani e alle pareti pendevano quadri di arte moderna.
La mia nuova casa!
Rimasi impalato sulla soglia e guardai quelle meraviglie con aria incredula.
«Ci sono due camere da letto, due bagni e una cucina perfettamente attrezzata» disse Sonia. «Lei è fortunato, signor Stevens. Questo è un vero paradiso.»
Mi accompagnò nella camera da letto principale: c'erano un enorme letto, vari armadi e una TV. L'altra camera era più piccola ma altrettanto lussuosa.
«La signora Swanson è la domestica che si occupa delle villette» proseguì Sonia. «Comunque, lei adesso è l'unico occupante. La signora Swanson le porterà la colazione tutte le mattine e cucinerà per lei. Tutto quello che deve fare è comporre il numero 22 sul telefono verde e dirle quello che desidera. Da quanto ne so, quella donna è anche un'ottima cuoca. Ah, dimenticavo... sarà lei a occuparsi della sua biancheria.»
«Molto bene.»
«Il frigorifero è ben fornito, ma se c'è qualcosa di particolare che vuole, chieda pure.» Osservando la mia espressione, lei sorrise. «È fantastico, vero? Le piace lavorare per il signor Ferguson?»
«Può giurarci.»
Mentre tornavamo in salotto, sentii suonare un clacson.
«Dev'essere per me, signor Stevens. Devo affrettarmi. È tutto a posto, no?»
«Solo una cosa. Diamoci del tu e chiamami Jerry.»
Lei mi fece un sorriso radioso.
«D'accordo, Jerry. Ciao.» Poi corse verso l'auto in attesa. Al volante vidi Pedro, che si stuzzicava i denti con un fiammifero.
La vista di quel tipo mi fece sentire a disagio. Mi sembrava un assassino prezzolato. Uscii in veranda e Sonia mi salutò con la mano mentre Pedro faceva ripartire l'auto.
Mi sedetti in una delle sdraio e contemplai tranquillamente la spiaggia.
Dovevo ancora abituarmi all'idea. Sembrava un sogno. Solo la sera prima avevo una paura folle di venire assassinato, e adesso mi capitava una cosa simile.
"Lei è troppo prezioso perché possa perderla, Jerry."
Pensando a quello che aveva detto Ferguson, decisi che la sua proposta era più che logica. Spiato dai rivali, ostacolato negli affari, il magnate aveva trovato una perfetta controfigura che non solo aveva il suo aspetto fisico, ma parlava anche come lui ed era in grado di falsificare la sua firma in modo eccellente. Per i miei servigi, era pronto a pagarmi centomila dollari all'anno. A prima vista, quella somma sembrava decisamente esagerata, ma, pensando all'impero economico di Ferguson e alla sua enorme ricchezza, mi resi conto che per lui centomila dollari erano né più né meno che noccioline.
Avrei avuto bisogno urgente di consultare uno strizzacervelli, se non avessi accettato una simile proposta.
Dopo aver deciso, mi resi conto che era passata da un pezzo l'ora del pranzo e che avevo fame. Andai in cucina e aprii il frigorifero. Come mi aveva detto Sonia, dentro c'erano molti cibi freddi. Presi un piatto e lo riempii di pollo, prosciutto e insalata, poi lo portai in veranda e mi sedetti a uno dei tavoli.
"Questa sì che è vita!" pensai mentre iniziavo a mangiare.

Alle quattro e mezzo, salii in macchina, mi diressi alla Ferguson Electronic & Oil Corporation ed entrai dall'ingresso sul retro. Il guardiano mi riconobbe, annuì e alzò la sbarra. Io puntai subito verso l'ascensore e salii all'ultimo piano.
Avevo trascorso un pomeriggio meraviglioso, facendo progetti a ogni piè sospinto. Avevo bisogno di qualche abito nuovo. Non potevo farmi vedere in giro col mio vestito vecchio e consunto. Per acquistare degli abiti mi servivano soldi, ma poi ricordai che avevo settemila dollari a mio credito alla Chase National Bank. Telefonai in banca e dissi all'impiegato di trasferire i soldi all'agenzia di Paradise City. Lui mi assicurò che avrebbe mandato subito un telex. Poi andai a fare una nuotata. E visto che la spiaggia era completamente deserta, nuotai nudo.
Più tardi andai in macchina alla banca, firmai i moduli necessari, mi feci consegnare un carnet di assegni e ritirai mille dollari.
L'indomani mi sarei dato alle pazze spese, mi dissi.
Quando bussai alla porta del mio ufficio ed entrai, mi sentivo una specie di Superman.
Sonia stava battendo sui tasti della macchina da scrivere. Alzò lo sguardo e mi sorrise.
«Tutto bene?»
«Non potrei sentirmi meglio» dissi. «Il signor Ferguson mi voleva qui prima delle sei.»
«Adesso è libero.» Sonia schiacciò il pulsante dell'interfono.
Ci fu una pausa, poi la voce di Ferguson, la voce che io sapevo imitare con tanta fedeltà, disse: «Sì, signorina Malcolm?»
«C'è il signor Stevens, signore.»
«Bene. Me lo mandi subito, per favore.»
Lei chiuse il contatto e mi sorrise.
«Va', Jerry.»
«Se non hai niente di meglio da fare, ti andrebbe di cenare con me, stasera?» le chiesi.
Lei s'illuminò.
«Mi piacerebbe tanto, ma prima va' a vedere che cosa vuole il signor Ferguson.»
«Appena torno, decidiamo dove andare.»
Discesi lungo il corridoio, arrivai alla porta dell'ufficio di Ferguson, bussai ed entrai.
Il boss era alla scrivania. Seduto in una poltrona c'era anche Joe Durant. Fui sorpreso di vederlo. Lui mi guardò con i suoi occhi freddi come l'acciaio.
Ferguson si alzò.
«Entri pure, Jerry» disse con un cordiale sorriso. Ma io vidi che c'era una sfumatura di tensione nel suo sguardo. «Allora, cos'ha deciso?»
Feci un passo all'interno della stanza e chiusi la porta.
«Sarò felice di lavorare per lei, signore.»
Quella nota di tensione sparì dai suoi occhi.
«Si accomodi.» Mi indicò una poltrona vicino a quella in cui sedeva Durant. «Questa sì che è una buona notizia! È soddisfatto dell'ufficio, dell'auto e dell'alloggio?»
«E chi non lo sarebbe, signore?»
«Bene. Joe ha preparato il contratto. Sette anni. È tutto chiaro?»
«Sì, signore.»
«Sarà pagato in anticipo. Ottomilatrecentotrentatré dollari: un mese di stipendio. La signorina Malcolm dedurrà le tasse e le preparerà l'assegno seduta stante.»
Mentre mi sedevo, Durant prese un documento dalla sua cartella e me lo porse. Era un contratto molto semplice, ma in ogni caso lo lessi attentamente. I fatti erano elencati in modo assai preciso: io sarei diventato l'assistente personale di Ferguson e avrei ricevuto una paga di centomila dollari all'anno con un aumento di diecimila dollari dopo i primi tre anni. Il contratto valeva sette anni e poteva essere revocato da ciascuna delle parti con un preavviso di almeno sei mesi.
Durant mi diede una penna e io firmai. Poi mi consegnò una copia del contratto, in calce alla quale lessi: "Joseph Durant, vicepresidente".
«Adesso è un membro del mio staff» disse Ferguson. «Tenga bene a mente che i miei collaboratori non parlano con nessuno di quello che succede qui. Se i giornalisti dovessero farle delle domande, dica che è il mio assistente personale e non aggiunga altro, chiaro?»
«Sì, signore.»
«E adesso ho del lavoro per lei.» Sorrise. «Mi spiace iniziare così presto, ma è necessario. Devo partire entro un'ora e ho un assoluto bisogno di evitare qualsiasi contatto con la stampa e con tutti gli altri ficcanaso.» Indicò il bagno. «Lì troverà la borsa con gli arnesi del trucco e gli abiti per cambiarsi. Voglio che esca dall'ingresso principale in compagnia di Mazzo. Poi andrà a casa mia e ci resterà fino a quando non torno, il che dovrebbe accadere entro un paio di giorni, spero. Poi, per circa due settimane, lei sarà libero di fare quello che crede.»
Provai un senso di cocente delusione. Avevo sperato di invitare a cena Sonia, quella sera. Poi mi venne in mente che ero l'assistente personale di Ferguson e per quello venivo pagato centomila dollari all'anno.
«Sì, signore» dissi. Mi alzai ed entrai in bagno, dove trovai la valigia che aveva preparato Mazzo.
Mi ci vollero circa quindici minuti per cambiarmi e mettere la maschera. Mi diressi zoppicando alla porta del bagno e la aprii.
Ferguson aveva lasciato la scrivania e adesso era in piedi accanto alla finestra. Durant se n'era andato.
Appena sentì il cigolio della porta che si apriva, Ferguson si voltò verso di me. Mi fissava come se fosse esterrefatto. Alzò una mano e se la portò al viso. Io lo imitai. Poi fece un passo indietro e io ne feci uno avanti.
«Buon Dio, ma è incredibile!» esclamò.
«Buon Dio, ma è incredibile!» esclamai a mia volta, imitando la sua voce. Poi aggiunsi nella mia: «Sono felice che lo pensi, signore.»
Lui rise di cuore.
«È fantastico, Jerry. Accidenti, sembra come guardarsi allo specchio.» Si avvicinò e prese a studiarmi. «È un travestimento eccezionale.» Mi diede un colpetto sulle spalle. «Non avrei mai creduto che fosse possibile.» Sorrise di nuovo. «E la voce, poi.» Diede un'occhiata all'orologio. «Mi restano solo pochi minuti.» Andò all'interfono, schiacciò un pulsante e disse: «Sono pronto, Mazzo.»
La porta si aprì ed entrò lo scimmione.
«Riporta a casa Jerry» disse Ferguson. Poi si rivolse a me. «Faccia quello che le dice Mazzo, per favore. Lei è proprio un artista coi fiocchi.»
«Andiamo» disse Mazzo.
Lo seguii fuori dall'ufficio e lungo il corridoio, verso gli ascensori. Mentre passavo davanti alla porta del mio ufficio, esitai un istante. Volevo chiedere a Sonia di darmi l'assegno, ma Mazzo mi spinse gentilmente in avanti.
I giornalisti stavano aspettandoci, come al solito, ma le guardie del corpo mi scortarono fino alla Rolls. Era come suonare un'altra volta lo stesso vecchio disco.
Mentre la Rolls si allontanava, sentii le solite grida degli avvoltoi: «Signor Ferguson! Un attimo, signor Ferguson!»
«Quei bastardi non si arrendono mai» ringhiò Mazzo.
Solo un'ora prima, avevo pensato di rubare la Rolls e di tentare la fuga. Ma adesso ero un membro dello staff di Ferguson e venivo pagato con uno stipendio da favola.
Mi rilassai e pensai a Sonia. Lei era il mio genere di donna. Entro pochi giorni, l'avrei invitata a cena. Morivo dalla voglia di approfondire la sua conoscenza.
Di nuovo nella suite di Ferguson, mi tolsi la maschera e tornai da Mazzo.
«Ho delle istruzioni» mi disse. «Puoi gironzolare fuori e dentro casa senza che io debba venirti dietro. In breve, sei libero di andare dove ti pare e piace nei limiti delle tenuta; ma non avvicinarti al cancello, altrimenti qualcuno potrebbe vederti, chiaro?»
«Vuoi dire che non sono più obbligato a restare in questa stanza? Che posso uscire tranquillamente?»
«Sì. Ora sei uno dei nostri, amico. Te l'avevo detto che te la saresti cavata, no?» M'indicò un telefono verde sulla scrivania. «Se vuoi qualcosa da mangiare, o qualsiasi altra cosa, usa il telefono.» Si avvicinò alla porta. «Ho un appuntamento con una bambola.» Sogghignò. «Devo farle un'ispezione accurata. Mi raccomando, amico, ricordati bene quello che ti ho detto. Sei libero di muoverti all'interno della villa, ma stai lontano dal cancello.» Sempre sogghignando, se ne andò.
Adesso erano le cinque e dieci. Mi diressi alla finestra sul retro e guardai in giù verso la piscina. Era una visione molto allettante. Trovavo difficile credere che adesso ero libero di fare quello che mi pareva, sempre posto che restassi nei confini della proprietà.
Mi spogliai, m'infilai un costume che trovai in uno degli armadi e poi, dopo aver preso un asciugamano dal bagno, scesi le scale in direzione dell'atrio.
Mentre facevo il giro della terrazza per andare in piscina, vidi che Mazzo partiva con la Jaguar. Gli feci un cenno di saluto, ma lui non mi vide.
Trascorsi un'oretta in piscina. Il sole al crepuscolo era perfetto: non c'era né troppo caldo né troppo freddo. Mentre mi asciugavo, apparve Jonas.
«Qualcosa da bere, signor Stevens?»
«Perché no? Un martini abbondante e molto secco.»
«Certo, signor Stevens.» Il maggiordomo si diresse verso il bar.
'Quella sì che era vita' pensai. Mi accomodai in una delle sdraio e presi gli ultimi raggi di sole.
Jonas mi portò il drink.
«Per cena, signor Stevens, mi permetto di suggerirle petti di pollo in salsa d'aragosta» disse. «E magari un cocktail di scampi. Gli scampi sono eccezionali, oggi.»
«Affare fatto.» dissi, sentendomi già l'acquolina in bocca.
«Preferisce cenare in sala da pranzo o in camera sua?»
Lo guardai. Aveva un'espressione impassibile.
«La signora Harriet?»
«Cenerà nella sua suite.»
«E la signora Loretta?»
«Lo stesso.»
«Bene. Portami la cena nella suite del signor Ferguson.»
«Certo, signor Stevens.» Si allontanò.
Io bevvi il drink e guardai tramontare il sole. La situazione mi pareva ancora incredibile. Ora non avevo più paura e mi sembrava di vivere un sogno a occhi aperti. Ripensai a quei giorni in cui ero stato costretto a starmene seduto accanto al telefono, facendo praticamente la fame, in attesa che qualcuno mi chiamasse. E adesso quell'improvvisa ricchezza!
Vedendo sorgere la luna, mi vennero in mente le parole di Harriet: "Tra pochi giorni avremo di nuovo la luna piena, così non ci resterà altro da fare che rinchiudere Etta".
Adesso la luna era quasi piena, ed entro due o tre giorni al massimo lo sarebbe stata completamente.
Ripensai a Loretta. Ero sicuro che fosse lei la matta. Doveva essere così per forza. Però quella faccenda della luna piena mi sembrava assolutamente incredibile.
Comunque, perché preoccuparsi? Adesso facevo parte dello staff di Ferguson, no? Ero libero, non più un ostaggio nelle mani di Mazzo. John Merrill Ferguson, un uomo straordinariamente ricco e potente, era soddisfatto di me. Cos'altro potevo desiderare?
Lasciai la terrazza e tornai alla mia suite. Feci una doccia e m'infilai uno degli abiti di Ferguson.
Mentre mi dirigevo in salotto, entrò Jonas portando il carrello della cena.
Il menù era fantastico. Dopo avermi servito, il maggiordomo se ne andò. Rimpiansi di essere costretto a mangiare solo. Quanto sarebbe stato meglio avere Sonia con me! Entro un paio di giorni l'avrei invitata a cena: ma non lì, bensì in un tranquillo ristorante sul mare.
Dopo aver terminato di mangiare, uscii sul grande balcone e mi sedetti in una sdraio. Mi sentivo in pace col mondo. Osservavo la luna, il prato e gli alberi. Le guardie del corpo di Ferguson erano in perenne movimento, ma per me la cosa non era più un problema. "Come può cambiare radicalmente la vita", pensai. Il giorno prima avevo paura di venire assassinato, ma adesso mi sentivo rilassato e perfettamente sereno.
Verso le undici meno dieci, spensi l'ultimo mozzicone, mi alzai e decisi di andare a letto. Trovai un tascabile tra i libri che mi aveva portato Mazzo.
Spensi le luci del salotto, entrai in camera da letto e accesi una lampada.
Sbadigliai. Avevo avuto una giornata faticosa, e la cena era stata eccellente. Forse non ce l'avrei fatta a leggere. Meglio dormire.
Poi m'irrigidii dallo stupore.
Seduta accanto alla finestra c'era Loretta.

8

Mentre me ne stavo seduto sul balcone, avevo pensato al mio contratto con Ferguson e mi ero sentito al sicuro. Mi pareva di essere in pace col mondo intero. Poi avevo visto Loretta e il mio senso di sicurezza e di tranquillità si era eclissato all'istante.
«Ciao, Larry» disse lei, sorridendomi. «Ti guardavo. Mi sembri felice.»
Avevo la bocca talmente secca che non riuscivo nemmeno a parlare.
Alla fioca luce della lampada, lei mi parve sempre bellissima. Indossava una vestaglia di seta azzurra ed era a piedi nudi.
Che fosse venuta per dividere il mio letto? Il pensiero di sfiorare quella donna insana di mente mi terrorizzò.
«C'è qualcosa che non va, Jerry?» chiese, inclinando un po' la testa di lato e lanciandomi uno sguardo interrogativo.
«Sono sorpreso» dissi, poi mi diressi verso una poltroncina e mi sedetti. «Non ti aspettavo.»
«Dovevo parlarti. Durant è tornato.»
«Lo so.»
«Sei stato in ufficio?»
«Sì.»
«Che cosa voleva?»
«Farmi firmare delle carte.»
«Non ti ha parlato di me?»
«No.»
«Il testamento non è ancora arrivato, ma per domani dovrebbe essere qui.»
Non dissi nulla.
«Non mi permettono più di vedere John. Stamattina sono andata nella sua suite, ma alla porta c'era una guardia. Mi ha detto che John stava male e che non poteva ricevere nessuno.»
Mi vennero in mente le parole di Harriet: "Non badi a quello che dice la povera Etta. Sia gentile con lei. Finga di fare tutto quello che le chiede. Vedrà che nei prossimi giorni diventerà ancora più scatenata".
«Mi spiace» dissi.
«La sua stanza è sopra la mia. Lo sento sempre camminare avanti e indietro, avanti e indietro. Mi dà l'idea di essere un animale in gabbia.» Mi fissò con i grandi occhi spalancati, nei quali lessi una nota di ossessione. «L'ultima volta che l'ho visto, le tende erano tirate e John se ne stava seduto nella semioscurità. Sembrava un uomo di pietra. Quando gli ho parlato, lui non ha detto nulla. Il suo infermiere non mi ha assolutamente permesso di avvicinarmi. E adesso non vogliono neppure che lo veda. Continuo sempre a chiedermi se sta per morire oppure no.» All'improvviso, batté i pugni l'uno contro l'altro. «Se muore, cosa mi succederà? Quella vecchia strega si prenderà tutti i suoi soldi!»
Io l'ascoltavo, sentendo l'orrore di quella incredibile situazione.
«Ieri notte, ho cercato di aprire la porta della camera da letto di Harriet, ma adesso lei la chiude a chiave. Poi ho parlato con Mazzo.» Alzò le mani in un gesto di disperazione. «Lui ha paura di quella maledetta.»
Mi chiesi se avesse davvero parlato con Mazzo, ma in realtà cercavo di trovare un modo per convincerla ad andarsene e a lasciarmi in pace.
Seguì una lunga pausa, durante la quale Loretta continuò a fissarmi.
«Non dici niente, Jerry? Io mi fido di te, ricordalo. Ho bisogno del tuo aiuto e sono disposta a pagare per questo. Pensaci: due milioni di dollari!»
Harriet mi aveva detto: "Finga di fare tutto quello che le chiede... Tra pochi giorni avremo di nuovo la luna piena, così non ci resterà altro da fare che rinchiudere Etta".
«Non ho dimenticato» dissi. «Devo pensarci ancora un po', ma vedrai che alla fine riuscirò a trovare una soluzione.»
«Devi!» La sua voce risuonò stridula. «Pensa, pensa, ti prego!» Poi si alzò. «Mi stanno spiando. Credevo di potermi fidare di Mazzo.» Si avvicinò e mi passò le dita tra i capelli. Il tocco della sua mano mi fece rabbrividire. «Caro Jerry... Sì, pensaci. Aiutami.»
Mi alzai in fretta.
«Quelli non devono sapere di noi. Forse è meglio se te ne vai.»
Lei mi posò una mano sul braccio.
«Per l'amor del cielo, Jerry, non credere alle parole di quella vecchia strega! E stai in guardia anche da Durant. Credi solo a quello che ti dico io.»
La guardai e nei suoi occhi colsi una nota di disperazione. Poi pensai a Larry Edwards e a Charles Duvine.
«Ascoltami!» esclamò. «Non credere a nessuno di loro, Jerry, dammi retta.»
La spinsi gentilmente verso la porta.
«Tranquilla. Io sono dalla tua parte, lo sai.»
Lei si fermò vicino al battente.
«Per il tuo bene, Jerry, fidati di me. Non farti mettere nel sacco da quelli. Harriet è una donna avida e malvagia, e Durant è come lei. Potrebbero uccidermi, Jerry. E potrebbero uccidere anche te.»
Il tono disperato che avevo colto nella sua voce riportò indietro tutte le mia vecchie paure.
«Troverò una soluzione» le assicurai, aprendole la porta.
Lei sbirciò nel corridoio, poi sussurrò: «Abbiamo poco tempo, Jerry. Tornerò domani sera. Cerca di trovare una via d'uscita.» Poi si avviò in silenzio e con movenze flessuose lungo il corridoio.
Chiudendo la porta, uscii sul balcone. Rimasi in piedi a guardare il prato illuminato dalla luna. Harriet mi aveva detto che Loretta era pazza. Doveva essere così, per forza. Eppure... Che senso avevano le sue parole? Perché mi aveva messo in guardia? "Potrebbero uccidermi. E potrebbero uccidere anche te."
Mi costrinsi a riesaminare i fatti, per quanto spaventosi fossero. Ero sicuro che quelli avevano assassinato Larry Edwards e Charles Duvine.
Mi sentii invadere dal panico.
Mi sedetti e cercai di calmarmi. Pensai a John Merrill Ferguson, col suo sorriso cordiale e simpatico. "Lei è troppo prezioso perché possa perderla, Jerry." Poi pensai di nuovo a Harriet. "Purtroppo non è riuscita a portare a termine la gravidanza. Da quel momento, Etta ha cominciato a diventare mentalmente instabile. C'erano volte che s'immaginava persino le cose, come se avesse le visioni."
Le finestre con le sbarre nell'ala sinistra della villa erano quelle della suite dove veniva confinata Loretta quando cadeva preda dei suoi attacchi. Secondo lei, però, in quella suite era rinchiuso John Merrill Ferguson, che era improvvisamente impazzito.
"La sua stanza è sopra la mia. Lo sento sempre camminare avanti e indietro, avanti e indietro. Mi dà l'idea di essere un animale in gabbia."
Che si fosse immaginata anche quello?
Mi strofinai il viso sudato col dorso della mano. Quella mattina, avevo incontrato John Merrill Ferguson nel suo ufficio e gli avevo parlato. Il rumore di passi che lei sosteneva di aver sentito doveva essere una specie di allucinazione. Era impossibile che Ferguson fosse rinchiuso nell'ala sinistra della casa. Poi pensai a quella nota di disperante ossessione che avevo colto nello sguardo di Loretta mentre lei mi parlava. "C'èra davvero qualcuno chiuso lì dentro?"
Dovevo scoprirlo a tutti i costi.
Dopo essermi alzato, andai in salotto e tentai la maniglia. La porta non era stata chiusa a chiave. Muovendomi in silenzio, discesi lungo il corridoio e arrivai davanti alla rampa di scale. La luce era accesa, ma in giro non si vedevano guardie. Mazzo aveva detto che ormai ero diventato uno di loro. E, in effetti, sembrava che tutti i miei controllori fossero stati richiamati. Mi fermai a riflettere per qualche secondo, pensando a come raggiungere l'ala sinistra della casa. Tornai indietro nel corridoio principale, poi svoltai a sinistra. Lì c'era un altro corridoio, debolmente illuminato. Sognai di avere una piantina di quella casa immensa, per potermi orientare meglio. Comunque, ricordavo che le finestre con le sbarre erano a un'estremità, perciò continuai ad avanzare con estrema cautela.
Arrivai a un'altra svolta nel corridoio. Mi fermai e sporsi leggermente la testa, in modo da controllare se al di là della curva c'era qualcuno. Ma non vidi nessuna guardia. Era tutto tranquillo. Ripresi ad avanzare. C'erano quattro porte all'inizio di quel nuovo braccio di corridoio. E davano tutte sulla parte anteriore della casa.
Ricordai che le finestre con le sbarre erano tre, perciò superai la prima porta e mi fermai davanti alla seconda. Doveva essere quella la prima stanza con le finestre sbarrate. Tentai piano la maniglia, ma mi accorsi subito che la porta era chiusa a chiave. Avvicinai l'orecchio al battente e rimasi immobile per qualche istante, in ascolto, ma non sentii nulla. Poi feci qualche passo avanti nel corridoio e arrivai alla terza porta. Tentai di nuovo la maniglia, ma senza esito. Appoggiai l'orecchio al battente, come avevo fatto prima.
E stavolta quello che sentii mi fece rizzare i capelli in testa. C'era qualcuno in quella stanza, perché udivo un rumore cadenzato di passi.
Cercando di ascoltare con la massima concentrazione possibile, sentii un uomo schiarirsi la voce. Ci fu una pausa, poi lo scalpiccio continuò.
Mi allontanai dal battente.
Loretta non si era immaginata quei rumori. Non erano allucinazioni, le sue. Lì dentro c'era effettivamente un uomo. Un uomo che camminava avanti e indietro come un animale in gabbia: erano state quelle le sue parole.
Ma non poteva trattarsi di John Merrill Ferguson. Lo avevo incontrato solo poche ore prima, e lui, tutto sorridente, mi aveva detto che ero troppo prezioso perché potesse perdermi. Ma allora chi era?
Mentre mi avvicinavo di nuovo alla porta per ascoltare, sentii qualcosa sfiorarmi la gamba.
Ci mancava poco che mi mettessi a correre dalla paura.
Mi voltai con un sussulto e abbassai lo sguardo a terra.
Il barboncino di Harriet se ne stava accoccolato sulle zampe posteriori e si era messo a leccarmi una gamba.

Mi ero sdraiato a letto nel chiarore lunare, ma non riuscivo a prendere sonno. Continuavo a rimuginare su quello che avevo appena sentito.
Chi era l'uomo imprigionato dietro le finestre con le sbarre? Di una cosa ero comunque certo: che non si trattava di John Merrill Ferguson, come invece credeva Loretta. Non lo avevo incontrato quella stessa mattina? E non mi aveva fatto sottoscrivere un contratto della durata di sette anni, sostenendo che gli ero praticamente indispensabile?
Perciò chi poteva essere il prigioniero?
Ero tornato alle mie stanze col barboncino che mi seguiva, così ero stato costretto a chiudergli la porta in faccia. Avevo una paura folle che si mettesse a guaire, ma per fortuna non lo fece.
Adesso, steso sul letto, pensai all'uomo che passeggiava avanti e indietro nella stanza chiusa a chiave e a Loretta, che forse sarebbe venuta di nuovo a trovarmi.
Avevo i nervi a fior di pelle. Cercai di rassicurarmi dicendomi che Loretta era pazza. Anzi, appena svegliato, avrei detto a Harriet che Loretta stava perseguitandomi. Forse era tempo che venisse rinchiusa.
Dalla finestra aperta vidi che la luna era quasi piena.
Rinchiusa?
Ricordai le parole di Harriet: le stanze con le finestre sbarrate erano per Loretta. La rinchiudevano lì quando rischiava di perdere il controllo.
Ma quelle stanze ospitavano già un prigioniero!
Scesi dal letto, sapendo che non avrei dormito, andai in salotto e accesi la lampada sulla scrivania.
Quella casa stava diventando un incubo per me; non vedevo l'ora di liberarmene. C'era qualcosa di malvagio lì dentro, qualcosa di così complicato che non sarei mai riuscito a decifrare.
Mi sedetti dietro la scrivania.
Nella villa regnava un silenzio opprimente. L'unico rumore che sentivo era il battito martellante del mio cuore. La luna proiettava i suoi riflessi sulla moquette.
L'orologio sulla scrivania segnava le due meno dieci.
Cercai di ragionare con me stesso. Quelli non erano affari miei. Adesso ero un membro dello staff di Ferguson e avevo firmato un contratto per impersonare il magnate quando lui era via. Per quella semplice sostituzione di persona avrei ricevuto l'incredibile stipendio di centomila dollari all'anno.
Potevo considerarmi fortunato, no? Non avrei mai osato sperare di vincere una lotteria simile, nemmeno nei miei sogni più sfrenati. Chissà che faccia avrebbe fatto Lu Prentz, se lo avesse saputo! Meglio andare a dormire, mi dissi. Quello che succedeva dietro quelle stanze chiuse a chiave non aveva nulla a che fare con me. Entro pochi giorni, come mi era stato detto, John Merrill Ferguson sarebbe tornato e io mi sarei trasferito nella mia lussuosa residenza in riva al mare. Dopo di che, avrei invitato Sonia a cena. Non dovevo far altro che pazientare per qualche giorno, continuai a rassicurarmi.
Ma i fantasmi di Larry Edwards e di Charles Duvine sembravano incombere su di me. E gli occhi disperati di Loretta mi perseguitavano. Mi pareva quasi che Harriet e il suo barboncino fossero nella stanza dove mi trovavo.
Rimasi seduto lì, sentendo il silenzio chiudersi su di me come una morsa implacabile.
Poi udii un debole rumore metallico, come uno scatto. Nel silenzio della stanza, quel rumore risuonò come una piccola esplosione.
Mi alzai di colpo e restai immobile, in ascolto. Poi capii di che cosa si era trattato. Andai rapidamente alla porta e provai a girare la maniglia.
La porta era chiusa a chiave.
Qualcuno mi aveva intrappolato lì dentro!
Fissai il battente col cuore che mi batteva all'impazzata, provando un'incontenibile sensazione di panico. Che stava succedendo? Perché mi avevano chiuso dentro in quel modo?
Il silenzio venne spezzato all'improvviso dall'urlo di una donna.
Quel suono mi fece praticamente gelare il sangue nelle vene. La nota di terrore che avevo colto in quell'urlo mi fece allontanare di scatto dalla porta.
Seguì una breve pausa di silenzio, poi sentii una specie di scalpiccio, come se qualcuno venisse trascinato a forza, e subito dopo un tonfo che parve scuotere la casa. Non potevo sbagliarmi: quello era il rumore che fa un corpo quando si sfracella al suolo dopo essere caduto da una certa altezza.
Restai in attesa con le mani umide di sudore, cercando di sentire altri rumori.
Poi mi arrivarono all'orecchio alcune voci. Voci maschili.
Andai alla porta e premetti l'orecchio contro il pannello.
Sentii la voce di Mazzo.
«Stai indietro. Non toccarla.»
Un uomo disse qualcosa che non capii.
«Chiama il dottor Weissman» tuonò Mazzo.
Allora mi resi conto che doveva essere morta una donna.
Harriet? Loretta?
Sentii abbaiare il barboncino di Harriet.
Quel grido di terrore e poi il tonfo di un corpo che si schianta a terra... doveva trattarsi di omicidio, non c'era dubbio.
Ci fu un brusio concitato, seguito dalla voce pacata di Harriet. Ma non era così forte da permettermi di udire distintamente le sue parole.
Loretta!
"Potrebbero uccidermi, Jerry. E potrebbero uccidere anche te."
Me lo aveva detto lei, meno di due ore prima. E adesso la sua previsione si era avverata, almeno in parte.
Con le gambe tremanti mi avvicinai a una poltrona e mi ci lasciai sprofondare. Sentivo delle voci provenire da sotto. Per fortuna, il barboncino aveva smesso di abbaiare.
Alcuni minuti dopo, sentii uno scatto metallico e la mia porta si aprì.
Harriet era in piedi sulla soglia e mi guardava. Portava una vestaglia di seta nera su una camicia da notte bianca e teneva il barboncino tra le braccia.
«Jerry, caro» disse dopo essere entrata e aver chiuso la porta «sono felice che non sia andato ancora a letto. C'è stato uno sfortunato incidente.» Il suo viso era inespressivo, ma gli occhietti scuri mandavano strani guizzi. «Non ha sentito? Povera Etta! Camminava nel sonno ed è caduta giù dalle scale.» Si avvicinò e si sedette accanto a me. «Quando ha le sue crisi, molto spesso soffre di sonnambulismo.»
Fissai quella vecchia orribile, ma non dissi nulla.
«Si è rotta l'osso del collo, poverina» riprese lei, accarezzando le orecchie del barboncino. «Mio figlio la prenderà malissimo, quando lo saprà. L'amava così tanto...»
Sentii la bile salirmi in gola. Mi alzai, corsi in bagno e vomitai. Mi ci vollero diversi minuti per tornare padrone dei miei nervi.
"Potrebbero uccidere anche te!"
Tornai lentamente in salotto.
«Povero Jerry» disse tranquillamente Harriet. «Voi artisti siete sempre molto delicati, vero? Ecco, beva questo.» Mi porse un bicchiere semipieno di whisky che io afferrai con mano tremante.
Bevvi d'un fiato.
«Così va meglio, eh?» Mi diede un colpetto sul braccio. «E adesso, Jerry, bisogna che lei ci aiuti. Sta per arrivare il dottor Weissman, e ci penserà lui a chiamare la polizia.»
Mi avvicinai alla poltrona e mi sedetti di schianto.
«Jerry!» Lo scatto che ebbe la sua voce mi fece irrigidire. «Lei è qui per aiutarci, perciò la smetta di comportarsi come un bambino! Mi ha sentito?»
"Potrebbero uccidere anche te!" Terminai di bere il whisky e cercai di farmi coraggio.
«Cosa vuole che faccia?» le chiesi, senza guardarla.
«Tutti credono che John sia qui. In realtà, lui starà via per almeno una settimana, e io non ho intenzione di dirgli quello che è successo prima del suo ritorno. Altrimenti, sarebbe capacissimo di precipitarsi qui. L'affare che sta concludendo è di vitale importanza. E lei deve prendere il suo posto, mi capisce?»
«Sì.»
«Si metta la maschera e si cambi. Io dirò al dottor Weissman che lei è sotto shock, ma forse la polizia vorrà parlarle. Comunque, vedrò di fare in modo che non la disturbino. E adesso mi ascolti bene: lei dovrà dire che Etta camminava nel sonno, di tanto in tanto. Non c'è bisogno che riferisca altro se dovessero interrogarla, ma non credo che lo faranno. John ha sempre curato i rapporti con la polizia. Ci sarà un'inchiesta, naturalmente, ma lei non sarà chiamato a deporre. John è molto ben visto nell'ufficio del coroner. Dovrà attendere al funerale, certo, ma sarà una funzione strettamente privata. E adesso vada a cambiarsi, presto!»
Non avevo scelta. Avevo una paura folle di quella vecchia diabolica. Ero sicuro che fosse stata lei a ordinare l'omicidio di Loretta, così come in precedenza aveva ordinato quelli di Larry Edwards e di Charles Duvine.
In bagno, con le mani tremanti, mi misi la maschera e completai il travestimento.
All'arrivo della polizia sarei riuscito a liberarmi una volta per tutte da quell'incubo? Forse avrei fatto meglio a togliermi la maschera e a spifferare tutto.
Poi pensai al sorriso cordiale di John Merrill Ferguson.
"Lei è troppo prezioso perché possa perderla, Jerry."
Pensai al mio contratto pluriennale e subito dopo, in sequenza, a quei terribili giorni in cui me ne stavo seduto accanto al telefono in spasmodica attesa, quasi facendo la fame.
Quella vecchia diabolica sarebbe tornata a San Francisco dopo il funerale, così mi sarei sbarazzato di lei.
Pensai alla lussuosa residenza sul mare che mi aveva assegnato Ferguson. Poi pensai a Sonia.
Non erano affari miei, mi dissi. Il mio compito era quello di guadagnare i soldi che il contratto mi assicurava.
Forse il whisky mi diede un po' di coraggio, perché mentre mi aggiustavo il nodo della cravatta, decisi che sarei rimasto un membro dello staff di Ferguson.

Che il denaro sia potere è una specie di frase fatta. Nel mondo cinematografico avevo sentito parlare molto spesso di un simile cliché, ma siccome io ero quasi sempre al verde, quella frase non aveva mai avuto molto senso per me.
Quella notte, però, ne sperimentai la verità con un impatto devastante.
Mettendomi la maschera e indossando l'abito scuro di mohair, uscii sul balcone che sovrastava l'ingresso principale della residenza.
Alcuni riflettori illuminavano il giardino, il prato e il cancello in lontananza.
Una decina di uomini disposti a semicerchio presidiavano il cancello: dalla stazza, capii subito che dovevano essere le guardie del corpo. Mentre guardavo, una Caddy scintillante si avvicinò al cancello e si fermò. Le guardie aprirono e l'auto risalì il vialetto dirigendosi all'ingresso principale.
Intuii che era arrivato il dottor Weissman.
Uscii rapidamente dal salotto e sbirciai dalla balaustra.
Le luci dell'atrio erano accese. Sul pavimento ai piedi delle scale c'era il corpo di Loretta Merrill Ferguson, avvolto nella veste da camera di seta azzurra che lei indossava quando l'avevo vista l'ultima volta. Vicino a lei c'era Mazzo, il viso inespressivo.
Lo guardai e pensai alla sua forza.
Un colpo di karatè?
Probabilmente, lei lo aveva visto mentre Mazzo le strisciava alle spalle, e allora si era messa a gridare. Lui doveva averle assestato un colpo di karatè alla base del collo e lei si era afflosciata a terra, precipitando giù dalle scale.
Un uomo alto e robusto, con i capelli bianchi ancora folti, stava parlando sottovoce con Harriet.
Lo vedevo chiaramente. Nel viso gli spiccava un vistoso doppio mento, segno che l'uomo doveva essere una buona forchetta. Indossava un vestito scuro, immacolato, che trasudava solennità e arroganza al tempo stesso.
Era il dottor Weissman, ovviamente.
Si inginocchiò accanto a Loretta e la toccò gentilmente, scuotendo appena la testa e alzando una palpebra. Poi si rimise in piedi.
«Non c'è nulla da fare, signora Ferguson. Questa povera donna è morta» disse con voce riccamente baritonale. «Lasci fare a me. Non dobbiamo muoverla. Vado a telefonare a Terrell, il capo della polizia.»
«Credo, caro dottore, che prima dovremmo fare un discorsetto» disse Harriet. «Non ci vorrà molto.» Gli posò la mano sul braccio, lo trascinò in salotto e chiuse la porta.
Io mi appoggiai alla balaustra e aspettai. Mazzo cominciò a gironzolare intorno al cadavere. Dall'aria che aveva, capii che doveva sentirsi a disagio.
Passarono dieci minuti, poi la porta del salotto si aprì e ne uscirono Harriet e il dottor Weissman.
«Mio figlio è distrutto, dottore» disse Harriet. «Non voglio che venga disturbato.»
«No, certo. Desidera che gli dia un'occhiata? Forse potrei prescrivergli un tranquillante.»
«No. Ha solo bisogno di essere lasciato in pace.»
«Capisco. E adesso, signora Ferguson, la prego di ritirarsi in camera sua. Cerchi di riposarsi un po' e lasci fare tutto a me. Se necessario, la farò chiamare.»
«Mi fido di lei, dottore.» Gli diede un colpetto sul braccio. Dare colpetti alla gente pareva la specialità di quella vecchia terribile. «Mi avvisi, se le serve la mia presenza.»
Mentre lei si voltava per salire le scale, io rientrai rapidamente in salotto e chiusi la porta. Poi uscii di nuovo sul balcone.
La polizia arrivò in meno di dieci minuti. Poco dopo seguì l'ambulanza.
Il dottor Weissman doveva essere entrato in azione.
Vidi che due investigatori in borghese e un sergente in uniforme stavano salendo le scale del portico.
Andai in salotto e socchiusi la porta. Harriet stava dove fino a pochi minuti prima mi ero appostato io, accanto alla balaustra, e osservava nel buio.
Sentii alcune voci, in mezzo alle quali spiccava quella del dottor Weissman. Ma dalla mia posizione, non riuscivo a capire le parole.
L'intera messinscena terminò in meno di venti minuti.
Mentre stavo in piedi a spiare dallo spiraglio della porta, mi chiesi quanti soldi avesse preso il dottor Weissman.
Guardandolo, mi era parso che fosse un uomo pronto a essere comprato, posto che la cifra fosse adeguata.
Osservai Harriet allontanarsi dalla balaustra e scendere lentamente le scale. Io sgusciai subito fuori dal salotto e presi il suo posto.
Sotto c'erano i due investigatori. Il sergente stava in piedi accanto alla porta. Ma era il dottor Weissman a dominare la scena.
Harriet arrivò in fondo alle scale.
«Mi spiace di doverla importunare a quest'ora, signora Ferguson» disse uno dei due investigatori.
«Certo, certo.» Harriet si asciugò gli occhi col fazzoletto. «Dovete capire che mio figlio non sa nulla di tutto questo. Lui non dev'essere disturbato. È in stato di shock, come vi dirà il dottor Weissman.»
Entrarono due inservienti e caricarono il corpo di Loretta su una barella, poi lo coprirono con un lenzuolo e lo trasportarono fuori.
L'altro investigatore parlava sottovoce a Mazzo, che continuava a stringersi nelle spalle.
Io tornai in salotto e mi sedetti. Mi tenevo la testa tra le mani, incapace di pensare.
Il rumore delle portiere che sbattevano e quello dei motori che venivano avviati mi fece balzare di colpo in piedi. Uscii sul balcone e vidi allontanarsi le auto della polizia, subito seguite dall'ambulanza.
Semplice come bere un bicchier d'acqua. Ecco cos'era il potere del denaro.
Tornai in salotto proprio mentre la porta si apriva. Era Harriet. Chiuse la porta e mi fissò.
«Caro Jerry, abbiamo sistemato tutto. Ora non c'è più bisogno di lei.» Sulle sue vecchie labbra si disegnò un sorrisino di trionfo. «Vada pure a letto. Prenda un sonnifero e si ricordi, per la povera Etta questa è stata una pietosa liberazione.» Si voltò verso la porta, ma poi ebbe come un ripensamento. «Non sarà costretto a prendere parte all'inchiesta, Jerry. Penserà a tutto il dottor Weissman. È un uomo delizioso e molto disponibile, vero? Lei dovrà attendere alla cremazione, naturalmente, ma non la disturberà nessuno. Buona notte.»
Mi fece un cenno di saluto e se ne andò.
I sei giorni successivi mi parvero sei anni.
Mazzo mi portò tutti i pasti ma non disse nulla, e io non avevo nulla da dirgli. Trascorsi molte ore sul balcone a leggere libri. Di sera, dopo aver guardato la TV, cercavo di dormire un po' con l'aiuto di qualche pillola. C'era solo un pensiero a confortarmi: che ero l'assistente di Ferguson e che per quel ruolo avrei ricevuto centomila dollari all'anno.
Ma in realtà non facevo che pensare e ripensare a quell'urlo e al tonfo che ne era seguito. Vedevo gli occhi di Loretta carichi di disperazione e mi veniva in mente quello che mi aveva detto: "Per l'amor del cielo, Jerry, non credere alle parole di quella vecchia strega. E stai in guardia anche da Durant. Credi solo a quello che ti dico io". Pensavo anche all'uomo che avevo sentito camminare avanti e indietro nella stanza con le finestre sbarrate.
Al sesto giorno, mentre mi serviva la colazione, Mazzo disse: «È tutto a posto. L'inchiesta è filata liscia come l'olio. Mettiti la maschera. Loretta sarà cremata stamattina alle undici.»
Morivo dalla voglia di stampare un pugno in quella faccia da scimmione. Non so cos'avrei dato per urlargli: "Sei stato tu a ucciderla!". Ma mi alzai e andai in bagno.
«Qualcosa che non va?» mi chiese, seguendomi.
«Non voglio niente. Vattene!»
«Nessun problema» disse lui con un sogghigno. «Mettiti la maschera e il vestito scuro.»
Gli unici partecipanti alla cerimonia fummo io, Harriet e il barboncino. Ci dirigemmo al luogo della cremazione a bordo della Rolls. C'era una macchina davanti a noi e due dietro.
La notizia aveva fatto il giro del mondo, e ovviamente la stampa, gli operatori televisivi e una folla di curiosi ci attendevano al varco. Le guardie del corpo scesero dalle tre auto di scorta, fecero passare la Rolls e bloccarono la folla tumultuante.
Dentro c'era un prete piuttosto anziano, il viso atteggiato a un'espressione di tristezza professionale. Sembrava nutrire un timore quasi reverenziale nei confronti di Harriet, e le sussurrò alcune parole di conforto. Indugiò più del normale sul servizio funebre, come se fosse particolarmente ansioso di non deludere le attese.
Quando la bara iniziò a scivolare dentro il forno, io mi inginocchiai. Non avevo più detto una preghiera da quando ero un ragazzino, ma per Loretta feci un'eccezione.
Il barboncino iniziò a guaire.
Mentre cercavo di trovare le parole adatte, sentii Harriet sussurrare al cane: «Zitto, tesoro, non fare il maleducato.»

I due giorni successivi si trascinarono stancamente.
Mangiavo, andavo a sedermi sul balcone, leggevo e aspettavo.
Il terzo giorno, mentre facevo colazione fuori, vidi giungere la Rolls. Jonas arrivò con una valigia che depositò nel portabagagli, poi apparve Harriet, che portava il barboncino tra le braccia. La vecchia si fermò qualche istante a parlare con Jonas, il quale s'inchinò rispettosamente, poi salì in macchina e si allontanò.
Com'ero felice di vederla andar via!
Mazzo entrò silenziosamente nella stanza.
«Stamattina devi andare in ufficio» mi disse. «Con la maschera.»
Salii a bordo della Jaguar e Mazzo mi lasciò all'ingresso principale del palazzo della Ferguson Electronic & Oil Corporation. Poi, facendomi scudo, le guardie del corpo mi permisero di non venir importunato dalla stampa. Ci furono le solite grida e i soliti flash.
Salimmo in ascensore e Mazzo mi scortò nell'ufficio di Ferguson, dove, seduto dietro la grande scrivania, trovai Joe Durant.
«Entri pure, Stevens» disse lui, sorridendo a denti stretti. «Si sieda.» M'indicò una poltrona.
Mi accomodai.
«Devo ringraziarla per la sua eccellente esibizione al funerale» proseguì lui. «Capisco bene che per lei dev'essere stata una prova non da poco.»
Non sapevo cosa replicare, così non dissi nulla.
«Il signor Ferguson è tornato» disse Durant «perciò lei è libero di fare quello che vuole per almeno un paio di settimane. Si è mostrato un membro estremamente prezioso del nostro staff, e noi siamo più che soddisfatti di lei.»
«Grazie, signore» dissi.
Durant si protese in avanti e aprì una cartella da cui estrasse un assegno.
«Ecco il suo primo mese di stipendio, Stevens, più un piccolo bonus.»
Mi alzai per prendere l'assegno. L'importo era di diecimila dollari.
«Grazie, signore» dissi, riponendo l'assegno nel portafogli.
«Adesso è libero, perciò può togliersi il trucco. Troverà i suoi vestiti nel secondo bagno scendendo lungo il corridoio. Adesso la casa sul mare è tutta sua.» Abbozzò un sorriso quasi impercettibile. «È sottinteso che non deve lasciare la città né parlare con la stampa. E non dica nulla del suo lavoro.»
«Sì, signore.»
«D'accordo, Stevens, vada pure e si diverta.»
Mi diressi alla porta, poi mi fermai di scatto.
«Sarebbe così gentile da porgere le mie condoglianze al signor Ferguson per la perdita di sua moglie?»
Durant mi fissò serio.
«Senz'altro, Stevens. E adesso vada.»
Passai le tre ore seguenti ad acquistare abiti. C'era un negozio di abbigliamento maschile in Paradise Boulevard, e io mi diedi alle pazze spese. Alla fine, contento di aver comprato tutto quello che mi serviva, riposi le varie buste di plastica nella Mercedes e mi diressi alla casa sul mare.
Il guardiano alla barriera mi lanciò un'occhiata, poi annuì e azionò la sbarra.
Mentre andavo nella mia nuova casa, mi venne in mente che stavo scambiando una prigione con un'altra. Ero ancora sotto sorveglianza, ma non me ne importava più. Avevo i soldi, finalmente! Ero uscito da quella casa del diavolo e adesso avrei cominciato a divertirmi sul serio.
Era appena mezzogiorno. Disfai i vari pacchetti e riposi gli abiti che avevo acquistato nell'armadio, poi chiamai la Ferguson Electronic & Oil Corporation. Chiesi di parlare con la signorina Malcolm.
«Sono Jerry Stevens» dissi quando lei fu in linea. «Stasera ti farebbe piacere cenare con me, se non hai altri impegni?»
«Accetto molto volentieri» disse lei, e dal suono della sua voce capii che era la verità.
«Senti, Sonia, io sono uno straniero in questa città. Dove possiamo andare? Scegli tu il posto. Vorrei qualcosa di davvero carino e possibilmente in riva al mare. Mi hanno appena pagato, perciò i soldi non sono un problema.»
Lei fece un risolino.
«Be'...» Una lunga pausa, poi: «Ci sarebbe l'Albatross in Ocean Boulevard. È un ristorante molto speciale, ma anche decisamente costoso.»
«Per me non ci sono problemi. Passo a prenderti io. Dove abiti?»
«No, meglio di no. Ci vediamo direttamente là. Casa mia non è molto facile da trovare, e poi ho la macchina.»
«Se si tratta di una bella ragazza, non esiste nessun posto che sia troppo difficile da trovare» dissi. «Allora, dove stai?»
«Va bene verso le otto e mezzo? Sarò là» disse, e riagganciò.
Io posai lentamente il ricevitore. D'accordo, non voleva farmi sapere dove abitava. Forse divideva la casa con un'altra ragazza. O forse non le andavano molto i dintorni. A meno che... Scrollai le spalle.
La cosa veramente importante era che quella sera avrei portato a cena fuori Sonia Malcolm. Però ero curioso. Cercai di rintracciarla sull'elenco telefonico, ma il suo nome non compariva. Poi mi venne in mente che era stata assunta da poco e che probabilmente prima non abitava in quella città.
Dopo aver pranzato, passeggiai per un po' sulla spiaggia deserta. Feci qualche bagno e, tra una nuotata e l'altra, presi anche un po' di sole.
Sdraiato all'ombra di una palma, ripensai a Loretta. Cercai di togliermela dalla testa, ma quell'urlo straziante e il tonfo del suo corpo che precipitava di sotto continuavano a tormentarmi. Pensai di nuovo al funerale, al prete e al barboncino.
All'improvviso, mi sentii molto solo. Mi sarei goduto quella casa meravigliosa come avevo creduto all'inizio? Feci scorrere lo sguardo lungo la spiaggia deserta. Ero abituato a mescolarmi con la gente e a chiacchierare. Ma adesso quell'improvvisa solitudine mi buttò a terra. A tenermi compagnia c'erano solo quei pensieri angoscianti.
Tornai lentamente a casa. Il senso di vuoto che regnava all'interno contribuì a deprimermi ancora di più. Cercai di persuadermi che dovevo sentirmi felice di avere una casa simile, ma sapevo che stavo prendendomi in giro da solo.
Come sarebbe cambiata l'intera scena, però, se avessi avuto Sonia a dividere tutto questo con me!
Mi resi conto di essermi innamorato di lei nel momento in cui l'avevo vista. Con lei vicino a me, ero certo che sarei stato davvero felice.
Pensai alla sera che mi aspettava. Non ero molto sicuro di Sonia. Mi era sembrata cordiale, ma mi chiesi se provasse qualcosa di più forte nei miei confronti. Adesso non ero più un attore da strapazzo, e per giunta disoccupato. Ero Jerry Stevens, l'assistente personale di uno degli uomini più ricchi del mondo, e potevo contare su uno stipendio di centomila dollari all'anno.
"Che cosa ti fa credere che non sia innamorata di te?" mi dissi. "E se invece lo fosse?"
All'improvviso, provai un desiderio incontenibile di andarmene da quella casa silenziosa e solitaria. Entrai in bagno, feci una doccia, mi rasai meticolosamente e indossai l'abito grigio perla che avevo comprato, insieme a una camicia in tinta, una cravatta rosso scuro e un paio di scarpe firmate Gucci. Guardandomi allo specchio, mi dissi che potevo andare.
Decisi che avrei raggiunto in macchina Ocean Boulevard, poi avrei trovato il ristorante Albatross e prenotato un tavolo per due in una zona poco rumorosa, così avremmo potuto chiacchierare tranquillamente. Dopo aver fissato il tavolo, avrei trascorso il resto del pomeriggio a esplorare la città.
Mentre stavo per uscire, squillò il telefono. Quel suono mi sorprese, dato che non aspettavo telefonate. Esitai, poi decisi di sollevare il ricevitore.
«Sì?»
«Il signor Stevens?» Era una voce maschile.
«Sì. Chi parla?»
«Signor Stevens, sono Jack Macklin, il capo del personale della Ferguson Electronic & Oil Corporation.» La voce era morbida ma autorevole: doveva appartenere a un uomo abituato a dare ordini.
«E allora?» Per il sottoscritto, i capi del personale valevano quanto una cicca spenta.
«Come nuovo membro della nostra società, signor Stevens, forse lei non ha avuto l'opportunità di leggere il regolamento del personale.»
«Non sapevo nemmeno che ne esistesse uno» dissi con voce annoiata.
«Certo, signor Stevens, certo. Gliene spedirò subito una copia. Dovrebbe riceverla domani mattina. Le chiedo di esaminarla molto attentamente.»
«D'accordo» dissi. «Grazie per avermi chiamato.»
«Allo scopo di evitarle delusioni, signor Stevens, le dico subito che una delle nostre regole più severe è che i membri dello staff non devono avere rapporti personali di nessun tipo fra di loro.»
Mi sentii salire il sangue al cervello.
«Non capisco» dissi.
«Da quanto so, ha invitato a cena la signorina Malcolm.»
«Questi non sono affari suoi!» ringhiai.
«Anche la signorina Malcolm è con noi da poco, perciò non sapeva nemmeno lei di questa regola che vieta gli incontri tra i dipendenti» riprese imperterrito lui, come se non avessi parlato. «Ma in seguito la regola le è stata spiegata come adesso la sto spiegando a lei.»
Ero talmente inviperito che non riuscivo neppure a parlare.
«Un'altra cosa, signor Stevens» disse tranquillamente lui. «Solo le persone autorizzate possono frequentare le proprietà del signor Ferguson. E visto che lei attualmente usa una delle case del signor Ferguson, le rammento che non le è permesso ricevere visite.»
«Mi stia bene a sentire» dissi, alzando la voce. «Io sono l'assistente personale del signor Ferguson. E le regole dello staff al sottoscritto non si applicano. Io faccio quello che mi pare e piace, chiaro?»
«Capisco, signor Stevens. Immagino che lei chiederà al signor Durant per il problema delle visite, ma la signorina Malcolm fa quello che le dico io.» Riagganciò.
Pazzo di collera, telefonai alla società.
«Qui è la Ferguson Electronic & Oil Corporation» mi rispose una ragazza dalla voce gradevole e squillante. «In cosa posso esserle utile?»
«Mi passi Sonia Malcolm!» gridai.
«Mi scusi, signore, ma si tratta di una telefonata personale?»
«Non importa! Me la passi e basta!»
«Un attimo, signore.»
Attesi, il sangue che mi martellava nelle tempie.
Ci fu una lunga pausa, poi lei tornò in linea.
«La signorina Malcolm non c'è, signore. Posso passarle il capo del personale?»
Sbattei il ricevitore con violenza.
Ero fuori di me.

9

I palmizi frusciavano nella brezza che spirava leggera e il mare scintillava sotto i raggi del sole. La spiaggia sembrava un tappeto argentato.
Ma che cosa diavolo me ne importava?
Nella mia mente c'erano solo furia, frustrazione e solitudine.
Volevo Sonia! Avevo bisogno di lei!
Mi sedetti in veranda, fissando la spiaggia vuota. Un gabbiano volò via con un grido lamentoso.
Dentro di me sentivo sempre la voce del capo del personale: "La signorina Malcolm fa quello che le dico io".
Mi costrinsi a rilassarmi. Se quell'idiota credeva di potermi comandare a bacchetta, be', si sbagliava di grosso.
Quella era una faccenda che riguardava solo Sonia e me. E al diavolo Macklin!
Presa quella decisione, mi alzai e mi diressi al punto in cui avevo parcheggiato la Mercedes, all'ombra di un gruppo di palme. Guidai fino alla barriera. Il guardiano, un tizio dall'aria sinistra, annuì a mio beneficio e azionò la sbarra.
Mi diressi in città. Adesso erano le cinque e cinque del pomeriggio. Non avevo idea di quando finissero di lavorare i dipendenti della Ferguson Electronic & Oil Corporation. Decisi pieno di speranza che, molto probabilmente, il personale sarebbe uscito dall'ingresso sul retro. Era un rischio che dovevo correre.
Tagliai passando da una strada secondaria e mi avvicinai all'ingresso posteriore e al garage sotterraneo. Trovai posteggio davanti al marciapiede e accostai, poi mi preparai ad aspettare. Da dove stavo, ed ero in buona posizione, riuscivo a vedere il garage e il guardiano alla barriera.
Il tempo passava. Continuavo a guardare l'orologio. Poco dopo le sei, iniziò l'esodo. Diverse auto cominciarono a sbucare fuori dal garage. Guardai gli uomini al volante: erano tutti eleganti e avevano l'aria di essere dirigenti o impiegati di alto livello. Poi, circa venti minuti dopo, iniziò il flusso delle segretarie e dei normali dipendenti. Quelli erano tutti a piedi.
Misi in moto e mi avviai col cuore in gola. Pareva non esserci fine a quella fiumana di uomini e donne: alcuni parlavano, altri camminavano da soli.
Poi la vidi salire la rampa. Indossava un vestito beige dall'aria fresca. Era sola e procedeva con passo spedito.
Non si fermò nessuno a parlarle, ma in fondo era solo un'impiegata assunta da poco.
Quando giunsi sul viale, ebbi qualche difficoltà. Fui costretto a inserirmi nel traffico dei veicoli che facevano ritorno a casa, e venni subito circondato da varie auto. La vidi sul marciapiede; camminava sempre ad andatura sostenuta. Cercai di rallentare, ma un'impaziente nota di clacson che proveniva dalla macchina alle mie spalle mi costrinse ad andare avanti. Imprecando, oltrepassai Sonia. Non c'era nessun posteggio libero davanti a me. Avrei voluto fermarmi, ma il suono imperioso del clacson non mi lasciò scelta. Per poco non tamponai l'auto davanti a me, mentre guardavo Sonia dallo specchietto retrovisore. Lei continuava ad avanzare, ma ormai l'avevo superata di molto.
Il marciapiede non era meno affollato del viale. E se l'avessi persa di vista? Non sapevo neppure dove abitava! Poi, davanti a me, scorsi un'auto spostarsi lentamente dall'orlo del marciapiede e dirigersi nel traffico. Io m'infilai veloce nel posteggio e non persi nemmeno tempo a chiudere la portiera col fermo. Tornai indietro di corsa lungo il marciapiede, facendomi largo tra la gente e cercando disperatamente Sonia.
La vidi proprio mentre svoltava in una stradina secondaria. Spingendo e sgomitando, le corsi dietro.
Quando girai anch'io, la scorsi subito davanti a me. Camminava con la sua solita andatura, ma senza fretta. Allungai il passo e la raggiunsi.
«Sonia!»
Lei si voltò.
C'erano solo poche persone vicino a noi, che però sembravano ignorarci.
Lei mi fissò.
«Cosa vuoi?»
Non era la Sonia che avevo desiderato. La sua espressione era ostile, e nei suoi occhi lessi una nota di paura.
«Sonia!» gridai di nuovo mentre mi affiancavo a lei. «Io...»
Non potei proseguire.
Con ferma determinazione, lei disse: «Lasciami in pace! Non voglio avere niente a che fare con te! Lasciami in pace, ti dico!»
«Senti, non devi preoccuparti di quell'idiota di Macklin. Io sono l'assistente personale del signor Ferguson, e le loro stupide regole a me non si applicano. Se ti chiedo di venire a cena, non ci sono problemi. Io...»
«Non ci saranno problemi per te, Stevens!» sbottò lei. «E adesso ascoltami tu. Io ho sudato sette camicie per avere questo lavoro. Il signor Macklin mi ha detto chiaro e tondo che se fraternizzo con te o con qualsiasi altro membro del personale, sarò licenziata in tronco. E ora vattene! Non voglio rinunciare a questo lavoro per un uomo; né per te né per qualsiasi altro! Se non mi lasci in pace, andrò a dirlo al signor Macklin.»
Si volse e se ne andò, lasciandomi lì impalato a fissarla.
«Non te la prendere» disse una voce ben nota alle mie spalle.
Mi voltai e vidi Mazzo, che sorrideva nel suo solito modo scimmiesco.
«Le donne sono come il diavolo» commentò «ma quella non ha tutti i torti. Ha un buon lavoro, Jerry, e vuole tenerselo. Perciò pensa un po' anche a lei, oltre che a te stesso.»
Lo fissai a bocca aperta. Non mi sarei mai aspettato che quello scimmione dalla testa rasata se ne uscisse con un'osservazione simile.
«Andiamo a farci un drink» mi propose.
Solo allora mi venne in mente che stavo guardando l'uomo che aveva assassinato Loretta.
«All'inferno tu e il tuo drink» dissi, poi lo sfiorai passandogli accanto e mi diressi al punto dove avevo lasciato la Mercedes. Mi sedetti al volante e lottai contro il senso di delusione cocente che mi aveva invaso. Alla fine, arrivai a una soluzione. Non c'era niente da fare con Sonia. Pensai che probabilmente era sola come me e che era stata felice di accettare il mio invito a cena. Ma Macklin le aveva sbarrato la strada. L'amara verità, comunque, era che io non significavo niente per lei se non un semplice invito a cena.
E adesso cosa potevo fare? Come trascorrere la sera? Non conoscevo nessuno in quella città di ricconi. Pensai alla mia casa solitaria in riva al mare. Andare lì adesso e sedermi a cenare da solo era impensabile. Ma l'idea di andare in un ristorante senza nessuna compagnia era non meno frustrante. Ripensai con una certa nostalgia alla gente di Hollywood che avrei potuto chiamare: gente che ero stato costretto a non frequentare più e che mi aveva scaricato perché ero rimasto al verde, ma che sarebbe accorsa a frotte se avesse saputo che adesso guadagnavo centomila dollari all'anno.
Quello stato d'animo passò rapidamente. Amici del genere, mi dissi, non valevano un fico secco.
Me ne restai seduto lì a rimuginare. Poi, all'improvviso, mi venne in mente un'idea. Dovevo trovarmi una qualche occupazione per evitare che la solitudine si facesse troppo soffocante. Perché non scrivere un resoconto dettagliato di tutto quello che mi era successo da quando Liz Martin, la segretaria di Lu Prentz, mi aveva telefonato dicendomi che Lu aveva trovato un lavoro per me?
Quella casa lussuosa in riva al mare non mi sarebbe sembrata più tanto solitaria. Sarei rimasto seduto davanti alla macchina per scrivere e avrei raccontato la storia terrorizzante della mia personificazione di John Merrill Ferguson, degli omicidi di Larry Edwards, Charles Duvine e Loretta, e poi ancora di Harriet e del suo barboncino, di Mazzo e di Durant. L'avrei scritta come un romanzo, coi nomi e i luoghi cambiati. L'unico personaggio che avrei chiamato col suo vero nome sarebbe stato Lu Prentz, perché sapevo che lui ci teneva a comparire in un romanzo.
Mi pareva che quella storia fosse davvero unica. Forse sarei persino riuscito a venderla a un editore e chissà, magari qualcuno ne avrebbe tratto un film col sottoscritto nella parte del protagonista!
Se avessi scritto il libro in forma di romanzo, usando nomi fittizi, la Ferguson Corporation non avrebbe potuto trovare nulla da ridire. Nessuno avrebbe mai creduto che una storia simile potesse essere davvero successa, ma in ogni caso avrei aspettato fino alla scadenza del mio contratto con Ferguson. Non avevo nessuna intenzione di rinunciare a centomila dollari all'anno. Quel romanzo doveva essere una specie di assicurazione per la vecchiaia.
E avrei cominciato a scrivere subito, quando tutti i particolari erano ancora freschi nella mia mente.
La casa in riva al mare era il luogo più adatto per un'impresa del genere. Lì non sarei stato interrotto da nessuno. Avrei potuto scrivere di mattina, poi nuotare, pensare alla trama nel pomeriggio e magari lavorare un po' anche di sera.
Misi in moto e guidai lungo Paradise Boulevard fino a quando non notai un grande magazzino. Il commesso mi convinse a comprare una macchina per scrivere IBM di seconda mano. Poi acquistai anche una scatola di nastri e una risma di carta.
Infilai il tutto in macchina e mi diressi a casa. Mentre guidavo, pensai che adesso non mi sentivo più solo. Morivo dalla voglia di cominciare a scrivere.
Appena varcai la soglia, vidi una donna di colore piuttosto robusta, che era intenta a spolverare il salotto. Mi sorrise e mi disse che era la signora Swanson. Ricordai che Sonia mi aveva parlato di una donna delle pulizie che si occupava di tenere in ordine i villini di Ferguson.
«Se c'è qualcosa di particolare che vorrebbe per cena, signor Stevens, me lo dica pure» dichiarò.
«Certo, grazie. Spero di non darle troppo disturbo.» Non avevo intenzione di andare a cena fuori da solo. «Va bene qualsiasi cosa.»
«Pensavo di prepararle una bistecca.»
«Ottima idea.»
«Bene, signor Stevens, la cena sarà pronta verso le otto» disse lei.
Appena se ne fu andata, presi la macchina per scrivere dalla Mercedes, la portai dentro e feci un po' di pratica. Tra i molti lavori a cui mi ero dedicato mentre aspettavo una scrittura, qualcuno aveva una certa attinenza con l'uso della macchina per scrivere. Per esempio, avevo compilato gli indirizzi su un numero infinito di buste e avevo inviato lettere di supplica in tutto il paese a favore di una scuola per ciechi. Dopo un'ora di pratica, riacquistai la mia vecchia velocità.
Andai in veranda con un bicchiere di whisky e iniziai a progettare la storia della mia personificazione di John Merrill Ferguson. Buttai giù qualche nome inventato su un taccuino. Poi feci seguire a ciascun nome una descrizione fisica che non corrispondeva affatto alle persone di cui avrei parlato. Inventai anche dei luoghi fittizi.
La signora Swanson tornò proprio mentre stavo per ultimare quei particolari. Mi cucinò subito una splendida bistecca con vari contorni e disse che sarebbe tornata l'indomani sera con una delle sue specialità: il pollo al curry. Le diedi cinque dollari. Il suo sorriso raggiante mi fece capire che la donna era stata piacevolmente sorpresa.
Dopo che se ne fu andata, io terminai di mangiare, misi i piatti nel lavandino della cucina, sparecchiai e cominciai a scrivere il libro.
Pigiai sui tasti della macchina per scrivere fino alle due di notte, senza fermarmi, poi raccolsi i fogli, li chiusi a chiave in un armadio e andai a letto.
Poco prima di addormentarmi, pensai di nuovo a Sonia. Con una certa sorpresa, scoprii che adesso mi era quasi indifferente. La ricordavo come qualcosa di irreale, in maniera non molto diversa da come ricordavo i miei vecchi film. Ero convinto che adesso non avrei avuto più bisogno di quella ragazza. Sonia aveva una carriera davanti a sé; io non significavo nulla per lei. E, giusto poco prima di chiudere gli occhi, decisi che anche lei non significava nulla per me. Era stata solo un'infatuazione passeggera.
Per sei giorni consecutivi e la maggior parte delle notti, continuai a lavorare instancabilmente alla storia di Ferguson. La signora Swanson veniva a fare le pulizie due volte alla settimana e mi preparava un'ottima cena tutte le sere. Di pomeriggio, preferivo nuotare. Non ricevetti nessun messaggio dalla Ferguson Electronic & Oil Corporation e non provai più nessuna sensazione di solitudine. Ora avevo qualcosa da fare, qualcosa che aveva assorbito totalmente il mio interesse. E quando uno è preso in questo modo dal suo lavoro, per lui non esistono più né la solitudine né le donne.
Poi, la sesta sera, mentre la porta finestra era spalancata e una grande luna piena illuminava il mare, sentii il rumore di un'auto che stava avvicinandosi alla proprietà. Naturalmente, stavo ancora pigiando sui tasti della macchina per scrivere.
Pensai subito che Joe Durant fosse venuto a controllarmi. Se fosse entrato e avesse visto la macchina per scrivere con tutti quei fogli, avrebbe capito subito cosa stavo combinando. E bisognava assolutamente che non lo sapesse!
Muovendomi in fretta, riposi i fogli in un cassetto, poi afferrai la macchina per scrivere, sfrecciai in camera e la nascosi sotto il letto.
Sentii un rumore di passi sulla veranda. Mi feci coraggio e tornai in salotto.
Sul riquadro della porta finestra vidi stagliarsi la sagoma di John Merrill Ferguson.
Era l'ultima persona che mi aspettavo di vedere.
«Salve, Jerry» disse, entrando nella stanza. «Spero di non disturbarla.»
Tirai un lungo e profondo sospiro.
«Niente affatto, signore. Non stavo facendo nulla di particolare. Posso offrirle qualcosa da bere?»
«No, grazie.» Si avvicinò al tavolo, vi accostò una sedia e si sedette. «Volevo parlarle.»
Sorpreso e a disagio, mi sedetti di fronte a lui.
C'era una lampada sul tavolo, che io usavo quando scrivevo a macchina. Lui allungò un braccio e la spense. Così restarono in funzione solo due luci laterali, che fecero cadere la stanza in penombra.
«Ebbene, Jerry?» disse. «Cosa ne pensa della vita?»
Che diavolo voleva dire quella domanda? Perché uno degli uomini più ricchi e potenti del mondo era venuto da me per chiedere che cosa ne pensava della vita uno che fino a poco prima era stato solo un attore disoccupato? Mi sentii ancora più a disagio.
«La vita è molto bella» risposi. «E questo grazie a lei, signore. Apprezzo molto quello che sta facendo per me.»
Lui annuì e mosse le mani in modo irrequieto.
«Cos'ha fatto in questi giorni?»
«Oh, varie cose... Ho nuotato molto, per esempio. Qui è tutto fantastico. E anche la città è splendida.»
Lui mi fissò, e nei suoi occhi lessi una sfumatura di tensione.
«Vorrei chiederle un favore, Jerry.»
La richiesta non mi sorprese. Non sarebbe mai venuto da me senza una ragione.
«Dica pure, signore.»
«Ce l'ha qui il materiale per il trucco?»
«Certo.»
«Voglio che stasera prenda il mio posto a casa.»
Ero perplesso.
«Va bene, signore. Come vuole lei.»
«Non ci saranno problemi. La mia auto è qui fuori. Si metta la maschera, prenda la macchina e si diriga a casa mia. Le guardie del corpo la lasceranno entrare. Poi vada nella mia suite e rimanga lì fino a quando non mi faccio vivo. Nessuno sa che lei mi sta impersonando nuovamente. Le guardie la scambieranno per me. Ho già detto a Jonas di servire i pasti nella suite e di non disturbarmi. È tutto chiaro?»
«Sì, signore.»
«Bene. Lei è sempre molto prezioso per me. E adesso vuole andare a cambiarsi?»
Poi accadde qualcosa di orribile e di sconvolgente.
"Il sopracciglio destro di John Merrill Ferguson si staccò e, come un verme osceno, cadde sul tavolo davanti a noi."

Un lungo ed esplosivo silenzio scese nella stanza fiocamente illuminata. C'era una tensione che solo un violento shock è in grado di produrre.
L'uomo che credevo essere John Merrill Ferguson si lasciò sfuggire all'improvviso un debole lamento, poi spostò la sedia all'indietro e si alzò. Si guardò intorno con gli occhi spiritati, come un animale in gabbia, cercando disperatamente una via di fuga. Dopo averci pensato qualche secondo, si lanciò selvaggiamente verso la porta finestra aperta.
La mia reazione fu automatica. Spinsi un piede all'infuori, incrociai la sua caviglia e lo feci cadere a terra con un tonfo che scosse l'intera casa. Gli fui subito addosso, lo costrinsi ad aprire le braccia e gliele bloccai con le ginocchia. Adesso era inoffensivo.
Lo guardai in viso, poi gli staccai l'altro sopracciglio e i baffi.
«Chi diavolo sei?» chiesi col respiro affannoso.
Lui cercò di divincolarsi, ma senza esito.
«Lasciami andare!» boccheggiò.
Tenendogli sempre le braccia bloccate con le ginocchia, lo toccai sotto il mento, sentii il punto dove finiva la maschera di lattice e gliela sfilai lentamente dal viso.
Durante tutta l'operazione, lui continuava a fissarmi con uno sguardo disperato.
Poi fui assalito da un violento shock che mi paralizzò la spina dorsale.
Nella mia mente risentivo la voce ghignante di Mazzo: "Gli idioti come lui hanno spesso incidenti stradali".
"Sdraiato a terra, e immobilizzato sotto il mio peso, c'era Larry Edwards!"
Lasciai la presa e mi alzai, fissandolo.
«Buon Dio, Larry! Mi avevano detto che eri morto!» esclamai.
Lui si tirò lentamente in piedi. Sembrava stanco e terrorizzato.
«Devo andarmene subito di qui!» strillò con voce quasi isterica.
«Tu non te ne vai finché non mi racconti che cosa diavolo sta succedendo» dissi. «Siediti. Ora ti porto qualcosa da bere.»
Lui guardò la porta finestra ancora aperta, poi girò gli occhi verso di me.
«Non farlo, Larry» lo avvisai. «Ti spezzo un maledetto braccio se non te ne stai seduto e non parli.»
Lui esitò; poi, scrollando le spalle con fare inerme, si lasciò cadere in una poltrona. Senza togliergli gli occhi di dosso, mi diressi verso il bar, versai due dita di whisky in un bicchiere e glielo porsi. Lui bevve con avidità.
«Che ci fai qui? Perché sei venuto a trovarmi?» gli chiesi, in piedi dietro di lui.
«Volevo guadagnare un po' di tempo» borbottò. «Mi spiace, Jerry, ma il fatto è che ho pensato solo a me.»
Facendo il giro del tavolo, mi sedetti di fronte a lui.
«Si può sapere cosa vuoi dire? Senti, Larry, forse è meglio che cominciamo dal principio. Perché sei venuto qui travestito da Ferguson?»
Così mi raccontò tutto.
Aveva vissuto la mia stessa esperienza. Lu Prentz gli aveva fissato un appuntamento al Plaza, e lì aveva conosciuto Harriet. Poi era stato drogato e trasportato nella casa della vecchia. Gli avevano offerto mille dollari al giorno e lui aveva accettato, dopo di che Charles Duvine aveva iniziato a lavorare sulla maschera. Larry aveva imparato a imitare la voce di Ferguson e a falsificarne la firma. Alla fine, era stato portato nella residenza del magnate proprio come me.
«Hai conosciuto Loretta?» chiesi.
Lui si asciugò il sudore dal viso.
«Quella puttana era sempre dentro il mio letto, praticamente. Continuava a tormentarmi dicendo che non era sposata e che le serviva un prete. Credo che abbia detto le stesse cose anche a te, no?»
«Adesso è morta. L'hanno assassinata.»
Lui non batté ciglio.
«Mi hanno detto che era sonnambula.»
«Io ero lì quando è successo e l'ho sentita gridare. La gente non grida quando cammina nel sonno. È stato Mazzo a romperle l'osso del collo.»
«No, Mazzo non fa queste cose. Se qualcuno l'ha uccisa, non può che essere stato Pedro. È lui il sicario di Durant. Appena si accorge che non sono a casa, verrà subito a cercarmi. Devo andarmene subito da questa maledetta città.»
«Ma perché due controfigure? Non capisco. Tu a cosa servivi?»
«Io dovevo andare a Pechino. Ferguson è malato di mente, perciò a quelli servivano due sosia. Tu dovevi prendere per il naso la stampa, io i cinesi. Sono andato a Pechino con una squadra di dirigenti. Io ho firmato alcune carte, mentre loro si occupavano delle trattative. Per tutto il tempo, Ferguson è sempre stato tenuto sotto chiave nella sua residenza.»
Pensai all'uomo che avevo sentito camminare avanti e indietro nella stanza. Ferguson!
«E allora che ci fai qui?»
Lui mi porse il bicchiere vuoto.
«Dammene un altro.»
Stavolta versai un po' di whisky anche per me.
Mentre trangugiavo il liquore, Larry disse: «John Merrill Ferguson è morto alle sei di questo pomeriggio.»
Smisi subito di bere.
«Morto?»
«Sì. Un violento attacco di cuore.»
«E tu come lo sai?»
«Fortuna. Un puro e semplice colpo di fortuna. Ero nella suite di Ferguson e non facevo nulla di particolare. All'improvviso ho sentito un certo trambusto, poi mi sono accorto che qualcuno stava chiudendomi dentro a chiave. Ho continuato a restare in ascolto e ho sentito altre voci e un rumore di passi. Poi la suoneria del telefono sulla scrivania ha dato un leggero tintinnio. Ecco il colpo di fortuna di cui ti parlavo. Ho sollevato il ricevitore e mi sono subito accorto che si erano dimenticati di scollegare la derivazione. In linea c'era Mazzo, e stava dicendo alla signora Harriet che Ferguson era morto. Che donna! Ha preso la notizia come se le avessero appena letto un bollettino meteorologico. Ha raccomandato a Mazzo di non fare nulla fino al suo arrivo. Durant era a Washington. Ha precisato che ci avrebbe pensato lei ad avvertirlo. Poi ha detto, e mi pare ancora di sentire la sua voce fredda e monotona: "Avvisa Pedro che Edwards e Stevens non sono più indispensabili". Capisci? Pedro capirà subito cosa fare.»
M'irrigidii, sentendo un brivido freddo salirmi lungo la schiena.
«Ha detto così?»
«Sì! Poi Mazzo le ha detto che Pedro era a Miami e che si sarebbe fermato lì tutta la notte, ma l'indomani avrebbe seguito fedelmente le sue istruzioni. Poi la vecchia ha chiesto a Mazzo se sapevo che Ferguson era morto. Lui gli ha risposto di no, naturalmente, anche perché ero chiuso a chiave nella mia stanza. Lei ha detto che sarebbe arrivata l'indomani e ha riagganciato.»
«Credi che Harriet voglia farci davvero uccidere?» Il suo racconto mi pareva incredibile.
«Quante volte devo ripetertelo?» gridò Larry. «Ho aspettato che Mazzo andasse a letto, poi mi sono messo la maschera, ho spinto la chiave fuori dalla serratura facendola cadere su un pezzo di carta e l'ho tirata dentro. Dopo di che ho aperto la porta e me la sono svignata. Anche se le guardie del corpo sapevano che stavi impersonando Ferguson, hanno creduto che il vero Ferguson fossi io. Non ho avuto nessun problema a prendere la Jaguar e a guidare fin qui. Il guardiano mi ha fatto passare, scambiandomi anche lui per Ferguson.»
«Ma perché la vecchia vuole vederci morti?» Non riuscivo ancora a crederci.
Lui fece un gesto d'impazienza.
«Usa il cervello! L'affare di Pechino è stato portato a termine. Ferguson è morto. Tu e io potremmo dire che abbiamo falsificato la firma su certi documenti, e a quel punto si scatenerebbe l'inferno. Devono farci star zitti; non hanno altra scelta.»
Lo fissai.
«Mi avevi chiesto di tornare alla residenza.»
Lui distolse lo sguardo da me.
«Sì, lo so, mi spiace. È che me la facevo sotto dalla paura. Con te laggiù, quelli non avrebbero mai pensato che me la fossi squagliata. Stavo solo cercando di guadagnare tempo, come ti ho detto.»
Gli rivolsi uno sguardo disgustato.
«Lurido maiale! Mi avresti spedito a farmi uccidere mentre tu eri via, eh?»
«Lo so, lo so, ho perso la testa! Ma adesso dobbiamo svignarcela tutti e due. Non sprechiamo tempo. Appena Mazzo si accorge che sono scappato... e se ne accorgerà domani mattina, al momento di portare il carrello della colazione... si scatenerà la caccia all'uomo. Stammi bene a sentire, Jerry, io so come lavorano questi tipi. Loro hanno collegamenti dovunque. Perciò ho intenzione di nascondermi fino a quando non si convinceranno che non ho affatto voglia di parlare. E se vuoi restare vivo pure tu, ti consiglio di fare lo stesso. In ogni caso, non dire a nessuno quello che ci è capitato. Noi due potremmo mandare a gambe all'aria tutto il loro impero, ma io non sono così matto da fare una cosa del genere. Ho dei soldi e tra poco farò perdere le mie tracce. Meglio che segui il mio esempio. Abbiamo solo otto ore.»
Balzò in piedi e si precipitò fuori nella notte.
Non feci alcun tentativo di fermarlo. Se quel sopracciglio finto non si fosse staccato, sarei tornato tranquillamente nella residenza di Ferguson e l'indomani mi avrebbero fatto fuori.
Ma le parole di Larry non erano campate in aria. Era tempo di scappare, me ne rendevo conto. Mi fermai per qualche secondo a riflettere. Anch'io avevo dei soldi. Una volta lontano da quella città, avrei potuto dare ordine alla mia banca di inviare il denaro a un'altra filiale.
Ma dove potevo andare?
Dovetti controllare una sensazione di panico che stava per travolgermi. Andai in camera da letto e diedi un'occhiata al portafogli. Dentro c'erano poco meno di mille dollari.
Sarei andato a Miami, avrei lasciato la macchina in aeroporto e sarei salito su un aereo diretto a New York. Una volta lì, avrei fatto perdere le mie tracce.
Impacchettai tutti i miei vestiti in due valigie, poi mi venne in mente il dattiloscritto. Non potevo lasciarlo lì. Muovendomi in fretta, afferrai i fogli e li infilai in una delle valigie.
Lasciare la macchina per scrivere sul tavolo era altrettanto pericoloso. Se l'avessero trovata, avrebbero capito subito che me n'ero servito per scrivere un resoconto della vicenda. Così decisi di caricarla in macchina e la depositai sul sedile posteriore, poi tornai a prendere le valigie.
Diedi un'ultima occhiata dentro casa per essere sicuro di non essermi lasciato niente d'importante alle spalle, dopo di che spensi le luci e mi diressi all'auto.
Guidai fino alla barriera, chiedendomi se avrei avuto qualche problema col guardiano. Ma lui azionò la sbarra e mi fece passare senza battere ciglio.
Cercando di rilassarmi, imboccai la rampa che immetteva sull'autostrada. A quell'ora c'era poco traffico. Feci molta attenzione a non superare i limiti di velocità, anche se morivo dalla voglia di premere l'acceleratore a tavoletta.
La macchina per scrivere mi preoccupava non poco. Avrei dovuto gettarla da qualche parte. Sapevo che la Mercedes sarebbe stata rintracciata, prima o poi, e se avessero trovato la macchina per scrivere all'interno, avrebbero capito subito perché l'avevo usata. Così si sarebbero messi a darmi la caccia con ancora maggiore cattiveria.
Dopo alcune miglia, arrivai nei pressi di una piazzuola per pescatori e mi fermai. Attesi fino a quando non vidi alcun veicolo in vista, poi scesi, appoggiai la macchina per scrivere al parapetto e la gettai in mare.
Di nuovo in macchina, ma con un problema che era stato risolto, proseguii per Miami. Mentre guidavo, pensai a Loretta. Sentii di nuovo la sua voce: "Quella è una donna spietata e pericolosa. Non pensa che ai soldi. Quando John muore, lei erediterà tutto".
John Merrill Ferguson era morto. E perciò adesso Harriet ereditava tutto. Aveva fatto schioccare le sue dita malvagie e Charles Duvine, che aveva reso possibile con il proprio lavoro la personificazione di Ferguson, era morto. E ora quella vecchia spietata stava facendo schioccare le sue dita per me. Il pensiero mi fece venire i sudori freddi.
Poi pensai alla macchina che stavo guidando. Se fosse stata trovata all'aeroporto, quelli avrebbero capito subito che avevo preso un aereo. Con i loro soldi e l'organizzazione su cui potevano contare, non avrebbero avuto difficoltà a rintracciarmi a New York.
Mi resi conto improvvisamente che se avessi voluto continuare a vivere, avrei fatto meglio a usare il cervello. Avevo gettato in acqua la macchina per scrivere, ma adesso dovevo sbarazzarmi anche dell'auto.
Diedi un'occhiata all'orologio sul cruscotto: l'una e cinque di notte. Il tempo stava passando velocemente. Tra sette ore, Mazzo si sarebbe accorto della scomparsa di Larry. A quel punto avrebbero controllato il villino in riva al mare e avrebbero scoperto che me n'ero andato anch'io. Poi si sarebbe scatenato l'inferno.
Stavo avvicinandomi a Paradise City. E se una delle guardie del corpo di Ferguson, magari fuori servizio, avesse notato la macchina? Guidai lungo Ocean Boulevard. Il cuore stava iniziando a martellarmi nel torace. Forse ero stato folle ad andare lì. Avrei dovuto dirigermi verso la costa occidentale, ma ormai era troppo tardi.
Continuai a guardarmi nello specchietto retrovisore, temendo di essere inseguito. C'erano alcune auto dietro di me, ma continuavano a svoltare dopo pochi minuti. Doveva essere gente diretta a casa.
Appena uscii dalla città e cominciai a puntare verso Fort Lauderdale, mi sentii subito meglio.
Poi mi venne in mente un'idea. "Mettili fuori strada. Lascia la macchina all'aeroporto, così penseranno che hai preso l'aereo. E invece te ne starai vicino a Miami, in attesa che le acque si calmino."
C'erano dozzine di motel sull'autostrada. Avrei lasciato l'auto all'aeroporto, dopo di che avrei preso un taxi e mi sarei fatto portare in uno di quei motel.
E, di sicuro, un motel vicino a Paradise City sarebbe stato l'ultimo posto in cui potevano pensare di cercarmi.
Feci proprio così. Dopo aver parcheggiato la Mercedes, presi un taxi. L'autista aveva appena scaricato un passeggero che veniva da Palm Beach e stava ritornando. Fu ben contento di prendermi a bordo, visto che così il viaggio di ritorno sarebbe stato a mio carico. Gli dissi che volevo un buon motel per passare la notte. Lui mi consigliò il Welcome.
La ragazza dagli occhi assonnati che era al banco della reception mi guardò a malapena mentre firmavo il registro. Usai il nome "Warren Higgins". Lei mi consegnò la chiave, mi disse dove potevo trovare la stanza e tornò a sonnecchiare.
Io chiusi a chiave la porta della camera e accesi la luce. Il posto era abbastanza confortevole. Posai le valigie e tirai un lungo sospiro.
Ora mi sentivo al sicuro.
Ero stanco morto. L'unico pensiero che avessi era quello di andare a dormire.
Mi spogliai e poi, visto che ero troppo stanco per fare una doccia, mi lasciai cadere sul letto.
Dormii profondamente.
Il ronzio di un motore mi destò all'improvviso. La luce del sole stava filtrando dentro la piccola camera da letto. Sentii alcune voci. Per un attimo, provai una sensazione di paura. Che mi avessero già trovato?
Scostai le lenzuola e scesi giù dal letto. Andai in salotto e sbirciai dalle tendine di cinz.
Quello che vidi fu decisamente rassicurante: alcune persone erano intente a riporre i bagagli nelle loro auto chiacchierando e sorridendo. Era gente in vacanza, ovviamente.
Diedi un'occhiata all'orologio: erano le nove e un quarto. Feci una doccia, mi misi qualcosa addosso e uscii. Ormai la maggior parte della gente che avevo sentito chiacchierare prima se n'era già andata. C'erano solo tre auto parcheggiate fuori.
Trovai la strada per il ristorante. La cameriera mi indirizzò un sorrisino sfacciato.
«Il signor pigrone, vero?» disse. «Allora, cosa prende?»
Ordinai uova con prosciutto e una porzione di frittelle. Poi le chiesi se avesse un giornale. Lei mi portò una copia del "Paradise Herald". Mi misi a sfogliare le pagine, ma non trovai alcun accenno alla morte di John Merrill Ferguson. Era troppo presto, pensai, ma il fatto è che morivo dalla voglia di avere qualche notizia fresca.
Dopo aver terminato la colazione, mi diressi al banco della reception. L'uomo magro e scuro di capelli che mi salutò con un sorriso cordiale doveva essere il direttore.
«Mi chiamo Fred Baine» disse, stringendomi la mano. «Dormito bene, signor Higgins? Tutto a posto?»
«Tutto a posto» risposi. «Intendo fermarmi un po' di giorni, anche perché devo scrivere un libro.» Gli rivolsi un sorrisino compiaciuto. «E non voglio essere disturbato.»
«Un libro?» Lui sembrava impressionato. «Nessun problema, signor Higgins. Resti quanto le pare; qui nessuno la disturberà.»
«Non ha per caso una macchina per scrivere? In caso affermativo, le chiederei di affittarmela.»
«Con molto piacere. E lasci perdere l'affitto. Ne ho una che non mi serve, perciò gliela presto volentieri.»
«Molto gentile da parte sua. Lo apprezzo davvero molto.»
«E adesso senta, signor Higgins, se non vuole essere disturbato, potrei farle portare i pasti direttamente in camera. Per me non è un incomodo. Basta che dia alla cameriera una quindicina di minuti al giorno per prepararle il letto e fare qualche pulizia, poi non la disturberemo più.»
«Molto bene. E grazie ancora.»
«Nessun problema, signor Higgins. Magari fossi capace io di scrivere un libro!» Sospirò. «Chissà quanti soldini farà con i diritti delle edizioni tascabili, eh?»
«Già» dissi, poi tornai in camera.
Ero determinato a finire Il caso Ferguson, come avevo chiamato il libro, senza ulteriori indugi. Molto probabilmente, nelle prossime tre settimane non avrei avuto niente da fare. Ero convinto che entro quel lasso di tempo le acque si sarebbero calmate. Avrei pensato dopo alla mossa successiva.
Passò qualche minuto e una ragazza di colore arrivò nella mia camera con una macchina da scrivere, indirizzandomi un sorriso tutto denti.
«Mio fratello vuole scrivere un romanzo, signor Higgins, ma il fatto è che non sa come iniziarlo» disse mentre girava per la stanza con un aspirapolvere. «Ha trovato una trama molto bella, però deve mettere ancora a punto qualche particolare, specie per quanto riguarda la conclusione.»
«Gli dica di cominciare il libro a metà» le consigliai. «Vedrà che funziona.» Poi mi chiusi in bagno.
Quando se ne fu andata, tirai fuori il dattiloscritto e trascorsi l'intera mattinata a leggerlo.
La stanza era dotata di condizionatore, ma non vedevo l'ora di uscire e di respirare un po' d'aria fresca. Comunque, resistetti alla tentazione. Dovevo evitare di farmi vedere in giro.
Il dattiloscritto reggeva bene, almeno per i miei gusti.
Dopo aver pranzato a base di hamburger e caffè, mi rimisi alla macchina per scrivere.
Pigiai sui tasti come un forsennato fino alle sei, poi feci una pausa durante la quale mi preparai un martini attingendo al frigorifero, decisamente ben rifornito.
Ero arrivato al momento in cui Larry Edwards aveva messo piede nel villino sul mare travestito da John Merrill Ferguson. Ero contento di come procedeva la narrazione, visto che fin lì non c'erano né strappi né punti morti, ma volevo concedermi un po' di riposo prima del grande momento in cui avrei scoperto che Ferguson era in realtà un sosia.
Sbirciai con trepidazione dalla finestra e lo sguardo mi cadde sulla piscina. Dentro c'era un bel po' di gente che si divertiva, ma io decisi che era meglio restare nell'ombra.
Intorno alle sette e mezzo, la ragazza di colore mi portò una bistecca per cena. Le diedi un paio di dollari e lei lanciò un'occhiata carica di rispetto al tavolo, tutto pieno di fogli dattiloscritti.
Dopo cena, chiusi le tende e continuai a scrivere. Alla fine, verso le undici, riuscii a portare la storia al punto in cui era arrivata nella realtà.
Nel romanzo, così come nei fatti, mi trovavo in un motel e rimuginavo sulla mia prossima mossa. Avrei dovuto aspettare e vedere cosa succedeva.
Raccogliendo i fogli sparpagliati sul tavolo, li misi insieme al resto del dattiloscritto, poi feci una doccia e me ne andai a letto.
Non dormii molto bene. Continuavo a pensare al mio futuro. Dovevo tornare a Los Angeles? Ma quello sarebbe stato il primo posto in cui mi avrebbero cercato... sempre posto che mi cercassero davvero, s'intende.
Avevo circa ottomila dollari in banca. Forse non sarebbe stata una cattiva idea comprare una macchina e andare in Messico. Potevo nascondermi lì e fare un giro del paese in attesa che la situazione si normalizzasse. Ma poi che cos'avrei combinato? Il problema c'era, perché nel frattempo i miei ottomila dollari si sarebbero sicuramente assottigliati.
Pensai di riprendere quella vita triste che avevo condotto fino a poco prima: rimettermi a sedere accanto al telefono in attesa che qualcuno mi cercasse.
Ma forse il libro sarebbe stato un successone.
Con quell'idea consolante in testa, alla fine riuscii ad addormentarmi.
La mattina seguente, la ragazza di colore mi portò la colazione e una copia del "Paradise Herald".
In prima pagina, campeggiava un titolo a caratteri cubitali sulla morte di John Merrill Ferguson.
Il dottor Weissman aveva detto ai giornalisti che Ferguson si era troppo strapazzato, negli ultimi tempi. Aveva appena concluso un affare molto importante con i cinesi, ma non era più riuscito a riprendersi del tutto dalla morte della moglie. Così era rimasto vittima di un infarto fulminante.
C'era una foto del dottor Weissman con l'aria afflitta. E c'era anche una foto di Joseph Durant, che sembrava non meno triste. Secondo quanto riferiva il giornale, a dirigere la Ferguson Electronic & Oil Corporation sarebbe stato Durant. Vidi una foto di Harriet in compagnia del suo inseparabile barboncino. Anche lei sembrava sconsolata, e il cane non era da meno. Il giornalista affermava che adesso Harriet Ferguson era l'azionista di maggioranza, e con ogni probabilità sarebbe diventata presidente dell'azienda.
Un accordo molto riservato era stato stretto tra Ferguson e il governo cinese. La Ferguson Electronic & Oil Corporation avrebbe prodotto computer e satelliti che in breve tempo avrebbe consentito alla Cina di competere con la Russia. L'affare valeva due miliardi di dollari.
Lessi tutto mentre mangiavo.
Due miliardi di dollari! E sia Larry che io potevamo mandare tutto a catafascio! Quel pensiero mi fece perdere l'appetito. Spinsi via il piatto, mi alzai e andai a sedermi in una poltrona.
Se io e Larry ci fossimo lasciati sfuggire qualcosa sul fatto che avevamo falsificato la firma di Ferguson in alcuni importanti documenti, il risultato sarebbe stato una specie di bomba atomica. Mi vennero in mente le ultime parole che Larry mi aveva detto prima di andarsene: "In ogni caso, non dire a nessuno quello che ci è capitato. Noi due potremmo mandare a gambe all'aria tutto il loro impero, ma io non sono così matto da fare una cosa del genere."
"E nemmeno io, Larry" pensai. Quella era l'ultima cosa che avrei fatto. Poi riandai con la mente al dattiloscritto. Forse qualche giornalista un po' più furbo degli altri, leggendo il libro... sempre che fosse pubblicato, s'intende... avrebbe potuto fare due più due. E con questo? Non sarebbe stato in grado di dimostrare niente. Quel dattiloscritto era un'assicurazione per la mia vecchiaia. Avrei aspettato a pubblicarlo che fosse passato un bel po' di tempo, questo era certo, ma non intendevo affatto gettarlo nel cestino dei rifiuti.
Poi, guardando di nuovo il giornale, l'occhio mi cadde su un trafiletto stampato in fondo alla pagina.

NOTO ATTORE TELEVISIVO MUORE

Larry Edwards, diventato famoso per i ruoli da lui interpretati in numerosi western prodotti per la televisione...

Il giornale mi scivolò dalle dita. Cominciai a tremare.
Larry!
Mi alzai con le gambe malferme, mi diressi all'armadietto dei liquori e mi versai una dose di whisky. Il bicchiere mi batteva contro i denti mentre bevevo. Accesi una sigaretta e presi a camminare avanti e indietro col cuore che mi martellava in petto.
Larry... morto!
Mi costrinsi a riprendere in mano il giornale e lessi gli altri particolari.
Larry Edwards, diceva l'autore del trafiletto, era stato investito da un camion pirata mentre si trovava sull'autostrada Miami-Naples.
La Ford che guidava era stata letteralmente distrutta e scagliata nel bosco. La polizia stava ancora cercando un camion danneggiato dai postumi dello scontro. Larry Edwards aveva trascorso un periodo di vacanze in Florida.
Così lo avevano trovato.
Il sudore cominciò a gocciolarmi dalla fronte.
Larry era stato abbastanza furbo da liberarsi della Jaguar, come io mi ero liberato della Mercedes. Aveva preso in affitto una Ford e si era diretto in un'autostrada lungo la East Coast. Eppure, non era stato sufficientemente rapido.
Ero al sicuro in quel motel?
Mi vennero in mente le parole di Larry: "Stammi bene a sentire, Jerry, io so come lavorano questi tipi. Loro hanno collegamenti dovunque."
Mi sentii invadere dal panico.
Mi sedetti e tentai di calmarmi. Com'era possibile che mi trovassero in quel motel così fuori mano? Eppure, erano stati capaci di scovare Larry. E ormai era molto probabile che avessero trovato anche la Mercedes. Si sarebbero convinti che ero fuggito prendendo l'aereo? Avrebbero controllato le liste dei passeggeri? In quel caso, forse si sarebbero accorti che non ce n'era nessuno che corrispondesse alla mia descrizione, e magari avrebbero pensato che mi fossi nascosto da qualche parte, anche nelle vicinanze.
Adesso sapevo quello che doveva provare una volpe quando sente l'abbaiare dei cani.
Probabilmente, c'erano più di trecento tra motel e alberghi intorno a Miami. Li avrebbero controllati tutti?
Iniziai a calmarmi. Sarebbe stato stupido scappare. Lì dov'ero potevo contare su un nascondiglio, dopotutto.
Poi pensai al dattiloscritto. Quello poteva salvarmi la vita. Avrei scritto a Harriet dicendole che avevo messo nero su bianco l'intera storia dal momento in cui lei mi aveva contattato al Plaza. L'avrei avvisata che se mi fosse successo qualcosa, il dattiloscritto sarebbe finito nelle mani della polizia. Ma le avrei anche dato la mia parola che se mi avessero lasciato in pace, non mi sarei mai lasciato sfuggire nulla.
Mi pareva una buona idea. Andai alla macchina per scrivere e buttai giù la lettera.
Ma come fare a mandargliela? Sarebbe stato fatale spedirla da lì. Il timbro postale di Miami le avrebbe fatto subito capire che mi trovavo in zona.
Dovevo individuare qualcuno che la imbucasse per me in un'altra località. Scrissi l'indirizzo sulla busta: "Signora Harriet, Largo Residence, Paradise City". Chiunque fosse stato a spedire la lettera, non doveva sapere che era indirizzata a un Ferguson. Misi il foglio dentro la busta e la sigillai.
E il dattiloscritto? Decisi di spedirlo a Lu Prentz, con la raccomandazione di tenerlo in custodia.
Lasciai la stanza e mi diressi al banco della reception. Fred Baine mi sorrise.
«Salve, signor Higgins. Tutto bene?»
«Benissimo, grazie. Può darmi un po' di carta da imballaggio e dello spago, per favore? Devo spedire un pacchetto.»
«Nessun problema.» Andò nel retro dell'ufficio e, dopo una breve pausa, tornò con della carta marrone e un rotolo di spago. «Vanno bene questi?»
«Certo, grazie. Ah, un'altra cosa, signor Baine. Ho una lettera che vorrei fosse imbucata fuori dalla città. Non voglio far sapere a nessuno dove mi trovo.» Gli mostrai la lettera. «La signora Harriet è mia suocera. Se sapesse che sono a Miami...» Gli strizzai l'occhio in maniera eloquente.
Lui la guardò un po' sorpreso, poi annuì.
«Sicuro, signor Higgins. Credo che voi scrittori dobbiate rompere i ponti con il prossimo, ogni tanto. C'è una coppia che parte per New York stamattina. Chiederò a loro di impostarla. È gente perbene, stia tranquillo.»
«Ottimo.» Gli allungai dieci dollari. «Le dispiace darli a quei due?»
«Certo. Saranno contenti della mancia. Ci penso io a farglieli avere, non si preoccupi.»
Tornai nella mia stanza.
La ragazza di colore aveva già rifatto il letto e pulito i vari locali.
Ora mi sentivo molto più rilassato.
Mi sedetti davanti alla macchina per scrivere e lavorai per tre ore di seguito, aggiornando il dattiloscritto.
Adesso ero sicuro di sopravvivere. Avrei impacchettato il dattiloscritto e l'avrei spedito a Lu Prentz, chiedendogli di custodirmelo. Ormai non avevo più nulla da fare se non continuare a stare seduto in quella stanza fino a quando non fossi stato certo che Harriet avesse ricevuto la mia lettera. Quella vecchia era maledettamente furba, ma io le avevo dato la mia parola di non aprire bocca con nessuno riguardo a quanto mi era capitato. L'avevo avvisata che se mi fosse successo qualcosa, il resoconto che avevo scritto sarebbe finito nelle mani della polizia. Perciò non aveva senso che continuasse a perseguitarmi.
Tra un paio di settimane, avrei preso una macchina a nolo e mi sarei diretto in Messico. Poi, trascorsi alcuni mesi, sarei tornato a Hollywood e avrei ripreso il mio solito tran tran. Avrei continuato a restarmene seduto per giorni e giorni in una tetra stanzetta, sperando che il telefono squillasse.
Era desolante, me ne rendevo conto. Ma era sempre meglio che finire morto ammazzato.

Epilogo

Lu Prentz era piuttosto depresso. Fuori, in attesa di vederlo, c'erano quattro morti di sonno che una volta facevano gli attori, anche se ormai erano anni che le società di produzione non li chiamavano più. Lu pensava all'interminabile elenco di scoppiati, circa quattrocento, che si trovava a dover gestire e si sentì affranto. Forse era tempo di andare in pensione. Erano venticinque anni che stava in quel giro, e ormai aveva accumulato un bel gruzzolo. Perché continuava a starsene seduto in quello squallido ufficio, giorno dopo giorno, a occuparsi di falliti che credevano di essere ancora dei grandi attori e che invece non valevano nulla, né più né meno che la promessa di una puttana?
Guardò dalla finestra sudicia lo smog che gravava su Hollywood e gli venne voglia di piangere. Sì, sarebbe andato in pensione. Avrebbe chiuso baracca e burattini, poi si sarebbe trasferito con la moglie alle Isole Vergini, dove almeno avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni al sole. E al diavolo quei relitti umani che continuavano a rovinargli la vita.
La porta dell'ufficio si aprì ed entrò Sol Hackenstein.
Sol faceva il regista per una piccola ma prospera società televisiva che negli ultimi tempi, più grazie alla fortuna che al cervello dei suoi dirigenti, si era conquistata un'ottima fetta di mercato.
Grande e grosso, con un abito azzurro dal taglio sartoriale, Sol faceva la sua impressione.
«Salve, Lu!» gridò. A Sol piaceva essere una grossa personalità in tutti i sensi, così gridava sempre. «A quando un vestito nuovo?»
Anticipando un possibile affare, Lu balzò in piedi e gli offrì la mano.
«Sol! Come va, bellezza? Hai una faccia che sembra un milione di dollari! Gli affari vanno sempre bene?»
«Benissimo. Prendi un sigaro.» Sol tirò fuori due sigari, ne porse uno a Lu, tagliò l'estremità dell'altro e se lo ficcò in bocca. Poi si sedette nella poltrona riservata ai clienti. «Gesù! Ma come si fa a posare il culo su un affare così scomodo? Quand'è che ti compri una poltrona come si deve?»
Lu gli strizzò l'occhio.
«Così mi libero prima dei rompiscatole, Sol. Allora, cosa posso fare per te?»
«Chi sono quei tipi lì fuori?»
«Quattro dei migliori caratteristi del giro» mentì Lu.
«Davvero? Be', a me sembravano cadaveri. Ma lasciamo perdere. Te li lascio volentieri tutti quanti. Ho un lavoro per uno dei tuoi attori, ma non deve giocare troppo al rialzo. Senti, ho messo su un affare con la International. Dobbiamo produrre un serial di venti episodi da mezz'ora ciascuno. Il soggetto è eccellente: l'epoca d'oro del West. Ma mi serve un buon pistolero. Ho pensato a Jerry Stevens, ma non voglio spendere molto, come ti ripeto.»
Lu fece una smorfia improvvisa, come se gli fosse venuto il mal di denti.
«Lui è fuori discussione, Sol. Senti, ho un tizio che è molto più in gamba di Stevens e sono sicuro che ti piacerà. Ha un bell'aspetto, cavalca come se fosse nato in un circo e con la pistola ci sa fare molto bene. Non te ne pentirai, credimi.» Lu sembrava raggiante. «Si chiama Shale McGivern. Si farà strada, vedrai.»
Sol tirò una boccata dal sigaro.
«Voglio Jerry Stevens. I ragazzi sono convinti che lui è perfetto in quel ruolo.»
«Mi spiace, Sol. Non lo sapevi?»
Sol lo fissò.
«Cosa dovrei sapere, per l'amor del cielo?»
«Jerry è morto.»
«Morto? Ma com'è possibile? Che gli è successo?»
«So solo quello che ho letto sui giornali. E sai una cosa? Lui mi doveva cinquecentoventitré maledettissimi dollari.»
«Sei fortunato ad avere il tempo di leggere i giornali. Allora, cosa gli è capitato?»
«Quel dannato imbecille è andato a fare una nuotata nella piscina di qualche lurido motel fuori Miami. Era mezzanotte, a quanto sembra. Il giornalista dice che ha battuto la testa mentre si tuffava. Lo hanno trovato morto annegato.»
«Gesù!» esclamò Sol. «Così non possiamo averlo?»
«Be', a questo punto mi pare chiaro. Quell'idiota è morto, ma c'è un'altra cosa che non riesco a capire. Ha scritto un maledetto libro. Me l'ha spedito poco prima dell'incidente. Ma te lo immagini! Un imbecille simile che scrive un libro!»
Sol socchiuse le palpebre.
«Be', che c'è di strano? Tutti possono scrivere libri, no? Qual è la storia?»
«E come diavolo faccio a saperlo? Io non leggo libri. Mi basta e avanza il branco di falliti che devo sopportarmi tutti i santi giorni. L'ho dato a Liz. Lei li legge, i libri. Mi ha detto che le è piaciuto, ma a Liz piace qualunque cosa. Lei non ha il minimo fiuto per gli affari. E adesso, dimmi, Sol, che te ne pare di Shale McGivern? Vuoi fargli fare un provino?»
Sol si alzò.
«Bisognerà che ne discuta con gli altri. Il fatto, però, è che volevamo Jerry Stevens.»
«Lo so. Ma come ti ho detto, è morto.»
«Già.» Sol gettò un po' di cenere sulla logora moquette dell'ufficio e scrollò le spalle. «Be', tutti dobbiamo morire, no? Un giorno toccherà anche a noi, Lu.» Rimase in piedi a riflettere, poi scrollò di nuovo le spalle. «Ci vediamo, Lu. Ne parlerò ai ragazzi. E comprati un vestito, mi raccomando.»
Lu lo guardò andarsene, poi sospirò. Allungando un braccio, premette il segnalatore acustico per avvisare Liz che era pronto a ricevere il primo della fila.

FINE