Knut Hamsun
L'opinione dell'editore
[...]Scritto nel 1892 e considerato tra i primi capolavori di Hamsun, Misteri è il romanzo romantico di un amore ossessivo e impossibile, ma anche una storia di perdizione dentro se stessi, un viaggio nietzschiano tra le pulsioni inconciliabili della natura umana. [...]
Con un eccentrico abito giallo, un astuccio di violino e una boccetta di veleno nel panciotto Johan Nagel compare all’improvviso in una cittadina della costa norvegese. Impossibile capire chi sia veramente questo misterioso sconosciuto, seducente affabulatore, ribelle e cinico, brutale e ultrasensibile. Un uomo che vive di sole emozioni e fantasie contro lo svilente buonsenso, che deride la scienza, il progresso e ogni «professionista della ragione» di fronte all’ineffabile fluire dell’esistenza, che alla retorica dell’impegno e della virtù oppone la libertà dell’istinto e un’umana cialtroneria, sconvolgendo la piccola comunità «per bene» che non riesce ad assimilarlo. Ma è del fiore più ambito di quel fasullo mondo borghese che Nagel s’innamora perdutamente quando incontra Dagny, candida fanciulla con gli occhi azzurri e una lunga treccia d’oro, che è per lui «neve purissima e spessa come seta», espressione di una pienezza e serenità da cui l’uomo tutto passioni e nervi è inesorabilmente tagliato fuori. Scritto nel 1892 e considerato tra i primi capolavori di Hamsun, Misteri è il romanzo romantico di un amore ossessivo e impossibile, ma anche una storia di perdizione dentro se stessi, un viaggio nietzschiano tra le pulsioni inconciliabili della natura umana. Anticipatore di quei sotterranei dell’io che porteranno a Joyce e Freud, Nagel rimane l’irriducibile anarchico dell’anima, la voce provocatrice dello spirito libero contro la moderna «saggezza da quattro soldi», perché «quale profitto c’è, in fondo, a spogliare la vita di ogni poesia, sogno e menzogna? Qual è la Verità, lei la conosce?» L'autore Cresciuto in una povera famiglia di contadini del Norland, in Norvegia, il cui grandioso scenario naturale fa da sfondo a tanta parte della sua opera, segue presto da autodidatta e senza successo la vocazione letteraria. Dopo aver provato ogni sorta di mestiere, da mandriano a merciaio ambulante e controllore di biglietti del tram in America, con la pubblicazione del rivoluzionario romanzo Fame (1890) segna una svolta nella letteratura europea e dà luce al prototipo dell’eroe-viandante, espressione di anarchica libertà ma anche di invincibile solitudine e raggelante percezione del nulla. Considerato un maestro da scrittori come Thomas Mann, Kafka, Brecht, Hemingway e Isaac Bashevis Singer, che lo ha definito il padre della letteratura del XX secolo, la sua fama, consacrata dal Premio Nobel nel 1920, è oscurata in vecchiaia dall’infausta adesione al nazismo. Iperborea ha pubblicato i romanzi Un vagabondo suona in sordina, Sotto la stella d’autunno, La regina di Saba e Sognatori. 1 L’anno scorso, a metà estate, una cittadina della costa norvegese diventò teatro di avvenimenti del tutto eccezionali. Vi fece infatti la sua comparsa uno straniero, un certo Nagel, un tipo strambo quanto singolare che si abbandonò a una quantità di stravaganze per poi scomparire all’improvviso, così com’era venuto. Tra le altre cose ricevette la visita di una giovane signora misteriosa, che arrivò non si sa con quale scopo e, tutto sommato, non si trattenne più di un paio d’ore prima di andarsene per la sua strada. Ma non è questo l’inizio… L’inizio è che quando il battello attraccò verso le sei del pomeriggio, tra i due o tre passeggeri che comparvero sul ponte c’era un uomo in un eccentrico vestito giallo con un ampio berretto di velluto. Era il pomeriggio del 12 giugno: quello stesso giorno era stato annunciato il fidanzamento della signorina Kielland e la città era imbandierata in più punti. Quando il fattorino del Central Hotel salì a bordo, l’uomo con il vestito giallo gli affidò subito il proprio bagaglio e consegnò anche il biglietto a uno dell’equipaggio, ma poi si mise a camminare su e giù per il ponte della nave senza scendere a terra. Sembrava in preda a una forte agitazione. Al terzo segnale di partenza non aveva ancora nemmeno pagato il conto al ristorante di bordo. Stava appunto per farlo quando si fermò di colpo: si era accorto che il battello stava salpando. Rimase un attimo perplesso, poi fece segno al fattorino a terra e da sopra la murata gli disse: «Bene, prenda pure il mio bagaglio e tenga comunque pronta una camera.» Dopodiché il battello se lo portò via, lontano oltre il fiordo. Quell’uomo era Johan Nilsen Nagel. Il fattorino dell’albergo caricò il bagaglio su un carretto: due bauletti, una pelliccia – sì, una pelliccia, in piena estate – e ancora una valigia e un astuccio di violino. Il tutto senza etichetta. L’indomani, a mezzogiorno, Johan Nagel arrivò all’albergo in carrozza, una carrozza a due cavalli che veniva dall’entroterra. Poteva benissimo e più comodamente arrivare per mare, e invece arrivò in carrozza. Con sé aveva altro bagaglio: sul sedile davanti c’erano un terzo baule e accanto una sacca, un soprabito e una coperta da viaggio con avvolte dentro alcune cose. La coperta portava le iniziali J.N.N. ricamate con perline. Prima ancora di smontare dalla carrozza chiese della camera all’albergatore, e quando fu al secondo piano si diede a esaminare le pareti, per capire quanto fossero spesse e se dalle camere vicine potessero sentire. Poi, all’improvviso, si rivolse alla cameriera. «Come si chiama?» «Sara.» «Sara.» E subito dopo: «Potrei avere qualcosa da mangiare? Dunque, Sara, giusto? Senta», aggiunse, «una volta, qui, in questo edificio, c’era una farmacia?» Meravigliata la ragazza rispose: «Sì, ma parecchi anni fa.» «Davvero molti? Sa, ne sono rimasto immediatamente colpito, non appena ho messo piede qui dentro. Non che ne abbia sentito l’odore, ma è stato come una sensazione. Proprio così.» Quando scese a mangiare non disse una parola per tutto il pranzo. Al suo ingresso i due compagni di viaggio sul battello, cioè i due signori che ora sedevano a capotavola, si erano scambiati ammiccamenti e ora lo canzonavano fin troppo apertamente per l’incidente del giorno prima, ma lui non mostrò neppure di accorgersene. Mangiò in fretta, rifiutò con un cenno del capo il dessert e si alzò di scatto, buttando indietro lo sgabello. Subito dopo si accese un sigaro e scomparve in fondo alla strada. Rimase fuori fin molto dopo la mezzanotte; rientrò solo poco prima delle tre. Dov’era stato? Si seppe in seguito che era tornato al villaggio di Nabo, facendo a piedi, andata e ritorno, la lunga strada che quella stessa mattina aveva percorso in carrozza. Evidentemente doveva avere qualche importantissimo affare laggiù. Quando Sara gli aprì era tutto sudato, ma le sorrise più volte e sembrava di ottimo umore. «Dio che collo delizioso che ha, ragazza mia!» esclamò. «È arrivata posta per me mentre ero via? Voglio dire per Nagel, Johan Nagel? Diamine, solo tre telegrammi! A proposito, mi faccia il piacere di portarsi via quel quadro dalla parete. Lo tolga da lì, è noioso doverlo fissare continuamente quando sono a letto. Tra l’altro, Napoleone III non aveva una barba così verde. Grazie, gliene sarò grato.» Uscita Sara, si fermò in mezzo alla stanza e rimase lì, completamente immobile. Assorto e assente, fissava un punto della parete e, a parte la testa che si piegava sempre più di lato, non fece il minimo movimento. Restò così a lungo. Di statura inferiore alla media, aveva un volto bruno con un paio d’occhi neri e una bocca fine, femminile. A un dito portava un semplice anello di bronzo o di ferro, aveva spalle molto larghe e dimostrava ventotto o trent’anni, non di più. Alle tempie i capelli erano già brizzolati. Si riscosse all’improvviso, con uno scatto così repentino da sembrare premeditato, come se fosse rimasto a lungo a pianificare proprio quel gesto, benché fosse solo nella stanza. Dopodiché tirò fuori dalla tasca dei pantaloni alcune chiavi, degli spiccioli e una specie di medaglia con un misero nastrino spiegazzato, e depose il tutto sul comodino. Poi infilò il portafoglio sotto il cuscino e dal taschino del panciotto prese l’orologio e una boccetta, una piccola boccetta di medicinali con l’etichetta: veleno. Tenne un attimo in mano l’orologio prima di posarlo, mentre la boccettina la rimise immediatamente nel taschino. Quindi si sfilò l’anello per lavarsi e si lisciò i capelli all’indietro con le dita. Dello specchio non si servì affatto. Si era già coricato quando a un tratto si ricordò dell’anello che aveva dimenticato sullo sgabello accanto al lavandino e, come se non potesse fare a meno di quel misero cerchietto di ferro, si alzò e se lo rimise al dito. Infine aprì i tre telegrammi, ma aveva appena finito di leggere il primo che scoppiò in una risatina silenziosa. Rideva tra sé e sé, lì disteso, tutto solo; aveva denti bellissimi. Poi tornò serio e un istante dopo, con la massima indifferenza, gettò via i telegrammi. Eppure dovevano riguardare un grosso affare, un affare importante; si parlava di sessantaduemila corone per una proprietà terriera, proprio così, un’offerta di pagamento in contanti dell’intera somma se la vendita si fosse conclusa al più presto. Si trattava dunque di telegrammi d’affari, brevi e concisi, niente di ridicolo, anche se non erano firmati. Di lì a pochi minuti Nagel dormiva già. Le due candele che ardevano sul comodino e che aveva dimenticato di spegnere gli illuminavano il petto e il volto accuratamente sbarbato e gettavano un raggio di luce sui telegrammi che giacevano aperti lì accanto… La mattina dopo Johan Nagel spedì all’ufficio postale il fattorino che ritornò con parecchi giornali, tra cui anche un paio stranieri, ma nessuna lettera. Quanto all’astuccio di violino, Nagel lo prese e lo sistemò su una sedia in mezzo alla stanza, come per metterlo in mostra; ma non l’aprì e non toccò mai lo strumento. Nel pomeriggio scrisse qualche lettera e passeggiò per la stanza leggendo un libro. Poi andò a comprare un paio di guanti in una bottega e poco più tardi andò in piazza e pagò dieci corone per un cucciolo rosso, che subito dopo regalò all’albergatore. Per scherzo aveva battezzato la bestiola Jakobsen, nonostante fosse una cagnetta. In sostanza non fece niente tutto il giorno. Non aveva affari da sbrigare né persone da incontrare né uffici da visitare, non conosceva nessuno. In albergo, quella sua strana noncuranza per tutto o quasi, perfino per le proprie cose, destava non poca meraviglia. Quei tre telegrammi erano ancora aperti sul comodino della sua stanza, non li aveva più degnati di uno sguardo dalla sera in cui erano arrivati. Riusciva a evitare di rispondere anche alla più semplice domanda. Due volte l’albergatore aveva tentato di sapere chi fosse e perché si trovasse in città, e in entrambi i casi lui si era schermito. Eppure durante il giorno capitò un fatto strano: benché non conoscesse nessuno del posto, e a nessuno si fosse avvicinato, si era fermato davanti a una fanciulla nei pressi del cimitero. Si era fermato a guardarla, salutandola poi con un profondo inchino senza aggiungere una sola parola di spiegazione. La ragazza in questione era arrossita tutta in viso e lui, impudente, si era allontanato, inoltrandosi per la strada del bosco, in direzione del presbiterio e oltre – cosa che del resto fece anche nei giorni seguenti. La sera bisognò continuare a scendere ad aprirgli quando l’albergo era già chiuso, perché si ritirava molto tardi da quei suoi vagabondaggi. La terza mattina, però, quando uscì dalla stanza, l’albergatore l’avvicinò salutandolo e gli si rivolse con modi gentili. Andarono a sedersi fuori, in veranda, e all’albergatore venne l’idea di fargli una domanda a proposito di una cassetta di pesce fresco. «Sa dirmi come potrei spedirla?» Nagel guardò la cassetta, sorrise e scosse il capo. «Non saprei», rispose. «Davvero? Pensavo che, avendo viaggiato molto, poteva forse aver visto altrove come ci si regola in materia.» «Oh, no. Non ho viaggiato molto.» Silenzio. «Già, forse si occupa di… sì, di tutt’altro. È per caso un uomo d’affari?» «No.» «Quindi non è qui per affari?» Silenzio. Nagel accese un sigaro e prese a fumarlo in tutta calma, guardando in aria. L’albergatore l’osservava. «Non ci suonerebbe qualcosa, almeno una volta? Ho visto che ha un violino», riprese poi. Nagel rispose indifferente: «Oh no. Ho smesso di suonare.» Poco dopo si alzò e senza dire niente si allontanò. Un attimo dopo tornò indietro. «Senta, volevo dirle: può prepararmi il conto quando vuole. Non ho preferenze riguardo al pagamento.» «Grazie», rispose l’albergatore, «non c’è fretta. Se rimane a lungo possiamo senz’altro farle uno sconto. Non so, ha pensato di trattenersi ancora per molto?» Di colpo Nagel si animò; senza alcuna ragione plausibile gli si diffuse anche un leggero rossore in volto. «Be’, non è da escludere che mi fermi ancora per molto. Dipende dalle circostanze. A proposito, forse non le ho detto che sono un agronomo, un coltivatore: sono reduce da un viaggio ed è probabile che mi trattenga qui per un po’. Forse ho anche dimenticato di… Mi chiamo Nagel, Johan Nilsen Nagel.» E strinse la mano dell’albergatore con la massima cordialità, pregandolo di scusarlo per non essersi presentato prima. Apparentemente non c’era traccia d’ironia nei suoi modi. «Ho pensato che magari potremmo procurarle una camera migliore e più confortevole», osservò l’albergatore. «Quella che ha adesso è troppo vicina alla scala, e non è sempre piacevole.» «No, grazie, non occorre. La camera è ottima e mi va benissimo. Inoltre dalle finestre vedo l’intera piazza, il che in realtà mi diverte.» Dopo un po’ l’albergatore aggiunse: «E così si concede un po’ di riposo? Rimarrà fin dopo l’estate?» «Un due o tre mesi», rispose Nagel, «forse anche di più, ancora non ho deciso. Dipende dalle circostanze. Vedremo.» In quel momento passò, affrettandosi a salutare l’albergatore, un tipo dall’aspetto trascurabile, basso e vestito molto dimessamente. Per quanto impedito e impacciato nel camminare, procedeva abbastanza svelto. Si spese in un inchino piuttosto profondo e tuttavia l’albergatore non si portò nemmeno la mano al cappello, mentre Nagel si tolse il suo berretto di velluto. L’albergatore lo guardò e disse: «È un tale che chiamiamo Minuto. Un po’ tocco, ed è un peccato, perché ha un cuore d’oro.» Questo è tutto quanto fu detto su Minuto. «Qualche giorno fa», disse d’un tratto Nagel, «ho letto sui giornali di un uomo trovato morto nel bosco. Chi era esattamente? Un certo Karlsen, mi pare. Era del posto?» «Sì», rispose l’albergatore, «era figlio di una venditrice di sanguisughe. Può vedere la sua casa da qui, quel tetto rosso laggiù. Era appena tornato per le vacanze e, al tempo stesso, per finire i suoi giorni. Peccato, però, era un giovane di talento, presto sarebbe diventato prete. Già, non è facile prevedere la fine. In ogni modo, la faccenda è sospetta: visto che aveva le due arterie tagliate è difficile pensare a un incidente. Ora è stato rinvenuto anche il coltello, un temperino dal manico bianco; la polizia l’ha trovato ieri pomeriggio. Probabilmente c’è sotto una storia d’amore.» «Davvero? Sospettano veramente che abbia potuto uccidersi?» «Si spera il meglio. Voglio dire: c’è chi pensa che avesse il coltello in mano e sia inciampato, ferendosi in due punti contemporaneamente. Per conto mio, mi sembra poco probabile, molto poco probabile. Quasi certamente, comunque, lo seppelliranno in terra benedetta. Per me non è inciampato affatto!» «Ha detto che hanno trovato il coltello solo ieri pomeriggio, quindi non era accanto a lui?» «No, a parecchi passi di distanza. Deve averlo usato e poi buttato via, lontano, in mezzo al bosco. L’hanno ritrovato per puro caso.» «D’accordo, ma che motivo c’era di gettare lontano il coltello, avendo sul corpo quei tagli aperti? Era evidente per tutti che doveva aver usato un coltello.» «Sa Dio quali erano le sue intenzioni. No, come le dicevo, dev’esserci sotto una storia d’amore. Chi aveva mai sentito una follia del genere. Sì, più ci penso e più mi convinco che è così.» «Perché pensa che ci sia sotto una storia d’amore?» «Per vari motivi. Del resto, non è facile pronunciarsi in merito.» «Ma non potrebbe essere caduto incidentalmente? Certo, è stato trovato in una posizione insolita: non stava disteso con la faccia nel fango?» «Sì, e tutto sporco. Ma non significa niente, anche questo può essere stato intenzionale. Può aver pensato di nascondere così le contrazioni della morte sul viso. Non si sa.» «Aveva qualche scritto addosso?» «Deve aver scritto qualcosa su un pezzo di carta, del resto andava sempre in giro a scrivere. Pensano che possa aver usato il coltello per temperare la matita o roba del genere, e che poi sia rotolato a terra ferendosi prima a un polso, proprio all’arteria, e poi all’altro. Il tutto in una volta sola. Figuriamoci. Comunque, in effetti, ha lasciato uno scritto: “Fosse almeno il tuo acciaio tagliente come il tuo ultimo no!”» «Che assurdità! Era spuntato il coltello?» «Sì.» «Non avrebbe dovuto affilarlo prima?» «Non era il suo coltello.» «Di chi era?» L’albergatore indugiò un attimo, poi rispose: «Della signorina Kielland.» «Della signorina Kielland?» ripeté Nagel. E dopo un po’ aggiunse: «E chi è la signorina Kielland?» «Dagny Kielland è la figlia del pastore.» «Davvero? È veramente molto strano, mai sentita una storia del genere. Dunque il giovanotto se ne era invaghito?» «Altro che. Del resto, tutti qui sono invaghiti di lei, quindi non era un’eccezione.» Nagel sprofondò nei suoi pensieri e non aggiunse altro. Alla fine l’albergatore ruppe il silenzio: «Be’, quello che le ho appena raccontato è un segreto, per cui la pregherei…» «Via», rispose Nagel, «può stare tranquillo.» Quando poco dopo si presentò a colazione, in cucina l’albergatore stava già raccontando a tutti di aver finalmente parlato con l’uomo in giallo della stanza numero sette. «È un agronomo», riferì, «e viene da fuori. Dice che si tratterrà parecchi mesi. Sa Dio che tipo d’uomo è.» 2 Quella sera stessa il caso volle che Nagel incontrasse Minuto. Ne risultò un colloquio lungo e noioso che durò ben tre ore. In sostanza, i fatti si svolsero così: Quando Minuto entrò nel caffè dell’albergo, Johan Nagel era lì a leggere un giornale. C’erano anche altri avventori, tra cui una contadina corpulenta con uno scialle di lana sulle spalle. Minuto, a quanto pareva, era molto conosciuto: entrando salutò cortesemente a destra e a sinistra, anche se ebbe in risposta soltanto scherno e risate. Quanto alla contadina, arrivò perfino ad alzarsi e pretendere di ballare con lui. «Non oggi, non oggi», rispose Minuto ritraendosi e scusandosi. Poi andò dritto dall’albergatore e gli si rivolse con il berretto in mano: «Ho portato il carbone in cucina, c’è altro per oggi?» «No», si sentì rispondere, «cos’altro dovrebbe esserci?» «No», fece eco Minuto e si allontanò intimidito. Era di una bruttezza fuori dal comune. Aveva occhi azzurri e limpidi, ma incisivi sporgenti e sinistri e, per un difetto fisico, un’andatura decisamente da storpio; capelli quasi grigi e barba più scura, ma così fitta da luccicargli su tutta la faccia. Una volta era stato marinaio, ma viveva ormai con una famiglia che aveva una bottega di carboni, dalle parti della distilleria. Quando parlava non staccava quasi mai lo sguardo da terra. Da un tavolo in fondo alla sala lo chiamarono a gran voce: un signore in un grigio abito estivo gli faceva cenno, mostrandogli una bottiglia di birra. «Venga a bere un bicchiere, Minuto! E mi faccia vedere come sta senza barba», disse. Con aria deferente, il berretto sempre in mano e la schiena curva, Minuto si avvicinò al suo tavolo. Nel passare accanto a Nagel lo salutò appena muovendo le labbra. E quando fu davanti all’uomo in grigio bisbigliò: «Non così forte, signor procuratore, la prego. Ci sono degli estranei.» «Che Dio mi aiuti!» ribatté il procuratore. «Volevo soltanto offrirle un bicchiere di birra, tutto qui. E in compenso lei mi rimprovera di parlare a voce troppo alta!» «Le chiedo scusa, ma mi fraintende. Il fatto è che in presenza di estranei non mi presto volentieri ai soliti scherzi. E poi non posso bere birra, non ora almeno.» «Davvero non può? Non può bere birra?» «No. La ringrazio, ma non posso.» «Dunque rifiuta? E perché mi ringrazia, allora? Ahahah, non per niente è figlio di un prete. Ma badi a come parla.» «Lei mi fraintende, e io non posso farci nulla.» «Via, via, niente sciocchezze! Cosa prende?» Il procuratore obbligò Minuto a sedersi e lui ubbidì, ma dopo un attimo era di nuovo in piedi. «Mi lasci stare», disse. «Non reggo la birra. Anzi, in questi ultimi tempi la reggo ancora meno di prima. Non so da cosa dipenda: mi ubriaco facilmente e perdo ogni controllo.» Il procuratore si alzò, fissò Minuto negli occhi, gli mise in mano un bicchiere e ordinò: «Beva!» Silenzio. Minuto alzò gli occhi, si scostò i capelli dalla fronte e tacque. «Be’, giusto per farla contento, ma solo poche gocce», disse alla fine. «Solo un pochino, tanto per avere l’onore di bere alla sua salute.» «Tutta!» gridò il procuratore, e si girò dall’altra parte per non scoppiare a ridere. «No, non tutta, non tutta. Perché dovrei berla tutta, se mi fa male? Be’, non se la prenda adesso, non mi tenga il broncio per questo: se proprio ci tiene, per questa volta la bevo. Spero che non mi dia alla testa. È ridicolo, ma la reggo così poco, la birra. Alla salute!» «Tutta, tutta!» tornò a gridare il procuratore. «Fino in fondo! Benissimo, così va bene! E adesso un po’ di smorfie: prima digrigni i denti, e poi le taglio la barba e la ringiovanisco di dieci anni. Ma prima digrigni i denti.» «No, non lo faccio, non in presenza di estranei. Non può chiedermelo, e io proprio non lo faccio», rispose Minuto, sul punto di andarsene. «Non ho neppure tempo», aggiunse. «Non ha tempo? Male! Ahahah, molto male. Nemmeno una volta sola?» «No, adesso no!» «Stia a sentire: se le dicessi che è un po’ che penso a un altro soprabito per lei, migliore di quello che porta… Mi faccia vedere: ecco, è proprio fradicio, ecco, vede? Non resiste neppure alla pressione di un dito.» Il procuratore scoprì un piccolo buco e vi ficcò il dito. «Cede, non tiene niente, vede, non se ne accorge?» «Mi lasci stare! Per l’amor di Dio, che cosa le ho fatto? Lasci andare il mio cappotto!» «Ma che Dio mi aiuti, le prometto pure un altro soprabito per domani pomeriggio. Glielo prometto in presenza di… vediamo: uno, due, quattro, sette… sì, sette persone. Che cosa le prende, oggi? Sbuffa, si arrabbia e vorrebbe pestarci tutti quanti. Proprio così. Solo perché le ho toccato il soprabito.» «Chiedo scusa, non era mia intenzione arrabbiarmi. Sa, posso fare tutto quello che le aggrada, ma…» «Ebbene, mi faccia dunque il piacere di mettersi a sedere!» Minuto si scostò dalla fronte i capelli grigi e si sedette. «Bene, ma poi mi fa il piacere di digrignare un po’ i denti.» «No, questo no.» «Veramente non vuole farlo? Sì o no?» «No. Buon Dio, che cosa le ho fatto? Perché non mi lascia in pace? Perché devo essere lo zimbello di tutti? Quello straniero laggiù ci sta guardando, l’ho visto, ci tiene d’occhio, e probabilmente sta anche ridendo. Sempre la stessa storia: il primo giorno che lei è arrivato qui come procuratore, il dottor Stenersen le ha insegnato a prendersi gioco di me; e ora lei lo insegna a quel signore laggiù. Uno dopo l’altro, a turno, imparate tutti.» «Avanti, dunque! Sì o no?» «No, capito?» strillò Minuto, e saltò su dalla sedia. Ma come temendo di avere esagerato si rimise a sedere e aggiunse: «Non posso digrignare i denti, deve credermi!» «Non può! Certo che può. Li sa digrignare benissimo i denti!» «Che Dio m’assista, non posso.» «Oh bella! Ma l’ha pur fatto l’ultima volta.» «Sì, ma ero ubriaco e la testa mi girava. Dopo sono stato male per due giorni di seguito.» «Giusto», esclamò il procuratore, «quella volta era ubriaco, glielo concedo. Ma perché poi se ne sta qui a ciarlare davanti a tutta questa gente? È più di quanto pretendessi.» A quel punto l’albergatore uscì dal caffè. Minuto tacque, il procuratore lo guardò e disse: «Allora? Si ricordi del soprabito.» «Me ne ricordo», rispose Minuto, «ma non voglio e non posso bere di più, lo sa.» «Invece vorrà e potrà. Ha sentito quel che ho detto? Vorrà e potrà. E se poi devo essere io a cacciarglielo giù a forza…» E così dicendo il procuratore si alzò con il bicchiere di Minuto in mano. «Su, apra la bocca!» «No, per Dio, non assaggerò più birra!» urlò Minuto, pallido per l’emozione. «E nessuna forza al mondo mi può costringere! Sissignore, mi fa male, non immagina neppure quanto. Non mi rovini, la prego. Piuttosto… piuttosto digrignerò un pochino i denti. Ma senza birra.» «Be’, questa è un’altra cosa. Accidenti, è tutt’altra cosa se lo farà senza bere birra!» «Sì, preferisco farlo senza bere birra.» E finalmente, tra le risate dei presenti, Minuto si mise a digrignare i suoi brutti denti. Nagel continuò ostentatamente a leggere il giornale, del tutto tranquillo e indifferente al suo posto accanto alla finestra. «Più forte, più forte!» gridò il procuratore. «Sfreghi più forte, altrimenti non sentiamo.» Tutto irrigidito, aggrappato con entrambe le mani alla sedia, come se avesse paura di cadere, Minuto fece stridere i denti fino a tremare con la testa. Tutti ridevano, contadina compresa, che dovette perfino asciugarsi gli occhi: fuori di sé per le risate, in preda alla foga e all’eccitazione, arrivò a sputare due volte sul pavimento. «Dio mio, Dio mio», gridava, completamente fuori controllo. «Oh, il procuratore!» «Basta. Di più non posso», disse alla fine Minuto. «Davvero non posso, Dio mi è testimone. Deve credermi, non ce la faccio.» «D’accordo. Ora riposi un poco, poi riprenderà. Ma i denti bisogna digrignarli. Dopo le tagliamo anche la barba. Adesso assaggi un po’ di birra. Coraggio. Eccola qui pronta.» Minuto scosse il capo senza replicare. Il procuratore prese allora il borsellino e mise sul tavolo una moneta da venticinque centesimi.
«Dopotutto, è abituato a farlo per dieci, ma gliene do volentieri venticinque. Le aumento il salario. Avanti!» «Via, non mi torturi più. Non lo faccio!» «Non vuole farlo? Rifiuta?» «Ma Dio del cielo, la smetta una buona volta e mi lasci in pace! Non mi piego più ai suoi desideri per un cappotto. Sono pur sempre un uomo. Che cosa vuole da me?» «Mi stia bene a sentire: come può vedere, adesso scuoto questo tocco di cenere del sigaro nel suo bicchiere, vede? Poi prendo questo insignificante fiammifero insieme a quest’altro pezzettino di fiammifero e li lascio cadere dentro entrambi sotto i suoi stessi occhi. Ecco fatto. E ora le garantisco che lei lo berrà tutto, fino in fondo. Oh sì che lo farà!» Minuto balzò in piedi. Tremava visibilmente, i capelli grigi gli erano ricaduti sulla fronte, e fissava il procuratore dritto negli occhi. Il tutto durò pochi secondi. «No, questo è troppo, è troppo!» gridò perfino la contadina. «Non lo faccia. Ahahah! Dio mio, Dio mio!» «Dunque non vuole? Si rifiuta?» insisté il procuratore. Si alzò a sua volta e rimase in piedi. Minuto si sforzò di parlare, ma non riuscì a spiccicare una sola parola. Tutti lo guardavano. A quel punto Nagel si alza dal suo tavolo accanto alla finestra, posa il giornale e attraversa la sala. Non ha fretta, si muove silenziosamente, eppure attira l’attenzione di tutti. Si ferma accanto a Minuto, gli mette una mano sulla spalla, e a voce alta e chiara dice: «Se prende quel bicchiere e lo rompe in testa a questo cialtrone, le do dieci corone e mi assumo tutte le possibili conseguenze.» Indica direttamente la faccia del procuratore e ripete: «Intendo dire questo cialtrone qui.» All’improvviso calò il silenzio. Minuto guardò terrorizzato prima l’uno e poi l’altro. «Ma… No, ma…» Non andò oltre, continuò a ripetere quelle due parole con voce tremante, come se fossero una domanda. Nessuno degli altri aprì bocca. Turbato, il procuratore indietreggiò verso la sua sedia. Era impallidito e neppure lui disse nulla. Rimase a bocca aperta. «Ripeto», continuò Nagel, a voce alta e calma, «che le do dieci corone se rompe il suo bicchiere in testa a questo cialtrone. Ecco qui i soldi. E non deve neppure temere per le conseguenze.» E tese un biglietto da dieci corone, mostrandolo a Minuto. Ma il comportamento di Minuto fu strano. Si allontanò di colpo verso un angolo del caffè, corse a piccoli passi, con quella sua andatura stramba, verso quell’angolo, e si mise a sedere senza rispondere. Poi, a capo chino, guardando torvo da ogni lato, sollevò parecchie volte le ginocchia, come in preda al terrore. In quel momento la porta si aprì e l’albergatore rientrò. Andò a darsi da fare dietro il banco, senza badare a quello che stava succedendo. Solo quando il procuratore saltò su all’improvviso e agitò le braccia con un grido furioso e quasi soffocato davanti a Nagel s’incuriosì e chiese: «Che diamine…?» Ma nessuno rispose. Il procuratore gesticolò due volte come un forsennato, sempre però arrestandosi davanti ai pugni di Nagel: non riusciva ad avvicinarsi. Tanta sfortuna lo esasperò, e così prese a roteare scioccamente le mani in aria, come se volesse allontanare tutto e tutti, e infine indietreggiò di fianco verso il tavolo e cadde in ginocchio su uno sgabello. Ansimava, l’intera figura trasfigurata dalla rabbia: in fondo aveva giostrato affannosamente con le braccia davanti a quei due pugni che si paravano pronti ovunque provasse a colpire. A quel punto nella sala ci fu un tumulto generale, la contadina e il suo seguito volarono verso la porta mentre tutti gli altri gridavano confusamente cercando d’intromettersi. Alla fine il procuratore si alzò di nuovo e si avvicinò a Nagel, gli si fermò di fronte e, tendendo le mani avanti, ridicolmente eccitato tanto da non riuscire a trovare le parole, gridò: «Maledetto… che il diavolo ti porti, buffone!» Nagel lo guardò e sorrise, quindi raggiunse il tavolo del procuratore, prese il suo cappello e glielo porse con un inchino. Il procuratore lo afferrò e stava per gettarlo via dalla rabbia, ma poi ci ripensò e se lo cacciò in testa con un solo colpo secco. Dopodiché si voltò e si diresse verso la porta. Quando se ne andò aveva due grosse bozze sul cappello che lo rendevano ridicolo. L’albergatore si fece avanti chiedendo spiegazioni. Si rivolse a Nagel, lo prese per un braccio e chiese: «Che cosa succede qui? Che significa tutto questo?» «Via, mi lasci il braccio», rispose Nagel, «non scappo mica. Del resto, non è successo niente: ho insultato l’uomo che è appena uscito, e lui voleva difendersi. Tutto qui.» Ma l’albergatore si arrabbiò e pestò i piedi. «Niente storie!» gridò. «Di nessun genere. Se volete litigare, potete andarvene fuori, in strada, ma qui dentro io non voglio storie. Comincio a credere che la gente stia diventando matta!» «Ha ragione», intervennero un paio di clienti, «ma noi abbiamo visto tutto.» E, secondo l’abitudine degli intriganti di saltare sul carro dei vincitori, presero le difese di Nagel spiegando l’accaduto all’albergatore. Quanto a Nagel, scosse le spalle, si avvicinò a Minuto e di punto in bianco chiese a quel poverino dai capelli grigi: «In che rapporti è con il procuratore per lasciarsi trattare a quel modo?» «Non esageri», rispose Minuto. «Non abbiamo nessun rapporto, è un estraneo per me. Ho solo ballato per lui una volta, in piazza, per dieci centesimi. Ed è bastato perché continuasse a sbeffeggiarmi.» «Dunque lei balla per la gente a pagamento?» «Sì, ogni tanto. Non spesso, solo quando ho bisogno di quei dieci centesimi e non riesco a procurarmeli altrimenti.» «Ma a cosa le servono i soldi?» «I soldi possono servire a molto. Per prima cosa, sono uno stupido, ho poche qualità, e questo non mi aiuta. Quando ero marinaio e mi mantenevo da solo andava senz’altro meglio; poi sono rimasto ferito, sono caduto dal sartiame e mi sono buscato una frattura, e da allora non sono più riuscito a cavarmela. Oltre al vitto, ricevo tutto ciò di cui ho bisogno da mio zio. Abito con lui e ci sto bene. Sì, c’è abbondanza di tutto, perché mio zio ha una bottega di carboni che gli dà da vivere. Ma contribuisco al mio mantenimento, specialmente d’estate, quando di carbone se ne vende poco. Quant’è vero che sto qui seduto a raccontarlo. Ci sono giorni in cui dieci centesimi sono i benvenuti, ci compro qualcosa da portare a casa. Quanto al procuratore, si diverte a vedermi ballare solo perché ho una frattura e non sono lesto nei movimenti.» «Dunque è anche per desiderio di suo zio che balla a pagamento nella piazza?» «Oh, no! Non è così, non deve pensarlo! Lui mi dice spesso: basta con questo salario da baiadera! Sì, molte volte quando torno a casa con i miei dieci centesimi lui li chiama salario da baiadera, e mi sgrida perché la gente si burla di me.» «Bene, questa è la prima cosa. E la seconda?» «Prego?» «La seconda?» «Non capisco.» «Lei ha detto che per prima cosa è uno stupido. Ebbene, qual è la seconda?» «Se ho detto così, allora chiedo scusa.» «Dunque è soltanto uno stupido?» «Chiedo sinceramente perdono.» «Suo padre era un pastore?» «Sì.» Silenzio. «Senta», disse Nagel, «se non ha altro da fare, andiamo in camera mia. Le va? Lei fuma, vero? Bene, la mia stanza è qui di sopra. Le sarò molto grato se vuol farmi l’onore.» Con grande meraviglia di tutti, Nagel e Minuto salirono al secondo piano, dove rimasero insieme tutta la sera. 3 Minuto prese posto su una sedia e si accese un sigaro. «Vuole bere qualcosa?» chiese Nagel. «No, grazie, non bevo molto. Mi scombussola e vedo immediatamente doppio», rispose l’ospite. «Ha mai bevuto champagne? L’avrà certamente provato.» «Sì, molti anni fa, alle nozze d’argento dei miei genitori.» «Era buono?» «Sì, ricordo che aveva un sapore gradevole.» Nagel suonò e ordinò dello champagne. Mentre sorseggiavano e fumavano, Nagel, all’improvviso, fissando Minuto, disse: «Senta… Be’, è una semplice domanda, e le sembrerà ridicola… ma, per una certa somma, si assumerebbe la paternità di un bambino di cui non è il padre? È solo un’idea che mi è venuta.» Minuto lo guardò sgranando gli occhi, senza rispondere. «Per una sommetta di cinquanta corone. Oppure, diciamo, di un paio di centinaia di corone?» continuò Nagel. «Non importa quanto.» Minuto scosse il capo e tacque a lungo. «No», rispose alla fine. «Davvero non potrebbe? Nel caso, pagherei in contanti.» «Non servirebbe. No, non posso farlo, in questo non posso servirla.» «E perché no?» «Non insista, mi lasci stare. Sono un uomo, io.» «Be’, forse era una richiesta troppo brutale: perché dovrebbe farmi un piacere del genere? Vorrei però chiederle un’altra cosa: sarebbe disposto… se la sentirebbe, per cinque corone, di andare in giro con un giornale o un pacco di carta legato sulla schiena, partendo da qui, dall’albergo, e girando per la piazza fino alla distilleria? Lo farebbe? Per cinque corone?» Minuto abbassò vergognoso il capo e ripeté meccanicamente: «Cinque corone.» Ma non rispose. «Oppure dieci, se vuole. Diciamo dieci corone. Lo farebbe per dieci corone?» Minuto si scostò i capelli dalla fronte. «Non capisco perché chiunque arrivi qui sa già che sono lo zimbello di tutti», disse. «Come vede, posso offrirle subito il denaro», continuò Nagel. «Dipende solo da lei.» Minuto fissò la banconota, ne considerò per un attimo, smarrito, il valore, si leccò le labbra ed esclamò: «Sì, io…» «Un momento», replicò subito Nagel. «Scusi se la interrompo. Come si chiama? Ho l’impressione che non mi abbia ancora detto il suo nome.» «Mi chiamo Grøgaard.» «Grøgaard. Di cosa stavamo parlando? Naturalmente, in realtà, non vorrà guadagnarsi in quel modo le dieci corone, vero?» «No», bisbigliò Minuto incerto. «Ebbene, stia a sentire», disse Nagel parlando molto lentamente. «Le darò con piacere queste dieci corone perché non ha voluto fare quello che le ho proposto. E inoltre, se mi fa il piacere di accettarle, gliene darò altre dieci. Resti seduto! Questo piccolo atto di cortesia non mi costa niente, ho con me molti, moltissimi soldi, e non mi troverò in difficoltà.» E quando ebbe tirato fuori il denaro aggiunse: «Mi fa un piacere accettandoli. Prego!» Ma Minuto rimase ammutolito, quel colpo di fortuna gli aveva dato alla testa, e si trovò alle prese con le lacrime. Sbatté le palpebre e deglutì. «Lei deve avere quarant’anni, giusto?» chiese Nagel. «Quarantatré, ho quarantatré anni compiuti.» «Ebbene, ora metta il denaro in tasca. E che le porti bene… Come si chiama quel procuratore con cui abbiamo parlato al caffè?» «Non lo so, lo chiamiamo semplicemente procuratore. È procuratore all’ufficio del giudice distrettuale.» «Be’, del resto non ha importanza. Dica…» «Scusi!» Minuto non poteva più trattenersi, era sopraffatto e voleva assolutamente spiegarsi, pur balbettando come un bambino. «Scusi e mi perdoni!» disse. E per un po’ non riuscì a continuare. «Cos’è che voleva dire?» «Grazie, grazie di cuore e sinceramente…» Silenzio. «Non parliamone più.» «No, un momento!» esclamò Minuto. «Chiedo scusa, ma dobbiamo parlarne ancora. Lei ha creduto che io non volessi farlo, che fosse cattiva volontà da parte mia, e che provassi piacere a mostrarmi risentito, ma giuro su Dio… Com’è possibile non parlarne più, quando lei forse ha avuto l’impressione che badassi al prezzo e non volessi farlo per cinque corone? Ecco cosa volevo dire.» «Ha ragione, un uomo col suo nome e della sua levatura non può certo prestarsi a simili sciocchezze. Sono giunto alla conclusione che… be’, lei naturalmente conosce tutti in città, vero? Le dirò, ho pensato di stabilirmi qui per un po’, di trattenermi insomma per alcuni mesi durante l’estate, cosa ne pensa? Lei è di qui?» «Sì, ci sono nato, mio padre era il pastore di qui, e ci vivo da tredici anni ormai, da quando sono rimasto storpio.» «Si occupa delle consegne di carbone?» «Sì, consegno il carbone a domicilio. Ma non è uno strapazzo, se è a questo che allude, ormai ci sono abituato e non mi pesa, devo solo fare attenzione alle scale. L’inverno scorso malgrado tutto sono caduto, e sono stato tanto male che ho dovuto usare per molto tempo il bastone.» «Davvero? Com’è successo?» «È successo sulla gradinata della banca. I gradini erano ghiacciati e trasportavo un sacco abbastanza pesante. Ero a metà quando vedo su in cima il console Andresen che sta per scendere. Così mi sono girato per tornare indietro e cedergli il passo: non era stato lui a dirmelo, era una mia iniziativa, anche perché non volevo aspettare che mi invitasse a farlo. Ma la sfortuna ha voluto che scivolassi e cadessi. Ho battuto la spalla destra. “Come si sente?” mi ha chiesto lui, il console. “Non sta gridando, dunque non si è fatto niente?” “Niente”, ho risposto io, “dopotutto sono stato fortunato.” Ma non passarono cinque minuti che svenni due volte di seguito. E in più, a causa del vecchio incidente, mi si gonfiò l’addome. Da allora il console si è sempre mostrato molto premuroso con me, pur non avendo nessuna colpa.» «Non ha riportato altre ferite? Non ha picchiato la testa?» «Be’, sì, ho picchiato leggermente la testa e per un po’ ho sputato anche sangue.» «E quando stava male il console l’ha aiutata?» «Sì, moltissimo. Non sapeva neppure lui cosa mandarmi. Non si è mai dimenticato di me, neppure per un giorno. Ma il bello è che quando mi sono ristabilito e sono andato da lui a ringraziarlo, aveva fatto esporre perfino la bandiera. Aveva dato l’ordine di farlo in mio onore, anche se poi quel giorno era il compleanno della signorina Fredrikke.» «Chi è la signorina Fredrikke?» «Sua figlia.» «Certo è stato gentile da parte sua… A proposito, sa dirmi perché la città era imbandierata pochi giorni fa?» «Pochi giorni fa? Vediamo, era per caso una settimana fa? Sicuro. Per il fidanzamento della signorina Kielland. Il fidanzamento di Dagny Kielland. Sì, una dopo l’altra si fidanzano, si sposano e vanno via. Ormai ho amici e conoscenti praticamente in tutta la Norvegia, e non ce n’è uno che non rivedrei con piacere. Li ho visti giocare, tutti, andare a scuola, fare la cresima e crescere. Dagny ha solo ventitré anni ed è molto benvoluta. È anche molto graziosa. Si è fidanzata con il tenente Hansen, che tempo fa mi regalò questo berretto. Lo porto ancora. Anche lui è di qui.» «Questa signorina Kielland è bionda?» «Sì, bionda. È molto bella, e tutti le vogliono bene.» «Devo averla vista dalle parti del presbiterio. Di solito porta un parasole rosso?» «Esatto. Nessun’altra ha un parasole rosso, per quel che mi risulta. Se ha visto una fanciulla con una grossa treccia d’oro sulle spalle, era lei. Si distingue tra tutte. Per caso, non le ha anche parlato?» «Sì, forse le ho anche parlato…» E sovrappensiero Nagel aggiunse tra sé: «Era la signorina Kielland!» «Ma immagino non in circostanze normali, non le avrà certamente parlato a lungo, vero? Dovrebbe farlo: ride sempre se trova divertente qualcosa, e spesso riesce a ridere anche per niente, perché è molto spensierata. Se le parla, vedrà che ascolta con attenzione, e poi senz’altro le risponde. Ma nel rispondere spesso arrossisce. È fatta così, si emoziona. L’ho notato spesso: quando conversa con qualcuno diventa bellissima. Con me invece è diversa. Quando le capita di rivolgermi la parola, non fa molti complimenti. Se m’incontra per strada si ferma a stringermi la mano anche se ha fretta. Se non mi crede, prima o poi avrà modo di constatarlo.» «Le credo senz’altro. Dunque ha una buona amica nella signorina Kielland?» «A giudicare, s’intende, da come si comporta nei miei riguardi. Del resto, posso anche sbagliarmi. Di tanto in tanto, quando sono invitato, vado a casa del pastore, e da quanto ho potuto capire, non sono sgradito neppure quando ci vado senza invito. La signorina Dagny mi ha prestato anche dei libri quando stavo male, sì, è venuta di persona a portarmeli, ha fatto tanta strada con quei libri sotto il braccio.» «Che genere di libri erano?» «Vuol dire: che genere di libri posso leggere e capire?» «Questa volta mi ha frainteso. La sua domanda è acuta, ma mi ha frainteso. Lei è un uomo interessante, Grøgaard. In ogni modo, volevo dire: che generi di libri possiede e legge questa signorina? Mi piacerebbe saperlo.» «Ricordo che una volta mi ha portato Gli studenti di campagna di Garborg1 e altri due, di cui uno era di certo Rudin di Turgenev. Ma in un’altra occasione mi ha letto L’implacabile di Garborg.» «Ed erano suoi questi libri?» «Del padre, c’era sopra il nome del padre.» «A proposito, quella volta che andò dal console Andresen a ringraziarlo, come lei dice…» «Sì, volevo ringraziarlo per il suo aiuto.» «Va bene, ma quel giorno la bandiera era già esposta prima che lei arrivasse?» «Sì, l’aveva fatta esporre per me. Me lo disse lui.» «D’accordo, ma non può darsi che fosse esposta per il compleanno della figlia?» «Certo, è possibile. È senz’altro possibile, e ben fatto anche. Sarebbe stata una vergogna se la bandiera non fosse stata esposta per il compleanno della signorina Fredrikke.» «Già, ha ragione… Un’altra cosa: quanti anni ha suo zio?» «Ne ha di certo una settantina. No, forse è troppo, in ogni modo ne ha più di sessanta. È molto vecchio, ma è attivo per la sua età. All’occorrenza è ancora capace di leggere senza occhiali.» «Come si chiama?» «Si chiama Grøgaard anche lui. Tutt’e due ci chiamiamo Grøgaard.» «Ha una casa di sua proprietà o è in affitto?» «Ha in affitto la stanza in cui viviamo, ma la bottega di carbone è di sua proprietà. In ogni modo non abbiamo problemi a pagare l’affitto, se è a questo che allude. Paghiamo in carbone, e qualche volta riesco a contribuire anch’io con qualche lavoro saltuario.» «Suo zio non va in giro a consegnare il carbone?» «No, questo spetta a me. Lui lo pesa e bada a tutto il resto, e io lo consegno. Certo ci riesco meglio, sono più forte.» «Certo. Quindi avete una donna che vi cucina?» Silenzio. «Scusi», disse poi Minuto, «non se l’abbia a male, ma vorrei andare, se permette. Lei forse mi trattiene per una forma di riguardo, anche se personalmente non prova alcun piacere a stare a sentire i fatti miei. Può anche darsi che voglia trattenermi per qualche altra ragione a me incomprensibile, e in tal caso è molto gentile. Ma anche se me ne vado, nessuno mi molesterà, non deve pensarlo. Non incontrerò malintenzionati. Non c’è il procuratore ad aspettarmi fuori dalla porta, se è questo che teme. E se anche così fosse, non mi darebbe nessun fastidio, ne sono certo.» «Se resta mi fa un piacere. Però non deve sentirsi obbligato a raccontarmi niente, solo perché le ho dato un paio di corone di tabacco. Faccia come vuole.» «Resto! Resto!» esclamò Minuto. «E che Dio la benedica. Sono ben felice di procurarle qualche distrazione, benché abbia vergogna sia di me stesso che di starmene qui con questo cappottaccio. In realtà potevo anche presentarmi in modo più decente, se avessi avuto tempo e modo di prepararmi. Questo qui è un vecchio soprabito di mio zio e non vale niente, è vero, non resiste nemmeno alla pressione di un dito. E il procuratore, per giunta, mi ha fatto questo lungo strappo… Tornando alla sua domanda, non abbiamo nessuna donna che ci cucina. Ci cuciniamo e laviamo tutto da noi, e siccome non ci riesce molto facile, facciamo lo stretto necessario. La mattina ci prepariamo il caffè e quello che rimane lo beviamo la sera, senza riscaldarlo. Lo stesso vale per il pranzo: lo cuciniamo una volta per tutte, per così dire, quando capita. Nella nostra situazione cos’altro potremmo desiderare? E poi a me tocca lavare, il che può anche essere un piccolo passatempo, quando non ho nient’altro da fare.» A quel punto nella sala da pranzo, al piano di sotto, suonò una campana, e per le scale si udirono i passi di quelli che andavano a tavola. «È la campana del pranzo», disse Minuto. «Sì», rispose Nagel. Ma non si alzò, né mostrò alcun segno d’impazienza. Al contrario, si accomodò meglio sulla sedia e chiese: «Conosceva per caso anche quel Karlsen che l’altro giorno è stato trovato morto nel bosco? Un triste incidente, vero?» «Sì, molto triste. Sì, posso dire che lo conoscevo. Un brav’uomo e un nobile carattere. Sa cosa mi disse una volta? Mi fece chiamare una domenica mattina, presto – ormai è più di un anno, era maggio dell’anno scorso – e mi pregò di consegnare una lettera. “Sì”, dico io, “volentieri, ma ho delle scarpe del tutto inadatte oggi. Non posso presentarmi alla gente con queste scarpe. Se vuole, vado a casa a cambiarle.” “No, non occorre”, dice lui. “Non credo che abbia importanza, a meno che con queste non si bagni i piedi.” Temeva che potessi bagnarmi i piedi con quelle scarpe! Bene, poi mi fece scivolare in mano una corona e mi diede la lettera. Mi ero già avviato quando riapre la porta e mi viene dietro. Era così sconvolto che mi fermai a guardarlo: aveva gli occhi pieni di lacrime. Allora mi raggiunse e passandomi perfino un braccio intorno alla vita disse: “Vada dunque con questa lettera, mio caro amico, le assicuro che mi ricorderò di lei. Quando sarò pastore e avrò finalmente un incarico, lei verrà a starsene per sempre con me. Adesso vada, e buona fortuna!” Purtroppo l’incarico non l’ebbe mai, ma avrebbe di certo mantenuto la parola se fosse vissuto.» «E così lei consegnò la lettera?» «Sì.» «E la signorina Kielland fu contenta di riceverla?» «Come fa a sapere che era la signorina Kielland?» «Come faccio a saperlo? L’ha detto lei.» «L’ho detto io? Non è vero!» «Come, non è vero? Crede che le dica bugie?» «No, scusi. Può darsi che abbia ragione, ma in ogni caso io non avrei dovuto dirlo. È stata un’inavvertenza. Ma davvero l’ho detto?» «Perché? Lui le proibì di dirlo?» «Non lui.» «Lei, dunque?» «Sì.» «Non importa, lo terrò per me. Ma riesce a capire come mai lui sia morto proprio ora?» «No. La sfortuna.» «Sa quando lo seppelliscono?» «Domani a mezzogiorno.» Dell’argomento non si parlò più. Per un po’ nessuno dei due disse più nulla. Sara si affacciò alla porta per annunciare che la cena era pronta. Poco dopo Nagel disse: «E così adesso la signorina Kielland è fidanzata. Che tipo è lui?» «Il tenente Hansen è un uomo capace e dignitoso. Non le farà mancare niente.» «È ricco?» «Suo padre è ricchissimo.» «È commerciante?» «No, armatore. Abita a un paio di isolati da qui. La casa non è molto grande, ma è più che sufficiente, dato che il figlio è via e i due vecchi sono di nuovo soli. Ha anche una figlia, ma è sposata e sta in Inghilterra.» «Secondo lei, quanto possiede il vecchio Hansen?» «Forse un milione. Non si sa con certezza.» Silenzio. «Eh sì», riprese Nagel. «A questo mondo le ricchezze sono mal distribuite. Le piacerebbe possedere un po’ di quel denaro, Grøgaard?» «Che Dio la benedica, e perché mai? Bisogna accontentarsi di quello che si ha.» «Così si dice. A proposito, volevo chiederle un’altra cosa: visto che deve andare in giro a consegnare tutto quel carbone, immagino che non avrà tempo per un altro lavoretto, vero? Capisco. Però ho sentito che chiedeva all’albergatore se aveva da darle qualcos’altro da fare per oggi.»