A Boca Raton, in quei primi di marzo del 2012, la cena con Kevin mi riavvicinò ad Alexandra.
Nei giorni successivi, quando riportai Duke dopo le sue evasioni, lei mi permise di entrare in casa; poi arrivò addirittura a offrirmi da bere. Di solito si trattava di una bottiglietta d’acqua o una bibita in lattina, bevuta in piedi al centro della cucina, ma era già qualcosa.
“Grazie per l’altra sera,” mi disse un pomeriggio tardi, mentre eravamo soli. “Non so cos’hai fatto a Kevin, ma gli sei piaciuto molto.”
“Sono stato me stesso.”
Lei sorrise.
“Grazie di non avergli detto niente di noi. Tengo moltissimo a Kevin: non voglio che pensi che tra me e te c’è ancora qualcosa.”
Quelle parole mi provocarono una dolorosissima fitta al cuore.
“Kevin mi ha raccontato che hai rifiutato la sua proposta di matrimonio.”
“Non sono affari tuoi, Marcus.”
“Kevin è molto carino, ma credo che non sia la persona adatta a te.”
Mi pentii subito di aver detto quelle parole. Di cosa m’immischiavo? Alexandra si limitò a scrollare le spalle, poi ribatté:
“Tanto, tu hai Lydia.”
“Come sai di Lydia?” domandai.
“L’ho letto su una di quelle riviste stupide.”
“Stai parlando di una storia di quattro anni fa. Non stiamo più insieme da un pezzo... È stato un capriccio.”
Decisi di cambiare argomento e mostrai ad Alexandra la foto che avevo portato con me.
“Ricordi questa foto?”
Lei sorrise con nostalgia e accarezzò l’immagine con la punta delle dita.
“Chi avrebbe mai immaginato che saresti diventato uno scrittore famoso?” disse.
“E tu una popstar?”
“Senza di te non lo sarei mai diventata...”
“Smettila.”
Ci fu un silenzio. All’improvviso si rivolse a me chiamandomi con il nome che usava ai nostri tempi: Markie.
“Markie,” mormorò, “è da otto anni che mi manchi.”
“Anche tu. Ho seguito tutta la tua carriera.”
“Io ho letto i tuoi romanzi.”
“Ti sono piaciuti?”
“Sì. Molto. Spesso mi capita di rileggere qualche brano del tuo primo romanzo. Ci ritrovo i tuoi cugini. Ci ritrovo la Gang dei Goldman.”
Sorrisi. Guardai di nuovo la fotografia che tenevo tra le mani.
“Sembri affascinato da questa foto,” mi disse Alexandra.
“Non so se mi affascina o mi ossessiona.”
Rimisi la fotografia in tasca e me ne andai.
Mentre varcavo in macchina il cancello della proprietà di Kevin Legendre, non mi accorsi del furgone nero parcheggiato lungo la via, né dell’uomo che mi osservava da dietro il parabrezza.
Imboccai la strada, e lui mi seguì.
Baltimore, Maryland.
Novembre 1989.
Da quando Woody gliene aveva parlato, zio Saul continuava a pensare al suo desiderio di tosare il prato. Ci pensò soprattutto quando Artie Crawford andò a cena da loro e disse che faticava tremendamente per tenerlo a freno.
“Se non altro, gli piace la scuola,” disse Artie. “Gli piace imparare e ha una bella mente. Ma appena finiscono le lezioni, è capace di tutto, e non è possibile sorvegliarlo ventiquattr’ore su ventiquattro.”
“E i suoi genitori?” chiese zio Saul.
“La madre ha levato le tende molto tempo fa.”
“Si drogava?”
“No, per niente. Ha solo tagliato la corda: era giovane. E lo stesso ha fatto il padre. Prima ha pensato di poter educare il marmocchio, ma appena si è trovato un’amichetta seria, in casa è scoppiato l’inferno. Il bambino era pieno di rabbia, voleva picchiare tutti. È intervenuta l’assistente sociale, poi un giudice minorile. L’hanno mandato nel nostro centro. All’inizio doveva essere una faccenda momentanea, poi l’amichetta del padre si è fatta trasferire a Salt Lake City e lui ne ha approfittato per seguirla all’altro capo del paese, sposarla e farci dei figli. Woodrow è rimasto a Baltimore: non vuole saperne di Salt Lake. Ogni tanto si sentono per telefono. Il padre gli scrive saltuariamente. Ma la cosa che mi preoccupa di più è che Woodrow sta tutto il tempo con quel Devon, un delinquente da strapazzo che fuma crack e gira con una pistola.”
A quel punto, zio Saul pensò che se Woody, dopo le lezioni, fosse stato impegnato a tosare prati non avrebbe avuto tempo per bighellonare per le strade. Ne parlò con Dennis Bunk, un vecchio giardiniere che aveva una specie di monopolio della manutenzione dei giardini di Oak Park.
“Io non assumo nessuno, signor Goldman. Soprattutto delinquentelli di merda.”
“Woody è un ragazzino davvero in gamba.”
“È un delinquente.”
“Lei ha bisogno di aiuto, Dennis. Fa sempre più fatica a smaltire i carichi di lavoro.”
Zio Saul aveva ragione: Bunk non riusciva più a occuparsi di tutti i lavori ed era troppo tirchio per pagarsi un aiutante.
“Ma il salario chi glielo pagherà?” chiese Bunk, in tono rassegnato.
“Io,” rispose zio Saul. “Cinque dollari l’ora per lui, e due per lei, come formatore.”
Dopo un’ultima esitazione, Bunk accettò, puntando un dito minaccioso contro zio Saul.
“Ma la avverto: se quel moccioso mi sfascia l’attrezzatura o mi ruba qualcosa, sarà lei a pagare.”
Woody, però, non fece niente di tutto ciò. Accolse con entusiasmo la proposta di zio Saul di lavorare per Bunk.
“Mi occuperò anche del suo giardino, signor Goldman?”
“Qualche volta, forse. Ma soprattutto devi aiutare il signor Bunk. E obbedirgli.”
“Le prometto che lavorerò con impegno.”
Appena finiva le lezioni, Woody correva a prendere l’autobus e raggiungeva Oak Park. Bunk lo aspettava a bordo del suo camioncino in una strada accanto alla fermata dell’autobus, e da lì iniziavano il loro giro dei giardini.
Woody si dimostrò un aiutante serio e coscienzioso. Dopo qualche settimana, in Maryland arrivò l’autunno. Gli alberi centenari delle strade di Oak Park si tinsero di rosso e di giallo, prima di rovesciare nei vialetti una pioggia di foglie secche. Bisognava pulire i prati, preparare le piante per l’inverno e coprire le piscine.
In quelle stesse settimane, nella scuola di Oak Tree, Porco continuava a tormentare Hillel. Gli tirava pigne e sassi, lo aggrediva e lo costringeva a mangiare terriccio e resti di sandwich pescati nell’immondizia.
“Mangia! Mangia! Mangia!” scandivano allegramente gli altri ragazzini, mentre Porco gli tappava il naso per fargli aprire la bocca e ingurgitare. Appena recuperava la forza di essere spiritoso, Hillel lo ringraziava calorosamente: “Grazie di questo pranzo squisito. A mezzogiorno non avevo mangiato abbastanza.” E allora le botte ricominciavano a fioccare. Porco gli svuotava la cartella sul pavimento, gli gettava nella pattumiera libri e quaderni. Nel tempo libero, Hillel aveva iniziato a scrivere poesie su un quaderno, il quale finì inevitabilmente tra le mani di Porco, che gliene fece mangiare diverse pagine leggendo ad alta voce i versi, prima di bruciare quelle che restavano. Da quell’autodafé, Hillel riuscì a salvare una poesia, scritta per il suo amore segreto, Helena, una graziosa biondina che non si perdeva nessuno degli spettacoli di Porco. Hillel lo vide come un segno del destino e, preso il coraggio a due mani, offrì la sua composizione alla ragazzina. Lei fece alcune fotocopie e le appese nei corridoi della scuola. Quando la signora Chariot, la responsabile della redazione della rivista scolastica, ne trovò una, si complimentò con Helena per il suo talento di poetessa, le diede un bel voto e pubblicò il testo sul giornaletto firmandolo con il nome della piccola musa.
Il numero delle visite mediche di Hillel aumentava in modo inquietante – soprattutto per le continue infezioni alla bocca –, e zia Anita decise di andare a parlare con il preside Hennings.
“Preside, credo che mio figlio subisca dei maltrattamenti nella sua scuola,” gli disse.
“No, impossibile, a Oak Tree non viene maltrattato nessuno. Abbiamo dei sorveglianti, un regolamento, una carta della serena convivenza. Questa è una scuola felice.”
“Pressoché ogni giorno Hillel torna a casa con gli indumenti laceri e i quaderni strappati o scomparsi.”
“Deve imparare ad aver cura delle sue cose. Sa, se trascura i suoi quaderni, avrà un brutto voto sulla pagella.”
“Preside Hennings, mio figlio non trascura niente. Temo che sia lo zimbello di qualcuno. Non so cosa succeda in questo istituto, ma non è che paghiamo ventimila dollari l’anno per vedere nostro figlio tornare da scuola con la bocca infestata da germi e batteri. C’è qualcosa che non va, no?”
“Si lava bene le mani?”
“Sì, preside, le mani se le lava bene.”
“Perché sa, a quell’età, i bambini sono spesso dei porcellini.”
Vedendo che la conversazione non approdava a nulla, zia Anita, seccata, sbottò:
“Preside Hennings, mio figlio ha sempre la faccia piena di lividi. Non so più cosa fare. Devo costringerlo a integrarsi o metterlo in un istituto specializzato? Perché, per parlarle in tutta sincerità, certe mattine mi chiedo cosa gli succederà dopo che l’avrò lasciato nella sua scuola...”
Scoppiò a piangere. Poiché il preside Hennings non voleva assolutamente aver grane a Oak Tree, la consolò, le promise di chiarire la questione e convocò Hillel per cercare di risolverla.
“Figliolo, hai qualche problema che riguarda l’ambiente scolastico?” gli chiese.
“Diciamo che, dopo le lezioni, quando vado al campo di basket, mi fanno vedere i sorci verdi.”
“Ah! E come definiresti quegli episodi? Diresti che si tratta di intemperanze?”
“Io le definirei aggressioni.”
“Aggressioni? No, no. Non si verificano aggressioni a Oak Tree. Al massimo qualche intemperanza. Sai, qualche baruffa è normale, quando si è ragazzini. Alla vostra età amate la confusione.”
Hillel alzò le spalle.
“Non so che dirle, signor Hennings. Io vorrei solo giocare a basket in santa pace.”
Il preside si grattò la testa, osservò quel ragazzino così gracile eppure così sicuro di sé, e gli fece una proposta:
“Ti piacerebbe far parte della squadra di basket della scuola?”
Hennings riteneva che, in quel modo, il bambino avrebbe potuto giocare a basket con la protezione di un adulto. L’idea piacque a Hillel, e il preside lo portò subito a parlare con il responsabile.
“Shawn,” disse Hennings al professore di educazione fisica, “potremmo inserire questo giovane campione nella squadra di basket?”
Shawn squadrò quel minuscolo scheletro dagli occhi imploranti.
“Impossibile,” rispose.
“Perché?”
Shawn si accostò all’orecchio del preside e gli sussurrò:
“Frank, siamo una squadra di basket, non un’associazione per handicappati.”
“Non sono un handicappato, io!” si ribellò Hillel, che aveva sentito.
“No, però sei gracile,” ribatté Shawn. “Costituiresti un handicap per noi.”
“E se facessimo un tentativo?” propose Hennings.
Il professore di educazione fisica si accostò di nuovo all’orecchio del preside:
“Frank, la squadra è completa, e c’è una lista d’attesa lunga un chilometro. Se facciamo un’eccezione per lui, avremo grane coi genitori degli altri alunni. E io non sopporto le grane. Tieni anche presente che metterlo in campo significherebbe perdere. E quest’anno non siamo affatto competitivi. I risultati non sono granché, e se schieriamo pure lui...”
Il preside annuì e si voltò verso Hillel, inventandosi degli articoli del regolamento interno per spiegargli diffusamente che la composizione della squadra di basket non poteva essere cambiata durante l’anno scolastico. All’improvviso, un’orda di bambini irruppe nella palestra per un allenamento, e Hillel e il preside andarono a sedersi su una panca ai piedi delle gradinate.
“Allora, signor Hennings, cosa devo fare?” chiese infine Hillel.
“Puoi darmi i nomi di chi ti importuna: li convocherò per un chiarimento. E organizzeremo un laboratorio anti-intemperanze.”
“No, così sarebbe peggio. E lo sa anche lei.”
“E allora perché non li eviti quei maleducati?” si spazientì Hennings. “Se non vai al campo di basket, nessuno ti darà fastidio, semplice.”
“Non rinuncerò ad andare a giocare a basket.”
“La testardaggine è un brutto difetto, figliolo.”
“Io non sono testardo. Io resisto ai fascisti.”
Hennings sbiancò in volto.
“Dove hai sentito questa parola? Non te l’avranno certo insegnata in classe, vero? Nella scuola di Oak Tree non si insegnano parole del genere.”
“No, l’ho letta in un libro.”
“Quale libro?”
Hillel aprì lo zaino e ne trasse un libro di storia.
“Cos’è questo orrore?” farfugliò il preside Hennings.
“Un libro che ho preso in biblioteca.”
“Nella biblioteca scolastica?”
“No, in quella municipale.”
“Ah, volevo ben dire! Allora ti chiedo di non portare più a scuola quell’orribile testo e di tenere per te quel tipo di considerazioni. Non voglio avere grane, io. Comunque, vedo che sai molte cose. Dovresti usare la tua forza per difenderti.”
“Ma io non ho forza! È proprio questo il problema.”
“La tua forza è l’intelligenza. Tu sei un ragazzino incredibilmente intelligente... E, nelle favole, alla fine l’intelligente sconfigge sempre il forte...”
Il consiglio del preside Hennings non cadde nel vuoto. Quel pomeriggio stesso, seduto nella redazione del giornaletto scolastico, Hillel preparò un testo che, appena terminato, consegnò alla signora Chariot affinché fosse pubblicato nel nuovo numero del settimanale. Vi si raccontava la storia di un bambino, l’alunno di una scuola privata per ricchi, che, durante tutte le ricreazioni, veniva legato a un albero dai compagni e sottoposto a ogni tipo di tormenti, perlopiù invenzioni tanto crudeli quanto disgustose che causavano al giovane eroe terribili infezioni del cavo orale. Nessun adulto si accorgeva del martire, tantomeno il preside della scuola: era troppo impegnato a leccare i piedi dei genitori, insieme al professore di educazione fisica. Alla fine del racconto, gli alunni davano fuoco all’albero e al ragazzino e si mettevano a ballare intorno al rogo intonando un’ode di ringraziamento al corpo insegnante che consentiva loro di massacrare tranquillamente i compagni più deboli.
Subito dopo aver letto il testo, la signora Chariot informò il preside, che ne proibì la pubblicazione e convocò nel suo ufficio Hillel.
“Ti rendi conto che il tuo testo è infarcito di parole che qui non sono ammesse?” tuonò Hennings. “Per non parlare del contenuto di questa storia ridicola e della sfacciataggine che mostri prendendotela coi professori!”
“Quella che lei sta esercitando si chiama censura,” protestò Hillel. “Ed è quella che facevano i fascisti: l’ho letto nel mio libro.”
“Piantala di tirare in ballo il fascismo, capito? Questa non è censura: è buon senso! A Oak Tree abbiamo anche un regolamento morale, e tu l’hai violato!”
“E la mia poesia a Helena, pubblicata sul numero scorso?”
“Te l’ho già spiegato: la signora Chariot credeva che fosse una lirica scritta da lei.”
“Ma quando è uscita la rivista, le ho subito detto che ero io l’autore di quella poesia!”
“Hai fatto bene a informarla.”
“Ma avrebbe dovuto bloccare la distribuzione del giornale!”
“E per quale motivo?”
“Perché la pubblicazione di quel testo era terribilmente umiliante per me!”
“Hillel, smettila di fare i capricci! Quella poesia era molto carina, contrariamente a questo racconto, che è solo un’accozzaglia di orribili volgarità.”
Poi il preside Hennings mandò Hillel a parlare con lo psicologo della scuola.
“Ho letto il tuo testo,” disse lo psicologo, “e l’ho trovato interessante.”
“Lei è l’unico.”
“Il preside Hennings mi ha detto che leggi libri sul fascismo...”
“Ne ho preso uno in biblioteca.”
“È stato quello a ispirarti il testo?”
“No, è stata l’assurdità di questa scuola.”
“Forse non dovresti leggere quei libri...”
“Forse... sono proprio gli altri che dovrebbero leggere quei libri.”
Da parte loro, zio Saul e zia Anita supplicarono il figlio di sforzarsi per restare a Oak Tree: “Hillel, non sono neanche tre mesi che sei in quella scuola. Dovresti davvero provare a vivere in armonia con gli altri.”
Venne organizzato nell’aula magna un incontro con tutti gli alunni sul tema “Intemperanze e parolacce”. Il preside Hennings parlò a lungo dei valori morali ed etici di Oak Tree e spiegò per quale motivo sia le intemperanze sia le parolacce non fossero ammessi dai regolamenti della scuola. Poi gli alunni ripeterono uno slogan – “Parolaccia, che figuraccia!” – da scandire se avessero sorpreso un compagno in flagrante delitto di volgarità. Seguì un dibattito per dar modo agli scolari di porre le domande che reputavano opportune.
“Potete chiedere tutto quello che volete,” dichiarò Hennings, prima di strizzare l’occhio a Hillel e aggiungere: “Non c’è nessuna censura.”
Dal pubblico si alzò una foresta di mani.
“Giocare a pallone nel cortile è un’intemperanza?”
“No, è fare un sano esercizio fisico,” rispose il preside. “A condizione di non prendere a pallonate in faccia i compagni.”
“L’altro giorno, a mensa, ho visto un ragno e urlato perché avevo paura,” confessò una bambina piuttosto timida. “È stata un’intemperanza?”
“No, urlare perché si ha paura è consentito. Ma strillare per rompere i timpani dei compagni è un’intemperanza.”
“Ma se qualcuno urla per fare confusione e poi fa credere che ha visto un ragno, può non essere punito?” chiese un alunno, preoccupato che la legge potesse essere aggirata.
“Fare una cosa del genere sarebbe disonesto. E non è bello essere disonesti.”
“Cosa significa ‘disonesto’?”
“Non avere il coraggio delle proprie azioni. Per esempio, se voi fate finta di essere malati per non venire a scuola, è un atto molto disonesto. Altre domande?”
Uno dei bambini più piccoli alzò la mano, e il preside Hennings gli diede la parola.
“‘Sesso’ è una parolaccia?” domandò.
L’uditorio trattenne il respiro, e Hennings ebbe un istante di imbarazzo.
“‘Sesso’ non è una parolaccia... Ma è una parola... diciamo così... inutile.”
Un brusio percorse l’aula. Se “sesso” non era una parolaccia, si poteva dire senza violare il regolamento di Oak Tree?
Il preside Hennings batté ripetutamente la mano sul leggio per riportare la calma, facendo presente che quella era un’intemperanza generale, il che zittì immediatamente l’intero uditorio.
“‘Sesso’ è una parola che non bisogna dire. È una parola proibita, ecco.”
“Perché è proibita, se non è una parolaccia?”
“Perché... Perché è male. Il sesso è male, ecco. È come la droga: è una cosa terribile.”
Zia Anita, informata dal preside Hennings del testo scritto da Hillel, non sapeva in che modo agire per risolvere la situazione del figlio. Era arrivata al punto di non capire se Hillel fosse una vittima innocente, o se pagasse il prezzo delle sue stesse provocazioni: sapeva che a volte il suo tono poteva risultare indisponente, o venir percepito come arrogante. Hillel capiva sempre prima degli altri ragazzini, era sempre in anticipo su tutto: in classe si annoiava in fretta, era impaziente. E questo irritava gli altri alunni, lei se ne rendeva conto. E se Hillel fosse davvero vittima di gesti intemperanti che lui stesso aveva provocato, come sosteneva il preside Hennings? Parlando con il marito, diceva: “Se qualcuno si inimica tutti, può anche essere dovuto al fatto che non si mostra socievole e ben disposto, no?”
Decise di sensibilizzare i compagni di Hillel riguardo alla problematica delle molestie scolastiche e di spiegar loro che, a volte, chi cerca testardamente l’integrazione finisce per inimicarsi tutti. Fece il giro delle case di Oak Park per parlare coi genitori degli altri alunni, e spiegò ai ragazzini che “a volte si pensa che fare baruffa sia solo un gioco e non ci si rende conto di far male a qualche compagno”. Fu più o meno in questi termini che si rivolse anche ai Reddan, i genitori del piccolo Vincent, alias Porco. Abitavano in una splendida casa vicino a quella dei Goldman. Porco ascoltò attentamente zia Anita, e, appena lei ebbe finito di parlare, si esibì in uno straordinario numero di lacrime e singhiozzi: “Perché il mio amico Hillel non mi ha detto che si sentiva rifiutato nella scuola? È davvero orribile! Noi gli vogliamo tutti un sacco di bene. Non capisco perché si senta messo in disparte.” Zia Anita gli spiegò che Hillel era un bambino molto sensibile, un po’ diverso, e il piccolo Reddan, singhiozzando, si soffiò il naso e, come in un gran finale, invitò solennemente Hillel alla sua festa di compleanno, che si sarebbe svolta il sabato seguente.
Alla festa, appena i Reddan voltarono le spalle, Hillel si ritrovò con un braccio piegato a forza dietro la schiena: poi fu costretto a baciare e annusare le chiappe del cane di casa, dovette farsi insaponare la faccia con la glassa della torta di compleanno e infine venne gettato in piscina vestito. Sentendo gli scrosci d’acqua e le risate dei bambini, la signora Reddan accorse e rimproverò aspramente Hillel per essersi fatto il bagno senza aver chiesto il permesso; più tardi, quando scoprì la razzia ai danni del millefoglie e il figlio, piangendo, le spiegò che Hillel aveva preteso di mangiare la torta senza che lui avesse ancora soffiato sulle candeline e senza condividerla con nessuno, telefonò a zia Anita, intimandole di andare subito a riprendersi il suo ragazzino. Quando arrivò davanti al cancello dei Reddan, zia Anita trovò la padrona di casa che teneva saldamente Hillel per un braccio; accanto a lei Porco, in lacrime, nell’interpretazione forse meglio riuscita della sua vita, tra un singhiozzo e l’altro accusava Hillel di avergli rovinato la festa. Tornando verso casa, zia Anita lanciò un’occhiata di disapprovazione al figlio. Poi sospirò: “Perché devi sempre metterti in mostra, Hillel? Non te ne importa nulla di trovarti degli amici?”
Hillel si vendicò scrivendo un nuovo testo. Stavolta non aveva alcuna speranza di pubblicarlo sulla rivista della scuola. Decise di stampare e fotocopiare la storia che aveva scritto. Nel giorno di uscita del giornale, sostituì negli espositori le copie ufficiali con quelle di sua produzione. Scoperta la truffa, la signora Chariot si precipitò nell’ufficio del preside Hennings con tutti gli esemplari dell’opuscolo che era riuscita a intercettare. “Frank, Frank, guarda cos’altro ha combinato Hillel Goldman! Ha stampato un giornale pirata con un testo agghiacciante!” Il preside Hennings afferrò una delle copie che gli porgeva la signora Chariot, la lesse e rimase senza fiato. Convocò immediatamente zio Saul, zia Anita e Hillel.
Il testo s’intitolava “Piccolo Porco”. Hillel vi raccontava la storia di un alunno obeso che si chiamava Porco e provava un piacere malsano a terrorizzare i compagni. Questi, arrivati al limite della sopportazione, finivano per ucciderlo nei bagni della scuola: lo facevano a pezzi e lo mettevano nella cella frigorifera della mensa, mischiandolo ai tagli di carne consegnati quel giorno. La scomparsa del bambino faceva scattare le ricerche della polizia. L’indomani, all’ora di pranzo, alcuni agenti si recavano nella mensa per interrogare gli scolari. “Dovete assolutamente trovare il mio cocchino,” gemeva la madre di Porco, che aveva tutte le caratteristiche della cretina integrale. Un ispettore interrogava gli alunni, che stavano allegramente divorando un succulento arrosto di maiale. “Avete visto il vostro compagno?” chiedeva l’ispettore. “No, signore,” rispondevano in coro i ragazzini, con la bocca piena.
“Signori Goldman,” spiegò pacatamente Hennings a zio Saul e zia Anita, “vostro figlio ha scritto ancora una volta un testo indecente. Si tratta di un’apologia della violenza, ed è assolutamente inaccettabile la presenza di un simile testo in questa scuola.”
“Libertà di scrivere, libertà d’opinione!” protestò Hillel.
“Eh no, ora basta!” sbottò il preside Hennings. “Devi smetterla di paragonare le istituzioni della scuola a un governo fascista!”
Poi il preside guardò con aria grave gli zii e disse che, se Hillel non si fosse sforzato di integrarsi, non sarebbe rimasto a lungo in quell’istituto. A una precisa domanda dei genitori, Hillel promise che non avrebbe più scritto altri opuscoli. Decisero anche che avrebbe preparato una lettera di scuse che sarebbe stata diffusa in tutta la scuola.
Sostituendo le copie della rivista della scuola con quelle di sua creazione, Hillel aveva privato gli alunni del giornale abituale. Per evitare problemi a Hillel, il preside Hennings chiese agli insegnanti di non specificare i motivi di quel disguido: tutte le copie andavano ristampate entro la fine della giornata. Ma la signora Chariot, una donna fragile ed esasperata dalle lamentele degli alunni che non capivano perché il giornale non fosse disponibile nel giorno stabilito, ebbe un attacco di nervi e, ai contestatori che stavano prendendo d’assalto l’abitualmente pacifica stanza della redazione, urlò: “Per colpa di un certo alunno che si crede superiore a tutti, questa settimana non ci sarà alcun giornale! Ecco qua! L’uscita di questa settimana è annullata! Annullata, capito? Annullata! Gli allievi che si sono dati la pena di scrivere articoli non richiesti devono sapere che non li vedranno mai pubblicati. Mai! Mai! Potete ringraziare Hillel Goldman.” Gli alunni, obbedienti, ringraziarono Hillel prendendolo a calci e a colpi di quaderno. Porco, dopo averlo pestato di brutto, lo fece spogliare davanti ai compagni schierati. Gli ordinò: “Calati le brache.” Tamponandosi il naso insanguinato e tremando di paura, Hillel ubbidì, e tutti risero. “Non avevo mai visto un pisello così piccolo!” esclamò Porco. Tutti si sganasciarono. Poi si fece consegnare i pantaloni e le mutande e li lanciò sui rami più alti di un albero. “Ora torna a casa. Tutti devono poter vedere il tuo pisello minuscolo!” A riportarlo a casa fu un vicino che, passando con la macchina, lo vide camminare seminudo lungo la strada. Hillel disse alla madre che un cane l’aveva inseguito e gli aveva strappato via pantaloni.
“Un cane? Hillel...”
“Sì, mamma, giuro che è così. Mi ha azzannato i pantaloni così forte che, alla fine, li ha strappati e se li è portati via.”
“Insieme alle mutande?”
“Sì, mamma.”
“Ti hanno fatto qualcosa a scuola?”
“No, mamma. Te lo giuro.”
Profondamente umiliato, Hillel decise che doveva vendicarsi della vendetta della vendetta. L’opportunità si presentò qualche giorno dopo, quando Porco si assentò da scuola per due giorni a causa di un’indigestione. Gli alunni stavano preparando uno spettacolo per i genitori in occasione del Thanksgiving, mettendo in scena dei quadri viventi che rappresentavano il ringraziamento dei coloni inglesi agli indiani Wampanoag per il loro aiuto – la riconoscenza continuava a essere celebrata dopo quattrocento anni e concedeva tre giorni di vacanza ai bravi studenti americani. L’attualità della festa sarebbe stata rimarcata da una poesia recitata da un alunno durante la rappresentazione. Poiché nessuno degli allievi si offrì volontario, Porco venne incaricato d’ufficio dalla professoressa. Ecco il testo:
I buoni ingredienti di Mamma
di William Sharburg
È Thanksgiving,
La festa delle famiglie.
Un odorino appetitoso si diffonde nella casa.
Mamma sta arrostendo un bel tacchino.
Attirati dal profumo,
Papà, il bimbo e il cane vanno tutti in cucina.
Mamma si destreggia davanti ai fornelli,
Tutti inspirano e le fanno i complimenti
Per quell’odore delizioso.
Papà si rallegra,
Il bimbo applaude.
Il cane si lecca i baffi,
Finalmente si mangia!
Il bimbo, goloso, chiede se può assaggiare.
Mamma immerge il cucchiaio nel tegame del sughetto
E il bimbo assaggia.
“Quant’è buono!” esclama. “Cosa c’è dentro?”
“Degli ingredienti...” risponde Mamma.
“Quali ingredienti?”
“I miei ingredienti. Ti piace?”
“È ottimo! Ne voglio ancora! Voglio mangiarlo tutto!”
“No, golosone, devi aspettare che andiamo a tavola.”
Il bimbo mette il broncio
E tuffa il viso nel vestito della madre.
Ci sta comodo. Sorride.
Sa che la madre gli rivelerà
Il segreto dei suoi ingredienti,
Affinché possa anche lui metterli nel tacchino
Che cucinerà per i suoi figli.
Con uno spirito di riconciliazione, l’insegnante incaricò Hillel di portare la poesia a Porco e annunciargli il suo ruolo nello spettacolo di Thanksgiving. Ad aprirgli fu la madre, che l’accompagnò nella stanza del figlio. Hillel lo trovò a letto, intento a leggere fumetti. Dopo avergli spiegato le consegne, gli diede il testo.
“Fammi vedere!” gridò la madre di Porco, eccitatissima di sapere che il figlio sarebbe apparso in scena da solo.
“Lascia stare!” ringhiò Porco. “Non deve vederla nessuno! Sarà la grande sorpresa dello spettacolo!”
Si alzò sul letto e, dopo aver cacciato dalla stanza Hillel e la madre, cominciò a prodursi in rumorosi vocalizzi. Aveva sempre avuto il senso dello spettacolo, avrebbe affascinato l’intero uditorio. Per l’occasione, la madre gli comprò un completo a tre pezzi e convocò l’intera famiglia per assistere all’esibizione – sicuramente splendida – di Porco. Il suo bambino era speciale, e finalmente tutti se ne sarebbero accorti.
Il giorno dello spettacolo, l’auditorium della scuola era gremito. I Reddan erano in prima fila: filmavano, fotografavano, applaudivano all’impazzata. I quadri viventi sui Wampanoag riscossero un grande successo, così come quello sull’approccio moderno al Thanksgiving. Poi Porco si presentò sulla scena, al centro del cono di luce, trasse un lungo respiro e recitò la poesia:
I buoni escrementi di Mamma
di William Sharburg
È Thanksgiving,
La festa delle famiglie.
Un odorino appetitoso si diffonde nella casa.
Mamma sta arrostendo un bel tacchino.
Attirati dal profumo,
Papà, il bimbo e il cane vanno tutti in cucina.
Mamma scoreggia davanti ai fornelli,
Tutti inspirano e le fanno i complimenti
Per quell’odore delizioso.
Papà si rallegra,
Il bimbo applaude.
Il cane si lecca i testicoli,
Finalmente si mangia!
Il bimbo, goloso, chiede se può assaggiare.
Mamma immerge il cucchiaio nel tegame del sughetto
E il bimbo assaggia.
“Quant’è buono!” esclama. “Cosa c’è dentro?”
“Degli escrementi...” risponde Mamma.
“Quali escrementi?”
“I miei escrementi. Ti piace?”
“È ottimo! Ne voglio ancora! Voglio mangiarlo tutto!”
“No, golosone, devi aspettare che andiamo a tavola.”
Il bimbo mette il broncio
E tuffa il viso nel pube della madre.
Ci sta comodo. Sorride.
Sa che la madre gli rivelerà
Il segreto dei suoi escrementi,
Affinché possa anche lui metterli nel tacchino
Che cucinerà per i suoi figli.
Terminata la poesia, Porco fece un inchino per salutare il pubblico e raccogliere lo scroscio di applausi che si aspettava. Un silenzio terrificante pervase la sala. Il pubblico, sconcertato e muto, fissava Porco, che non capiva cosa fosse andato storto. Scappò dietro le quinte, dove trovò la professoressa e il preside Hennings. Lo fissarono.
“Ma insomma, che succede?” gemette Porco.
“Vincent, sai cosa sono gli escrementi?” gli chiese Hennings.
“Non ne so niente, signor preside. Io ho solo imparato a memoria la poesia che mi hanno dato.”
Hennings divenne paonazzo. Si voltò verso la professoressa:
“Signorina, può spiegarmi questa faccenda?”
“Non capisco, signor preside, avevo incaricato Hillel Goldman di portare il testo a Vincent. Deve aver cambiato le parole.”
“E non ha ritenuto opportuno provare la recita prima di andare in scena?” gridò Hennings, le cui urla si sentirono fin dentro la sala.
“Sì, certo! Ma Vincent si è sempre rifiutato di recitare davanti ai compagni. Diceva che voleva fare una sorpresa.”
“Per essere una sorpresa, lo è stata eccome!”
“Che cosa sono gli escrementi?” domandò Porco.
La professoressa scoppiò a piangere.
“È lei a dirci di lasciare che gli alunni facciano sempre quello che vogliono!” frignò, rivolgendosi al preside.
“La smetta di piangere, per favore,” le disse Hennings, porgendole un fazzoletto. “Non serve a niente. Dobbiamo convocare quel piantagrane di Hillel!”
Ma, mentre lo spettacolo continuava con l’esibizione della classe successiva, Porco si era già lanciato alle calcagna di Hillel. Furono visti lasciare di corsa l’auditorium dall’uscita di sicurezza, attraversare il cortile della ricreazione e il campo da basket, e dirigersi verso il quartiere di Oak Park. Davanti galoppava la sagoma mingherlina di Hillel, subito dietro c’era Porco, col suo sontuoso completo, che caricava come una bestia impazzita. Più indietro ancora c’era un gruppo di alunni che seguivano i due per assistere alla scena inevitabile.
“Ti ammazzo!” urlava Porco. “Ti ammazzo, te lo giuro!”
Hillel correva più veloce che poteva, ma sentiva avvicinarsi i passi di Porco. L’avrebbe raggiunto da un momento all’altro. Si diresse verso casa. Con un po’ di fortuna, sarebbe riuscito a raggiungerla e a rifugiarvisi. Pochi istanti prima di arrivare alla casa dei Goldman, però, inciampò in un triciclo abbandonato davanti a un vialetto e rovinò a terra.