domenica 27 settembre 2020

IL LIBRO DEI BALTIMORE Joël Dicker


IL LIBRO DEI BALTIMORE

 Joël Dicker

Sino al giorno della Tragedia, c’erano due famiglie Goldman. I Goldman di Baltimore e i Goldman di Montclair. Di quest’ultimo ramo fa parte Marcus Goldman, il protagonista di La verità sul caso Harry Quebert. I Goldman di Montclair, New Jersey, sono una famiglia della classe media e abitano in un piccolo appartamento. I Goldman di Baltimore, invece, sono una famiglia ricca e vivono in una bellissima casa nel quartiere residenziale di Oak Park. A loro, alla loro prosperità, alla loro felicità, Marcus ha guardato con ammirazione sin da piccolo, quando lui e i suoi cugini, Hillel e Woody, amavano di uno stesso e intenso amore Alexandra. Otto anni dopo una misteriosa tragedia, Marcus decide di raccontare la storia della sua famiglia: torna con la memoria alla vita e al destino dei Goldman di Baltimore, alle vacanze in Florida e negli Hamptons, ai gloriosi anni di scuola.

Ma c’è qualcosa, nella sua ricostruzione, che gli sfugge. Vede scorrere gli anni, scolorire la patina scintillante dei Baltimore, incrinarsi l’amicizia che sembrava eterna con Woody, Hillel e Alexandra. Fino al giorno della Tragedia. E da quel giorno Marcus è ossessionato da una domanda: cosa è veramente accaduto ai Goldman di Baltimore? Qual è il loro inconfessabile segreto?

Prologo

Domenica 24 ottobre 2004.

Un mese prima della Tragedia.

Domani, mio cugino Woody entrerà in carcere. Vi passerà i prossimi cinque anni della sua vita.

Sulla strada che conduce dall’aeroporto di Baltimore a Oak Park, il quartiere della sua infanzia dove sto andando a raggiungerlo per il suo ultimo giorno di libertà, lo immagino presentarsi davanti al cancello dell’imponente penitenziario di Chesire, nel Connecticut.

Passo la giornata con lui, nella casa di mio zio Saul, dove siamo stati così felici. Ci sono anche Hillel e Alexandra, e insieme ricostituiamo per cinque ore il meraviglioso quartetto che siamo stati. In quel momento, non ho la minima idea dell’influenza che quella giornata avrà sulle nostre vite.

Due giorni dopo, ricevo una telefonata di zio Saul.

“Marcus? Sono lo zio Saul.”

“Ciao, zio Saul. Come st...”

Non mi lascia finire.

“Ascoltami bene, Marcus: devi venire subito a Baltimore. Senza fare domande. È successa una cosa grave.”

Riattacca. Io penso che sia caduta la linea e lo richiamo subito: non risponde. Dato che insisto, finisce per rispondere e mi dice tutto d’un fiato: “Vieni a Baltimore.”

Riattacca di nuovo.

Se trovate questo libro, leggetelo, per favore.

Vorrei che qualcuno conoscesse la storia dei Goldman di Baltimore.


Prima parte. Il Libro della giovinezza perduta (1989-1997)

1.

Io sono lo scrittore.
È così che mi chiamano tutti. I miei amici, i miei genitori, i miei parenti, e anche le persone che non conosco e che tuttavia mi riconoscono in un luogo pubblico e mi dicono: “Lei non è quello scrittore...?” Io sono lo scrittore: è la mia identità.
La gente crede che, in quanto scrittore, la tua vita sia abbastanza tranquilla. Recentemente un mio amico, dopo essersi lamentato per i suoi spostamenti quotidiani tra casa e ufficio, mi ha detto: “Tu, in fondo, la mattina ti alzi, ti siedi alla scrivania e scrivi. Tutto qua.” Non gli ho risposto niente, forse per lo sconforto di rendermi conto fino a che punto, nell’immaginario collettivo, il mio lavoro consista nel non far niente. La gente pensa che non combini nulla, ma è proprio quando non fai niente che lavori di più.
Scrivere un libro è come aprire una colonia estiva. La tua vita, in genere solitaria e tranquilla, viene improvvisamente scombussolata da una moltitudine di personaggi che un giorno giungono senza preavviso e ti stravolgono l’esistenza. Arrivano una mattina, a bordo di un grande pullman, dal quale scendono rumorosamente, eccitati per il ruolo che hanno ottenuto. E tu devi rassegnarti, devi occupartene, devi dargli da mangiare, devi ospitarli. Sei responsabile di tutto. Perché tu, appunto, sei lo scrittore.
Questa storia inizia nel febbraio del 2012, quando lasciai New York per andare a scrivere il mio nuovo romanzo nella casa che avevo appena acquistato a Boca Raton. L’avevo comprata tre mesi prima, coi soldi della cessione dei diritti cinematografici del mio ultimo libro, e, a parte qualche rapida incursione per arredarla nei mesi di dicembre e gennaio, era la prima volta che mi ci fermavo a lungo. Era una casa spaziosa, tutta vetrate, affacciata su un lago molto apprezzato dagli amanti delle passeggiate. Sorgeva in un quartiere tranquillo e pieno di verde, abitato perlopiù da pensionati benestanti in mezzo ai quali stonavo. Avevo metà dei loro anni, ma se avevo scelto quel posto era proprio per la sua quiete assoluta. Era il luogo che mi serviva per scrivere.
Al contrario dei miei soggiorni precedenti, sempre brevissimi, stavolta avevo molto tempo a disposizione e raggiunsi la Florida in macchina. I duemila chilometri di viaggio non mi spaventavano minimamente: negli anni precedenti, avevo fatto innumerevoli volte quel tragitto partendo da New York per andare a trovare mio zio, Saul Goldman, che si era trasferito nei sobborghi di Miami dopo la Tragedia che aveva colpito la sua famiglia. Avrei potuto fare quella strada a occhi chiusi.
Lasciai New York sotto una fitta coltre di neve, con il termometro che segnava -10°, e arrivai a Boca Raton due giorni dopo, nella mitezza dell’inverno tropicale. Ritrovando quel familiare scenario di sole e palme, non potei fare a meno di pensare a zio Saul. Mi mancava terribilmente. Ne ebbi la netta percezione al momento di lasciare l’autostrada per entrare a Boca Raton, quando fui tentato di continuare fino a Miami per rivederlo. Mi chiesi se, in occasione dei precedenti soggiorni, fossi davvero venuto per occuparmi dei miei mobili o se quello non fosse, in fondo, un modo per riallacciare i rapporti con la Florida. Senza di lui, non era la stessa cosa.
Il mio vicino di casa a Boca Raton era un simpatico ultrasettantenne, Leonard Horowiz, ex luminare di diritto costituzionale a Harvard, che veniva a svernare in Florida e che, dopo la morte della moglie, passava il tempo a cercare di scrivere un libro che non riusciva a iniziare in modo soddisfacente. L’avevo conosciuto il giorno in cui ero entrato per la prima volta nella mia nuova casa. Aveva suonato alla porta, presentandosi con una confezione di birre per darmi il benvenuto, ed eravamo andati d’accordo sin dal primo istante. Da allora, aveva preso l’abitudine di venire a salutarmi ogni volta che capitavo lì. Tra noi si era rapidamente instaurato un rapporto amichevole.
Apprezzava la mia compagnia e penso che fosse contento di sapere che stavolta mi sarei fermato più a lungo. Avendogli spiegato che ero venuto a scrivere il mio nuovo romanzo, mi parlò immediatamente del suo. Lavorava con passione ma stentava a far procedere la storia. Portava sempre con sé un grande quaderno a spirale, sul quale aveva scritto col pennarello “Quaderno n. 1”, lasciando intendere che ne sarebbero seguiti altri. Da casa mia lo vedevo costantemente col naso ficcato tra le pagine, sin dal mattino, in terrazza o al tavolo della cucina. L’avevo incrociato più volte seduto a un tavolino di un bar del centro, concentrato sul suo testo. Lui, per contro, mi vedeva passeggiare, nuotare nel lago, andare in spiaggia, fare jogging. La sera, veniva a suonare alla mia porta con qualche birra ghiacciata. Le bevevamo sulla mia terrazza, giocando a scacchi e ascoltando musica. Dietro di noi si stendeva il paesaggio sublime del lago e delle palme che il tramonto tingeva di rosa. Tra una mossa e l’altra, Leo mi chiedeva sempre, senza distogliere lo sguardo dalla scacchiera:
“Allora, Marcus, il suo libro?”
“Procede, Leo. Procede.”
Ero lì da due settimane quando, una sera, mentre stavo per mangiargli una torre, lui si bloccò di colpo e mi disse, in tono improvvisamente seccato:
“Non era venuto qui per scrivere il suo nuovo romanzo?”
“Sì, perché?”
“Perché non fa niente dalla mattina alla sera, e questo mi irrita.”
“Cosa le fa credere che io non faccia niente?”
“Lo vedo coi miei occhi! Passa le giornate a fantasticare, a fare sport e a guardare le nuvole che si rincorrono. Ho settantotto anni, e sono io che dovrei perder tempo come fa lei, che ne ha poco più di trenta e dovrebbe sgobbare tutto il giorno!”
“Cos’è che la disturba davvero, Leo? Il mio libro o il suo?”
Avevo colpito nel segno. Si addolcì:
“Vorrei solo sapere come fa. Il mio romanzo non procede. Sono curioso di sapere qual è il suo modo di lavorare.”
“Mi siedo su questa terrazza e rifletto. E mi creda, non è un lavoro da poco. Lei invece scrive per tenere impegnata la mente. È diverso.”
Mosse il cavaliere e minacciò il mio re.
“Non potrebbe darmi una buona idea di trama da romanzo?”
“Impossibile.”
“Perché?”
“L’idea deve nascere da lei.”
“In ogni caso, eviti di parlare di Boca Raton nel suo libro, la prego. Non mi va che tutti i suoi lettori vengano qui in processione per vedere dove abita.”
Io sorrisi e aggiunsi:
“Non bisogna cercare l’idea, Leo. L’idea viene da sola. L’idea è un avvenimento che può capitare da un momento all’altro.”
Avrei mai potuto immaginare che fosse proprio ciò che stava per succedere nel momento in cui pronunciavo quelle parole? Vidi sul lungolago la sagoma di un cane che vagabondava. Corpo robusto ma elegante, orecchie appuntite e muso nell’erba. Vicino a lui non c’era nessuno che passeggiasse.
“Sembra che quel cane sia solo,” dissi.
Horowitz alzò la testa e osservò l’animale vagabondo.
“Qui non ci sono cani randagi,” decretò.
“Non ho detto che è un cane randagio. Ho detto che gironzola tutto solo.”
Amo da morire i cani. Mi alzai dalla sedia, misi le mani a imbuto davanti alla bocca e fischiai per chiamarlo. Il cane rizzò le orecchie. Fischiai ancora, e lui accorse.
“È pazzo,” borbottò Leo, “come fa a sapere che quella bestia non ha la rabbia? Tocca a lei muovere.”
“Infatti non lo so,” risposi, avanzando sbadatamente la torre.
Horowitz mi mangiò la regina per punirmi della mia insolenza.
Il cane arrivò all’altezza della terrazza. Mi accucciai accanto a lui. Era un maschio abbastanza alto, dal pelo fulvo, con una mascherina scura sugli occhi e lunghe vibrisse da foca. Mi poggiò il muso sulle ginocchia e io lo accarezzai. Aveva un’espressione dolcissima. Sentii immediatamente che tra lui e me si stava creando un legame, come un colpo di fulmine – e chi conosce i cani sa di cosa parlo. Non aveva collare, niente che potesse identificarlo.
“Ha mai visto questo cane?” chiesi a Leo.
“Mai.”
Dopo aver ispezionato la terrazza, il cane si allontanò di corsa, senza che potessi trattenerlo, e sparì tra le palme e i cespugli.
“Ha l’aria di sapere dove va,” disse Horowitz. “Sarà sicuramente il cane di qualche vicino.”
Quella sera c’era un caldo opprimente. Quando Leo andò via, nonostante l’oscurità, intuii un cielo minaccioso. Di lì a poco scoppiò un violento temporale, con fulmini impressionanti che si abbattevano oltre il lago; dalle nuvole gonfie si rovesciava una pioggia torrenziale. Verso mezzanotte, mentre leggevo nel soggiorno, udii un guaito provenire dalla terrazza. Andai a vedere di che si trattasse, e dalla vetrata scorsi il cane, con il pelo zuppo e l’aria abbacchiata. Gli aprii, e lui s’infilò subito in casa. Mi guardò con aria implorante.
“Va bene, puoi restare,” gli dissi.
Gli diedi da bere e da mangiare in due ciotole improvvisate con delle pentole; poi mi sedetti accanto a lui per asciugarlo con un telo da bagno e restammo a guardare la pioggia che scorreva sui vetri.
Passò la notte da me. L’indomani, quando mi svegliai, lo trovai tranquillamente addormentato sul pavimento della cucina. Feci un guinzaglio con un pezzo di corda – era solo una precauzione, visto che mi seguiva docilmente – e uscimmo alla ricerca del suo padrone.
Leo stava bevendo il caffè nella veranda di casa, con il “Quaderno n. 1” aperto davanti a sé su una pagina disperatamente bianca.
“Che sta combinando con quel cane, Marcus?” mi chiese quando vide che facevo salire il cane nel baule della mia macchina.
“Stanotte l’ho trovato in terrazza. Con quel temporale, l’ho fatto entrare in casa. Dev’essersi perduto.”
“E dove sta andando, adesso?”
“A mettere un avviso al supermercato.”
“Ecco, come dicevo, non lavora mai.”
“In realtà, sto lavorando.”
“Be’, allora non si stanchi troppo, amico mio.”
“Promesso.”
Dopo aver messo un avviso nei due supermercati più vicini, andai a fare quattro passi col cane nella strada principale di Boca Raton, con la speranza che qualcuno lo riconoscesse. Invano. Decisi allora di recarmi alla stazione di polizia, dove mi indirizzarono a uno studio veterinario. A volte gli animali erano muniti di un microchip identificativo che permetteva di risalire al proprietario. Non era il caso di quel cane, e il veterinario non fu in grado di aiutarmi. Mi propose di ricoverarlo al canile, ma io rifiutai e tornai a casa accompagnato dal mio nuovo amico che, devo dire, era particolarmente dolce e mansueto, nonostante la stazza imponente.
Leo aspettava il mio ritorno sulla veranda di casa. Appena mi vide, corse verso di me brandendo dei fogli che aveva appena stampato. Aveva scoperto di recente la magia di Google e digitava a tutto spiano ogni domanda che gli passasse per la testa. Per un accademico come lui, che aveva trascorso gran parte della vita nelle biblioteche a cercare riferimenti, la magia degli algoritmi di ricerca aveva un effetto particolare.
“Ho fatto una piccola indagine,” disse, come se avesse appena risolto il caso Kennedy, tendendomi le decine di pagine che a breve mi avrebbero costretto ad aiutarlo a cambiare la cartuccia d’inchiostro della stampante.
“E cosa ha scoperto, professor Horowitz?”
“I cani ritrovano sempre la loro cuccia. Alcuni percorrono migliaia di chilometri per tornare a casa.”
“Cosa mi consiglia di fare?”
Leo mi guardò con un’espressione da vecchio saggio:
“Segua il cane, anziché costringerlo a seguirla. Lui sa dove andare, lei no.”
Il mio vicino non aveva torto. Decisi di sganciare il guinzaglio di corda del cane e di lasciarlo vagabondare. Si allontanò al piccolo trotto, dapprima costeggiando il lago, poi imboccando un sentiero interno. Attraversammo un campo da golf e giungemmo in un quartiere residenziale che non conoscevo, fiancheggiato da un braccio di mare. Il cane seguì la strada, svoltò due volte a destra e infine si fermò di fronte a un cancello, dietro il quale vidi una villa magnifica. Si accucciò e uggiolò. Suonai al citofono. Mi rispose una donna, cui dissi che avevo trovato il suo cane. Il cancello si aprì e il cane corse fino alla casa, chiaramente felice di essere tornato alla sua cuccia.
Lo seguii. Una donna comparve sugli scalini della villa, e il cane si precipitò verso di lei in uno slancio di gioia. Sentii la donna chiamarlo col suo nome. “Duke.” I due si fecero un sacco di coccole e io avanzai di qualche passo. Lei alzò il viso e io rimasi sbigottito.
“Alexandra?” riuscii infine ad articolare.
“Marcus?”
Era incredula quanto me.
Poco più di sette anni dopo la Tragedia che ci aveva separato, la ritrovavo. Spalancò gli occhi e ripeté, con voce carica di stupore:
“Marcus, sei tu?!”
Io rimasi immobile, stordito.
Lei corse verso di me.
“Marcus!”
In uno slancio di tenerezza istintiva, mi prese il viso tra le mani, come se nemmeno lei riuscisse a crederci e volesse assicurarsi che era proprio vero. Quanto a me, non riuscivo a pronunciare neppure una parola.
“Marcus,” disse lei, “non riesco a credere che sia proprio tu.”
A meno che non viviate in una caverna, avrete inevitabilmente sentito parlare di Alexandra Neville, la cantante e musicista più in voga degli ultimi anni. Era l’idolo che la nazione aveva atteso a lungo, colei che aveva salvato l’industria discografica. I suoi tre album avevano venduto 20 milioni di copie; per il secondo anno consecutivo, figurava tra i personaggi più influenti selezionati dalla rivista “Time” e il suo patrimonio personale era valutato in 150 milioni di dollari. Era adorata dal pubblico, adulata dalla critica. Piaceva sia ai giovani sia agli anziani. Piaceva a tutti, tanto da darmi la sensazione che ormai l’America conoscesse solo quelle quattro sillabe che scandiva con amore e fervore: A-lex-an-dra.
Era fidanzata con un giocatore di hockey originario del Canada, Kevin Legendre, che proprio in quell’istante comparve dietro di lei.
“Ha ritrovato Duke! È da ieri che lo stavamo cercando! Alex era disperata. Grazie!”
Mi tese la mano. Vidi il suo bicipite contrarsi mentre mi stritolava le falangi. Avevo visto Kevin solo sui tabloid, che non si stancavano di commentare la sua storia con Alexandra. Era di una bellezza sfacciata. Più ancora che nelle foto. Mi fissò per qualche istante con un’espressione curiosa e disse:
“Io la conosco, no?”
“Mi chiamo Marcus. Marcus Goldman.”
“Lo scrittore, vero?”
“Esatto.”
“Ho letto il suo ultimo libro. È stata Alexandra a consigliarmelo, adora i suoi romanzi.”
Non riuscivo a credere a quella situazione. Avevo appena ritrovato Alexandra... a casa del suo fidanzato. Kevin, che non aveva idea di cosa stesse capitando, mi propose di restare a cena, e io accettai volentieri.
Grigliammo delle enormi bistecche su un gigantesco barbecue in terrazza. Non avevo seguito gli ultimi sviluppi della carriera di Kevin: lo credevo ancora un difensore dei Nashville Predators, ma era stato ingaggiato dai Florida Panthers durante il mercato estivo. Quella era la sua casa. Abitava a Boca Raton, adesso, e Alexandra aveva approfittato di una pausa nella registrazione del suo nuovo disco per andare a trovarlo.
Fu solo alla fine della cena che Kevin si rese conto che Alexandra e io ci conoscevamo bene.
“Tu sei di New York, vero?” mi chiese.
“Sì. Vivo lì.”
“Cosa ti ha condotto in Florida?”
“Da qualche anno ho preso l’abitudine di venire da queste parti. Mio zio abitava a Coconut Grove e andavo spesso a trovarlo. Ho appena comprato casa a Boca Raton, non molto lontano da qui. Volevo un posto tranquillo per scrivere.”
“Come sta tuo zio?” chiese Alexandra. “Non sapevo che avesse lasciato Baltimore.”
Ignorai la domanda e mi limitai a dire:
“Ha lasciato Baltimore dopo la Tragedia.”
Kevin puntò la forchetta contro di noi, senza neanche rendersene conto.
“Sto sognando, o voi due vi conoscete?” domandò.
“Ho vissuto per qualche anno a Baltimore,” spiegò Alexandra.
“E una parte dei miei parenti viveva lì,” proseguii io. “Mio zio, appunto, con sua moglie e i miei cugini. Abitavano nello stesso quartiere della famiglia di Alexandra.”
Alexandra ritenne opportuno non aggiungere altri particolari e cambiammo argomento. Terminata la cena, dato che ero a piedi, si offrì di accompagnarmi a casa.
Quando mi trovai da solo in macchina con lei, avvertii chiaramente un certo imbarazzo tra noi. A un certo punto, dissi:
“È pazzesco, ci mancava che il tuo cane finisse a casa mia...”
“Scappa spesso,” rispose lei.
Ebbi il cattivo gusto di voler scherzare.
“Può darsi che non gli piaccia Kevin.”
“Non cominciare, Marcus.”
Il suo tono era tagliente.
“Non fare così, Alex...”
“Così come?”
“Sai benissimo cosa voglio dire.”
Inchiodò di botto in mezzo alla strada e piantò i suoi occhi nei miei.
“Perché l’hai fatto, Marcus?”
Stentavo a sostenere il suo sguardo. Quasi strillando, disse:
“Mi hai abbandonata!”
“Mi spiace. Avevo i miei motivi.”
“I tuoi motivi? Non avevi nessun motivo di mandare tutto all’aria!”
“Alexandra, loro... Loro sono morti!”
“E con questo... È colpa mia?”
“No,” risposi. “Mi dispiace. Mi dispiace per tutto.”
Scese un silenzio pesante. Le uniche parole che pronunciai furono per guidarla fino a casa mia. Arrivati davanti all’ingresso, disse:
“Grazie per Duke.”
“Mi piacerebbe rivederti.”
“Penso che sia meglio chiuderla qui. Non tornare, Marcus.”
“A casa di Kevin?”
“Nella mia vita. Non tornare nella mia vita, per favore.”
Ripartì.
Non me la sentivo di entrare in casa. Avevo le chiavi della macchina in tasca e decisi di andare a fare un giro. Guidai fino a Miami e, senza riflettere, attraversai la città e raggiunsi il tranquillo quartiere di Coconut Grove. Mi fermai davanti alla casa di mio zio. Scesi dall’auto, la temperatura era gradevole. Mi appoggiai alla carrozzeria e rimasi a lungo a guardare la casa. Avevo l’impressione che lui fosse lì, mi sembrava di sentire la sua presenza. Volevo ritrovare lo zio Saul, ed esisteva solo un modo per riuscirci. Scriverlo.
Saul Goldman era il fratello di mio padre. Prima della Tragedia, prima dei fatti che mi accingo a raccontare, era “un uomo molto importante”, per usare un’espressione utilizzata dai miei nonni. Avvocato, dirigeva uno degli studi più rinomati di Baltimore, e la sua esperienza l’aveva portato a occuparsi di cause celebri in tutto il Maryland. Il caso Dominic Pernell, l’aveva trattato lui. E anche il caso Città di Baltimore contro Morris e quello delle vendite illegali a Sunridge. A Baltimore lo conoscevano tutti. Compariva sui giornali, in televisione, e ricordo che, all’epoca, tutto questo mi faceva una grande impressione. Aveva sposato il suo amore di gioventù, la donna che per me era diventata zia Anita. Ai miei occhi di bambino, lei rappresentava la più bella delle donne e la più dolce delle madri. Medico, era una delle colonne del reparto di oncologia dell’ospedale Johns Hopkins, uno dei più rinomati del paese. Insieme, Saul e Anita avevano avuto un figlio meraviglioso, Hillel, un ragazzo buono e di un’intelligenza eccezionale, che, con qualche mese di differenza, mi era coetaneo e col quale avevo un rapporto fraterno.
I momenti migliori della mia giovinezza furono quelli trascorsi con loro, e per molto tempo il semplice evocare i loro nomi mi rese pazzo di orgoglio e felicità. Rispetto a tutte le famiglie che avevo conosciuto, a tutte le persone che avevo incontrato, Saul, Anita e Hillel mi erano sempre sembrati superiori: più felici, più realizzati, più ambiziosi, più stimati. Per molto tempo, l’esistenza mi diede ragione. Erano esseri di un’altra dimensione. Ero affascinato dalla facilità con cui percorrevano la vita, abbagliato dal loro ascendente, soggiogato dalla loro disinvoltura. Ammiravo il loro stile, la loro posizione sociale, le loro proprietà. L’immensa casa, le auto di lusso, la residenza estiva negli Hamptons, l’appartamento a Miami, le tradizionali vacanze sulla neve di marzo a Whistler, nella Columbia Britannica. La loro semplicità, la loro felicità. Il loro garbo nei miei confronti. Quella magnifica superiorità che li faceva ammirare istintivamente. Non suscitavano gelosie: erano troppo ineguagliabili per essere invidiati. Erano stati benedetti dagli dèi. Per molto tempo pensai che non gli sarebbe mai successo niente. Per molto tempo pensai che sarebbero stati eterni.

2.

All’indomani del mio fortuito incontro con Alexandra, passai tutta la giornata chiuso nel mio studio. L’unica sortita avvenne nella frescura dell’alba, per un po’ di jogging in riva al lago.
Senza ancora sapere a cosa mi sarebbe servito, mi ero messo in testa di descrivere in forma di appunti i passaggi salienti della storia dei Goldman di Baltimore. Avevo cominciato disegnando un albero genealogico della nostra famiglia, per poi rendermi conto che era necessario aggiungervi qualche spiegazione, soprattutto riguardo alle origini di Woody. L’albero aveva rapidamente assunto l’aspetto di una foresta di note a margine e mi ero detto che, per scrupolo di chiarezza, avrei dovuto ricopiare tutte quelle informazioni su schede. Sulla mia scrivania c’era una foto ritrovata due anni prima da zio Saul. Ritraeva me – di diciassette anni più giovane –, circondato dalle tre persone che ho amato più di tutte: i miei adorati cugini Hillel e Woody, e Alexandra. Lei aveva spedito una copia della foto a ognuno di noi, scrivendovi sul retro:
Vi amo, Goldman.
A quell’epoca, Alexandra aveva diciassette anni, mentre i miei cugini e io ne avevamo appena quindici. Lei possedeva già tutte le qualità che l’avrebbero fatta amare da milioni di persone, ma noi tre Goldman non dovevamo condividerla con nessuno. Quella foto mi sprofondava di nuovo nei meandri della nostra passata giovinezza, molto prima che perdessi i miei cugini, molto prima che diventassi l’astro nascente della letteratura americana e, soprattutto, molto prima che Alexandra Neville divenisse una star incomparabile. Molto prima che l’intera America s’innamorasse della sua personalità, delle sue canzoni. Molto prima che sconvolgesse, album dopo album, milioni di fan. Molto prima delle sue tournée, molto prima di diventare l’icona che il paese aveva aspettato per tanto tempo.
Nel tardo pomeriggio, Leo, fedele alle sue abitudini, venne a suonare alla mia porta.
“Tutto bene, Marcus? È da ieri che non ho sue notizie. Ha trovato il proprietario del cane?”
“Sì. È il nuovo fidanzato di una ragazza che ho amato per anni.”
Mi guardò sbalordito.
“Il mondo è piccolo,” disse. “Come si chiama?”
“Non ci crederà. Alexandra Neville.”
“La cantante?”
“Proprio lei.”
“La conosce?”
Andai a prendere la foto e gliela porsi.
“È Alexandra?” chiese Leo, indicandola.
“Sì. All’epoca in cui eravamo adolescenti felici.”
“E chi sono gli altri?”
“I miei cugini di Baltimore e io.”
“Che fine hanno fatto?”
“È una lunga storia...”
Quella sera, Leo e io giocammo a scacchi fino a tardi. Ero contento che fosse venuto a distrarmi: mi aiutò a non pensare ad Alexandra per qualche ora. Vederla, mi aveva turbato enormemente. Durante tutti quegli anni non ero mai riuscito a dimenticarla.
Il giorno successivo non seppi resistere alla tentazione di tornare nei pressi della casa di Kevin Legendre. Non so cosa sperassi. Sicuramente di imbattermi in Alexandra. Di parlarle ancora. Ma lei si sarebbe infuriata perché ero tornato. Avevo appena parcheggiato in una stradina parallela alla proprietà, quando vidi smuoversi una siepe. Guardai con attenzione, incuriosito, e all’improvviso scorsi il prode Duke sbucare dagli arbusti. Scesi dalla macchina e lo chiamai sottovoce. Si ricordava perfettamente di me e venne subito a farsi accarezzare. All’improvviso, ebbi un’idea assurda, che non riuscii a scacciare. Perché non usare Duke come mezzo per riallacciare i rapporti con Alexandra? Aprii il bagagliaio della macchina, e il cane vi si infilò dentro docilmente. Ormai era in confidenza. Misi in moto e tornai subito a casa. Duke sapeva già cosa fare. Quando mi sedetti alla scrivania, si sdraiò accanto a me e mi tenne compagnia mentre mi rituffavo nella storia dei Goldman di Baltimore.
La qualifica di “Goldman di Baltimore” corrispondeva con quello che i miei genitori e io eravamo in virtù del nostro domicilio: i Goldman di Montclair, New Jersey. Con l’andare del tempo, per brevità, loro erano diventati i Baltimore e noi i Montclair. Gli inventori di quegli appellativi erano i nonni Goldman, i quali, per rendere più chiare le loro conversazioni, avevano istintivamente suddiviso le nostre famiglie in due entità geografiche. Il che gli permetteva di dire, per esempio, quando tutti noi li raggiungevamo in Florida per le festività di fine anno: “I Baltimore arrivano sabato e i Montclair domenica.” Ma quello che dapprima era stato solo un modo simpatico di identificarci aveva finito col diventare l’espressione della superiorità dei Goldman di Baltimore persino all’interno del clan. Erano i fatti a parlare: i Baltimore erano un avvocato che aveva sposato un medico, e il loro figlio studiava nella migliore scuola privata della città. Sul fronte dei Montclair, mio padre era ingegnere, mia madre commessa nella filiale del New Jersey di un’azienda newyorkese di abbigliamento elegante, e io un diligente alunno di una scuola pubblica.
Nella pronuncia del lessico famigliare, i miei nonni avevano finito per assorbire nell’intonazione i sentimenti privilegiati che nutrivano per la tribù dei Baltimore: sulle loro labbra, la parola “Baltimore” sembrava colata nell’oro, mentre “Montclair” pareva tracciata con la bava delle lumache. I complimenti erano per i Baltimore, i rimproveri per i Montclair. Se il loro televisore non funzionava era perché l’avevo maneggiato io, e se il pane appariva poco fresco era perché l’aveva comprato mio padre. Le pagnotte che portava zio Saul, invece, erano di qualità eccezionale, e se il televisore riprendeva a funzionare era perché Hillel l’aveva riparato. Il trattamento non era mai uguale neanche in situazioni identiche: se i Baltimore erano in ritardo per la cena, i miei nonni decretavano che erano stati bloccati dal traffico. Se si trattava dei Montclair, invece, si lagnavano subito dei nostri presunti ritardi sistematici. In qualsiasi circostanza, Baltimore era la capitale del bello, Montclair quella del Si-può-fare -meglio. Il più fine caviale di Montclair non era mai all’altezza di un boccone di puzzolenti cavoli di Baltimore. E quando si andava tutti insieme in un ristorante o in un centro commerciale, se incontravamo qualche conoscente dei nonni, era Nonna a fare le presentazioni: “Questo è mio figlio Saul, un grande avvocato; lei è sua moglie Anita, un importante medico del Johns Hopkins; e lui è il loro figliolo Hillel, un piccolo genio.” A quel punto, ognuno dei tre Baltimore veniva omaggiato da una stretta di mano e un paio di salamelecchi. Poi Nonna concludeva la tirata indicando con un gesto vago i miei genitori e me: “E loro sono il mio secondogenito e la sua famiglia.” E noi ricevevamo un cenno del capo molto simile a quello con cui si ringrazierebbe un parcheggiatore o un cameriere.
Nei primi anni della mia giovinezza, l’unica uguaglianza perfetta tra i Goldman di Baltimore e i Goldman di Montclair fu costituita dal numero: le due famiglie erano composte ciascuna da tre membri. Ma se lo stato civile censiva ufficialmente i Goldman di Baltimore nel numero di tre, chi li ha conosciuti bene vi dirà che erano quattro. Perché, in breve tempo, la vita attribuì a mio cugino Hillel, col quale avevo condiviso fino a quel momento la tara di essere figlio unico, il privilegio di avere un fratello. In seguito ai fatti che descriverò tra poco, lo si vide ben presto accompagnato in ogni occasione da un amico, che sarebbe stato naturale credere immaginario se non lo si fosse conosciuto: Woodrow Finn – Woody, come lo chiamavamo noi –, più bello, più alto, più forte, più bravo in tutto, premuroso e sempre presente quando c’era bisogno di lui.
Woody ottenne rapidamente tra i Goldman di Baltimore il ruolo di famigliare effettivo, e divenne nel contempo uno di loro e uno di noi: un nipote, un cugino, un figlio e un fratello. La sua appartenenza a pieno titolo ai Baltimore fu un’evidenza immediata, tanto che – a definitiva conferma della sua integrazione – quando capitava di non vederlo a una riunione di famiglia ci si domandava subito dove fosse. Ci si preoccupava perché non era lì, facendo della sua presenza, più che una legittimità, una necessità, affinché l’unità famigliare fosse perfetta. Chiedete di enumerare i Goldman di Baltimore a chiunque li abbia frequentati in quegli anni e, senza un attimo di esitazione, vi citerà anche Woody. Ci avevano battuto ancora una volta: nella partita Montclair contro Baltimore, che fino a quel momento era stata sul 3 pari, adesso il punteggio era di 4 a 3.
Woody, Hillel e io fummo gli amici più fedeli del mondo. Fu in compagnia di Woody che passai i miei anni più belli con i Baltimore, quelli che accompagnarono le nostre esistenze dal 1990 al 1998: il periodo d’oro e, al tempo stesso, il fondale di tutto ciò che avrebbe portato alla Tragedia. Dall’età di dieci anni a quella di diciotto, fummo assolutamente inseparabili. Costituimmo un’entità fraterna a tre facce, triade o trinità, che battezzammo fieramente “la Gang dei Goldman”. Ci amammo come pochi fratelli si sono mai amati: ci legammo a vicenda con i giuramenti più solenni, mischiammo il nostro sangue, ci giurammo fedeltà e ci promettemmo eterno amore reciproco. Nonostante tutto ciò che avvenne in seguito, ricorderò sempre quegli anni come un’epoca eccezionale: l’epopea di tre adolescenti felici in un’America benedetta dagli dèi.
Per me, andare a Baltimore e stare con loro era l’unica cosa davvero importante. Mi sentivo compiutamente realizzato soltanto insieme a loro. E di questo devo ringraziare i miei genitori che, a un’età in cui a pochi bambini è consentito viaggiare da soli, mi diedero il permesso di andare a Baltimore nei week-end lunghi, di recarmi senza accompagnatori a Baltimore per stare in compagnia dei miei adorati Hillel e Woody. Per me, quello fu l’inizio di una nuova vita, scandita dal calendario delle festività scolastiche, delle giornate di aggiornamento degli insegnanti e delle celebrazioni degli eroi americani. L’approssimarsi del Veterans Day, del Martin Luther King Day o del Presidents’ Day scatenava in me un’enorme felicità. L’eccitazione di rivederli mi rendeva insopportabile. Gloria ai soldati morti per la patria, gloria al dottor Martin Luther King junior per essere stato un uomo così buono, gloria ai nostri presidenti, onesti e valorosi, che ogni anno ci regalavano una vacanza il terzo lunedì di febbraio!
Per guadagnare un giorno, avevo ottenuto dai miei genitori di poter partire subito dopo la scuola. Terminate le lezioni, tornavo a casa alla velocità della luce per preparare le mie cose. Chiuso lo zaino, aspettavo che mia madre tornasse dal lavoro per accompagnarmi alla stazione di Newark. Mi sedevo sulla poltrona all’ingresso, scarpe ai piedi e giacca sulle spalle, trepidante. Io ero in anticipo, lei era in ritardo. Per ingannare il tempo, guardavo le foto delle nostre due famiglie che campeggiavano sopra il mobile accanto a me. Mi sembrava che noi fossimo tanto scialbi quanto loro erano meravigliosi. Eppure, lì a Montclair, graziosa cittadina del New Jersey, conducevo un’esistenza privilegiata, ricca di quiete e di felicità, e i miei genitori non mi facevano mancare niente. Tuttavia le nostre macchine mi sembravano meno sgargianti, le nostre conversazioni meno divertenti, il nostro sole meno splendente e la nostra aria meno pura.
Ma ecco che risuonava il clacson di mia madre. Mi precipitavo fuori e salivo sulla sua vecchia Honda Civic. Lei stava ritoccando rapidamente lo smalto delle unghie, oppure bevendo caffè da un bicchiere di cartone, o mangiando un sandwich o compilando un questionario di qualche pubblicità. A volte, tutt’e quattro le cose quasi insieme. Era elegante, sempre in ordine. Bella, truccata con gusto. Ma al ritorno dal lavoro aveva ancora sulla giacca la targhetta col suo nome e la scritta “Al vostro servizio”, che trovavo terribilmente umiliante. I Baltimore erano degli individui serviti, noi eravamo dei servitori.
Rimproveravo mia madre per il ritardo, e lei mi chiedeva di scusarla. Rifiutavo di farlo, e lei mi passava con tenerezza una mano tra i capelli. Mi dava un bacio, lasciandomi sulla guancia una traccia di rossetto che si affrettava a cancellare con un gesto pieno d’amore. Poi mi portava alla stazione, dove avrei preso il treno pomeridiano per Baltimore. Lungo la strada, diceva che mi voleva bene e che già sentiva la mia mancanza. Prima di lasciarmi salire nel vagone, mi tendeva un sacchetto di carta con qualche sandwich che aveva comprato nel bar dove aveva preso il caffè; poi mi faceva promettere di essere “bravo e ubbidiente”. Mi abbracciava forte, e approfittava di quel gesto per infilarmi in tasca una banconota da 20 dollari, accompagnata dalle parole: “Ti voglio bene, micetto.” Infine mi scoccava due baci sulla guancia, che talvolta diventavano tre o quattro. Diceva che uno solo non era abbastanza – per me, invece, era già troppo. Ripensandoci adesso, mi pento di non essermi lasciato baciare dieci volte a ogni partenza. Mi pento di averla lasciata troppo spesso. Mi pento di non essermi rammentato a sufficienza che le madri sono effimere e di non essermi mai ripetuto ancora e ancora: “Ama tua madre.”
Dopo appena due ore di treno, arrivavo alla stazione di Baltimore. Il passaggio di famiglia poteva finalmente iniziare. Mi liberavo dei panni striminziti dei Montclair e mi ammantavo di quelli dei Baltimore. Sulla banchina, nel crepuscolo ormai avanzato, mi aspettava lei. Bella come una regina, radiosa ed elegante come una dea, la donna il cui ricordo a volte animava anche in maniera vergognosa le mie giovani notti: la zia Anita. Correvo da lei, la abbracciavo. Sento ancora la sua mano tra i capelli, il suo corpo contro di me. Odo la sua voce che mi dice: “Markie, tesoro, è un vero piacere vederti.” Non so perché, ma la maggior parte delle volte era lei a venire a prendermi, da sola. Sarà stato sicuramente perché, di solito, zio Saul finiva tardi allo studio, e senza dubbio a lei non andava di portarsi dietro Hillel e Woody. Quanto a me, ne approfittavo per ritrovarla come una fidanzata: qualche minuto prima di arrivare in stazione, mi sistemavo i vestiti e mi davo una pettinata guardandomi riflesso nel finestrino; quando infine il treno si fermava, io scendevo col cuore che batteva forte. Tradivo mia madre con un’altra.
Zia Anita guidava una BMW nera che probabilmente valeva quanto un anno di stipendio di entrambi i miei genitori. Salire a bordo di quella macchina era la prima tappa della mia trasformazione. Rinnegavo la vecchia Civic e mi dedicavo all’adorazione di quella vettura sfolgorante di lusso e modernità, con la quale lasciavamo il centro di Baltimore per raggiungere l’agiato quartiere di Oak Park, dove abitavano i miei consanguinei. Oak Park era un mondo a sé: i marciapiedi erano più larghi, le strade fiancheggiate da alberi immensi. Le case erano una più grande dell’altra, i cancelli rivaleggiavano in quantità di arabeschi e i muri di cinta erano smisurati. La gente a passeggio mi sembrava più bella, i cani più eleganti, gli jogger della domenica più atletici. Laddove nel nostro quartiere di Montclair avevo conosciuto solo abitazioni accoglienti, senza alcuna barriera per chiuderne i giardini, a Oak Park le case erano in massima parte protette da siepi e muri. Le strade silenziose erano pattugliate dalle auto di un servizio di sicurezza privato, che, con i lampeggianti arancione e la scritta “Vigilanza di Oak Park”, vegliavano sulla tranquillità degli abitanti del quartiere.
La traversata di Oak Park accanto a zia Anita faceva scattare in me la seconda fase della trasformazione: mi induceva a sentirmi superiore. Tutto mi sembrava naturale: l’automobile, il quartiere, la mia presenza. Gli agenti della vigilanza di Oak Park avevano l’abitudine di salutare gli abitanti con un rapido gesto della mano ogni volta che li incontravano, e gli abitanti rispondevano con un cenno analogo. Un gesto della mano per confermare che andava tutto bene e che la tribù dei ricchi poteva passeggiare tranquilla. L’agente della prima pattuglia che incontravamo faceva quel gesto, zia Anita rispondeva e io mi affrettavo a fare altrettanto. In quel momento ero uno di loro. Giunti a destinazione, la zia suonava due volte il clacson per annunciare il nostro arrivo, poi azionava il telecomando che apriva le due ali d’acciaio del cancello. Imboccava il vialetto ed entrava nel garage a quattro posti. Facevo appena in tempo a scendere, e la porta di accesso alla casa si apriva con un allegro baccano: ecco Woody e Hillel scapicollarsi correndo verso di me e lanciando strilli eccitati – erano i fratelli che la vita non aveva mai voluto darmi. Ogni volta entravo in quella casa con uno sguardo stupefatto: tutto era bello, lussuoso, colossale. Il loro garage era grande quanto il nostro soggiorno. La loro cucina grande quanto la nostra casa. I loro bagni grandi quanto le nostre stanze, e le loro stanze erano in numero sufficiente per ospitare svariate nostre generazioni.
Ogni nuovo periodo trascorso in quel posto superava il precedente e non faceva che aumentare ulteriormente la mia ammirazione per lo zio e la zia, e soprattutto la chimica perfetta della gang formata da Hillel, Woody e me. Erano come il mio sangue, come la mia carne. Amavamo gli stessi sport, gli stessi attori, gli stessi film, le stesse ragazze: e tutto ciò non per emulazione o concertazione, ma perché ognuno di noi poteva dirsi l’estensione degli altri due. Sfidavamo la natura e la scienza: gli alberi dei nostri avi non condividevano lo stesso tronco, ma le nostre sequenze genetiche seguivano le medesime volute. Ogni tanto andavamo a fare visita al padre di zia Anita, che viveva in una casa di riposo, che noi chiamavamo “Casa dei Morti”. Ricordo che i suoi amici piuttosto anziani, con la memoria sfilacciata, ci interrogavano continuamente sull’identità di Woody, non riuscendo a distinguerci. Lo additavano con i loro indici deformi e ponevano senza alcun imbarazzo la solita e imprescindibile domanda: “Quello è un Goldman di Baltimore o un Goldman di Montclair?” Se a rispondere era zia Anita, gli spiegava con voce carica di tenerezza: “È Woodrow, l’amico di Hill... È il bambino che abbiamo preso in casa. È un tesoro.” Prima di pronunciare queste parole, si accertava sempre che Woody non fosse nella stanza, per non turbarlo, anche se dal tono della sua voce si capiva immediatamente che era pronta ad amarlo come un figlio. Di fronte alla stessa domanda, Woody, Hillel e io avevamo una risposta che ci sembrava più vicina alla realtà. E quando, in quegli inverni, lungo quei corridoi in cui fluttuavano gli strani odori della vecchiaia, tante mani grinzose ci trattenevano per una manica e ci intimavano di dire i nostri nomi per supplire all’inevitabile erosione dei loro cervelli malati, noi rispondevamo:
“Io sono uno dei tre cugini Goldman.”
Fui interrotto a metà pomeriggio dal mio vicino Leo Horowitz. Era preoccupato di non avermi visto durante l’intera giornata e veniva ad accertarsi che andasse tutto bene.
“Va tutto bene, Leo,” lo rassicurai dalla soglia di casa.
Dovette sembrargli strano che non lo facessi entrare, e sospettò che gli nascondessi qualcosa. Insistette:
“È sicuro?” chiese ancora, in tono curioso.
“Sicurissimo. Niente di speciale. Sto lavorando.”
Improvvisamente comparve dietro di me Duke, che si era svegliato e voleva vedere cosa succedeva. Leo spalancò gli occhi.
“Marcus, che ci fa qui quel cane?”
Chinai il capo, vergognandomi.
“L’ho preso in prestito.”
“Cosa?”
Gli feci segno di entrare in fretta e chiusi la porta alle sue spalle. Nessuno doveva vedere quel cane in casa mia.
“Volevo incontrare Alexandra,” gli spiegai. “E ho visto il cane che usciva dal giardino. Mi sono detto che potevo portarlo qui, tenerlo fino a sera e poi andare a restituirglielo, facendole credere che fosse venuto da me spontaneamente.”
“Ha perso la trebisonda, mio povero amico. Questo è un autentico furto.”
“È un prestito, non ho intenzione di tenerlo. Mi serve solo per qualche ora.”
Leo, continuando ad ascoltarmi, raggiunse la cucina, prese dal frigo una bottiglia d’acqua senza chiedere alcun permesso e si sedette. Era felice per la piega d’insolito svago che stava prendendo la sua giornata. Con aria raggiante, mi suggerì:
“E se ci facessimo una partitella a scacchi? La aiuterebbe a rilassarsi.”
“No, Leo, adesso non ho proprio tempo per gli scacchi.”
Lui si rabbuiò e tornò a concentrarsi sul cane, che stava lappando rumorosamente l’acqua da un pentolino sul pavimento.
“Allora mi spieghi, Marcus: perché ha bisogno di questo cane?”
“È una buona scusa per rivedere Alexandra.”
“Questo l’avevo capito. Ma perché le serve una scusa per rivederla? Non può semplicemente passare a salutarla come una persona civile, invece di rapirle il cane?”
“Mi ha chiesto di non cercarla mai più.”
“Perché l’ha fatto?”
“Perché l’ho lasciata. Otto anni fa.”
“Accidenti. In effetti, non è stato molto carino da parte sua. Non la amava più?”
“Al contrario.”
“Però l’ha lasciata.”
“Sì.”
“Perché?”
“Per via della Tragedia.”
“Quale Tragedia?”
“È una lunga storia.”
Baltimore.
Anni Novanta.
I momenti di grande felicità che vivevo con i Goldman di Baltimore erano controbilanciati due volte l’anno da giorni meno gioiosi, quando le nostre famiglie si riunivano per il Thanksgiving a Baltimore e per le vacanze d’inverno a Miami, in Florida, a casa dei nonni. Ai miei occhi, quegli appuntamenti famigliari somigliavano più a partite di football che a rimpatriate. Sul campo c’erano da un lato i Montclair e dall’altro i Baltimore: al centro i nonni Goldman, che presenziavano in veste di arbitri e contavano le reti.
Il Thanksgiving costituiva la consacrazione annuale dei Baltimore. La famiglia si riuniva nella loro immensa e lussuosa casa di Oak Park, dove tutto era organizzato alla perfezione dall’inizio alla fine. Con mia grande felicità, io dormivo nella stanza di Hillel, e Woody, che occupava la camera vicina, trascinava il suo materasso nella nostra, in maniera che non fossimo mai divisi, neanche durante il sonno. I miei genitori stavano in una delle stanze degli ospiti dotate di bagno, e i miei nonni in un’altra.
Era lo zio Saul ad andare a prendere i nonni all’aeroporto, e, nella prima mezz’ora che seguiva il loro arrivo nella casa dei Baltimore, la conversazione verteva sulla comodità della sua automobile. “Roba da non crederci,” esclamava Nonna, “è davvero fantastica! Lì sì che c’è un sacco di posto per le gambe. Ricordo che quando sono salita sulla tua macchina, Nathan [è mio padre], mi sono detta: ‘Mai più.’ E la sporcizia, buon Dio! Cosa ti costa darci una passata di aspirapolvere? Quella di Saul sembra nuova. La pelle dei sedili è perfetta, si capisce che le dedica un sacco di attenzioni.” Poi, quando non aveva più niente da dire sull’auto, si mostrava entusiasta della casa. Esplorava i corridoi come se fosse la prima volta che li vedeva e s’incantava per il buon gusto dell’arredamento, per la qualità dei mobili, per il pavimento riscaldato, per la pulizia, per i fiori, per le candele che profumavano le stanze.
Durante il pranzo di Thanksgiving, non si stancava di magnificare la perfezione delle pietanze. Ogni suo boccone era accompagnato da versi entusiasti. In effetti, il pasto era sontuoso: minestra di zucca alle castagne, morbido tacchino arrostito con sciroppo d’acero e salsa al pepe, maccheroni gratinati, pasticcio di zucca, purè di patate cremoso, bietole vellutate, fagiolini novelli. I dolci non erano da meno: mousse al cioccolato, dolce di ricotta, torta di noci pecan e torta di mele delicata e croccante. Dopo il caffè, zio Saul metteva in tavola alcune bottiglie di superalcolici, i cui nomi, all’epoca, non mi dicevano niente: ricordo però che Nonno prendeva in mano ogni bottiglia come se contenesse una pozione magica e ne decantava il nome, l’invecchiamento e il colore, mentre Nonna ribadiva il suo entusiasmo per la qualità del pranzo e, per estensione, della casa e della vita dei Baltimore, per poi arrivare al gran finale (sempre lo stesso): “Saul, Anita, Hillel e Woody, miei adorati: grazie, è stato tutto fantastico.”
Avrei tanto voluto che lei e Nonno venissero a stare qualche giorno a Montclair, per mostrar loro di cosa eravamo capaci. Dall’alto dei miei dieci anni, una volta gliel’avevo chiesto: “Nonna, perché tu e Nonno non venite a trovarci e vi fermate a dormire a Montclair, qualche volta?” Ma lei aveva risposto: “Tesoro, purtroppo non è possibile: la vostra casa non è abbastanza grande né abbastanza comoda.”
La seconda grande riunione annuale dei Goldman si svolgeva a Miami, in occasione delle feste di fine anno. Fino ai nostri tredici anni, i nonni Goldman avevano abitato in un appartamento abbastanza grande per ospitare entrambe le nostre famiglie; lì trascorrevamo una settimana tutti insieme, sempre a stretto contatto. Quei soggiorni in Florida mi davano l’opportunità di constatare la portata dell’ammirazione dei nonni per i Baltimore, quei formidabili alieni che, in fondo, non avevano niente in comune con il resto della famiglia. Percepivo con chiarezza i legami parentali tra mio nonno e mio padre. Si somigliavano fisicamente, avevano le stesse manie e soffrivano tutt’e due di colite spastica, a proposito della quale avevano discussioni interminabili. La colite spastica era uno degli argomenti di conversazione prediletti dal nonno. Nel mio ricordo, era dolce, distratto, tenero e soprattutto... stitico. Andava a defecare come si va alla stazione. Col giornale sottobraccio, annunciava: “Vado in bagno”. Dava a mia nonna un bacino di congedo sulle labbra e le diceva: “A presto, tesoro.”
Nonno si preoccupava che un giorno venissi colpito anch’io dal morbo dei “Goldman-non-di-Baltimore”: la famigerata colite spastica. Mi faceva promettere di mangiare alimenti ad alto contenuto di fibra e di non trattenermi mai quando sentivo di dover fare “i bisogni grossi”. Al mattino, mentre Woody e Hillel si rimpinzavano di cereali zuccherati, lui mi costringeva a ingozzarmi di All-Bran. Ero l’unico che fosse obbligato a mangiarli, a conferma del fatto che i Baltimore dovevano essere dotati di enzimi supplementari che mancavano ai Montclair. Nonno mi parlava dei futuri problemi di digestione che avrei avuto per discendenza paterna: “Mio povero Marcus, tuo padre ha un colon come il mio. Vedrai, toccherà anche a te. Mangia molte fibre, figliolo, è la cosa più importante. Devi cominciare adesso per educare l’organismo.” Si metteva dietro di me mentre m’ingozzavo di All-Bran e poggiava sulla mia spalla una mano carica d’empatia. Ovviamente, a forza di ingurgitare grandi quantità di fibre, passavo intere ore in bagno e, quando ne uscivo, incrociavo il suo sguardo che sembrava dirmi: “Ce l’hai, ragazzo mio. Sei fregato.” La faccenda del colon mi impressionava molto. Consultavo sistematicamente le enciclopedie mediche della biblioteca municipale, cercando con apprensione i primi sintomi della malattia. Mi dicevo che, se non ce l’avevo, forse quell’assenza derivava dal fatto che ero diverso – diverso come un Baltimore. Poiché, in fondo, se i miei nonni non rinnegavano mio padre, quello che onoravano era zio Saul. E io ero figlio dell’uno, ma spesso rimpiangevo di non essere figlio dell’altro.
L’incrociarsi dei Montclair e dei Baltimore era per me il rivelatore del profondo fossato che separava le mie due vite: quella ufficiale, da Goldman di Montclair, e quella confidenziale, da Goldman di Baltimore. Del mio secondo nome, Philip, conservavo l’iniziale, e sui quaderni di scuola e sui compiti scrivevo “Marcus P. Goldman”. Poi aggiungevo un occhiello alla P e diventavo Marcus B. Goldman. Ero il P che ogni tanto diventava un B. E la vita, come per darmi ragione, mi faceva degli strani scherzi: solo a Baltimore mi sentivo uno di loro. Quando con Hillel e Woody andavamo in giro per il quartiere, gli agenti della vigilanza ci salutavano e ci chiamavano per nome. Invece, quando arrivavo a Baltimore con i miei genitori per festeggiare il Thanksgiving, ricordo che la vergogna mi assaliva già al momento di imboccare le prime strade di Oak Park con quella macchina che fin dai paraurti denunciava la nostra non-appartenenza alla dinastia dei Goldman locali. Appena incrociavamo una pattuglia della sorveglianza, io facevo il cenno segreto degli iniziati, e mia madre, che non capiva, mi rimproverava: “Markie, la smetti di comportarti da scemo e fare gesti stupidi a quegli agenti?”
Il massimo dell’orrore era quando ci perdevamo dentro Oak Park, dove era facile confondersi per via delle strade circolari. Mia madre s’innervosiva, mio padre si fermava in mezzo a un incrocio, e si mettevano a discutere sulla direzione da prendere, finché non sbucava una pattuglia per vedere cosa si stesse tramando in quel trabiccolo ammaccato, e dunque sospetto. Mio padre spiegava i motivi della nostra presenza là, mentre io facevo il segnale della confraternita segreta per non far pensare all’agente che tra quei due sconosciuti e me potesse sussistere un qualsivoglia nesso di parentela. Di solito, l’agente si limitava a indicarci la strada, ma a volte, sospettoso, ci scortava fino alla casa dei Goldman, per accertarsi delle nostre buone intenzioni. Vedendoci arrivare, zio Saul usciva subito.
“Buonasera, signor Goldman,” diceva l’agente. “Mi spiace disturbarla. Volevo solo assicurarmi che queste persone fossero effettivamente attese a casa sua.”
“Grazie, John,” replicava zio Saul, pronunciando il nome scritto sulla targhetta, perché chiamava sempre le persone col nome che leggeva lì: al ristorante, al cinema, al casello dell’autostrada. “Sì, sono miei ospiti. Grazie, va tutto bene.”
Diceva: “Va tutto bene.” Non rispondeva: “John, razza di cafone, come hai potuto mostrarti sospettoso nei confronti del mio sangue, della carne della mia carne, del mio adorato fratello?” Lo zar avrebbe fatto impalare qualsiasi guardia che avesse trattato in quel modo i membri della sua famiglia. A Oak Park, invece, zio Saul si congratulava con John proprio come si premia un bravo cane da guardia perché ha abbaiato, per essere certi che abbaierà sempre. Poi quando l’agente si allontanava, mia madre diceva: “Sì, sì, bravo, si tolga dai piedi. Come ha visto non siamo delinquenti”, mentre mio padre la implorava di star zitta e non farsi notare. Eravamo solo degli ospiti.
Nel patrimonio dei Baltimore c’era soltanto una casa che si salvava dalla contaminazione dei Montclair: la residenza estiva negli Hamptons, dove i miei genitori avevano sempre avuto il buon gusto di non andare – quantomeno in mia compagnia. Per chi non sappia cosa sono diventati gli Hamptons a partire dal 1980, si trattava di un angolino modesto e tranquillo in riva all’oceano, alle porte di New York, poi trasformato in uno dei luoghi di villeggiatura più esclusivi della East Coast. La casa degli Hamptons aveva quindi conosciuto diverse vite successive, e zio Saul non si stancava mai di raccontare che, quando aveva comprato per un tozzo di pane quella piccola bicocca di legno a East Hampton, tutti l’avevano preso in giro, dicendogli che era il peggior investimento che potesse mai fare. Non tenevano conto del boom di Wall Street degli anni Ottanta, che annunciava l’inizio del periodo d’oro di una generazione di agenti di Borsa: i nuovi patrimoni avevano preso d’assalto gli Hamptons, la regione si era improvvisamente imborghesita e il valore dell’immobile era decuplicato.
Io ero troppo piccolo per potermene ricordare, ma mi hanno raccontato che la casa aveva beneficiato di varie migliorie in virtù dei crescenti successi di zio Saul come avvocato, finché non era stata abbattuta per far posto a una nuova residenza, splendida, ricca di fascino e di comodità. Spaziosa, luminosa, elegantemente tappezzata d’edera, con una terrazza cinta da cespugli di ortensie blu e bianche sul retro, una piscina e un gazebo ricoperto di aristolochia, all’ombra del quale venivano serviti i pasti.
Dopo Baltimore e Miami, gli Hamptons erano la conclusione del trittico geografico annuale della Gang dei Goldman. Ogni anno, i miei genitori mi permettevano di trascorrervi tutto il mese di luglio. È lì, nella casa estiva degli zii, che ho passato le estati più felici della mia giovinezza in compagnia di Woody e Hillel. Ed è proprio lì che attecchirono i semi della Tragedia che li avrebbe colpiti. Nonostante tutto, conservo la memoria della felicità più assoluta di quei soggiorni: di quelle splendide estati, ricordo i giorni perfettamente uguali nei quali spirava il profumo dell’immortalità. Cosa facevamo lì? Vivevamo la nostra giovinezza trionfale. Andavamo a domare l’oceano. Inseguivamo le ragazze come se fossero farfalle. Andavamo a pescare. Andavamo in cerca di scogli per tuffarci nell’azzurro e misurarci con la vita.
Il nostro posto preferito era la proprietà di due persone adorabili, Seth e Jane Clark, una coppia di mezza età, senza figli, ricchissima – credo che lui fosse titolare di un fondo d’investimenti a New York –, con cui zio Saul e zia Anita avevano stretto amicizia nel corso degli anni. La loro proprietà, “Il Paradiso sulla Terra”, si trovava a un chilometro e mezzo dalla casa dei Baltimore. Era un posto favoloso: ricordo il parco pieno di verde, gli alberi di Giuda, i roseti e la fontana a cascata. Dietro la casa c’era una piscina a strapiombo su una spiaggia privata di sabbia bianca. I Clark ci lasciavano approfittare della loro proprietà a nostro piacimento, e noi eravamo sempre lì, a tuffarci nella piscina o a nuotare nell’oceano. C’era anche una barchetta ormeggiata a un pontile di legno, che utilizzavamo di tanto in tanto per esplorare la baia. Per ringraziare i Clark di quella enorme cortesia, spesso ci occupavamo dei lavoretti nella proprietà, soprattutto di giardinaggio, ambito nel quale eccellevamo per i motivi che spiegherò tra poco.
Negli Hamptons perdevamo il conto delle date e dei giorni. Forse è stato questo a ingannarmi: la sensazione che tutto sarebbe durato per sempre. Che noi saremmo durati per sempre. Come se in quel luogo magico, nelle strade e nelle case, le persone potessero sfuggire al tempo e ai suoi guasti.
Sulla terrazza di casa Baltimore ricordo il tavolo dove zio Saul organizzava quello che chiamava il suo “studio”. Proprio accanto alla piscina. Dopo aver fatto colazione, vi disponeva le sue pratiche, tirava fin lì il telefono e lavorava almeno fino a mezzogiorno. Senza tradire il segreto professionale, ci parlava dei casi ai quali stava lavorando. Le sue spiegazioni mi affascinavano. Gli chiedevamo come contasse di vincere il giudizio, e lui rispondeva: “Vincerò perché devo farlo. I Goldman non perdono mai.” Ci domandava come ci saremmo comportati al suo posto. Allora noi ci vedevamo come grandi principi del foro e snocciolavamo tutte le idee che ci passavano per la testa. Lo zio sorrideva, ci diceva che avevamo la stoffa dei bravi avvocati e che un giorno avremmo potuto lavorare nel suo studio. Già solo quel pensiero mi faceva sognare.
Qualche tempo dopo, trovandomi di passaggio a Baltimore, scoprii i ritagli di giornale riguardanti i processi preparati negli Hamptons, conservati con cura da zia Anita. Zio Saul aveva vinto. Tutta la stampa parlava di lui. Ricordo ancora alcuni titoli: “L’imbattibile Goldman”, “Saul Goldman, l’avvocato che non perde mai”, “Goldman colpisce ancora”.
In pratica, non aveva mai perso una causa. E la scoperta di quelle vittorie rinforzava sempre di più la passione che provavo per lui. Era il più grande degli zii e il più grande degli avvocati.
Era ormai l’imbrunire quando svegliai Duke, in piena siesta, per riportarlo dai suoi padroni. Si trovava bene a casa mia, e mi fece capire che non aveva molta voglia di andarsene. Dovetti trascinarlo fino alla mia macchina parcheggiata davanti al cancello e poi prenderlo in braccio per farlo accomodare nel bagagliaio. Dalla sua veranda, Leo mi osservava divertito. “Buona fortuna, Marcus. Sono sicuro che, se quella ragazza non vuole più vederla, significa che le vuole bene.” Guidai fino alla casa di Kevin Legendre e suonai al citofono.

3.

Coconut Grove, Florida.
Giugno 2010. Sei anni dopo la Tragedia.
Era l’alba. Ero seduto nella terrazza della casa dove ormai abitava mio zio, a Coconut Grove. Da quattro anni si era trasferito lì.
Arrivò senza far rumore, e io trasalii quando mi disse:
“Già sveglio?”
“Buongiorno, zio Saul.”
Portava due tazze di caffè e ne mise una davanti a me. Notò i miei fogli fitti di appunti. Stavo scrivendo.
“Di cosa parla il tuo nuovo romanzo, Markie?”
“Non posso dirtelo, zio. Mi hai già fatto questa domanda ieri.”
Lui sorrise. Per alcuni momenti mi guardò scrivere. Poi, prima di andarsene, mentre s’infilava la camicia nei pantaloni e stringeva la cintura, mi chiese, in tono solenne:
“Un giorno finirò in uno dei tuoi libri, vero?”
“Certo,” gli risposi.
Mio zio aveva lasciato Baltimore nel 2006, due anni dopo la Tragedia, per andare a vivere in quella casa modesta ma signorile nel quartiere Coconut Grove, nella zona sud di Miami. Aveva una piccola terrazza circondata da alberi di mango e di avocado che ogni anno erano più carichi di frutti e che, quando il caldo si faceva insopportabile, regalavano una piacevole frescura.
Il successo dei miei romanzi mi dava la libertà di andare a trovare mio zio ogni volta che volevo. La maggior parte delle volte ci andavo in macchina. Partivo da New York di punto in bianco: in qualche occasione decidevo quel mattino stesso. Infilavo alcuni indumenti in uno zaino, che buttavo sul sedile posteriore, e partivo. Imboccavo l’autostrada I-95, la percorrevo fino a Baltimore e poi continuavo la mia discesa verso il Sud per arrivare in Florida. Il viaggio durava due giorni interi, con una tappa a metà strada, nei pressi di Beaufort, nel South Carolina, in un albergo dove ormai potevo dirmi un cliente abituale. D’inverno, lasciavo una New York spazzata da venti polari, con la macchina coperta di neve, indossando un maglione pesante e stringendo con una mano un bicchierone di caffè bollente e con l’altra il volante. Il tempo di discendere la costa e mi ritrovavo nell’afa dei 30 gradi di Miami, dove la gente, in maglietta, si crogiolava nel sole splendente dell’inverno tropicale.
A volte prendevo l’aereo e noleggiavo un’auto all’aeroporto di Miami. Il viaggio durava un decimo rispetto a quello in macchina, ma l’emozione che provavo arrivando a casa di zio Saul era meno intensa. L’aereo frenava la mia libertà con gli orari di volo, i regolamenti delle compagnie aeree, le code interminabili e le inutili attese dovute alle procedure di sicurezza che affliggevano gli aeroporti dopo gli attentati dell’11 settembre. Al contrario, avvertivo una sensazione di enorme libertà quando, al mattino del giorno prima, avevo deciso molto semplicemente di salire in macchina e guidare ininterrottamente verso il Sud. Partivo quando volevo, mi fermavo quando ne avevo voglia. Diventavo padrone del ritmo e del tempo. Lungo le migliaia di chilometri di quell’autostrada che conoscevo a memoria, non mi stancavo mai della bellezza del paesaggio e non smettevo di stupirmi delle dimensioni di quel paese, che sembrava non finire mai. E, infine, ecco la Florida, poi Miami, poi Coconut Grove, poi la strada dello zio. Quando arrivavo davanti a casa sua, lo trovavo seduto in veranda. Mi aspettava. Senza che gli avessi annunciato il mio arrivo, mi aspettava. Fedelmente.
Mi trovavo a Coconut Grove da due giorni. Come sempre ero giunto all’improvviso, e zio Saul, vedendomi arrivare, mi aveva abbracciato, felice che fossi venuto a interrompere la sua solitudine. Avevo stretto con forza al petto quell’uomo sconfitto dalla vita. Avevo accarezzato con la punta delle dita il tessuto della sua camicia dozzinale e, chiudendo gli occhi, avevo inalato il suo profumo squisito, l’unica cosa che non avesse cambiato. Ritrovando quell’odore, mi ero immaginato sulla terrazza della lussuosa casa di Baltimore, o sulla veranda della residenza estiva negli Hamptons, ai tempi della gloria. Avevo immaginato accanto a lui la splendida zia Anita, e Woody e Hillel, i miei due meravigliosi cugini. Grazie a un semplice sentore di profumo, ero tornato nell’intimità dei miei ricordi, nel quartiere di Oak Park, e, per un istante, avevo rivissuto la felicità di averli frequentati.
A Coconut Grove passavo le giornate a scrivere. Era l’unico posto dove trovassi la giusta tranquillità per lavorare. Mi rendevo conto che, pur vivendo a New York, là non avevo mai scritto davvero. Avevo sempre avuto bisogno di andare altrove, di isolarmi. Lavoravo in terrazza, se c’era fresco; se faceva troppo caldo, invece, scrivevo nella frescura dell’aria condizionata nella stanza degli ospiti che zio Saul aveva appositamente adibito a studio per me.
Di solito, verso mezzogiorno facevo una pausa e arrivavo fino al supermercato per scambiare quattro chiacchiere con lui. Gli piaceva che andassi a trovarlo lì. All’inizio ebbi qualche difficoltà: ero imbarazzato. Ma sapevo quanto gli facessero piacere le mie visite. Ogni volta che arrivavo, avvertivo una piccola fitta al cuore. Quando le porte automatiche si aprivano davanti a me, lo vedevo alla cassa, occupato a suddividere nei sacchetti gli acquisti dei clienti, in base al peso e alla natura più o meno deperibile dei prodotti. Indossava il grembiule verde dei dipendenti, con una targhetta sulla quale era scritto il suo nome: “Saul”. Sentivo i clienti dirgli: “Grazie mille, Saul. Buona giornata.” Era sempre gioviale, di umore sereno. Per mostrarmi, aspettavo che non fosse più occupato, e a quel punto vedevo il suo viso illuminarsi. “Markie!” esclamava felice, ogni volta come se fosse la mia prima visita.
Si voltava verso la cassiera e diceva: “Guarda, Lindsay, quello è mio nipote Marcus.”
La cassiera mi guardava come una bestia rara, prima di chiedermi:
“Sei tu il famoso scrittore?”
“È lui!” rispondeva zio Saul in vece mia, come se fossi il presidente degli Stati Uniti.
Lei mi faceva una specie d’inchino e prometteva di leggere il mio libro.
Gli impiegati del supermercato erano affezionati a zio Saul, e, quando arrivavo, lui trovava sempre qualcuno che lo sostituisse. A quel punto, mi portava a fare il giro dei colleghi nei vari reparti. “Tutti vogliono salutarti, Markie. Alcuni hanno portato una copia del libro per farsela dedicare. Non ti dispiace, vero?” Io mi prestavo sempre volentieri. Concludevamo la visita davanti al bancone del bar, dove lavorava un ragazzo che lo zio aveva preso in simpatia, un nero alto come una montagna e dolce come una fanciulla, che si chiamava Sycomorus.
Sycomorus aveva più o meno la mia età. Sognava di diventare cantante e aspettava la gloria preparando centrifughe vegetali rivitalizzanti. Appena ne aveva l’occasione, si chiudeva nello spogliatoio e si filmava col cellulare, canticchiando motivetti alla moda e schioccando le dita; poi condivideva quei video sui social, per attirare l’attenzione del resto del mondo sul suo talento. Sognava di partecipare a un concorso televisivo intitolato Canta!, trasmesso da un’emittente nazionale, nel quale gareggiavano cantanti che speravano di sfondare e diventare famosi.
In quei primi giorni del giugno 2010, zio Saul lo aiutava a preparare i moduli di partecipazione al programma, accompagnati da registrazioni video. Si trattava di liberatorie e di diritti d’immagine, e Sycomorus non ci capiva niente. I suoi genitori non condividevano la sua smania di celebrità. Evidentemente non avevano nulla di meglio da fare, poiché passavano le giornate venendo a trovarlo sul posto di lavoro, per preoccuparsi del suo futuro. Si aggrappavano al bancone delle centrifughe e, tra un cliente e l’altro, il padre sgridava il figlio mentre la madre cercava di mediare.
Il padre era un tennista fallito. La madre aveva coltivato il sogno di diventare attrice. Lui avrebbe voluto che il figlio diventasse un campione di tennis; lei avrebbe desiderato che diventasse un grande attore. A sei anni, Sycomorus era stato un forzato dei campi da tennis e aveva partecipato come comparsa a una pubblicità di yogurt. A otto anni, non sopportando più il tennis e avendo giurato di non toccare una racchetta nella vita, aveva fatto la spola da un casting all’altro insieme alla madre, in cerca del ruolo che lanciasse la sua carriera di attore-bambino. Ma quel ruolo non era mai arrivato e adesso, senza diploma né formazione, Sycomorus preparava centrifughe salutistiche.
“Più penso alle tue storie di trasmissioni televisive, e più mi dico che sono delle gran cretinate,” ripeteva il padre.
“Tu non capisci, papà. Questa trasmissione sarà il trampolino di lancio della mia carriera.”
“Tsss, ti coprirà di ridicolo e basta! A che ti serve andare a fare una figuraccia in televisione? A te non è mai piaciuto cantare. Dovevi diventare un giocatore di tennis. Ne avevi tutte le qualità. Ma purtroppo tua madre ti ha impigrito.”
“Ma papà...” supplicava Sycomorus, che cercava disperatamente la comprensione del padre, “tutti parlano di quella trasmissione.”
“Lascialo in pace, George, se il suo sogno è quello...” interveniva teneramente la madre.
“Sì, papà! La canzone è la mia vita.”
“Mettere verdure in una centrifuga, ecco cos’è la tua vita. Dovevi diventare un campione di tennis. Hai rovinato tutto.”
Di solito, a quel punto Sycomorus scoppiava a piangere. Per calmarsi, sfilava da sotto il bancone il raccoglitore che si portava ogni giorno da casa e in cui conservava una collezione di articoli su Alexandra Neville – pezzi che aveva meticolosamente selezionato, schedando tutti i fatti che la riguardavano e che riteneva degni di interesse. Per Sycomorus, Alexandra era il modello da seguire, la sua ossessione. In fatto di musica, si ispirava soltanto a lei. La sua carriera, le sue canzoni, il suo modo di interpretarle nei concerti: ai suoi occhi, Alexandra era la perfezione assoluta. Aveva seguito tutte le sue tournée, dalle quali era tornato con magliette-ricordo adolescenziali che indossava regolarmente. “Se so tutto di lei, forse riuscirò a fare una carriera come la sua,” diceva. Ricavava il materiale riguardante Alexandra dai tabloid, che leggeva avidamente e da cui, nel tempo libero, ritagliava con cura gli articoli.
Sycomorus si consolava sfogliando le pagine del raccoglitore e si immaginava di diventare una star. La madre, col cuore a pezzi, lo consolava:
“Leggi quegli articoli, tesoro mio. Ti consolerà.”
Sycomorus lasciava vagare lo sguardo sulle pagine plastificate del raccoglitore, sfiorandole con la punta delle dita.
“Mamma, un giorno sarò come lei...” diceva.
“Lei è bionda e bianca,” diceva stizzito il padre. “Vuoi essere una ragazza bianca?”
“No, papà, voglio essere famoso.”
“È proprio questo il problema: tu non vuoi diventare un cantante, vuoi essere famoso.”
Su quel punto, il padre di Sycomorus non aveva torto. In passato, le celebrità americane erano astronauti e scienziati. Oggi, invece, sono persone che non fanno niente e passano il tempo a fotografarsi, a immortalare se stesse da tutte le parti o a trasmettere ai posteri il piatto che hanno davanti. Mentre il padre discuteva col figlio, la fila dei clienti in attesa di una centrifuga rivitalizzante si spazientiva. A quel punto la madre tirava per la manica il marito:
“Adesso smettila, George,” lo rimproverava. “Finirà licenziato per colpa delle tue scenate. Vuoi che tuo figlio perda il lavoro per colpa tua?”
Il padre si aggrappava al bancone con un gesto disperato e mormorava al figlio un’ultima richiesta, come se non si fosse accorto dell’evidenza:
“Promettimi solo una cosa. Qualunque cosa succeda, ti prego, non diventare mai finocchio.”
“Te lo prometto, papà.”
Poi i genitori andavano a gironzolare tra le grandi corsie del supermercato.
In quel periodo, Alexandra Neville era in tournée, e si sarebbe esibita all’American Airlines Arena di Miami, un evento di cui i dipendenti del supermercato erano informati poiché Sycomorus, che era riuscito a procurarsi un biglietto per il concerto, aveva appeso nello spogliatoio un foglio con il conto alla rovescia dei giorni che mancavano alla fatidica data, da lui ribattezzata “Alexandra Day”.
Qualche giorno prima del concerto, mentre ci godevamo il fresco del crepuscolo sulla terrazza della casa di Coconut Grove, zio Saul mi chiese:
“Marcus, potresti combinare un incontro tra Sycomorus e Alexandra?”
“Impossibile.”
“Siete ancora in freddo?”
“È da anni che non ci parliamo più. E anche se volessi, non saprei come contattarla.”
“Devo farti vedere cos’ho trovato mentre mettevo in ordine,” disse zio Saul, alzandosi dalla sedia.
Sparì per qualche istante e tornò con una foto. “Era tra le pagine di un libro che apparteneva a Hillel,” mi spiegò. Era la famosa fotografia di Woody, Hillel, Alexandra e me, adolescenti a Oak Park.
“Cosa è successo tra Alexandra e te?” chiese zio Saul.
“Lascia perdere,” risposi.
“Markie, tu sai quanto io apprezzi la tua presenza qui. Ma certe volte mi preoccupo. Dovresti uscire di più, svagarti. Avere un’amichetta...”
“Non preoccuparti, zio Saul.”
Gli tesi la foto per restituirgliela.
“No, tienila tu,” mi disse. “Dietro c’è scritto qualcosa.”
Girai la foto e riconobbi la scrittura. Alexandra aveva scritto: Vi amo, Goldman.

4.

A Boca Raton, in quel marzo 2012 in cui ritrovavo Alexandra, cominciai a rubare ogni mattina il suo cane, Duke. Lo conducevo a casa mia, dove passava tutta la giornata accanto a me, e la sera lo riportavo nella villa di Kevin Legendre.
Il cane si trovava così bene con me che, a un certo punto, cominciò ad aspettarmi davanti alla cinta della proprietà di Kevin. Io arrivavo la mattina presto e lo trovavo già lì, accucciato a sbirciare la strada in attesa della mia venuta. Appena scendevo dalla macchina, mi si precipitava addosso e manifestava la sua gioia tentando di leccarmi la faccia mentre mi chinavo per accarezzarlo. Quando aprivo il baule, lui saltava allegramente dentro, e ce la svignavamo a gran velocità per passare la giornata insieme, a casa mia. Poi, non riuscendo più a resistere all’attesa, Duke cominciò a venire da solo. Ogni giorno, alle sei, si annunciava uggiolando davanti alla mia porta, con una puntualità che nessun umano potrebbe mai avere.
Insieme ci divertivamo un sacco. Gli comprai tutto l’armamentario dei cani felici: palline di gomma, balocchi da mordicchiare, cibo, ciotole, biscottini, plaid per farlo riposare comodo. Al tramonto lo riportavo a casa, e lì ritrovavamo, tutt’e due con la stessa gioia, Alexandra.
Dapprima quegli incontri furono brevi. Alexandra mi ringraziava, si scusava per il disturbo e mi congedava, senza neanche invitarmi a entrare.
Una sera, però, lei non era in casa. E ad accogliere me e a riprendersi Duke fu quel guastafeste tutto muscoli di Kevin. “Alex non c’è,” mi disse, in tono amichevole. Quando stavo per andarmene, dopo avergli chiesto di salutarla da parte mia, mi propose di restare a cena con lui. Accettai. E devo proprio dire che passammo una serata molto piacevole. Kevin aveva qualcosa di particolarmente simpatico: un inatteso lato da bravo padre di famiglia, in procinto di mettersi in pensione a trentasette anni con qualche milione sul conto in banca! Avrebbe portato i figli a scuola, allenato la loro squadra di football, organizzato dei barbecue per i compleanni. Quello che non faceva un tubo era lui, non io.
Quella sera, giustappunto, mi spiegò che si era infortunato alla spalla e che era indisponibile per le partite della squadra. Di giorno, faceva riabilitazione; la sera preparava bistecche, guardava la televisione, dormiva. Ritenne opportuno informarmi che Alexandra gli faceva dei massaggi divini, che lo rilassavano splendidamente. Poi mi sciorinò l’inventario di tutti i movimenti che gli procuravano dolore e ritornò a parlarmi dei suoi esercizi di fisioterapia. Era un uomo semplice nel vero senso della parola, e io mi chiesi cosa potesse mai trovare Alexandra in lui.
Mentre le bistecche grigliavano, propose di ispezionare la siepe per scoprire come Duke riuscisse a scappare. Lui controllò la prima metà della siepe, io la seconda. Trovai quasi subito l’enorme buca che il cane aveva scavato nel prato per oltrepassare la barriera, ma ovviamente non ne parlai a Kevin. Gli dissi che la mia metà della siepe era intatta – il che non era una bugia –, lui mi confermò che era così anche per la sua, e ce ne andammo a mangiare le nostre bistecche. Era turbato dalle evasioni di Duke.
“Non capisco perché lo faccia. È la prima volta. Quel cane, per Alex, è tutta la vita. Ho paura che finisca investito da qualche macchina.”
“Quanti anni ha?”
“Otto. Sono molti per un cane di quella stazza.”
Feci mentalmente il conto. Otto anni: significava che Alexandra aveva comprato Duke subito dopo la Tragedia.
Bevemmo qualche birra. Soprattutto lui. Io, perlopiù, le versavo discretamente sul prato per spingerlo ad aprirne altre e scolarsele. Avevo bisogno di scioglierlo. A un certo punto affrontai l’argomento Alexandra, e, con la complicità dell’alcol, Kevin si confidò.
Mi disse che stavano insieme da quattro anni. L’inizio della loro relazione risaliva alla fine del 2007.
“All’epoca, giocavo per i Predators di Nashville, dove abitava lei. Avevamo un’amica in comune, ed era da molto che cercavo di sedurla. Poi, la notte di San Silvestro, ci siamo trovati alla stessa cena, a casa di quell’amica, e lì è cominciato tutto.”
Mi venne voglia di vomitare già solo a immaginare i loro primi sollazzi in una notte di Capodanno con troppi brindisi.
“Il classico colpo di fulmine, immagino,” dissi io, per fare il cretino.
“No, all’inizio è stata dura,” replicò Kevin, con commovente sincerità.
“Davvero?”
“Sì. Apparentemente ero la sua prima storia dopo che aveva rotto col tizio con cui stava prima. Non mi ha mai voluto parlare di lui. Dev’essere successo qualcosa di grave. Ma ignoro cosa. Non mi va di assillarla. Un giorno, quando sarà pronta, me lo racconterà.”
“Lo amava?”
“Il tizio di prima? Da morire, credo. Ho pensato che non sarei riuscito a farglielo dimenticare. Non ne parlo mai. Adesso tutto funziona alla perfezione, e preferisco non riaprire le ferite del passato.”
“Hai ragione. Quel tizio era sicuramente un fesso.”
“Non ne ho idea. Non mi piace giudicare le persone che non conosco.”
Kevin era di una correttezza insopportabile. Ingollò un sorso di birra e io gli feci la domanda che mi tormentava di più.
“Tu e Alexandra avete mai pensato di sposarvi?”
“Gliel’ho proposto. Due anni fa. Ha pianto. Non di gioia, diciamo così. Ho capito che voleva dirmi: ‘Non è il momento.’”
“Mi spiace, Kevin.”
Posò cordialmente la sua grossa mano sul mio braccio.
“Io amo quella ragazza,” disse.
“Si vede,” replicai.
Provai un senso di improvvisa vergogna all’idea di intrufolarmi in quel modo nella vita di Alexandra. Mi aveva chiesto di girare alla larga, e io mi ero affrettato a simpatizzare col suo cane e a familiarizzare con il suo amichetto.
Me ne andai prima che tornasse.
Mentre giravo la chiave della porta di casa, udii la voce di Leo: era seduto sulla sua veranda, nascosto dall’oscurità.
“Ha disertato la nostra partita a scacchi, Marcus,” mi disse.
Ricordai di avergli promesso che avremmo giocato al mio ritorno da casa di Kevin, senza immaginare che mi sarei fermato a cena.
“Le chiedo scusa, Leo. Me lo sono completamente scordato.”
“Niente di grave.”
“Le va di bere qualcosa?”
“Volentieri.”
Mi raggiunse e andammo a sederci in terrazza, con due bicchieri e una bottiglia di whisky. Fuori c’era un fresco delizioso; le rane del lago facevano cantare la notte.
“Quella fanciulla le ronza per la testa, eh?” mi disse Leo.
Annuii.
“Si nota così tanto?” domandai.
“Sì. Ho fatto qualche ricerca.”
“A proposito di cosa?”
“Di lei e Alexandra. Ebbene, è una cosa molto interessante: non c’è niente. E creda a me, che sto tutto il tempo su Google: è proprio quando non risulta niente che bisogna approfondire. Che succede, Marcus?”
“Mah, non lo so nemmeno io.”
“Non sapevo che fosse uscito con quell’attrice del cinema, Lydia Gloor. L’ho letto su Internet.”
“È stata una storia piuttosto breve.”
“È l’attrice che recita nel film tratto dal suo primo libro, vero?”
“Sì.”
“È successo prima o dopo Alexandra?”
“Dopo.”
Leo mi guardò con aria sospettosa.
“L’ha tradita con quell’attrice, è così? Alexandra e lei eravate felici. Con il successo si è montato un po’ la testa: ha visto quell’attrice che le sveniva davanti e ha rovinato tutto per il breve spasso di una notte di passione. Ho ragione?”
Sorrisi, divertito dalla sua immaginazione.
“No, Leo.”
“Su, Marcus, la smetta di tenermi sulla corda! Cos’è successo tra Alexandra e lei? E cos’è successo con i suoi cugini?”
Ponendomi quelle domande, Leo non ignorava che erano collegate. Non sapevo da dove cominciare. Di cosa dovevo parlare, prima? Di Alexandra o della Gang dei Goldman? Decisi di cominciare dai cugini, poiché, per raccontare di Alexandra, dovevo partire da loro.
Vi racconterò innanzitutto di Hillel, perché fu il primo. Eravamo nati nello stesso anno e, per me, lui era come un fratello, il cui genio consisteva in un misto di folgorante intelligenza e di innato senso della provocazione. Era un bambino magrissimo, ma il suo aspetto fisico era compensato da un’esuberanza terribile, unita a una sfacciataggine eccezionale. Ricordo ancora come mi difese, quando avevamo appena otto anni – all’epoca, Woody non era ancora entrato nelle nostre vite –, durante un soggiorno sportivo a Reading, in Pennsylvania, dove zio Saul e zia Anita l’avevano mandato a passare le vacanze di primavera per favorire il suo sviluppo fisico, e dove io l’avevo accompagnato per dovere di fratellanza. Oltre che per il piacere della sua compagnia, credo che fossi andato lì per proteggere Hillel da eventuali bulli, dato che a scuola era l’abituale capro espiatorio dei compagni per via della sua piccola statura. Ma non sapevo che il campo di Reading era organizzato per i ragazzini mingherlini, malformati o convalescenti, e così mi ritrovai in mezzo a una comitiva di sgorbi e orbi, al cui confronto sembravo un dio greco – e ciò mi portò a essere sempre designato d’ufficio dagli istruttori per iniziare gli esercizi, mentre tutti gli altri si guardavano la punta delle scarpe.
Il secondo giorno fu dedicato agli esercizi agli attrezzi. L’istruttore ci radunò davanti ad anelli, travi, parallele e a una fila di smisurati pali verticali. “Cominceremo con un esercizio molto semplice: la pertica.” Indicò la serie di stanghe di almeno otto metri di altezza. “Ecco, dovete arrampicarvi uno alla volta. Poi, quando siete in alto, se ve la sentite, passate sulla pertica accanto e lasciatevi scivolare fino a terra, come fanno i pompieri. Chi vuole cominciare?”
Probabilmente si aspettava che ci precipitassimo verso i pali, ma restammo immobili.
“Avete qualche domanda?” chiese l’istruttore.
“Sì,” disse Hillel, alzando la mano.
“Ti ascolto.”
“Vuole davvero che ci arrampichiamo lassù?”
“Sì.”
“E se ci rifiutassimo?”
“Siete obbligati.”
“Obbligati da chi?”
“Da me.”
“In virtù di cosa?”
“Del fatto che sono l’istruttore e sono io a decidere.”
“Lei sa che i nostri genitori pagano per mandarci qui?”
“Sì, e allora?”
“Allora, tecnicamente, lei è un nostro dipendente e ci deve un’obbedienza totale. Volendo, potremmo persino chiederle di tagliarci le unghie dei piedi.”
L’istruttore guardò Hillel con un’espressione strana. Cercò di riprendere il controllo della situazione e ordinò, con un tono che si sforzò di rendere autoritario:
“Su, forza! Stiamo perdendo tempo. Qualcuno cominci.”
“Ha l’aria di essere pazzescamente alto,” continuò Hillel. “Quanto può essere? Sugli otto o dieci metri?”
“Credo di sì,” rispose l’istruttore.
“Come, crede?” si indignò Hillel. “Non conosce nemmeno i suoi attrezzi?”
“Adesso piantala, per favore. Visto che nessuno vuole cominciare, sceglierò qualcuno io.”
Ovviamente l’istruttore indicò me. Protestai, dicendo che toccava sempre a me cominciare, ma l’istruttore non volle sentir ragioni.
“Avanti,” mi ordinò, “arrampicati su quella pertica.”
“E perché non ci si arrampica lei?” intervenne di nuovo Hillel.
“Cosa?”
“Se vuole che qualcuno cominci, lo faccia lei.”
“Non ho alcuna intenzione di farmi dare ordini da un ragazzino,” ribatté l’istruttore.
“Ha paura di arrampicarsi?” chiese Hillel. “Io, al suo posto, l’avrei. Quegli affari hanno un’aria incredibilmente pericolosa. Sa, io non sono un tipo ipocondriaco, ma ho letto da qualche parte che una caduta da tre metri è sufficiente per spezzare la colonna vertebrale e paralizzare a vita. Chi vuol finire paralizzato per tutta la vita?” domandò a gran voce.
“Io no!” rispondemmo tutti, all’unisono.
“State zitti!” urlò l’istruttore.
“È sicuro di avere il diploma d’istruttore di educazione fisica?” chiese ancora Hillel.
“Certo che ce l’ho! Adesso piantala!”
“Saremmo tutti più tranquilli se ci mostrasse il diploma,” continuò Hillel.
“Non l’ho qui!” protestò l’istruttore, la cui sicurezza cominciava a sgonfiarsi come un palloncino.
“Non l’ha qui o non ce l’ha per niente?” lo incalzò Hillel.
“Il diploma! Il diploma!” cominciammo a gridare tutti.
Continuammo a scandire la nostra richiesta finché l’istruttore, non potendone più, si lanciò come una scimmia sulla pertica e si arrampicò per mostrarci di cos’era capace: evidentemente voleva impressionarci con un sacco di movimenti inutili. Poi successe proprio quello che doveva succedere: gli scivolarono le mani e cadde dalla cima della pertica – per la precisione, da sette metri e cinquanta. Si schiantò al suolo urlando in maniera straziante. Noi cercammo in tutti modi di consolarlo e soccorrerlo, ma i medici dell’ambulanza ci spiegarono che si era rotto entrambe le gambe e che non l’avremmo rivisto per l’intera durata del nostro soggiorno. Hillel venne espulso dal campo, e io con lui. Zia Anita e zio Saul vennero a prenderci e ci condussero all’ospedale della contea, affinché chiedessimo personalmente scusa al povero istruttore.
Hillel conobbe Woody un anno dopo quell’episodio. Ormai aveva nove anni, ma era ancora molto magro e molto basso, e continuava a essere lo zimbello dei compagni di scuola, che lo chiamavano Pulce. Gli altri alunni lo maltrattavano pesantemente tanto che dovette cambiare tre scuole in due anni. Ma ogni volta quelli del nuovo istituto lo tormentavano quanto i precedenti. Hillel sognava solo di poter condurre una vita normale, di avere degli amici nel quartiere e di vivere un’esistenza simile a quella dei coetanei. Aveva una passione assoluta: il basket. Gli piaceva da morire. A volte, nei week-end, telefonava ai suoi compagni di classe. “Pronto? Sono Hillel... Hillel. Hillel Goldman.” Ripeteva il proprio nome fino a quando, per farsi intendere, diceva: “Sono Pulce...” E l’altro, a volte senza cattive intenzioni, finalmente capiva. “Volevo chiederti se oggi pomeriggio vai a giocare a basket.” I suoi interlocutori rispondevano sempre di no: assolutamente no. Ma lui sapeva che mentivano. Riattaccava educatamente e, un’ora dopo, diceva ai genitori: “Esco per andare a giocare a basket con i miei amici.” Inforcava la bicicletta e sfrecciava via. Raggiungeva il campo, dove i suoi compagni, che non avrebbero dovuto esserci, c’erano, eccome. Lui non diceva niente, si sedeva sulla panca e sperava che lo facessero giocare. Ma nessuno voleva Pulce nella propria squadra. Più tardi se ne tornava a casa, triste, sforzandosi di mostrarsi sereno: non voleva che i genitori si preoccupassero per lui. Quando si mettevano a tavola, Hillel si presentava con indosso la maglietta di Michael Jordan, dalla quale sbucavano due braccia esili come fuscelli.
“Sei riuscito a giocare un po’, oggi?” gli chiedeva zio Saul.
Hillel scrollava le spalle.
“Bah. Gli altri dicono che non sono bravo.”
“Sono sicuro che giochi come un campione.”
“No, hanno ragione a dire che sono una schiappa. Ma se nessuno mi dà una possibilità, come faccio a migliorare?”
Per gli zii era difficile trovare una giusta via di mezzo tra essere iperprotettivi e lasciare che affrontasse da solo le difficoltà di quel mondo. Infine optarono per una scuola privata molto rinomata, quella di Oak Tree, vicinissima a casa loro.
La scuola li convinse subito. Vennero ricevuti dal preside, il signor Hennings, che li accompagnò a visitare le varie strutture, spiegando quanto fosse eccezionale il suo istituto: “La scuola di Oak Tree è una delle migliori del paese. Lezioni di livello superlativo, tenute da insegnanti selezionati in tutta la nazione, e programmi coordinati.” La scuola puntava molto sulla creatività: aveva laboratori di pittura, di musica, di ceramica, e vantava la pubblicazione di un settimanale curato interamente dagli alunni in una redazione dotata di attrezzature all’avanguardia. Il preside Hennings convinse definitivamente zio Saul e zia Anita intonando le prime note della sua miracolosa sinfonia per genitori disperati: “Bambini contenti, motivazione, orientamento, responsabilizzazione, reputazione, qualità... la cura del corpo e dello spirito, ogni tipo di sport, percorso a ostacoli per campioni d’equitazione.”
Non so come fece, ma Hillel riuscì a inimicarsi tutti gli alunni della scuola nel giro di pochi giorni. Forte di questa prodezza, arrivò poi ad alienarsi gran parte del corpo docente, evidenziando alcuni refusi nei libri di testo, riprendendo un insegnante per la pronuncia di una parola latina, infine ponendo domande ritenute inadatte alla sua età.
“Questo lo imparerai in terza,” gli disse una volta il professore.
“E perché non adesso, visto che glielo sto chiedendo?”
“Perché è così. Non è nel programma. E... il programma è il programma.”
“Forse il suo programma non è adatto alla classe.”
“Forse sei tu a non essere adatto alla classe, Hillel.”
Nei corridoi della scuola era impossibile non notarlo. Indossava camicie a scacchi abbottonate fino al collo, per nascondere la maglietta da basket che portava sempre sotto, nella speranza di poter un giorno realizzare il suo sogno: sbottonare la camicia, rivelarsi atleta invincibile e inanellare canestri tra gli “Evviva” dei compagni. Il suo zaino era pesante di libri che prendeva nella biblioteca municipale, e non si separava mai dal suo pallone da basket.
Bastò una settimana a Oak Tree perché la sua vita quotidiana diventasse un inferno. Fu preso subito di mira dal terrore della classe, un ciccione tarchiato di nome Vincent, ma che i compagni chiamavano Porco.
È pressoché impossibile stabilire chi diede inizio alle ostilità. Perché va subito detto che Porco, già solo per il soprannome, era il bersaglio degli scherzi degli altri ragazzini. In cortile, i compagni gli urlavano, tappandosi il naso: “Se puzza si sente, è perché Porco è presente!” Porco si avventava contro di loro per pestarli, ma tutti scappavano come un branco di zebù atterriti, e l’esemplare più debole, Hillel, finiva per essere acciuffato e pagare per gli altri. Di solito, Porco si limitava a torcergli un braccio, temendo di farsi sorprendere da un insegnante, e gli diceva: “Ci vediamo dopo, Pulce. Fatti bello, perché sarà la tua festa!” Finite le lezioni, Porco si precipitava al campo di basket vicino alla scuola, dove Hillel andava a fare qualche tiro, e lo pestava allegramente, mentre tutti gli alunni della classe correvano ad assistere allo spettacolo. Porco lo afferrava per il bavero, lo sbatteva a terra e lo riempiva di schiaffi, incoraggiato dagli applausi del pubblico.
A forza di acciuffare sempre e solo Hillel, Porco cominciò a martirizzarlo sistematicamente. Appena arrivato a scuola, lo afferrava e iniziava a tormentarlo. A quel punto, gli altri alunni presero a considerarlo una specie di paria. Dopo appena tre settimane, Hillel implorò la madre di ritirarlo da Oak Tree, ma zia Anita gli chiese di fare uno sforzo. “Hillel, tesoro, non è possibile cambiare scuola in continuazione. Se va avanti così e non riesci a integrarti in un ambiente scolastico, dovremo mandarti in un istituto specializzato...” Lo diceva con molta tenerezza e un pizzico di fatalismo. Hillel, che non voleva dispiacere la madre – e, soprattutto, non voleva finire in una scuola differenziata –, dovette rassegnarsi ai pestaggi quotidiani alla fine delle lezioni.
So che zia Anita lo portava a fare shopping cercando di ispirarsi ai bambini della sua età che conosceva, con la speranza di convincerlo a vestirsi in maniera più convenzionale. Lasciandolo a scuola la mattina, lo implorava: “Cerca di non metterti in mostra, d’accordo? E sforzati di fare amicizia con qualcuno.” Aggiungeva delle brioche alla sua merenda perché le desse ai compagni e si facesse benvolere. Lui le diceva: “Sai, mamma, non si possono comprare gli amici con qualche brioche.” Lei lo guardava con un’espressione piuttosto avvilita. Durante la ricreazione, Porco gli svuotava lo zaino per terra, raccoglieva le brioche e gliele ficcava tutte in bocca. La sera, zia Anita gli chiedeva: “I tuoi amici hanno gradito le brioche?” “Molto, mamma.” L’indomani, la zia aggiungeva ancora più brioche alla sua merenda, non sapendo che così condannava il figlio ad autentici miracoli di elasticità orale. Lo spettacolo raggiunse rapidamente una popolarità fenomenale: gli alunni si radunavano intorno a Hillel nel cortile della ricreazione per vedere Porco infilargli in gola una mezza dozzina di brioche. E tutti urlavano: “Mangia! Mangia! Mangia! Mangia!” Attirato dal baccano, un professore finì per affibbiare un brutto voto a Hillel e scrisse nel suo libretto personale di valutazione: “Ha il senso dello spettacolo, ma non quello della condivisione.”
Zia Anita manifestò le sue preoccupazioni al pediatra che seguiva Hillel.
“Dottore, dice che non gli piace la scuola. Di notte dorme male, e poi mangia pochissimo. Ho la sensazione che non sia felice.”
Il medico si voltò verso Hillel:
“È vero quello che dice tua madre, Hillel?”
“Sì, dottore.”
“Perché non ti piace la scuola?”
“Non si tratta della scuola: sono gli altri bambini.”
Zia Anita sospirò. “È sempre così, dottore. Dice che sono gli altri bambini. Ma gli abbiamo già cambiato scuola diverse volte...”
“Ti rendi conto che, se non fai uno sforzo per integrarti, finirai dritto in un istituto specializzato, Hillel?”
“No, in una scuola speciale... non voglio.”
“Perché?”
“Voglio andare in una scuola normale.”
“Allora dipende tutto da te, Hillel.”
“Lo so, dottore. Lo so.”
Porco lo riempiva di botte, lo derubava, lo umiliava. Gli faceva bere bottiglie piene di liquido giallastro, gli faceva lappare pozzanghere d’acqua putrida, gli spalmava fango sul viso. Lo sollevava come un fuscello, lo scuoteva come maracas e gli urlava: “Tu sei una pulce, una merda di cane, una faccia da stronzo!” Poi, quando esauriva il vocabolario, lo riempiva di pugni allo stomaco – colpi che gli mozzavano in respiro. Hillel era di una magrezza spaventosa, e Porco lo faceva volare in aria come un aeroplanino di carta, lo prendeva a cartellate, gli ammaccava la testa, gli torceva le braccia in mille direzioni e infine gli diceva: “Smetto solo se mi lecchi le scarpe.” Pur di farlo smettere, lui obbediva. Davanti a tutti i compagni si metteva a quattro zampe e leccava le suole di Porco, che approfittava dell’occasione per sferrargli un paio di calci in faccia. Una metà degli alunni rideva, mentre l’altra, in un attacco di frenesia, si precipitava su di lui e cominciava a pestarlo. Gli saltavano addosso, gli schiacciavano le mani, gli tiravano i capelli. Tutti con un’identica aspirazione: la propria incolumità. Finché Porco era occupato con Hillel, non se la prendeva con loro.
Finito lo spettacolo, se ne andavano tutti. “Se fai la spia, ti scanniamo!” sibilava Porco, gratificandolo di un ultimo sputo negli occhi. “Sì, ti scanniamo!” ripeteva il coro dei suoi adepti. Hillel restava a terra come uno scarabeo che qualcuno avesse rovesciato sul dorso; poi, passata la buriana, si alzava, prendeva il suo pallone e si dirigeva verso il campo da basket deserto. Tirava a canestro, giocava partite immaginarie, e tornava a casa per l’ora di cena. Quando zia Anita vedeva la sua faccia pesta e i suoi indumenti laceri, gridava, sgomenta: “Hillel, buon Dio, cosa ti è successo?” E lui, con un sorriso raggiante, nascondendo il suo dolore per non provocarne alla madre, rispondeva: “Oh niente. Abbiamo solo giocato una partita bestiale, mamma.”
A una trentina di chilometri da lì, nella zona est di Baltimore, Woody era ospite di un centro per l’infanzia disagiata, il cui direttore, Artie Crawford, era un vecchio amico di zio Saul e zia Anita. Entrambi svolgevano un servizio di volontariato lì: la zia organizzava visite mediche gratuite, mentre lo zio Saul aveva impiantato un servizio di assistenza legale per aiutare gli ospiti e le loro famiglie nelle questioni amministrative e procedurali.
Woody aveva la nostra età, ma era l’esatto contrario di Hillel: era molto più maturo e sviluppato fisicamente, e sembrava assai più grande. Lontanissime dalla tranquillità di Oak Park, le strade della zona est di Baltimore erano squassate da una criminalità esplosiva, con traffico di droga e violenza. Il centro per l’infanzia faticava a garantire la scolarizzazione dei bambini, che si lasciavano risucchiare dalle cattive amicizie e non resistevano al richiamo di una qualche gang come surrogato del nucleo famigliare di cui spesso erano privi. Woody era un bambino rissoso, ma non cattivo, facilmente influenzabile e subiva l’ascendente di un amico più grande, Devon, uno spacciatore di droga occasionale, tatuato, che nascondeva sempre una pistola nei boxer e si divertiva a mostrarla nell’oscurità di qualche vicolo.
Zio Saul conosceva Woody per esser dovuto intervenire più volte in suo favore. Era un bambino adorabile ed educato, ma passava le giornate ad azzuffarsi, e così finiva regolarmente in una qualche stazione di polizia. Allo zio piaceva perché si accapigliava sempre per una causa nobile: una nonnina insultata, un amico nei pasticci, un piccolo ospite del centro taglieggiato o maltrattato, ed eccolo andare a fare giustizia a suon di pugni. Ogni volta che era dovuto intervenire per lui, zio Saul era riuscito a convincere gli agenti a rilasciare Woody senza aprire alcun procedimento. Fino alla sera in cui Artie Crawford, il direttore del centro, gli telefonò piuttosto tardi per informarlo che Woody era finito di nuovo nei guai e che, stavolta, la faccenda era assai più grave: aveva picchiato un agente.
Zio Saul andò immediatamente alla stazione di polizia di Eastern Avenue, dov’era in custodia Woody. Per strada, si preoccupò persino di chiamare il vicecapo della polizia, che conosceva bene, per preparare il terreno: poteva rendersi necessario un intervento dall’alto per impedire che il fascicolo finisse nelle mani di qualche giudice zelante. Arrivato alla stazione di polizia, non trovò Woody in cella o ammanettato su una panca, bensì comodamente seduto in una saletta per gli interrogatori, intento a leggere un giornaletto bevendo cioccolata calda.
“Woody, va tutto bene?” chiese zio Saul, entrando nella stanza.
“Buonasera, signor Goldman,” disse il ragazzo. “Mi spiace che si sia disturbato per me. È tutto a posto, gli agenti sono molto gentili.”
Non aveva ancora dieci anni, eppure la sua struttura fisica era quella di un ragazzo di tredici o quattordici. I muscoli già ben disegnati e qualche virile ematoma sulla faccia. Quel tipetto aveva fatto sciogliere il cuore dei piedipiatti del quartiere, che ora gli preparavano anche una cioccolata calda.
“È così che li ringrazi?” replicò zio Saul, leggermente seccato. “Prendendoli a pugni in faccia? Ma dico, Woody, come ti è venuto in mente di picchiare un agente? Sai quanto può costarti?”
“Non sapevo che era un agente, signor Goldman. Giuro. Era in borghese.”
Woody raccontò di essere finito in una zuffa: mentre stava per riempire di botte tre tizi che avevano il doppio dei suoi anni, un agente in borghese era intervenuto per separarli e, nel trambusto, si era beccato un pugno che l’aveva steso.
In quel momento entrò nella saletta un ispettore: aveva un vistoso occhio nero.
Woody si alzò e lo abbracciò affettuosamente.
“Le chiedo ancora scusa, ispettore Johns: l’ho scambiata per uno di quei tre.”
“Be’, sono cose che possono succedere. Non parliamone più. Se un giorno ti servisse aiuto, puoi sempre farmi una telefonata. Tieni...”
L’ispettore gli porse il suo biglietto da visita.
“Significa che posso andarmene, ispettore?”
“Sì. Ma la prossima volta che una discussione volge in baruffa, chiama la polizia. Non cercare di risolverla da solo.”
“Promesso.”
“Vuoi un’altra cioccolata calda?” gli chiese l’ispettore.
“No, non vuole nessuna cioccolata,” sbottò zio Saul. “Insomma, ispettore, un po’ di dignità: le ha pur sempre mollato un pugno!”
Poi scortò Woody fuori dalla stanza e gli fece una ramanzina:
“Woody, devi renderti conto che rischi di ritrovarti in qualche guaio serio. Non ci saranno sempre dei piedipiatti gentili e degli avvocati servizievoli pronti a tirarti fuori dalla merda. Puoi finire in carcere, lo capisci?”
“Sì, signor Goldman. Lo so perfettamente.”
“Allora perché continui?”
“Dev’essere una specie di dono. Ho il dono della zuffa.”
“Be’, allora cercati un altro dono, per favore. Comunque, un moccioso della tua età non ha nessun motivo di andarsene in giro di notte. Di notte, tu dovresti dormire.”
“Non ci riesco. E poi non mi piace stare in quel centro. Avevo voglia di fare quattro passi.”
Arrivarono all’ingresso della stazione di polizia, dove li aspettava Artie Crawford.
Woody ringraziò di nuovo zio Saul:
“Lei è il mio salvatore, signor Goldman.”
“Stavolta non ti sono stato molto utile.”
“Però è sempre pronto a darmi una mano.”
Woody pescò sette dollari da una tasca e glieli porse.
“E questi cosa sono?” chiese zio Saul.
“Tutti i soldi che ho. È per pagarla. Per ringraziarla di avermi tirato fuori dalla merda.”
“Non si dice ‘merda’. E tu non hai bisogno di pagarmi.”
“Prima lei ha detto ‘merda’.”
“Non avrei dovuto. Mi spiace.”
“Il signor Crawford dice che, in un modo o nell’altro, bisogna sempre pagare le persone per i loro servizi.”
“Woody, tu vuoi davvero pagarmi?”
“Sì, signor Goldman. Lo vorrei tanto.”
“Allora cerca di non farti più arrestare. Sarà la mia paga più bella, il mio miglior onorario. Vederti tra dieci anni e sapere che studi in una buona università. Vedere un bel giovanotto realizzato e non un delinquente che magari ha trascorso metà della propria vita in un carcere minorile.”
“Lo farò, signor Goldman. Sarà fiero di me.”
“In nome del cielo, piantala di chiamarmi ‘Signor Goldman’. Chiamami Saul.”
“Sì, signor Goldman.”
“Su, adesso fila. E metti la testa a posto.”
Ma Woody era un marmocchio dotato di senso dell’onore. E voleva assolutamente ringraziare mio zio per il suo aiuto. Fu così che l’indomani si presentò nel suo studio.
“Perché non sei a scuola?” si arrabbiò zio Saul, vedendolo entrare nel suo ufficio.
“Volevo parlarle. C’è sicuramente una cosa che posso fare per lei, signor Goldman. Lei è stato così buono con me.”
“Considerala una spintarella da parte della vita.”
“Se vuole, posso tosare il suo prato.”
“Non ho affatto bisogno di qualcuno che mi tosi il prato.”
Woody insistette. L’idea di tagliare l’erba gli sembrava fantastica.
“Capisco, ma io lo farò in maniera impeccabile. Avrà un prato straordinario.”
“Il mio prato va benissimo così. Perché non sei a scuola?”
“Per colpa del suo prato, signor Goldman. Mi farebbe immensamente piacere tagliare il suo prato per ringraziarla della sua cortesia nei miei confronti.”
“Non è il caso.”
“Mi piacerebbe davvero, signor Goldman.”
“Woodrow, per favore, alza la mano destra e ripeti quello che sto per dire.”
“Sì, signor Goldman.”
Woody alzò la mano destra, e zio Saul declamò:
“Io, Woodrow Marshall Finn, giuro di non mettermi mai più nella merda.”
“Io, Woodrow Marshall Finn, giuro di non mettermi mai più nella... Aveva detto che non dovevo più dire ‘merda’, signor Gold.”
“Benissimo. Allora... Giuro che non mi caccerò più nei guai.”
“Giuro che non mi caccerò più nei guai.”
“Ecco fatto, mi hai pagato. Siamo pari. Adesso puoi tornare a scuola. Sbrigati.”
Woody borbottò, rassegnato. Non aveva voglia di tornare a scuola: voleva tosare il prato di zio Saul. Si avviò verso la porta strascicando i piedi, e a quel punto notò alcune foto su un mobile.
“È la sua famiglia?” chiese.
“Sì. Lei è mia moglie Anita, e lui è mio figlio Hillel.”
Woody prese una foto e osservò i volti che vi erano ritratti.
“Sono splendidi. Lei è un uomo fortunato.”
Proprio in quell’istante, la porta dell’ufficio si aprì, e zia Anita entrò precipitosamente, troppo sconvolta per notare Woody.
“Saul!” gridò, con gli occhi rossi per le lacrime. “A scuola l’hanno picchiato di nuovo! Dice che non vuole più tornarci. Non so cosa fare, ora.”
“Cos’è successo?”
“Dice che gli altri bambini lo prendono in giro. Dice che non vuole mai più andare da nessuna parte.”
“Gli abbiamo fatto cambiare scuola a maggio,” sospirò zio Saul. “E poi di nuovo in estate, per metterlo in questa. Non possiamo spostarlo di nuovo. Sarebbe un disastro.”
“Lo so... Oh, Saul, sono disperata!”

5.

A Boca Raton, in quei primi di marzo del 2012, la cena con Kevin mi riavvicinò ad Alexandra.
Nei giorni successivi, quando riportai Duke dopo le sue evasioni, lei mi permise di entrare in casa; poi arrivò addirittura a offrirmi da bere. Di solito si trattava di una bottiglietta d’acqua o una bibita in lattina, bevuta in piedi al centro della cucina, ma era già qualcosa.
“Grazie per l’altra sera,” mi disse un pomeriggio tardi, mentre eravamo soli. “Non so cos’hai fatto a Kevin, ma gli sei piaciuto molto.”
“Sono stato me stesso.”
Lei sorrise.
“Grazie di non avergli detto niente di noi. Tengo moltissimo a Kevin: non voglio che pensi che tra me e te c’è ancora qualcosa.”
Quelle parole mi provocarono una dolorosissima fitta al cuore.
“Kevin mi ha raccontato che hai rifiutato la sua proposta di matrimonio.”
“Non sono affari tuoi, Marcus.”
“Kevin è molto carino, ma credo che non sia la persona adatta a te.”
Mi pentii subito di aver detto quelle parole. Di cosa m’immischiavo? Alexandra si limitò a scrollare le spalle, poi ribatté:
“Tanto, tu hai Lydia.”
“Come sai di Lydia?” domandai.
“L’ho letto su una di quelle riviste stupide.”
“Stai parlando di una storia di quattro anni fa. Non stiamo più insieme da un pezzo... È stato un capriccio.”
Decisi di cambiare argomento e mostrai ad Alexandra la foto che avevo portato con me.
“Ricordi questa foto?”
Lei sorrise con nostalgia e accarezzò l’immagine con la punta delle dita.
“Chi avrebbe mai immaginato che saresti diventato uno scrittore famoso?” disse.
“E tu una popstar?”
“Senza di te non lo sarei mai diventata...”
“Smettila.”
Ci fu un silenzio. All’improvviso si rivolse a me chiamandomi con il nome che usava ai nostri tempi: Markie.
“Markie,” mormorò, “è da otto anni che mi manchi.”
“Anche tu. Ho seguito tutta la tua carriera.”
“Io ho letto i tuoi romanzi.”
“Ti sono piaciuti?”
“Sì. Molto. Spesso mi capita di rileggere qualche brano del tuo primo romanzo. Ci ritrovo i tuoi cugini. Ci ritrovo la Gang dei Goldman.”
Sorrisi. Guardai di nuovo la fotografia che tenevo tra le mani.
“Sembri affascinato da questa foto,” mi disse Alexandra.
“Non so se mi affascina o mi ossessiona.”
Rimisi la fotografia in tasca e me ne andai.
Mentre varcavo in macchina il cancello della proprietà di Kevin Legendre, non mi accorsi del furgone nero parcheggiato lungo la via, né dell’uomo che mi osservava da dietro il parabrezza.
Imboccai la strada, e lui mi seguì.
Baltimore, Maryland.
Novembre 1989.
Da quando Woody gliene aveva parlato, zio Saul continuava a pensare al suo desiderio di tosare il prato. Ci pensò soprattutto quando Artie Crawford andò a cena da loro e disse che faticava tremendamente per tenerlo a freno.
“Se non altro, gli piace la scuola,” disse Artie. “Gli piace imparare e ha una bella mente. Ma appena finiscono le lezioni, è capace di tutto, e non è possibile sorvegliarlo ventiquattr’ore su ventiquattro.”
“E i suoi genitori?” chiese zio Saul.
“La madre ha levato le tende molto tempo fa.”
“Si drogava?”
“No, per niente. Ha solo tagliato la corda: era giovane. E lo stesso ha fatto il padre. Prima ha pensato di poter educare il marmocchio, ma appena si è trovato un’amichetta seria, in casa è scoppiato l’inferno. Il bambino era pieno di rabbia, voleva picchiare tutti. È intervenuta l’assistente sociale, poi un giudice minorile. L’hanno mandato nel nostro centro. All’inizio doveva essere una faccenda momentanea, poi l’amichetta del padre si è fatta trasferire a Salt Lake City e lui ne ha approfittato per seguirla all’altro capo del paese, sposarla e farci dei figli. Woodrow è rimasto a Baltimore: non vuole saperne di Salt Lake. Ogni tanto si sentono per telefono. Il padre gli scrive saltuariamente. Ma la cosa che mi preoccupa di più è che Woodrow sta tutto il tempo con quel Devon, un delinquente da strapazzo che fuma crack e gira con una pistola.”
A quel punto, zio Saul pensò che se Woody, dopo le lezioni, fosse stato impegnato a tosare prati non avrebbe avuto tempo per bighellonare per le strade. Ne parlò con Dennis Bunk, un vecchio giardiniere che aveva una specie di monopolio della manutenzione dei giardini di Oak Park.
“Io non assumo nessuno, signor Goldman. Soprattutto delinquentelli di merda.”
“Woody è un ragazzino davvero in gamba.”
“È un delinquente.”
“Lei ha bisogno di aiuto, Dennis. Fa sempre più fatica a smaltire i carichi di lavoro.”
Zio Saul aveva ragione: Bunk non riusciva più a occuparsi di tutti i lavori ed era troppo tirchio per pagarsi un aiutante.
“Ma il salario chi glielo pagherà?” chiese Bunk, in tono rassegnato.
“Io,” rispose zio Saul. “Cinque dollari l’ora per lui, e due per lei, come formatore.”
Dopo un’ultima esitazione, Bunk accettò, puntando un dito minaccioso contro zio Saul.
“Ma la avverto: se quel moccioso mi sfascia l’attrezzatura o mi ruba qualcosa, sarà lei a pagare.”
Woody, però, non fece niente di tutto ciò. Accolse con entusiasmo la proposta di zio Saul di lavorare per Bunk.
“Mi occuperò anche del suo giardino, signor Goldman?”
“Qualche volta, forse. Ma soprattutto devi aiutare il signor Bunk. E obbedirgli.”
“Le prometto che lavorerò con impegno.”
Appena finiva le lezioni, Woody correva a prendere l’autobus e raggiungeva Oak Park. Bunk lo aspettava a bordo del suo camioncino in una strada accanto alla fermata dell’autobus, e da lì iniziavano il loro giro dei giardini.
Woody si dimostrò un aiutante serio e coscienzioso. Dopo qualche settimana, in Maryland arrivò l’autunno. Gli alberi centenari delle strade di Oak Park si tinsero di rosso e di giallo, prima di rovesciare nei vialetti una pioggia di foglie secche. Bisognava pulire i prati, preparare le piante per l’inverno e coprire le piscine.
In quelle stesse settimane, nella scuola di Oak Tree, Porco continuava a tormentare Hillel. Gli tirava pigne e sassi, lo aggrediva e lo costringeva a mangiare terriccio e resti di sandwich pescati nell’immondizia.
“Mangia! Mangia! Mangia!” scandivano allegramente gli altri ragazzini, mentre Porco gli tappava il naso per fargli aprire la bocca e ingurgitare. Appena recuperava la forza di essere spiritoso, Hillel lo ringraziava calorosamente: “Grazie di questo pranzo squisito. A mezzogiorno non avevo mangiato abbastanza.” E allora le botte ricominciavano a fioccare. Porco gli svuotava la cartella sul pavimento, gli gettava nella pattumiera libri e quaderni. Nel tempo libero, Hillel aveva iniziato a scrivere poesie su un quaderno, il quale finì inevitabilmente tra le mani di Porco, che gliene fece mangiare diverse pagine leggendo ad alta voce i versi, prima di bruciare quelle che restavano. Da quell’autodafé, Hillel riuscì a salvare una poesia, scritta per il suo amore segreto, Helena, una graziosa biondina che non si perdeva nessuno degli spettacoli di Porco. Hillel lo vide come un segno del destino e, preso il coraggio a due mani, offrì la sua composizione alla ragazzina. Lei fece alcune fotocopie e le appese nei corridoi della scuola. Quando la signora Chariot, la responsabile della redazione della rivista scolastica, ne trovò una, si complimentò con Helena per il suo talento di poetessa, le diede un bel voto e pubblicò il testo sul giornaletto firmandolo con il nome della piccola musa.
Il numero delle visite mediche di Hillel aumentava in modo inquietante – soprattutto per le continue infezioni alla bocca –, e zia Anita decise di andare a parlare con il preside Hennings.
“Preside, credo che mio figlio subisca dei maltrattamenti nella sua scuola,” gli disse.
“No, impossibile, a Oak Tree non viene maltrattato nessuno. Abbiamo dei sorveglianti, un regolamento, una carta della serena convivenza. Questa è una scuola felice.”
“Pressoché ogni giorno Hillel torna a casa con gli indumenti laceri e i quaderni strappati o scomparsi.”
“Deve imparare ad aver cura delle sue cose. Sa, se trascura i suoi quaderni, avrà un brutto voto sulla pagella.”
“Preside Hennings, mio figlio non trascura niente. Temo che sia lo zimbello di qualcuno. Non so cosa succeda in questo istituto, ma non è che paghiamo ventimila dollari l’anno per vedere nostro figlio tornare da scuola con la bocca infestata da germi e batteri. C’è qualcosa che non va, no?”
“Si lava bene le mani?”
“Sì, preside, le mani se le lava bene.”
“Perché sa, a quell’età, i bambini sono spesso dei porcellini.”
Vedendo che la conversazione non approdava a nulla, zia Anita, seccata, sbottò:
“Preside Hennings, mio figlio ha sempre la faccia piena di lividi. Non so più cosa fare. Devo costringerlo a integrarsi o metterlo in un istituto specializzato? Perché, per parlarle in tutta sincerità, certe mattine mi chiedo cosa gli succederà dopo che l’avrò lasciato nella sua scuola...”
Scoppiò a piangere. Poiché il preside Hennings non voleva assolutamente aver grane a Oak Tree, la consolò, le promise di chiarire la questione e convocò Hillel per cercare di risolverla.
“Figliolo, hai qualche problema che riguarda l’ambiente scolastico?” gli chiese.
“Diciamo che, dopo le lezioni, quando vado al campo di basket, mi fanno vedere i sorci verdi.”
“Ah! E come definiresti quegli episodi? Diresti che si tratta di intemperanze?”
“Io le definirei aggressioni.”
“Aggressioni? No, no. Non si verificano aggressioni a Oak Tree. Al massimo qualche intemperanza. Sai, qualche baruffa è normale, quando si è ragazzini. Alla vostra età amate la confusione.”
Hillel alzò le spalle.
“Non so che dirle, signor Hennings. Io vorrei solo giocare a basket in santa pace.”
Il preside si grattò la testa, osservò quel ragazzino così gracile eppure così sicuro di sé, e gli fece una proposta:
“Ti piacerebbe far parte della squadra di basket della scuola?”
Hennings riteneva che, in quel modo, il bambino avrebbe potuto giocare a basket con la protezione di un adulto. L’idea piacque a Hillel, e il preside lo portò subito a parlare con il responsabile.
“Shawn,” disse Hennings al professore di educazione fisica, “potremmo inserire questo giovane campione nella squadra di basket?”
Shawn squadrò quel minuscolo scheletro dagli occhi imploranti.
“Impossibile,” rispose.
“Perché?”
Shawn si accostò all’orecchio del preside e gli sussurrò:
“Frank, siamo una squadra di basket, non un’associazione per handicappati.”
“Non sono un handicappato, io!” si ribellò Hillel, che aveva sentito.
“No, però sei gracile,” ribatté Shawn. “Costituiresti un handicap per noi.”
“E se facessimo un tentativo?” propose Hennings.
Il professore di educazione fisica si accostò di nuovo all’orecchio del preside:
“Frank, la squadra è completa, e c’è una lista d’attesa lunga un chilometro. Se facciamo un’eccezione per lui, avremo grane coi genitori degli altri alunni. E io non sopporto le grane. Tieni anche presente che metterlo in campo significherebbe perdere. E quest’anno non siamo affatto competitivi. I risultati non sono granché, e se schieriamo pure lui...”
Il preside annuì e si voltò verso Hillel, inventandosi degli articoli del regolamento interno per spiegargli diffusamente che la composizione della squadra di basket non poteva essere cambiata durante l’anno scolastico. All’improvviso, un’orda di bambini irruppe nella palestra per un allenamento, e Hillel e il preside andarono a sedersi su una panca ai piedi delle gradinate.
“Allora, signor Hennings, cosa devo fare?” chiese infine Hillel.
“Puoi darmi i nomi di chi ti importuna: li convocherò per un chiarimento. E organizzeremo un laboratorio anti-intemperanze.”
“No, così sarebbe peggio. E lo sa anche lei.”
“E allora perché non li eviti quei maleducati?” si spazientì Hennings. “Se non vai al campo di basket, nessuno ti darà fastidio, semplice.”
“Non rinuncerò ad andare a giocare a basket.”
“La testardaggine è un brutto difetto, figliolo.”
“Io non sono testardo. Io resisto ai fascisti.”
Hennings sbiancò in volto.
“Dove hai sentito questa parola? Non te l’avranno certo insegnata in classe, vero? Nella scuola di Oak Tree non si insegnano parole del genere.”
“No, l’ho letta in un libro.”
“Quale libro?”
Hillel aprì lo zaino e ne trasse un libro di storia.
“Cos’è questo orrore?” farfugliò il preside Hennings.
“Un libro che ho preso in biblioteca.”
“Nella biblioteca scolastica?”
“No, in quella municipale.”
“Ah, volevo ben dire! Allora ti chiedo di non portare più a scuola quell’orribile testo e di tenere per te quel tipo di considerazioni. Non voglio avere grane, io. Comunque, vedo che sai molte cose. Dovresti usare la tua forza per difenderti.”
“Ma io non ho forza! È proprio questo il problema.”
“La tua forza è l’intelligenza. Tu sei un ragazzino incredibilmente intelligente... E, nelle favole, alla fine l’intelligente sconfigge sempre il forte...”
Il consiglio del preside Hennings non cadde nel vuoto. Quel pomeriggio stesso, seduto nella redazione del giornaletto scolastico, Hillel preparò un testo che, appena terminato, consegnò alla signora Chariot affinché fosse pubblicato nel nuovo numero del settimanale. Vi si raccontava la storia di un bambino, l’alunno di una scuola privata per ricchi, che, durante tutte le ricreazioni, veniva legato a un albero dai compagni e sottoposto a ogni tipo di tormenti, perlopiù invenzioni tanto crudeli quanto disgustose che causavano al giovane eroe terribili infezioni del cavo orale. Nessun adulto si accorgeva del martire, tantomeno il preside della scuola: era troppo impegnato a leccare i piedi dei genitori, insieme al professore di educazione fisica. Alla fine del racconto, gli alunni davano fuoco all’albero e al ragazzino e si mettevano a ballare intorno al rogo intonando un’ode di ringraziamento al corpo insegnante che consentiva loro di massacrare tranquillamente i compagni più deboli.
Subito dopo aver letto il testo, la signora Chariot informò il preside, che ne proibì la pubblicazione e convocò nel suo ufficio Hillel.
“Ti rendi conto che il tuo testo è infarcito di parole che qui non sono ammesse?” tuonò Hennings. “Per non parlare del contenuto di questa storia ridicola e della sfacciataggine che mostri prendendotela coi professori!”
“Quella che lei sta esercitando si chiama censura,” protestò Hillel. “Ed è quella che facevano i fascisti: l’ho letto nel mio libro.”
“Piantala di tirare in ballo il fascismo, capito? Questa non è censura: è buon senso! A Oak Tree abbiamo anche un regolamento morale, e tu l’hai violato!”
“E la mia poesia a Helena, pubblicata sul numero scorso?”
“Te l’ho già spiegato: la signora Chariot credeva che fosse una lirica scritta da lei.”
“Ma quando è uscita la rivista, le ho subito detto che ero io l’autore di quella poesia!”
“Hai fatto bene a informarla.”
“Ma avrebbe dovuto bloccare la distribuzione del giornale!”
“E per quale motivo?”
“Perché la pubblicazione di quel testo era terribilmente umiliante per me!”
“Hillel, smettila di fare i capricci! Quella poesia era molto carina, contrariamente a questo racconto, che è solo un’accozzaglia di orribili volgarità.”
Poi il preside Hennings mandò Hillel a parlare con lo psicologo della scuola.
“Ho letto il tuo testo,” disse lo psicologo, “e l’ho trovato interessante.”
“Lei è l’unico.”
“Il preside Hennings mi ha detto che leggi libri sul fascismo...”
“Ne ho preso uno in biblioteca.”
“È stato quello a ispirarti il testo?”
“No, è stata l’assurdità di questa scuola.”
“Forse non dovresti leggere quei libri...”
“Forse... sono proprio gli altri che dovrebbero leggere quei libri.”
Da parte loro, zio Saul e zia Anita supplicarono il figlio di sforzarsi per restare a Oak Tree: “Hillel, non sono neanche tre mesi che sei in quella scuola. Dovresti davvero provare a vivere in armonia con gli altri.”
Venne organizzato nell’aula magna un incontro con tutti gli alunni sul tema “Intemperanze e parolacce”. Il preside Hennings parlò a lungo dei valori morali ed etici di Oak Tree e spiegò per quale motivo sia le intemperanze sia le parolacce non fossero ammessi dai regolamenti della scuola. Poi gli alunni ripeterono uno slogan – “Parolaccia, che figuraccia!” – da scandire se avessero sorpreso un compagno in flagrante delitto di volgarità. Seguì un dibattito per dar modo agli scolari di porre le domande che reputavano opportune.
“Potete chiedere tutto quello che volete,” dichiarò Hennings, prima di strizzare l’occhio a Hillel e aggiungere: “Non c’è nessuna censura.”
Dal pubblico si alzò una foresta di mani.
“Giocare a pallone nel cortile è un’intemperanza?”
“No, è fare un sano esercizio fisico,” rispose il preside. “A condizione di non prendere a pallonate in faccia i compagni.”
“L’altro giorno, a mensa, ho visto un ragno e urlato perché avevo paura,” confessò una bambina piuttosto timida. “È stata un’intemperanza?”
“No, urlare perché si ha paura è consentito. Ma strillare per rompere i timpani dei compagni è un’intemperanza.”
“Ma se qualcuno urla per fare confusione e poi fa credere che ha visto un ragno, può non essere punito?” chiese un alunno, preoccupato che la legge potesse essere aggirata.
“Fare una cosa del genere sarebbe disonesto. E non è bello essere disonesti.”
“Cosa significa ‘disonesto’?”
“Non avere il coraggio delle proprie azioni. Per esempio, se voi fate finta di essere malati per non venire a scuola, è un atto molto disonesto. Altre domande?”
Uno dei bambini più piccoli alzò la mano, e il preside Hennings gli diede la parola.
“‘Sesso’ è una parolaccia?” domandò.
L’uditorio trattenne il respiro, e Hennings ebbe un istante di imbarazzo.
“‘Sesso’ non è una parolaccia... Ma è una parola... diciamo così... inutile.”
Un brusio percorse l’aula. Se “sesso” non era una parolaccia, si poteva dire senza violare il regolamento di Oak Tree?
Il preside Hennings batté ripetutamente la mano sul leggio per riportare la calma, facendo presente che quella era un’intemperanza generale, il che zittì immediatamente l’intero uditorio.
“‘Sesso’ è una parola che non bisogna dire. È una parola proibita, ecco.”
“Perché è proibita, se non è una parolaccia?”
“Perché... Perché è male. Il sesso è male, ecco. È come la droga: è una cosa terribile.”
Zia Anita, informata dal preside Hennings del testo scritto da Hillel, non sapeva in che modo agire per risolvere la situazione del figlio. Era arrivata al punto di non capire se Hillel fosse una vittima innocente, o se pagasse il prezzo delle sue stesse provocazioni: sapeva che a volte il suo tono poteva risultare indisponente, o venir percepito come arrogante. Hillel capiva sempre prima degli altri ragazzini, era sempre in anticipo su tutto: in classe si annoiava in fretta, era impaziente. E questo irritava gli altri alunni, lei se ne rendeva conto. E se Hillel fosse davvero vittima di gesti intemperanti che lui stesso aveva provocato, come sosteneva il preside Hennings? Parlando con il marito, diceva: “Se qualcuno si inimica tutti, può anche essere dovuto al fatto che non si mostra socievole e ben disposto, no?”
Decise di sensibilizzare i compagni di Hillel riguardo alla problematica delle molestie scolastiche e di spiegar loro che, a volte, chi cerca testardamente l’integrazione finisce per inimicarsi tutti. Fece il giro delle case di Oak Park per parlare coi genitori degli altri alunni, e spiegò ai ragazzini che “a volte si pensa che fare baruffa sia solo un gioco e non ci si rende conto di far male a qualche compagno”. Fu più o meno in questi termini che si rivolse anche ai Reddan, i genitori del piccolo Vincent, alias Porco. Abitavano in una splendida casa vicino a quella dei Goldman. Porco ascoltò attentamente zia Anita, e, appena lei ebbe finito di parlare, si esibì in uno straordinario numero di lacrime e singhiozzi: “Perché il mio amico Hillel non mi ha detto che si sentiva rifiutato nella scuola? È davvero orribile! Noi gli vogliamo tutti un sacco di bene. Non capisco perché si senta messo in disparte.” Zia Anita gli spiegò che Hillel era un bambino molto sensibile, un po’ diverso, e il piccolo Reddan, singhiozzando, si soffiò il naso e, come in un gran finale, invitò solennemente Hillel alla sua festa di compleanno, che si sarebbe svolta il sabato seguente.
Alla festa, appena i Reddan voltarono le spalle, Hillel si ritrovò con un braccio piegato a forza dietro la schiena: poi fu costretto a baciare e annusare le chiappe del cane di casa, dovette farsi insaponare la faccia con la glassa della torta di compleanno e infine venne gettato in piscina vestito. Sentendo gli scrosci d’acqua e le risate dei bambini, la signora Reddan accorse e rimproverò aspramente Hillel per essersi fatto il bagno senza aver chiesto il permesso; più tardi, quando scoprì la razzia ai danni del millefoglie e il figlio, piangendo, le spiegò che Hillel aveva preteso di mangiare la torta senza che lui avesse ancora soffiato sulle candeline e senza condividerla con nessuno, telefonò a zia Anita, intimandole di andare subito a riprendersi il suo ragazzino. Quando arrivò davanti al cancello dei Reddan, zia Anita trovò la padrona di casa che teneva saldamente Hillel per un braccio; accanto a lei Porco, in lacrime, nell’interpretazione forse meglio riuscita della sua vita, tra un singhiozzo e l’altro accusava Hillel di avergli rovinato la festa. Tornando verso casa, zia Anita lanciò un’occhiata di disapprovazione al figlio. Poi sospirò: “Perché devi sempre metterti in mostra, Hillel? Non te ne importa nulla di trovarti degli amici?”
Hillel si vendicò scrivendo un nuovo testo. Stavolta non aveva alcuna speranza di pubblicarlo sulla rivista della scuola. Decise di stampare e fotocopiare la storia che aveva scritto. Nel giorno di uscita del giornale, sostituì negli espositori le copie ufficiali con quelle di sua produzione. Scoperta la truffa, la signora Chariot si precipitò nell’ufficio del preside Hennings con tutti gli esemplari dell’opuscolo che era riuscita a intercettare. “Frank, Frank, guarda cos’altro ha combinato Hillel Goldman! Ha stampato un giornale pirata con un testo agghiacciante!” Il preside Hennings afferrò una delle copie che gli porgeva la signora Chariot, la lesse e rimase senza fiato. Convocò immediatamente zio Saul, zia Anita e Hillel.
Il testo s’intitolava “Piccolo Porco”. Hillel vi raccontava la storia di un alunno obeso che si chiamava Porco e provava un piacere malsano a terrorizzare i compagni. Questi, arrivati al limite della sopportazione, finivano per ucciderlo nei bagni della scuola: lo facevano a pezzi e lo mettevano nella cella frigorifera della mensa, mischiandolo ai tagli di carne consegnati quel giorno. La scomparsa del bambino faceva scattare le ricerche della polizia. L’indomani, all’ora di pranzo, alcuni agenti si recavano nella mensa per interrogare gli scolari. “Dovete assolutamente trovare il mio cocchino,” gemeva la madre di Porco, che aveva tutte le caratteristiche della cretina integrale. Un ispettore interrogava gli alunni, che stavano allegramente divorando un succulento arrosto di maiale. “Avete visto il vostro compagno?” chiedeva l’ispettore. “No, signore,” rispondevano in coro i ragazzini, con la bocca piena.
“Signori Goldman,” spiegò pacatamente Hennings a zio Saul e zia Anita, “vostro figlio ha scritto ancora una volta un testo indecente. Si tratta di un’apologia della violenza, ed è assolutamente inaccettabile la presenza di un simile testo in questa scuola.”
“Libertà di scrivere, libertà d’opinione!” protestò Hillel.
“Eh no, ora basta!” sbottò il preside Hennings. “Devi smetterla di paragonare le istituzioni della scuola a un governo fascista!”
Poi il preside guardò con aria grave gli zii e disse che, se Hillel non si fosse sforzato di integrarsi, non sarebbe rimasto a lungo in quell’istituto. A una precisa domanda dei genitori, Hillel promise che non avrebbe più scritto altri opuscoli. Decisero anche che avrebbe preparato una lettera di scuse che sarebbe stata diffusa in tutta la scuola.
Sostituendo le copie della rivista della scuola con quelle di sua creazione, Hillel aveva privato gli alunni del giornale abituale. Per evitare problemi a Hillel, il preside Hennings chiese agli insegnanti di non specificare i motivi di quel disguido: tutte le copie andavano ristampate entro la fine della giornata. Ma la signora Chariot, una donna fragile ed esasperata dalle lamentele degli alunni che non capivano perché il giornale non fosse disponibile nel giorno stabilito, ebbe un attacco di nervi e, ai contestatori che stavano prendendo d’assalto l’abitualmente pacifica stanza della redazione, urlò: “Per colpa di un certo alunno che si crede superiore a tutti, questa settimana non ci sarà alcun giornale! Ecco qua! L’uscita di questa settimana è annullata! Annullata, capito? Annullata! Gli allievi che si sono dati la pena di scrivere articoli non richiesti devono sapere che non li vedranno mai pubblicati. Mai! Mai! Potete ringraziare Hillel Goldman.” Gli alunni, obbedienti, ringraziarono Hillel prendendolo a calci e a colpi di quaderno. Porco, dopo averlo pestato di brutto, lo fece spogliare davanti ai compagni schierati. Gli ordinò: “Calati le brache.” Tamponandosi il naso insanguinato e tremando di paura, Hillel ubbidì, e tutti risero. “Non avevo mai visto un pisello così piccolo!” esclamò Porco. Tutti si sganasciarono. Poi si fece consegnare i pantaloni e le mutande e li lanciò sui rami più alti di un albero. “Ora torna a casa. Tutti devono poter vedere il tuo pisello minuscolo!” A riportarlo a casa fu un vicino che, passando con la macchina, lo vide camminare seminudo lungo la strada. Hillel disse alla madre che un cane l’aveva inseguito e gli aveva strappato via pantaloni.
“Un cane? Hillel...”
“Sì, mamma, giuro che è così. Mi ha azzannato i pantaloni così forte che, alla fine, li ha strappati e se li è portati via.”
“Insieme alle mutande?”
“Sì, mamma.”
“Ti hanno fatto qualcosa a scuola?”
“No, mamma. Te lo giuro.”
Profondamente umiliato, Hillel decise che doveva vendicarsi della vendetta della vendetta. L’opportunità si presentò qualche giorno dopo, quando Porco si assentò da scuola per due giorni a causa di un’indigestione. Gli alunni stavano preparando uno spettacolo per i genitori in occasione del Thanksgiving, mettendo in scena dei quadri viventi che rappresentavano il ringraziamento dei coloni inglesi agli indiani Wampanoag per il loro aiuto – la riconoscenza continuava a essere celebrata dopo quattrocento anni e concedeva tre giorni di vacanza ai bravi studenti americani. L’attualità della festa sarebbe stata rimarcata da una poesia recitata da un alunno durante la rappresentazione. Poiché nessuno degli allievi si offrì volontario, Porco venne incaricato d’ufficio dalla professoressa. Ecco il testo:
I buoni ingredienti di Mamma
di William Sharburg
È Thanksgiving,
La festa delle famiglie.
Un odorino appetitoso si diffonde nella casa.
Mamma sta arrostendo un bel tacchino.
Attirati dal profumo,
Papà, il bimbo e il cane vanno tutti in cucina.
Mamma si destreggia davanti ai fornelli,
Tutti inspirano e le fanno i complimenti
Per quell’odore delizioso.
Papà si rallegra,
Il bimbo applaude.
Il cane si lecca i baffi,
Finalmente si mangia!
Il bimbo, goloso, chiede se può assaggiare.
Mamma immerge il cucchiaio nel tegame del sughetto
E il bimbo assaggia.
“Quant’è buono!” esclama. “Cosa c’è dentro?”
“Degli ingredienti...” risponde Mamma.
“Quali ingredienti?”
“I miei ingredienti. Ti piace?”
“È ottimo! Ne voglio ancora! Voglio mangiarlo tutto!”
“No, golosone, devi aspettare che andiamo a tavola.”
Il bimbo mette il broncio
E tuffa il viso nel vestito della madre.
Ci sta comodo. Sorride.
Sa che la madre gli rivelerà
Il segreto dei suoi ingredienti,
Affinché possa anche lui metterli nel tacchino
Che cucinerà per i suoi figli.
Con uno spirito di riconciliazione, l’insegnante incaricò Hillel di portare la poesia a Porco e annunciargli il suo ruolo nello spettacolo di Thanksgiving. Ad aprirgli fu la madre, che l’accompagnò nella stanza del figlio. Hillel lo trovò a letto, intento a leggere fumetti. Dopo avergli spiegato le consegne, gli diede il testo.
“Fammi vedere!” gridò la madre di Porco, eccitatissima di sapere che il figlio sarebbe apparso in scena da solo.
“Lascia stare!” ringhiò Porco. “Non deve vederla nessuno! Sarà la grande sorpresa dello spettacolo!”
Si alzò sul letto e, dopo aver cacciato dalla stanza Hillel e la madre, cominciò a prodursi in rumorosi vocalizzi. Aveva sempre avuto il senso dello spettacolo, avrebbe affascinato l’intero uditorio. Per l’occasione, la madre gli comprò un completo a tre pezzi e convocò l’intera famiglia per assistere all’esibizione – sicuramente splendida – di Porco. Il suo bambino era speciale, e finalmente tutti se ne sarebbero accorti.
Il giorno dello spettacolo, l’auditorium della scuola era gremito. I Reddan erano in prima fila: filmavano, fotografavano, applaudivano all’impazzata. I quadri viventi sui Wampanoag riscossero un grande successo, così come quello sull’approccio moderno al Thanksgiving. Poi Porco si presentò sulla scena, al centro del cono di luce, trasse un lungo respiro e recitò la poesia:
I buoni escrementi di Mamma
di William Sharburg
È Thanksgiving,
La festa delle famiglie.
Un odorino appetitoso si diffonde nella casa.
Mamma sta arrostendo un bel tacchino.
Attirati dal profumo,
Papà, il bimbo e il cane vanno tutti in cucina.
Mamma scoreggia davanti ai fornelli,
Tutti inspirano e le fanno i complimenti
Per quell’odore delizioso.
Papà si rallegra,
Il bimbo applaude.
Il cane si lecca i testicoli,
Finalmente si mangia!
Il bimbo, goloso, chiede se può assaggiare.
Mamma immerge il cucchiaio nel tegame del sughetto
E il bimbo assaggia.
“Quant’è buono!” esclama. “Cosa c’è dentro?”
“Degli escrementi...” risponde Mamma.
“Quali escrementi?”
“I miei escrementi. Ti piace?”
“È ottimo! Ne voglio ancora! Voglio mangiarlo tutto!”
“No, golosone, devi aspettare che andiamo a tavola.”
Il bimbo mette il broncio
E tuffa il viso nel pube della madre.
Ci sta comodo. Sorride.
Sa che la madre gli rivelerà
Il segreto dei suoi escrementi,
Affinché possa anche lui metterli nel tacchino
Che cucinerà per i suoi figli.
Terminata la poesia, Porco fece un inchino per salutare il pubblico e raccogliere lo scroscio di applausi che si aspettava. Un silenzio terrificante pervase la sala. Il pubblico, sconcertato e muto, fissava Porco, che non capiva cosa fosse andato storto. Scappò dietro le quinte, dove trovò la professoressa e il preside Hennings. Lo fissarono.
“Ma insomma, che succede?” gemette Porco.
“Vincent, sai cosa sono gli escrementi?” gli chiese Hennings.
“Non ne so niente, signor preside. Io ho solo imparato a memoria la poesia che mi hanno dato.”
Hennings divenne paonazzo. Si voltò verso la professoressa:
“Signorina, può spiegarmi questa faccenda?”
“Non capisco, signor preside, avevo incaricato Hillel Goldman di portare il testo a Vincent. Deve aver cambiato le parole.”
“E non ha ritenuto opportuno provare la recita prima di andare in scena?” gridò Hennings, le cui urla si sentirono fin dentro la sala.
“Sì, certo! Ma Vincent si è sempre rifiutato di recitare davanti ai compagni. Diceva che voleva fare una sorpresa.”
“Per essere una sorpresa, lo è stata eccome!”
“Che cosa sono gli escrementi?” domandò Porco.
La professoressa scoppiò a piangere.
“È lei a dirci di lasciare che gli alunni facciano sempre quello che vogliono!” frignò, rivolgendosi al preside.
“La smetta di piangere, per favore,” le disse Hennings, porgendole un fazzoletto. “Non serve a niente. Dobbiamo convocare quel piantagrane di Hillel!”
Ma, mentre lo spettacolo continuava con l’esibizione della classe successiva, Porco si era già lanciato alle calcagna di Hillel. Furono visti lasciare di corsa l’auditorium dall’uscita di sicurezza, attraversare il cortile della ricreazione e il campo da basket, e dirigersi verso il quartiere di Oak Park. Davanti galoppava la sagoma mingherlina di Hillel, subito dietro c’era Porco, col suo sontuoso completo, che caricava come una bestia impazzita. Più indietro ancora c’era un gruppo di alunni che seguivano i due per assistere alla scena inevitabile.
“Ti ammazzo!” urlava Porco. “Ti ammazzo, te lo giuro!”
Hillel correva più veloce che poteva, ma sentiva avvicinarsi i passi di Porco. L’avrebbe raggiunto da un momento all’altro. Si diresse verso casa. Con un po’ di fortuna, sarebbe riuscito a raggiungerla e a rifugiarvisi. Pochi istanti prima di arrivare alla casa dei Goldman, però, inciampò in un triciclo abbandonato davanti a un vialetto e rovinò a terra.