domenica 27 settembre 2020

IL POPULISMO MASCHERATO Andrea Minuz



IL POPULISMO MASCHERATO 

Andrea Minuz

IL FOGLIO 

27 SET 2020


Scompaiono i vecchi attrezzi di scena: via il lanciafiamme di De Luca, via il forbicione anticasta di Di Maio. Ora Zaia cita Seneca, Del Debbio sembra Colin Firth, Emiliano si veste da statista. Solo Giordano recita se stesso

Abolita per sempre la povertà, decimata ormai la casta, il populismo se ne va in cassa integrazione. Persino la parola ha ormai un suono poco raccomandabile. Se continua di questo passo, tra un po’ non si potrà più usare, come “negro”, “zoppo”, “barbone”. Si dirà casomai, “diversamente competente”. Via le citazioni da Puskin e Dostoevskij nei discorsi di Conte: “Rivendico la natura diversamente competente del governo, se questo significa ridurre la frattura tra Stato e cittadini”. Panico dunque e gran disorientamento nei palinsesti televisivi. Si prova già a riconvertire in fretta e furia la produzione, si rimodula il “core business”, come Gucci, Prada, Valentino, quando nell’ora più buia presero a confezionare mascherine.

Sparisce l’armamentario del vecchio populismo di ieri: via il lanciafiamme di De Luca, via le forbicione di Di Maio che affondano i denti sulle poltrone, via bonus e assunzioni a pioggia di Emiliano. Il populismo di oggi è un’altra cosa. Si porta con sobrietà, classe, stile. Paolo Del Debbio si era già adeguato ancora prima delle elezioni: con il lockdown si è trasformato in Colin Firth, dimagrimento impressionante, barbetta argentata, capello laccato, pare un’opinionista della Bbc. Subito dopo i primi risultati, in meno di dodici ore, Zaia cita Seneca, Einaudi, Don Sturzo, Marguerite Yourcenar. Snocciola con comprensibile fierezza i suoi successi da Mentana: le colline del prosecco diventate patrimonio dell’Unesco, le olimpiadi di Cortina, il modello Vo’ Euganeo, fulgido esempio di lockdown per tutti, dove Zaia ha preso l’ottantacinque per cento dei voti.

Parla da statista ma respinge gli endorsement. Tutti subiscono il fascino di questo “Doge del fare”, il governatore dell’indipendenza, il look à la Jep Gambardella di Treviso, una certa somiglianza con Toni Servillo, giacche slim un po’ démodé, camicia stiratissima, scarpe a punta (Zaia si presenta così agli eventi agricoli del Veneto, alle feste del “panevin”, alla “fiera dei osei”, perché non voleva solo andare alle sagre, voleva avere il potere di farle diventare patrimonio dell’Unesco).

Questo delle sagre è un punto chiave del nuovo populismo dei governatori, delle regioni, dei territori. A giugno, Michele Emiliano lanciò un appello per la riapertura di sagre, feste patronali, fiere di paese, con “distanziamento interpersonale”, si capisce, e opportuna “segnaletica a terra”: “Le sagre sono fondamentali per l’economia”. Le sagre sono anche un’ottima risposta ai dubbi di Bruxelles sulla nostra affidabilità. Una serie di voci di spesa concrete da inserire nei progetti del Recovery Fund: “festeggiamenti per la settimana santa di Bitonto”, “fuochi pirotecnici per la festa di San Nicola”, “sagra della polpetta di Alliste”, più creazione di un ministero della “Taranta”, la risposta salentina ai forestali siciliani.

Anche la rimozione del pubblico dallo studio televisivo e la fine degli applausi forsennati di Floris furono in fondo provvidenziali. L’annuncio, neanche troppo subliminale, di un’epoca nuova che è iniziata lunedì scorso. L’epoca del populismo elegante, il nuovo mainstream. Un populismo che è sconfitto e che trionfa, che muore mentre risplende, come spiega Di Maio in modo impeccabile nell’analisi del dopo voto: “Ringrazio tutti i parlamentari che hanno tagliato sé stessi”, quasi un manifesto politico dei tempi a venire. Per Di Maio il taglio delle poltrone dei parlamentari non è l’approdo di un percorso iniziato col “Vaffanculo Day” del 2008, ma l’irruzione improvvisa di “una questione europea”. Non è cambiato lo spirito del Movimento, casomai, come spiega il ministro degli Esteri, “è cambiata l’Europa” (Di Maio si allinea quindi al Monde: “Contrariamente a quanto si sarebbe potuto temere, la pandemia non ha in alcun modo favorito il populismo in Italia”).

 

Con le elezioni e il referendum, la telepolitica ritorna ai beati anni del miglior trasformismo e celebra già a ridosso degli exit-poll il gran ballo in maschera del populismo: Michele Emiliano arriva trafelato da Floris vestito da Salvini, con una formidabile polo sartoriale della Protezione civile, la scritta “Presidente Michele Emiliano” e distintivi vari sul petto. Si giustifica subito spiegando che non ha fatto in tempo a cambiarsi per la trasmissione, che la polo l’ha messa “per la riapertura delle scuole”, che non c’è alcun significato politico. Salvini si veste invece da Renzi, camicia bianca, maniche arrotolate, piglio brioso, molto pacato anche di fronte al funerale politico che gli allestiscono a “Cartabianca”. Emiliano dice “è una vittoria di Conte”. Per Salvini è una vittoria della Lega. Per la Lega è una vittoria di Zaia. Per Giani, neogovernatore della Toscana, è “la vittoria della competenza sull’ignoranza”.

 

In ogni caso sarà “un cambio di passo del linguaggio della politica”, dice Floris inaugurando per primo la nuova era. I segnali ci sono già. Sul sito del Corriere i video più visti sono, “Michele Emiliano mangia un panzerotto in diretta” e “Salvini preferisce il vino rosso fermo al prosecco”. Nei talk-show si snocciola la girandola delle opinioni: è il tracollo del M5s, la fine della casta, la morte del sovranismo, l’exploit di Zingaretti, la fuga solitaria di De Luca e Emiliano, “sceriffi del Covid” che si infilano nella frattura tra Stato e regioni. Lo Stato paralizza, la regione decide. De Luca lancia il piano per il sud da un miliardo di euro. Emiliano riunisce in teatro i precari dell’Asl e gli regala la “pergamena del posto fisso”. Sono straordinarie inquadrature neorealiste che sfuggono alle linee di condotta del partito. Tutto si tiene con tutto. Come dice De Luca, “questa è una vittoria di popolo”, cioè una vittoria né di destra, né di sinistra, né di centro, perché “il popolo è il popolo”. Una vittoria ottenuta con i voti della “destra non ideologica”, mica la nuova destra marchigiana (e qui, caro Corrado Guzzanti, ci vorrebbe un “Fascisti su Marche”, magari su Netflix, tutto girato “in Ancona” con regia à la “Tarandino” e “arrosticini all’Atreju”).

 

De Luca in tv si vede poco, ma è attivissimo sui social. Non si è montato la testa dopo l’endorsement di Naomi Campbell, né dopo aver aperto una puntata del “Late Night with Seth Meyers”. Altri avrebbero cavalcato la notorietà pop, lui ha tenuto un basso profilo, la gente ha capito. De Luca, che a fine mandato avrà settantasette anni, ha una pagina Facebook su cui campeggia lo slogan: “il futuro è già iniziato”. Ospite a “Stasera Italia”, Toninelli dice invece che il M5s continuerà a essere “un motore dell’innovazione”, giusto il tempo di darsi una nuova “governance”, di tornare a fare politica “nei territori”. All’improvviso è tutto chiaro: c’è il problema delle correnti, la scissione, la “reggenza allargata”, c’è il dilemma teorico-critico, l’arrovellamento interiore, il tradimento della base, essere di lotta o di governo, stare con la gente o il palazzo, insomma è fatta: il M5s è il nuovo Pd. Lo dicono anche i numeri.

E’ questo in fondo il vero capolavoro politico di Zingaretti: aver capito che c’è sempre qualcuno che è più Pd di te con cui cambiarsi di posto. Si dischiude, col nuovo scenario parlamentare, una congiuntura editoriale e politica assai prospera anche per Scurati. Lo si vede ospite da Lilli Gruber per lanciare il seguito di “M”, “L’uomo della provvidenza”, sulla scellerata campagna d’Africa del duce, pronto a raccogliere il successo del primo “M”, e ancora in tempo per sintonizzarsi con il blacklivesmatter. “Qui stiamo parlando di politica in modo ancora convenzionale”, dice Scurati che per tutto il tempo si rivolge a Andrea Orlando chiamandolo “ministro”, mentre “bisogna prendere a cura le sorti del pianeta, e questo lo può fare solo il Pd” (gli Avengers e il Pd). Un Pd, dice sempre Scurati, “che deve diventare finalmente protagonista”. D’accordo, certo. Ma si è ancora tutti un po’ disorientati. Si attendeva con trepidazione la catastrofe, la marea populista che tutto travolge, le cavallette, invece siamo tornati a Bettini.

 

Si cerca il cattivo ma si trova solo un Salvini stanco, sfiancato, dai modi pacati, in cerca di un’improbabile svolta moderata. Saranno tempi duri anche per Mario Giordano. Schiacciato sul populismo anticasta del passato, Giordano resta indietro, arranca, non sta al passo, ora è davvero “fuori dal coro”. Eccolo con salvagente e remi che vaga dentro lo studio, eccolo che sfreccia disteso sopra un banco a rotelle. Giordano punta sullo scandalo delle mascherine mai arrivate nel Lazio, si scaglia contro Zingaretti, si attacca ai migranti. Ma tutto appare un po’ sfocato. Roba da repertorio, da ultima spiaggia, da giapponese nella foresta. Mauro Corona viene sospeso da “Cartabianca” per aver dato della “gallina” a Bianca Berlinguer, la Rai si scusa con un comunicato: “I suoi reiterati insulti costituiscono un’offesa non solo alla Dott.ssa Berlinguer ma verso tutte le donne”. Dopo aver costruito la trasmissione sulla sua ubriachezza, aver dato una spalla alla Dott.ssa Berlinguer poco incisiva nella conduzione solitaria, e puntato tutto sui suoi siparietti da drag queen montanara, è il momento della vergogna. Mai più. Fino alla prossima puntata.

 

“Piazza pulita” racconta la crisi del sovranismo con Bersani, De Benedetti, Carofiglio e soprattutto con “il caso Suarez”. Anche Formigli aveva già lanciato l’allarme tempo fa: “Il talk senza pubblico spaventa i leader populisti” (era tutta colpa degli applausi in studio, a saperlo prima bastava togliere l’audio). Con il successo straripante di Zaia s’infiamma invece tutta la platea. E’ lo sport preferito dagli italiani: la gara di solidarietà, la rincorsa, la fiaccolata “in soccorso del vincitore”. Ospiti e conduttori caracollano, fanno a gara per complimentarsi, lo infilano a capo del centrodestra, a Palazzo Chigi, a Bruxelles, al Quirinale. Non si può più iniziare una frase senza dire, “anzitutto i miei complimenti a Luca Zaia”. Ma la più grande abilità di Zaia è da sempre scansare le lusinghe come fossero cappi mortali. Zaia ha più paura degli elogi che degli avversari politici, delle critiche o delle inchieste sul Mose. Più lo vogliono a Roma, più si barrica in Veneto. Zaia come nemesi pressoché perfetta di Salvini: niente Tik-Tok, né Papeete, né abbigliamento di CasaPound.

 

Per esempio, Zaia fa un Instagram molto diverso dal leader della Lega: panorami mozzafiato delle dolomiti bellunesi, vendemmie nel trevigiano, tramonti a Chioggia, droni sulle colline del prosecco. Salvini non ha mai lavorato granché, mentre Zaia è stato cameriere, uomo delle pulizie, muratore, operaio specializzato, docente privato di chimica, istruttore di equitazione, addetto in un’impresa di pellami, pr in discoteca, organizzatore di feste ed eventi (e infatti mentre cita Seneca e Einaudi sfilano foto-ricordo sbiadite di Zaia abbracciato a dj Albertino). Zaia ha una laurea in Scienze della protezione animale, è competente, se va alle sagre non è mica solo per farsi i selfie. Il suo è un curriculum acchiappavoti che supera tutti gli schieramenti politici. Zaia come un incredibile raccoglitore di voti, dice giustamente Renzi.

 

In tv sfilano i servizi su Zaia: Zaia a cavallo, Zaia che taglia nastri, Zaia al telefono che risolve problemi. L’inviato di Barbara Palombelli va nel ristorante di Treviso dove ha mangiato Zaia, tocca le bottiglie, i piatti, come fossero reliquie. La gente gli vuole bene. I professionisti dell’anti-populismo invece non sanno più che pesci pigliare, perché i populisti ammettono di essere morti (come Dibba, come Paola Taverna), oppure di non essere mai stati populisti. A “Stasera Italia” il populismo si mette “in prospettiva storica”: tutto comincia con Cossiga e finisce con Di Maio. Forbici e piccone. Quindi parte un lungo techetecheté su Salvini. Un “come eravamo cattivi” con il capitano al Papeete, il capitano che brandisce il mojito, sfoggia la panza, si fa i selfie con le nonnette, il capitano al citofono, il capitano a Sabaudia, un’estate tutta italiana, notti magiche, inseguendo un goal.