sabato 12 settembre 2020



Roland Barthes
FRAMMENTI DI UN DISCORSO AMOROSO
Traduzione d Renzo Guidieri.
Titolo originale: "Fragments d'un discours amoureux".
Copyright 1977 ditions du Seuil.
Copyright 1979 e 2001 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino.
Prima edizione "Gli struzzi  1979.
Indice
       La necessità...
    Come è fatto questo libro     1. Figure. - 2. Ordine. -
    3. Riferimenti.
    ABBRACCIO. «Nell'amorosa quiete delle     tue braccia»
    1. L'addormentamento. - 2. Da un     abbraccio all'altro. - 3. Appagamento.
    ABITO. Frac turchino e gilet giallo     1. Fare la toilette. - 2. Imitazione.     - 3. Travestimento.
    ADORABILE. «Adorabile! »
    1. Parlai in una mattina d'autunno.     2. Atotale. - 3. La specialità del     desiderio. - 4. La tautologia.
    AFFERMAZIONE. L'Intrattabile     1. La protesta d'amore. - 2. Violenza     e gioia dell'immaginario.     3. La forza non è nell'interprete. -
    4. Ricominciamo.
    ALTERAZIONE. Un piccolo punto del naso     1. Il punto di corruzione. - 2. Vedere     l'altro asservito. - 3. «Farsi rompere     il culo». - 4. Lo smarrimento     d'essere. - 5. «Le mie donnette».
    ANGOSCIA. Agony
1. L'angoscia come veleno. -
2. Primitive agony.
    ANNULLAMENTO. Amare l'amore
    1. I due colombi.     2. Vantaggio e pregiudizio.
    APPAGAMENTO. «Tutte le voluttà della
    terra»
    1. La sovrabbondanza.     2. Credere al Bene Supremo.
    ASCESI. Essere ascetici     1. Punirmi. - 2. Ricatto morale.
    ASSENZA. L'assente
    1. L'assente è l'altro. - 2. Un     discorso femminino? - 3. L'oblio.     4. Sospirare. - 5. Manipolazione     dell'assenza. - 6. Il desiderio e il     bisogno. - 7. L'invocazione.     8. Koan della testa sott'acqua.
    ATOPOS. Atopos
    1. Inclassificabile. - 2. Innocenza. -
    3. La relazione originale.
   ATTESA. L'attesa
    1. Erwartung. - 2. Scenario. - 3. La     telefonata. - 4. Allucinazione. -
    5. Colui/colei che attende.     6. Il mandarino e la cortigiana.
    CAPIRE. «Voglio capire»     1. Sotto la lampada. - 2. Uscendo dal     cinema. - 3. Repressione. -
    4. Interpretazione.     5. Visione: il grande sogno nitido.
    CATASTROFE. La catastrofe
1. Due disperazioni. -    2. La situazione estrema.
    CIRCOSCRIVERE. Laetitia     1. Gaudium e Laetitia. -
2. La iettatura amorosa.
    COLPE. Colpe
    1. Il treno. - 2. La padronanza come     colpa. - 3. L'innocenza del dolore.
    COMPASSIONE. «Ho male all'altro»
    1. L'unità di sofferenza. - 2. Viva la     vita! - 3. La delicatezza.
    COMPORTAMENTO. «Che fare?»
    1. O una cosa, o l'altra.     2. Problemi ridicoli. - 3. Serenità.
    CONNIVENZA. La connivenza
    1. Elogio a due. - 2. Chi è di troppo?     - 3. Odiosamato.
   CONTATTI. «Quando inavvertitamente il
    mio dito... »
1. Ciò che viene chiesto alla pelle. -
2. Come le dita d'un barbiere.
    CONTINGENZE. Avvenimenti, traversie,
    contrarietà
    1. Perché. - 2. Il velo nero della
    Maya. - 3. La struttura, non la causa.     - 4. L'incidente come isteria.
    CORPO. Il corpo dell'altro     1. il corpo diviso. - 2. Scrutare.
    CUORE. Il cuore
    1. Un organo erettile. - 2. Il mio     cuore contro la mia intelligenza.     3. il cuore greve.
    DEDICA. La dedica
    1. Il regalo amoroso. - 2. Because I     love. - 3. Parlare di ciò che si dà.     4.  Dedicare. - 5. Scrivere, -
    6. Iscrivere, non donare.
    DEMONI. «Noi siamo i nostri propri     demoni»
    1. A ruota libera. - 2. Plurale. -
    3. Omeopatia.
    DE-REALTA'. Il mondo siderato     1. La miniatura laccata. - 2. La     conversazione generale. - 3. Il     viaggio in Italia. - 4. Un sistema di     potere. - 5. Il vetro. - 6. Irreale e     de-reale. - 7. Al buffet della     stazione di Losanna.     8. Il puerile rovescio delle cose.
    DICHIARAZIONE. Il colloquio
    1. Sfioramenti.     2. Il birignao generalizzato.
    DIPENDENZA.  Domnei
1. Il vassallaggio amoroso. -
2. La ribellione.
    DISAGIO. «Con aria imbarazzata»
    1. L'atmosfera pesante.     2. Una fascinazione vigile.
    DISPENDIO. L'esuberanza
    1. Elogio della tensione. - 2. Curiosa     replica di Goethe ai suoi detrattori     inglesi. - 3. L'ingegnosità per     niente. - 4. La bellezza.
    DRAMMA. Romanzo/dramma
1. Il diario impossibile. -
2. Una storia che ha già avuto luogo.
    ESILIO. L'esilio dell'Immaginario     1. Esiliarsi. - 2. Il lutto     dell'immagine. - 3. La tristezza. -
    4. Duplice lutto. - 5. La vampata.
    FADING. Fading
    1. It fades, fades and fades. - 2. La     Madre severa. - 3. La notte dell'     altro. - 4. Nekuia. - 5. La voce.     6. La stanchezza. - 7. Il telefono. -
    8. Lasciare o raccogliere?
    FASTIDIO. L'arancia     1. La vicina indiscreta. -
    2. Irritazione.
    FESTA. «Giorni beati»
    1. Il festino. - 2. Un'arte di vivere.
    GELOSIA. La gelosia
    1. Werther e Alberto. - 2. La torta     condivisa. - 3. Rifiutare la gelosia.     - 4. I quattro dolori del geloso.
    GRADIVA. La Gradiva
    1. Il delirio. - 2. La contro-Gradiva.
    - 3. Ancora la delicatezza.     4. Amare/essere innamorato.
    IDENTIFICAZIONE. Identificazioni
1. Il contadino, il folle. -
2. Vittima e carnefice. -    3. Ruffa raffa. - 4. La proiezione.
    IMMAGINE. Le immagini
    1. Crudeltà delle immagini.     2. Stacco. - 3. L'immagine triste. -
    4. L'innamorato come artista.
    INCONOSCIBILE. L'Inconoscibile
    1. L'enigma. - 2. L'inconoscibilità. -
    3. Definizione attraverso la forza.
    INCONTRO. «Com'era azzurro, il cielo»     1. Il tempo amoroso. - 2. Ritorno     dell'incontro. - 3. Stupore.
    INDUZIONE. «Mostratemi chi devo     desiderare»
1. Il contagio affettivo. -
2. La proibizione come indicazione.
    INFORMATORE. L'informatore
1. L'intrico. -
2. L'esteriorità come segreto.
    INSOPPORTABILE. «Cosí non può     continuare»
    1. La pazienza amorosa. - 2.
    L'esaltazione. - 3. La sopportazione.
    IO-TI-AMO. Io ti amo     1. Szeretlek. - 2. Una parola senza     impieghi. - 3. Il proferimento. - 4.
    Non c'è risposta. - 5. Anch'io. - 6.
    L'éclair unique. - 7. Una rivoluzione.     - 8. L'io-ti-amo come affermazione     tragica. - 9. «Ti amo anch'io».     10. Amen.
    LANGUORE. Il languor d'amore
    1. Il satiro. - 2. Desiderio I.     3. Desiderio II. - 4. Estenuante.
    LETTERA. La lettera d'amore     1. «Penso a lei». - 2. Corrispondenza     e relazione. - 3. Non rispondere.
    LOQUELA. La loquela
    1. Twiddling. - 2. La volubilità. -
    3. L'induzione.
    MAGIA. L'ultima foglia
1. La mantica. - 2. Il voto.
    MOSTRUOSO. «Sono odioso»     1. L'innamorato importuno. -
2. La cosa mostruosa.
    MUTISMO. Senza risposta
    1. La risposta ritardata.     2. Parlare per niente. - 3. La Muta.
    NASCONDERE. Gli occhiali scuri
    1. Deliberazione. - 2. Due discorsi,     3. Larvatus prodeo. - 4. Gli occhiali     scuri. - 5. La divisione dei segni.     6. Il «furore».
    NOTTE. «E la notte rischiarava la     notte»
    1. Le due notti.     2. Una notte racchiude l'altra.
    NUBI. Nubi     1. Un messaggio imbarazzante.     2. Nubi sottili: il furyu.
    OGGETTI. Il nastro
    1. Metonimie. - 2. Il kigo.
    OSCENO. L'oscenità dell'amore     1. - Esempi. - 2. L'intellettuale     innamorato. - 3. La stupidità dell'     innamorato. - 4. Anacronistico.     5. L'ultima indecenza.     6. Sentimentalità/sessualità. -
    7. Il massimo dell'osceno.
    PAZZO. «Sono pazzo»
    1. Il pazzo dei fiori. - 2. La follia     invisibile. - 3. Io non è un altro.     4. Puro di ogni potere.
    PERCHE'. Perché?
    1. Warum? - 2. Amare un po'. -
    3. Delirio: «sono amato».
    PETTEGOLEZZO. Il pettegolezzo
    1. Sulla strada di Falero. - 2. La     voce della verità. - 3. Lui/lei.
    PIANGERE. Elogio delle lacrime     1. Quando l'uomo piange. - 2. Modi. -
    3. Funzione delle lacrime.
    RAPIMENTO. Rapito in estasi
    1. Il ratto, la ferita. - 2. Ipnosi.     3. Deliberarsi. - 4. Inflessioni. - 5.
    L'incorniciamento. - 6. In situazione.     - 7. A posteriori.
    RICORDO. «E lucean le stelle»
    1. L'anamnesi. - 2. L'imperfetto.
    RIMPIANTO. Rimpianto?
1. La vita continuerà. -
2. Biascicare.
    RISONANZA. La risonanza     1. Risonanza/risentimento. - 2. Il     panico amoroso. - 3. La marinade.     4. Un ascolto perfetto.
    RISVEGLIO. Albata
1. Dormire molto a lungo. -
2. Modi di risveglio.
    SCENATA. Fare una scenata     1. La scenata nella storia.     2. Meccanica della scenata.     3. La scenata interminabile.     4. La scenata irrilevante.     5. L'ultima replica.
    SCORTICATO. Lo scorticato
    1. Punti delicati.     2. Impuzzecchiabile.
    SCRIVERE. Inesprimibile amore
    1. Amare e creare. - 2. Via di mezzo.
    - 3. Scrittura e immaginario. -
4. Indivisione. -
5. La scrittura in cambio di niente.
    SEGNI. L'incertezza dei segni     1. Segni di che cosa? - 2. Risposte     contraddittorie del buonsenso.     3. La prova del linguaggio.
    SISTEMATI. «Tutti sistemati»
    1. Un gioco crudele.     2. Ogni struttura è abitabile. -
    3. Ridicolo e invidiabile.
    SOLO. «Nessun prete lo accompagnava»     1. Recidivo. - 2. Tutte le porte si     chiudono. - 3. Solitudine dell'     innamorato. - 4. Inattuale.     5. Perché sono solo.
    SPROFONDARE. «M'inabisso, soccombo...»
    1. La dolcezza. - 2. Isotta. - 3.
    Nessuna parte. - 4. Falsa idea della
    morte. - 5. Funzione dell'abisso.
    SUICIDIO. Idee di suicidio
    1. Frequente, facile, leggera...     2. Parlare il suicidio.     3. Nobiltà e derisione.
    TALE. Tale
    1. Qualitas. - 2. Tale I.     3. Tale II. - 4. Il linguaggio ottuso.     - 5. Amicizia stellare.
    TENEREZZA. Tenerezza
1. Tenerezza e domanda. -
2. Tenerezza e desiderio.
    UNIONE. Unione
    1. Paradiso. - 2. Non raffigurabile. -
    3. Senza ruolo.     4. Mortale e possibile.
    VAGARE. Il vascello fantasma
    1. Scomparsa dell'amore. - 2. Fenice.     - 3. Un mito. - 4. La sfumatura.
    VERITA. Verità
    1. Il potere assoluto. - 2. La     sensazione di verità. - 3. La parte     irriducibile del fantasma.     4. La veste di sette kin.
    VIE D'USCITA. Idee di soluzione     1. Porte sbarrate. - 2. Patetico. -
    3. La trappola.
    VOLER-PRENDERE. Sobria ebrietas
    1. Non-voler-prendere. - 2. Ritirarsi     senza cedere. - 3. Una mossa tattica?     - 4. Tra lo Zen e il Tao.     5. Sobria ebriems.
    Tabula gratulatoria
La necessità di questo libro sta nella seguente considerazione: il discorso amoroso è oggi "d'una estrema solitudine". Questo discorso è forse parlato da migliaia di individui (chi può dirlo?), ma non è sostenuto da nessuno; esso si trova ad essere completamente abbandonato dai discorsi vicini: oppure è da questi ignorato, svalutato, schernito, tagliato fuori non solo dal potere, ma anche dai suoi meccanismi (scienze, arti, sapere). Quando un discorso viene, dalla sua propria forza, trascinato in questo modo nella deriva dell'inattuale, espulso da ogni forma di gregarietà, non gli resta altro che essere il luogo, non importa quanto esiguo, di un'"affermazione". Questa affermazione è in definitiva l'argomento del libro che ha qui inizio.
Come è fatto questo libro.
Tutto è partito da questo principio: che non bisognava ridurre l'innamorato a un puro e semplice soggetto sintomatologico, ma piuttosto dar voce a ciò che in lui vi è d'inattuale, vale a dire d'intrattabile. Di qui la scelta di un metodo "drammatico", che rinuncia agli esempi e si basa unicamente sull'azione d'un linguaggio immediato (niente metalinguaggio). La descrizione del discorso amoroso è stata perciò sostituita dalla sua simulazione, e a questo discorso è stata restituita la sua persona fondamentale, che è l'io, in modo da mettere in scena non già un'analisi, ma un'enunciazione. Quello che viene proposto è, se si vuole, un ritratto; ma questo ritratto non è psicologico, bensì strutturale: esso presenta una collocazione della parola: la collocazione di qualcuno che parla dentro di sé, amorosamente, di fronte all'altro (l'oggetto amato), il quale invece non parla.
1. Figure.
"Dis-cursus" indica, in origine, il correre qua e là, le mosse, i "passi", gli "intrighi". In effetti, l'innamorato non smette mai di correre con la mente, di fare nuovi passi e d'intrigare contro se stesso. Il suo discorso non esiste mai se non attraverso vampate di linguaggio che gli vengono in seguito a circostanze infime, aleatorie.
Possiamo chiamare questi frammenti di discorso delle "figure". La parola non va intesa nel senso retorico, ma piuttosto nel senso ginnico o coreografico; in altre parole, nel senso greco: "schèma", non è lo "schema"; è, in un'accezione ben più viva, il gesto del corpo colto in movimento, e non già contemplato in stato di riposo: il corpo degli atleti, degli oratori, delle statue: ciò che è possibile immobilizzare del corpo sotto sforzo. Lo stesso si può dire dell'innamorato in preda alle sue figure: esso si dimena in uno sport un po' pazzo, si prodiga, proprio come l'atleta; fraseggia, come l'oratore; è cristallizzato, siderato in un ruolo, come una statua. La figura è l'innamorato al lavoro. Le figure prendono rilievo a seconda che, nel discorso che si sta facendo, si possa individuare qualcosa che è stato letto, sentito, provato. La figura è delineata nei suoi contorni (come un segno) e memorabile (come un'immagine o un racconto). Una figura è fondata se almeno una persona può dire: "Com'è vero, tutto ciò! Riconosco questa scena di linguaggio". Per certe operazioni della loro arte, i linguisti si giovano di una cosa alquanto vaga: il sentimento linguistico; per formare le figure, bisogna soltanto farsi guidare dal sentimento amoroso,
In fondo, che la dispersione del testo sia molta in un punto e poca in un altro, ha scarsa importanza; vi sono dei tempi morti, e non sono poche le figure evanescenti; certune, essendo delle ipostasi dell'intero discorso amoroso, hanno addirittura la rarità - la scarsezza - delle essenze: che dire delle figure del Languore, dell'Immagine, della Lettera d'amore, dal momento che è tutto il discorso amoroso ad essere intessuto di desiderio, d'immaginario e di dichiarazioni? Ma chi fa questo discorso e ne mette in risalto gli episodi non sa che del suo discorso verrà fatto un libro; non sa ancora che da buon soggetto culturale egli non deve nè ripetersi, nè contraddirsi, nè prendere il tutto per la parte; egli sa soltanto che ciò che gli passa per la testa nel tale momento è "segnato", come il marchio di un codice (in passato, sarebbe stato il codice dell'amor cortese, o la carta del paese dell'Amore).
Ciascuno può riempire questo codice con la sua propria storia; smilza o no, bisogna dunque che la figura sia là, che il posto (la casella) sia tenuto libero. E come se vi fosse una Topica amorosa, la cui figura fosse un luogo (topos). Ora, la peculiarità d'una Topica è di essere un po' vuota: per sua essenza, una Topica è per metà codificata e per metà proiettiva (o proiettiva in quanto codificata). Ciò che qui si è potuto dire dell'attesa, dell'angoscia, del ricordo, non è mai altro che un modesto supplemento offerto al lettore affinché se ne impossessi, vi aggiunga del suo, vi tolga ciò che non gli serve e lo passi ad altri: intorno alla figura, i giocatori fanno correre il furetto; talora, con un'ultima parentesi, l'anello viene trattenuto ancora un istante, prima di passarlo. (Idealmente, il libro sarebbe una cooperativa: "Ai Lettori - agli Innamorati - Riuniti").
Quello che si legge nel lemma posto in capo alla pagina non è la definizione della figura, ma il suo argomento. "Argumentum": "esposizione, racconto, sommario, piccolo dramma, storia inventata"; io aggiungo: strumento di distanziazione, didascalia alla Brecht. Questo argomento non si riferisce a ciò che è il soggetto amoroso (niente e nessuno di estraneo al soggetto, nessun discorso sull'amore), ma a ciò che esso dice. Se c'è la figura "Angoscia", è perché talvolta il soggetto esclama (senza curarsi dell'accezione clinica della parola): "Sono angosciato!" - "Angoscia!", canta da qualche parte la Callas. La figura è in un certo senso un'aria d'opera; e come l'aria viene identificata, rimemorata e maneggiata attraverso il suo "incipit" ("Voglio vivere questo sogno", "E ora piangi!" - "Lucean le stelle", "Piangerò la mia sorte"), così la figura prende le mosse da una certa cadenza di linguaggio (una sorta di versetto, di refrain, di cantilena) che l'articola nell'ombra.
Si dice che soltanto le parole abbiano un loro impiego, non le frasi; ma nel fondo di ciascuna figura c'è una frase, spesso sconosciuta (incosciente?), che trova la sua utilizzazione nell'economia significante del soggetto amoroso. Questa frase madre (qui solo postulata) non è una frase pienamente formata, non è un messaggio compiuto. Il suo principio attivo non è quello che essa esprime, ma ciò che essa articola: tutto considerato, quella frase non è altro che un "motivo sintattico", un "modo di costruzione". Ad esempio, se il soggetto aspetta a un appuntamento l'oggetto amato, un motivo di frase si agita nella sua testa: "Certo che però non è il modo di fare..."; "lui/lei avrebbe ben potuto..."; "lui/lei sa benissimo che...": potere, sapere che cosa? Non ha nessuna importanza: la figura "Attesa" è già formata. Queste frasi sono delle matrici di figure proprio perché restano sospese: esse esprimono il momento emotivo e poi si fermano: hanno fatto la loro parte. Le parole non sono mai pazze (tutt'al più sono perverse): è la sintassi che è pazza; infatti, non è forse a livello di frase che il soggetto cerca la sua collocazione - e non la trova - o trova una collocazione falsa che gli è imposta dalla lingua? Nella figura, c'è qualcosa dell'"allucinazione verbale" (Freud, Lacan): frase troncata che il più delle volte si limita alla sua parte sintattica ("Sebbene tu sia...", "Se tu dovessi ancora..."). Così nasce la turbolenza di ogni figura: anche la più dolce porta in se' il palpito di una "suspense": io avverto in essa il "quos ego"... nettuniano, tempestoso.
2. Ordine.
Per tutta la durata della vita amorosa, le figure spuntano nella mente del soggetto amoroso senza un qualsiasi ordine, dato che esse dipendono ogni volta da un caso (interiore o esteriore). Ad ogni accidente (che gli "cade" addosso), l'innamorato attinge dalla riserva (dal tesoro?) di figure, secondo i bisogni, le esigenze o i piaceri del suo immaginario. Ogni figura brilla, vibra da sola come un suono avulso da qualsiasi melodia - o si ripete, fino alla nausea, come il motivo d'una musica che aleggia nell'aria. Nessuna logica lega tra loro le figure, né determina la loro contiguità: le figure sono fuori sintagma, fuori racconto; sono delle Erinni; esse si agitano, cozzano tra loro, si chetano, ritornano, s'allontanano, senza avere più ordine di un nugolo di zanzare. Il dis-cursus amoroso non è dialettico; esso funziona come un calendario perpetuo, come un'enciclopedia della cultura affettiva (l'innamorato ha qualcosa di Bouvard e Pecuchet).
In termini linguistici, si direbbe che le figure sono distribuzionali, senza però essere integrative;
esse restano sempre allo stesso livello: l'innamorato parla mediante gruppi di frasi, ma non integra queste frasi a un livello superiore, a un'opera; il suo è un discorso orizzontale: nessuna trascendenza, nessuna salvezza, nessun romanzo (ma molto di romanzesco). Naturalmente, ogni episodio amoroso può essere dotato d'un senso: esso nasce, si sviluppa e muore: segue cioè una sua strada che può sempre essere interpretata come una causalità o una finalità, sia pure per moralizzare ("Ero pazzo e ora sono guarito", "L'amore è un'illusione da cui d'ora innanzi mi saprò guardare", eccetera): è la "storia d'amore", asservita al grande Altro narrativo, all'opinione generale che sminuisce qualsiasi forza eccessiva e vuole che lo stesso soggetto riduca il grande flusso immaginario, che lo ha attraversato senza ordine e senza fine, a una crisi dolorosa, morbosa, da cui bisogna guarire ("La cosa nasce, si gonfia, fa soffrire e poi passa", proprio come una malattia ippocratica): la storia d'amore (l'"avventura") è il tributo che l'innamorato deve pagare al mondo per riconciliarsi con esso.
Tutt'altra cosa è il discorso, il soliloquio, l'"a parte", che accompagna questa storia "senza mai conoscerla". Il principio stesso di questo discorso (e del testo che lo rappresenta) è che le sue figure non possono "disporsi": ordinarsi, progredire, concorrere a un fine (a una sistemazione): tra le varie figure, non ce ne sono di prime e di ultime. Per far capire che qui non si trattava di una storia d'amore (o della storia d'un amore), per scoraggiare la tentazione del senso, era necessario scegliere un ordine "assolutamente insignificante". La successione delle figure (inevitabile, dal momento che per sua essenza il libro è costretto ad avere una progressione) è stata perciò sottoposta a due arbitrarietà riunite: quella della nomenclatura e quella dell'alfabeto. Ciascuna di queste due arbitrarietà è però temperata: l'una dalla ragione semantica (fra tutti i nomi del dizionario, una figura può solo riceverne due o tre), l'altra dalla millenaria convenzione che regola l'ordine del nostro alfabeto.
Si sono cosi' evitate le insidie del Caso, il quale avrebbe benissimo potuto produrre delle sequenze logiche; infatti, dice un matematico, non bisogna "sottovalutare la potenza del caso nel generare dei mostri"; nel caso specifico, il mostro, nascendo da un certo ordine di figure, sarebbe stato una "filosofia dell'amore", proprio dove invece bisogna aspettarsi soltanto la sua affermazione.
3. Riferimenti.
Per comporre questo soggetto amoroso, sono stati "montati" dei pezzi di origine diversa. Ve ne sono che derivano da una lettura regolare, quella del "Werther" di Goethe. Ve ne sono che derivano da letture insistenti (il Simposio di Platone, lo Zen, la psicanalisi, certi mistici, Nietzsche, i "Lieder" tedeschi). Ve ne sono che derivano da letture occasionali e altri che derivano da conversazioni con amici. E infine vi è ciò che deriva dalla mia propria vita.
Le parti desunte dai libri e dagli amici compaiono talvolta a margine del testo, sottoforma di nomi, per quanto riguarda i libri, e di iniziali, per quanto riguarda gli amici. I riferimenti forniti non sono dati d'autorità ma a titolo d'amicizia: io non invoco delle garanzie, ma semplicemente ricordo, con un cenno fatto di sfuggita, ciò che ha sedotto; convinto, o che per un istante ha dato il piacere di capire (di essere capito?). Questi richiami d lettura, di ascolto, sono stati quindi lasciati nello stato spesso incerto, incompiuto, che si addice a un discorso la cui istanza è unicamente la memoria dei luoghi (libri, incontri) in cui la tale cosa è stata letta, detta, sentita. Infatti, se l'autore dà qui in prestito al soggetto amoroso la sua "cultura", in cambio il soggetto amoroso gli trasmette l'innocenza del suo immaginario, indifferente al corretto uso del sapere.
"E' dunque un innamorato che parla e che dice": "Nell'amorosa quiete delle tue braccia".
ABBRACCIO. Per il soggetto, il gesto dell' abbraccio amoroso sembra realizzare, per un momento, il sogno di unione totale con l'essere amato.
1. Oltre all'accoppiamento (e al diavolo l'Immaginario), vi è quest'altro abbraccio, che è una stretta immobile: siamo ammaliati, stregati: siamo nel sonno, senza dormire; siamo nella voluttà infantile dell'addormentamento: è il momento delle storie raccontate, della voce che giunge a ipnotizzarmi, a straniarmi, è il ritorno alla madre ("nell'amorosa quiete delle tue braccia", dice una poesia musicata da Duparc (DUPARC: "Chanson triste", poesia di Jean Lahor. Si tratta di cattiva poesia? Ma la "cattiva poesia" coglie il soggetto amoroso nel registro espressivo che appartiene solo a lui: l'"espressione"). In questo incesto rinnovato, tutto rimane sospeso: il tempo, la legge, la proibizione: niente si esaurisce, niente si desidera: tutti i desideri sono aboliti perché sembrano essere definitivamente appagati.
2. Tuttavia, nel mezzo di questo abbraccio infantile, immancabilmente, il genitale si fa sentire; esso viene a spezzare l'indistinta sensualità dell'abbraccio incestuoso; la logica del desiderio si mette in marcia, riemerge il voler prendere, l'adulto si sovrappone al bambino e, a questo punto, io sono contemporaneamente due soggetti in uno: io voglio la maternità e la genitalità. (L'innamorato potrebbe definirsi un bambino con il membro eretto: tale era il giovane Eros).
3. Momento dell'affermazione; per un po', anche se limitatamente, disordinatamente, qualcosa è andato per il verso giusto: sono stato appagato (tutti i miei desideri aboliti attraverso la pienezza del loro soddisfacimento): l'appagamento esiste, e io lotterò senza tregua per ottenerlo di nuovo:
attraverso tutti i meandri della storia amorosa, mi ostinerò a voler ritrovare, rinnovare, la contraddizione - la contrazione - dei due abbracci.
Frac turchino e gilet giallo.
ABITO. Ogni fenomeno emotivo suscitato o alimentato dal vestito che il soggetto ha indossato in occasione dell'incontro amoroso o che indossa nell'intento di sedurre l'oggetto amato.
1. In vista d'un appuntamento che mi esalta, io faccio accuratamente la mia toilette. Questa parola non ha sola mente un significato di graziosità; senza parlare dell'uso scatologico che se ne fa, essa designa anche "i preparativi ai quali viene sottoposto il condannato a morte prima di essere condotto al patibolo"; e ancora: "la membrana oleosa e chiara che viene adoperata in macelleria e in salumeria per avvolgere certi tagli". E' come se, alla fine di ogni toilette, vi fosse sempre, compreso nell'eccitazione che essa suscita, il corpo ucciso, imbalsamato, laccato, imbellito alla maniera di una vittima. Vestendomi, io faccio bello ciò che sta per essere guastato dal desiderio.
2. Socrate (SIMPOSIO: 155): "Mi sono fatto bello, per andare bello da un bello". Io devo rassomigliare a chi amo. lo postulo (ed è questo ciò che mi delizia) una conformità di essenza fra l'altro e me. Immagine, imitazione: faccio il maggior numero possibile di cose come l'altro. lo voglio essere l'altro voglio che lui sia me, come se noi fossimo uniti, rinchiusi nel medesimo sacco di pelle, giacché il vestito non è altro che il liscio involucro di quella materia coalescente di cui il mio Immaginario amoroso è fatto.
3. Werther: "M'è costato fatica decidermi a togliermi di dosso il mio semplice frac turchino che avevo la prima volta quando ho ballato con Lotte, ma negli ultimi tempi era ridotto proprio indecente. Però me ne son fatto fare uno uguale..." (WERTHER: 103 e 159-60). E' con quel vestito (frac turchino e gilet giallo) che Werther vuole essere sepolto ed è con quel vestito che egli viene trovato agonizzante nella sua stanza.
Ogni volta che mette quel vestito (con il quale morirà), Werther si traveste. Da che cosa? Da innamorato estasiato: egli ricrea magicamente l'episodio dell'estasi, il momento in cui si è trovato siderato dall'Immagine. Quel vestito turchino lo rinserra talmente forte, che il mondo circostante si annulla: "soltanto noi due": mediante quel vestito, Werther si forma un corpo da bambino in cui fallo e madre sono uniti, senza niente al di là. Quel vestito pervertitore è stato indossato in tutta Europa dai fans del romanzo, che lo hanno chiamato "vestito alla Werther".
"Adorabile!".
ADORABILE. Non riuscendo a precisare la specialità del suo desiderio per l'essere amato, il soggetto amoroso non trova di meglio che questa parola un po' stupida: "adorabile"!
1. "In una bella giornata di settembre, uscii per fare delle compere. Quel giorno Parigi era "adorabile"... eccetera".
Una massa di percezioni vengono bruscamente a formare un'impressione meravigliosa
(meravigliare, significa al limite impedire di vedere, di dire): che tempo fa, la stagione, la luce, il viale, la camminata, i Parigini, lo shopping, tutto questo è contenuto in ciò che ha già vocazione di ricordo: un quadro, insomma, il geroglifico della benevolenza (come l'avrebbe dipinto Greuze), il buonumore del desiderio (DIDEROT: sulla teoria dell'istante pregnante (Lessing, Diderot), si veda di Diderot, ("Oeuvres complètes", 3, 542). Parigi intera è a mia disposizione, senza che io abbia intenzione di prenderla: né languore, né cupidigia. Dimentico tutto il reale che, in Parigi, supera il suo fascino: la storia, il lavoro, i soldi, la merce, l'indifferenza delle grandi città; per me essa non è che l'oggetto d'un desiderio esteticamente "represso" (Balzac). Dall'alto del Père-Lachaise, Rastignac sfidava la città: "E ora, a noi due"; io dico a Parigi: "Adorabile"!
Con un'impressione della notte ancora addosso, mi risveglio illanguidito da un pensiero allegro: "Ieri sera, X... era adorabile" (GRECO: Détienne, 113). E' il ricordo di che cosa? Di ciò che i Greci chiamavano la "charis": "lo splendore degli occhi, la bellezza luminosa di un corpo, il fascino dell'essere desiderabile"; può darsi persino che, come nella "charis" antica, io vi aggiunga l'idea - la speranza - che l'oggetto amato si concederà al mio desiderio.
2. Con una logica tutta particolare, il soggetto amoroso sente l'altro come un Tutto (come se si trattasse della Parigi autunnale) e, al tempo stesso, questo Tutto gli sembra comportare un resto, che egli non può esprimere. E' soltanto l'altro a produrre in lui una visione estetica: egli lo elogia per il fatto di essere perfetto, si gloria per averlo scelto perfetto; immagina che l'altro voglia essere amato, come vorrebbe esserlo lui stesso, non già per questa o quella sua qualità, ma per "tutto", e questo "tutto" glielo concede sottoforma di una parola vuota, giacché Tutto non potrebbe inventariarsi senza sminuirsi: all'infuori del "tutto" dell'affetto, in "Adorabile!" non è contenuta nessuna qualità. Tuttavia, esprimendo tutto, "adorabile" esprime anche ciò che manca al tutto; la parola vuole designare lo spazio dell'altro in cui viene "specialmente" ad innestarsi il mio desiderio, ma questo spazio non è designabile; io non saprò mai niente di lui; il mio linguaggio sarà sempre confuso, esso cincischierà nel tentativo di esprimerlo, ma io non potrò mai produrre altro che una parola vuota, la quale è come il grado zero di tutti gli spazi in cui si forma il desiderio specialissimo che io ho di quell'altro là (e non di un altro).
3. Nella mia vita, io incontro milioni di corpi; di questi milioni io posso desiderarne delle centinaia; ma, di queste centinaia, io ne amo uno solo. L'altro di cui io sono innamorato mi designa la specialità del mio desiderio.
Questa scelta, rigorosa al punto da non prendere in considerazione che l'Unico, costituisce, si dice, la differenza tra il transfert analitico e il transfert amoroso; l'uno è universale, l'altro è specifico (LACAN: "Non avviene tutti i giorni d'incontrare ciò che è fatto per darvi la giusta immagine dei vostro desiderio" ("Il Seminario", 1, 178). Per trovare l'Immagine che, tra migliaia, si confà al mio desiderio, ci sono volute molte combinazioni, molte sorprendenti coincidenze (e forse molte ricerche) (PROUST: scena della specialità dei desiderio: incontro di Charlus con Jupien nel cortile del palazzo di Guermantes (all'inizio di "Sodoma e Gomorra"). E' un enigma che io non riuscirò mai a risolvere: perché mai desidero il Tale? Perché lo desidero persistentemente, languidamente? E' tutto lui che desidero (una sagoma, una forma, un'aria)? O è solamente una parte di quel corpo? E, in tal caso, che cos'è che, in quel corpo amato, ha per me il valore di feticcio? Quale porzione, per quanto esigua sia, quale sua caratteristica? Il taglio di un'unghia, un dente leggermente rotto di sbieco, una ciocca di capelli, un certo modo di muovere le dita mentre parla, mentre fuma? Di tutte queste "caratteristiche" del corpo, ho voglia di dire che sono "adorabili". "Adorabile" vuol dire: questo è il mio desiderio, in quanto esso è unico: "E' questo! E' esattamente questo (che io amo)!" Tuttavia, più provo la specialità del mio desiderio, meno sono in grado di precisarla; alla precisione di ciò che voglio dire corrisponde uno sfocamento del nome; il proprio del desiderio non può produrre altro che un improprio dell'enunciato. Di questo fallimento linguistico, resta soltanto una traccia: la parola "adorabile" (la buona traduzione di "adorabile" sarebbe l'"ipse" latino: proprio lui in persona).
4. "Adorabile" è la traccia insignificante d'una fatica, che è poi la fatica del linguaggio. Una parola dopo l'altra, mi logoro a dire in modo diverso la stessa cosa della mia Immagine, a dire impropriamente quello che è proprio del mio desiderio: un viaggio al termine del quale la mia filosofia ultima non può essere altro che quella di riconoscere - e praticare - la tautologia. E' adorabile "ciò che è adorabile". O anche: ti adoro perché sei adorabile, ti amo perché ti amo. Ciò che limita cosi' il linguaggio amoroso, è precisamente ciò che lo ha istituito: la fascinazione. Giacché descrivere la fascinazione non può mai, "in fin dei conti", andare al di là di questo enunciato: "io sono affascinato". Avendo raggiunto il limite estremo del linguaggio, là dove, come un disco che si è incantato, esso non può che ripetere "la sua ultima parola", io mi stordisco con la sua affermazione: la tautologia non è forse quella improbabile situazione in cui, con tutti i valori mescolati fra loro, si ritrovano la fine gloriosa dell'operazione logica, l'osceno dell'imbecillità e l'esplosione del "s" nietzschiano?
L'Intrattabile.
AFFERMAZIONE. Nonostante tutto, il soggetto amoroso afferma l'amore come valore.
1. Malgrado le difficoltà della mia vicenda, malgrado i disagi, i dubbi, le angosce, malgrado il desiderio di uscirne fuori, dentro di me non smetto di affermare l'amore come un valore. Ascolto tutti gli argomenti che i sistemi più disparati adoperano per demistificare, limitare, cancellare, in poche parole svilire l'amore, ma mi ostino: "Si certo, lo so, però..." Attribuisco il discredito nei confronti dell'amore a una sorta di morale oscurantista, a un realismo-farsa, a cui oppongo il reale del valore: a tutto "ciò che non va" nell'amore, contrappongo l'affermazione di ciò che in esso vale. Questa caparbietà è la protesta d'amore: dietro il coro delle "buone ragioni" per amare diversamente, per amare meglio, per amare senza essere innamorati, eccetera, si fa udire una voce caparbia che dura un po' più a lungo: la voce dell'Intrattabile amoroso.
Il mondo pone ogni iniziativa di fronte a un'alternativa; quella della riuscita o del fallimento, della vittoria o della sconfitta. lo affermo un'altra logica: contraddittoriamente, io sono al tempo stesso felice e infelice: per me, "riuscire" o "fallire" hanno soltanto un significato contingente, effimero (ciò che non toglie che le mie pene e i miei desideri siano violenti); quello che, sordamente e ostinatamente, mi anima non è affatto calcolato: io accetto e affermo fuori del vero e del falso, fuori di ciò che è riuscito e di ciò che è fallito; non mi pongo alcuna finalità, vivo secondo il caso (a riprova che le figure del mio discorso mi vengono per combinazione) (PELLEAS: "Che hai? Tu non mi sembri felice. Si, sono felice, ma sono triste"). Se misurato all'avventura (cosa che mi capita), non ne esco né vincitore né vinto: sono tragico [SCHELLING: "L'essenziale della tragedia è [...] un conflitto reale fra la libertà nel soggetto e la necessità oggettiva, conflitto che si risolve non per la sconfitta dell'uno o dell'altro, ma perché tutti e due, ad un tempo vincitori e vinti, appaiono nella perfetta indifferenza" (citato da Szondi, 12)].
(Mi si dice: questa specie d'amore non dà frutti. Ma come poter valutare ciò che fruttifica? Perché ciò che dà frutti è un Bene? Perché durare è meglio che bruciare?)
2. Stamattina, devo scrivere con urgenza una lettera "importante" - dalla quale dipende il successo d'una certa iniziativa; scrivo invece una lettera d'amore - che non spedisco. Abbandono allegramente tristi incombenze, ragionevoli scrupoli, comportamenti reattivi imposti dal mondo, a beneficio d'un compito inutile, derivato da un Dovere luminoso: il Dovere amoroso. Con discrezione, faccio delle cose pazze; sono l'unico testimone della mia follia. Quello che l'amore mette a nudo in me è l'energia. Tutto ciò che faccio ha un senso (posso perciò vivere senza lamentarmi), ma questo senso è una finalità inafferrabile: esso non è altro che la coscienza della mia forza. Le inflessioni dolenti, colpevoli, tristi, tutto il reattivo della mia vita d'ogni giorno è sconvolto [(WERTHER: Mio caro, se un eccesso fisico viene considerato come una forza, perché non lo sarà anche l'eccesso dei sentimenti?" (59)].
. Werther esalta la sua propria tensione e l'afferma di fronte alle insulsaggini di Alberto. Nato dalla letteratura, egli non può parlare se non valendosi dei suoi soliti codici; nondimeno, io sono solo con la mia forza, votato alla mia propria filosofia.
3. Nell'Occidente cristiano, tutta la forza passa, sino ad oggi, attraverso l'Interprete come tipo (in termini nietzschiani, il Prete giudaico) [J.-L. B.: conversazione]. Ma la forza amorosa non può spostarsi, mettersi di nuovo nelle mani d'un Interprete; essa resta dov'è, con il linguaggio, incantata, intrattabile. In questo caso, il tipo non è il Prete, ma l'Innamorato.
4. Vi sono due affermazioni dell'amore. Innanzitutto, quando l'innamorato incontra l'altro, c'è affermazione immediata (psicologicamente: estasi, entusiasmo, esaltazione, proiezione folle d'un avvenire appagato: sono divorato dal desiderio, dall'impulso di essere felice): dico di si a tutto (illudendomi). A tutto questo fa seguito un lungo tunnel: il mio primo si è roso dal dubbio, il valore amoroso è continuamente minacciato dallo svilimento: è il momento della passione triste, il momento in cui vanno crescendo il risentimento e l'oblazione. Da questo tunnel, tuttavia, io posso uscire; posso "sormontare", senza liquidare; ciò che ho affermato una prima volta, posso affermarlo nuovamente, senza ripeterlo, poiché ciò che affermo è l'affermazione, non la sua contingenza: affermo il primo incontro nella sua differenza, voglio il suo ritorno, non la sua ripetizione. Io dico all'altro (vecchio o nuovo): "Ricominciamo" [NIETZSCHE: tutto ciò secondo Deleuze, 77 e 218 (sull'affermazione dell'affermazione)].
Un piccolo punto del naso.
ALTERAZIONE. Produzione breve, nel campo amoroso, d'una controimmagine dell'oggetto amato. Sulla base di episodi trascurabili o di minimi connotati, il soggetto vede l'Immagine buona alterarsi improvvisamente e rovesciarsi.
1. Ruysbroeck giace sepolto da cinque anni; viene riesumato; il suo corpo è intatto e puro (evidentemente! sennò non ci sarebbe niente da dire); ma: "solamente un piccolo punto del naso recava una traccia leggera, ma inequivocabile, di corruzione" [DOSTOEVSKIJ: Sepoltura di padre Zosima; l'odore di putrefazione del cadavere ("I fratelli Karamazov", 438-48)]. Sul volto perfetto e come imbalsamato dell'altro (a tal punto esso mi affascina), scorgo tutt'a un tratto un punto di corruzione. Questo punto è minuscolo: un gesto, una parola, un oggetto, un vestito, qualcosa d'insolito che emerge (che prende risalto) da una regione di cui non avevo mai sospettato l'esistenza, e che bruscamente unisce l'oggetto amato a un mondo piatto. L'altro, di cui devotamente lodavo l'eleganza e l'originalità, sarebbe dunque volgare? Egli fa un gesto ed ecco che in lui si disvela un'altra razza. Sono "sbigottito": avverto un controritmo: qualcosa come una sincope nella bella frase dell'essere amato, il rumore di uno strappo nel liscio involucro dell'Immagine.
(Come la gallina del gesuita Kircher, che viene ridestata dall'ipnosi con un colpetto sull'ala, io sono provvisoriamente, e non senza dolore, disinnamorato).
2. Si direbbe che l'alterazione dell'Immagine si produca quando "io ho vergogna" per l'altro (secondo Fedro, la paura di questa vergogna tratteneva gli amanti greci nella sfera del Bene, dal momento che ognuno doveva controllare la propria immagine sotto lo sguardo dell'altro). Orbene, la vergogna deriva dalla soggezione: in seguito a un episodio di nessun conto, che solo la mia perspicacia o il mio delirio riescono a cogliere, l'altro appare subitamente - si disvela, squarcia il velo, si rivela, nel senso fotografico del termine - come "asservito" a un'istanza che è essa stessa di ordine servile: tutt'a un tratto io lo vedo (tanto per parlare in termini di "visione") affannarsi, perdere la testa, o semplicemente ostinarsi a compiacere, a rispettare, a piegarsi a dei riti mondani attraverso i quali egli spera di farsi riconoscere. Giacché la brutta Immagine non è un'immagine cattiva; è un'immagine "meschina": essa mi fa vedere l'altro preso nel conformismo del mondo sociale. (O anche: l'altro si altera se si conforma alle banalità che il mondo professa per svilire l'amore: l'altro diventa gregario) [HEINE: "Sie sassen und tranken ana Teetisch..." ("Intermezzo lirico", 50, 144) ].
3. Una volta, parlando di noi, l'altro mi ha detto: "una relazione di qualità"; questa parola non mi è piaciuta: essa scaturiva bruscamente dal di fuori, banalizzando la specialità del rapporto con una formula conformista.
Spesso, l'altro si altera attraverso il linguaggio; egli dice una parola diversa e subito sento tumultuare minacciosamente "un mondo completamente diverso", che è poi il mondo dell'altro. Essendosi Albertine lasciata sfuggire l'espressione scurrile "farmi rompere..." [PROUST: "La prigioniera", 347-50], il narratore proustiano ne è inorridito, poiché ciò che di colpo viene a essere svelato è il temuto ghetto dell'omosessualità femminile, dell'adescamento volgare: tutta una scena vista attraverso il buco della serratura del linguaggio. La parola è fatta d'una sostanza chimica impalpabile che opera le più violente alterazioni: a lungo imbozzolato nel mio discorso, attraverso una parola che gli scappa, l'altro fa udire i linguaggi che egli può "prendere a prestito", e che di conseguenza degli altri gli prestano.
4. Altre volte, l'altro mi appare asservito a un desiderio. Ma ciò che allora stona in lui, non è per me un desiderio formato, precisato, espresso, rivolto a qualcosa di preciso - nel qual caso io sarei semplicemente geloso (il che dipende da un'altra causa); quello che io individuo nell'altro, e di cui lui non ha coscienza, è solo un desiderio nascente, una vampata di desiderio: nella conversazione, lo vedo agitarsi, moltiplicarsi, "strafare", mettersi in posizione di questuante nei confronti di un terzo, come attaccato a lui per sedurlo. Osservate bene tale riunione: ci vedrete questo soggetto che perde la testa (moderatamente, mondanamente) per quest'altro, spinto a stabilire con lui una relazione più calorosa, più esigente, più adulatoria: io sorprendo l'altro, per così dire, in flagrante delitto d'inflazione di se stesso. Avverto uno "smarrimento d'essere", che non è poi molto diverso da ciò che Sade avrebbe chiamato l'"effervescenza di testa" ("Vidi lo sperma spandersi dai suoi occhi"); e, per poco che il partner sollecitato risponda nello stesso modo, la scena diventa derisoria: ho davanti a me la visione di due pavoni che, l'uno di fronte all'altro, stanno facendo la ruota [FLAUBERT: "Una ventata improvvisa ributtò sulla corda un lenzuolo, scoprendo alla loro vista una coppia di pavoni. La femmina si teneva ferma, accucciata; e il maschio le girava intorno facendo la ruota, s'impettiva, chiocciava; le saltò quindi sopra, ammainò le penne che scesero a coprire la femmina, a isolarla come in un'alcova. E i due grandi uccelli tremarono d'un tremito solo" ("Bouvard e Pécuchet", 227) ]. L'Immagine è corrotta perché colui che vedo tutt'a un tratto è in quel momento "un altro" (e non più l'altro), un estraneo (un pazzo?).
(Allo stesso modo, sul treno di Biskra, Gide, cedendo al gioco dei tre scolari algerini, "ansimante, trafelato", dinanzi a sua moglie che faceva finta di leggere, aveva l'aria "di un criminale o d'un pazzo" [GIDE: "Et nunc manet in te", 1134]. Qualsiasi altro desiderio che non sia il mio non è forse "folle"?)
5. Il discorso amoroso è solitamente un involucro liscio che aderisce all'Immagine, un morbidissimo guanto intorno all'essere amato. E' un discorso devoto, benpensante. Quando l'Immagine si altera, l'involucro di devozione si strappa; una scossa viene a sconvolgere il mio proprio linguaggio [WERTHER: 108]. Avendo colto una frase che lo ferisce, Werther vede improvvisamente Carlotta nelle vesti d'una comare e la include nel gruppo delle sue amiche con le quali essa sta cianciando (essa non è più l'altro, ma un'altra fra delle altre), e a quel punto egli dice con disprezzo: "le mie donnette" ("meine Weibchen"). Una "bestemmia" sale all'improvviso alle labbra del soggetto e viene insolentemente a spezzare la benedizione dell'innamorato; esso è posseduto da un demone che parla attraverso la sua bocca da cui, come nelle fiabe, escono non più fiori, ma rospi. Orribile riflusso dell'Immagine.
(L'orrore di guastare è ancora più forte dell'angoscia di perdere).
Agony.
ANGOSCIA. A seconda di tale o talaltra circostanza, il soggetto amoroso si sente trascinato dalla paura di un pericolo, di una ferita, di un abbandono, di un improvviso cambiamento - sentimento che egli esprime con la parola "angoscia".
1. Stasera sono tornato solo all'albergo; l'altro ha deciso di rientrare più tardi. Le angosce sono già l, come il veleno preparato (la gelosia, l'abbandono, l'inquietudine); per potersi manifestare pienamente, esse aspettano solo che passi un po' di tempo. "Con calma", prendo un libro e un sonnifero. Il silenzio di questo grande albergo è sonoro, indifferente, idiota (lontano gorgoglio delle vasche da bagno che si stanno svuotando); i mobili, le lampade, sono stupidi; niente di "amichevole" che mi riscaldi ("Ho freddo, torniamo a Parigi"). L'angoscia sale; ne osservo la progressione, come Socrate chiacchierando (e io leggendo) sentiva accrescersi il freddo della cicuta; "la ascolto" precisarsi, sollevarsi, come una figura inesorabile, sullo sfondo "delle cose che sono lì". (E se, "affinché succeda qualcosa", facessi un voto?)
2. Lo psicotico vive nel timore del crollo (di cui le diverse psicosi non sarebbero altro che le difese) [WINNICOTT: ""La Crainte de l'effondrement", 75]. Ma "la paura clinica del crollo è la paura d'un crollo che è già stato subito ("primitive agony") [...] e vi sono dei momenti in cui un paziente ha bisogno che gli si dica che il crollo la cui paura mina la sua vita è già avvenuto". Lo stesso avviene, a quanto sembra, per l'angoscia d'amore: essa è la paura di una perdita che è già avvenuta, sin dall'inizio dell'amore, sin dal momento in cui sono stato stregato. Bisognerebbe che qualcuno potesse dirmi: "Non essere più angosciato, tu l'hai già perduto(a)".
Amare l'amore.
ANNULLAMENTO. Accesso di linguaggio durante il quale il soggetto giunge ad annullare l'oggetto amato sotto il volume dell'amore stesso: con una perversione propriamente amorosa, il soggetto ama l'amore, non l'oggetto.
1. Carlotta è scialba; è il meschino personaggio d'una messa in scena vigorosa, tormentata, sfavillante, allestita dal soggetto Werther, in virtù d'una sovrana decisione di questo soggetto, un oggetto insignificante viene posto al centro della scena, e là viene adorato, incensato, chiamato in causa, coperto di discorsi, di preghiere (e forse, segretamente, d'insulti); si direbbe che essa sia una grossa colomba, immobile, tutta chiusa nelle sue penne, con un maschio un po' matto che le gira intorno.
Basta che, in un lampo, io veda l'altro nelle vesti d'un oggetto inerte, come impagliato, perché trasferisca il mio desiderio da questo oggetto annullato al mio stesso desiderio; io desidero il mio desiderio, e l'essere amato non è più che il suo accessorio. Mi esalto al pensiero di una così nobile causa, che non tiene nel minimo conto la persona che ho preso a pretesto (questo è almeno quanto mi dico, felice di potermi innalzare sminuendo l'altro): io sacrifico l'immagine all'Immaginario. E se un giorno dovessi decidermi di rinunciare all'altro, il violento lutto che mi colpirebbe sarebbe il lutto dell'Immaginario: era una struttura cara, e io piangerei la perdita dell'amore, non già la perdita di questa o quella persona. (Voglio ritornarci, come la sequestrata di Poitiers voleva tornare al suo grande fondo Malempia) [Gide].
2. L'altro è dunque annullato dall'amore: da questo annullamento, io ricavo un sicuro vantaggio; non appena sono minacciato da un dolore accidentale (per esempio, un'idea di gelosia), lo riassorbo nella magnificenza e nell'astrazione del sentimento amoroso: mi placo nel desiderare ciò che, non essendoci, non può ferirmi. Tuttavia, subito dopo, soffro vedendo l'altro (che amo) così sminuito, ridotto, e come escluso dal sentimento che lui ha suscitato. Mi sento colpevole e mi rimprovero di volerlo abbandonare. A questo punto, ha luogo un rovesciamento: cerco di disannullarlo, mi obbligo a soffrire nuovamente.
"Tutte le voluttà della terra".
APPAGAMENTO. Il soggetto ricerca, con ostinazione, la possibilità di ottenere una totale soddisfazione del desiderio implicito nella relazione amorosa e di conseguire un successo completo e come eterno di questa relazione: immagine paradisiaca del Bene Supremo da dare e da ricevere.
1. "Prendete tutte le voluttà della terra, fondetele in una sola e quindi precipitatela tutt'intera in un solo uomo; ebbene, tutto ciò non è niente in confronto al godimento di cui io parlo"
[RUYSBROECK: 9, 10 e 20]. L'appagamento sarebbe dunque una precipitazione: qualcosa si condensa, fonde su di me, mi folgora. Che cos'è che mi colma a tal punto? Una totalità? No. E' qualcosa che, muovendo dalla totalità, la supera: una totalità netta, una somma senza eccezione, un luogo senza niente vicino ("la mia anima non è solo colmata, ma sommersa"). lo colmo (sono colmato), io accumulo, ma senza pormi dei limiti; io produco un "troppo", ed è proprio in questo "troppo" che l'appagamento ha luogo (il "troppo" è il regime dell'Immaginario: nel momento in cui non sono più nel "troppo", io mi sento frustrato; per me, "giusta misura" vuol dire "non abbastanza"): ho infine modo di conoscere quello stato in cui "il godimento supera le possibilità che il desiderio aveva fatto intravedere". Miracolo: lasciando dietro di me ogni "soddisfazione", senza essere né pago né satollo, oltrepasso i limiti della sazietà e, invece di trovare il disgusto, la nausea, o anche solo l'ebbrezza, scopro... la "Coincidenza" [ETIMOLOGIA: satis (abbastanza), si ritrova sia in "soddisfazione" che in "satollo" (satullus)]. La dismisura mi ha con dotto alla misura; coincido con l'Immagine, le nostre misure sono le stesse: esattezza, precisione, musica: con il "non abbastanza", io ho chiuso. Da questo momento, vivo l'assunzione definitiva dell'Immaginario, il suo trionfo.
Appagamenti: non vengono detti - di modo che, falsamente, la relazione amorosa sembra ridursi a essere un lungo lamento. Il fatto è che, se è incoerente esprimere malamente l'infelicità, per contro, nel caso della felicità, sarebbe una colpa sciuparne l'espressione: l'io parla solo quando è ferito; quando mi sento appagato o mi ricordo di esserlo stato, il linguaggio ci appare angusto: io sono "trasportato" fuori del linguaggio, cioè fuori del mediocre, del generico: "Avviene un incontro che, a causa della gioia, è intollerabile, e talora l'uomo ne è annichilito; questo è ciò che io chiamo il trasporto. Il trasporto è la gioia di cui non si può parlare".
2. In realtà, do poca importanza alle mie possibilità di essere "veramente" appagato (vorrei anzi non averne). Ciò che invece, indistruttibile, continua a risplendere, è la volontà di appagamento. Attraverso questa volontà, io derivo: io formo dentro di me l'utopia di un soggetto sottratto alla rimozione: io sono "già" questo soggetto. Questo soggetto è libertario: credere al Bene Supremo è altrettanto pazzesco che credere al Male Supremo: filosoficamente parlando, Heinrich von Ofterdingen è della medesima stoffa della Juliette sadiana.
("Appagamento" vuol dire abolizione dei retaggi: "... la Gioia non ha alcun bisogno di eredi o di bambini - La Gioia vuole se stessa, l'eternità, la ripetizione delle stesse cose, essa vuole che tutto resti com'è". - L'innamorato appagato non ha alcun bisogno di scrivere, di trasmettere, di riprodurre).
Essere ascetici.
ASCESI. Sia che si senta colpevole nei confronti dell'essere amato, sia che voglia impressionarlo mostrandogli la sua infelicità, il soggetto amoroso abbozza una condotta ascetica di autopunizione (regime di vita, abiti, ecc.).
1. Dato che sono colpevole di questo e di quello (io ho, io trovo cento ragioni per esserlo), io mi punisco, mortifico il mio corpo: mi faccio tagliare i capelli cortissimi, nascondo il mio sguardo dietro a degli occhiali scuri (come se dovessi entrare in convento), mi consacro allo studio di una scienza seria e astratta. Come un monaco, mi alzerò presto per mettermi al lavoro mentre è ancora notte. Sarò molto paziente, un po' triste, in poche parole, "degno", come si addice all'uomo risentito. Mostrerò istericamente il mio lutto (il lutto che io m'immagino) attraverso il mio vestito, il taglio dei miei capelli, la regolarità delle mie abitudini. Sarà un piacevole romitaggio, un ritiro spirituale necessario al buon funzionamento di un patetico discreto.
2. L'ascesi (la velleità d'ascesi) è rivolta all'altro: voltati, guardami, renditi conto di cosa stai facendo di me. E' un ricatto morale: io metto di fronte all'altro la figura della mia propria scomparsa, quale essa sicuramente avrà luogo se lui non cede (a che cosa?).
L'assente.
ASSENZA. Ogni episodio di linguaggio che mette in scena l'assenza dell'oggetto amato - quali che siano la causa e la durata - e tende a trasformare questa assenza in prova d'abbandono.
1. Molti Lieder, molte melodie e canzoni sull'assenza amorosa. E tuttavia, questa figura classica, in"Werther", non la si trova. La spiegazione è semplice: là, l'oggetto amato (Carlotta) non si muove; è il soggetto amoroso (Werther) che, a un certo punto, s'allontana. Orbene, l'unica assenza è quella dell'altro: è l'altro che parte, sono io che resto. L'altro è in stato di perpetua partenza, sempre sul punto di mettersi in viaggio; egli è, per vocazione, migratore, errante; io che amo sono invece, per vocazione inversa, sedentario, immobile, a disposizione, in attesa, sempre nello stesso posto, "in giacenza", come un pacco in un angolo sperduto d'una stazione. L'assenza amorosa è possibile in un solo senso e non può essere espressa che da chi resta - e non da chi parte: "io", sempre presente, non si costituisce che di fronte a "te", continuamente assente. Esprimere l'assenza equivale a significare di colpo che il posto del soggetto e il posto dell'altro non possono essere permutati; è come dire: "Sono meno amato di quanto io ami".
2. Storicamente, il discorso dell'assenza viene fatto dalla Donna: la Donna è sedentaria, l'Uomo è vagabondo, viaggiatore; la Donna è fedele (aspetta), l'uomo è cacciatore (cerca l'avventura, fa la corte) [HUGO: "Donna, chi piangi tu? - L'assente" ("L'absent", poema musicato da Faur‚)]. E' la Donna che dà forma all'assenza, che ne elabora la finzione, poiché ha il tempo per farlo; essa tesse e canta; le Tessitrici, le Canzoni cantate al telaio esprimono al tempo stesso l'immobilità (attraverso il ronzio dell'Arcolaio) e l'assenza (in lontananza, ritmi di viaggio, onde marine, cavalcate). Ne consegue che in ogni uomo che esprime l'assenza dell'altro si manifesta l'elemento "femminino": l'uomo che attende e che soffre è miracolosamente femminizzato. Un uomo è femminizzato non perché è invertito, ma perché è innamorato. (Mito e utopia: come l'origine è appartenuta, così anche l'avvenire apparterrà ai soggetti "in cui vi è del femminino") [E. B.: lettera].
3. Talvolta mi succede di sopportare bene l'assenza. lo sono allora "normale": sono in linea col modo in cui "tutti" sopportano la separazione da una "persona cara"; mi conformo con cognizione all'addestramento attraverso cui sono stato abituato assai per tempo ad essere separato da mia madre - ciò che tuttavia, in principio, non mancò di essere doloroso (per non dire sconvolgente). Agisco da soggetto ben svezzato: "aspettando", so nutrirmi di altre cose che non siano solamente il seno materno.
Questa assenza ben sopportata non è altro che l'oblio. A intermittenza, io sono infedele. P, la condizione per la mia sopravvivenza; poiché se io non dimenticassi, morirei. L'innamorato che non dimentica "qualche volta", muore per eccesso, fatica e tensione di memoria (come Werther).
(Da bambino, non dimenticavo: giornate interminabili, abbandonate, in cui la Madre lavorava lontano; la sera, andavo ad aspettarla alla fermata dell'autobus U bis, a Sèvres-Babylone; gli autobus passavano e ripassavano e lei non era in nessuno di quelli).
4. Mi risveglio molto in fretta da questo oblio. Metto frettolosamente a posto una memoria, uno smarrimento. Una parola (classica) ha origine dal corpo, che esprime l'emozione d'assenza: "sospirare": "sospirare per la presenza corporea" [DIDEROT: "Poni le tue labbra su di me / E che uscendo dalla mia bocca / La mia anima entri in te" ("Chanson dans le go–t de la romance")]: le due metà dell'androgino sospirano l'una per l'altra, come se ogni respiro, incompleto volesse confondersi con l'altro: immagine dell'abbraccio, in quanto esso fonde le due immagini in una sola: nell'assenza amorosa io sono, tristemente, un'"immagine staccata", che si secca, ingiallisce, s'accartoccia.
(Come! il desiderio non è forse sempre lo stesso, sia che l'oggetto sia presente o assente? L'oggetto non è forse "sempre" assente? - Non si tratta dello stesso struggimento: vi sono due parole: "Pathos", per il desiderio dell'essere assente, e "Himeros", più ardente, per il desiderio dell'essere presente) [GRECO: Détienne, 113].
5. All'assente, io faccio continuamente il discorso della sua assenza; situazione che è tutto sommato strana; l'altro è assente come referente e presente come allocutore. Da tale singolare distorsione, nasce una sorta di presente insostenibile; mi trovo incastrato fra due tempi: il tempo della referenza e il tempo dell'allocuzione: tu te ne sei andato (della qual cosa soffro), tu sei qui (giacché mi rivolgo a te). Io so allora che cos'è il presente, questo tempo difficile: un pezzo di angoscia pura. L'assenza si protrae e bisogna che io la sopporti. lo devo perciò "manipolarla": trasformare la distorsione del tempo in un movimento di va e vieni, produrre del ritmo, aprire la scena del linguaggio (il linguaggio nasce dall'assenza: il bambino si è fabbricato un rocchetto, lo lancia e lo riacchiappa, mimando la partenza e il ritorno della madre: un paradigma è stato creato). L'assenza diventa una pratica attiva, un "affaccendamento" (che m'impedisce di fare altro); ha luogo la creazione d'una finzione con ruoli multipli (dubbi, rinfacciamenti, desideri, malinconie). Questa messa in scena di linguaggio allontana la morte dell'altro: un brevissimo momento, si dice, separa il tempo in cui il bambino crede sua madre ancora assente da quel lo in cui la crede già morta. Manipolare l'assenza significa far durare questo momento, ritardare il più a lungo possibile l'istante in cui l'altro potrebbe, dall'assenza, piombare bruscamente nella morte.
6. La frustrazione avrebbe per figura la Presenza (ogni giorno vedo l'altro e tuttavia non ne sono sazio: l'oggetto è qui, realmente, ma, immaginariamente, seguita a mancarmi). La castrazione avrebbe invece per figura l'Intermittenza (accetto di lasciare per un po' l'altro, "senza piangere", rinuncio alla relazione, so "dimenticare"). L'Assenza è la figura della privazione; io desidero e ho bisogno simultaneamente. Il desiderio si spegne sul bisogno: questo è il fatto ossessionante del sentimento amoroso.
("Il desiderio è qui, ardente, eterno: ma Dio è più in alto, e le braccia levate non raggiungono mai l'adorata pienezza" [RUYSBROECK: 44]. Il discorso dell'Assenza è un testo con due ideogrammi: vi sono "le braccia levate del Desiderio", e vi sono "le braccia tese del Bisogno". Io oscillo, vacillo fra l'immagine fallica delle braccia levate e l'immagine bambinesca delle braccia tese).
7. Prendo posto in un caffè, da solo; gli amici vengono a salutarmi; mi sento al centro dell'attenzione, richiesto, lusingato. Ma l'altro è assente; lo convoco dentro di me affinché mi trattenga sul margine di questa compiacenza mondana, che mi spia. Faccio appello alla sua "verità" (la verità di cui egli mi dà la sensazione) per contrapporla all'isteria di seduzione in cui mi sento scivolare. Io rendo l'assenza dell'altro responsabile della mia mondanità: "invoco" la sua protezione, il suo ritorno: voglio che l'altro compaia, che, come una madre che viene a prendere il suo bambino, mi allontani dalla briosità mondana, dall'infatuazione sociale, che mi dia nuovamente "l'intimità religiosa, la gravità" del mondo amoroso.
(X... mi diceva che l'amore lo aveva protetto dalla mondanità: conventicole, ambizioni, promozioni, intrighi, alleanze, secessioni, ruoli, poteri: l'amore aveva fatto di lui un rifiuto sociale, ciò di cui egli si compiaceva).
8. Un koan buddhistico dice [s. s.: koan riferito da S. S.]: "Il maestro tiene a lungo sott'acqua la testa del discepolo; poco a poco le bollicine d'aria si diradano; all'ultimo momento, il maestro tira fuori il discepolo e lo rianima: quando desidererai la verità come hai desiderato l'aria, allora saprai cos'è". L'assenza dell'altro mi tiene la testa sott'acqua; poco a poco, io soffoco, la mia aria si fa più rarefatta: ed è attraverso quest'asfissia che io ricostituisco la mia "verità" e preparo l'Intrattabile dell'amore.
Atopos.
ATOPOS. Il soggetto amoroso riconosce l'essere amato come "atopos" (qualifica attribuita a Socrate dai suoi interlocutori), cioè inclassificabile, dotato di una originalità sempre imprevedibile.
1. L'atopia di Socrate è legata a Eros (Socrate è corteggiato da Alcibiade) e alla Torpedine (Socrate elettrizza e intorpidisce Menone) [NIETZSCHE: sull'"atopia" di Socrate, confronta Michel Guérin, "Nietzsche, Socrate héro que"]. L'altro che io amo e che mi affascina è "atopos". Io non posso classificarlo, poiché egli è precisamente l'Unico, l'Immagine irripetibile che corrisponde miracolosamente alla specialità dei mio desiderio. E' la figura della mia verità; esso non può essere fissato in alcun stereotipo (che è la verità degli altri).
Tuttavia, durante la mia vita, io ho amato o amerò più volte. Questo significherebbe dunque che il mio desiderio, per quanto speciale, si fissa su un tipo? Il mio desiderio è dunque classificabile? C'è, mi domando, fra tutti gli esseri che ho amato, un solo tratto comune che, per quanto tenue (un naso, una pelle, un qualcosa), mi permetta di dire: ecco il mio tipo! A esattamente il mio tipo", "Non è affatto il mio tipo": frase da dongiovanni; l'innamorato è dunque soltanto un dongiovanni più difficile che per tutta la vita cerca il "suo tipo"? In quale parte del corpo avverso devo leggere la mia verità?
2. Ogni volta che sul volto dell'altro leggo la sua innocenza, la sua grande innocenza, vi colgo la sua atopia: egli non sa il male che mi fa - o, per dirla con meno enfasi, non sa quanti problemi mi crea. L'innocente non è forse inclassificabile (e perciò tenuto in sospetto in ogni società la quale "si riconosce" soltanto dove può classificare delle Colpe)?
X... aveva delle "peculiarità", mediante le quali era facile classificarlo (era "indiscreto", "furbastro", "sornione", eccetera), ma mi era capitato un paio di volte di cogliere nei suoi occhi un'espressione d'una tale "innocenza" (non c'è altra parola) che, nonostante tutto, io mi ostinavo a volerlo mettere in un certo senso, in una posizione diversa dalla sua, al di fuori del suo proprio carattere. In quel momento, lo esoneravo da ogni commento. Come innocenza, l'atopia resiste alla descrizione, alla definizione, al linguaggio, che è "maya", classificazione di Nomi (di Colpe). Essendo atopico, l'altro fa tremare il linguaggio: non si può parlare "di" lui, "su" lui; qualsiasi attributo è falso, doloroso, goffo, imbarazzante: l'altro è "inqualificabile" (e questo sarebbe il vero significato di "atopos").
3. Di fronte alla brillante originalità dell'altro, io non mi sento mai "atopos", ma semmai classificato (come un dossier fin troppo noto). Talvolta, riesco però a sospendere il gioco delle immagini ineguali ("Perché mai non posso essere anch'io originale, forte quanto l'altro?") [R. H.: conversazione]; indovino che la vera originalità non è né in me né nell'altro, ma nella nostra stessa relazione. Ciò che bisogna conquistare è l'originalità della relazione. La maggior parte delle ferite d'amore me le procura lo stereotipo: io sono costretto, come tutti, a far la parte dell'innamorato: ad essere geloso, trascurato, frustrato come gli altri. Ma quando la relazione è originale, lo stereotipo viene sconvolto, superato, evacuato, e la gelosia, ad esempio, non ha più luogo d'essere in questo rapporto senza luogo, senza "topos", senza "topo" - senza discorso.
L'attesa.
ATTESA. Tumulto d'angoscia suscitato dall'attesa dell'essere amato in seguito a piccolissimi ritardi (appuntamenti, telefonate, lettere, ritorni).
1. Sto aspettando un arrivo, un ritorno, un segnale promesso. Ciò può essere futile o infinitamente patetico: in "Erwartung" (attesa), una donna aspetta, nella foresta, di notte, il suo amante; io sto aspettando solamente una telefonata, ma è la stessa angoscia. Tutto è solenne: non ho il senso delle "proporzioni" [Sch”mberg].
2. Vi è una scenografia dell'attesa: io la organizzo, la manipolo, ritaglio un pezzo di tempo in cui mimerò la perdita dell'oggetto amato e provocherò tutti gli effetti di un piccolo lutto. Tutto questo avviene dunque come in una recita.
La scena rappresenta l'interno d un caffè; abbiamo appuntamento e io sto aspettando. Nel Prologo, unico attore della commedia (e a ragione), io constato, registro il ritardo dell'altro; questo ritardo è ancora soltanto un'entità matematica, computabile (guardo il mio orologio diverse volte); il Prologo finisce quando, con un colpo di testa, decido di "farmi venire il sangue cattivo", di dare libero sfogo all'angoscia dell'attesa. Qui ha inizio il primo atto; esso passa in congetture: e se per caso non ci fossimo capiti circa l'ora, il posto? Cerco di ricordarmi il momento in cui è stato fissato l'appuntamento, le indicazioni che ci siamo scambiati. Che fare (angoscia di comportamento)? Andare in un altro caffè? Telefonare? Ma se l'altro arriva mentre io non ci sono? Non vedendomi, c'è il rischio che se ne vada, eccetera. Il secondo atto è quello dell'ira; rimprovero violentemente l'assente: "Però lui (o lei) avrebbe ben potuto...", "Lui (lei) sa benissimo..." Ah! se lei (lui) fosse qui, potrei rimproverarle(-gli) di non essere qui! Nel terzo atto, raggiungo (ottengo?) l'angoscia pura: quella dell'abbandono: in un attimo, io sono passato dall'assenza alla morte; l'altro è come morto: esplosione di lutto: io sono interiormente "livido" [WINNICOTT: "Jeu et Réalit‚", 34 e 21]. Questa è la recita; essa può essere abbreviata dall'arrivo dell'altro; se arriva in primo, l'accoglienza è calma; se arriva in secondo, avviene una "scenata"; se arriva in terzo, vi è la riconoscenza, l'atto di grazia: io respiro nuovamente a pieni polmoni, come Pelléas allorché, uscendo dal sotterraneo, ritrova la vita, il profumo delle rose [Pelléas].
(L'angoscia dell'attesa non è continuamente violenta; essa ha i suoi momenti i stanca; io aspetto, e tutto ciò che circonda la mia attesa è irreale: in questo caffè, io guardo gli altri che entrano, chiacchierano, scherzano, leggono tranquillamente: loro, non stanno aspettando).
3. L'attesa è un incantesimo: io ho avuto "l'ordine di non muovermi". L'attesa d'una telefonata si va così intessendo di una rete di piccoli divieti, "all'infinito", fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto, addirittura di telefonare (per non tenere occupato l'apparecchio); per la stessa ragione, io soffro se qualcuno mi telefona; l'idea che di lì a poco dovrò uscire, correndo così il rischio di essere assente al momento dell'eventuale chiamata riconfortante, del ritorno della Madre, mi tormenta. Tutti questi diversivi sono dei momenti perduti per l'attesa, delle impurità d'angoscia, poiché, nella sua purezza, l'angoscia dell'attesa esige che io me ne stia seduto in una poltrona con il telefono a portata di mano, senza far niente.
4. L'essere che io aspetto non è reale. Come il seno materno per il poppante, "io lo creo e lo ricreo continuamente a cominciare dalla mia capacità di amare, a cominciare dal bisogno che io ho di lui" [Winnicott]: l'altro viene là dove io lo sto aspettando, là dove io l'ho già creato. E, se lui non viene, io lo allucino: l'attesa è un delirio.
Ancora il telefono: ad ogni squillo, sollevo precipitosamente la cornetta, immagino che a chiamarmi sia l'essere amato (dato che mi deve telefonare); ancora uno sforzo, e "riconosco" la sua voce, incomincio a dialogare, per poi volgermi con rabbia contro l'importuno che mi ha tratto dal mio delirio. Al caffè, ogni persona che entra, anche se appena vagamente rassomigliante, viene in tal modo, almeno in un primo momento, "riconosciuta".
E ancora molto tempo dopo che la relazione amorosa si è acquietata, io conservo l'abitudine di allucinare l'essere che ho amato: talora, una telefonata che tarda a venire riesce ancora ad angosciarmi e, in ogni importuno, credo di riconoscere la voce che amavo: io sono un mutilato che continua ad avere male alla gamba amputata.
5. "Sono innamorato? - Sì, poiché sto aspettando". L'altro, invece, non aspetta mai. Talvolta, ho voglia di giocare a quello che non aspetta; cerco allora di tenermi occupato, di arrivare in ritardo; ma a questo gioco io perdo sempre: qualunque cosa io faccia, mi ritrovo sempre sfaccendato, esatto, o per meglio dire in anticipo. La fatale identità dell'innamorato non è altro che: "io sono quello che aspetta".
(Nel transfert, si aspetta sempre - dal medico, dal professore, dall'analista. Ancora più evidentemente: se sto aspettando allo sportello d'una banca, o alla partenza d'un aereo, subito stabilisco un rapporto aggressivo con l'impiegato, con l'hostess, la cui indifferenza svela e irrita la mia sudditanza; si può così dire che, ove vi è attesa, vi è transfert: io dipendo da una persona che si fa a mezzo e che impiega del tempo a darsi - come se si trattasse di far scemare il mio desiderio, d'infiacchire il mio bisogno. "Fare aspettare" [E. B.: lettera]: prerogativa costante di qualsiasi potere, "passatempo millenario dell'umanità").
6. Un mandarino era innamorato di una cortigiana. "Sarò vostra, - disse lei, - solo quando voi avrete passato cento notti ad aspettarmi seduto su uno sgabello, nel mio giardino, sotto la mia finestra". Ma, alla novantanovesima notte, il mandarino si alzò, prese il suo sgabello sotto il braccio e se n'andò.
"Voglio capire".
CAPIRE. Sentendo improvvisamente l'episodio amoroso come un groviglio di motivazioni inspiegabili e di situazioni senza vie d'uscita, il soggetto esclama: "Voglio capire (che cosa mi sta capitando)!".
1. Che cosa penso dell'amore? - In fondo, non penso niente. Certo, vorrei sapere "che cos'è", ma, vivendolo dal di dentro, lo vedo in quanto esistenza, non in quanto essenza. Ciò che voglio conoscere (l'amore) è per l'appunto la materia che adopero per parlare (il discorso amoroso). Naturalmente, la riflessione mi è consentita, ma, siccome questa riflessione viene subito trascinata nel ribollimento delle immagini, essa non muta mai in riflessività: escluso dalla logica (che presuppone dei linguaggi estranei gli uni agli altri), non posso pretendere di poter "pensare con lucidità". E così, se anche continuassi a discettare sull'amore per un anno intero, potrei solamente sperare di riuscire ad afferrarne il concetto "per la coda": flashes, formule, espressioni a effetto sparse nel copioso fluire dell'Immaginario; io mi trovo nel "posto sbagliato" dell'amore, che è poi il suo punto più in vista; dice un proverbio cinese: "Il punto più in ombra, si trova sempre sotto la lampada"[REIK: proverbio citato da Reik, 184].
2. Uscendo dal cinema, solo, rimuginando sul mio problema amoroso che il film non ha potuto farmi dimenticare, curiosamente non esclamo: "tutto questo deve finire!" ma: "voglio capire" (che cosa mi sta capitando)!
3. Repressione: voglio analizzare, sapere, enunciare, in un linguaggio diverso dal mio; voglio raffigurare a me stesso il mio delirio, voglio "guardare in faccia" ciò che mi divide, mi taglia. "Capite la vostra follia" [SIMPOSIO: 174]: tale era l'ordine di Zeus allorché comandò ad Apollo di torcere il viso degli Androgini divisi in due (come un uovo, una sorba) dalla parte del taglio (il ventre) "affinché la vista del loro sezionamento li rendesse meno arroganti". Capire, non è forse scindere l'immagine, disfare l'io, organo superbo della disconoscenza?
4. Interpretazione: il vostro grido vuole dire un'altra cosa. A ben guardare, esso è ancora un grido d'amore: "Io voglio capirmi, farmi capire, farmi conoscere, farmi baciare; io voglio che qualcuno mi prenda con s‚" [A. C.: lettera]. Questo è il significato del vostro grido.
5. Voglio cambiare sistema: non più smascherare, non più interpretare, ma della coscienza stessa fare una droga e, attraverso essa, accedere alla visione netta del reale, al grande sogno nitido, all'amore profetico [ETIMOLOGIA: i Greci contrapponevano "onar", il sogno puro e semplice, a "hypar", la visione profetica (mai creduta). Segnalato da J.-L. B].
(E se la coscienza - un tal genere di coscienza - fosse il nostro avvenire umano? E se, con un giro supplementare della spirale, un giorno, che sarebbe certo il più radioso di tutti, scomparsa ogni ideologia reattiva, la coscienza diventasse l'abolizione del manifesto e del latente, dell'apparenza e del nascosto? E se all'analisi fosse chiesto non già di distruggere la forza (e neanche di correggerla o di dirigerla), ma solo di "decorarla" da artista? Poniamo che la scienza dei lapsus scopra un giorno il suo proprio lapsus, e che questo lapsus sia: una forma nuova, inedita, della coscienza?) La catastrofe.
CATASTROFE. Crisi violenta durante la quale il soggetto, sentendo la situazione amorosa come un vicolo cieco, una trappola da cui non potrà mai più uscire, si vede destinato a una totale distruzione di s‚.
1. Vi sono due tipi di disperazione: la disperazione pacata, la rassegnazione attiva ("lo vi amo come bisogna amare: nella disperazione"), e la disperazione violenta: un bel giorno, in seguito a un incidente qualsiasi, mi chiudo nella mia stanza e scoppio in lacrime: sono in balia di una forza che mi soverchia, asfissiato dal dolore; il mio corpo s'irrigidisce e si contrae: come in un lampo, freddo e tagliente, io vedo la distruzione a cui sono condannato [Mademoiselle de Lespinasse]. Tutto ciò non ha niente di paragonabile alla prostrazione insidiosa, ma in fondo molto civile, degli amori difficili; non c'è alcun rapporto con l'annichilimento in cui si viene a trovare il soggetto abbandonato: qui, sono come folgorato, ma lucido. La sensazione che provo è quella di una vera e propria catastrofe: "Ecco, "sono veramente fottuto!""
(La causa? Non è mai solenne - per esempio, una dichiarazione di rottura; la cosa avviene senza preavviso, o per effetto di un'immagine che riesce insopportabile, o per un'improvvisa ripugnanza fisica: dalla sfera infantile - il vedersi abbandonato dalla Madre - si passa brutalmente alla sfera genitale).
2. La catastrofe amorosa s'avvicina forse a ciò che, nel campo psicotico, è stata definita una "situazione estrema", la quale è "una situazione che il soggetto vive conscio del fatto che essa finirà col distruggerlo irrimediabilmente"; l'immagine è ricavata da ciò che avvenne a Dachau [BETTELHEIM: "La forteresse vide", Introduzione e 95]. C'è da chiedersi se non sia indecente paragonare la situazione di un soggetto che sta soffrendo le pene d'amore a quella di un deportato che vive nell'universo concentrazionario di Dachau. Può una fra le più inconcepibili atrocità della Storia essere confrontata a un incidente futile, infantile, sofisticato, oscuro, capitato a un soggetto che vive una vita comoda e che in definitiva è semplicemente vittima del proprio Immaginario? Tuttavia, le due situazioni hanno in comune questo: esse sono, alla lettera, due,situazioni paniche [ETIMOLOGIA: "panico" è riconducibile al dio Pan; ma si può giocare con le etimologie come con le parole (lo si è sempre fatto) e far finta di credere che "panico" derivi dall'aggettivo greco che vuoi dire "tutto"]: entrambe sono senza seguito, senza ritorno: io mi sono talmente trasfuso nell'altro che, quando esso mi viene a mancare, non riesco più a riprendermi, a ricuperarmi: sono perduto per sempre[F. W.: conversazione].
Laetitia.
CIRCOSCRIVERE. Per ridurre la propria infelicità, il soggetto ripone la sua speranza in un metodo di controllo che gli dovrebbe permettere di circoscrivere i piaceri che la relazione amorosa gli dà: da una parte, continuare a tenersi questi piaceri, approfittarne pienamente, e, dall'altra, mettere in una parentesi d'impensato le larghe zone depressive che separano questi piaceri: "dimenticare" l'essere amato al di fuori dei piaceri che esso dà.
1. Cicerone, prima, e Leibniz, poi, hanno contrapposto "gaudium" e "laetitia" [LEIBNIZ: "Nuovi saggi sull'intelletto umano", XX e 296]. "Gaudium" è il "piacere che l'anima prova quando considera sicuro il possesso di un bene presente o futuro, ed un bene è in nostro possesso quando è in nostro potere il poterne godere quando lo vogliamo". "Laetitia" è un piacere allegro, "uno stato nel quale il piacere predomina in noi" (in mezzo ad altre sensazioni talvolta contraddittorie).
"Gaudium" è ciò che io vagheggio: godere di un possesso perpetuo. Ma non potendo ottenere "Gaudium", da cui troppi ostacoli mi separano, considero l'eventualità di ripiegare su "Laetitia":
perché non potrei ottenere da me stesso di limitarmi ai piaceri allegri che l'altro mi dà, senza contaminarli, senza mortificarli con l'angoscia che serve loro da giunzione? Perché non potrei avere della relazione amorosa una visione antologica? Perché, per cominciare, non potrei capire che una profonda afflizione non esclude dei momenti di piacere puro (come il cappellano di "Madre Courage" [BRECHT: "Madre Courage e i suoi figli", 1323] che spiega che "la pace esiste anche in guerra") e, in seguito non potrei riuscire a dimenticare sistematicamente le zone d'allarme che separano questi momenti di piacere? Perché non potrei essere disattento, incoerente?
2. Questo progetto non ha senso, poiché l'Immaginario è "precisamente" definito dalla sua coalescenza ("la sua colla"), o anche: dal suo potere di lasciare tracce: dell'immagine, niente può essere dimenticato; una memoria estenuante impedisce di uscire "a piacimento" dall'amore, in altre parole di viverlo assennatamente, con intelligenza. lo posso benissimo immaginare vari procedimenti per ottenere la delimitazione dei miei piaceri (convertire, come nell'epicureismo, la rarità di frequentazione in lusso della relazione; o anche, considerare l'altro come perduto per poi assaporare, ogni volta che ritorna, il piacere di una risurrezione), ma è tutta fatica sprecata: la "iettatura" amorosa è indissolubile; bisogna subire o andarsene: la faccenda non si può "accomodare" (l'amore non è né dialettico né riformista).
(Versione triste della delimitazione dei piaceri: la mia vita è uno sfacelo: alcune cose sono ancora in piedi; altre sono ormai crollate: è la rovina totale).
Colpe.
COLPE. In un qualsiasi episodio trascurabile della vita d'ogni giorno, il soggetto crede di aver mancato nei confronti dell'essere amato e prova per questo un sentimento di colpevolezza.
1. "Erano appena arrivati alla stazione di ***, e lui, senza dir niente, aveva subito individuato su un tabellone, la dislocazione della seconda classe e del vagone ristorante; il punto in cui avrebbero dovuto aspettare il treno sembrava essere così lontano, proprio in fondo al marciapiede, in curva, che egli non aveva osato prendere la precauzione, a ben guardare un po' maniaca, di condurvi X ... ; la cosa, pensava, sarebbe sembrata una pusillanimità, una ossequiosa sottomissione al codice delle ferrovie: il rispetto delle indicazioni, la paura di essere in ritardo, il fatto di perdere la testa in una stazione, non sono forse sintomi di manie senili, di atteggiamenti mentali da pensionati? E se poi si fosse sbagliato? Che scena penosa sarebbe stata quella di correre lungo il marciapiede, arrancando, carichi di pacchetti! - E tuttavia fu proprio quel che avvenne: il treno arrivò in stazione e si fermò molto lontano. X... lo baciò in fretta e corse in avanti; lo stesso fecero alcuni giovani villeggianti in costume da bagno. Da quel momento, egli non vide più nulla, salvo, laggiù in fondo, la parte terminale, tozza, dell'ultimo vagone. Nessun cenno (non era possibile), nessun addio. Il treno non partiva. Egli non osava tuttavia muoversi, andarsene, quantunque fosse assolutamente inutile che restasse dov'era. Una sorta di costrizione simbolica (la fortissima costrizione d'un piccolo simbolismo) lo obbligava a restare là, fino a che il treno (con X... dentro) non fosse partito. Se ne stava perciò immobile, come uno stupido, non vedendo niente, eccetto il treno là in fondo, senza che nessuno lo vedesse, sul marciapiede deserto - finalmente impaziente che il treno partisse. Ma andarsene via per primo sarebbe stata una colpa che l'avrebbe forse tormentato per un pezzo".
2. Ogni incrinatura nella Devozione è una colpa: questa è la regola della "Cortezia" [Cortezia]. Questa colpa prende corpo quando io abbozzo un semplice gesto d'indipendenza nei confronti dell'oggetto amato; ogni volta che, per spezzare l'asservimento, cerco di "sganciarmi" (è il consiglio unanime dei mondo), io mi sento colpevole. E perciò, paradossalmente, io sono colpevole di alleggerire il peso, di ridurre l'ingombro esagerato della mia devozione, in poche parole di "riuscire" (secondo il mondo); insomma, ciò che mi fa paura è di essere forte e ciò che mi rende colpevole è la padronanza (o il suo semplice gesto).
3. Ogni dolore, ogni infelicità, nota Nietzsche, sono stati falsati da un'idea di torto, di colpa: "Il dolore è stato privato della sua innocenza" [Nietzsche]. L'amore-passione (il discorso amoroso) soccombe senza posa di fronte a questa falsificazione. E tuttavia, in questo amore vi sarebbe la possibilità d'un dolore innocente, d'una infelicità innocente (se fossi fedele all'Immaginario puro e non riproducessi in me altro che la diade infantile, la sofferenza del bambino separato dalla madre); in quel caso, non metterei in causa ciò che mi strazia e anzi potrei persino "approvare" la sofferenza. Questa sarebbe l'innocenza della passione: non già una purezza, ma semplicemente la ripulsa della Colpa. L'innamorato sarebbe innocente come lo sono gli eroi sadiani. Purtroppo, la sua sofferenza è di solito resa più acuta dal suo doppio, il Torto: io ho paura dell'altro "più che di mio padre" [SIMPOSIO: Fedro: "Se un uomo che ama fosse scoperto a commettere qualche bassezza [...] non soffrirebbe così acerbamente se fosse visto dal padre [...], quanto se lo fosse da colui che egli ama" (161)].
"Ho male all'altro".
COMPASSIONE. Il Soggetto prova un sentimento di compassione nei riguardi dell'oggetto amato ogni volta che lo vede, lo sente o lo sa infelice o minacciato da qualcosa che è estraneo alla relazione amorosa in s‚.
1. "Posto che noi sentiamo l'altro così come egli sente se stesso - cosa questa, che Schopenhauer chiama "compassione" e che più giustamente si dovrebbe chiamare unipassione, dolore all'unisono -, noi dovremmo odiarlo se lui, come Pascal, trova se stesso odioso" [NIETZSCHE: "Aurora", 1, aforisma 63]. Se l'altro soffre di allucinazioni, se ha paura di diventare pazzo, io stesso dovrei soffrire di allucinazioni, io stesso dovrei essere pazzo [MICHELET: quando dice: "Ho male alla Francia"]. Ora, per quanto grande sia la forza dell'amore, questo non avviene: sono commosso, angosciato, poiché è terribile veder soffrire le persone a cui si vuol bene, ma, al tempo stesso, rimango asciutto, impenetrabile. La mia, è un'identificazione imperfetta: sono una Madre (l'altro mi dà delle preoccupazioni), ma una Madre carente; anche in proporzione alla profonda riserva mentale in cui, di fatto, mi tengo, io mi agito troppo. Giacché, proprio mentre m'identifico "sinceramente" nell'infelicità dell'altro, ciò che vedo in questa infelicità è che essa si manifesta "senza di me" e che, essendo infelice di per s‚, l'altro mi abbandona: se egli soffre senza che io ne sia la causa, vuol dire che per lui io non conto: la sua sofferenza mi annulla nella misura in cui lo pone fuori della mia portata.
2. Di conseguenza, le cose si rovesciano: dato che l'altro soffre senza di me, perché io dovrei soffrire al suo posto? La sua infelicità lo porta lontano da me e io finirei per sfiancarmi cercando di corrergli dietro, senza poter mai sperare di raggiungerlo, di entrare in coincidenza con lui. Dunque, stacchiamoci un po', impariamo a tenerci a una certa distanza. Riecheggi la parola repressa che affiora alle labbra di ogni soggetto, quando esso sopravvive alla morte altrui: "Viva la vita!"
3. Dunque, io soffrirò con l'altro, ma "senza pesare", senza dannarmi. A questo comportamento, insieme molto affettivo e molto controllato, molto appassionato e molto civile, possiamo dare un nome: è la "delicatezza": essa è in pratica la forma "sana" (civilizzata, artistica) della compassione. (Ate è la dea del turbamento della mente, ma Platone parla della delicatezza di Ate: il suo piede è alato, esso tocca con leggerezza) [Simposio].
"Che fare?".
COMPORTAMENTO. Figura deliberativa: il soggetto amoroso si pone con angoscia dei problemi di comportamento che il più delle volte sono futili: che fare davanti a tale alternativa? Come agire?
1. Bisogna continuare? Guglielmo, l'amico di Werther, è l'uomo della Morale, sicura scienza dei comportamenti [WERTHER: 54]. Questa morale è in realtà una logica: o questo, o quello; se io scelgo (se io indico) questo, allora si pone nuovamente l'alternativa fra questo e quello: e così di seguito, fino a che, da questa cascata di alternative, sorga infine un atto puro - un atto senza rimpianti e senza tentennamenti. Tu ami Carlotta: "o hai qualche speranza, e allora agisci; oppure non ne hai, e allora rinunci". Questo è il discorso del soggetto "sano": "o una cosa, o l'altra". Ma il soggetto amoroso risponde (come fa Werther): provo a infilarmi fra i due elementi dell'alternativa; in altre parole: "io non ho alcuna speranza, ma tuttavia..." O anche: scelgo ostinatamente di non scegliere; scelgo la deriva: "io continuo".
2. Le mie angosce di comportamento sono ridicole e diventano sempre più ridicole, all'infinito. Se l'altro, incidentalmente o negligentemente mi dà il numero di telefono di un posto in cui posso trovarlo a certe ore, io subito mi agito: devo o non devo telefonargli? (Dirmi che posso telefonargli - questo è il senso obiettivo, logico, del messaggio - non servirebbe a niente, poiché ciò che mi mette in crisi è proprio questo "permesso").
E' futile ciò che in apparenza non ha e non avrà conseguenze. Ma da me, soggetto amoroso, tutto ciò che è nuovo, tutto ciò che può turbare, viene accolto non come un fatto, ma come un segno che bisogna interpretare. Dal punto di vista amoroso, il fatto diventa conseguente perché subito si trasforma in segno: è il segno, non il fatto, che è conseguente (a causa delle sue ripercussioni). L'altro mi ha dato questo nuovo numero di telefono: che significato può avere questo segno? Voleva essere un invito ad approfittarne "subito", per diporto, o soltanto "in caso di bisogno", per necessità? La mia stessa risposta diventerà un segno che l'altro interpreterà fatalmente, scatenando, fra me e lui, un tumultuoso intrecciarsi di immagini. "Tutto ha un significato": con questa affermazione, io mi freno, divento preda del calcolo: m'impedisco di godere.
Talvolta, a furia di deliberare su "niente" (questo è quanto direbbero gli altri), finisco con lo sfiancarmi; a questo punto, con un ultimo guizzo, come uno che sta per annegare e cerca con un colpo di tallone di risalire in superficie, tento di prendere una decisione "spontanea" (la spontaneità: grande sogno: paradiso, forza, delizia): "telefonagli, visto che ne hai voglia"! Ma invano: il tempo amoroso non consente di mettere sulla stessa linea l'impulso e l'atto, di farli coincidere: io non sono l'uomo dei piccoli "acting-out"; la mia follia è misurata, non si vede; è "subito" che io ho paura delle conseguenze, di ogni conseguenza: ciò che è "spontaneo" è la mia paura - la mia indecisione.
3. Il "karma è il concatenamento (disastroso) delle azioni (delle loro cause e dei loro effetti) [Zen]. Il buddhista vuole allontanarsi dal karma; vuole sospendere il gioco della causalità; vuole assentare i segni, ignorare la domanda pratica: che fare? Questa domanda, io non smetto di farmela e desidero ardentemente quella sospensione del karma che è il "nirvana". Cosi, le situazioni che, per mia fortuna, non mi danno dei problemi di comportamento, sono accolte, per quanto possano essere dolorose, con una specie di serenità; io soffro, ma almeno non devo decidere niente; la macchina amorosa (immaginaria) va avanti da sola, non ha bisogno di me; come un operaio dell'età elettronica, o come l'ultimo della classe, io devo soltanto "essere presente": il karma (la macchina, la classe) ronza lì davanti a me, ma senza di me. Anche nella stessa infelicità, io posso, per un brevissimo spazio di tempo, ritagliarmi un "angolino di serena indolenza".
La connivenza.
CONNIVENZA. Il soggetto s'immagina di stare parlando dell'essere amato con una persona rivale, e questa immagine, curiosamente fa nascere in lui un piacevole senso di complicità.
1. Colui/colei con cui io posso tranquillamente parlare dell'essere amato, è colui/colei che lo ama quanto me, come me: è il mio simmetrico, il mio rivale, il mio concorrente (la rivalità è una questione di posizione). Finalmente posso parlare dell'altro "con chi se ne intende"; si verifica una parità di sapere, un piacere d'inclusione; parlandone, l'oggetto non viene né estraniato né lacerato; egli resta interno al discorso duale, che anzi lo preserva. lo coincido con l'Immagine e al contempo con questo secondo specchio che riflette ciò che io sono (sul volto del rivale io leggo la mia paura, la mia gelosia). Lasciata da parte ogni forma di gelosia, si chiacchiera con trasporto intorno a questo assente la cui natura oggettiva è rafforzata da due sguardi convergenti: ci abbandoniamo a un'esperienza rigorosa, riuscita, dal momento che vi sono due osservatori e che le due osservazioni avvengono nelle medesime condizioni: l'oggetto viene "provato": io scopro di "aver ragione" (di essere felice, di essere ferito, di essere ansioso).
(Connivenza: "conivere", significa al tempo stesso: essere indulgente, essere d'accordo, chiudere gli occhi) [Etimologia].
2. Si arriva a questo paradosso: è lo stesso essere amato che, nella relazione a tre, risulta essere quasi "di troppo". Ciò è evidente quando qualcosa c'impaccia. Quando lo stesso oggetto amato si lamenta del mio rivale, lo sminuisce, io non so come replicare: da una parte, è "nobile" non approfittare di una confidenza che mi può servire - che sembra "rafforzare" la mia posizione; e, dall'altra, sono prudente: so di essere nella stessa posizione del mio concorrente e che, di conseguenza, abolita ogni forma di psicologia, ogni valore, niente impedisce che anch'io diventi un giorno oggetto di denigramento. Altre volte, sono io stesso che faccio all'altro l'elogio del rivale (forse per sembrare "liberale"?), contro la qual cosa l'altro, stranamente (forse per lusingarmi?), protesta.
3. La gelosia è un'equazione a tre termini permutabili (indecidibil): si è sempre gelosi di due persone contemporaneamente: io sono geloso di chi amo e di chi lo ama. L'"odiosamato" (il "rivale") è "anche" amato da me: esso m'interessa, m'incuriosisce, mi affascina (vedi "L'eterno marito", di Dostoevskij) [D. F.: conversazione].
"Quando inavvertitamente il mio dito...".
CONTATTI. La figura fa riferimento ad ogni discorso interiore suscitato da un contatto furtivo con il corpo (e più precisamente con la pelle) dell'essere amato.
1. Il dito di Werther sfiora inavvertitamente il dito di Carlotta; i loro piedi, sotto il tavolo, si incontrano [WERTHER: 47]. Werther potrebbe astrarsi dal senso di questi episodi casuali; egli potrebbe concentrarsi corporalmente su quelle minuscole zone di contatto e, come un feticista, provare piacere per questo o quel pezzetto di dito o di piede inerte, "senza preoccuparsi della risposta" (come Dio - è la sua etimologia -, il Feticcio non risponde). Ma, per l'appunto, Werther non è pervertito, ma innamorato: egli dà un senso, sempre, ovunque, a proposito di niente, ed è proprio il senso che lo fa fremere: egli si trova nel braciere del senso. Per l'innamorato, ogni contatto pone il problema della risposta: egli chiede alla pelle di rispondere.
(Mani che si stringono - immenso dossier romanzesco, -gesto tenuto all'interno della palma, ginocchio che non si scosta, braccio allungato, come niente fosse, sullo schienale d'un divano sul quale, piano piano, la testa dell'altro viene a posarsi: è la regione paradisiaca dei segni sottili e clandestini: è come una festa, non dei sensi, ma del senso).
2. Il signor di Charlus prende il mento del narratore e fa risalire le sue dita magnetizzate fino alle sue orecchie, "come le dita d'un barbiere" [PROUST: "I Guermantes", 608]. Questo gesto insignificante, che io inizio a fare, viene continuato da un'altra parte di me; senza che niente, fisicamente, lo interrompa, esso si biforca, passa dalla semplice funzione al senso più chiaro: quello della domanda d'amore. Il senso (il destino) elettrizza la mia mano; io sto per lacerare il corpo opaco dell'altro, sto per obbligarlo (sia che egli risponda, sia che rinunci o lasci perdere) a entrare nel gioco del senso: io sto per "farlo parlare". Nel campo amoroso non vi è "acting-out": nessuna pulsione, forse neanche nessun piacere, ma solo dei segni, solo una travolgente attività di parola: ad ogni occasione furtiva, dar vita al sistema (al paradigma) della domanda e della risposta.
Avvenimenti, traversie, contrarietà.
CONTINGENZE. Avvenimenti insignificanti, fatti fortuiti, traversie, inezie, meschinerie, quisquilie, episodi della vita amorosa; qualsiasi nucleo fattuale che ostacoli l'aspirazione alla felicità del soggetto amoroso, come se il caso tramasse contro di lui.
1. "Perché, questa mattina, X... era di buonumore, perché ho ricevuto un regalo da lui, perché il prossimo appuntamento è già combinato - ma perché, stasera, inaspettatamente, ho incontrato X... in compagnia di Y..., perché mi è parso di vederli bisbigliare quando mi hanno visto, perché questo incontro ha messo in luce l'ambiguità della situazione, e forse addirittura la doppiezza di X... -, l'euforia è svanita".
2. L'episodio è trascurabile (esso è sempre trascurabile) ma attirerà tutto il mio linguaggio. Io lo trasformo subito in un avvenimento importante, "pensato" da qualcosa che assomiglia al destino. E' una cappa che mi cade addosso e che trascina con s‚ tutto. Innumerevoli e vaghe circostanze finiscono così col tessere il velo nero della Maya, la tappezzeria delle illusioni, dei significati, delle parole. Io mi metto a "classificare" quello che mi sta capitando. L'episodio formerà a questo punto un'increspatura, come il pisello sotto i venti materassi della principessa [Andersen]; come un'impressione diurna che entra poi a far parte del sogno, esso sarà l'imprenditore del discorso amoroso, il quale frutterà grazie al capitale dell'Immaginario [FREUD: "L'interpretazione dei sogni", 27].
3. Ciò che nell'episodio mi cattura e provoca delle ripercussioni dentro di me, non è la causa, ma la struttura. Tutta la struttura della relazione mi si para dinanzi come quando si tira una tovaglia: le sue insidie, i suoi trabocchetti, le sue "impasses" ( cosi nella minuscola lente che ornava il portapenna di madreperla, io potevo vedere Parigi e la Torre Eiffel). Io non recrimino, non sospetto, non ricerco le cause; vedo con terrore l'ampiezza della situazione in cui mi trovo coinvolto; io non sono l'uomo del risentimento, ma della fatalità.
(Per me, l'episodio è un segno, non un indizio: l'elemento di un sistema, non l'efflorescenza di una causalità).
4. Talvolta, istericamente, a provocare l'incidente è il mio corpo: una serata di cui mi rallegravo, una solenne dichiarazione che avrebbe dovuto avere un benefico effetto su di me, non avranno luogo a causa di un mal di pancia o di un raffreddore che io mi faccio venire: tutti i possibili sostituti dell'afonia isterica.
Il corpo dell'altro.
CORPO. Ogni pensiero, ogni emozione, ogni interesse suscitato nel soggetto amoroso dal corpo amato.
1. Il suo corpo era diviso: da una parte, il corpo vero e proprio - la sua pelle, i suoi occhi - tenero, caldo, e, dall'altra, la sua voce, breve, trattenuta, soggetta ad accessi di lontananza, la sua voce, che non dava ciò che dava il suo corpo. O anche: da una parte, il suo corpo morbido, tiepido, languido al punto giusto, con una sottile peluria, fintamente goffo, e, dall'altra, la sua voce - la voce, sempre la voce - sonora, nitida, mondana, eccetera.
2. A volte, un'idea balena nella mia mente: mi metto a scrutare lungamente il corpo amato (come il narratore davanti al sonno di Albertine) [Proust]. "Scrutare" vuol dire "frugare": io frugo il corpo dell'altro, come se volessi vedere cosa c'è dentro, come se la causa meccanica del mio desiderio si trovasse nel corpo antagonista (sono come quei bambini che smontano una sveglia per sapere che cos'è il tempo). Questa operazione viene condotta in maniera fredda e stupita; sono calmo, attento, come se fossi davanti a uno strano insetto di cui improvvisamente non ho "più paura". Certe parti del corpo sono particolarmente adatte a questa "osservazione": le ciglia, le unghie, l'attaccatura dei capelli, gli oggetti molto particolari. P- evidente che in quel momento io sto feticizzando un morto. La prova è data dal fatto che, se il corpo che sto scrutando si scuote dalla sua inerzia, se si mette "a fare qualcosa", il mio desiderio cambia; se, per esempio, vedo l'altro "pensare", il mio desiderio cessa di essere perverso e ridiventa immaginario: io ritorno a un'Immagine, a un Tutto: io amo di nuovo.
(Io guardavo tutto del suo volto, del suo corpo, con distacco: le sue ciglia, l'unghia del suo alluce, la sottigliezza delle sue sopracciglia, delle sue labbra, il colore di smalto dei suoi occhi, un certo neo, un certo modo di tenere le dita fumando; ero affascinato - dato che, alla fin fine, la fascinazione non altro è che il punto estremo del distacco - da quella specie di statuina colorata, smaltata, vetrificata, nella quale potevo leggere, senza capirci nulla, "la causa del mio desiderio").
Il cuore.
CUORE. Questa parola serve per moti e desideri d'ogni genere, ma ciò che è costante è che il cuore - negato o rifiutato che sia - vuole essere un oggetto di dono.
1. Così com'è sentito, fissato, nella sfera dell'Immaginario, il cuore è l'organo del desiderio (il cuoresi gonfia, si ammoscia, ecc., come il sesso). Che cosa farà il mondo, che cosa farà l'altro del mio desiderio? Questa è l'inquietudine nella quale si ritrovano tutti i moti del cuore, tutti i "problemi" del cuore.
2. Werther si lamenta del principe ***: "Egli apprezza la mia intelligenza e i miei talenti più del mio cuore, che pure è l'unica cosa di cui sono fiero. Ah, quello che io so, chiunque lo può sapere - ma il mio cuore lo possiedo io solo" [WERTHER: 95].
Voi mi aspettate dove io non voglio andare: mi amate per quello che non sono. O anche: il mondo e io non c'interessiamo alla stessa cosa; e, per mia disgrazia, questa cosa divisa sono io; dice Werther: il mio ingegno non m'interessa; a voi non interessa il mio cuore.
3. Il cuore, è ciò che io credo di donare. Ogni volta che questo dono mi viene restituito, allora non basta dire, come Werther, che una volta tolto tutto l'ingegno che mi si attribuisce e di cui non mi curo, il cuore è ciò che resta di Te: il cuore è ciò che mi resta, e questo cuore che mi pesa e il cuore greve: greve per il rigurgito che l'ha riempito (solo gl'innamorati e i bambini hanno il cuore greve).
(X... deve partire per qualche settimana e forse più; all'ultimo momento, egli vuole acquistare un orologio per il viaggio; la commessa gli fa un po' di moine: "Vuole il mio orologio? Ah, chissà com'era giovane quando l'ho comprato io, eccetera"; essa non sa che io ho il "cuore greve").
La dedica.
DEDICA. Episodio di linguaggio che accompagna ogni regalo amoroso, sia esso reale o progettato, e, più in generale, ogni gesto, effettivo o interiore, per mezzo del quale il soggetto dedica qualche cosa all'essere amato.
1. Il regalo amoroso viene cercato, scelto e comperato in uno stato di grande eccitazione - un'eccitazione tale che essa sembra appartenere alla sfera del godimento. lo valuto attivamente se quell'oggetto sarà bene accolto, se non deluderà, o se, al contrario, sembrando troppo impegnativo, metterà in risalto il delirio - o l'illusione - di cui sono preda. Il regalo d'amore è solenne; trascinato dall'insaziabile metonimia che disciplina la vita immaginaria, io mi traspongo tutt'intero in esso. Attraverso questo oggetto, io ti do il mio Tutto, io ti tocco con il mio fallo; è per questo che io sono follemente eccitato, che corro da un negozio all'altro, che mi ostino a cercare il feticcio che vada bene, il feticcio splendente, riuscito, che si adatterà "perfettamente" al tuo desiderio.
Il regalo è contatto, sensualità: tu stai per toccare ciò che io ho toccato: una terza pelle ci unisce. Io do a X... un foulard ed egli se lo mette: X... mi "dà" il fatto di metterselo; del resto, è così che egli, ingenuamente, lo concepisce e lo dice. "Invece", qualsiasi morale della purezza vuole che si allontani il regalo dalla mano che lo dà o lo riceve: nell'ordinazione buddhistica, gli oggetti personali, i tre vestiti, vengono offerti al bonzo su di un graticcio; il bonzo li accetta toccandoli non con le mani, ma con un bastone [ZEN: Percheron, 99]; allo stesso modo, da quel momento in poi, tutto ciò che gli sarà dato - e di cui egli vivrà - sarà posto su una tavola, per terra o su una stuoia.
2. Ho una paura: che l'oggetto donato non funzioni bene a causa di un maligno difetto: se, per esempio, si tratta di un cofanetto (scovato con molta fatica), la serratura non funziona (dal momento che le padrone erano donne di mondo; e per giunta questo negozio si chiamava: Because I love: è dunque "perché io amo" che l'arnese non funziona?) Allora, il piacere di dono si dissolve, e il soggetto sa che ciò che dona, egli non ce l'ha.
(Non si dona soltanto un oggetto: saputo che X... è in cura da uno psicanalista, Y... vuole farsi psicanalizzare anche lui: dunque, la psicanalisi come dono d'amore?) [PH. S.: conversazione].
Il regalo non è necessariamente una porcheria, ma nondimeno esso ha una certa vocazione per il rifiuto: del regalo che ricevo non so che farmene, esso non si adatta al mio spazio, mi è d'ingombro, è di troppo: "Cosa vuoi che me ne faccia del tuo dono!" "Tuo-dono" diventa il nome-farsa del regalo amoroso.
3. Far presente all'altro ciò che gli si dà (tempo, energia, soldi, ingegno, altre relazioni, eccetera), è un tipico argomento della "scenata"; infatti è proprio il provocare la replica dell'altro che dà l'avvio alla scenata: "Già! E io, allora? Che cosa non ti do!" Il dono rivela a questo punto la prova di forza di cui esso è lo strumento: "Io ti darò più di quanto tu dai a me, e così ti dominerò" (nei grandi "potlachs" amerindi si arrivava in questo modo a bruciare i villaggi, a sgozzare gli schiavi).
Dichiarare ciò che io dono, significa seguire il modello familiare: "pensa ai sacrifici che facciamo per te"; o anche: "ti abbiamo dato la vita (- Ma cosa me ne frega, della vita!" eccetera). Parlare il dono, significa situarlo in un'economia di scambio (di sacrificio, di offerta, eccetera); alla qual cosa si contrappone il dispendio silenzioso.
4. "Questo mio discorso, o Fedro, sia la mia offerta al dio..." [SIMPOSIO: discorso di Agatone, 183]. Non si può donare del linguaggio (come farlo passare da una mano all'altra?), ma lo si può dedicare - visto che l'altro è un piccolo dio [R. H.: conversazione]. L'oggetto donato viene assimilato nell'espressione sontuosa, solenne, della consacrazione, nel gesto poetico della dedica; il dono si sublima nella sola voce che lo dice, se questa voce è "misurata" (metrica); o anche: "cantata" (lirica); è il principio stesso dell'"Hymne" di Baudelaire. Non potendo donare niente, io dedico la dedica, nella quale si condensa tutto ciò che ho da dire:
A la très chère, à la très belle,
Qui remplit mon coeur de clart‚
A l'ange, à l'idole immortelle... [Baudelaire].
Il canto è il prezioso complemento di un messaggio vuoto, interamente racchiuso nel suo indirizzo, poiché ciò che io dono cantando è al tempo stesso il mio corpo (attraverso la mia voce) e il mutismo di cui tu ti servi per colpirlo. (L'amore è muto, dice Novalis; solo la poesia lo fa parlare). "Il canto non vuol dire niente": perciò tu sentirai che finalmente io te lo dono; inutile quanto può esserlo il filo di lana o il sassolino che il bambino porge alla madre.
5. Quantunque sia incapace di enunciarsi, di enunciare, l'amore vuole nondimeno clamarsi, declamarsi, scriversi ovunque: "all'acqua, all'ombra, ai monti, ai fiori, all'erbe, ai fonti, all'eco, all'aria, ai venti..." Basta che il soggetto amoroso crei o costruisca qualcosa, che subito è colto da una pulsione di dedica [LE NOZZE DI FIGARO: aria di Cherubino (atto primo)]. Tutto ciò che fa, subito, e ancora prima che sia finito, egli vuole donarlo alla persona che ama, per la quale ha lavorato o lavorerà. La scritta del nome dirà per chi è il dono.
Tuttavia, fatta eccezione per il caso dell'Inno, che confonde l'invio con lo stesso testo, ciò che segue la dedica (e cioè l'oggetto che è stato fabbricato) ha poco a che vedere con questa dedica. L'oggetto che io dono non è più "tautologico" (io ti dono ciò che ti dono), ma "interpretabile"; esso ha un senso (dei sensi) che va molto al di là del suo indirizzo; io posso s scrivere il tuo nome sull'oggetto, ma in realtà è per "loro" che esso è stato scritto (gli altri, i lettori). L dunque per una fatalità della scrittura stessa che non si può dire che un testo è amoroso, ma soltanto, al limite, che è stato confezionato "amorosamente", come un dolce o una pantofola ricamata.
Anzi, neppure come una pantofola, giacché la pantofola è stata confezionata per il tuo piede (la tua misura e il tuo piacere); il dolce è stato fatto o scelto per il tuo gusto: fra questi oggetti e la tua persona vi è un certo qual adeguamento. Ma nel caso della scrittura, essa non dispone di questa condiscendenza. La scrittura è asciutta, ottusa; è una specie di rullo compressore; essa va avanti indifferente, indelicata; piuttosto che deviare dalla sua fatalità (del resto enigmatica), essa ucciderebbe "padre, madre, amante". Quando scrivo, devo arrendermi a questa evidenza (che, in base al mio Immaginario, mi strazia): nella scrittura non c'è alcuna indulgenza; c'è semmai un terrore: essa soffoca l'altro, che, invece di cogliervi il dono, vi scorge un'affermazione di dominio, di potenza, di compiacimento, di solitudine. Da questo nasce il crudele paradosso della dedica: io voglio ad ogni costo darti ciò che ti soffoca.
(Spesso, noi verifichiamo che un soggetto che scrive non possiede affatto la scrittura della sua immagine privata: chi mi ama "per quel che sono", non mi ama per la mia scrittura (e io ne soffro). Senza dubbio, amare contemporaneamente due significanti nello stesso corpo, è troppo. Ciò avviene assai di rado. E se per caso si verifica, allora è la Coincidenza, il Bene Supremo).
6. Dunque, io non posso donarti ciò che ho creduto di scrivere per te; devo arrendermi a questa evidenza: la dedica amorosa è impossibile (non mi accontenterò di una soprascritta mondana, fingendo di dedicarti un oggetto che è estraneo a entrambi). L'operazione nella quale l'altro è preso non è una soprascritta, ma è invece, più profondamente, un'iscrizione: l'altro è iscritto, si è iscritto nel testo, vi ha lasciato la sua traccia, multiforme. Se di questo libro tu fossi solo la persona a cui viene fatta la dedica, non scamperesti alla tua dura condizione di "oggetto" (amato) - di dio; ma la tua presenza nel testo, per il fatto stesso che vi sei irriconoscibile, non è quella di una figura analogica, di un feticcio, ma bensì quella di una forza che, di conseguenza, non è facilmente dominabile. Quindi, il fatto che tu ti senta continuamente ridotto al silenzio, che il tuo discorso ti sembri soffocato sotto il discorso, mostruoso, del soggetto amoroso, non ha importanza: in
"Teorema" [Pasolini] l'"altro" non parla, ma iscrive però qualcosa in tutti coloro che lo desiderano - opera ciò che i matematici chiamano una catastrofe (lo sconvolgimento di un sistema per mezzo di un altro sistema): vero è che quel muto è un angelo.
"Noi siamo i nostri propri demoni".
DEMONI. Il soggetto amoroso ha talvolta l'impressione di essere posseduto da un demone del linguaggio che lo spinge a farsi del male e a espellersi - secondo le parole di Goethe - dal paradiso che, in altri momenti, la relazione amorosa rappresenta per lui.
1. Una forza precisa trascina il mio linguaggio verso il male che io posso fare a me stesso: il regime del mio linguaggio è la ruota libera: il linguaggio si morula, senza nessuna idea tattica della realtà. Io cerco di farmi del male, mi espello da solo dal mio paradiso, affannandomi di suscitare in me stesso le immagini (di gelosia, di abbandono, di umiliazione) che possono ferirmi; e quando la ferita è aperta, cerco di mantenerla tale, la alimento con altre immagini, fino a che un'altra ferita non venga a distogliermi da quella.
2. Il demonio è plurale ("Il mio nome è Legione", Luca 8.30). Quando un demone viene respinto, quando finalmente sono riuscito a imporgli il silenzio (per caso o attraverso la lotta), un altro lì vicino solleva la testa e si mette a parlare [GOETHE: "Noi siamo i nostri propri demoni, noi ci espelliamo dal nostro paradiso" ("Werther", nota 93 dell'ed. Aubier-Montaigne)]. La vita demoniaca di un innamorato è simile alla superficie d'una solfatara; delle grandi bolle (roventi e fangose) scoppiano una dopo l'altra; quando una si rompe e s'affloscia, essa ritorna nel magma e subito, più lontano, un'altra si forma, si gonfia. Le bolle "Disperazione", "Gelosia", "Esclusione", "Desiderio", "Incertezza di comportamento", "Terrore di perdere la faccia" (il più malvagio dei demoni) fanno "ploc" una dopo l'altra, in un ordine indeterminato: è il "disordine" della Natura.
3. Come respingere un demone (vecchio problema)? I demoni, specialmente se sono demoni di linguaggio (e sennò di cos'altro sarebbero?), si combattono con il linguaggio. Io posso quindi sperare di esorcizzare la parola demoniaca che mi è suggerita (da me stesso) sostituendola (posto che io possegga il necessario talento linguistico) con un'altra parola più dimessa (procedo per eufemia). Così credevo di essere finalmente uscito dalla crisi, ma ecco che - favorita da un lungo viaggio in automobile - sono colto da una loquela mentre continuo incessantemente ad agitare nella mia testa il desiderio, il rimpianto e l'aggressione dell'altro; e a queste ferite s'aggiunge lo sconforto di dover constatare che io "sto avendo una ricaduta"; ma il vocabolario è una vera e propria farmacopea (veleno da una parte, rimedio dall' altra): no, non è una ricaduta, è soltanto un ultimo "sussulto" del demone anteriore.
Il mondo siderato.
DE-REALTA', Sensazione di assenza, di riduzione di realtà, provata dal soggetto amoroso nei confronti del mondo.
1. 1) "Aspetto una telefonata, e questa attesa mi angoscia più del solito. Cerco di fare qualcosa, ma non vengo a capo di nulla. Passeggio su e giù per la mia stanza: tutti gli oggetti - la cui familiarità riesce di solito a rincuorarmi -, i tetti grigi, i rumori della città, tutto mi sembra inerte, separato, sderato come un astro deserto, come una Natura che l'uomo non ha mai abitato".
2) "Sfoglio l'album di un pittore che amo, ma lo faccio con distacco. Approvo questa pittura, ma le immagini sono raggelate e ciò mi annoia".
3) "In un ristorante affollato, insieme a degli amici, io soffro (parola incomprensibile a chi non è innamorato). La sofferenza mi viene dalla folla, dal rumore, dall'arredamento (kitsch). Una cappa d'irrealtà cala su di me dai lampadari, dai soffitti di vetro".
4) "Sono solo in un caffè. E' domenica, all'ora di pranzo. Dall'altra parte del vetro, su un manifesto, Coluche occhieggia e fa il cretino. Ho freddo".
(Il mondo è pieno senza di me, come nella "Nausea" [Sartre]; esso gioca alla vita dietro un vetro; il mondo è immerso in un acquario; io lo vedo vicinissimo e tuttavia separato, fatto di un'altra sostanza; cado continuamente fuori di me, senza vertigine, senza annebbiamento, nella "precisione", come fossi drogato. "Oh! quando la magnifica natura mi sta davanti rigida come un quadretto laccato...") [WERTHER: 110]
2. Qualsiasi conversazione generale a cui sono obbligato ad assistere (se non a partecipare) mi strazia, mi paralizza. Mi sembra che il linguaggio che questi adottano, e da cui sono escluso, venga schernito più del dovuto da quegli altri: tutti sostengono qualcosa, contestano, trovano da ridire, si mettono in mostra: cosa ho da spartire io con il Portogallo, l'amore dei cani o l'ultimo Strega? Io vivo il mondo - l'altro mondo - come un'isteria generalizzata.
3. Per fuggire la de-realtà - per ritardarne la venuta -, cerco di tenere i contatti col mondo attraverso il malumore. Mi scaglio contro qualcosa: "Arrivando a Roma, ho l'impressione che l'Italia intera si stia svilendo sotto i miei occhi; non c'è una sola cosa, nelle vetrine, che valga la pena di essere comprata; in via Condotti, dove, dieci anni fa, avevo acquistato una camicia di seta e delle calze leggere per l'estate, non trovo altro che degli oggetti da grandi magazzini. All'aeroporto, il tassista ha voluto quattordicimila lire (invece di settemila) perché era il Corpus Domini. Questo paese perde in tutto: abolisce la differenza dei gusti, ma non la divisione delle classi, eccetera". D'altro canto, basta che io mi spinga un po' oltre che subito questa aggressività, che mi mantiene vivo, in contatto con il mondo, diventa scoraggiamento: entro nelle acque cupe della de-realtà. "A piazza del Popolo (è un giorno di festa), tutti parlano, tutti si mettono in vetrina (il linguaggio non è forse un mettersi in vetrina?): famiglie e famiglie, fusti che fanno il passeggio, gente triste e agitata, eccetera". Io sono di troppo, ma, doppia perdita, ciò da cui sono escluso non mi fa invidia. Mediante un ultimo filo linguistico (quello della bella Parola), questo modo di dire, ancora, mi trattiene ai margini della realtà che a poco a poco si allontana e si raggela, come la miniatura laccata del giovane Werther (qui, la Natura è la Città).
4. Subisco la realtà come un sistema di potere. Coluche, il ristorante, il pittore, Roma in un giorno di festa, tutti m'impongono il loro sistema d'essere; sono "maleducati". La maleducazione non è forse soltanto una "pienezza"? Il mondo è pieno, la pienezza è il suo sistema e, come ultimo dispetto, questo sistema si presenta come una "natura" con la quale io devo mantenere buoni rapporti: per essere "normale" (esente d'amore), dovrei trovare Coluche divertente, buono il ristorante J., bella la pittura di T. e piena di vita la festa del Corpus Domini: non solo dovrei subire il potere, ma anche simpatizzare con lui: "amare" la realtà? Quale disgusto per l'innamorato (per la "virtù" dell'innamorato)! Sembra Justine nel convento di Sainte-Marie-des-Bois [Sade].
Fino a quando sentirò che il mondo mi è ostile, io gli sarò legato: "io non sono pazzo". Ma talvolta, quando ho dato fondo al malumore, mi accorgo di non avere più alcun linguaggio: il mondo non è "irreale" (se lo fosse potrei esprimerlo: esiste un'arte dell'irreale che è fra le più alte), ma de-reale: il reale lo ha abbandonato, cosicché io non ho più alcun senso (alcun paradigma) a mia disposizione;
"io non riesco" a definire i miei rapporti con Coluche, col ristorante, col pittore, con piazza del Popolo. Quale tipo di rapporto posso io avere con un potere, se non ne sono lo schiavo, né il complice, né il testimone?
5. Dal mio posto, nel caffè, dall'altra parte del vetro, vedo Coluche che se ne sta là, fisso, laboriosamente strambo. Lo trovo doppiamente idiota: idiota di fare la parte dell'idiota. Il mio sguardo è implacabile come quello d'un morto; non rido di niente, neanche delle cose più esilaranti, e non accetto nessun ammicco; sono tagliato fuori da qualsiasi forma di "traffico associativo" [FREUD: "traffico associativo", Freud a proposito dell'isteria e dell'ipnosi - o Chertok, a proposito dell'ipnosi?]: là, sul suo manifesto, Coluche non mi fa associare niente: la mia coscienza è scissa in due dal vetro del caffè.
6. Talvolta il mondo mi appare "irreale" (io lo esprimo in un modo diverso), talaltra mi appare "dereale" (io lo esprimo con difficoltà).
Non è (si dice) la stessa riduzione di realtà. Nel primo caso, il rifiuto che io oppongo alla realtà si estrinseca attraverso una "fantasia": tutto ciò che mi circonda muta di valore rispetto a una funzione, che è poi l'Immaginario; l'innamorato si separa quindi dal mondo, lo irrealizza perché, su un altro versante, fantasmatizza le peripezie o le utopie del suo amore; si abbandona all'Immagine e, di conseguenza, tutto ciò che è "reale" lo infastidisce [LACAN: "Il seminario", 1, 146]. Anche nel secondo caso vi è una perdita di contatto col reale, ma qui nessuna sostituzione immaginaria viene a compensare la perdita. seduto davanti al manifesto di Coluche, io non "sogno" niente (neanche l'altro); anzi, non sono più nemmeno nell'Immaginario. Tutto è cristallizzato, pietrificato, immutabile, cioè "insostituibile": l'Immaginario è (temporaneamente) proscritto. Nel primo caso, sono nevrotizzato, io irrealizzo; nel secondo caso, sono pazzo, io de-realizzo.
(Tuttavia, se, mediante un atto di padronanza di scrittura, riesco a "dire" questa morte, allora io comincio a rivivere; posso formulare antitesi, lanciare esclamazioni, cantare [VERLAINE:
"Colloquio sentimentale" ("Feste galanti", 68)]: "Qu'il ‚tait bleu, le ciel, et gran l'espoir! / L'espoir a fui, vaincu, vers le ciel noir", eccetera).
7. L'irreale si può esprimere, in abbondanza (mille romanzi, mille poesie). Ma il de-reale no, poiché, se lo esprimo (se lo definisco, anche con una frase infelice o troppo letteraria), significa che io ne esco. Sono al buffet della stazione di Losanna; al tavolo accanto, due Valdesi stanno chiacchierando; di colpo, mi accorgo che sto precipitando nel buco della de-realtà; ma, immediatamente, so di poter dare una definizione a questa caduta; la de-realtà, mi dico, è questo: "uno stereotipo palpabile detto da una voce svizzera nel buffet della stazione di Losanna". Al posto del buco c'è adesso un reale ben vivo: quello della Frase (un pazzo che scrive non è mai del tutto pazzo; è un "falsificatore": non è possibile fare alcun Elogio della Pazzia).
8. A volte, per un attimo, mi sveglio e rovescio la mia caduta. A forza di aspettare con angoscia nella camera d'un albergo sconosciuto, all'estero, lontano dal mio piccolo mondo abituale, sale tutt'a un tratto in me una frase vigorosa: ""Ma che cavolo sto facendo qui"?" In quel momento, ad apparire "de-reale" è l'amore.
(Dove sono "le cose"? Nello spazio amoroso, o nello spazio mondano? Dov'è "il puerile rovescio delle cose"? [Lautréamont]. Che cos'è questo puerile? Il "cantare la noia, i dolori, le tristezze, le malinconie, la morte, l'ombra, il buio", eccetera - insomma, ciò che, si dice, fa l'innamorato? O è invece: parlare, cianciare, blaterare, passare in rivista il mondo, le sue violenze, i suoi conflitti, i suoi rischi, la sua generalità - ossia, ciò che fanno gli altri?) Il colloquio.
DICHIARAZIONE. Propensione del soggetto amoroso a intrattenere a lungo, con un'emozione contenuta, l'essere amato, a proposito del suo amore, di lui, di s‚, di loro: la dichiarazione non verte sulla confessione dell'amore, ma sulla forma, commentata all'infinito, della relazione amorosa.
1. Il linguaggio è una pelle: io sfrego il mio linguaggio contro l'altro. E' come se avessi delle parole a mo' di dita, o delle dita sulla punta delle mie parole. Il mio linguaggio freme di desiderio. Il turbamento nasce da un duplice contatto: da una parte, tutta un'attività del discorso assume con discrezione, indirettamente, un significato unico, che è "io ti desidero", e lo libera, lo alimenta, lo ramifica, lo fa esplodere (il linguaggio prende gusto a toccarsi da solo); dall'altra, avvolgo l'altro nelle parole, lo blandisco, lo sfioro, alimento questo sfioramento, mi prodigo per far durare il commento al quale sottometto la relazione.
(Parlare amorosamente, significa dissipare senza limite, senza soluzione di continuità; vuol dire praticare un rapporto senza orgasmo. Forse esiste una forma letteraria di questo "coitus reservatus": il preziosismo).
2. La pulsione a commentare si sposta, segue il corso delle sostituzioni. All'inizio, è per l'altro che io parlo a proposito della relazione; ma questo può anche avvenire con il confidente: dal "tu", io passo al "lui". E poi, dal "lui", passo al "si": elaboro un discorso astratto sull'amore, una filosofia della cosa che, a ben guardare, non sarebbe poi altro che un birignao generalizzato. Ripercorrendo il cammino inverso, si potrà dire che ogni discorso che abbia per oggetto l'amore (anche se è formulato con distacco) comporta inevitabilmente un'allocuzione segreta (io mi rivolgo a qualcuno che voi non conoscete, ma che è lì che ascolta le mie massime). Forse, nel "Simposio", questa allocuzione esiste: sarebbe Agatone che Alcibiade interpellerebbe e desidererebbe, sotto l'ascolto di un analista: Socrate [Lacan].
(L'atopia dell'amore, ciò che riesce a farlo sfuggire a tutte le dissertazioni, sarebbe che non è possibile parlarne se non "conformemente a una rigorosa determinazione allocutoria"; nel discorso amoroso, sia esso filosofico, gnomico, lirico o romanzesco, c'è sempre una persona a cui ci si rivolge, anche se questa persona è solo allo stato di fantasma o di creatura non ancora esistente.
Nessuno ha voglia di parlare dell'amore, se non è "per" qualcuno).
Domnei.
DIPENDENZA. Figura nella quale l'opinione intravede la condizione stessa del soggetto amoroso, asservito all'oggetto amato.
1. La meccanica del vassallaggio amoroso esige una futilità senza fondo [CORTEZIA: l'amore cortese è fondato sul vassallaggio amoroso ("Domnei" o "Donnoi")]. Questo perché, se si vuole che la dipendenza si manifesti nella sua purezza, bisogna che essa si renda palese nelle circostanze più irrilevanti e diventi qua si vergognosa a forza di pusillanimità: aspettare una telefonata è in un certo senso una dipendenza troppo gravosa [SIMPOSIO: 166]; bisogna che io la affini, senza limiti: quindi, mi farò il sangue cattivo di fronte allo spettegolare delle comari che, dal farmacista, mi tiene lontano dall'apparecchio a cui sono asservito; e siccome questa telefonata, che io non voglio perdere, mi fornirà qualche nuova occasione di asservimento, si potrebbe dire che io agisco energicamente per preservare proprio lo spazio della dipendenza e per permettere inoltre a questa dipendenza di esercitarsi: io mi smarrisco nella dipendenza ma, ciò che è più - altro tranello -, sono umiliato da questo smarrimento.
(Se io accetto la mia dipendenza, è perché essa costituisce per me un mezzo per "significare" la mia domanda: nel campo amoroso, la futilità non è una "debolezza" né una "meschinità": essa è un segno di forza: più la cosa è futile, più ha significato e più s'impone come forza).
2. L'altro è assegnato a un habitat superiore, a un Olimpo ove tutto si decide e da cui tutto emana su di me. Talora, dal momento che l'altro si trova ad essere egli stesso soggetto a una istanza che è al di sopra della sua portata, queste emanazioni di decisioni sono in ordine gerarchico, cosicché io sono soggetto due volte: di chi io amo e di chi lui è soggetto. E' a questo punto che incomincio a impuntarmi, poiché la decisione superiore di cui io sono l'oggetto ultimo e come appiattito, mi sembra in questo caso totalmente ingiusta: non mi trovo più nella Fatalità che da buon soggetto tragico io mi ero scelto. Sono giunto a quello stadio storico in cui il potere aristocratico comincia a subire i primi colpi della rivendicazione democratica: "Non capisco perché dovrei essere io a, eccetera".
(La scelta delle vacanze, con il loro calendario complicato, in questo o quell'altro programma in cui mi trovo a far parte, favorisce a meraviglia queste prime rivendicazioni).
"Con aria imbarazzata".
DISAGIO. Scena a più persone, nella quale l'implicito del rapporto amoroso agisce come una coartazione e suscita un imbarazzo collettivo che non viene esternato.
1. Werther sta facendo una scenata a Carlotta (è poco prima del suo suicidio), ma la scenata viene interrotta dall'arrivo di Alberto. Nessuno parla più; Werther e Alberto incominciano a camminare con aria imbarazzata su e giù per la stanza; incominciano discorsi di nessun interesse che subito cadono nel nulla. L'atmosfera è pesante. Perché? Perché ognuno di loro è visto dagli altri due nel suo ruolo specifico (di marito, di amante, di posta in gioco), senza che nella conversazione si possa tener conto di questo ruolo. Ciò che pesa, è il sapere silenzioso: io so che tu sai che io so: questa è la formula generale dell'imbarazzo, pudore bianco, raggelato, che per insegna ha l'insignificanza (dei discorsi). Paradosso: il non-detto come sintomo... del "cosciente".
2. Il caso vuole che alcuni amici si ritrovino di colpo riuniti in un caffè: tutta una massa di affetti.
L'atmosfera è pesante; benché vi sia coinvolto e benché ne soffra, io vivo questa situazione come una scena, come un quadro ben disegnato, ben combinato (qualcosa come un Greuze un po' perverso); il tutto è pieno zeppo di significati: io li leggo, li seguo in tutta la loro finezza; osservo, decifro, mi gusto un testo che sprizza leggibilità "per il fatto stesso che non si esterna". Non faccio che "vedere" ciò che si parla da s‚, come al cinema muto. Si verifica in me (contraddizione in termini) una sorta di "fascinazione vigile": la mia attenzione è rivolta alla scena e tuttavia sono molto sveglio: la mia attenzione fa parte di ciò che sta avvenendo. la scena è priva di un'esteriorità e tuttavia io la leggo: non vi è la ribalta, è un teatro estremo. Di qui il malessere - o per certuni, depravati, il godimento.
L'esuberanza.
DISPENDIO. Figura mediante la quale il soggetto amoroso mira e al contempo esita a situare l'amore in un'economia di puro dispendio, di perdita "per niente".
1. Alberto, personaggio piatto, morale, conformista, decreta (come chissà quanti prima di lui) che il suicidio è una viltà. Per Werther, al contrario, il suicidio non è una debolezza, dal momento che esso scaturisce da una tensione [WERTHER: "59, 133]: "Mio caro, se un eccesso fisico viene considerato come una forza, perché non lo sarà anche l'eccesso dei sentimenti?" L'amore-passione è dunque una forza ("questa violenza, questa passione irriducibile"), è qualcosa che ricorda la vecchia nozione di "ischus": energia, tensione, forza di carattere) e, più vicino a noi, quella di Dispendio [GRECO: nozione stoica ("Les Sto‹ciens].
(Tutto questo va ricordato, se si vuole intravedere la forza trasgressiva dell'amore-passione: l'assunzione della sentimentalità come forza estranea).
2. A un certo punto, in Werther, sono contrapposte due economie [WERTHER: e ancora a proposito di Werther e di Alberto, 122]. Da una parte, c'è il giovane innamorato che, senza calcoli, prodiga il suo tempo, le sue capacità, la sua fortuna; dall'altra, c'è il filisteo (il funzionario) che gli fa la predica: "Amministra il tuo tempo... Calcola bene la tua fortuna, eccetera". Da una parte, c'è l'innamorato Werther che, senza risparmio e senza aspettarsi alcuna ricompensa, ogni giorno spende il suo amore e, dall'altra, c'è il marito Alberto, che amministra il suo patrimonio, la sua felicità. Da una parte, un'economia borghese dell'accumulo, dall'altra un'economia perversa della dispersione, dello spreco, del "furore" ("furor wertherinus").
(Prima un lord e poi un vescovo inglese, rimproverarono a Goethe l'epidemia di suicidi provocati dal "Werther". Goethe rispose in termini propriamente "economici": "Il vostro sistema commerciale ha fatto migliaia di vittime; perché non perdonarne qualcuna anche al "Werther?") [WERTHER: "furor wertherinus", Introduzione, 19. Risposta di Goethe: Introduzione, 32 (ed. AubierMontaigne)].
3. Il discorso amoroso non è proprio privo di calcoli: io ragiono, certe volte calcolo, sia per ottenere una certa soddisfazione, o per evitare un certo dolore, sia per rappresentare interiormente all'altro, in un moto di stizza, i tesori d'ingegnosità che io dilapido "per niente" in suo favore (cedere, dissimulare, non ferire, divertire, convincere, ecc.). Ma questi calcoli sono soltanto delle impazienze: in essi non vi è alcuna idea di guadagno finale: il Dispendio è aperto, all'infinito, la forza deriva, senza nessuna finalità (l'oggetto amato non è una meta: è un oggetto-cosa, non un oggetto-termine).
4. Quando il Dispendio amoroso viene continuamente riaffermato, senza freno, senza soluzione di continuità, si verifica quella cosa splendida e rara che si chiama l'esuberanza e che è eguale alla Bellezza: "L'esuberanza è la Bellezza [BLAKE: citato da N. Brown, 68]. La cisterna contiene, la fonte trabocca". L'esuberanza amorosa è l'esuberanza del fanciullo a cui niente (ancora) viene a contenere l'ostentazione narcisistica, il godimento multiforme. Considerato che il discorso amoroso non è una "media" di stati d'animo, questa esuberanza può essere rotta a intervalli da tristezze, avvilimenti, impulsi suicidi; ma un tale squilibrio fa parte di quest'economia nera che mi marchia con la sua aberrazione, e per così dire con il suo lusso sfrenato.
Romanzo/dramma.
DRAMMA. Il soggetto amoroso non può scrivere egli stesso il suo romanzo d'amore. Solo una forma molto arcaica potrebbe raccogliere il fatto che lui declama senza però poterlo raccontate.
1. Nelle lettere che scrive al suo amico, Werther racconta sia i fatti della sua vita, sia gli effetti della sua passione; ma è la letteratura che esige questa mescolanza. Poiché, se io tengo un diario, è difficile che questo diario riporti i "fatti accaduti". I fatti della vita amorosa sono talmente futili che accedono alla scrittura solo attraverso uno sforzo immenso: ci si scoraggia di scrivere ciò che,
"nello scriversi", rivela in pieno la propria banalità: "Ho incontrato X... in compagnia di Y...", "Oggi, X... non mi ha telefonato", "X... era di cattivo umore", eccetera: chi potrebbe vedere in questo una storia? Il fatto, insignificante, non esiste che per le enormi ripercussioni che esso ha: "Diario delle mie ripercussioni" (dei miei dolori, delle mie gioie, delle mie interpretazioni, delle mie ragioni, delle mie velleità): chi riuscirebbe a capirci qualcosa? Solo l'Altro potrebbe scrivere il mio romanzo.
2. Come Racconto (Romanzo, Passione), l'amore è una storia che si compie, nel senso sacrale: è un "programma", che deve essere svolto. Per me, invece, questa storia ha "già avuto luogo", poiché ciò che è fatto accaduto rappresenta l'unica seduzione di cui io sono stato l'oggetto e di cui ripeto (e fallisco) il di-poi. L'innamoramento è un "dramma", se si vuole rendere a questa parola il significato arcaico che Nietzsche le dà: "Il dramma antico aveva di mira delle grandi scene declamatorie e ciò escludeva l'azione (questa aveva luogo "prima" o "dietro" la scena)" [NIETZSCHE: "Il caso Wagner"]. Il rapimento amoroso (momento puramente ipnotico) ha luogo "anteriormente" al discorso e "dietro" il proscenio della coscienza: il "fatto" amoroso è di ordine ieratico: ciò che io declamo a me stesso è la mia propria leggenda locale, la mia piccola storia sacra, e questa declamazione di un fatto compiuto (cristallizzato, imbalsamato, tagliato fuori da ogni forma di azione) è il discorso amoroso.
L'esilio dell'Immaginario.
ESILIO. Decidendo di rinunziare allo stato amoroso, il soggetto si vede con tristezza esiliato dal proprio Immaginario.
1. Prendiamo per ipotesi il caso di Werther nel momento fittizio (all'interno della finzione stessa) in cui egli rinuncia a suicidarsi [Werther]. A quel punto non gli resta che l'esilio: non già allontanarsi da Carlotta (lo ha già fatto una volta, senza risultato), ma esiliarsi dalla sua immagine o, peggio ancora, soffocare quell'energia delirante che viene chiamata Immaginario. Ha allora inizio "una specie di lunga insonnia" [HUGO: "L'esilio è una specie di lunga insonnia" ("Pierres", 62)]. Il prezzo che si deve pagare è: la morte dell'Immaginario contro la mia propria vita [FREUD: "... il lutto induce l'Io a rinunciare all'oggetto dichiarandolo morto, e offrendo all'Io, in cambio di questa rinuncia, il premio di restare in vita..." ("Metapsicologia", 117)].
(La passione amorosa è un delirio; ma il delirio non è poi così straordinario; tutti ne parlano e ormai non fa più paura. Enigmatica è semmai "la perdita di delirio": dove porta?)
2. Nel lutto reale, è la "prova di realtà" a mostrarmi che l'oggetto amato ha cessato di esistere. Nel lutto amoroso, l'oggetto non è né morto né lontano. Sono io a decidere che la sua immagine deve morire (e questa morte, io potrò addirittura arrivare a nascondergliela). Per tutto il tempo che durerà questo strano lutto, dovrò portare il peso di due infelicità fra loro contrarie: soffrire per il fatto che l'altro sia presente (e che continui, suo malgrado, a farmi del male) e affliggermi per il fatto che egli sia morto (se non altro, che sia morto quello che io amavo). Cosicché mi angoscio (vecchia abitudine) per una telefonata che non arriva, ma nello stesso tempo devo dirmi che questo silenzio è, "in ogni caso", inconseguente, poiché io ho deciso di non aspettarmi più niente: il telefonarmi, dipendeva soltanto dall'immagine amorosa; scomparsa quell'immagine, sia che suoni sia che non suoni, il telefono riprende la sua futile esistenza.
(Il punto più sensibile di questo lutto è che mi tocca "perdere un linguaggio" - il linguaggio amoroso. D'ora innanzi, non ci saranno più i "Ti amo").
3. Per quanto io lo rovini, il lutto dell'immagine mi rende angosciato; ma, d'altro lato, per quanto io riesca a dargli buon esito, esso mi rende triste. Se l'esilio dell'Immaginario è la via obbligata per giungere alla "guarigione", allora bisogna convenire che il progresso è triste. Questa tristezza non è una malinconia - o almeno è una malinconia incompleta (niente affatto clinica), giacché non mi rimprovero niente e non sono prostrato. La mia tristezza appartiene a quella frangia della malinconia in cui la perdita dell'essere amato resta astratta [FREUD: "In altre circostanze si può invece riscontrare che la perdita è di natura più ideale, Può darsi che l'oggetto non sia morto davvero, ma sia andato perduto come oggetto d'amore..." (Ibid., 104)]. Qui, la perdita è doppia: non posso neppure investire la mia infelicità, come quando soffrivo per il fatto di essere innamorato. Allora, io desideravo, sognavo, lottavo; un bene prezioso era dinanzi a me, semplicemente ritardato, il suo possesso era ostacolato da alcuni contrattempi. Adesso non c'è più niente; tutto è calmo, e questo è peggio. Sebbene sia giustificato da un'economia - l'immagine muore affinché io viva -, il lutto amoroso ha sempre uno strascico: una frase viene ripetuta in continuazione: "Che peccato!"
4. Prova d'amore: io ti sacrifico il mio Immaginario - così come si faceva l'offerta di una chioma. In questo modo (stando a quel che si dice) io potrò forse accedere al "vero amore". Se vi è qualche analogia fra la crisi amorosa e la cura analitica, allora io rinunzio a chi amo, così come il paziente rinunzia al suo analista: mi sbarazzo del mio transfert, ed è in questo modo, sembra, che la cura e la crisi hanno fine. Tuttavia, secondo quanto qualcuno ha fatto notare, questa teoria non tiene conto del fatto che anche l'analista deve rinunziare al suo paziente (altrimenti l'analisi non avrebbe più fine); allo stesso modo, l'essere amato se gli sacrifico un Immaginario che in qualche modo lo invischiava - deve entrare nella malinconia del proprio decadimento [ANTOINE COMPAGNON: "L'analyse orpheline"]. E, unitamente al mio proprio lutto, bisogna prevedere e farsi carico di questa malinconia dell'altro, e io ne soffro, "poiché lo amo ancora".
Il vero atto del lutto, non è soffrire per la perdita dell'essere amato; è constatare un giorno, sulla pelle della relazione, simile a una minuscola macchia, il sintomo di una morte sicura: per la prima volta, io faccio del male a chi amo, senza volerlo, certo, ma anche "senza darmi eccessiva pena".
5. Io cerco di strapparmi all'Immaginario amoroso: ma, come brace non ancora spenta, sotto l'Immaginario cova la fiamma; esso avvampa di nuovo; ciò che era stato ripudiato risorge; ad un tratto, dalla tomba mal sigillata sale un lungo lamento.
(Gelosie, angosce, possessi, discorsi, appetiti, segni: ovunque, il desiderio amoroso ardeva nuovamente [FREUD: "Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento dalla realtà e in una pertinace adesione all'oggetto, consentita dall'instaurarsi di una psicosi allucinatoria di desiderio" (ibid.)]. Era come se io avessi voluto stringere per l'ultima volta, allo spasimo, qualcuno che stava per morire - che stavo per far morire: il mio, era un rifiuto di separazione) [WINNICOTT: "Poco prima che la perdita si faccia sentire, si può discernere nel bambino, nella eccessiva utilizzazione dell'oggetto transizionale, il rifiuto del timore che questo oggetto perda il suo significato" ("Jeu et Réalit‚", 26 e seguenti)].
Fading.
FADING. Prova dolorosa con la quale l'essere amato sembra sottrarsi a qualsiasi contatto, senza neppure rivolgere questa indifferenza enigmatica contro il soggetto amoroso o pronunziarla a beneficio di chiunque altro, sia questo il mondo o un rivale.
1. Nel testo, il fading delle voci è una buona cosa; le voci del racconto vanno e vengono, svaniscono, si accavallano; non si sa chi parla: qualcuno parla e basta; non vi è più immagine, ma solo linguaggio. Ma l'altro non è un testo: è un'immagine, una e coalescente; se la voce si disperde, scompare l'intera immagine (l'amore è monologico, maniaco; il testo è eterologico, perverso). Il fading dell'altro, quando si manifesta, mi angoscia perché mi sembra senza causa e senza fine. Come un triste miraggio, l'altro s'allontana, insegue l'infinito e io mi logoro nell'attesa del suo ritorno.
(Quando questo indumento era più che mai di moda, una ditta americana vantava il blu slavato dei suoi jeans: "it fades, fades and fades". Allo stesso modo, l'essere amato non cessa di svanire, di sfumare: sentimento di follia, ancora più puro che se questa follia fosse violenta).
(Fading straziante: poco prima di morire, la nonna del narratore, a tratti, non vede e non sente più; essa non riconosce più il bambino e lo guarda "con aria stupita, diffidente, scandalizzata" [PROUST: "I Guermantes", 361]).
2. Vi sono degli incubi in cui la Madre appare con un volto pieno di severità e freddezza. Il fading dell'oggetto amato è il terrificante ritorno della Madre Cattiva, l'inspiegabile ritiro d'amore, la sensazione di sentirsi abbandonati ben nota ai Mistici: Dio esiste, la Madre c'è, ma essi "non amano più". Non sono distrutto, ma "lasciato là", come un rifiuto.
3. La gelosia fa soffrire meno perché l'altro continua ad essere vivo. Nel fading, l'altro sembra perdere ogni desiderio: egli è preda della Notte. L'altro mi abbandona, ma a questo abbandono fa seguito l'abbandono che a sua volta coglie l'altro [JUAN DE LA CRUZ: "Diciamo "Notte" la privazione del gusto nell'appetito di tutte le cose" (citato da Baruzi, 408)]; la sua immagine viene in questo modo lavata, disciolta; niente più mi sostiene, neanche il desiderio che l'altro rivolgerebbe altrove; sono in lutto per un oggetto che è già in lutto (da questo si può capire fino a che punto abbiamo bisogno del desiderio dell'altro, anche se questo desiderio non è rivolto a noi).
4. Quando l'altro s'abbandona al fading, quando si ritira, senza trarre da ciò alcun giovamento, se non un'angoscia che può solo esprimere attraverso le scarne parole: "non mi sento ben", egli sembra muoversi in lontananza, nella bruma; non già morto, ma "vivente evanescente" nella regione delle Ombre. Ulisse rendeva loro visita, le evocava ("Nekuia"); fra loro c'era l'ombra di sua madre [ODISSEA: 11]. Allo stesso modo io chiamo, evoco l'altro, la Madre, ma ciò che appare è solo un'ombra.
5. Il fading dell'altro è racchiuso nella sua voce. La voce sostiene, rende leggibile e per così dire realizza l'evanescenza dell'essere amato, poiché è alla voce che tocca morire. L'essenza della voce è ciò che in essa mi strazia a forza di dover morire, come se essa fosse già subito e non potesse mai essere altro che un ricordo. Questo essere fantasma della voce è l'inflessione. L'inflessione, attraverso cui ogni voce si definisce, è ciò che in questo momento sta tacendosi, è quel punto sonoro che si disgrega e svanisce. Non conosco mai la voce dell'essere amato se non quando essa è morta, richiamata alla memoria, ricordata nella mia testa, ben oltre l'orecchio; voce tenue e nondimeno monumentale, giacché essa è uno di quegli oggetti che non esistono se non quando non ci sono più.
(Voce addormentata, voce disabitata, voce del verbale, del fatto lontano, della bianca fatalità).
6. Niente di più straziante che una voce amata e stanca: voce estenuata, rarefatta, per non dire esangue, voce che viene da in capo al mondo, che va ad inabissarsi in remotissime acque fredde: essa "sta per" scomparire, così come l'essere stanco "sta per" morire: la stanchezza è l'infinito, la cosa che non finisce di finire. Questa voce breve, corta, quasi sgraziata a forza di laconicità, questo "quasi niente" della voce amata e distante, diventa dentro di me un groppo gigantesco, come se un chirurgo mi stesse ficcando a forza nella testa un grosso tampone di cotone.
7. Sembra che Freud detestasse il telefono: proprio lui che invece amava "ascoltare" [FREUD:
Martin Freud, "Freud, mon père", 45]. Forse intuiva, presentiva, che la telefonata è sempre una "cacofonia" e che quello che il telefono lascia filtrare è la "voce falsa", la comunicazione fasulla. Senza dubbio, attraverso il telefono io cerco di negare la separazione - come il bambino che temendo di perdere sua madre manipola senza posa una funicella [WINNICOTT: "Spiegai alla madre che suo figlio, temendo la separazione, cercava di negarla per mezzo del gioco della funicella, così come si nega la separazione da un amico ricorrendo al telefono" ("Jeu et rèalit‚", 29)]; ma il telefono non è un valido oggetto transizionale, non è una funicella inerte; il suo significato non è quello del collegamento, ma bensì quello della distanza; la voce amata, stanca, ascoltata per telefono: è il fading in tutta la sua angoscia. Tanto per cominciare, quando questa voce giunge a me, quando essa è là, quando (con molta fatica) continua ad esserci, io non la riconosco mai completamente; si direbbe che essa provenga da dietro una maschera (si dice che le maschere della tragedia greca avessero una funzione magica: dare alla voce un'origine ctonia, deformarla, straniarla, farla arrivare dall'al di là sotterraneo). E, inoltre, l'altro sembra sempre che stia per partire; egli se ne va due volte: attraverso la sua voce e attraverso il suo silenzio: a chi tocca parlare? Cessiamo insieme di parlare: ingombro di due vuoti. "Sto per lasciarti", dice ad ogni istante la voce al telefono.
(Episodio d'angoscia vissuto dal narratore proustiano quando egli telefona a sua nonna: angosciarsi per il telefono: è il segno inequivocabile dell'amore) [PROUST: "I Guermantes", 141].
8. Tutto ciò che può alterare l'Immagine mi spaventa. Perciò sono spaventato dalla stanchezza dell'altro: essa è il più crudele degli oggetti rivali. Come lottare contro una stanchezza? Unico aggancio che mi resti, so bene che da questa stanchezza l'altro, estenuato, ne strappa un pezzo "per darmelo". Ma che cosa fare di questo malloppo di stanchezza posato davanti a me? Che significato ha questo dono? "Lasciami? Raccoglimi?" Nessuno risponde, poiché ciò che è dato è appunto "ciò che non risponde".
(Non ho mai letto in nessun romanzo d'amore che un personaggio fosse "stanco". Ho dovuto aspettare Blanchot, prima che qualcuno mi parlasse della Stanchezza) [BLANCHOT: vecchia conversazione].
L'arancia.
FASTIDIO. Sentimento di moderata gelosia che coglie il soggetto amoroso quando vede che l'interesse dell'essere amato è catturato e distolto da persone, oggetti o azioni che ai suoi occhi agiscono come altrettanti rivali secondari.
1. Werther: "Le arance che avevo messo da parte, e che ormai erano le sole che fossero rimaste, ebbero un effetto meraviglioso, solo che ad ogni spicchio ch'essa per cortesia doveva spartire con una vicina indiscreta, provavo un colpo al cuore" [WERTHER: 30].
Il mondo è pieno di vicini indiscreti, coi quali mi tocca condividere l'altro. Il mondo è precisamente questo: "un obbligo di spartizione". Il mondo (il mondano) è il mio rivale. Sono continuamente infastidito da seccatori: una lontana conoscenza incontrata per caso e che di forza viene a sedersi al nostro tavolo; al ristorante, dei vicini di tavolo la cui volgarità attrae visibilmente l'altro, al punto che esso non sente neanche più se gli sto parlando; un oggetto, per esempio un libro, nel quale l'altro è assorto (sono geloso del libro). E' fastidioso tutto ciò che cancella fugacemente la relazione duale, tutto ciò che altera la complicità e allenta il legame di appartenenza: "Tu appartieni anche a me", dice il mondo.
2. Carlotta divide con gli altri la sua arancia per cortesia mondana o, se si vuole, per bontà; ma queste motivazioni non placano l'innamorato: "A cosa è servito serbare per lei queste arance, se poi le dà agli altri?", pensa probabilmente Werther. Ogni sottomissione ai riti mondani appare come una condiscendenza dell'essere amato, e questa condiscendenza altera la sua immagine. Contraddizione insolubile: da una parte, bisogna pure che Carlotta sia "buona", dal momento che è un oggetto perfetto; ma, dall'altra, non bisogna che questa bontà abbia per effetto l'abolizione del privilegio di cui io beneficio. Da questa contraddizione nasce un vago risentimento; la mia gelosia è indistinta: essa è rivolta tanto al seccatore quanto all'essere amato che accoglie la sua richiesta senza aver l'aria di esserne infastidito: sono "irritato" con gli altri, con l'altro, con me stesso (a questo punto potrebbe aver inizio una "scenata".
"Giorni beati".
FESTA. Il soggetto amoroso vive ogni incontro con l'essere amato come una festa.
1. La Festa, è ciò che si aspetta. Quello che io mi aspetto dalla presenza promessa, è una somma incredibile di piaceri, un festino; esulto come il bambino che ride vedendo colei la cui sola presenza annunzia e significa una totalità di soddisfazioni: io sto per avere davanti a me, per me, la "fonte di ogni bene" [Lacan].
"Vivo giorni felici come quelli che Dio stesso tiene in serbo per i suoi beati; e qualunque cosa mi succeda, non potrò certo dire di non aver goduto tutte le gioie più pure della vita" [WERTHER: 34].
2. "Questa notte, tremo nel dirlo! l'ho tenuta fra le mie braccia, l'ho stretta forte contro il mio petto e ho coperto di baci infiniti la sua bocca che sussurrava parole d'amore; lo sguardo mi si perdeva nell'ebrezza del suo! Mio Dio! sono colpevole se sento ancora adesso la beatitudine, se rivivo pieno d'ardore quelle gioie cocenti?" [WERTHER: 129-30].
Per l'Innamorato, per il Lunare, la Festa è un'esultanza, non uno sfogo: godo la cena, la conversazione, la tenerezza, la sicura promessa del piacere: "un'arte di vivere al di sopra dell' abisso".
(Non significa dunque niente, per voi, essere la festa di qualcuno?) [JEAN-LOUIS BOUTTES: "Le destructeur d'intensitè"].
La gelosia.
GELOSIA. "Sentimento che nasce nell'amore e che è cagionato dal timore che la persona amata preferisca qualcun altro" (Littr‚).
1. Il geloso del romanzo non è Werther; è il signor Schmidt, il fidanzato di Federica, l'uomo che è sempre di malumore. La gelosia di Werther nasce dalle immagini (vedere Alberto circondare col braccio la vita di Carlotta), non dal pensiero [Werther]. Ciò si deve al fatto (ed è questa una delle bellezze del libro) che si tratta di una disposizione tragica, e non psicologica. Werther non odia Alberto; è solo che Alberto occupa un posto che lui desidera: Alberto è un avversario (un concorrente, nel senso proprio del termine), non un nemico: egli non è "odioso". Nelle lettere che scrive a Guglielmo, Werther non si dimostra molto geloso. E' solo quando dal tono confidenziale della prima parte si passa al racconto finale che la rivalità fra i due diventa acuta, aspra, come se la gelosia prendesse corpo in seguito al semplice passaggio dall'"io" al "lui", da un discorso immaginario (saturo dell'altro) a un discorso dell'Altro - di cui il Racconto costituisce la voce statutara.
Il narratore proustiano ha pochi punti in comune con Werther. Forse non è nemmeno innamorato [Proust]. Esso è solamente geloso; in lui, non c'è niente di "lunare". - se non quando ama, amorosamente, la Madre (la nonna) [TALLEMANT DES REAUX: Luigi Tredicesimo: "I suoi amori erano degli strani amori: in essi non v'era nulla d'amoroso, all'infuori della gelosia" ("Historiettes", 1, 338)].
2. Werther è catturato da questa immagine: Carlotta che taglia delle fette di pane e che le distribuisce ai suoi fratelli e alle sue sorelle. Carlotta è una torta e questa torta viene condivisa: a ciascuno la sua fetta: io non sono il solo - non sono il solo in niente, ho dei fratelli, delle sorelle, devo condividere, devo inchinarmi dinanzi alla spartizione: le dee del Destino non sono forse anche le dee della Spartizione, le Moire - delle quali l'ultima è l'Inesorabile, la Morte? Inoltre, se non accetto la spartizione dell'essere amato, io nego la sua perfezione, giacché è proprio della perfezione il fatto di essere condivisa: Melito è condivisa perché è perfetta, e Iperione ne soffre: "La mia tristezza era veramente senza limiti. Dovetti andarmene" [H™LDERLIN: "Iperione" (segnalato da J.-L. R.)]. E così io soffro due volte: prima, per il fatto stesso della spartizione, e poi per la mia incapacità di sopportarne la nobiltà.
3, "Quando amo, sono molto esclusivo", dice Freud (che prenderemo qui come modello della normalità) [FREUD: "Lettere 1873-1939"]. Essere gelosi è essere conformi alle regole. Rifiutare la gelosia ("essere perfetto"), significa quindi trasgredire una legge. Zulayha ha cercato di sedurre Giuseppe e di questo il marito non si è indignato; a questo scandalo va data una spiegazione: la scena si svolge in Egitto e l'Egitto è sotto un segno zodiacale che esclude la gelosia: i Gemelli [DJEDIDI: 27. Zulayha vi riusci "un pochino". Giuseppe cedette "nella misura di un'ala ti zanzara" affinché la leggenda non potesse mettere in dubbio la sua virilità].
(Conformismo in senso inverso: è vietato essere gelosi, l'esclusivismo va condannato, si deve vivere in gruppo, ecc. - Attenzione! -, vediamo come stanno realmente le cose: e se mi obbligassi a non essere più geloso per la vergogna d'esserlo? La gelosia è brutta, è borghese: è un fervore indecoroso, uno "zelo" - ed è appunto questo zelo che noi rifiutiamo) [ETIMOLOGIA: "zèlos", "zelosus", "geloso"].
4. Come geloso, io soffro quattro volte: perché sono geloso, perché mi rimprovero d'esserlo, perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l'altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri.
La Gradiva.
GRADIVA. Questo nome, desunto dal libro di Jensen analizzato da Freud, designa l'immagine dell'essere amato che accetta di entrare un po' nel delirio del soggetto amoroso per aiutarlo ad uscirne fuori.
1. L'eroe della "Gradiva" è un innamorato eccessivo: egli allucina quello che altri non farebbero che evocare. L'antica Gradiva, figura di colei che egli ama senza saperlo, è vista come una persona reale: ecco il suo delirio. Per tirarlo fuori pian piano di l, essa si conforma in un primo momento a questo delirio; vi entra un po', acconsente a fare la parte della Gradiva, a non rovinare subito l'illusione e a non destare bruscamente il sognatore, ad avvicinare impercettibilmente il mito e la realtà e in tal modo l'esperienza amorosa assume un po' la funzione di una cura analitica [FREUD: "Non bisogna sottovalutare il potere curativo dell'amore nel delirio" ("Il delirio e i sogni nella "Gradiva" di Wilhelm Jensen")].
2. La Gradiva è una figura di salvezza, propiziatrice, una Eumenide, una Benevola. Ma, così come le Eumenidi non sono che delle vecchie Erinni, dee della vendetta, anche nella sfera amorosa esiste una Gradiva malvagia. Anche se inconsciamente e per delle motivazioni che possono aver origine dal suo proprio tornaconto nevrotico, l'essere amato sembra allora volermi spingere sempre più addentro nel mio delirio, sembra voler mantenere viva ed esulcerare la mia ferita d'amore: come i genitori di certi schizofrenici che, a quanto sembra, non smettono mai di provocare o di aggravare la follia del figlio con piccole ingerenze conflittuali, così l'altro cerca di "rendermi pazzo". Per esempio: l'altro si adopera a mettermi in contraddizione con me stesso (il che ha per effetto di paralizzare in me ogni linguaggio); o anche, alterna atti di seduzione ad atti di frustrazione (episodio consueto nella relazione, amorosa); passa senza preavviso da un regime all'altro, dalla tenerezza intima, complice, alla freddezza, al silenzio, al commiato; o infine, in un modo più sottile, ma non meno doloroso, s'ingegna a "rompere" la conversazione, sia imponendo di passare bruscamente da un argomento molto serio (che mi sta a cuore) a uno di nessuna importanza, sia interessandosi visibilmente, mentre sto parlando, ad altro. In poche parole, l'altro mi riporta di continuo davanti alla mia impasse: impasse da cui non posso uscire e in cui non posso restare, proprio come il famoso cardinale Balue chiuso in una gabbia nella quale non poteva né stare in piedi né sdraiarsi.
3. Come può l'essere che mi ha catturato, che mi ha preso nella rete, decatturarmi, aprire le maglie? Con la delicatezza. Il piccolo Martin Freud è stato umiliato durante una gara di pattinaggio; suo padre lo ascolta, gli parla e lo aiuta a districarsi, come se liberasse un animale prigioniero delle reti di un bracconiere: "Con estrema delicatezza, egli dipanava una dopo l'altra le maglie che trattenevano la bestiola, non mostrando alcuna fretta e sopportando senza spazientirsi i bruschi movimenti che l'animale faceva per liberarsi, fino a che le avesse sbrogliate tutte e che la bestia potesse così scappare via dimenticando tutto di quell'avventura" [FREUD: Martin Freud, "Freud, mon père", 50-51].
4, Si potrà dire all'innamorato - o a Freud: per la falsa Gradiva era facile entrare un po' nel delirio del suo innamorato, dal momento che lei pure lo amava. O piuttosto, si spieghi questa contraddizione: da una parte, Zoe vuole Norbert (vuole unirsi a lui), ne è innamorata; e, dall'altra, cosa spropositata per un soggetto amoroso, conserva la padronanza del suo sentimento, non delira, dal momento che essa è capace di fingere. Come può dunque Zoe "amare" e al tempo stesso "essere innamorata"? Questi due propositi non sono forse giudicati differenti (l'uno nobile e l'altro morboso)?
"Amare" ed "essere innamorato" hanno fra loro un rapporto difficile: poiché, se è vero che "essere innamorato" non assomiglia a niente altro (una goccia di "essere-innamorato" diluita in una vaga relazione amichevole la colora vivacemente, la rende incomparabile: io so "subito" che nel mio rapporto con X.... o con Y.... per quanto prudentemente mi trattenga, c'è "dell'essere-innamorato"), è anche vero che, nell'"essere-innamorato", c'è dell'"amare": io voglio prendere, ferocemente, ma so anche dare, attivamente. Chi dunque può centrare questa dialettica? Chi, se non la donna, colei che non si dirige verso nessun oggetto - solamente verso... il dono? [F. W.: conversazione]. Se dunque quell'innamorato riesce ad "amare", ciò è nella misura in cui esso si femminizza, nella misura in cui raggiunge la classe delle grandi Innamorate, delle Abbastanza Buone. Ecco perché - forse - è Norbert che delira - ed è Zoe che ama [WINNICOTT: la Madre].
Identificazioni.
IDENTIFICAZIONE. Il soggetto s'identifica dolorosamente con qualsiasi persona (o qualsiasi personaggio) che nella struttura amorosa occupi la sua stessa posizione.
1. Werther s'identifica con chiunque sia perdutamente innamorato; egli è il folle che ha amato Carlotta e che va a raccogliere fiori in pieno inverno; è quel giovane contadino innamorato di una vedova che ha appena ucciso il suo rivale, per il quale egli vuole intercedere, ma che non può salvare dall'arresto: "No, non puoi essere salvato, infelice! Lo vedo bene anch'io, che noi non possiamo essere salvati" [WERTHER: Folle dei fiori: 115 sgg. - Contadino: 123-126].
L'identificazione non ha preferenze psicologiche; essa è una pura operazione strutturale: io sono colui che occupa la mia stessa posizione.
2. Divoro con lo sguardo ogni intreccio amoroso, individuandovi quella che potrebbe essere la mia posizione, se ne facessi parte. lo colgo non delle analogie, bensì delle omologie: per esempio, constato che io sono per X... ciò che Y... è per Z,.. ; tutto ciò che mi si dice di Y... mi tocca nel vivo, benché la sua persona mi sia indifferente, e anzi addirittura sconosciuta; io sono catturato da uno specchio che si sposta e che mi capta ovunque vi sia una struttura duale. C'è di peggio: può capitare che da un'altra parte io sia amato da chi non amo; ora, anziché aiutarmi (mediante la gratificazione che essa implica o mediante il diversivo che potrebbe costituire), questa situazione mi addolora: mi vedo nell'altro che ama senza essere amato, ritrovo in lui i gesti della mia stessa infelicità, solo che questa volta sono io ad essere l'agente attivo di questa infelicità: io m'identifico al tempo stesso con la vittima e con il carnefice.
(Se il romanzo d'amore funziona - si vende -, è proprio per questa omologia).
3. Oltre che da me, X... è più o meno desiderato, lusingato, da altri. Io sono quindi nella loro posizione, così come Werther è nella stessa posizione di Enrico, il pazzo dei fiori, che ha amato Carlotta alla follia[]. Ora, questo rapporto di struttura (alcuni punti sono disposti in un certo ordine intorno a un punto) è da me subito immaginato in termini di personalità: dal momento che Enrico e io occupiamo lo stesso spazio, io non m'identifico solo più con il posto di Enrico, ma anche con la sua immagine. Un delirio mi coglie: "io sono Enrico"! Questa identificazione generalizzata, estesa a tutti coloro che circondano l'altro e che come me beneficiano di lui, mi addolora doppiamente: essa mi svalorizza di fronte a me stesso (io mi ritrovo "ridotto" a tale o talaltra personalità), ma svalorizza anche il mio altro, il quale diventa la posta in gioco, ma inerte, sballottata, di un certo numero di concorrenti. Ognuno, identico agli altri, sembra gridare: è mio! è mio! E' come una torma di ragazzini che si stanno contendendo la palla, il fazzoletto, un oggetto qualsiasi, in poche parole il feticcio che è stato loro lanciato: "chi lo prende lo fa suo" (questo gioco si chiamava "ruffa raffa").
La struttura non fa preferenze per nessuno; essa è quindi terribile (come una burocrazia). Non le si può rivolgere suppliche, dirle: "Guardami, io sono meglio di X...". Inesorabile, essa risponde: "tu sei nella sua stessa posizione, dunque tu sei X...". Nessuno può "perorare" contro la struttura.
4. Werther s'identifica con il folle, con il contadino. 10, come lettore, posso identificarmi con Werther. Storicamente, migliaia di soggetti lo hanno fatto, soffrendo, suicidandosi, vestendosi, profumandosi, scrivendo come tanti Werther (canzoni, lamenti, bomboniere, fibbie, ventagli, acqua di toilette alla Werther) [WERTHER: "Introduzione storica" (edizione Aubier-Montaigne)]. Una lunga catena di equivalenze lega tutti gli innamorati del mondo. Nella teoria della letteratura, la "proiezione" (del lettore nel personaggio) è oggi superata: essa è tuttavia il registro proprio delle letture immaginarie: leggendo un romanzo d'amore, non è esatto dire che io mi proietto; io aderisco all'immagine dell'innamorato (dell'innamorata), mi rinchiudo con questa immagine nella clausura del libro (tutti sanno che questi romanzi vengono letti in stato di secessione, di reclusione, di assenza e di voluttà: al gabinetto) [PROUST: (il gabinetto odoroso d'iris, a Combray) "Destinata ad un uso più particolare e più volgare, quella stanza [...] mi servi per lungo tempo di rifugio, senza dubbio perché era la sola che mi fosse permesso chiudere a chiave, in tutte le occupazioni che invocano un'inviolabile solitudine: la lettura, la fantasticheria, le lagrime e la voluttà"].
Le immagini.
IMMAGINE. Nella sfera amorosa, le ferite più dolorose sono causate più da ciò che si vede che non da ciò che si sa.
1. ("Tutt'a un tratto, ritornando dallo spogliatoio, egli li vede che stanno affettuosamente conversando tra loro, con le teste che si sfiorano").
L'immagine prende risalto, è pura e nitida come una lettera: essa è la lettera di ciò che mi fa male. Precisa, completa, rifinita, definitiva, essa non mi lascia alcuno spazio: io ne sono escluso come lo sono dalla scena primitiva, la quale forse esiste solo in quanto è delineata dal contorno della serratura. E perciò, ecco la definizione dell'immagine, di ogni immagine: l'immagine è ciò da cui io sono escluso. Al contrario di quei disegni-rebus in cui il cacciatore compare confuso in mezzo al fogliame, io non sono raffigurato nella scena: l'immagine è senza enigma.
2. L'immagine è perentoria, essa ha sempre l'ultima parola; nessuna cognizione può contraddirla, trasformarla, affinarla. Werther sa bene che Carlotta è promessa ad Alberto e, in fondo, di questo egli soffre solo vagamente [WERTHER: 97]. Ma: "un brivido mi corre per tutto il corpo quando Alberto cinge con un braccio la sua snella figura". "So bene" che Carlotta non m'appartiene, dice la ragione di Werther; "ma tuttavia" Alberto me la ruba, dice l'immagine che egli ha davanti agli occhi [WERTHER: 97].
3. Le immagini da cui sono escluso risultano per me crudeli; ma talvolta capita anche
(rovesciamento) che io sia coinvolto nell'immagine. Allontanandomi dal tavolino del caffè in cui devo lasciare l'altro in compagnia, "mi vedo" andar via solo, camminando, un po' ingobbito, per la via deserta. lo converto la mia esclusione in immagine. Questa immagine, in cui la mia assenza è colta come in uno specchio, è un'immagine "triste".
Un quadro romantico raffigura in una luce polare un cumulo di lastre di ghiaccio frantumate; in quello spazio desolato non c'è nessun uomo, nessun oggetto; ma, proprio per questo, per poco che io sia in preda alla tristezza amorosa, quel vuoto vuole che mi ci proietti; mi vedo come una figurina, seduto su uno di quei blocchi, abbandonato là per sempre [FRIEDRICH: "Il naufragio della "Speranza""]. "Ho freddo, - dice l'innamorato, - torniamo a casa", ma non c'è nessuna strada e la nave è sfasciata. Esiste un "freddo" speciale dell'innamorato: la freddolosità del cucciolo (d'uomo, d'animale) che ha bisogno dei calore materno.
4. Ciò che mi ferisce sono le "forme" della relazione, le sue immagini; o meglio, ciò che gli altri chiamano "forma", io la sento come forza. L'immagine - come l'esempio per il soggetto ossessivo - è la "cosa stessa". L'innamorato è dunque artista e il suo mondo è effettivamente un mondo alla rovescia, poiché ogni immagine vi ha la sua propria fine (niente al di là dell'immagine).
L'Inconoscibile.
INCONOSCIBILE. Sforzi del soggetto amoroso per capire e definire l'essere amato "in s‚", come tipo caratteriale, psicologico o nevrotico, indipendentemente dalle peculiari cognizioni del rapporto amoroso.
1. Io sono prigioniero di questa contraddizione: da una parte, credo di conoscere l'altro meglio di chiunque e glielo dichiaro trionfalmente ("Io s che ti conosco! Solo io ti conosco veramente!"); e, dall'altra, sono spesso colpito da questa evidenza: l'altro è impenetrabile, sgusciante, intrattabile; non posso smontarlo, risalire alla sua origine, sciogliere il suo enigma. Da dove viene? Chi è? Mi esaurisco in sforzi inutili: non lo saprò mai.
(Fra tutti quelli che avevo conosciuto, X... era sicuramente il più impenetrabile. Ciò era dovuto al fatto che non si sapeva niente del suo desiderio: in fondo, conoscere qualcuno non significa forse conoscere il suo desiderio? Io sapevo tutto, subito, dei desideri di Y... : egli mi sembrava perciò "radiografato" ed io ero incline ad amarlo non più con terrore, ma con indulgenza, come una madre ama il suo bambino).
Rovesciamento: "Non riesco a capirti" vuoi dire: "Non saprò mai che cosa pensi veramente di me". Non posso decifrare te perché non so come tu decifri me.
2. Prodigarsi, adoperarsi per un soggetto impenetrabile, è religione pura. Fare dell'altro un enigma irresolvibile da cui dipende la mia vita, significa consacrarlo come dio; io non riuscirò mai a risolvere l'enigma che egli mi pone: l'innamorato non è Edipo. Quindi, non mi resta altro che volgere la mia ignoranza in verità. Non è vero che quanto più si ama, tanto più si capisce; ciò che l'azione amorosa ottiene da me è soltanto questa cognizione: nell'altro non c'è nulla da scoprire: la sua opacità non nasconde affatto un segreto, ma semmai una sorta di evidenza, nella quale si annulla il gioco dell'apparenza e dell'essere [GIDE: parlando di sua moglie: "E dato che per capire ciò che si differenzia da voi c'è sempre bisogno d'amore..." ("Et nunc manet in te", 1151)]. E quindi cresce in me lo stimolo ad amare "qualcuno che sia sconosciuto" e che tale deve restare per sempre:
impulso mistico: io accedo alla cognizione dell'inconoscibilità.
3. E ancora: anziché voler definire l'altro ("Cos'è mai costui?"), io volgo l'attenzione su me stesso: "Cos'è che voglio, io che desidero conoscerti?" Cosa si verificherebbe se decidessi di definirti non già come una persona, ma bensì come una forza? E nel caso che mi ponessi come una forza contrapposta alla tua forza? Tutto ciò avrebbe come risultato questo: il mio altro si definirebbe solamente attraverso la sofferenza o il piacere che egli mi dà.
"Com'era azzurro, il cielo".
INCONTRO. La figura fa riferimento al periodo felice che è immediatamente seguito al primo smarrimento, quando ancora non erano sorte le difficoltà del rapporto amoroso.
1. Sebbene il discorso amoroso non sia altro che una girandola di figure che, come gli svolazzamenti di una mosca in una stanza, si muovono secondo un ordine imprevedibile, io posso assegnare all'amore, se non altro retrospettivamente, immaginariamente, un divenire regolare: è mediante questo fantasma storico che talvolta io ne faccio: un'avventura. L'itinerario amoroso sembra allora seguire tre tappe (o tre atti): prima, istantanea, c'è la cattura (io sono rapito da un'immagine); dopo, c'è un susseguirsi d'incontri (appuntamenti, telefonate, lettere, viaggetti), durante i quali "esploro" con trasporto la perfezione dell'essere amato, ossia l'insperatoooooooooo adeguamento di un oggetto al mio desiderio: è la dolcezza dell'inizio, il tempo dell'idillio
[FONSARD: "Quand je fus pris au doux commencement / D'une douceur si doucettement douce..." ("Doux fut le trait")]. Questo periodo felice assume la sua identità (la sua definizione) per il fatto che esso si contrappone (se non altro nel ricordo) al "seguito": "il seguito" è la lunga sequela di sofferenze, dolori, angosce, sconforti, rancori, impacci e tranelli di cui divento preda e che mi porta
a vivere incessantemente sotto la minaccia di un decadimento che coinvolgerebbe contemporaneamente l'altro, me stesso e l'incontro che ci ha scoperti l'uno all'altro.
2. Ci sono degli innamorati che non si suicidano: dal "tunnel" che s'imbocca dopo l'incontro amoroso, può darsi che io riesca a uscire: rivedo la luce, sia che io riesca a dare all'amore infelice una soluzione dialettica (continuo a tenermi l'amore, ma mi sbarazzo dell'ipnosi), sia che, abbandonato quell'amore, io mi rimetta in corsa cercando di reiterare, con altri, l'incontro di cui serbo ancora lo stupore: quell'incontro rientra infatti nell'ordine del "primo piacere" e io non so darmi pace se esso non ritorna: io affermo l'affermazione, io ricomincio, senza ripetere.
(L'incontro irradia; più tardi, nel ricordo, il soggetto riunirà in uno solo i tre momenti dell'itinerario amoroso; egli parlerà allora dello "stupefacente tunnel dell'amore").
3. Nell'incontro, io mi meraviglio per aver trovato qualcuno che, con pennellate consecutive e ogni volta precise, porta a termine senza cedimenti il quadro del mio fantasma; io sono come un giocatore la cui fortuna non si smentisce e che al primo colpo gli fa mettere la mano sul pezzo che va a completare il puzzle del suo desiderio. E' una scoperta progressiva (quasi una verifica) delle affinità, complicità e intimità; e tutto questo io potrò condividerlo per sempre (almeno penso) con un altro che, da quel momento, sta per diventare il "mio altro": io sono tutto proteso verso questa scoperta (ne tremo), al punto che qualsiasi curiosità intensa provata per un essere incontrato equivale in fondo ad amore (e amore è ciò che prova per il pellegrino Chateaubriand un giovane Peloponnesiaco, il quale osserva avidamente ogni suo minimo gesto e lo segue fino alla sua partenza) [CHATEAUBRIAND: "Itinéraire de Paris à Jérusalem", 832]. Ad ogni istante dell'incontro, io scopro nell'altro un altro me stesso: "Le piace questo? To', anche a me! Non le piace quello? Neanche a me!" ["Bouvard e P‚cuchet"]. Quando s'incontrano, Bouvard e Pécuchet non smettono più di elencare, con reciproca meraviglia, i gusti che hanno in comune: si tratta, a quanto pare, di una vera e propria scena d'amore. L'Incontro pone il soggetto amoroso (che è già estasiato) nello sbalordimento di chi si trova a vivere un fatto soprannaturale: l'amore appartiene alla sfera (dionisiaca) del Caso.
(I due non si conoscono ancora. Bisogna quindi che si raccontino: "Ecco cosa sono". E' il piacere narrativo, quello che al tempo stesso appaga e ritarda la conoscenza, quello che, in una parola, "rilancia". Nell'incontro amoroso, io non smetto di rimbalzare, sono "leggero") [R. H.: conversazione].
"Mostratemi chi devo desiderare".
INDUZIONE. L'essere amato è desiderato perché un altro o degli altri hanno segnalato al soggetto che esso è desiderabile: per quanto speciale esso sia, il desiderio amoroso viene scoperto per induzione.
1. Pochi giorni prima d'innamorarsi, Werther incontra un giovane contadino che gli parla della sua passione per una vedova: "L'immagine di quella fedeltà e di quell'affetto mi perseguita ovunque, sicché io stesso mi sento ardere, e spasimo e languisco". Dopo di che, a Werther non resta che innamorarsi a sua volta di Carlotta. E Carlotta stessa gli sarà designata prima che egli la veda; nella carrozza che li sta portando al ballo, un'amica compiacente dice a Werther quanto Lotte sia bella. Il corpo "che sta per essere amato" viene in anticipo delineato, manipolato dall'obbiettivo, sottoposto a una specie di zoomata che lo ravvicina, lo ingrandisce e consente al soggetto di scrutarlo dappresso:
non è per caso l'oggetto "scintillante" che un'abile mano fa luccicare davanti ai miei occhi per ipnotizzarmi, per catturarmi? [FREUD: "Psicologia delle masse e analisi dell'Io", 271]. Questo "contagio affettivo", questa induzione, parte dagli altri, dal linguaggio, dai libri, dagli amici: nessun amore è originale [LA ROCHEFOUCAULD: "Vi sono persone che se non avessero mai sentito parlare dell'amore non sarebbero mai state innamorate" (massima 136)]. (La cultura di massa è una macchina che indica quali sono le cose da desiderare: questo è ciò che deve interessarti, dice, come se intuisse che gli uomini sono incapaci di trovare da soli chi devono desiderare) [STENDHAL: "Prima che nasca l'amore, la bellezza è necessaria come "insegna"; avvia alla passione attraverso le lodi che si sentono rivolgere alla persona che si amerà" ("Dell'amore", 26)].
La difficoltà dell'avventura amorosa sta in questo: "Mostratemi chi devo desiderare, ma poi toglietevi dai piedi!": sono innumerevoli gli episodi in cui io m'innamoro di chi è amato dal mio migliore amico: ogni rivale è prima stato maestro, guida, ispiratore, mediatore.
2. Per indicarti dov'è il tuo desiderio, basta proibirtelo "un po'" (se è vero che non c'è desiderio senza proibizione). X... desidera che io sia l, accanto a lui, lasciandolo però "un po'" libero di muoversi: devo essere elastico: a volte è necessario che mi allontani, senza però andare "troppo lontano". Da una parte, bisogna che io sia presente come proibizione (senza la quale non ci sarebbe un vero e proprio desiderio), ma bisogna anche che mi allontani quando, essendosi formato il desiderio, la mia presenza potrebbe inibirlo: io devo essere la Madre buona quanto basta (protettrice e liberale), intorno alla quale viene a giocare il bambino, mentre lei sta tranquillamente cucendo [Winnicott]. Questa dovrebbe essere la struttura della coppia "perfetta": un po' di proibizione e molto gioco; designare il desiderio e poi lasciarlo, proprio come fanno certi indigeni ben disposti che vi indicano la strada senza però insistere per accompagnarvi.
L'informatore.
INFORMATORE. Figura amichevole che tuttavia sembra avere la costante funzione di ferire il soggetto amoroso dandogli, come se niente fosse, delle informazioni anodine sull'essere amato, il cui effetto è quello di guastare l'immagine che il soggetto ha di esso
1. Gustave, Léon e Richard formano un clan; Urbain, Claudius, tienne e Ursule ne formano un altro; Abel, Gontran, Angèle e Hubert un altro ancora (ricavo questi nomi da "Paludi", che è il libro dei nomi) [Gide]. Tuttavia, un giorno L‚on fa la conoscenza di Urbain, il quale fa a sua volta la conoscenza di Angèle che, del resto conosceva già un po' L‚on, eccetera. Si viene così a formare una costellazione; ogni soggetto è chiamato un giorno a entrare in rapporto con il suo astro più lontano e, attraverso lui, a partecipare di tutti gli altri: tutto finisce col coincidere (tale è appunto la dinamica della "Ricerca del tempo perduto", che è un immenso intrico, un reticolo farsesco) [Proust]. L'amicizia mondana è epidemica: tutti se la possono prendere, come una malattia. Supponiamo adesso che in questo circuito io introduca un soggetto addolorato, desideroso di mantenere col suo altro uno spazio ermeticamente chiuso, puro (inviolato), consacrato; le attività del circuito, il suo movimento d'informazioni, i suoi entusiasmi, le sue iniziative saranno recepiti come tanti pericoli. E, al centro di questa piccola società, metà villaggio etnologico e metà commedia leggera, struttura parentale e intrigo comico, c'è l'Informatore, il quale si dà molto da fare e "dice tutto a tutti".
Ingenuo o corrotto che sia, l'Informatore ha un ruolo negativo. Per quanto anodino possa essere il messaggio che mi trasmette (come una malattia), esso riduce il mio altro a non essere che un altro. Io sono di fatto obbligato ad ascoltarlo (non posso "mondanamente" dargli a vedere la mia stizza), ma mi sforzo di rendere la mia ricezione sorda, indifferente, come soffocata.
2. Ciò che voglio, è un piccolo cosmo (con il suo tempo, la sua logica) abitato solo da "noi due" (titolo d'un settimanale rosa). Tutto ciò che proviene dall'esterno costituisce una minaccia, sia sottoforma di seccatura (sono costretto a vivere in un mondo da cui l'altro è assente), sia sottoforma di dolore (se questo mondo mi parla di quell'altro in termini indiscreti).
Dandomi un'informazione banale su chi amo, l'Informatore mi svela un segreto. Questo segreto non è un segreto profondo; esso proviene dall'esterno: ciò che mi era nascosto è l'aspetto esteriore dell'altro. Il sipario s'alza alla rovescia: non già su una scena intima, ma su una sala pubblica [BU¥UEL: "Il fascino discreto della borghesia"]. Qualunque cosa dice, l'informazione mi arreca dolore: un pezzo amorfo, ingrato, di realtà mi cade addosso. Per la sensibilità amorosa, ogni fatto ha qualche cosa di aggressivo: un pezzo di "scienza", anche se volgare, fa irruzione nell'Immaginario.
"Così non può continuare".
INSOPPORTABILE. La coscienza di un accumulo delle sofferenze amorose trova sfogo con questa frase: "Così non può continuare".
1. Alla fine del romanzo, con una frase che finirà con l'affrettare il momento del suicidio di Werther, Carlotta (la quale ha anche lei i suoi problemi) finisce col constatare che "non è possibile continuare così" [WERTHER: 132]. Lo stesso Werther avrebbe potuto pronunciare questa frase molto tempo prima: un aspetto caratteristico della situazione amorosa è infatti quello di essere subito intollerabile, non appena è passato il momento dell'attonimento del primo incontro. Vi è un demone che nega il tempo, la maturazione, la dialettica e che ad ogni istante dice: "così non può andare avanti!" - Eppure, la cosa va avanti, se non per sempre, almeno per molto tempo. La pazienza amorosa prende dunque le mosse dal proprio disconoscimento: essa non scaturisce né da un'attesa, né da una padronanza di s‚, né da un bluff e nemmeno da un coraggio; essa è un'infelicità che, in proporzione alla sua intensità, non si consuma; un susseguirsi di scatti, la ripetizione (comica?) del gesto mediante il quale io faccio presente a me stesso che ho deciso - coraggiosamente - di porre fine alla ripetizione; la pazienza d'un'impazienza.
(Pensiero "razionale": tutto si aggiusta - ma tutto ha una fine. Pensiero "amoroso": niente si aggiusta - e tuttavia le cose vanno avanti lo stesso).
2. Constatare l'Insopportabile: questo grido ha il suo lato positivo, giovevole: facendo presente a me stesso che bisogna trovare ad ogni costo una soluzione, io installo dentro di me il teatro marziale della Decisione, dell'Azione, della Risoluzione. L'"esaltazione" è come il frutto secondario della mia impazienza; me ne nutro, ci sguazzo. Essendo sempre "artista", io faccio della forma un contenuto. Pensando a una via d'uscita dolorosa (rinunziare, andarmene, eccetera), faccio vibrare dentro di me il fantasma esaltato della soluzione; la gloria dell'abnegazione m'invade (rinunziare all'amore, non all'amicizia, eccetera) e subito dimentico ciò che invece bisognerebbe sacrificare: semplicemente la mia follia - la quale, per sua essenza, non può essere oggetto di sacrificio: quando mai si è visto un pazzo "sacrificare" a qualcheduno la sua follia? Per intanto, io vedo nell'abnegazione solo una forma nobile, teatrale, la qual cosa significa pur sempre trattenerla entro il recinto del mio Immaginario.
3. Quando l'esaltazione si è spenta, io sono solo più ridotto a fare della filosofia spicciola: la filosofia della sopportazione (dimensione naturale delle vere fatiche). Subisco senza adattarmi, persevero senza abituarmi: sempre sconsolato, mai scoraggiato; sono un pupazzo Daruma, un misirizzi senza gambe a cui si dànno continuamente dei buffetti, ma che "alla fine" si ritrova sempre in piedi, grazie a un equilibrio interiore (ma qual è il mio equilibrio? La "forza" dell'amore?) E' ciò che dice una poesia popolare che accompagna questi pupazzi giapponesi:
Così è la vita: Cadere sette volte E rialzarsi otto.
Io ti amo.
IO-TI-AMO. La figura non si riferisce alla dichiarazione d'amore, alla confessione, bensì al reiterato proferimento del grido d'amore.
1. Passato il momento della prima confessione, il "ti amo" non vuol dire più niente; esso non fa che riprendere in maniera enigmatica, tanto suona vuoto, l'antico messaggio (che forse quelle parole non erano riuscite a comunicare). Io lo ripeto senza alcuna pertinenza; esso esorbita dal linguaggio, divaga: ma dove?
Non potrei scomporre l'espressione senza ridere. Come! vi sarebbe un "io" da una parte, un "tu" dall'altra e, in mezzo, una "sensata" (poiché lessicale) congiunzione d'affetto. Chi potrebbe non avvertire che, quantunque conforme alla teoria linguistica, una tale scomposizione deformerebbe ciò che è "buttato" fuori tutt'insieme? Il verbo "amare" non esiste all'infinito (se non per artifizio metalinguistico): il soggetto e l'oggetto formano un tutt'unico con la parola che viene proferita, e l'"io-ti-amo" va inteso (e qui letto) all'ungherese che, in una sola parola, suona "szeretlek", come se l'italiano fosse una lingua agglutinante (ed è proprio di agglutinazione che si tratta) [R. H.:
conversazione]. La benché minima alterazione sintattica disgrega questo blocco unico; esso è per così dire al di fuori della sintassi e non si presta ad alcuna trasformazione strutturale; esso non ha alcuna equivalenza con i suoi sostituti, anche se il loro accostamento potrebbe dare lo stesso significato; posso dire per giorni interi io-tiamo senza forse mai poter passare a ""io l'amo"": sono restio a far passare l'altro per una sintassi, una predicazione, un linguaggio (l'unico assunto dell'"ioti-amo" è di apostrofarlo, di dargli l'espansione d'un nome: "Arianna, io ti amo", dice Dioniso) [Nietzsche].
2. L'"io-ti-amo" è senza impieghi. Al pari di quella d'un bambino, questa parola non è soggetta ad alcun obbligo sociale; essa può essere una parola sublime, solenne, superficiale, come può anche essere una parola erotica, pornografica. E' una parola socialmente sradicata.
L'"io-ti-amo" è senza sfumature. Esso sopprime le spiegazioni, gli accomodamenti, le graduazioni, gli scrupoli. Paradosso esorbitante del linguaggio, dire "io-ti-amo" è in un certo qual modo fare come se non esistesse un teatro della parola, e questa parola è sempre vera (essa non ha altro referente all'infuori del suo proferimento: è il risultato d'una "performance").
L'"io-ti-amo" è senza altrove. E' la parola della diade (materna, amorosa); in essa, nessun divario, nessuna difformità giunge a disunire il segno; essa non è metafora di niente.
L'"io-ti-amo" non è una frase: esso non trasmette un significato, bensì s'aggrappa a una situazionelimite: "quella in cui il soggetto è sospeso in un rapporto speculare all'altro". E' un'olofrase [LACAN: sulla situazione-limite e l'olofrase: "Il seminario", 1, 278].
(Sebbene sia detto miliardi di volte, "io-ti-amo" non trova posto nel dizionario; è una figura la cui definizione non può eccedere il lemma).
3. La parola (la frase-parola) ha un senso solo nel momento in cui io la pronunzio; oltre il suo dire immediato, in essa non c'è altra informazione: nessuna riserva, nessun magazzino di significati. Tutto si trova in "ciò che è dato fuori": è una "formula", ma questa formula non corrisponde a un rituale; le situazioni in cui io dico "ti-amo" non possono essere classificate: "io-ti-amo" è irreprimibile e imprevedibile.
A quale ordine linguistico appartiene dunque questo essere bizzarro, questa finta di linguaggio, troppo fraseggiata per rientrare nel campo della pulsione e troppo conclamata per rientrare nel campo della frase? Non è né pienamente un enunciato (nessun messaggio vi è aggelato, immagazzinato, mummificato, pronto per la dissezione), né si può veramente parlare di un'enuncazione (il soggetto non si lascia intimidire dal gioco dei posti interlocutori). Lo si potrebbe chiamare un "proferimento". Al proferimento non viene data nessuna collocazione scientifica: "ioti-amo" non rientra nel campo della linguistica né in quello della semiologia. La sua istanza (ciò da cui si può cominciare a parlarne) sarebbe semmai la Musica. Così come avviene nel canto, nel proferimento di "io-ti-amo" il desiderio non è né represso (come nell'enunciato) né riconosciuto (là dove non si aspettava di vedercelo: come nell'enunciazione), ma semplicemente: goduto. Il godimento non si dice; ma esso parla e dice: "io-ti-amo".
4. All'"io-ti-amo" vengono date risposte mondane di diverso genere: "io no", "non ci credo", "perché dirlo?", eccetera. Ma il vero respingimento è: "non c'è risposta": io vengo annullato in modo più sicuro se sono respinto non solo come soggetto domandante, ma anche come soggetto parlante (come tale, ho se non altro la padronanza delle formule); è il mio linguaggio, ultimo appiglio della mia esistenza, che viene negato, non la mia domanda; per la domanda, posso aspettare, rinnovarla, formularla in altro modo; ma, se vengo privato del potere di domandare, io sono come morto per sempre. "Non c'è risposta", dice la Madre, per mezzo di Fran..ose, al giovane narratore proustiano, che quindi s'identifica con la "fille" respinta dal portinaio del suo amante: la Madre non è proibita, ma preclusa e io impazzisco [PROUST: "La strada di Swann", 35].
5. "Ti amo. - Anch'io".
"Anch'io" non è una risposta perfetta, giacché ciò che è perfetto non può essere che formale, e nel caso specifico la forma lascia a desiderare in quanto non ricalca letteralmente il proferimento - e quello di essere letterale è appunto un tratto peculiare del proferimento. Tuttavia, così com'è fantasmatizzata, questa risposta basta a mettere in moto tutto un discorso dell'esultanza: esultanza tanto più forte in quanto scaturisce da un cambiamento repentino: Saint-Preux scopre improvvisamente, dopo aver ricevuto qualche diniego altezzoso, che Julie lo ama [Rousseau]. E' la verità folle, che non si fa luce attraverso il ragionamento, la lenta preparazione, ma attraverso la sorpresa, la folgorazione ("satori"), la conversione. Il fanciullo proustiano, che chiede che sua madre venga a dormire nella sua stanza, vuole ottenere l'"anch'io": lo vuole "follemente", proprio come lo vorrebbe un pazzo; e anche lui lo ottiene attraverso un cambiamento repentino, grazie alla capricciosa decisione del Padre, il quale gli concede la Madre ("Di' a Fran‡oise di prepararti il letto grande e dormi vicino a lui, per questa notte [Proust].
6. Io fantasmatizzo ciò che è "empiricamente" impossibile: che i nostri due proferimenti vengano detti "contemporaneamente": che l'uno non venga appresso all'altro, come se ne dipendesse. Il proferimento non potrebbe essere doppio (sdoppiato): ciò che gli confà è solo l'"‚clair unique", in cui s'uniscono due forze (se fossero separate, sfasate, esse non andrebbero oltre un normale accordo). Giacché l'"‚clair unique" riesce a realizzare questa cosa straordinaria: l'abolizione di ogni contabilità [BAUDELAIRE: "La Morte degli amanti"]. Lo scambio, il dono, il furto (uniche forme conosciute dell'economia) implicano, nei modi che sono loro propri, degli oggetti eterogenei e un tempo sfasato: il mio desiderio contro un'altra cosa - e occorre sempre tener conto del tempo della contabilizzazione [Klossowski]. Il proferimento simultaneo dà vita a una dinamica il cui modello è socialmente sconosciuto, impensato: non essendo né scambio, né dono, né furto, il nostro proferimento, scaturito fra le angustie, designa un dispendio che non ricade da nessuna parte e di cui la stessa comunità abolisce qualsiasi idea di riserva: l'uno per mezzo dell'altro, noi entriamo nel materialismo assoluto.
7. "Anch'io" inaugura un mutamento: cadono le vecchie regole, tutto diventa possibile - e quindi anche questo: che io rinunci a impossessarmi di te.
Insomma, una rivoluzione - forse non troppo lontana dalla rivoluzione politica: poiché, sia nell'uno che nell'altro caso, ciò che io fantasmatizzo è il Nuovo assoluto: il riformismo (amoroso) non mi attira. E, per colmo di paradosso, questo Nuovo tutto puro nasce dal più logoro degli stereotipi (l'altra sera ancora, lo sentivo pronunziare in una commedia della Sagan: alla T.v., una sera s e l'altra no, si dice: "io ti amo").
8. - E se per caso io non volessi interpretare l'"io-tiamo"? Se trattenessi il proferimento al di qua del sintomo
- A tuo rischio e pericolo: non hai forse espresso centinaia di volte l'insopportabilità dell'infelicità amorosa, la necessità di venirne a capo? Se vuoi "guarire", bisogna che tu creda ai sintomi, e credere che un sintomo è "io-tiamo"; bisogna interpretare bene, cioè, in fin dei conti, "sminuire". - In definitiva, che cosa dobbiamo pensare della sofferenza? Come dobbiamo pensarla? valutarla? La sofferenza deve per forza stare dalla parte del male? La sofferenza d'amore non è forse soltanto la conseguenza d'un trattamento reattivo, svilente (bisogna sottomettersi alla proibizione)? E' possibile, rovesciando la valutazione, immaginare una visione tragica della sofferenza d'amore, un'affermazione tragica dell'"io-ti-amo"? E se l'amore (l'innamorato) fosse collocato (ricollocato) sotto il segno dell'Attivo? [Nietzsche].
9. Con questo, s'apre una nuova visione dell'"io-ti-amo". Non è un sintomo, è un'azione. lo pronunzio affinché tu risponda, e la forma scrupolosa (la lettera) della risposta assumerà un valore effettivo, come nel caso d'una formula. Non basta quindi che l'altro mi risponda servendosi di un semplice significato, anche se questo è positivo ("anch'io"): bisogna che il soggetto interpellato accetti di formulare, di proferire l'"io-ti-amo" che gli porgo: "Io ti amo", dice Pelléas. - "Ti amo anch'io", risponde Mélisande [PELLAS: "Pelléas e Mélisande", atto terzo].
L'imperiosa richiesta di Pelléas (ammesso che la risposta di Mélisande fosse proprio quella che egli si aspettava, il che è probabile visto che subito dopo muore) muove dalla necessità ' per il soggetto amoroso, non solo di essere contraccambiato nel suo amore, di saperlo, di esserne ben sicuro, ecc. (tutte operazioni che non vanno oltre il piano del significato), ma anche di "sentirselo dire", nella forma altrettanto affermativa, altrettanto completa, altrettanto articolata della sua; quello che voglio è ricevere direttamente, interamente, letteralmente, senza dispersioni, la formula. l'archetipo della parola d'amore: nessuna scappatoia sintattica, nessuna variazione: che le due parole corrispondano in blocco, facendo coincidere significante con significante ("Anch'io" sarebbe l'esatto contrario di un'olofrase); ciò che conta, è il proferimento fisico, corporale, labiale, della parola: apri le tue labbra e lascia che quella cosa esca (sii osceno). Quello che voglio, disperatamente, è "ottenere la parola". Magica, mitica? La Bestia, prigioniera di un incantesimo che perpetua la sua bruttezza, ama la Bella; la Bella, naturalmente, non ama la Bestia, ma alla fine, vinta (poco importa da che cosa; diciamo: dalle "conversazioni" che essa ha con la Bestia), gli dice la parola magica: "Io ti amo, Bestia"; e subito, attraverso il sontuoso squarcio d'un arpeggio, appare un nuovo soggetto [RAVEL: "Les entretiens de la Belle et de la Bˆte", in "Ma mère l'Oye" ]. Questa storia è arcaica? Eccone un'altra: un tizio sta soffrendo perché la sua donna l'ha lasciato; egli vuole che essa ritorni, vuole - precisamente - che lei gli dica io ti amo, e anche lui corre dietro alla parola; alla fine, lei glielo dice e a questo punto egli sviene: è un film del 1975. E poi, ancora il mito: l'Olandese Volante vaga alla ricerca della parola; se riuscirà ad ottenerla (facendo giuramento di fedeltà), il suo vagare avrà fine (ciò che per il mito ha importanza non è l'empiria della fedeltà, ma il suo proferimento, il suo canto) [Vascello fantasma].
10. Singolare incontro (attraverso la lingua tedesca): una stessa parola ("Bejabung") per due affermazioni: una, scovata dalla psicoanalisi, è destinata ad essere svilita (perché vi sia accesso all'inconscio, l'affermazione originaria del bambino dev'essere negata); l'altra, fatta da Nietzsche, è modo della volontà di potenza (niente di psicologico e ancor meno di sociale), produzione della differenza; il "s" di quell'affermazione diventa innocente (esso include il reattivo): è l'"amen". "Io-ti-amo" è attivo. Esso s'impone come forza, contro altre forze. Quali? Le mille forze del mondo, le quali sono tutte forze svilenti (la scienza, la doxa, la realtà, la ragione, eccetera). O anche: contro la lingua. Come l'"amen" si trova all'estremo limite della lingua, slegato nei confronti del suo sistema e volto a spogliarla del suo "mantello reattivo", così il proferimento d'amore ("io-ti-amo") resta all'estremo limite della sintassi, accetta la tautologia ("io-ti-amo" vuol dire "io-ti-amo"), esclude la servilità della Frase (si tratta solo di un'olofrase). Come proferimento, l'"io-ti-amo" non è un segno, anzi esso ha una funzione contraria ai segni. Colui che non dice "io-ti-amo" (attraverso le labbra del quale l'"io-ti-amo" non vuol passare) è condannato a emettere i segni multiformi, indefiniti, dubitativi, avari dell'amore, i suoi indizi, le sue "prove": gesti, sguardi, sospiri, allusioni, ellissi: egli deve lasciarsi "interpretare"; esso è dominato dall'istanza reattiva dei segni d'amore, alienato al mondo servile del linguaggio "in quanto non dice tutto" (lo schiavo è colui che ha la lingua tagliata, colui che può parlare servendosi soltanto di atteggiamenti, espressioni, smorfie). I "segni" dell'amore alimentano una sterminata letteratura reattiva: l'amore viene "rappresentato", affidato a un'estetica delle apparenze (è Apollo, "a ben guardare", che scrive i romanzi d'amore). Come contro la parte di Dioniso [NIETZSCHE: l'intero frammento, chiaramente, è desunto da Deleuze, "Nietzsche" (in particolare 60 75)]: la sofferenza non è negata (nemmeno il lamento, il disgusto, il risentimento), ma, con il proferimento, essa non viene interiorizzata: dire "io-ti-amo" (ripeterlo), significa espellere il reattivo, rinviarlo al mondo sordo e dolente dei segni - delle perifrasi (che tuttavia io non cesso mai di attraversare).
Come proferimento, "io-ti-amo" è dalla parte del dispendio. Coloro che vogliono il proferimento della parola (lirici, mentitori, raminghi) sono tributari del Dispendio: essi consumano la parola, quasi fosse impertinente (vile) che essa venisse recuperata da qualche parte; essi si collocano al limite estremo del linguaggio, là dove il linguaggio stesso (e chi altri sennò lo farebbe al suo posto?) riconosce di essere senza garanzia, di lavorare senza rete.
Il languor d'amore.
LANGUORE. Intangibile condizione del desiderio amoroso, provato nella sua carenza, al di fuori di ogni voler-cogliere.
1 Il Satiro dice: voglio che il mio desiderio sia "immediatamente" appagato. Se vedo un viso che dorme, una bocca socchiusa, una mano lasciata pencolare, io voglio potermici "buttare sopra". Questo Satiro - figura dell'Immediato - è l'esatto contrario del Languido-Spasimante. Nel languore, io non faccio che aspettare: "Non finivo di desiderarti". (Il desiderio è ovunque; ma, nello stato amoroso, esso diventa questa cosa specialissima: il languore).
2. "e tu mio altro senti un po' quando ti deciderai a rispondermi ho nostalgia di te ho voglia di te sogno di te per te contro te rispondimi il tuo nome è un profumo diffuso il tuo colore spicca tra le spine fa' che il mio cuore si riabbia con del vino fresco fammi una coperta di mattino io sto soffocando sotto questa maschera pelle drenata livellata niente esiste a parte il desiderio" [SOLLERS: "Paradis"].
3. "... [poiché] ti scorgo, un attimo, e non ho più voce; la lingua è rotta; un brivido di fuoco è nelle carni, sottile; agli occhi il buio; rombano gli orecchi. Cola sudore, un tremito mi preda. Più verde d'un'erba sono, e la morte così poco lungi mi sembra".
4. "Quando abbracciavo Agatone, l'anima mia saliva alle mie labbra, quasi che, poveretta, dovesse andarsene via" [SIMPOSIO: distico di Platone ad Agatone]. Nel languore amoroso, qualcosa se ne va, senza fine; è come se il desiderio non fosse nient'altro che questa emorragia [WERTHER: "L'infelice la cui vita si spegne lentamente per un mal sottile che niente potrebbe arrestare" (54)].
La fatica amorosa è questo: una fame che non viene saziata, un amore che rimane aperto
[RUYSBROECK: "Quando la creatura è ascesa, offrendo ciò che può, senza raggiunge re ciò che vuole, allora nasce il languore spirituale" (16)]. E ancora: tutto il mio io è tratto fuori, trasferito all'oggetto amato il quale ne prende il posto: il languore sarebbe quindi quest'estenuante passaggio dalla libido narcisistica alla libido oggettuale [FREUD: "E' solamente nella pienezza degli stati amorosi che la maggior parte della libido si trova trasferita all'oggetto amato e che, in una certa misura, quest'ultimo assume la parte dell'Io" ("Compendio di psicoanalisi")]. (Desiderio dell'essere assente e desiderio dell'essere presente: il languore sovrappone i due desideri, pone l'assenza nella presenza. Di qui uno stato di contraddizione: è la "br–lure suave") [CORTEZIA: citato da Rougemont].
La lettera d'amore.
LETTERA. La figura prende in esame la particolare dialettica della lettera d'amore, che è insieme vuota (codificata) ed espressiva (piena della voglia di esprimere il desiderio).
1. Allorché Werther (che in quel momento presta servizio presso l'ambasciatore) scrive a Carlotta, la sua lettera segue il seguente schema [WERTHER: 83-84]: 1) Che gioia mi fa pensare a lei! 2) Mi trovo qui in un ambiente mondano, ma, senza lei vicino, mi sento davvero solo; 3) Ho incontrato una persona (la signorina B.) che le assomiglia e con la quale posso parlare di lei; 4) Prego affinché si possa essere di nuovo uniti. - Come in un tema musicale, di variato c'è una sola informazione: "io penso a lei".
Cosa vuol dire, "pensare a qualcuno"? Vuol dire: dimenticarlo (senza oblio, la vita non sarebbe possibile) e risvegliarsi spesso da questo oblio. Per associazione d'idee, molte cose ti riportano al mio discorso [FREUD: alla fidanzata Marta: "Beato il giardiniere Bunsow, cui è concesso albergare il mio caro amore" ("Lettere 1873-1939", 33)]. "Pensare a te" non vuol dire niente altro che questa metonimia. Poiché, in s‚, questo pensiero è vuoto: io non ti penso; ti faccio semplicemente tornare alla mente (a misura che cresce in me l'oblio di te). L la forma (il ritmo) che io chiamo "pensiero": "non ho niente da dirti", senonché questo niente è a te che lo dico:
Perché ho fatto di nuovo ricorso alla scrittura?
Cara, non si deve porre una domanda così precisa,
Poiché, in verità, io non ho niente da dirti
Le tue amate mani riceveranno nondimeno questo biglietto [GOETHE: citato da Freud].
("Pensare a Hubert", annota comicamente sulla sua agenda il narratore di "Paludi", che è il libro del Niente).
2. "Vedete bene, - scrive la marchesa di Merteuil, - che, quando scrivete a qualcuno, lo fate per lui e non per voi: ecco perché voi dovete dirgli ciò che gli fa più piacere e non ciò che voi pensate". La marchesa non è innamorata; ciò che essa postula è una "corrispondenza", vale a dire un'operazione tattica destinata a difendere delle posizioni, ad assicurare delle conquiste [LE AMICIZIE PERICOLOSE: lettera 105]; questa operazione è tesa a compiere una ricognizione sui luoghi (sui sottoinsiemi) dell'insieme opposto, cioè a particolareggiare minutamente l'immagine dell'altro in più punti, che la lettera cercherà poi di esaminare (si tratta quindi effettivamente di una corrispondenza, nel senso quasi matematico del termine) [A. C.: conversazione]. Ma, per l'innamorato, la lettera non ha alcun valore tattico: essa è puramente "espressiva" - a rigore, adulatoria (ma qui l'adulazione non è interessata: essa non è altro che l'espressione della devozione); quello che io intraprendo con l'altro è una "relazione", non una corrispondenza: la relazione mette in rapporto due immagini. Lei è ovunque, la sua immagine è un'immagine totale, scrive in diversi modi Werther a Carlotta.
3. Essendo desiderio, la lettera d'amore attende la sua risposta; essa ingiunge implicitamente all'altro di rispondere: se questo non avviene, la sua immagine si altera, diventa altra [Etimologia]. E' appunto ciò che spiega autorevolmente il giovane Freud alla sua fidanzata: "Ma non voglio scrivere sempre senza risposta, e smetterò se non rispondi a tono [FREUD: "Lettere 1873-1939"]. Continui monologhi sull'essere amato, cui manchino un correttivo e un rinnovamento da parte dello stesso oggetto amato, portano a farsi idee sbagliate sul rapporto reciproco e all'estraniamento, quando ci si trova di nuovo e ci si sente diversamente da come si era creduto, senza garanzia".
(Chi accettasse le "ingiustizie" della comunicazione, chi continuasse a parlare con leggerezza, con tenerezza, senza che gli si risponda, acquisterebbe una grande padronanza: quella della Madre).
La loquela.
LOQUELA. Questo termine, desunto da Ignazio di Loyola, designa il flusso di parole attraverso cui
il soggetto argomenta instancabilmente nella sua testa gli effetti di una ferita d'amore o le conseguenze di un comportamento: forma enfatica del "discorso" amoroso.
1. "Trop penser me font amours" [CANZONE: del quindicesimo secolo]. In certi momenti, anche se punto solo superficialmente, si scatena nella mia mente una febbre di linguaggio, una sequela di ragioni, d'interpretazioni, di allocuzioni. Io non sono più cosciente di quanto può esserlo una macchina che si fa andare avanti da sola, d'un organetto la cui manovella è fatta girare con titubanza da un anonimo suonatore e che non smette mai di suonare [SCHUBERT: "A piedi nudi sul ghiaccio, egli esita e il suo piattino resta vuoto. Nessuno ascolta e nessuno guarda il vecchio e i cani gli ringhiano attorno. Ma lui non si cura di niente: continua a girare la manovella e il suo organetto non smette mai di suonare..." ("Der Leiermann", in "Viaggio d'inverno", poesie di Wilhelm Mller)]. Nella loquela, niente viene a impedire il rimuginamento. Nell'istante in cui, casualmente, prende corpo in me una frase "riuscita" (nella quale io credo di scoprire l'esatta espressione di una verità), questa frase diventa una formula che io ripeto in proporzione del grado di acquietamento che essa mi dà (trovare la parola giusta rende euforici); io la rimastico, me ne nutro; come i bambini o i dementi affetti da mericismo, io inghiottisco e rigurgito continuamente la mia ferita d'amore. Io avvolgo, dipano, tramo il dossier amoroso e poi ricomincio da capo (i significati del verbo "meruomai", sono proprio questi: avvolgere, dipanare, tramare) [].
O anche: spesso, il bambino autistico osserva le proprie dita che stanno manipolando degli oggetti (ma egli non guarda gli oggetti): questo è il "twiddling" [BETTELHEIM: "La forteresse vide", 99 nota]. Il "twiddling" non è un gioco; è una manipolazione rituale, contrassegnata da un certo numero di aspetti stereotipati e compulsivi. La stessa cosa avviene per l'innamorato in preda alla loquela: egli manipola la sua ferita d'amore.
2. Humboldt chiama la libertà del segno volubilità. Io sono (interiormente) volubile perché non posso ancorare il mio discorso: i segni girano "a ruota libera". Se potessi aggiogare il segno, se potessi sottoporlo a una sanzione, potrei trovare finalmente la pace. Se si potesse ingessare la mente, così come si fa per le gambe! Ma io non posso impedirmi di pensare, di parlare; e non c'è nessun regista che può interrompere il cinema interiore che vado filmando a me stesso e che può ordinarmi: Stop! La volubilità sarebbe dunque una sorta di disgrazia specificamente umana: io sono pazzo di linguaggio: nessuno m'ascolta, nessuno mi guarda, e tuttavia (come il suonatore di organetto di Schubert) io continuo a parlare, a girare la mia manovella.
3. Mi scelgo una parte: io sono "quello che piange; recito questa parte davanti a me stesso, ed "essa mi fa piangere": io sono il teatro di me stesso. E vedendomi piangere così, io piango ancora di più; e se i pianti diminuiscono, subito mi ripeto la parola sferzante che li scatena nuovamente. Ho in me due interlocutori, indaffarati, replica dopo replica, a "far salire il tono", come nelle antiche sticomite: c'è un godimento della parola sdoppiata, raddoppiata, portata fino alla cagnara finale (arrivano i clowns).
(1: Werther fa una lunga tirata contro il malumore: "Gli occhi mi si riempirono di lacrime". 2: Egli racconta davanti a Carlotta una scena d'addio a un morente [WERTHER: 42 e 135-36]; il ricordo di
quel fatto lo prostra ed egli nasconde gli occhi nel fazzoletto. 3: Werther scrive a Carlotta configurandole l'immagine della sua futura tomba: "Ero tranquillo quando ho incominciato a scrivere ed ora, ora piango come un bambino, perché vedo tutto questo come se fosse vero". 4: "A vent'anni, - dice Madame Desbordes-Valmore, - dei profondi turbamenti mi costrinsero a rinunciare al canto perché la mia voce mi faceva piangere") [HUGO: "Pierres", 150].
L'ultima foglia.
MAGIA. Nella vita del soggetto amoroso, non importa a quale cultura esso appartenga, non mancano mai le consultazioni magiche, i piccoli riti segreti e le azioni votive.
1. "Qui e là, sugli alberi, resistono ancora le ultime foglie, e io resto spesso pensieroso dinanzi a loro. Contemplo una foglia e la mia speranza vi s'aggrappa. Quando il vento la fa muovere, trema tutto il mio essere, e se cade, ahimè, è la mia speranza che cade con lei" [SCHURERT: "Letzte Hoffnung", in "Viaggio d'inverno"].
Per potere interrogare il destino, c'è bisogno d'una domanda alternativa ("Mi amerà / Non mi amerà"), di un oggetto suscettibile di una modificazione anche semplice ("Cadrà / Non cadrà") e di una forza estrinseca (divinità, caso, vento) che contrassegni uno dei poli della modificazione. Io faccio sempre la stessa domanda (sarò amato?) e questa domanda è alternativa: "o tutto o niente"; non riesco a concepire che le cose si evolvano, che siano sottratte all'opportunità del desiderio. Io non sono dialettico. Infatti, la dialettica direbbe: la foglia non cadrà, e poi cadrà; ma nel frattempo tu sarai cambiato e non ti porrai più la domanda.
(Da ogni persona a cui mi rivolgo per conoscere la sorte mi aspetto che dica: "La persona che ami ti ama e te lo dirà stasera").
2. A volte, l'angoscia è talmente oppressiva, talmente angusta (poiché questa è l'etimologia della parola) - per esempio, un'angoscia d'attesa -, che si rende necessario "fare qualcosa". Questo "qualcosa" è naturalmente (ancestralmente) un voto: "se" (tu ritorni...) "allora" (manterrò il mio voto),
Confidenza di X...: "La prima volta, accese un cero in una piccola chiesa italiana. Restò colpito dalla bellezza della fiamma e il gesto gli parve meno idiota. E allora, pensò, perché privarsi del piacere di creare una luce? Perciò ricominciò, associando a quel gesto delicato (piegare il cero nuovo verso quello già acceso, sfregare leggermente i loro stoppini, prendere piacere vedendo che il fuoco s'accendeva, riempirsi gli occhi di quella luce intima e forte) voti sempre più vaghi che - per paura di scegliere - coinvolgevano "tutto ciò che non va bene nel mondo"".
"Sono odioso".
MOSTRUOSO. Il soggetto si rende improvvisamente conto di stare soffocando l'oggetto amato chiudendolo in una rete di soprusi: di colpo, da individuo sventurato che desta compassione, egli si sente diventare un essere mostruoso.
1. Nel "Fedro" di Platone, il discorso del sofista Lisia e il primo discorso di Socrate (prima che questi faccia la sua palinodia) poggiano ambedue su questo principio: l'amante si rende odioso (a causa della sua insopportabilità) agli occhi dell'amato [Platone]. Segue l'elenco delle cose che dànno fastidio: l'amante non può sopportare che, di fronte all'amato, altri siano superiori o pari a lui, e perciò si dà da fare per sminuire i meriti dei suoi rivali; tiene l'amato lontano da altre compagnie; comportandosi scaltramente in modo irriguardoso, s'ingegna a tenerlo nell'ignoranza, di modo che l'amato non abbia occhi che per lui; spera segretamente che l'amato perda ciò che ha di più caro: padre, madre, parenti, amici; non vuole che l'amato abbia una casa e dei bambini; la sua quotidiana assiduità è uggiosa; non accetta di essere trascurato: vuole che l'amato sia vicino a lui giorno e notte; anche se vecchio (il che è di per s‚ seccante), si comporta come un tiranno e sorveglia sempre l'amato con occhio malignamente sospettoso, mentre invece non impedisce a se stesso di essere poi infedele e ingrato. Quale che sia il suo pensiero a questo proposito, il cuore dell'innamorato è dunque pieno di cattivi sentimenti: il suo amore non è generoso.
2. Il discorso amoroso soffoca l'altro, il quale, schiacciato da questo dire massiccio, non trova spazio per esprimersi. Non è che io gli impedisca di parlare, ma so come "far scivolare i pronomi": "Io parlo e tu mi comprendi, dunque siamo" (Ponge). Talvolta, con terrore, prendo coscienza di questo rovesciamento: io che mi credevo puro e semplice soggetto (soggetto assoggettato: fragile, delicato, degno di compassione), m'accorgo di essere diventato una cosa ottusa, che va avanti ciecamente, che schiaccia ogni cosa sotto il peso del suo discorso; io che amo, mi rendo indesiderabile, sono messo sullo stesso piano degli importuni: quelli che dànno fastidio, che mettono a disagio, che nuocciono, che complicano, che chiedono, che intimoriscono (ovvero più semplicemente: quelli che parlano). Ho preso un granchio madornale su me stesso.
(L'altro è sfigurato dal suo mutismo, come in quei sogni spaventosi in cui la tale o talaltra persona che noi amiamo ci appare con la parte inferiore del volto completamente cancellata, priva della bocca; e io che parlo, sono anch'io sfigurato: il soliloquio fa di me un mostro, un'enorme lingua).
Senza risposta.
MUTISMO. Il soggetto amoroso è angosciato dal fatto che l'oggetto amato risponda parsimoniosamente, o non risponda affatto, alle parole (discorsi o lettere) che egli gli rivolge.
1. "Quando mi rivolgevo a lui, parlandogli di una cosa qualsiasi, X... aveva spesso l'aria di guardare e di essere altrove, come se stesse spiando qualcosa intorno a lui: scoraggiato, smettevo di parlare; alla fine, dopo un lungo silenzio, X... diceva: "Continua, ti sto ascoltando"; e allora riprendevo in qualche modo il filo di una storia a cui non credevo più".
(Simile a una difettosa sala da concerto, lo spazio affettivo comporta dei recessi morti in cui il suono non circola più. - Se è così, il perfetto interlocutore, l'amico, non è quindi colui che vi costruisce intorno la più grande risonanza possibile? L'amicizia non può forse definirsi come lo spazio di una sonorità totale?)
2. Questa attenzione sfuggente, che posso far mia solo a distanza di tempo, mi porta a pensare in modo gretto: impegnato con tutte le mie forze a sedurre, a distrarre, io credevo, parlando, di mettere in mostra dei tesori d'ingegno, ma questi tesori non vengono apprezzati se non con indifferenza; io sperpero le mie "qualità" per niente: tutto un fermento di affetti, di dottrine, di sapere, di squisitezza, tutta la briosità del mio io va a smorire, a smorzarsi in uno spazio inerte, come se - pensiero colpevole - la mia qualità superasse quella dell'oggetto amato, come se fossi "in anticipo" su di lui. Orbene, la relazione d'affetti è una macchina precisa; la coincidenza, la "giustezza", nel senso musicale della parola, sono fondamentali al riguardo; ciò che è sfasato è "di troppo": la mia parola non è propriamente un cascame, ma piuttosto una "giacenza": ciò che non trova consumo immediato (che non entra in circolo) e che va al macero.
(Dall'attenzione assente nasce un'angoscia di decisione: devo o non devo andare avanti, parlare "nel deserto"? Avrei bisogno di avere quella spigliatezza che proprio la sensibilità amorosa non può darmi. Devo o non devo fermarmi, rinunciare? Sarebbe come dare a vedere che mi offendo, che metto in causa l'altro, e da questo prenderebbe lo spunto una "scenata". Ancora una volta ci si trova di fronte al tranello).
3. "La morte è essenzialmente questo: tutto ciò che è stato visto, sarà stato visto per niente. Tutto di ciò che abbiamo percepito". In questi brevi momenti in cui parlo per niente, è come se io morissi [FRAN€OIS WAHL: "Chute"]. Giacché l'essere amato diventa una figura sigillata, un personaggio di sogno "che non parla" e, nei sogni, il mutismo è la morte [FREUD: "Psicologia delle masse e analisi dell'Io", 274]. O anche: la Madre gratificante mi indica lo Specchio, l'Immagine, e mi parla: "Tu sei quella cosa". Ma la Madre muta non mi dice cosa sono: io non ho più basi, fluttuo dolorosamente senza esistenza.
Gli occhiali scuri.
NASCONDERE. Figura deliberativa: il soggetto amoroso si domanda non già se egli deve dichiarare all'essere amato il suo amore (non è una figura della confessione), ma in che misura deve nascondergli i "turbamenti" (le turbolenze) della sua passione: i suoi desideri, le sue angustie, in poche parole, i suoi eccessi (nel linguaggio raciniano: "il suo furore").
1. Partito per le vacanze senza di me, dal giorno della sua partenza, X... non mi ha più dato alcun segno di vita: incidente? sciopero delle poste? indifferenza? tattica a distanza? esercizio d'un volervivere temporaneo ("Egli è frastornato dalla sua gioventù; non sente niente")? o semplice innocenza? La cosa mi angoscia sempre di più; passo attraverso tutti i quadri della scenografia dell'attesa [Madame de Sevigné]. Ma quando, in un modo o nell'altro, X... si farà vivo, dal momento che non può non farlo (il che dovrebbe immediatamente vanificare la mia angoscia), che cosa gli dirò? Dovrò nascondergli il mio turbamento - ormai passato ("Come va?")? Farlo esplodere aggressivamente ("E' mica bello, avresti almeno potuto...") o con passione ("Non sai in che agitazione mi hai messo")? Oppure, lasciare filtrare questo turbamento delicatamente, leggermente, per renderlo manifesto senza farlo pesare all'altro ("Ero un po' in pensiero...")? A questo punto sono colto da una seconda angoscia: quella di dover decidere quale grado di pubblicità dovrò dare alla mia prima angoscia.
2. Sono coinvolto in un doppio discorso da cui non posso uscire. Da una parte, mi dico: e se l'altro, per qualche particolare disposizione della sua struttura, avesse bisogno della mia domanda? Non potrebbe allora giustificarsi il mio abbandono all'espressione letterale, al dire lirico della mia "passione"? L'eccesso, la follia, non sono forse la mia verità, la mia forza? E se questa verità, se questa forza, riuscisse alla lunga ad impressionare?
Ma, d'altra parte, mi dico: i segni di questa passione rischiano di soffocare l'altro. Non sarebbe perciò meglio, "proprio perché lo amo", nascondergli quanto lo amo? Vedo l'altro con occhio sdoppiato: ora lo vedo come un oggetto, ora come un soggetto; esito fra la tirannia e l'oblazione. In tal modo finisco col fare a me stesso un ricatto: se amo l'altro, sono tenuto a volere il suo bene; ma in questo caso non posso che farmi del male: tranello: io sono condannato a essere o un santo o un mostro: essere un santo, non posso, ed essere un mostro, non voglio: dunque, tergiverso: do a vedere "solo un po'" della mia passione.
3. Imporre alla mia passione la maschera della discrezione (dell'impassibilità): si tratta di un valore propriamente eroico: "E' indegno di un animo nobile spargere intorno a s‚ le angosce che lo tormentano" (Clotilde de Vaux); il capitano Paz, eroe di Balzac, s'inventa una falsa amante per essere sicuro di celare ermeticamente alla donna del suo migliore amico che egli la ama alla follia [BALZAC: "La fausse maŒtresse].
E tuttavia, nascondere totalmente una passione (o anzi semplicemente il suo eccesso) è inconcepibile: non tanto perché il soggetto umano è troppo debole, ma perché, nella sua essenza, la passione è fatta per essere vista: bisogna che il nascondere si veda: "sappiate che io sto nascondendovi qualcosa", questo è il paradosso attivo che devo risolvere: bisogna che "insieme" la cosa si sappia e non si sappia: che si sappia che non voglio darlo a vedere: ecco il messaggio che rivolgo all'altro [Descartes]. "Larvatus prodeo": cammino col il dito puntato sulla maschera: metto una maschera sulla mia passione, ma con un dito discreto (e scaltro) indico questa maschera. Ogni passione ha alla fine il suo spettatore: in punto di morte, il capitano Paz non può fare a meno di scrivere alla donna che ha amato in silenzio: non c'è oblazione amorosa senza teatro finale: il segno è sempre vincitore.
4. Supponiamo che, a causa di qualche incidente di cui l'altro non si è nemmeno reso conto, io abbia pianto (piangere fa parte della normale attività del corpo amoroso), e che, "per fare in modo che la cosa non si veda", io metta un paio di occhiali scuri sui miei occhi gonfi (bell'esempio di negazione: oscurarsi la vista per non essere veduto). Lo scopo di questo gesto è calcolato: io voglio mantenere il beneficio morale dello stoicismo, della "dignità" (mi prendo per Clotilde de Vaux) e, al tempo stesso, contraddittoriamente, provocare la tenera domanda ("Ma che cos'hai?"); voglio fare compassione e al tempo stesso destare ammirazione, voglio essere bambino e adulto nello stesso momento. Ciò facendo, io non gioco, bensì rischio: giacché può sempre darsi che l'altro non si chieda affatto la ragione di quegli occhiali mai visti e che, nel mio gesto, non scorga alcun segno.
5. Affinché, con mano leggera, si senta che sto soffrendo, per nascondere senza mentire, io mi valgo di una preterizione ritorta: divido l'economia dei miei segni.
I segni verbali avranno il compito di tacere, di mascherare, di imbrogliare le cose: io non renderò mai conto, "verbalmente", degli eccessi del mio sentimento. Non avendo mai detto niente degli sconvolgimenti che questa angoscia ha causato, quando essa sarà passata, mi potrà sempre rincuorare il fatto che nessuno ne è venuto a conoscenza. Potenza del linguaggio: con il mio linguaggio io posso fare tutto: anche e soprattutto "non dire niente".
Io posso fare tutto con il mio linguaggio, "ma non con il mio corpo". Ciò che riesco a nascondere con il mio linguaggio, il mio corpo lo dice. Posso modellare a mio piacimento il mio messaggio, ma non la mia voce. Qualunque cosa essa dica, dalla mia voce l'altro si accorgerà che "ho qualcosa". Sono bugiardo (per preterizione), ma non so recitare. Il mio corpo è un bambino cocciuto, il mio linguaggio è un adulto molto evoluto...
6. ...sicché una lunga serie di sforzi verbali (le mie "gentilezze") potranno tutt'a un tratto esplodere in una revulsione generalizzata: una crisi di pianto (per esempio) davanti agli occhi esterrefatti dell'altro, vanificherà d'un sol colpo gli sforzi (e gli effetti) di un linguaggio troppo a lungo calibrato. Esplodo:" conoscerai alfine Fedra e tutto il suo furore" [Racine].
"E la notte rischiarava la notte".
NOTTE. Ogni stato d'essere che susciti nel soggetto la metafora dell'oscurità (affettiva, intellettiva, esistenziale) in cui esso si dibatte o si quieta.
1. lo avverto in me, volta a volta, due notti, una buona e l'altra no. Per esprimere questo, mi servo di una distinzione mistica: "estar a oscuras" (essere nell'oscurità) può verificarsi, senza che vi sia colpa, perché sono privato della luce che illumina le cause e i fini; "estar en tinieblas" (essere nelle tenebre) mi accade invece quando sono acciecato dall'attaccamento alle cose e dal disordine che ne deriva [JUAN DE LA CRUZ: "Baruzi", 308].
Il più delle volte, mi trovo ad essere nell'oscurità del mio stesso desiderio; io non so che cosa vuole, lo stesso bene risulta essere per me un male, tutto si ripercuote, io vivo a sussulti: "estoy en tinieblas". Ma altre volte si tratta di una Notte diversa: solo, in posizione meditativa (che sia un ruolo che io mi scelgo?), penso all'altro con calma, lo guardo così com'è; tralascio ogni interpretazione; entro nella notte del non-senso; il desiderio continua a vibrare (l'oscurità è translumnosa), ma io non voglio cogliere niente; è la Notte del non-profitto, del dispendio sottile, invisibile: "estoy a oscuras": io sono l, seduto semplicemente e tranquillamente nell'interno nero dell'amore[RUYSBROECK: la notte transluminosa (26)].
2. La seconda notte avvolge la prima, l'Oscurità illumina la Tenebra: "E la notte era oscura ed essa rischiarava la notte". lo non cerco di uscire dall'impasse amorosa facendo ricorso alla Decisione, all'Autorevolezza, alla Separazione, all'Oblazione, eccetera, in poche parole "ricorrendo al gesto" [JUAN DE LA CRUZ: "Admirable Cosa que siendo tenebrosa alumbrase la noche" ("Baruzi", 327]. Io sostituisco solamente una notte all'altra. "Oscurare questa oscurità, ecco la porta di tutte le meraviglie" [TAO: "Emanando da una matrice unica, Non-Essere e Essere si differenziano solo per i loro nomi, Questa matrice unica si chiama Oscurità. - Oscurare questa oscurità, ecco la porta di tutte le meraviglie" ("Tao T‚ Ching")].
Nubi.
NUBI. Significato e utilizzazione dell'incupimento dell'umore che coglie il soggetto amoroso a seconda delle varie circostanze.
1. Werther è galante con Federica, la figlia del parroco di Saint *** al quale Carlotta e lui fanno visita [WERTHER: 39-42]. L'immediata conseguenza è che il viso del signor Schmidt, il fidanzato di Federica, si abbuia; egli rifiuta di prendere parte alla conversazione. Werther fa allora il processo al malumore; esso deriva dalla nostra gelosia, dalla nostra vanità, è una disapprovazione di noi stessi di cui facciamo portare il peso agli altri, eccetera. "Trovatemi, - dice Werther, - un solo uomo che sia di malumore e nello stesso tempo abbia il coraggio di nasconderlo, di sopportarlo da solo, senza distruggere la gioia intorno a s‚!" Quest'uomo è evidentemente introvabile, poiché il malumore non è altro che un messaggio. Non potendo essere manifestamente geloso senza avere diversi inconvenienti, tra cui il ridicolo, io sposto la mia gelosia, ne do a vedere solo un effetto derivato, temperato, e come incompiuto, il cui vero motivo non viene detto apertamente: incapace di nascondere la ferita d'amore e non osando dichiararne la causa, io transigo; faccio abortire il contenuto senza rinunciare alla forma; il risultato di questa transazione è l'"umore", il quale si presenta come l'indice di un segno: è "qui che dovete leggere" (che qualcosa non va): io metto semplicemente il mio pathos sul tappeto, riservandomi di vuotare il sacco a seconda delle circostanze: sia che io mi scopra (in seguito a una "spiegazione"), sia che io mi camuffi. (L'umore è un cortocircuito tra lo stato d'essere e il segno) [J,-L. B.: conversazione].
(Misconoscimento: Werther fa il processo al malumore in quanto esso pesa su quelli che ci stanno intorno; ciononostante, più tardi, egli stesso si suiciderà, il che avrà un ben altro peso. Il suicidio d'amore sarebbe allora un malumore spinto un po' all'eccesso?)
2. Questo è il malumore: un segno grossolano, un ricatto indegno. Tuttavia, ci sono anche delle nubi meno definite; tutte le ombre leggere, di origine incerta, che passano sulla relazione, che modificano repentinamente la luce, l'aspetto; tutt'a un tratto ci si trova di fronte a un altro paesaggio, la scena è offuscata da una sottile cappa scura. E allora le nubi non sono più che questo: "sento che qualcosa mi manca". Io attraverso fugacemente gli stati d'essere dell'incompletezza, mediante i quali lo Zen ha saputo codificare la sensibilità umana ("furyu"): la solitudine ("sabi"), la tristezza che mi deriva dall'"incredibile naturalità" delle cose ("wabi"), la nostalgia ("aware"), il sentimento della stranezza ("yugen") [Zen]. "Sono felice ma sono triste": questa era la "nube" di Mélisande [Pellèas].
Il nastro.
OGGETTI. Ogni oggetto che sia stato toccato dal corpo dell'essere amato diventa parte di questo corpo e il soggetto vi si attacca appassionatamente.
1. Werther moltiplica i gesti di feticismo: bacia il nastro rosa che Carlotta gli ha regalato per il suo compleanno, bacia il biglietto che lei gli manda (anche a costo d'imbrattarsi la bocca di sabbia), bacia le pistole che lei ha toccato [WERTHER: 67, 51 e 49]. Dall'essere amato emana una forza che niente può fermare e che impregna tutto ciò che esso sfiora anche solo con lo sguardo: se, non potendo andare a trovare Carlotta di persona, Werther le manda il suo domestico, è il domestico, sul quale essa ha posato lo sguardo, che diventa per Werther una parte di Carlotta ("Avrei voluto prendergli la testa fra le mani e baciarlo, se non me ne fossi vergognato"). Ogni oggetto che sia stato in tal modo consacrato (posto nel recinto del dio) diventa simile alla pietra di Bologna che, se lasciata al sole, ne assorbe i raggi e per un certo tempo splende nell'oscurità.
(Egli mette il Fallo al posto della Madre - s'identifica con lui. Werther vuole essere sepolto con il nastro rosa che Carlotta gli ha regalato; nella tomba, egli si stende vicino alla Madre - che proprio allora viene evocata) [Lacan].
Talvolta l'oggetto metonimico è presenza (che genera la gioia), talaltra è assenza (che genera lo sconforto). Da cosa dipende allora la mia lettura? - Se credo che sto per essere appagato, l'oggetto sarà propizio; se invece mi vedo abbandonato, l'oggetto sarà funesto.
2. All'infuori di questi feticci, nel mondo amoroso non vi è alcun altro oggetto. E' un mondo sensualmente povero, astratto, dilavato, disinvestito; il mio sguardo passa attraverso le cose senza discernere la loro seduzione; ogni sensualità mi vede morto: io sono vivo solo per quella del "corpo seducente". La sola cosa del mondo esterno che posso associare al mio stato d'essere è il colore del giorno, come se "il tempo che fa" fosse una dimensione dell'Immaginario (l'Immagine non è né colorata né profonda; essa è però provvista di tutte le sfumature della luce e del calore, comunica con il corpo amoroso, che si sente bene o male, globalmente, unitivamente). Nello haiku giapponese, il codice esige che vi sia sempre una parola che si richiami al momento del giorno e dell'anno; è il "kigo", la parola-stagione [Haiku]. Ciò che la notazione amorosa ha dello haiku è il "kigo", questa sottile allusione alla pioggia, alla sera, alla luce, a tutto ciò che bagna, che diffonde. L'oscenità dell'amore.
OSCENO. Screditata dall'opinione moderna, la sentimentalità dell'amore deve essere recepita dal soggetto amoroso come una grave trasgressione, che lo lascia solo ed esposto; attraverso un rovesciamento di valori, ciò che oggi rende osceno l'amore è quindi proprio questa sua sentimentalità.
1. Esempio di oscenità: tutte le volte che (anche qui) si adopera la parola "amore" (l'oscenità cesserebbe se si dicesse, per ridere: l'"ammore") [].
O anche: "Serata all'Opera: un pessimo tenore compare sulla scena; per esprimere il suo amore alla donna che ama e che è lì al suo fianco, si pianta in mezzo al palcoscenico volgendosi verso il pubblico. Io sono quel tenore: come un grosso animale, osceno e stupido, vividamente illuminato da una luce di proscenio, declamo un'aria arcinota senza guardare la persona che amo e a cui pure dovrei rivolgermi".
O anche: sogno: sto tenendo un corso "sull'"amore: l'uditorio, femminile, è un po' stagionato: io sono Paul Géraldy.
O anche: "... non gli sembrava proprio che a quella parola [amore] si addicesse una ripetizione così frequente. Al contrario, quelle due sillabe ["Liebe", amore] gli divennero, a lungo andare, molto antipatiche, e fecero sorgere nella sua mente un'immagine come di latte annacquato, qualcosa di bianco azzurrastro, di insipido..." [THOMAS MANN: "La montagna incantata", 141].
O infine: il mio amore è "un organo sessuale dotato d'una straordinaria sensibilità, che [potrebbe vibrare] facendomi emettere delle grida atroci, le grida d'una grandiosa ma fetida eiaculazione, [in preda al] dono estatico che l'essere fa di se stesso in quanto vittima nuda, oscena 1 dinanzi agli scoppi di risa delle prostitute" [BATAILLE: "L'oeil pinéal", 2, 19 e 25].
Tutto il disprezzo che si abbatte sul pathos sarà per me: in passato, in nome della ragione ("Affinché un'opera così ardente - dice Lessing parlando del "Werther" - non faccia più male che bene, non credete anche voi che essa avrebbe semplicemente bisogno d'una piccola perorazione senza calore?"), oggi, in nome della "modernità", la quale accetta qualsiasi soggetto, purché sia "generalizzato" ("La vera musica popolare, la musica delle masse, la musica plebea, è aperta alle irruzioni delle "soggettività di gruppo", non più alla soggettività unica, alla bella soggettività sentimentale del soggetto isolato...", Daniel Charles, "La musique et l'oubli").
2. Incontro con un intellettuale innamorato: per lui, "recepire" (non reprimere) l'estrema stupidità, la stupidità nuda del suo discorso, equivale al denudarsi in pubblico del soggetto di Bataille: è la forma necessaria dell'impossibile e del supremo: un'abiezione tale che nessun discorso della trasgressione può recuperare e che si espone senza protezione al moralismo dell'antimorale. Egli considera perciò i suoi contemporanei come tanti "innocenti": sono innocenti quelli che censurano la sentimentalità amorosa in nome di una nuova moralità: "Il segno distintivo dell'animo moderno non è la menzogna, ma l'"innocenza", che è incarnata nel falso moralismo. Fare ovunque la scoperta di questa "innocenza", ecco forse la parte più ributtante del nostro lavoro" [NIETZSCHE: "Genealogia della morale"].
(Rovesciamento storico: ciò che è indecente non è più la sessualità, ma la "sentimentalità" - censurata in nome di ciò che, in fondo, non è che un'"altra morale").
3. L'innamorato delira ("sposta il sentimento dei valori"), ma il suo è un delirio stupido. Cosa c'è di più stupido d'un innamorato? Esso è così stupido che nessuno osa tenere pubblicamente il suo discorso senza far ricorso a una mediazione ponderata: romanzo, teatro o analisi (con beneficio d'inventario). Il "daimon" di Socrate (quello che parlava prima in lui) gli suggeriva: "no". Il mio "daimon" è, al contrario, la mia stupidità: come l'asino nietzschiano, nella sfera del mio amore, io dico di s a tutto. M'impunto, rifiuto l'apprendistato, ripeto gli stessi comportamenti; non mi si può educare - e io stesso non posso farlo; il mio discorso è continuamente irriflessivo; non so rigirarlo, suddividerlo, limarlo, disporvi delle virgolette; parlo sempre col cuore in mano; mi limito a un delirio prudente, conforme, discreto, addomesticato, banalizzato dalla letteratura.
(La stupidità è l'essere "sorpresi". L'innamorato lo è continuamente; esso non ha il tempo di trasformare, di coprire, di proteggere. Forse è cosciente della sua stupidità, ma "non la censura". O anche: la sua stupidità agisce come una stortura, una perversione: "è stupido", - dice, - "e tuttavia... è vero").
4. Tutto ciò che è anacronistico è osceno. Come divinità (moderna), la Storia è repressiva; la Storia ci proibisce di essere inattuali. Del passato, noi sopportiamo solo le rovine, i monumenti, il kitsch o il "rètro", che è "divertente"; questo passato, noi lo riduciamo al suo solo autografo. Il sentimento amoroso è antiquato, ma questo essere fuori moda non può neppure essere recuperato come spettacolo: l'amore cade fuori del tempo "interessante"; nessun significato storico, polemico, può essergli dato; la sua oscenità sta in questo.
5. Nella vita amorosa, il tessuto degli incidenti è d'una incredibile futilità, e questa futilità, unita alla più grande serietà, è veramente sconveniente. Quando sto gravemente meditando di suicidarmi per una telefonata che non arriva, si ha un'oscenità pari a quella del papa che, in Sade, sodomizza un tacchino. Ma l'oscenità sentimentale è meno strana, ed è appunto ciò che la rende più abietta; niente può superare l'indecenza di un soggetto che si accascia perché il suo altro ha assunto un'aria assente, "quando nel mondo ci sono ancora tanti uomini che muoiono di fame, tanti popoli che lottano duramente per la loro liberazione, eccetera".
6. Il tributo morale decretato dalla società per tutte le trasgressioni, colpisce oggi la passione più ancora del sesso. Che X... abbia "degli enormi problemi" con la sua sessualità, risulta comprensibile a tutti; ma nessuno s'interessa ai problemi che Y... può avere con la sua sentimentalità: l'amore è osceno proprio perché mette la sentimentalità al posto della sessualità. Quel "vecchio coccolone sentimentale" (Fourier) che dovrebbe improvvisamente morire in stato amoroso, sembrerebbe osceno quanto il presidente F‚lix Faure colto da apoplessia accanto alla sua amante. ("Nous deux" - il settimanale - è più osceno di Sade).
7. L'oscenità amorosa è estrema: niente può incanalarla, conferirle il valore profondo d'una trasgressione; la solitudine del soggetto è timida, priva di qualsiasi ornamento: nessun Bataille darà espressione a quel tipo di oscenità.
Il testo amoroso (un testo e niente di più) è fatto di piccoli narcisismi, di meschinità psicologiche; esso non ha grandiosità: oppure la sua grandiosità (ma chi c'è che, socialmente, può ravvisarla?) sta appunto nel non poter raggiungere nessuna grandezza, neppure quella del "materialismo spicciolo". Si tratta dunque del momento "impossibile" in cui l'oscenità può veramente coincidere con l'affermazione, con l'"amen", con il limite estremo della lingua (l'osceno dicibile come tale non può più rappresentare il livello massimo dell'oscenità: io stesso, dicendolo, anche solo attraverso il baluginare d'una figura, sono già recuperato).
Sono pazzo.
PAZZO. Il soggetto amoroso è colto dall'idea di essere o di diventare pazzo.
1. Sono pazzo ad essere innamorato, non lo sono per il fatto di poterlo dire: sdoppio la mia immagine: dissennato ai miei occhi (ho coscienza del mio delirio), semplicemente sconsiderato agli occhi degli altri, a cui racconto molto assennatamente la mia pazzia: cosciente di questa pazzia, discettando su di essa.
Werther incontra sui monti un folle: in pieno inverno, esso vuole raccogliere dei fiori per Carlotta, che un tempo ha amato [WERTHFR: 115-18]. Quand'era in manicomio, quest'uomo era felice: non sapeva più niente di sé. Werther si riconosce "a metà" nel folle dei fiori: è, come lui, pazzo per passione, ma privato di qualsiasi possibilità di accedere alla felicità (presunta) dell'incoscienza: egli soffre per il fatto di non riuscire a essere pazzo.
2. Si dice che ogni innamorato sia pazzo. Ma si può immaginare un pazzo innamorato? No, certo. lo ho solamente diritto a una follia povera, incompleta, "metaforica": l'amore mi rende "come" pazzo, ma io non comunico con il soprannaturale, non sono pervaso dalla sacralità; la mia follia, semplice stoltezza, è piatta, per non dire invisibile; per di più, la cultura l'ha totalmente addomesticata: essa non fa paura. (E tuttavia è proprio nello stato amoroso che certi soggetti pieni di buonsenso intuiscono che la follia è li davanti, possibile, vicinissima: una follia che travolgerebbe l'amore stesso).
3. Da cent'anni a questa parte, si ritiene che la follia (letteraria) consista in questo: ""Io è un altro"": la follia è un'esperienza di spersonalizzazione. Per me, soggetto amoroso, essa è invece esattamente il contrario: ciò che mi rende pazzo è il fatto di diventare un "soggetto", di non potermi impedire di esserlo. "Io non sono un altro": questo è ciò che constato con sgomento.
(Storia zen: nel pieno della calura, un vecchio monaco è intento a far seccare dei funghi. "Perché non fai fare questo lavoro a un altro? - Un altro non è me, e io non sono un altro. Un altro non può fare l'esperienza della mia azione. Io devo fare la mia esperienza di fare seccare i funghi").
Io sono indefettibilmente me stesso, e in ciò risiede la mia pazzia: io sono pazzo perché "consisto".
4. Pazzo è colui che è puro di ogni potere. - Come sarebbe? l'innamorato non conosce l'eccitazione che deriva dal potere? L'asservimento è pur sempre una cosa che mi riguarda: asservito, ma desideroso di asservire, anch'io sento a mio modo la brama di potere, la "libido dominandi": non dispongo forse anch'io, al pari dei sistemi politici, di un discorso ben fatto, sciolto, "articolato"? [SANT'AGOSTINO: "libido sentiendi, libido sciendi, libido excellendi (dominandi)" (Citato da Sainte-Beuve, 2,, 160)]. Tuttavia, ed ecco la mia particolarità, la mia libido è assolutamente circoscritta: non ho altra dimora all'infuori della dualità amorosa: non un solo atomo al di fuori di questo e, quindi, non un solo atomo di gregarietà: "io sono pazzo": non perché io sia originale (grossolano espediente della conformità), ma perché sono tagliato fuori da ogni forma di socialità. Se, in diverso grado, gli altri uomini sono sempre i militanti di qualcosa, io, dal canto mio, non sono soldato di niente, neanche della mia propria follia: "io non socializzo" (così come si dice di una persona che non simbolizza).
(Si può in questo individuare la frattura molto particolare che, nell'Innamorato, separa la volontà di potenza - la cui impronta segna la qualità della sua forza - dalla volontà di potere - di cui essa è esente?)
Perché?
PERCHE'. Mentre da un lato si domanda ossessivamente perché non è amato, dall'altro il soggetto amoroso continua a credere che in fin dei conti l'oggetto amato lo ama, solo che non glielo dice.
1. Esiste per me un "valore superiore": il mio amore. Io non mi dico mai: "A che pro?" Non sono nichilista. Non mi chiedo qual è il fine. Nel mio discorso monotono non vi sono mai dei "perché"; ce n'è uno soltanto, sempre lo stesso: "ma perché tu non mi ami"? [NIETZSCHE: "Che cosa significa il nichilismo? "Che i valori superiori si sviliscono". Mancando i fini, non c'è risposta alla domanda "a che pro?""] Come si può non amare questo "io" che l'amore rende perfetto (che dà tanto, che rende felice, eccetera)? Domanda la cui insistenza sopravvive all'avventura amorosa: "Perché non mi hai amato?"; o anche: "O, dimmi, dilettissimo amore del mio cuore, perché mi hai abbandonato? [O sprich, mein herzallerliebstes Lieb, warum verliessest du mich?]" [HEINE: "Lyrisches Intermezzo", 23, 28].
2. Ben presto (o contemporaneamente) la domanda non sarà più: "perché non mi ami?", ma: "perché mi ami solo "un po'"?" Come fai ad amare "un po'"? Che cosa vuol dire amare "un po'"? Io vivo nel regime del "troppo" o del "non abbastanza"; avido come sono di coincidenza, tutto ciò che non è totale mi sembra parsimonioso; ciò che io cerco è occupare un luogo "da cui non siano più percepibili le quantità", e da cui sia bandito il bilancio.
O anche - dato che sono nominalista: perché "non mi dici" che mi ami?
3. La verità è che - paradosso esorbitante - non smetto mai di credere di essere amato [FREUD: "Sia chiaro che la psicosi allucinatoria di desiderio [...] non solo porta alla cose senza desideri occulti o rimossi, ma anche li presenta, in perfetta buona fede, come appagati" ("Metapsicologia", 97)]. Io allucino ciò che desidero. Ogni dolore mi è dato più dal tradimento che non dal dubbio: infatti, solo chi crede di essere amato può essere geloso, e solo chi ama può tradire: episodicamente, l'altro manca nei confronti della sua essenza, che è quella di amarmi; ecco l'origine della mia infelicità. Ma un delirio esiste soltanto se da esso ci si desta (i deliri sono solo retrospettivi): finalmente, un bel giorno, capisco che cosa mi è accaduto: credevo di soffrire per il fatto di non essere amato, mentre invece soffrivo perché credevo di esserlo; vivevo nell'imbroglio di credermi contemporaneamente amato e abbandonato. Chiunque avesse ascoltato il mio linguaggio interiore non avrebbe potuto che esclamare: "ma cos'è che vuole, in fin dei conti"? (proprio come si dice di un bambino difficile).
("Io ti amo" diventa "tu mi ami". Un giorno, X... ricevette delle orchidee anonime: subito ne allucinò la provenienza: esse erano state mandate da chi l'amava; e chi l'amava non poteva essere che chi era amato da lui. Fu solo dopo aver fatto molte verifiche, che egli riusci a dissociare le due inferenze: chi lo amava non era necessariamente chi era amato da lui).
Il pettegolezzo.
PETTEGOLEZZO. Dolore provato dal soggetto amoroso allorché constata che l'essere amato è coinvolto in un "pettegolezzo", e sente parlare di lui come d'una persona qualunque.
1. Sulla strada che porta a Falero, un uomo si sta annoiando; egli ne scorge un altro che cammina davanti a lui, lo raggiunge e gli domanda di raccontargli i discorsi scambiati al convivio dato da Agatone [SIMPOSIO: inizio]. Così nasce la teoria dell'amore: da un caso, da una noia, da una voglia di parlare o, se si vuole, da un "pettegolezzo" lungo tre chilometri. Aristodemo ha assistito al famoso Simposio; egli lo ha raccontato ad Apollodoro che, sulla strada di Falero, lo racconta a sua volta a Glaucone (il quale è, a quanto pare, un uomo privo di cultura filosofica) e, ciò facendo, con la mediazione del libro, lo racconta a noi che ancora ne stiamo parlando. Il "Simposio" non è dunque solo una "conversazione" (noi parliamo di qualcosa), ma anche un pettegolezzo (noi parliamo, tra di noi, degli altri).
Quest'opera rientra quindi nel campo di pertinenza di due linguistiche, a cui solitamente non viene dato spazio - dal momento che la linguistica ufficiale si occupa unicamente del messaggio. La prima postulerebbe che nessuna questione ("quaestio") può essere formulata senza la trama di una interlocuzione; per parlare dell'amore, i convitati non solo parlano tra di loro, "da immagine a immagine", "da posto a posto" (nel "Simposio", la disposizione dei letti ha una grande importanza), ma implicano anche in questo discorso generale i legami amorosi in cui sono coinvolti (o in cui pensano che gli altri lo siano): questa sarebbe la linguistica della "conversazione" [SIMPOSIO: Agatone: "Qui o Socrate, vicino a me distenditi, affinché, toccandoti, anch'io possa gioire della sapienza che ti è venuta incontro nel vestibolo..." (157) e l'arrivo di Alcibiade (201)]. La seconda linguistica direbbe che parlare significa sempre dire qualcosa di qualcuno; parlando del Simposio, dell'Amore, è di Socrate, di Alcibiade e dei loro amici, che Glaucone e Apollodoro parlano: il "soggetto" viene a galla attraverso il pettegolezzo. La filologia attiva (quella delle forze del linguaggio) comprenderebbe quindi due linguistiche obbligate: quella dell'interlocuzione (parlare a un altro) e quella della delocuzione (parlare di qualcuno).
2. Werther non ha ancora fatto la conoscenza di Carlotta; ma, nella carrozza che lo sta portando al ballo campestre (si deve passare a prendere Carlotta strada facendo), un'amica - voce del Pettegolezzo - commenta per Werther colei la cui immagine lo estasierà di lì a poco: è già impegnata, non bisogna innamorarsene, eccetera [WERTHER: 24]. Ecco allora che il pettegolezzo riassume e preannunzia la vicenda futura. Il pettegolezzo è la voce della verità (Werther s'innamorerà d'un oggetto già scelto), e questa voce è magica: l'amica è una fata cattiva che, mentre sembra stornare, predice e invoca.
Quando l'amica parla, il suo discorso è insensibile (una strega non s'impietosisce): il pettegolezzo è leggero, freddo, e in tal modo assurge a una sorta di obiettività; la sua voce sembra insomma doppiare la voce della scienza. Queste due voci sono riduttive. Quando la scienza parla, avverto talora il suo discorso come il brusio di un pettegolezzo che discredita e denigra leggermente, freddamente e obiettivamente, ciò che io amo: che ne parla "con la voce della verità".
3. Il pettegolezzo riduce l'altro a "lui/lei", e questa riduzione mi riesce insopportabile. Per me, l'altro non è né "lui" né "lei"; esso ha soltanto il suo proprio nome, il suo nome proprio. Il pronome di terza persona è un pronome malvagio: è il pronome della non-persona, il pronome che abolisce, che annulla. Quando constato che il discorso comune si appropria del mio altro e me lo rende sottoforma di un esangue sostituto universale, applicato a tutte le cose che non sono lì a portata, è come se io lo vedessi morto, trasformato, sistemato in un loculo nel muro del grande mausoleo del linguaggio. Per me, l'altro non potrebbe mai essere un "referente": tu non sei mai altro che te stesso, io non voglio che l'Altro parli di te.
Elogio delle lacrime.
PIANGERE. Particolare propensione a piangere del soggetto amoroso: modi di apparizione delle lacrime e loro funzione nel soggetto in questione.
1. Ad ogni minima emozione amorosa, sia di felicità che di noia, Werther scoppia in lacrime. Werther piange spesso, molto spesso, e copiosamente. Ma chi piange in Werther? l'innamorato o il romantico? [WERTHER: 42, 66, 69, 71, 73, 74 e 119. - Piangere in comune: 33].
Quella di lasciarsi andare a piangere è forse una peculiare predisposizione del tipo amoroso? Sottoposto all'Immaginario, l'innamorato non si cura minimamente della censura che oggi tiene l'adulto lontano dalle lacrime e attraverso cui l'uomo intende affermare la sua virilità (soddisfazione e materna commozione della Piaf: "Mais vous pleurez, Milord!" Dando libero sfogo alle lacrime, l'innamorato rispetta gli ordini del corpo amoroso, che è un corpo bagnato, in espansione liquida: piangere insieme, sciogliersi insieme: dolcissime lacrime concludono la lettura di Klopstock che Carlotta e Werther fanno in comune. Chi dà all'innamorato il diritto di piangere, se non un rovesciamento dei valori, di cui il corpo è il primo a fare le spese? Egli accetta di ritrovare il corpo bambino.
Ma qui, oltre al corpo amoroso, vi è anche un corpo storico. Chi scriverà la storia delle lacrime? In quali società, in quali epoche si è pianto? [SCHUBERT: "Lob der Thr„nen" ["Elogio delle lacrime"], poesia di A. W. Schlegel]. Da quando gli uomini (e non le donne) hanno smesso di piangere? Perché a un certo momento la "sensibilità" è tornata ad essere "sensibileria"? Le immagini della virilità sono mutevoli; i Greci, la gente del diciassettesimo secolo piangevano molto a teatro. Stando a Michelet, san Luigi si affliggeva per il fatto di non aver ricevuto il dono delle lacrime; una volta senti le lacrime scendergli dolcemente sul volto ed "esse gli parvero gustose e dolcissime, non solo al cuore ma anche alla bocca". (Ancora: nel 1199, un giovane monaco si mise in cammino alla volta di un'abbazia di Cistercensi, nel Brabante, per ottenere attraverso le loro preghiere il dono delle lacrime).
(Problema nietzschiano: in che modo Storia e Tipo si combinano tra loro? Non è forse prerogativa del tipo formulare - formare - l'inattuale della Storia? La nostra società reprime il suo inattuale proprio nelle lacrime dell'innamorato, facendo in questo modo dell'innamorato che piange un oggetto perduto il cui annullamento è necessario alla sua "salute". Sullo schermo, "La marchesa von O" piange e la platea ride).
2. Forse "piangere" è un po' generico; forse non bisogna far risalire tutte le lacrime a un medesimo significato; forse nello stesso innamorato vi sono più soggetti impegnati a "piangere" in modi simili, ma diversi. Qual è quell'"io" che ha "le lacrime agli occhi"? Qual è quell'altro "io" che, un tal giorno, è stato "llì lì per piangere"? Chi sono io che piango "tutte le lacrime del mio corpo"? o che, svegliandomi, verso "un fiume di lacrime"? Se ho tanti modi di piangere, forse è perché, quando piango, mi rivolgo sempre a qualcuno, e perché la persona a cui le mie lacrime sono destinate noti è sempre la stessa: io adatto i miei modi di piangere al tipo di ricatto che, con le mie lacrime, intendo esercitare intorno a me.
3. Piangendo, voglio impressionare qualcuno, fare pressione su di lui ("Guarda che cosa hai fatto di me"). Questo qualcuno potrebbe essere - ed è quasi sempre - l'altro, che si vuole in questo modo costringere ad assumere apertamente la sua commiserazione o la sua insensibilità; ma potrei anche essere io stesso: mi faccio piangere per provare a me stesso che il mio dolore non è un'illusione: le lacrime sono dei segni, non delle espressioni. Attraverso le mie lacrime io racconto una storia, do vita a un mito del dolore e da quel momento mi uniformo ad esso: posso vivere con il dolore perché, piangendo, mi do un interlocutore enfatico che riceve il messaggio più "vero": quello del mio corpo e non già quello della mia lingua. "Cosa sono mai le parole? Una lacrima sola dice assai di più" [SCHUBERT: "Elogio delle lacrime"].
Rapito in estasi.
RAPIMENTO. Episodio ritenuto iniziale (ma che può essere ricostruito anche in un secondo tempo) nel corso del quale il soggetto amoroso è "rapito" (catturato e ammaliato) dall'immagine dell'oggetto amato (volgarmente: "colpo di fulmine"; voce dotta: "innamoramento").
1. La lingua (il vocabolario) ha enunciato da un pezzo l'equivalenza tra l'amore e la guerra: in entrambi i casi, si tratta di "conquistare", "rapire", "catturare", eccetera. Ogniqualvolta un soggetto "cade" innamorato, esso rivive un po' del tempo arcaico, quando gli uomini dovevano rapire le donne (per garantire l'esogamia): ogni innamorato che riceve il colpo di fulmine ha qualcosa di una Sabina (o di qualsiasi altra Rapita celebre) [DJEDIDE: in arabo, ad esempio, "fitna" si riferisce sia alla guerra materiale (o ideologica) che all'azione di seduzione sessuale].
Qui c'è tuttavia un curioso intrecciarsi: nel mito antico, il rapitore è attivo, vuole acciuffare la sua preda, egli è il soggetto del ratto (il cui oggetto è, come tutti sanno, una Donna sempre passiva); nel mito moderno (quello dell'amore-passione), è invece il contrario: il rapitore non vuole niente, non fa niente; se ne sta immobile (come un'immagine) e il vero soggetto del ratto è l'oggetto "rapito"; l'"oggetto" del rapimento diventa il "soggetto" dell'amore; e il "soggetto" della conquista passa al rango di "oggetto" amato. (Del modello arcaico sussiste però una traccia visibile: l'innamorato - colui che è stato rapito - è sempre implicitamente femminizzato).
Questo singolare rovesciamento deriva forse da un fatto ben preciso: il "soggetto" è per noi (dal cristianesimo in poi?) "colui che soffre": laddove c'è dolore, c'è soggetto: "die Wunde! die Wunde!" [la ferita!] dice Parsifal, diventando in tal modo "lui stesso"; e più la ferita è aperta, al centro del corpo (nel "cuore"), più il soggetto diventa soggetto: poiché il soggetto è l'"intimità" ("La ferita [...] è d'una intimità spaventosa") [Parsifal]. Tale è la ferita d'amore: una piaga radicale (alle "radici" dell'essere) che non riesce a richiudersi, e da cui il soggetto scola via, componendosi come soggetto proprio in questo fluire. Basterebbe immaginare la nostra Sabina ferita per farne il "soggetto" di una storia d'amore [RUYSBROECK: "Il midollo delle ossa in cui affondano le radici della vita è il centro della ferita" (16); "La cosa aperta che è in fondo all'uomo non si richiude facilmente" (14)].
2. Il colpo di fulmine è un'ipnosi: io sono affascinato da un'immagine: prima scosso, elettrizzato, messo in fermento, rivoltato, "galvanizzato", come lo era Menone da Socrate, modello degli oggetti amati, delle immagini seducenti, o anche convertito da un'apparizione, dato che niente distingue la via dell'innamoramento dalla via di Damasco; e dopo impaniato, appiattito, immobilizzato, con il naso schiacciato contro l'immagine (lo specchio). Nel momento preciso in cui per la prima volta l'immagine dell'altro mi rapisce, io sono come la gallina meravigliosa del gesuita Athanasius Kircher (1646) che, con le zampe legate, s'addormentava fissando gli occhi sulla linea di gesso, la quale, come un laccio, le passava vicino al becco; quando la si slegava, essa restava immobile, ammaliata, "sottomessa al suo vincitore", dice il gesuita; tuttavia, per destarla dal suo incanto, per spezzare la violenza del suo Immaginario ("vebemens animalis imaginatio"), bastava darle un colpetto sull'ala: essa trasaliva e ricominciava a razzolare [ATHANASIUS KIRCHER: "Storia della gallina meravigliosa (Experimentum mirabile de imaginatione gallinae)", in Chertok, 71. - Sull'ipnosi, Gèrard Miller, in "Ornicar", 4].
3. L'episodio ipnotico è di solito preceduto da uno stato crepuscolare: il soggetto è in un certo senso vuoto, disponibile, inconsapevolmente offerto al ratto che sta per sorprenderlo [Freud]. Lo stesso vale per Werther, quando ci descrive abbastanza a lungo la vita insignificante che egli conduce a Wahlheim prima di incontrare Carlotta: niente vita mondana, la lettura di Omero come unico svago, un quotidiano cullarsi un po' vuoto, prosaico (si fa cuocere dei piselli) [WERTHER: 8, 35]. Questa "meravigliosa serenità" non è che un'attesa - un desiderio: io non m'innamoro mai, se prima non l'ho desiderato; la vacanza che attuo in me (e di cui come Werther, innocentemente, m'inorgoglisco) non è nient'altro che il periodo più o meno lungo durante il quale, senza averne l'aria, io sto cercando intorno a me "chi amare". Naturalmente, come per il ratto animale, l'amore ha bisogno di qualcosa che lo faccia scattare; il pretesto è occasionale, ma la struttura è profonda, ordinata, così come a precise scadenze stagionali avviene l'accoppiamento tra gli animali. Tuttavia, il mito del "colpo di fulmine" è talmente forte (la cosa mi cade addosso senza che io me l'aspetti, senza che io lo voglia, senza che io abbia fatto la benché minima mossa), che si resta sbalorditi se si sente qualcuno "decidere" d'innamorarsi: è il caso di Amadour vedendo Floride alla corte del viceré di Catalogna: "Dopo averla guardata a lungo, "si deliberò di amarla"". Come? sarei io a decidere se devo diventare pazzo (l'amore sarebbe dunque la follia "che io voglio")? [HEPTAMERON: citato da L. Febvre].
4. Nel mondo animale, ciò che fa scattare la meccanica sessuale non è un individuo precisato, ma soltanto una forma, un feticcio colorato (ecco come si mette in moto l'Immaginario). Nell'immagine ammaliante, ciò che m'impressiona (come una carta sensibile), non è la somma dei suoi particolari, ma questa o quell'inflessione. Dell'altro, ciò che bruscamente mi colpisce (mi rapisce), è la voce, la forma delle spalle, la snellezza della figura, il calore della mano, il modo di sorridere, ecc. E allora, che importanza ha l'estetica dell'immagine? C'è qualcosa che coincide esattamente col mio desiderio (di cui non so niente) e quindi non farò preferenze di stile. Talora, ciò che dell'altro mi esalta è l'aderenza a un grande modello culturale (io credo di vedere l'altro dipinto da un artista del passato), talaltra, ad aprire in me la ferita, è invece una certa disinvoltura dell'apparizione: io posso innamorarmi di un atteggiamento un po' volgare (assunto per provocare): ci sono delle trivialità sottili, mobili, che passano rapidamente sul corpo dell'altro [FLAUBERT: "E quando leggo nei libri dei passaggi d'amore, sembra che voi siate qua. - Tutto ciò che di esagerato vi si biasima, voi me l'avete fatto provare, disse Federico. Capisco Werther a cui non spiacevano le fette di pane di Lotte" ("L'educazione sentimentale")]: un modo brusco (ma eccessivo) di allargare le dita, di aprire le gambe, di muovere la massa carnosa delle labbra mangiando, di accudire a una bisogna molto prosaica, di dare per un istante al suo corpo un'aria idiota, per darsi un contegno (quello che affascina nella "trivialità" dell'altro è che forse, per un brevissimo istante, colgo in lui, staccato dal resto della sua persona, come un gesto di prostituzione) [ETIMOLOGIA: "trivialis": che si trova a tutti i crocicchi]. L'aspetto che mi colpisce (ecco un altro termine di caccia) si riferisce a una particella di pratica, al momento fuggevole di una posizione, in altre parole a uno "schema" ("schema", è il corpo in movimento, in situazione, in vita).
5. Scendendo dalla vettura, Werther vede per la prima volta Carlotta (di cui s'innamora), incorniciata nella porta di casa sua (lei sta tagliando delle fette di pane ai bambini: celebre scena, spesso commentata) [WERTHER: 25]: per prima cosa, noi amiamo "un quadro" [LACAN: "Il seminario", 1, 178]. Giacché il colpo di fulmine ha bisogno del segno della sua subitaneità (che mi rende irresponsabile, sottoposto alla fatalità, travolto, rapito): e, fra tutte le combinazioni di oggetti, quello che sembra vedersi meglio per la prima volta è il quadro: improvvisamente, si apre un sipario: ciò che non era stato ancora mai visto viene scoperto per intero, e da quel momento divorato con gli occhi: l'immediato vale per il tutto: io sono iniziato: il quadro "consacra" l'oggetto che io amerò.
Per rapirmi va bene tutto, e la cosa può capitarmi anche solo attraverso un contorno, uno strappo: "La prima volta, vidi X... attraverso il finestrino di un'auto: il vetro si spostava, come un obiettivo che stesse cercando tra la folla "chi amare"; e poi, immobilizzato dalla "giustezza" del mio desiderio (ma quale?), fissavo quell'apparizione che da allora avrei seguito per dei mesi; ma l'altro, come se avesse voluto resistere a quel dipinto, nel quale si perdeva come soggetto, ogni volta che in seguito doveva apparire nel mio campo visivo (per esempio, nel bar in cui lo stavo aspettando), lo faceva con cautela, al risparmio, impregnando il suo corpo di discrezione e come d'indifferenza, ritardando il momento in cui avrebbe dovuto scorgermi, eccetera: in altre parole, tentando di scorniciarsi".
Il quadro è dunque sempre visivo? No. Esso può anche essere sonoro, il contorno può anche essere di natura linguistica: io posso innamorarmi "di una frase che mi viene detta": e non solo perché mi dice qualcosa che accende il mio desiderio, ma altresì a causa del suo aspetto (del suo contorno) sintattico, che s'insedierà dentro di me "come un ricordo".
6. Quando Werther "scopre" Carlotta (quando si apre il sipario e appare il quadro), lei sta tagliando delle fette di pane. Hanold, dal canto suo, s'innamora di una donna che sta camminando ("Gradiva": colei che avanza) e che per di più ha scovato in un bassorilievo. Ciò che mi affascina, che mi rapisce, è l'immagine di un corpo "in situazione". Ciò che mi eccita, è una sagoma intenta al lavoro, "che non bada a me": Gruga, la giovane bambinaia, impressiona vivamente l'Uomo dei lupi: inginocchiata per terra, essa sta lavando il pavimento [FREUD: "Caso clinico dell'uomo dei lupi"]. La posizione di lavoro mi garantisce infatti, in un certo senso, l'"innocenza dell'immagine": più l'altro mi mostra i segni della sua occupazione, della sua indifferenza (della mia assenza), più io sono sicuro di sorprenderlo, come se, per innamorarmi, avessi bisogno di adempiere all'ancestrale formalità del ratto, cioè di operare la sorpresa (io sorprendo l'altro e, proprio per questo, l'altro sorprende me: io non mi aspettavo di sorprenderlo).
7. C'è un'illusione del tempo amoroso (questa illusione si chiama: romanzo d'amore). Io credo
(come tutti) che il fatto amoroso sia un "episodio" con un inizio (il colpo di fulmine) e una fine (suicidio, abbandono, disamore, ritiro solitario, viaggio, eccetera). E tuttavia, non faccio che ricostruire la scena iniziale durante la quale sono stato rapito in estasi: si tratta di un "a posteriori". Io ricostruisco un'immagine traumatica, che vivo nel momento attuale, ma che coniugo (che parlo) al passato: "Lo scorsi, arrossii, impallidii avendolo guardato. Crebbe un turbamento nel mio animo rimestato" [RACINE: "Fedra", 1 e 2]: il colpo di fulmine si dice sempre al passato remoto. poiché esso è al tempo stesso passato (ricostruito) e remoto (trascorso): è, se così si può dire, un immediato anteriore. L'immagine si fonde bene con quest'illusione temporale: nitida, colta di sorpresa, incorniciata, essa è già (ancora, sempre) un ricordo (l'essenza della fotografia non è il rappresentare, ma il rimemorare): quando "rivedo" la scena del rapimento, io creo retrospettivamente un caso:
quella scena ne ha la magnificenza: io non finisco di stupirmi di aver avuto questa fortuna: incontrare ciò che coincide con il mio desiderio; o anche di aver corso questo enorme rischio:
asservirmi di colpo a un'immagine sconosciuta (e tutta la scena ricostruita agisce come il sontuoso montaggio di un'ignoranza) [J.-L. B.: conversazione].
"E lucean le stelle".
RICORDO. Rimemorazione felice e/o straziante d'un oggetto, d'un gesto, d'una scena, legati all'essere amato, e caratterizzata dall'intrusione dell'imperfetto nella grammatica del discorso amoroso.
1. "L'estate è magnifica, spesso mi arrampico sopra un albero nel frutteto di Lotte, con una lunga stanga in mano, e stacco dalla cima dei rami le pere mature [WERTHER: 68]. Essa sta di sotto e le raccoglie via via che gliele porgo". Werther racconta e parla al presente, ma il suo quadro ha già vocazione di ricordo; l'imperfetto mormora sottovoce dietro a quel presente. Un giorno, mi ricorderò di quella scena, mi ci perderò "al passato". Al pari del primo rapimento, il quadro amoroso è composto unicamente di "a posteriori": è l'"anamnesi", la quale non ritrova altro che degli aspetti insignificanti, niente affatto drammatici, come se io mi ricordassi del tempo in s‚ e del tempo soltanto: è un profumo senza sostegno, un granello di memoria, una semplice fragranza; qualcosa come un puro sperpero, tale che solo lo haiku giapponese ha saputo esprimere, senza peraltro recuperarlo in nessun destino.
(Per arrivare ai fichi più alti del giardino di B., c'era una lunga canna con una specie d'imbuto di alluminio col bordo dentellato fissato in cima. Questo ricordo d'infanzia funziona come un ricordo d'amore).
2. "E lucean le stelle"[Tosca]. Quel momento felice non ritornerà mai più "tale e quale". L'anamnesi mi appaga e mi strazia.
L'imperfetto è il tempo della fascinazione: sembra che sia vivo, mentre invece non si muove: presenza imperfetta, morte imperfetta; né oblio né resurrezione; semplicemente, l'estenuante illusione della memoria. Bramose di avere un loro ruolo, delle scene si mettono sin dall'inizio in posizione di ricordo: sovente (lo sento, lo prevedo) nel momento stesso in cui si formano. - Questo teatro del tempo è l'esatto contrario della ricerca del tempo perduto; infatti, io mi ricordo pateticamente, puntualmente, e non filosoficamente, discorsivamente: mi ricordo per essere infelice/felice - non per capire [Proust]. Io non scrivo, non mi chiudo in una stanza per scrivere lo sterminato romanzo del tempo ritrovato.
Rimpianto?
RIMPIANTO. Provando ad immaginarsi morto, il soggetto amoroso vede la vita dell'essere amato continuare come se niente fosse.
1. Werther sorprende Lotte e una sua amica intente a cianciare; si raccontano cose poco interessanti, parlano con indifferenza di una persona che sta per morire: "... eppure se tu ora te ne andassi, se tu ora uscissi dalla loro cerchia? Sentirebbero, per quanto tempo sentirebbero il vuoto che la tua perdita lascia nel loro destino? Per quanto tempo?" [WERTHER: 108]
Non è che io m'immagini di scomparire senza lasciare rimpianti: la necrologia non sgarra: è piuttosto che attraverso il lutto, che non nego, io "vedo" la vita degli altri continuare senza cambiamenti di sorta; li vedo perseverare nelle loro occupazioni, nei loro passatempi, seguitare ad avere i loro problemi, frequentare gli stessi posti, gli stessi amici; niente cambierebbe nella loro esistenza. Dall'amore, assunzione demenziale della Dipendenza (io ho "assolutamente" bisogno dell'altro), balza fuori crudelmente la posizione opposta: nessuno ha veramente bisogno di me.
(Solo la Madre può rimpiangere: essere depresso, si dice, significa vestire la figura della Madre che io immagino rimpiangermi per sempre: immagine immobile, morta, uscita dalla "Nekuia"; ma gli altri non sono la Madre: a loro il lutto, a me l'avvilimento) [J.-L. B.: conversazione].
2. Ciò che accresce il panico di Werther, è che il morente (nel quale egli si proietta) diventa l'oggetto di chiacchiere: Carlotta e le sue amiche sono delle "donnette" che parlano futilmente della morte. Così io mi vedo biascicato, mangiato controvoglia dalla parola degli altri, dissolto nell'etere del Pettegolezzo. E il Pettegolezzo continuerà senza che io ne sia più, da un pezzo, l'oggetto: un'energia tutta linguatica, futile e instancabile, avrà ragione del mio stesso ricordo [ETIMOLOGIA: "biascicare": mangiare lentamente qualcosa masticandola male].
La risonanza.
RISONANZA. Modo fondamentale della soggettività amorosa: una parola, un'immagine si ripercuotono dolorosamente nella coscienza affettiva del soggetto.
1. Ciò che si ripercuote dentro di me, è quello che io apprendo col mio corpo: qualcosa di sottile e di aguzzo risveglia bruscamente questo corpo che s'era assopito nella conoscenza ragionata di una situazione generale: la parola, l'immagine, l'idea hanno l'effetto di un colpo di frusta. Il mio corpo interiore si mette a vibrare, come se fosse scosso dal suono di trombe che si rispondono e si rincorrono: l'incitazione apre una crepa, la crepa si allarga e tutto viene (più o meno rapidamente) sconvolto. Nell'immaginario amoroso, niente contraddistingue il più trascurabile stimolo da un fatto realmente conseguente; il tempo viene scosso avanti (mi vengono in mente delle predizioni catastrofiche) e indietro (mi ricordo con sgomento dei "precedenti"): da un niente, prende corpo tutto un discorso del ricordo e della morte che mi trascina con s‚: è il regno della memoria, arma della risonanza - del "risentimento" [NIETZSCHE: Deleuze, 142].
(La risonanza deriva da un "incidente imprevisto che muta improvvisamente lo stato d'essere dei personaggi": è "un colpo di scena", il "momento favorevole" di un dipinto: quadro patetico del soggetto sconvolto, prostrato, eccetera) [DIDEROT: "Oeuvres complètes",3].
2. Lo spazio della risonanza, è il corpo - questo corpo immaginario, così "coerente" (coalescente) che io posso viverlo solo come un'emozione generalizzata. Questa emozione (analoga al rossore che imporpora il viso per vergogna o per emozione) è timor panico. Nel panico normale - quello che precede una prova - io mi vedo al futuro in una situazione di fallimento, d'impostura, di scandalo. Nel panico amoroso, ho paura della mia propria distruzione, che improvvisamente intravedo, certa, ben formata, nel lampo della parola, dell'immagine [DIDEROT: "La parola non è la cosa, ma un lampo alla luce del quale la si scorge"].
3. Quando le frasi non gli venivano, Flaubert si buttava sul divano: era la "marinade". Se si ripercuote con troppa forza, la cosa crea un tal tumulto nel mio corpo che io sono obbligato a interrompere quello che sto facendo; mi stendo sul letto e lascio che la "tempesta interiore" si sfoghi, senza lottare; a differenza del monaco zen, che si svuota d'immagini, io lascio che esse mi riempiano, assaporo fino in fondo la loro amarezza [RUYSBROECK: 16]. L'avvilimento ha quindi il suo gesto - codificato -, ed è senza dubbio questo che lo limita; giacché basta che a un certo punto io possa sostituire quel gesto con un altro (anche vuoto: alzarmi, andare al mio tavolo, senza necessariamente mettermi subito a lavorare), perché la risonanza si smorzi e lasci il posto alla cupa tristezza. Il letto (diurno), è il luogo dell'Immaginario; il tavolo, è nuovamente, e qualunque cosa vi si faccia, la realtà.
4. X... mi riferisce delle voci sgradevoli sul mio conto. Questo incidente si ripercuote dentro di me in due modi: da una parte, io ricevo nel vivo l'oggetto del messaggio, mi sdegno per la sua falsità, voglio smentire, eccetera; dall'altra, avverto chiaramente il piccolo impulso aggressivo che ha spinto X... - senza che lui stesso se ne renda ben conto - a riferirmi una cosa che mi fa male. La linguistica tradizionale analizzerebbe soltanto il messaggio: viceversa, la Filologia attiva cercherebbe prima di tutto di interpretare, di misurare la forza (in questo caso reattiva) che lo guida (o lo attira). E io cosa faccio? Io coniugo le due linguistiche, amplifico l'una per mezzo dell'altra: m'installo dolorosamente proprio nella sostanza del messaggio (ossia il contenuto delle voci), mentre considero da ogni lato, con diffidenza e amarezza, la forza che lo anima: perdo sui due fronti, mi faccio del male da ogni parte. Questa è la risonanza: la pratica zelante di un ascolto perfetto: diversamente dallo psicanalista (e giustamente), lungi dallo "svagare" mentre l'altro parla, io ascolto "completamente", in stato di totale coscienza: non posso impedirmi di sentire tutto, e ciò che mi fa male è la purezza di questo ascolto: chi potrebbe sopportare senza soffrire un senso molteplice e tuttavia purificato da ogni "rumore"? La risonanza fa dell'ascolto un fracasso intelligibile e dell'innamorato un ascoltatore mostruoso, ridotto a un immenso organo uditivo - come se lo stesso ascolto si ponesse in stato di enunciazione: in me, chi parla è l'orecchio.
Albata.
RISVEGLIO. Modi diversi in cui il soggetto amoroso si ritrova, al suo risveglio, nuovamente assalito dall'assillo della sua passione.
1. Werther parla della sua stanchezza ("Lasciami soffrire fino in fondo; sebbene mi senta sfinito, ho ancora forza sufficiente per resistere") [WERTHER: 3]. L'assillo amoroso comporta un dispendio di energie che logora il corpo quanto un duro lavoro fisico [S. S.: riferito da S. S.]. "Soffrivo talmente, - dice qualcuno, - tutto il giorno lottavo a tal punto con l'immagine dell'essere amato che, la notte, dormivo come un ghiro". E Werther, poco prima di suicidarsi, "si coricò e dormì a lungo" [WERTHER: 150].
2. Risvegli tristi, risvegli strazianti (di tenerezza), risvegli bianchi, risvegli innocenti, risvegli pieni di sgomento (Octave si risveglia da uno svenimento: "A un tratto gli vennero in mente le sue sventure: non si muore di dolore, altrimenti egli sarebbe morto in quell'istante") [STENDHAL: "Armance", 102].
Fare una scenata.
SCENATA. La figura prende in esame la "scenata" (nel senso casalingo del termine) intesa come scambio di contestazioni reciproche.
1. Quando due soggetti litigano seguendo uno scambio ordinato di repliche in vista di avere "l'ultima parola", significa che sono già sposati: la scenata è per loro l'esercizio di un diritto, la pratica di un linguaggio di cui sono comproprietari; "ciascuno a suo turno", dice la scenata, il che vuol dire: "se tocca a te tocca anche a me", la cosa è reciproca. Questo è il significato di ciò che si chiama eufemisticamente il "dialogo": non già ascoltarsi l'un l'altro, ma assoggettarsi in comune a un principio egualitario di suddivisione dei beni di parola. 1 partner sanno che la contesa a cui dànno vita, e che non li separerà, è inconseguente quanto può esserlo un godimento contro natura (la scenata può essere vista come un modo di godere senza correre il rischio di far figli). Con la prima scenata, il linguaggio inizia la sua lunga carriera di cosa tormentata e inutile. E' il dialogo (il combattimento tra due attori) che ha corrotto la Tragedia, prima ancora che Socrate comparisse sulla scena [NIETZSCHE: "Già prima esisteva qualcosa di analogo nello scambio di parole tra l'eroe e il corifeo, ma siccome l'uno era subordinato all'altro, la tenzone dialettica risultava impossibile. Ma, da quando due personaggi principali si trovarono faccia a faccia, si vide nascere, conformemente a un istinto Profondamente ellenico, il combattimento di parole e di argomenti: il dialogo amoroso [leggi: la scenata] non fu mai conosciuto dalla tragedia greca" ("Socrate e la tragedia")]. Il monologo Viene in tal modo ricacciato ai limiti estremi dell'umanità: nella tragedia arcaica, in certe forme di schizofrenia, nel soliloquio amoroso (se non altro per tutto il tempo che io "tengo sotto controllo" il mio delirio e non cedo al desiderio di trascinare l'altro in una disputa ordinata di linguaggio) [JAKOBSON: "Entretien", 466]. E' come se il protoattore, il pazzo e l'innamorato rifiutassero di atteggiarsi a eroi della parola e di asservirsi alla lingua adulta, alla lingua sociale suggerita dalla cattiva Eris: la personificazione dell'universale nevrosi.
2. Il "Werther" è puro discorso del soggetto amoroso: il monologo (idillico, angosciato) vi è rotto solo una volta, alla fine, poco prima del suicidio: Werther si reca da Carlotta, la quale gli chiede di non ritornare prima della vigilia di Natale; con questa richiesta essa vuol fargli capire che egli deve diradare le sue visite e che ormai la sua passione non sarà più accettata: subito dopo ha luogo una scenata [WERTHER: 132 e seguenti].
La scenata ha inizio su una differenza di tensione: Carlotta è imbarazzata, Werther è eccitato, e l'imbarazzo di Carlotta eccita Werther ancora di più: la scenata ha quindi un solo soggetto, diviso da un differenziale di energia (la scenata è "elettrica"). Perché lo squilibrio sia "messo in moto" (come un motore), perché la scenata acquisti la dovuta velocità, c'è bisogno di un'esca, che ciascuno dei due si sforza di attirare nel proprio campo; quest'esca è di solito un fatto (che l'uno sostiene e l'altro nega) o una decisione (che l'uno impone e l'altro rifiuta: nel "Werther", è diradare deliberatamente le visite). L'accordo è logicamente impossibile nella misura in cui ciò che è oggetto della discussione non è il fatto o la decisione, cioè qualcosa che è al di fuori del linguaggio, ma solamente ciò che precede: la scenata non ha oggetto o se lo ha lo perde quasi subito: essa è quel linguaggio il cui oggetto è perduto. La peculiarità della replica è di non avere alcun fine dimostrativo, persuasivo, ma solamente un'origine, e questa origine è sempre immediata: nella scenata, io combacio con ciò che è appena stato detto. Il soggetto (diviso e tuttavia comune) enuncia in distici: è la sticomitia, modello arcaico di tutte le scenate del mondo (quando stiamo facendo una scenata, noi parliamo adoperando delle "serie" di parole, delle parole "in fila"). Tuttavia, quale che sia la regolarità di questa meccanica, bisogna pure che il differenziale iniziale si ritrovi in ogni distico: ed ecco quindi che Carlotta spinge sempre la sua parte verso delle osservazioni generali ("E' proprio l'impossibilità di possedermi che le fa sembrare così irresistibile il suo desiderio") e che Werther riporta sempre la sua accidentalità alla contingenza, dea delle ferite d'amore ("Questa decisione deve avergliela suggerita Alberto") [ETIMOLOGIA: "stichos": linea, fila, serie]. Ogni singolo argomento (ogni singolo verso del distico) è scelto in modo da risultare simmetrico e per così dire uguale a suo fratello, anche se viene caricato di un supplemento di protesta: in altre parole si è "rincarata la dose". Questo rincarare la dose non è mai altro che il grido del Narciso: "E io? E io?"
3. La scenata è come la Frase: strutturalmente, non c'è vincolo che la possa fermare; nessuna costrizione intrinseca la esaurisce, giacché, come nella Frase, una volta trovato lo spunto (il fatto, la decisione), le espansioni sono rinnovabili all'infinito. Solo qualche circostanza estrinseca alla sua struttura può interrompere la scenata: la stanchezza di entrambi i partner (la stanchezza di uno solo non basta), il sopraggiungere di un estraneo (nel "Werther", è Alberto), o anche l'improvviso sovrapporsi del desiderio all'aggressività. Se si esclude la possibilità di approfittare di queste accidentalità, nessun partner ha il potere di contenere una scenata. Quali sarebbero i mezzi di cui potrei disporre? Il silenzio? Non farebbe che ravvivare il "volere" della scenata; io sono perciò portato a rispondere per lenire, per raddolcire. Il ragionamento? Nessun ragionamento è così puro da lasciare l'altro senza parola. L'analisi della scenata? Passare dalla scenata alla meta-scenata significa sempre e soltanto dare l'abbrivo a un'altra scenata. La fuga? E il segno di una defezione acquisita: la coppia è "già" disfatta: come l'amore, la scenata è sempre reciproca. La scenata è dunque interminabile, come il linguaggio: essa è il linguaggio stesso, colto nel suo infinito, in questa "adorazione perpetua" la quale fa s che, da quando esiste l'uomo, "non smetta di parlare".
(X... aveva di buono che non sfruttava mai la frase che gli era porta; in virtù di una specie di ascesi quanto mai rara, "egli non approfittava del linguaggio").
4. Nessuna scenata ha un senso, nessuna scenata si evolve verso un chiarimento o una trasformazione. La scenata non è né pratica né dialettica; è lussuosa, oziosa: inconseguente quanto un orgasmo contro natura: essa non lascia il segno, non sporca. Paradosso: in Sade, neanche la violenza lascia il segno; il corpo viene restaurato all'istante - per altre nuove dissipazioni: di continuo sfiancata, alterata, straziata, Justine appare sempre fresca, integra, riposata; così è anche per il partner: dalla scenata che s è appena svolta, esso rinasce come se niente fosse successo [Sade]. Per l'irrilevanza del suo tumulto, la scenata ricorda il vomitare dei Romani: mi ficco due dita in gola (mi eccito nel cercare il contrasto), vomito (un fiotto di cose che fanno male) e poi mi rimetto tranquillamente a mangiare.
5. Anche se irrilevante, la scenata lotta con l'irrilevanza. Non esiste partner d'una scenata che non sogni di avere l'"ultima parola". Essere l'ultimo a parlare, "concludere", significa dare un destino a tutto ciò che ci si è detti, significa dominare, padroneggiare, dispensare, fissare il senso; nello spazio della parola, colui che viene per ultimo occupa una posizione di predominio, tenuta, secondo un privilegio stabilito, da professori, presidenti, giudici, confessori: ogni contesa verbale ("màche" dei Sofisti, "disputatio" degli Scolastici) mira al possesso di quel posto; con l'ultima parola, io disoriento, "liquido" l'avversario, gli infliggo una (narcisistica) ferita mortale, lo riduco al silenzio, lo castro della sua parola. La scenata si svolge in vista di questo trionfo: non si tratta affatto di agire in modo che ogni replica concorra al trionfo d'una verità e contribuisca poco a poco a costruire questa verità, ma di fare in modo che l'"ultima" replica sia quella buona: l'ultima mossa è quella che conta. La scenata non assomiglia in niente a una partita a scacchi, ma piuttosto al gioco del furetto: tuttavia, questo gioco è qui rovesciato, poiché in questo caso vince chi riesce a tenere l'anello in mano nel preciso momento in cui il gioco si ferma. il furetto corre per tutta la durata della scenata e la vittoria va a chi riuscirà a catturare l'animaletto, il cui possesso assicurerà l'onnipotenza: l'ultima replica.
Nel "Werther", la scenata è coronata da un ricatto morale: "Mi conceda ancora una breve sosta, e tutto si metterà in ordine", dice Werther a Carlotta in tono querulo e minaccioso: e cioè: "Tra breve la sbarazzerò della mia presenza": frase intrisa di piacere, dato che essa è precisamente fantasmatizzata come un'ultima replica. Solo il suicidio può dotare il soggetto della scenata di un'ultima parola veramente perentoria: con l'annuncio del suicidio, Werther diventa automaticamente "il più forte dei due": da ciò risulta chiaro una volta di più che soltanto la morte può interrompere la Frase, la Scenata [WERTHER: 134].
Chi è un eroe? Colui che è in grado di replicare per ultimo. Si è mai visto un eroe che rinunci a parlare prima di morire? Rinunciare all'ultima replica (rifiutare la scenata) è quindi il gesto di una morale antieroica: quella di Abramo: egli va avanti nel sacrificio che gli è stato chiesto e, fino alla fine, non parla [KIERKEGAARD: "Timore e tremore"]. O anche, replica più sovversiva, poiché meno addobbata (il silenzio è sempre un bell'addobbo), l'ultima replica è rimpiazzata da un'elusione incongrua: è quello che fece il maestro zen il quale, per tutta risposta alla solenne domanda: "Che cos'è il Buddha?", si sfilò un sandalo, se lo mise sulla testa e se n'andò: impeccabile dissolvimento dell'ultima replica, padronanza della non-padronanza [Zen].
Lo scorticato.
SCORTICATO. Speciale sensibilità del soggetto amoroso, che lo rende vulnerabile, esposto anche alle ferite più lievi.
1. Sono "una massa di sostanza irritabile". Non ho pelle (tranne che per le carezze) [FREUD: "Al di là del Principio di piacere", 214-15]. Per parodiare il Socrate del "Fedro", parlando d'amore bisognerebbe dire lo Scorticato e non l'Impiumato.
La resistenza del legno varia a seconda del punto in cui si conficca il chiodo: il legno non è isotropo. Neanch'io lo sono; ho i miei "punti delicati". lo solo conosco la mappa di questi punti ed è in base ad essa che io guido me stesso, evitando, ricercando questo o quello, conformemente a dei comportamenti esteriormente enigmatici; vorrei che questa mappa di agopuntura morale venisse preventivamente distribuita ai miei nuovi conoscenti (che, del resto, potrebbero utilizzarla "anche" per farmi soffrire di più) [R. H,: conversazione].
2. Per trovare la vena giusta del legno (se non si è ebanisti), basta piantarvi un chiodo e vedere se si pianta bene. Per reperire i miei punti delicati, c'è uno strumento che assomiglia a un chiodo: è lo "scherzo", che io non sopporto. L'Immaginario è in effetti una cosa seria (niente a che vedere con la "serietà": l'innamorato non ha la coscienza a posto): il bambino che è nella luna (il "lunare") non è giocatore; allo stesso modo, anch'io sono refrattario al gioco: non solo il gioco rischia ogni momento di sfiorare uno dei miei punti delicati, ma inoltre tutto ciò che diverte il mori do mi sembra sinistro; non mi si può punzecchiare senza correre alcun rischio: mi offendo subito, sono suscettibile? - Direi piuttosto che sono tenero, perforabile, come la fibra di certi legni [WINNICOTT: "Fragment d'une analyse" (commentato da J.-L. B.)].
(Il soggetto che è sotto l'influenza dell'Immaginario non propende verso il gioco del significante: esso sogna poco, non pratica il "calembour". Se scrive, la sua scrittura è liscia come un'Immagine, essa vuole sempre restaurare una superficie leggibile delle parole: è anacronistica rispetto al testo moderno - il quale, viceversa, potrebbe definirsi mediante l'abolizione dell'Immaginario: niente più romanzo, niente più Immagine simulata: giacché l'Imitazione, la Rappresentazione, l'Analogia sono forme della coalescenza: antiquate).
Inesprimibile amore.
SCRIVERE. Illusioni, discussioni e "impasses" che nascono dal desiderio di "esprimere" il sentimento amoroso in una "creazione" (nella fattispecie di scrittura).
1. Due grandi miti ci hanno fatto credere che l'amore poteva, anzi "doveva", sublimarsi in creazione artistica: il mito socratico (amare serve a "generare una moltitudine di belli e magnifici discorsi") e il mito romantico (io produrrò un'opera immortale scrivendo la mia passione) [SIMPOSIO: 192 (e anche 32)].
E tuttavia, Werther, che prima disegnava molto e bene, è ora incapace di fare il ritratto di Carlotta (egli può a malapena abbozzare il suo profilo, che è precisamente ciò che di lei lo ha sedotto). "Ho perduto la sacra forza vivificatrice con la quale potevo creare universi intorno a me" [WERTHER: 110].
2. Brillava nel cielo la luna piena d'autunno,
E per tutta la notte
Ho passeggiato intorno allo stagno. [HAIKU: di Bash“]
Non c'è forma indiretta più efficace, per esprimere la tristezza, di quel "per tutta la notte". E se mi provassi anch'io?
In questo mattino d'estate, sereno sul golfo,
Sono uscito
Ed ho colto un fiore di glicine. oppure:
In questo mattino d'estate, sereno sul golfo, Sono rimasto a lungo al mio tavolo, Senza far niente. o anche:
In questo mattino d'estate, sereno sul golfo, Sono rimasto immobile A pensare all'assente.
Da una parte è dire niente, dall'altra è dire troppo: impossibile arrivare a una via di mezzo. Il mio desiderio di espressione oscilla tra l'haiku molto opaco, che riassume una situazione enorme, e una caterva di banalità. lo sono troppo grande e al tempo stesso troppo debole per la scrittura: io "le sto vicino", ma essa è sempre avara, violenta, indifferente all'io infantile che la sollecita. Certo, l'amore si lega al mio linguaggio (che lo alimenta), ma esso non può "insediarsi" nella mia scrittura.
3. Io non posso "scrivermi". Qual è l'io che lo potrebbe fare? Se questo io penetrasse nella scrittura, la scrittura lo appiattirebbe, lo vanificherebbe; si verificherebbe una progressiva degradazione nella quale sarebbe poco a poco trascinata anche l'immagine dell'altro (scrivere su qualcosa, significa annullarlo), un disgusto la cui conclusione non potrebbe essere che: "a che pro"? Ciò che blocca la scrittura amorosa è l'illusione di espressività: come scrittore, o considerandomi tale, continuo a sbagliarmi circa gli "effetti" del linguaggio: io non so che la parola "sofferenza" non esprime nessuna sofferenza e che, di conseguenza, adoperandola, non solo non comunico niente, ma per di più riesco a diventare fastidioso (per non dire ridicolo). Bisognerebbe che qualcuno m'insegnasse che non si può scrivere senza tradire la propria "sincerità" (sempre il mito di Orfeo: non voltarsi indietro). Quello che la scrittura richiede e che nessun innamorato può concederle senza subire una perdita, è di sacrificare "un po'" del suo Immaginario, e di garantire così attraverso la sua lingua l'acquisizione di un po' di reale [FRAN€OIS WAHL: "Nessuno può elevarsi alla "sua" lingua senza sacrificarvi un po' del proprio immaginario e in questo modo, nella lingua, qualcosa opera sulla base del reale" ("Chute", 7)]. Nel migliore dei casi, tutto quello che potrò produrre è una scrittura dell'Immaginario; e per ottenere questo, dovrei rinunciare all'Immaginario della scrittura - lasciarmi lievitare dalla mia lingua, subire le ingiustizie (le ingiurie) che essa sicuramente infliggerà alla doppia Immagine dell'innamorato e del suo altro.
Il linguaggio dell'Immaginario non sarebbe dunque altro che l'utopia del linguaggio; linguaggio completamente originale, paradisiaco, linguaggio di Adamo, linguaggio "naturale, esente da deformazioni o illusioni, limpido specchio dei nostri sensi, linguaggio sensuale ("die sensualische Sprache")": "Nel linguaggio sensuale, tutti gli animi conversano fra loro senza aver bisogno di nessun altro linguaggio, poiché esso è il linguaggio della natura" [JACOB BOEHME: citato da N. Brown, 95].
4. Voler scrivere l'amore, significa affrontare il "guazzabuglio" del linguaggio: quella zona confusionale in cui il linguaggio è insieme "troppo" e "troppo poco", eccessivo (per l'illimitata espansione dell'io, per la sommersione emotiva) e povero (per i codici entro i quali viene costretto e appiattito dall'amore). Di fronte alla morte del figlio-bambino, per poter scrivere (anche solo dei brandelli di scrittura), Mallarmè si sottomette alla divisione parentale [BOUCOURECHLIEV: "Thrène", su un testo di Mallarmè ("Tombeau pour Anatole", pubblicato da J.-P. Richard)]:
Madre, piangi
Io penso
Ma la relazione amorosa ha fatto di me un soggetto atopico, indiviso: io sono il mio proprio bambino: io sono al tempo stesso padre e madre (di me, dell'altro): come farò a dividere il lavoro?
5. Sapere che non si scrive per l'altro, sapere che le cose che sto per scrivere non mi faranno mai amare da chi io amo, sapere che la scrittura non compensa niente, non sublima niente, che è precisamente là "dove tu non sei": è l'inizio della scrittura.
L'incertezza dei segni.
SEGNI. Sia che voglia dar prova del suo amore, sia che si sforzi di decifrare se l'altro lo ama, il soggetto amoroso non ha a sua disposizione nessun sistema di segni sicuri.
1. Io cerco dei segni, ma di che cosa? Qual è l'oggetto della mia lettura? E': sono amato (non lo sono più, lo sono ancora)? E' il mio futuro che cerco di leggere decifrando in quello che c'è scritto sopra, con un procedimento affine alla paleografia e alla mantica, l'annuncio di ciò che sta per accadermi? Non sarà invece che resto sospeso alla domanda (di cui aspetto instancabilmente dal volto dell'altro la risposta): "che cosa valgo io"? [BALZAC: "Essa era buona conoscitrice e sapeva che in un certo senso il carattere amoroso si rivela nelle piccole cose. Una donna istruita può leggere il suo futuro in un semplice gesto, proprio come Cuvier sapeva dire vedendo un pezzetto di zampa: questo appartiene a un animale della tale dimensione, eccetera" ("Les secrets de la princesse de Cadignan")]
2. La potenza dell'Immaginario è immediata: io non cerco l'Immagine, essa mi viene da sola, all'improvviso. Solo dopo io ci ritorno sopra e solo dopo cerco di decifrare, interminabilmente, ora il segno favorevole, ora quello sfavorevole: "Che voglion dire queste quattro parole: "No, avete tutta la mia stima"? Si può immaginare espressione più fredda? E' forse un vero ritorno alla nostra vecchia intimità? O è soltanto il mezzo per tagliar corto a una spiegazione che le fa pena?" [STENDHAL: "Armance", 51] Come l'Octave di Stendhal, io non so mai che cosa è "normale"; privato (lo so) di qualsiasi ragione, per decidere come devo interpretare un segno io mi affido al senso comune; ma il senso comune mi fornisce solo delle evidenze contraddittorie: "Non mi sembra che uscire in piena notte e tornare a casa dopo quattro ore sia poi così normale!", "Ti sbagli; uscire a fare un giretto quando non si riesce a dormire è normalissimo", eccetera. A colui che vuole la verità non si risponde mai altro che con delle immagini forti e vive, ma che diventano ambigue, evanescenti, non appena esso cerca di trasformarle in segni: come nella mantica, è l'interpellante amoroso che deve creare la propria verità.
3. Freud alla sua fidanzata: "Mi fa soffrire l'essere impotente a testimoniarti il mio amore" [FREUD: "Lettere 1873-1939", 23]. E Gide: "Tutto nel suo comportamento pareva dire: dato che non mi ama più, non m'importa più di niente. Orbene, io l'amavo ancora, e anzi non l'avevo mai amata tanto; ma non mi era più possibile dargliene la prova. E questa era la cosa più terribile" [GIDE: "Journal", 1939, 11].
I segni non sono delle prove, dal momento che chiunque può produrne di falsi o di ambigui. Ecco quindi che, paradossalmente, ripiego sull'onnipotenza del linguaggio: poiché niente rende sicuro il linguaggio, io farò del linguaggio la sola e ultima certezza: "non crederò più all'interpretazione". Dal mio altro, accoglierò ogni parola come un segno di verità; e, quando a parlare sarò io, non metterò in dubbio che esso prenda per vero ciò che dirò. Di qui, l'importanza delle "dichiarazioni"; io voglio incessantemente carpire all'altro la formula del suo sentimento e, da parte mia, incessantemente gli dico che lo amo: niente è lasciato alla suggestione, alla divinazione: perché una cosa sia saputa, bisogna che sia detta; ma anche, appena detta, essa è, molto provvisoriamente, vera.
"Tutti sistemati".
SISTEMATI. Il soggetto amoroso vede che intorno a lui tutti sono "sistemati", e gli sembra che ognuno disponga di un piccolo sistema pratico e affettivo di vincoli contrattuali da cui si sente escluso; egli ne ricava un ambiguo sentimento d'invidia e di derisione.
1. Werther vuole "sistemarsi": "Essere... suo marito! Oh, Dio che mi creasti, se tu mi avessi concesso questa beatitudine, la mia vita intera sarebbe un perpetuo renderti grazia, eccetera": Werther vuole un posto che è già occupato: quello di Alberto [Werther]. Egli vuole far parte di un sistema, poiché il sistema è un insieme in cui tutti hanno il loro posto (anche se questo non è un buon posto); gli sposi, gli amanti, i trii, gli stessi emarginati (drogati, eccetera), che sono a loro agio nella loro emarginazione: tutti, tranne me [D. F: conversazione]. (Gioco: c'erano tante sedie quanti erano i bambini: ne mancava solo una; mentre i bambini giravano in tondo, una signora suonava il piano; quando essa si fermava, tutti si precipitavano a occupare una sedia; tutti, tranne il meno furbo, il meno brutale o il meno fortunato, il quale restava in piedi, come un cretino, "di troppo":
l'innamorato).
2. Che cosa ho da invidiare ai "sistemati" che mi circondano? Da cosa, vedendoli, sono escluso? Non certo da un "sogno", da un "idillio", da una "unione": le critiche dei sistemati a proposito del loro sistema sono troppe, e il sogno di unione forma un'altra figura. No, ciò che invidio nel sistema è una cosa assai modesta (e tanto più paradossale in quanto essa non ha risonanza): molto semplicemente, io voglio, io desidero una struttura (una volta, questa parola faceva venire la schiuma alla bocca: in essa si vedeva il colmo dell'astrazione). Certo, la struttura non dà la felicità; ma ogni struttura è "abitabile", e questa è forse la sua migliore definizione. Io posso benissimo abitare ciò che non mi rende felice; posso lamentarmi e al tempo stesso continuare a restare dove sono; posso rifiutare il senso della struttura che subisco e accettare senza troppo soffrire certi suoi cascami di tutti i giorni (abitudini, minuti piaceri, piccole sicurezze, cose sopportabili, tensioni passeggere); e di questa continuità del sistema (che lo rende propriamente abitabile), io posso avere il gusto perverso: Daniele Stilita viveva benissimo sulla sua colonna: egli era riuscito a farne (nonostante l'evidente difficoltà) una struttura.
Volere sistemarsi, significa volere procurarsi, perpetuamente, un ascolto accondiscendente. In quanto sostegno, la struttura è separata dal desiderio: ciò che io voglio è semplicemente essere "mantenuto", così come lo è un (o una) prostituto(a) di rango superiore.
3. La struttura dell'altro (l'altro ha sempre la sua struttura di vita, di cui io non faccio parte) ha un che di ridicolo: vedo l'altro ostinarsi a vivere secondo le stesse routines: quando è altrove, egli mi appare immutabile, "eterno" (si può concepire l'eternità come ridicola).
Ogni volta, che, inopinatamente, vedevo l'altro nella sua struttura ("sistemato"), restavo affascinato: credevo di stare contemplando un'"essenza": quella della coniugalità. Quando, dall'alto, il treno passa attraverso le grandi città dell'Olanda, lo sguardo del viaggiatore può penetrare negli interni senza tendine, e bene illuminati, in cui ognuno sembra vivere la sua intimità incurante del fatto che migliaia di viaggiatori lo stanno vedendo: in quel caso ci è dato di vedere un'essenza di Famiglia; e quando, ad Amburgo, si passeggia lungo le vetrine dietro alle quali delle donne fumano e aspettano, ciò che si vede è l'essenza della Prostituzione.
(Forza delle strutture: ecco forse ciò che in esse è desiderato).
"Nessun prete lo accompagnava".
SOLO. La figura non fa riferimento alla solitudine umana dei soggetto amoroso, ma alla sua solitudine "filosofica"; infatti, non esiste oggi sistema superiore di pensiero (di discorso) che avalli l'amore-passione.
1. Come si può chiamare quel soggetto che, a dispetto di tutto, persevera in un "errore", come se per "sbagliarsi" disponesse dell'eternità? - Un "recidivo". Sia che passi da un amore all'altro, sia che resti all'interno di uno stesso amore, io non finisco mai di "ricadere" in una dottrina interiore che nessuno è disposto a condividere. Quando, di notte, Werther viene trasportato nell'angolo del cimitero che guarda verso la campagna, vicino ai due tigli (l'albero del profumo schietto, del ricordo e del sopore), "nessun prete lo accompagnava" (è l'ultima frase del romanzo). In Werther, la religione non condanna soltanto il suicida, ma, forse, anche l'innamorato, l'utopista, il declassato, l'uomo "legato" solo a se stesso [WERTHER, 160].
2. Nel "Simposio", Eurissimaco constata ironicamente di aver letto da qualche parte un panegirico del sale, ma niente su Eros; ed è appunto perché Eros è censurato come argomento di conversazione, che la piccola società del "Simposio" decide di parlarne nella sua tavola rotonda: si direbbe che siano degli intellettuali dei giorni nostri che accettano di discutere controcorrente dell'Amore e non di politica, del Desiderio (amoroso) e non del Bisogno (sociale) [SIMPOSIO:
159].
L'eccentricità della conversazione deriva dal fatto che essa è sistematica: i convitati non cercano di fornire dei dati sicuri, di dare il racconto di loro esperienze, ma di formulare una dottrina: per ognuno di loro, Eros è un sistema. Tuttavia, non esiste oggi un sistema dell'amore, e i pochi sistemi circolanti ad uso dell'innamorato contemporaneo non gli danno nessuna collocazione (o, se gliela danno, questa è svalutata); esso ha quindi un bel rivolgersi a questo o quel linguaggio acquisito:
nessuno gli dà retta, e se uno gli presta attenzione, è solo per distoglierlo da ciò che ama. Il discorso cristiano, se ancora esiste, lo esorta a reprimere e a sublimare. Il discorso psicoanalitico (il quale, se non altro, descrive il suo stato), lo invita a cancellare il suo Immaginario. Il discorso marxista, dal canto suo, non dice niente. Se mi prende la voglia di bussare a queste porte per far riconoscere da "qualcuno" (non importa da chi) la mia "follia" (la mia "verità"), subito, una dopo l'altra, queste porte si chiudono; e, quando tutte sono chiuse, è come se intorno a me ci fosse un muro di linguaggio che mi seppellisce, mi opprime e mi respinge - a meno che io non mi mostri "resipiscente" e accetti di "sbarazzarmi di X...".
("Ho fatto un brutto sogno: c'era una persona amata che si sentiva male per strada e che angosciosamente chiedeva una medicina; ma, nonostante io mi dessi da fare, la gente passava e gliela negava con durezza; l'angoscia di questa persona prendeva un tono isterico, che io le rimproveravo. Dopo un po' ho capito che quella persona ero io (di chi sognare, sennò?): ero io che mi appellavo a tutti i linguaggi (i sistemi) che passavano e da questi venivo rifiutato: reclamavo chiassosamente, "indecentemente", una filosofia che "mi comprendesse" - "mi accogliesse").
3. La solitudine dell'innamorato non è la solitudine di una persona (l'amore si confida, parla, si racconta): è una solitudine di sistema: io sono solo a farne un sistema (forse perché sono continuamente ricacciato nel solipsismo del mio discorso). Difficile paradosso: io posso essere inteso da tutti (l'amore deriva dai libri, il suo è idioma corrente), ma al tempo stesso posso essere ascoltato (accolto "profeticamente") solo da chi ha "esattamente e adesso" il mio stesso linguaggio. L'innamorato, dice Alcibiade, è come un uomo che è stato morso da una vipera: "Dicono che chi l'ha subito non sia disposto a raccontare com'è stato se non ai compagni di sventura perché essi soli comprendono e possono scusare ciò che egli ha osato dire e fare sotto l'azione di quella sofferenza" [SIMPOSIO: 207]: sparuta pattuglia dei "Trapassati famelici", dei Suicidi per amore (quante volte non si suicida un innamorato?), che nessun grande linguaggio (se non, a tratti, quello del Romanzo passato) sostiene [Reysbroeck].
4. Come l'antico mistico, mal tollerato dalla società ecclesiale nella quale viveva, io, soggetto amoroso, non affronto né tantomeno contesto: semplicemente, non dialogo: non dialogo con gli apparati di potere, di pensiero, di scienza, di gestione, eccetera; io non sono necessariamente "spoliticizzato": la mia devianza sta nel fatto di non essere "eccitato". In cambio, la società m'infligge un'insolita punizione, a cielo aperto: nessuna censura, nessuna proibizione: io sono solamente sospeso "a humanis", allontanato dalle cose umane con un tacito decreto d'insignificanza: io non faccio parte di nessun repertorio, nessun asilo mi accoglie.
5. Perché sono solo:
Tutti hanno d'avanzo sol io sono come chi tutto ha abbandonato. Oh, il mio cuore di stolto quanto è confuso!
L'uomo comune è così brillante sol io sono tutto ottenebrato, l'uomo comune in tutto s'intromette, sol io di tutto mi disinteresso, agitato sono come il mare, sballottato sono come chi non ha punto fermo. Tutti gli uomini sono affaccendati sol io sono ebete come villico. Solo io mi differenzio dagli altri e tengo in gran pregio la madre che nutre [TAO: "Tao T‚ Ching", 20, 78].
"M'inabisso, soccombo...".
SPROFONDARE. Crisi di avvilimento che coglie il soggetto amoroso per disperazione o per appagamento.
1. A volte, sia per dolore, sia per felicità, ho voglia di "sprofondare" [WERTHER: "Mi do per vinto davanti alla meravigliosa potenza di queste immagini" (9-10), "La vedrò! [...]. Tutto, tutto scompare in questa attesa" (49)].
Stamattina (in campagna), il cielo è grigio e l'aria è mite. Sto soffrendo (per non so quale incidente). Un'idea di suicidio, scevra di qualsiasi risentimento (non ricatto nessuno), mi si presenta; è un'idea sbiadita; essa non scompagina niente (non "spezza" niente), si armonizza con il colore (con il silenzio, l'abbandono) di questa mattinata.
Un altro giorno, sotto la pioggia, stiamo aspettando il battello sulla riva d'un lago; la stessa crisi di avvilimento, ma questa volta determinata dalla felicità, mi coglie. Così, certe volte, l'infelicità o la gioia calano su di me senza che ciò provochi alcun fermento: non c'è più alcun pathos: sono dissolto, non disgregato; cado, affondo, mi squaglio. Questo pensiero sfiorato, tentato, appena toccato (così come si tocca l'acqua col piede) può ritornare. Esso non ha niente di solenne. La "dolcezza" è esattamente questo.
2. La crisi di inabissamento può scaturire da un dolore, ma anche da una fusione: moriamo insieme per il fatto di amarci[TRISTANO: "Nel baratro benedetto dell'etere infinito, nella tua anima sublime, immensa immensità, io mi tuffo e sprofondo, oh voluttà!" (Morte d'Isotta)]: morte aperta, per diluizione nell'etere, morte chiusa della tomba comune [BAUDELAIRE: "Un soir fait de rose ci de bleu mystique, / Nous ‚changerons un ‚clair unique, / Comme un long sanglot, tout charg‚ d'adieux" ("La morte degli amanti")].
L'abisso è un momento d'ipnosi. In essa agisce una suggestione che mi ordina di svanire senza uccidermi. Di qui, forse, nasce la soavità della rinuncia: io non vi ho alcuna responsabilità, l'atto (di morire) non è nei miei doveri: io mi affido, mi consegno (a chi? a Dio, alla Natura, a tutto, tranne che all'altro).
3. Quando dunque mi capita di arrendermi, significa che per me non c'è più posto da nessuna parte, neanche nella morte. L'immagine dell'altro - a cui aderivo e della quale vivevo - non è più; talvolta è una catastrofe (futile) che sembra allontanarla per sempre, talaltra è una felicità eccessiva che me la fa raggiungere; in ogni modo, separato o dissolto, non sono raccolto da nessuna parte; davanti, né io, né te, né morte, più niente "a cui parlare".
(Curiosamente, è proprio nell'atto estremo dell'Immaginario amoroso - annullarsi per essere stato espulso dall'immagine o esservisi confuso - che avviene una caduta di questo Immaginario: il breve attimo d'un vacillamento e io perdo la mia struttura d'amoroso: è un lutto fattizio, senza travaglio: qualcosa come un non-luogo).
4. Innamorato della morte? Per una metà è dire un po' troppo: "half in love with easeful death" (Keats): la morte affrancata dal morire. Ho allora questa visione: una dolce emorragia il cui flusso non scenderebbe dal mio corpo, una consunzione "quasi" immediata, calcolata in modo che io abbia il tempo di de-soffrire senza essere ancora scomparso. M'installo fugacemente in una falsa idea della morte (falsa come una chiave falsificata): penso la morte "accanto" a me: la penso secondo una logica impensata, mi astraggo dalla coppia fatale che unisce la morte e la vita contrapponendole.
5. L'abisso non è che un avvilimento opportuno? [RUYSBROECK: "... il riposo dell'abisso" (40)] Non mi sarebbe difficile vedere in essa non già un riposo, ma un'"emozione" [SARTRE: sullo svenimento e la collera come fughe, confronta "L'immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni"]. Dissimulo la mia perdita dietro una fuga; mi diluisco, mi dileguo per sfuggire a questa compattezza, a questo ingorgo che fa di me un soggetto "responsabile": esco: è l'estasi.
Dopo una difficile serata, in rue du Cherche-Midi, X... mi spiega molto bene, con una voce netta, con frasi compiute, lontane da ogni parvenza d'indicibilità, che certe volte egli desiderava dileguarsi; solo si rammaricava di non poter mai scomparire a volontà.
Le sue parole dicevano che allora egli voleva soccombere alla propria debolezza, che non intendeva resistere ai colpi che il mondo gli dà; ma, al tempo stesso, egli sostituiva a quella forza che si andava man man affievolendo un'altra forza, un'altra affermazione: "ho verso e contro tutto un atteggiamento che nega il coraggio e, dunque, che nega la morale": questo è ciò che diceva la voce di X...
Idee di suicidio.
SUICIDIO. Nella sfera amorosa, il desiderio di suicidio è frequente: basta un niente per destarlo.
1. Al benché minimo dolore, io ho voglia di suicidarmi: quando lo si medita, il suicidio per amore non ha problemi di motivazione, non fa preferenze. L'idea se n'è alleggerita: è un'idea facile, semplice, una sorta di algebra sbrigativa di cui ho bisogno in quel preciso momento del mio discorso; io non le do alcuna consistenza materiale, non penso all'opprimente scenario, alle triviali conseguenze della morte: so a malapena "come" mi suiciderò. Quello che cupamente vagheggio è una frase, soltanto una frase, ma dalla quale un niente basta a distogliermi: "E l'uomo che, per tre quarti d'ora, non aveva pensato ad altro che a porre fine alla propria vita, era già salito su una sedia per cercare nella sua biblioteca il catalogo degli specchi di Saint-Gobain" [STENDHAL: "Armance", 23].
2. Talora, vivamente illuminato da qualche futile circostanza e travolto dal contraccolpo che essa provoca, io mi vedo improvvisamente intrappolato, immobilizzato in una situazione (un sito) impossibile: non vi sono che due vie d'uscita ("o questo, o quello") ed entrambe sono sbarrate: sia di qui che di là, io non posso far altro che tacere. Ed ecco allora che l'idea di suicidio mi salva, poiché "io la posso parlare" (e non me ne privo): rinasco e coloro quell'idea con i colori della vita, sia che la rivolga aggressivamente contro l'oggetto amato (ricatto morale ben noto), sia che mi unisca fantasmaticamente ad esso nella morte. ("Eppure io nella tomba mi vorrei adagiare, / e ad una morta amica dolcemente accostare") [HEINE: "Intermezzo lirico", 31, 125].
3. Dopo averne discusso, gli scienziati hanno concluso che gli animali non si suicidano; tutt'al più, alcuni - cavalli, cani - hanno il desiderio di mutilarsi. E' tuttavia parlando di cavalli che Werther mette in rilievo la "nobiltà" che contraddistingue ogni suicidio: "Si racconta di una nobile razza di cavalli, i quali, se vengono aizzati ed incitati senza pietà, istintivamente si strappano coi denti una vena per poter riprendere fiato. Lo stesso succede spesso anche a me, vorrei aprirmi una vena per assicurarmi l'eterna libertà" [WERTHER: 91].
Sprovvedutezza di Gide: "Ho appena finito di rileggere il "Werther" non senza provare irritazione. Avevo dimenticato che ci metteva tanto tempo a morire [il che è assolutamente falso]. La cosa non finisce più e alla lunga si ha voglia di dargli una spinta. In quattro o cinque occasioni, il suo ultimo sospiro, che si spera sia davvero l'ultimo, è seguito da un altro più ultimo ancora [...] gli addii tirati per le lunghe hanno il potere di esasperarmi" [GIDE: "Journal", 1940, 66]. Gide non sa che, nel romanzo d'amore, l'eroe è "reale" (perché fatto d'una sostanza totalmente proiettiva nella quale ogni soggetto amoroso si concentra) e che quello che egli vuole è la morte d'un uomo, è la "mia" morte. Tale.
TALE. Continuamente invitato a definire l'oggetto amato, e soffrendo a causa della problematicità di questa definizione, il soggetto amoroso sogna una saggezza che gli farebbe accettare l'altro così com'è, esente da ogni aggettivo.
1. Pochezza di spirito: dell'altro io non ammetto niente, non capisco niente. Tutto ciò che dell'altro non mi concerne, mi sembra estraneo, ostile; io provo allora nei suoi confronti un misto di paura e di severità: temo e disapprovo l'essere amato, non appena esso non "collima" più con la sua immagine. lo sono solamente "liberale": in un certo senso, un dogmatico dolente.
(Industriosa, instancabile, la macchina del linguaggio che ronza dentro di me - dato che funziona bene - fabbrica la sua catena d'aggettivi: io ricopro l'altro di aggettivi, elenco le sue qualità, la sua "qualitas").
2. Attraverso questi giudizi mutevoli, versatili, perdura un'impressione penosa: io vedo che l'altro persevera in se stesso; questa perseveranza contro cui cozzo, è lui stesso. lo impazzisco nel constatare che non posso "mutarlo": qualunque cosa io faccia, quale che sia il mio dispendio di energie, egli non rinuncia mai al suo proprio sistema. Io avverto contraddittoriamente l'altro come una divinità capricciosa che cambia continuamente umore nei miei confronti, e come una cosa greve, "inveterata" (questa cosa invecchierà così com'è, ed è proprio questo che mi fa soffrire) [ETIMOLOGIA: "inveterare", invecchiare]. O anche, vedo l'altro "nei suoi limiti". O infine, m'interrogo: c'è un punto, uno solo, a proposito del quale l'altro potrebbe "sorprendermi"? E così, curiosamente, io avverto la "libertà" dell'altro a "essere se stesso" come una pusillanime caparbietà. Io vedo s l'altro come "tale" - vedo il "tale" dell'altro - ma, nella sfera del sentimento amoroso, questo "tale" mi arreca dolore perché ci separa e perché, una volta di più, mi rifiuto di riconoscere la divisione della nostra immagine, l'alterità dell'altro.
3. Questo primo "tale" non è quello buono dato che io infilo di nascosto, quasi a farne un focolaio interno di corruzione, un aggettivo: l'altro è "ostinato": egli ha ancora qualcosa della "qualitas". Bisogna che io mi liberi da ogni desiderio di fare bilanci; bisogna che ai miei occhi l'altro risulti spoglio di qualsiasi attributo; quanto più lo designerò, tanto meno lo parlerò: io sarò simile all'"infans" che per indicare qualcosa s'accontenta di una parola vuota: "Ta, Da, Tat" (dice il sanscrito). L'innamorato dirà invece, "Tale: tu sei così, esattamente così" [ZEN: Watts, 205 e 85]. Designandoti come "tale", io ti sottraggo alla morte della classificazione, ti strappo all'Altro, al linguaggio, ti voglio immortale. "Così com'è", l'essere amato non riceve più nessun significato, né da me né dal sistema nel quale è inserito; egli è solo più un testo senza contesto; io non ho più bisogno né desiderio di decifrarlo; in un certo senso, egli è diventato il supplemento "della sua propria collocazione". Se egli fosse soltanto una collocazione, un giorno o l'altro potrei benissimo rimpiazzarlo, ma il supplemento della sua collocazione, il suo "tale", non posso sostituirlo con niente.
(Nei ristoranti, appena terminato l'ultimo servizio, i tavoli vengono nuovamente preparati per il giorno dopo: stessa tovaglia, stesso coperto, stessa saliera: è il mondo della collocazione, del rimpiazzamento: là non c'è "tale") [J.-L. B,: conversazione].
4. Io accedo allora (fugacemente) a un linguaggio senza aggettivi. Amo l'altro non per le sue qualità (contabilizzate), ma per la sua esistenza; con un impulso che possiamo tranquillamente dire mistico, io amo non ciò che è, ma: "in quanto è". Il linguaggio di cui il soggetto amoroso si serve (contro tutti i linguaggi aperti che ci sono al mondo) è perciò un linguaggio "ottuso": ogni giudizio è sospeso, il terrore del significato abolito. Ciò che io liquido attraverso quell'impulso è la categoria stessa del merito: come il mistico si rende indifferente alla santità (la quale sarebbe poi ancora un attributo), così, accedendo al "tale" dell'altro, io non contrappongo più l'oblazione al desiderio: infatti, mi sembra di poter ottenere da me stesso di desiderare di meno l'altro e di goderne di più.
(Il nemico giurato del "tale", è il Pettegolezzo, fabbrica immonda di aggettivi. E ciò che più assomiglia all'essere amato "così com'è", è il Testo, sul quale non posso apporre alcun aggettivo: di cui godo senza doverlo decifrare).
5. O anche: "tale", non è per caso l'amico? Colui che si può allontanare un po' senza che la sua immagine si guasti? [NIETZSCHE: "Amicizia stellare", in "La gaia scienza", aforisma 279]. "Eravamo amici e ci siamo diventati estranei. Ma è giusto così e non vogliamo dissimularci e mettere in ombra questo come se dovessimo vergognarcene. Noi siamo due navi, ognuna delle quali ha la sua meta e la sua strada; possiamo benissimo incrociarci e celebrare una festa tra di noi, come abbiamo fatto: allora i due bravi vascelli se ne stavano così placidamente all'ancora in uno stesso porto e sotto uno stesso sole, che avevano tutta l'aria di essere già alla meta, una meta che era stata la stessa per tutti e due. Ma proprio allora l'onnipossente violenza del nostro compito ci spinse di nuovo l'uno lontano dall'altro, in diversi mari e zone di sole e forse non ci rivedremo mai - forse potrà anche darsi che ci si veda, ma senza riconoscerci: i diversi mari e soli ci hanno mutati!" Tenerezza.
TENEREZZA. Fruizione, ma anche inquieta valutazione dei gesti di tenerezza dell'oggetto amato, nella misura in cui il soggetto comprende che egli non ne ha il privilegio assoluto.
1. Non è solo bisogno di tenerezza, ma anche bisogno di essere tenero con l'altro: noi ci rinchiudiamo in una bontà vicendevole, ci maternizziamo reciprocamente; risaliamo alla radice di ogni relazione, là dove bisogno e desiderio si congiungono. Il gesto tenero dice: chiedimi qualunque cosa che possa sopire il tuo corpo, però non dimenticare che io ti desidero un po', leggermente, senza voler "immediatamente" ghermire alcunché [MUSIL: "Il corpo di suo fratello si stringeva così teneramente a lei, e con tale bontà, che essa si sentiva riposare in lui come lui in lei; più niente in lei si muoveva, neanche il suo fulgido desiderio" ("L'uomo senza qualità")].
Il piacere sessuale non è metonimico: una volta appagato, esso è troncato: era la Festa, sempre inaccessibile, che si esplicava attraverso la temporanea, ma controllata, rimozione della proibizione. Al contrario, la tenerezza non è che una metonimia infinita, insaziabile; il gesto, l'episodio di tenerezza (il delizioso affiatamento d'una serata) non può interrompersi che con strazio: tutto sembra essere messo nuovamente in causa: ritorno del ritmo - "vritti" - allontanamento del "nirvana" [ZEN: per il Buddhista, "vritti" è la successione di onde, il processo ciclico. "Vritti" è doloroso e soltanto il "nirvana" può porvi fine].
2. Se ricevo il gesto di tenerezza nella sfera della domanda, io sono appagato: quel gesto non è forse come un miracoloso condensato della presenza? Ma se invece lo ricevo (e ciò può essere simultaneo) nella sfera del desiderio, io sono inquieto: la tenerezza, a buon diritto, non è esclusiva; io devo perciò ammettere che ciò che ricevo, anche altri lo ricevono (talvolta mi è anzi dato di vederlo). Dove ti dimostri tenero, là individui il tuo plurale.
("L... vedeva con stupore A... fare alla cameriera di quel ristorante bavarese, mentre le ordinava uno
"schnitzel", gli stessi occhi dolci, indirizzarle lo stesso sguardo angelico che tanto lo commuovevano quando quelle lusinghe erano rivolte a lui").
Unione.
UNIONE. Sogno di unione totale con l'essere amato.
1. Definizione dell'unione totale: è l'"unico e semplice piacere"[ ARISTOTELE: "Dio usufruisce sempre d'un unico e semplice piacere" (Brown, 122)], "la gioia senza neo e senza mescolanza, la perfezione dei sogni, il fine ultimo di ogni speranza" [IBN HAZM: "la gioia senza neo, eccetera" (Pierret, 77)], "la magnificenza divina" [NOVALIS: "la magnificenza divina" (ibid., 177)], essa è, il riposo indiviso. O anche: l'appagamento della possessione; io sogno che noi godiamo l'uno dell'altro secondo un'appropriazione assoluta [MUSIL: "E in quel riposo, trovandosi ad essere uno e senza divisione, senza divisione anche all'interno di s‚, al punto che la loro intelligenza pareva smarrita la loro memoria vuota, la loro volontà inutile, essa stava in piedi in quel riposo come dinanzi a un sorgere dei sole e si perdeva interamente in lui, essa e le sue particolarità terrestri" ("L'uomo senza qualità")]; è l'unione fruitiva, la "fruizione" dell'amore (la parola è pedante? [LITTR: Montaigne parla della fruizione della vita. E Corneille: "Et sans s'immoler chaque jour / On ne conserve point l'union fruitive / Que donne le parfait amour"]. Con la sua fricazione iniziale e il suo scorrere di vocali acute, il godimento di cui essa parla s'accresce di una voluttà orale; dicendola, io godo di questa unione "nella bocca").
2. "Nella sua metà, la mia metà riunisco". Io esco fuori da un film (che non è granché). Un personaggio vi evoca Platone e l'androgino [RONSARD: "Les amours", 127]. Parrebbe che tutti conoscano il trucco delle due metà che cercano di riunirsi - a cui s'aggiunge ora la storia dell'uovo, della lamella che s'invola e dell'"homelette" (il desiderio, è di mancare di ciò che si ha - e di dare ciò che non si ha: questione di supplemento, non di complemento) [LACAN: "Il seminario", 11. E anche: "La psicanalisi ricerca l'organo mancante (la libido) e non la metà mancante" (Peccato!)].
(Ho passato un intero pomeriggio a voler disegnare, a voler raffigurare l'androgino di Aristofane: è di aspetto tondeggiante, con quattro mani, quattro gambe, quattro orecchie, una sola testa, un solo collo. Come sono disposte le due metà? Schiena contro schiena o faccia a faccia? Direi ventre a ventre, dato che è proprio lì che Apollo ricucirà, arricciando la pelle e confezionando un ombelico: i loro volti sono però rivolti in senso opposto, dal momento che Apollo dovrà torcerli dalla parte del taglio, e gli organi genitali sono nella parte esterna. lo mi ostino ma, o perché pessimo disegnatore o perché mediocre utopista, non vengo a capo di niente. Raffigurazione di quell'"antica unità il cui desiderio e la cui ricerca costituiscono quello che noi chiamiamo amore" [SIMPOSIO: 173 e seguenti. Citazione: 177], l'androgino non è per me raffigurabile; o, almeno, ciò che io riesco a delineare è soltanto un corpo mostruoso, grottesco, improbabile. Dal sogno, esce una figura-farsa: proprio come dalla coppia "folle" nasce l'osceno della "vita a due" (vita natural durante, l'uno cucina per l'altro).
3. Fedro cerca l'immagine perfetta della coppia: Orfeo ed Euridice? Non c'è abbastanza differenza: Orfeo, infiacchito, non era nient'altro che una donna, e gli dèi lo fecero perire per mano di donne. Admeto e Alcesti? Qui va decisamente meglio: l'amante si sostituisce ai genitori che rifiutano di sacrificarsi, strappa il figlio al suo nome e gliene dà un altro: dunque, in tutta la faccenda, c'è sempre un uomo [SIMPOSIO: discorso di Fedro, 166 e seguenti]. La coppia perfetta è però formata da Achille e Patroclo: non già per un partito preso omosessuale, ma perché all'interno di uno stesso sesso la differenza resta inscritta: l'uno (Patroclo) era l'amante, l'altro (Achille) era l'amato. Quindi - dicono la Natura, la saggezza, il mito - non ricercate l'unione (l'anfimissi) fuori della divisione dei ruoli: fermatevi all'unione dei sessi: è la "ragione" stessa della coppia [FREUD: "Al di là del principio di piacere", 233 e 242 (anfimissi: mescolanza delle Sostanze di due individui)]. Il sogno, eccentrico (scandaloso), esprime l'immagine contraria. Nella forma duale che fantasmatizzo, io voglio che vi sia un punto senza "altrove", io anelo (il che non è molto moderno) una struttura "accentrata", ponderata dalla consistenza del Medesimo: se "tutto" non è in "due", a che serve lottare? Tanto vale che mi metta nuovamente alla ricerca del multiplo. Per realizzare questo "tutto" che io bramo (insiste il sogno), è sufficiente che tutti e due si sia senza collocazione: che ci si possa magicamente sostituire l'uno all'altro: venga il regno "dell'uno per l'altro" ("Se due ne vanno di conserva, l'uno fa l'altro accorto del miglior partito"), quasi che fossimo i vocaboli d'una lingua nuova e strana in cui è perfettamente lecito adoperare una parola al posto di un'altra [SIMPOSIO: 156. Citazione dall'"Iliade", 10]. Questa unione sarebbe senza limiti, non tanto per l'ampiezza della sua espansione, ma per l'indifferenza delle sue permutazioni.
(Cosa me ne faccio di una relazione limitata? Essa mi fa soffrire. Non c'è dubbio che se mi si domanda: "A che punto sei con X...?", io devo ovviamente rispondere: al momento, sto esplorando i nostri limiti; comportandomi come un imbecille qualsiasi, io prevengo, circoscrivo il nostro territorio comune. Ma ciò che sogno, è di avere tutti gli altri in uno solo; poiché se riuscissi a riunire X..., Y... e Z..., con tutti questi punti che ora sono disseminati, io formerei una figura perfetta: il mio altro sarebbe nato).
4. Sogno di unione totale: tutti considerano impossibile questo sogno, e tuttavia non desistono. Io non rinuncio. "Sulle steli di Atene, in luogo dell'eroicizzazione del morto, scene d'addio in cui, mano nella mano, uno dei due r sposi prende congedo dall'altro, al termine di un contratto che solo una terza forza viene a rompere: ecco allora che il lutto assurge a espressione [...]. Senza di te io non sono più io" [FRAN€OIS WAHL: "Chute", 13]. La prova del mio sogno si trova nel lutto "rappresentato"; io ci posso credere, dal momento che esso è mortale (impossibile è solo l'immortalità).
Il vascello fantasma.
VAGARE. Benché ogni amore sia vissuto come unico e benché si respinga l'idea di ripeterlo altrove e in futuro, a volte il soggetto coglie dentro di s‚ una specie di diffusione del desiderio amoroso; esso allora capisce di essere destinato a vagare da un amore all'altro fino alla morte.
1. Come finisce un amore? - Ma allora finisce! Nessuno - salvo gli altri - lo sa mai; una specie d'innocenza nasconde la fine di questa cosa concepita, propugnata e vissuta come eterna. Qualunque sia la fine dell'oggetto amato, sia che esso scompaia o passi nella sfera Amicizia, io non lo vedo neanche svanire: l'amore che è finito si allontana verso un altro mondo come un'astronave che cessa di mandare segnali: l'essere amato che prima segnalava chiassosamente la sua presenza, diventa tutt'a un tratto muto (l'altro non scompare mai quando e come ci si aspetta). Questo fenomeno è il frutto di una limitazione del discorso amoroso: soggetto innamorato, io non posso costruire fino in fondo la mia storia d'amore: io non ne sono il poeta (il recitante) che all'inizio; esattamente come la mia morte, la fine di questa storia appartiene agli altri; sta a loro scriverne il romanzo, narrarne la storia esteriore, mitica.
2. Qualunque cosa mi si dica e quali che siano i miei propri scoraggiamenti, io agisco sempre - mi ostino ad agire - come se l'amore potesse un giorno appagarmi, come se il Bene Supremo fosse veramente ottenibile. Da ciò deriva questa curiosa dialettica che, senza difficoltà, a un amore assoluto fa seguire un altro amore assoluto, come se, attraverso l'amore, io accedessi a un'altra logica (visto che l'assoluto non è più costretto ad essere unico), a un altro tempo (di amore in amore, io vivo degli istanti verticali), a un'altra musica (questo suono, senza memoria, estraneo a ogni costruzione, dimentico di ciò che lo precede e lo segue, questo suono è di per s‚ musicale). lo cerco, incomincio, provo, vado più lontano, corro, ma non so mai quando finisco: parlando della Fenice, non si dice che essa muore, ma solamente che rinasce (posso io dunque rinascere senza morire?) Visto che non sono appagato e che nonostante ciò "non mi uccido", il vagamento amoroso è fatale. Questo vagamento lo ha conosciuto anche Werther, passando dalla "povera Leonora" a Carlotta; vero è che il moto si è arrestato; ma, se non si fosse suicidato, Werther avrebbe riscritto le stesse lettere a un'altra donna [Werther].
3. Il vagamento amoroso ha dei lati comici: sembra un balletto più o meno agile a seconda della velocità del soggetto infedele; ma è anche un'opera [R. S. B.: conversazione]. L'Olandese maledetto è condannato a errare sui mari fino a quando non avrà trovato una donna la cui fedeltà sia eterna [Wagner]. Io sono questo Olandese Volante; non posso impedirmi di errare (di amare) a causa di un marchio che, nei tempi remoti della mia infanzia, mi ha destinato al dio Immaginario infliggendomi una turba di parola che mi porta a dire "Ti amo" di tappa in tappa, fino a che qualcun'altro raccolga questa parola e me la restituisca; ma nessuno può far sua la risposta impossibile (di una completezza insopportabile), e così il vagamento continua.
4. Nel corso di una vita, tutti gli "insuccessi" d'amore si rassomigliano (e a ragione: tutti hanno origine dalla stessa tara). X... e Y... non hanno saputo (potuto, voluto) rispondere alla mia "domanda", aderire alla mia "verità"; essi non hanno minimamente modificato il loro sistema; per me, l'uno non ha fatto che ripetere l'altro. E tuttavia, X... e Y... sono incomparabili; è dalla loro diversità, modello d'una diversità rinnovata all'infinito, che io attingo l'energia per ricominciare. Lungi dal far rientrare in uno stesso tipo funzionale (non rispondere alla mia domanda) tutti quelli che incontro, la "mutabilità perpetua" ("in inconstantia constans") che mi anima scompone con violenza la loro falsa comunanza: il vagamento non inquadra: esso opera un mutamento, e ciò che ne risulta è la sfumatura [Benjamin Constant]. Così, io procedo fino alla fine dell'arazzo, passando da una sfumatura all'altra (la sfumatura è l'ultimo stadio del colore che non può essere nominato; la sfumatura è l'Intrattabile).
Verità.
VERITA'. Ogni episodio di linguaggio riferito alla "sensazione di verità" che il soggetto amoroso prova pensando al suo amore, sia che creda di essere il solo a vedere l'oggetto amato "nella sua verità", sia che definisca la specialità della sua propria esigenza come una verità su cui non può transigere.
1. L'altro è il mio bene e il mio sapere: solo io lo conosco solo io lo faccio esistere nella sua verità. Chiunque non sia me lo misconosce: "Talora non riesco a comprendere come sia possibile che un altro l'ami, che a un altro sia lecito amarla mentre io l'amo così interamente, così fervidamente, e non conosco, non so, non ho null'altro che lei!" [WERTHER: 99]. Viceversa, l'altro mi cala nella verità: solo con l'altro io mi sento "me stesso" [FREUD: "Un uomo che dubiti del suo proprio amore può, o meglio "deve" dubitare di qualsiasi altra cosa meno importante" (citato da M, Klein, 320)]. Su me stesso, io ne so più di tutti quelli che di me ignorano solo questo: che sono innamorato.
(L'amore accieca: questo proverbio è falso. L'amore spalanca gli occhi, rende chiaroveggenti: "Di te, su te, io posseggo tutto il sapere". Dice il sottoposto al padrone: tu bai ogni potere su di me, ma io so tutto di te).
2. Ancora e sempre lo stesso rovesciamento: ciò che tutti gli altri considerano "obiettivo", è da me considerato fattizio, e ciò che loro considerano follia, inganno, errore, è da me considerato verità. La sensazione di verità va curiosamente a situarsi proprio nelle pieghe più recondite dell'illusione. L'illusione si spoglia dei suoi orpelli e diventa così pura che, come un metallo primordiale, niente può più alterarla: eccola dunque diventata indistruttibile.
Werther ha deciso di morire: "Te lo scrivo senza esaltazioni romantiche, sereno" [WERTHER: 135]. Spostamento: non è la verità ad essere vera, è il rapporto coll'illusione che diventa vero. Per essere nel vero, è sufficiente che io mi fissi su una cosa: se un'"illusione" viene riaffermata all'infinito, a dispetto di tutto, quell'illusione diventa verità. (Resta da sapere se, in fin dei conti, nell'amorepassione vi sia poi un briciolo di verità vera).
3. La verità sarebbe ciò che, essendo stato tolto, lascerebbe scoperta solo più la morte (in altre parole: la vita non varrebbe più la pena di essere vissuta). Una cosa analoga avviene col nome del Golem: esso si chiama "Emeth", ossia Verità; amputato di una lettera, diventa "Meth" (morto) [GRIMM: "Giornale per eremiti": il Golem è un uomo fatto di argilla e di pania impastate. Esso non può parlare. Viene utilizzato come domestico. Esso non deve mai uscire fuori di casa. Sulla sua fronte sta scritta la parola "Emeth" (Verità). Ogni giorno, esso diventa più grande e più forte. Per paura, si cancella la prima lettera, di modo che sulla sua fronte resti solo più la parola "Meth" (morto); e allora esso crolla e ridiventa argilla (G. B. Scholem, "La Kabbale et sa symbolique")]. O anche: la verità sarebbe ciò che, dal fantasma, dev'essere ritardato, ma non rinnegato, intaccato, tradito: la sua parte irriducibile, quello che non cesso mai di voler conoscere una volta almeno prima di morire (altra formulazione: "E così, morirò senza aver conosciuto, eccetera"). (L'innamorato fallisce la sua propria castrazione? Esso si ostina a fare un "valore" di questo fallimento).
4. La verità: ciò che è "l accanto". Un monaco domandò a Chao-chou: "Qual è l'unica e ultima parola della verità?" [Zen]. Il monaco replicò: "S". Io non scorgo in questa risposta l'idea banale secondo cui un non ben definito partito preso d'un tacito consenso generale è il segreto filosofico della verità. Semmai avverto che, opponendo bizzarramente un avverbio a un pronome ("s" a "quale"), il maestro risponde "a lato"; egli dà una risposta da sordo, dello stesso genere di quella che diede a un altro monaco che gli chiedeva: "Dicono che tutte le cose siano riducibili all'Uno; ma a che cosa l'Uno è riducibile?" E Chao-chou rispose: "Quando vivevo nel distretto di Ching, mi feci fare una veste che pesava sette "kin"".
Idee di soluzione.
VIE D'USCITA. Sogni di soluzioni di qualsiasi genere che, nonostante il loro carattere spesso catastrofico, dànno al soggetto amoroso una pace momentanea; manipolazione fantasmatica delle possibili soluzioni della crisi amorosa.
1. Idea di suicidio; idea di separazione- idea di ritiro solitario; idea di viaggio; idea di oblazione, eccetera; posso immaginare varie soluzione alla crisi amorosa e difatti non faccio che pensare a questo. Eppure, per quanto alienato sia, io non ho difficoltà a cogliere, attraverso queste idee ricorrenti, una figura unica, vuota, che è poi quella della via di scampo; ciò con cui, con compiacenza, io vivo, è il fantasma d'un "altro ruolo": il ruolo di qualcuno che "se la cava". Si mette così in luce una volta di Più la natura linguistica del sentimento amoroso: ogni soluzione viene inesorabilmente rinviata alla sua idea - vale a dire a un essere verbale; di modo che alla fine, essendo linguaggio, l'idea di soluzione si conforma alla preclusione di ogni via d'uscita: il discorso amoroso è in un certo qual modo uno sbarramento delle Vie d'uscita.
2. L'Idea è sempre una scena patetica che io immagino e di cui mi commuovo; in altre parole, è un teatro. E io mi giovo della natura teatrale dell'Idea: questo teatro, che rientra nel genere stoico, mi fa sentire più grande, innalza la mia statura. "Immaginando" una soluzione estrema (cioè definitiva, cioè ancora definita), io do vita a una finzione, divento artista, faccio un quadro, dipingo la mia via d'uscita; l'Idea si vede, proprio come il momento pregnante (dotato d'un senso forte, scelto) del dramma borghese: ora si tratta di una scena d'addio, ora di una lettera solenne, ora, per dopo, di un rivedersi pieno di dignità. L'"arte" della catastrofe mi acquieta [Diderot].
3. Tutte le soluzioni che riesco ad immaginare sono interne al sistema amoroso: sia che si tratti di ritiro solitario, di viaggio o di suicidio, è sempre l'innamorato che si isola, che se ne va o che muore; se egli si vede isolato, partito o morto, ciò che vede è sempre un innamorato: io ordino a me stesso di essere sempre innamorato e di non esserlo più. Questa sorta d'identità del problema e della sua soluzione definisce per l'appunto la "trappola": sono intrappolato perché cambiare sistema è al di fuori della mia por tata: sono "fregato" due volte: prima, all'interno del mio proprio sistema, e poi perché non posso sostituirlo con un altro [DOUBLE BIND: "Situazione in cui il soggetto non può mai vincere, qualunque cosa faccia: se è testa vinco io, se è croce perdi tu" (Bettelheim, 85)]. Questo doppio nodo definisce, a quanto pare, un certo tipo di follia (la trappola si chiude quando l'infelicità è senza il suo contrario: "Perché infelicità vi sia, bisogna che il bene stesso faccia male") [SCHILLER: citato da Szondi, 28]. Rompicapo: per "uscirne", bisognerebbe che io uscissi dal sistema - da cui voglio uscire, eccetera. Se non fosse che è nella "natura" del delirio amoroso il fatto di passare, di scemare da solo, nessuno e niente potrebbe mai porvi fine (non è perché è morto che Werther ha cessato d'essere innamorato, ma al contrario).
Sobria ebrietas.
VOLER-PRENDERE. Comprendendo che le difficoltà della relazione amorosa derivano dal fatto che egli vuole continuamente appropriarsi in un modo o nell'altro dell'essere amato, il soggetto decide di abbandonare per il futuro ogni "voler-prendere" che riguardi l'altro.
1. Idea fissa dell'innamorato: "l'altro mi deve dare ciò di cui ho bisogno" [WAGNER: "Il mondo mi deve dare ciò di cui ho bisogno. Io ho bisogno della bellezza, dello splendore, della luce, eccetera." (letto a Bayreuth in un programma della "Tetralogia")].
Eppure, per la prima volta, io ho veramente paura. Mi butto sul letto, rimugino e decido: d'ora innanzi, non dovrò più voler prendere niente dell'altro.
Il N.v.p. (il "non-voler-prendere", espressione modellata su analoghe espressioni dell'Oriente) è un succedaneo rovesciato del suicidio. Non uccidersi (per amore) vuol dire: prendere la decisione di non appropriarsi dell'altro. E' esattamente ciò che avviene con Werther: nel momento in cui s'uccide, egli avrebbe potuto rinunziare a prendere Carlotta: la scelta è tra questo e la morte (si tratta dunque d'un momento solenne).
2. Bisogna che il voler-prendere cessi - ma bisogna anche che il non-voler-prendere non si veda: niente oblazione. Io non voglio sostituire all'impeto travolgente della passione "la vita impoverita, il voler-morire, la grande spossatezza" [Nietzsche]. Il N.v.p. non ha niente a che fare con la bontà: il N.v.p. è vivo, reciso: da una parte, non mi oppongo al mondo sensoriale, lascio che il desiderio circoli in me; dall'altra, l'addosso alla "mia verità" la mia verità è di amare assolutamente: se manca quest'opportunità, io mi ritiro, mi disperdo, come un manipolo di soldati che rinunzi ad "assaltare" [Tao].
3. E se il N.v.p. fosse una mossa tattica (finalmente una!)? Se io volessi pur sempre (quantunque segretamente) conquistare l'altro fingendo di rinunziare a lui? Se mi allontanassi "per" appropriarmene meglio? Il reversino (quel gioco di carte in cui vince chi ha fatto meno punti) si basa su una finta che i saggi ben conoscono ("La mia forza sta nella mia debolezza") [TAO: "Non da s‚ vede perciò è illuminato, non da s‚ s'approva perciò splende, non da s‚ si gloria perciò ha merito, non da s‚ s'esalta perciò a lungo dura" ("Tao T‚ Ching", 22)]. Questa mossa è uno stratagemma, dal momento che si situa proprio all'interno della passione, di cui lascia intatte le ossessioni e le angosce [RILKE: "Weil ich nemals dich anhielt, halt ich dich fest [Perché mai ti trattenni, ti tengo saldamente]": versi di due melodie di Webern, 1911-12].
(Ultimo tranello: rinunziando ad ogni voler-prendere, io mi esalto e mi entusiasmo Per la "bella immagine" che do di me stesso. Ma non sfuggo al sistema: "Armance, esaltata da un certo entusiasmo virtuoso che era poi ancora un modo di amare Octave...") [STENDHAL, "Armance", 54].
4. Affinché la mossa del N.v.p. possa rompere col sistema dell'Immaginario, bisogna che io riesca (con la determinazione di quale oscura forza?) a collocarmi da qualche parte al di fuori del linguaggio, nell'inerte, e, in certo qual modo, semplicemente: a "sedermi" ("Tranquillamente seduto senza far niente, la primavera arriva e l'erba cresce da sola") [ZEN: Watts, 153]. E ancora l'Oriente: non voler prendere il nonvoler-prendere; lasciar venire (dall'altro) ciò che viene, lasciar passare (dell'altro) ciò che va; non prendere niente, non respingere niente: ricevere, non serbare, produrre senza appropriarsi, eccetera [TAO: Watts, 107 e "Tao T‚ Ching". Inoltre: Watts, 37]. O anche: "Il Tao perfetto non offre difficoltà: esso evita di scegliere".
5. Che il Non-voler-prendere resti quindi irrigato di desiderio da questa mossa rischiosa: l'"io ti amo" è nella mia testa, ma io lo imprigiono dietro le mie labbra. Non proferisco. Io dico silenziosamente a chi non è più o non è ancora l'altro: "mi trattengo dall'amarti".
Accento nietzschiano: "Non più pregare, benedire!" [Nietzsche]. Accento mistico: "Il vino migliore e il più squisito, e anche il più inebriante di cui, senza berlo, l'anima annichilita è inebriata, anima libera ed ebbra! dimentica, dimenticata, ebbra di ciò che non beve e che mai berrà!" [RUYSBROECK: citato da R. Laporte, "Au-delà de l'"horror vacui"].
Tabula gratulatoria.
1. velyne Bachellier, Jean-Louis Bouttes, Antoine Compagnon, Denis Ferraris, Roland Havas, Severo Sarduy, Philippe Sollers, Romaric Sulger Bel, Fran‡ois Wahl.
2. GOETHE, "I dolori del giovane Werther" (Einaudi; ed. francese Aubier-Montaigne).
3. BALZAC, "La fausse maŒtresse" (Pleiade, II); "Les secrets de la princesse de Cadignan" (Pleiade, IV). JEAN BARUZI, "Saint Jean de la Croix" (Alcan). BATAILLE, "L'oeil pinéal" ("Oeuvres complètes", II, Gallimard). BAUDELAIRE, "I fiori del male" (Feltrinelli).
BENVENISTE, "Problemi di linguistica generale" (Il Saggiatore). BRUNO BETTELHEIM, "La forteresse vide" (Gallimard). JEAN-LOUIS BOUTTES, "Le destructeur d'intensit‚" (manoscritto). BRECHT, "Madre Courage e i suoi figli" ("Teatro", II, Einaudi). N. O. BROWN, "Eros et Thanatos" (Julliard). DANIEL CHARLES, "La musique et l'oubli ("Traverses", 4).
CHATEAUBRIAND, "Itinéraire de Paris à Jerusalem" (Pl‚iade). L. CHERTOK, "L'hypnose"
(Payot). ANTOINE COMPAGNON, "L'analyse orpheline" ("Tel Quel", 65). CHRISTIAN DAVID,
"L'etat amoureux" (Payot). DELEUZE, "Nietzsche et la philosophie" (PUF). MARCEL DTIENNE, "I giardini di Adone" (Einaudi). DIDEROT, "Oeuvres complètes", III (Club fran‡ais du livre). T. L. DJEDIDI, "La po‚sie amoureuse des Arabes" (Algeri, Sned). DOSTOEVSKIJ, "L'eterno marito" (Sciascia); "I fratelli Karamazov" (Einaudi). FLAUBERT, "Bouvard e P‚cuchet" (Einaudi).
FOUCAULT, "Entretien" ("Les Nouvelles Littèraires", 17 marzo 1975). FREUD, "Opere"
(Boringhieri): "L'interpretazione dei sogni" (III); "Il delirio e i sogni nella "Gradiva" di Wilhelm
Jensen (V)"; "Dalla storia di una nevrosi. (Caso clinico dell'uomo dei lupi) (VII)"; "Metapsicologia
(VIII)"; "Al di là del principio di piacere (IX)"; "Psicologia delle masse e analisi dell'Io (IX)";
"Compendio di psicoanalisi (XI)"; "Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) (XI)";
"Lettere 1873-1939". MARTIN FREUD, "Freud, mon père" (Deno‰l). PIERRE FURLON,
"R‚flexions sur l'utilisation tb‚rapeutique de la double contrainte" ("Psychanalyse à l'universit‚", 1,
2). GIDE, "Et nunc manet in te" (Pl‚iade); "Journal, 1939-1949" (Pl‚iade). MICHEL GURIN, "Nietzsche", "Socrate héro‹que" (Grasset). HEINE, "Intermezzo lirico", in "Il Libro dei Canti" (Einaudi). H™LDERLIN, "Iperione" (Utet). HUGO, "Pierres" (‚d. du Milieu du Monde).
JAKOBSON, "Entretien" ("Critique", 348). KIERKEGAARD, "Timore e tremore" (Comunità). MELANIE KLEIN, "Essais de psychanalyse" (Payot). KLOSSOWSKI, "Nietzsche et le Cercle vicieux" (Mercure de France). JULIA KRISTEVA, "La r‚volution du langage po‚tique" (‚d. du Seuil). LACAN, "Il seminario" I; XI (Einaudi). LACLOS, "Le amicizie pericolose" (Einaudi).
LAPLANCHE, "Symbolisations" ("Psychanalyse à l'universit‚", I, 122). ROGER LAPORTE,
"Quinze variations sur un thème biographique" (Flammarion). LA ROCHEFOUCAULD, "Massime" (Utet). LECLAIRE, "Psychanalyser" (‚d. du Seuil). LEIBNIZ, "Nuovi saggi sull'intelletto umano" (Scritti filosofici, II, Utet). MANDELBROT, "Les objets fractals"
(Flammarion). THOMAS MANN, "La montagna incantata" (Dall'Oglio). MUSIL, "L'uomo senza qualità" (Einaudi). NIETZSCHE, "Aurora"; "Ecce homo"; "Genealogia della morale"; "Il caso Wagner"; "La gaia scienza"; "Socrate e la tragedia" ("Opere complete", Adelphi). NOVALIS, "Enrico di Olterdingen" (Vallecchi). "ORNICAR", 4 (bollettino periodico del "Champ freudien").
MAURICE PERCHERON, "Le Bouddha et le Bouddhisme" (‚d. du Seuil). BENJAMIN PERRET, "Anthologie de l'amour sublime" (Albin Michel). PLATONE, "Simposio"; "Fedro" ("Opere", III,
Laterza). PROUST, "La strada di Swann"; "I Guermantes"; "Sodoma e Gomorra"; "La prigioniera" ("Alla ricerca del tempo perduto", n. ed. Einaudi). THEODOR REIK, "Fragment d'une grande confession" (Deno‰l). RONSARD, "Les amours" (Garnier); "Ronsard lyrique et amoureux" (‚d. de la Sirène). ROUGEMONT, "L'Amore e l'Occidente" (Rizzoli). RUYSBROECK, ("Oeuvres choisies" (Poussièlgues frères). SAFOUAN, "Della struttura in psicoanalisi" (in "Che cos'è lo strutturalismo?", Isedi); "tudes sur l'Oedipe" (‚d. du Seuil), SAINTE-BEUVE, "Port-Royal" (Hachette). SEVERO SARDUY, "Les travestis" ("Art press", 20). SARTRE, "L'immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni" (Bompiani). SEARLES, "The effort to drive the other person crazy" ("Nouvelle Revue de psychanalyse", 12). SOLLERS, "Paradis" ("Tel Quel", 62). SPINOZA, "Pens‚es m‚taphysiques" (Pl‚iade). STENDHAL, "Armance"; "Dell'amore" (Enaudi). LES
STOICIENS (Pl‚iade). SZONDI, "Po‚sie et Po‚tique" (‚d. de Minuit). TALLEMANT DES RAUX,
"Historiettes" (Pl‚iade, I). TAO TE CHING ("Testi taoisti", Utet). VERLAINE, "Feste galanti" (Einaudi). FRAN€OIS WAHL, "Chute" ("Tel Quel", 63). WATTS, "Le Bouddhisme Zen" (Payot). WINNICOTT, "Fragment d'une analyse" (Payot); "Jeu et R‚alit‚" (Gallimard); "La crainte de l'effrondrement" ("Nouvelle Revue de psychanalyse", II).
4. BOUCOURECHLIEV, "Thrène". DFBUSSY, "Pell‚as et M‚lisande". DU PARC, "Chanson triste". MOZART, "Le nozze di Figaro". RAVEL, "Ma mère l'Oye". SCHUBERT, "Elogio delle lacrime"; "Viaggio d'inverno". WAGNER, "Il vascello fantasma"; "Tetralogia";"Tristano". - FRIEDRICH, "Il naufragio della "Speranza"". - BU¥UEL, "Il fascino discreto della borghesia".
Interviste.
Le interviste "Frammenti di un discorso amoroso" e "Il più grande decrittatore di miti del nostro tempo ci parla d'amore" sono pubblicate in R. Barthes, "La grana della voce. Interviste 1962-1980", Einaudi, Torino 1986; l'intervista "L'ultima solitudine" è apparsa in R. Barthes, "Scritti. Società, testo, comunicazione", a cura di Gianfranco Marrone, Einaudi, Torino 1998.
"Frammenti di un discorso amoroso".
Roland Barthes, mi sembra che dopo il "Grado zero della scrittura", dopo i "Miti d'oggi", e da un libro all'altro, lei diventi un autore sempre meno localizzabile. Come si colloca lei, gettando un'occhiata retrospettiva sul suo lavoro passato, nella storia del pensiero di questi anni? E oggi, che posto sente di occupare nell'attuale dibattito delle idee?
C'è proprio in questi frammenti del discorso amoroso, di "un" discorso amoroso, una figura che porta un nome greco, l'aggettivo che veniva applicato a Socrate. Si diceva che Socrate era "atopos", vale a dire "senza luogo", inclassificabile. E' un aggettivo che io riferisco piuttosto all'oggetto amato, cosicché in quanto soggetto amoroso simulato nel libro non potrei riconoscermi come "atopos" ma al contrario come uno molto banale, dal dossier ben noto. Senza prendere posizione sul fatto che io sia inclassificabile, devo riconoscere di aver sempre lavorato a sussulti ' a fasi, e che c'è una sorta di motore che io ho un po' spiegato nel "Roland Barthes", che è il paradosso. Quando un insieme di posizioni sembrano reificarsi, costituire una situazione sociale un po' precisa, allora effettivamente, da me stesso e senza che ci pensi, ho desiderio di andare altrove. Ed è in questo che potrei riconoscermi come un intellettuale; la funzione dell'intellettuale essendo quella di andar sempre altrove quando "la cosa prende". Quanto alla seconda parte della sua domanda, come mi colloco in questo momento, io non mi colloco per niente come qualcuno che cerca di arrivare all'originalità ma come qualcuno che cerca sempre di dare voce a una certa marginalità. Quello che è un po' complicato da spiegare è che in me questa rivendicazione di originalità non si fa mai in maniera gloriosa. Cerca di farsi delicatamente. E' una marginalità che conserva degli aspetti abbastanza cortesi, abbastanza teneri - perché no? - e non le si può attribuire un'etichetta ben definita nell'attuale movimento d'idee.
In lei c'è spesso, e in maniera esplicita, una duplice rivendicazione apparentemente contraddittoria. Da un lato lei manifesta il suo interesse per la modernità (introduzione di Brecht in Francia, Nouveau Roman, "Tel Quel"...), dall'altro le piace ricordare i suoi gusti letterari tradizionali. Qual è la coerenza profonda di queste scelte?
Non so se c'è una coerenza profonda, ma è veramente il vivo della questione. Le cose in me non sono mai state così chiare come lei adesso dice, e per molto tempo mi sono sentito dilaniato in maniera quasi inconfessabile fra certi miei gusti, o quelle che chiamerei - perché mi piace definire le cose in termini di comportamento piuttosto che di gusto - le mie letture della sera (quello che leggo la sera) e che sono sempre libri classici, e il mio lavoro della giornata in cui, effettivamente, senza nessuna sorta d'ipocrisia, mi sentivo estremamente solidale sul piano teorico e critico con certi lavori della modernità. Questa contraddizione restava un po' clandestina e solo a partire dal "Piacere del testo" ho rivendicato il diritto a riconoscermi e a far riconoscere al lettore certi gusti per la letteratura del passato. Allora, come sempre quando ci si riconosce il diritto di dire un gusto, la teoria non è lontana. E più o meno cerco di fare la teoria di questo gusto del passato. La storia procede a spirale, secondo l'immagine di Vico, delle cose antiche ritornano, ma evidentemente non ritornano allo stesso posto; di conseguenza vi sono dei gusti, dei valori, dei comportamenti, delle "scritture" del passato che possono ritornare, ma in un posto molto moderno. Il secondo argomento è legato al mio lavoro sul soggetto amoroso. Questo soggetto si sviluppa principalmente su un registro che, dopo Lacan, si chiama l'immaginario - e io mi riconosco come soggetto dell'immaginario: io ho un rapporto vivo con la letteratura del passato, appunto perché questa letteratura mi fornisce delle immagini, mi fornisce un buon rapporto con l'immagine. Per esempio il racconto, il romanzo, è una dimensione dell'immaginario che esisteva nella letteratura "leggibile"; riconoscendo il mio attaccamento a questa letteratura, io rivendico a favore del soggetto immaginario nella misura in cui questo soggetto è in qualche modo diseredato, schiacciato dalle due grandi strutture psichiche che hanno principalmente richiamato l'attenzione della modernità, vale a dire la nevrosi e la psicosi. Il soggetto immaginario è un parente povero di queste strutture perché non è mai né del tutto psicotico né del tutto nevrotico. Lei vede che mi posso fornire l'alibi, militando discretamente per questo soggetto dell'immaginario, di un lavoro in fondo abbastanza avanzato, qualcosa come una forma dell'avanguardia di domani, con un po' di humour naturalmente...
Non è anche che lei prende a modo suo le distanze quando la modernità si trasforma in discorso egemonico, in stereotipi? Non c'è un po' di provocazione nel parlare dell'"amore" oggi, come ce n'era ieri, in pieno strutturalismo, nel difendere il "piacere del testo"?
Senza dubbio, ma non vivo questo come comportamento tattico. Semplicemente, come lei ha detto molto bene, ho una specie di difficoltà profonda a sopportare la stereotipia, l'elaborazione di piccoli linguaggi collettivi che conosco bene per il mio lavoro in un determinato ambiente, l'ambiente studentesco. Sento quindi molto facilmente questi linguaggi stereotipati della marginalità, la stereotipia della non-stereotipia. Li sento nel loro formarsi. All'inizio la cosa può anche procurare una sorta di piacere, ma a poco a poco pesa. Per un certo tempo non oso spostarmi altrove e alla fine, spesso per una circostanza della mia vita personale, prendo il coraggio di rompere con questi linguaggi.
L'archetipo dell'amore-Passione.
Passiamo, se vuole, a questi "Frammenti di un discorso amoroso". A evitare possibili equivoci, può esplicitare questo titolo?
Bisogna che faccia, rapidamente, la storia del progetto. Avevo, ho tuttora, un seminario all'cole des hautes ‚tudes, e lei sa che siamo in più d'uno, tra ricercatori e saggisti, a lavorare sulla nozione di discorso, di discorsività. Nozione che si distacca da quella di lingua, di linguaggio. Si tratta di discorsività in senso molto lato: la discorsività, il manto di linguaggio, è un oggetto di analisi. Mi sono detto, poco più di due anni fa, studierò un certo tipo di discorso: quello che presumevo essere il discorso amoroso, essendo inteso che si trattava sin dal principio di soggetti amorosi connessi con quello che si chiama l'amore-passione, l'amore romantico. Ho quindi deciso di fare un seminario che fosse l'analisi oggettiva di un tipo di discorsività. Allora ho scelto un testo tutore e analizzato il discorso amoroso in quest'opera. Non l'opera in s‚, ma il discorso amoroso. Fu il "Werther" di Goethe, che è l'archetipo stesso dell'amore-passione. Ma durante i due anni di questo seminario ho constatato un doppio movimento. Prima di tutto mi sono accorto che io stesso, in nome della mia esperienza passata, della mia vita, mi proiettavo in alcune di queste figure. Arrivavo persino a mescolare delle figure che venivano dalla mia vita alle figure del "Werther".
Seconda constatazione: gli ascoltatori del seminario si proiettavano anch'essi molto fortemente in quello che veniva detto. In tali condizioni mi sono detto che dal momento in cui passavo dal seminario al libro, la cosa onesta sarebbe stata non scrivere un trattato sul discorso amoroso, che avrebbe costituito una sorta di menzogna (non pretendevo più a una generalità di tipo scientifico), ma, al contrario, scrivere io stesso il discorso di un soggetto amoroso. C'è stato un rovesciamento. Certamente l'influenza di Nietzsche, anche se la deformo molto, allora è stata sensibile. In particolare tutto ciò che Nietzsche insegna sulla necessità di "drammatizzare", di adottare un metodo di "drammatizzazione" che per me aveva il vantaggio epistemologico di sganciarmi dal metalinguaggio. Dopo il "Piacere del testo" non posso più sopportare la "dissertazione" su un soggetto. Ho così fabbricato, simulato un discorso che è il discorso di un soggetto amoroso. Il titolo è molto esplicito e volutamente costruito: non è un libro su "il" discorso amoroso, è il discorso di "un" soggetto amoroso. Questo soggetto amoroso non sono necessariamente io. Lo dico francamente vi sono degli elementi che vengono da me, altri che vengono dal "Werther" di Goethe o da letture culturali da me fatte, dalla parte dei mistici, della psicoanalisi, di Nietzsche... Ci sono anche confidenze, conversazioni, che vengono da amici. Questi sono molto presenti nel libro. Il risultato è quindi il discorso di un soggetto che dice io, che è perciò individuato a livello dell'enunciazione; ma è pur sempre un discorso composito, simulato, o, se vuole, un discorso "montato" (risultato di un montaggio).
Tuttavia, chi dice "io" in questi "Frammenti"?
A lei potrei rispondere, e lei capirebbe, colui che dice "io" nel libro è l'"io" della scrittura. E' veramente tutto quello che se ne può dire. Naturalmente, su questo punto, mi si può portare a dire che si tratta di me. Darò allora una risposta ambigua: sono io e non sono io. Non sono più io, se mi è lecito il confronto forse dovuto a presunzione, che non Stendhal che mette in scena un personaggio. E in questo è un testo assai romanzesco. Del resto, il rapporto tra l'autore e il personaggio messo in scena è di tipo romanzesco.
In realtà certi "frammenti" sono veri e propri inizi di racconto. Una storia comincia a nascere e immediatamente viene interrotta. Mi sono spesso domandato davanti a questi abbozzi molto riusciti, molto "scritti", ma perché non continua? Perché non un vero romanzo? Una vera autobiografia?
Più avanti forse. Da molto tempo gioco con quest'idea. Ma nel caso di questo libro, se la storia non fa mai presa è in funzione, direi, di una dottrina. La visione che io ho del discorso amoroso è una visione essenzialmente frammentaria, discontinua, svolazzante. Sono episodi di linguaggio che turbinano in testa al soggetto innamorato, appassionato, e questi episodi s'interrompono bruscamente a causa di una data circostanza, di una data gelosia, un appuntamento mancato, un'attesa insopportabile, che intervengono, e a questo punto queste specie di frammenti di monologo sono cancellati e si passa a un'altra figura. Ho rispettato la radicale discontinuità di questa tormenta di linguaggio che infuria nella testa innamorata. Per questo ho ritagliato l'insieme in frammenti e messo questi in un ordine alfabetico. Non volevo a nessun costo che somigliasse a una storia d'amore. La mia convinzione è che la storia d'amore ben costruita, con un inizio e una fine, una crisi al centro, è il modo che la società offre al soggetto amoroso per riconciliarsi in qualche modo con il linguaggio del grande Altro, costruendosi da s‚ un racconto in cui si mette. Sono persuaso che l'innamorato che soffre non ha neppure il beneficio di questa riconciliazione e non è lui, paradossalmente, nella storia d'amore; è in qualcos'altro che somiglia molto alla follia, non per nulla si parla d'innamorati pazzi, perché la storia è impossibile dal punto di vista del soggetto amoroso. Ho quindi cercato in ogni momento di cancellare la costruzione della storia. Avevo persino pensato per un momento di mettere all'inizio una figura che ha un valore di fondazione iniziale, è il colpo di fulmine, l'invaghimento, il rapimento; ho esitato molto e mi sono detto no, neppure questa posso giurare che sia cronologicamente una prima figura perché può essere benissimo che il colpo di fulmine finisca per funzionare solo come una sorta di contraccolpo, qualcosa che il soggetto amoroso racconta a se stesso. E quindi un libro discontinuo che protesta un poco contro la storia d'amore.
Scrivere per l'oggetto amato.
Che cosa vuol dire quando lei scrive: "sono a fianco della scrittura"?
Prima di tutto una digressione: mi sono accorto che c'erano due tipi di soggetti amorosi. C'è quello della letteratura francese, da Racine a Proust, che è, diciamo, il paranoico, il geloso. Ce n'è un altro che non è ben rappresentato nella letteratura francese ma che è stato mirabilmente messo in scena dal romanticismo tedesco e soprattutto nei lieder di Schubert e di Schumann (di cui del resto parlo nel libro). Questo è un tipo d'innamorato che non è incentrato sulla gelosia; la gelosia non è esclusa da questo amore-passione, ma è un sentimento amoroso molto più effusivo, che mira a un appagamento. La figura essenziale allora è la Madre. Una figura del mio libro concerne appunto il desiderio, la tentazione, la pulsione che il soggetto amoroso, sembra, ha spesso, ed è attestato dai libri, di creare, o dipingere, o scrivere per l'oggetto amato. Cerco allora di esprimere il profondo pessimismo che si può avere su questo piano, vale a dire che il soggetto amoroso non può diventare una scrittura senza enormi abbandoni e trasformazioni.
La mia convinzione profonda sul soggetto amoroso è che sia un marginale. Donde la decisione, in certo modo, da parte mia di pubblicare questo libro in quanto darebbe voce a una marginalità oggi tanto più forte nella misura in cui non è neppure nella moda dei marginali. Un libro sul discorso amoroso è molto più kitsch, per esempio, di un libro sui drogati.
Non occorre una forma di audacia per parlare dell'amore come fa lei, di fronte al discorso psicoanalitico pervadente?
In realtà nel mio libro c'è un rapporto col discorso psicoanalitico che è, direi, "interessante", giacché questo rapporto si è evoluto nel momento stesso in cui facevo e il seminario e il libro. Lei sa bene che se oggi interroghiamo la cultura - è anche uno degli argomenti del libro - non c'è nessun grande linguaggio che si faccia carico del sentimento amoroso. La psicoanalisi, fra queste grandi lingue, ha almeno tentato delle descrizioni dello stato amoroso, ce ne sono in Freud, in Lacan, in altri analisti. Sono stato obbligato a servirmi di queste descrizioni, erano topiche, mi chiamavano tanto erano pertinenti. Nel libro ne ho tenuto conto perché il soggetto amoroso che metto in scena è un soggetto che ha una cultura di oggi, quindi con un po' di psicoanalisi che applica a se stesso in maniera selvaggia. Ma via via che il discorso simulato dell'innamorato si andava svolgendo, questo discorso si sviluppava come l'affermazione di un valore, l'amore come un ordine di valori affermativi che tiene testa contro tutti gli attacchi. A questo punto il soggetto innamorato può solo separarsi dal discorso analitico nella misura in cui questo parla sì del sentimento amoroso ma in fin dei conti in un modo sempre svalutativo, che invita il soggetto innamorato a reintegrare una certa normalità, a separare "essere innamorato" da "amare" e "amare bene", eccetera. C'è nella psicoanalisi una normalità del sentimento amoroso che è in realtà la rivendicazione della coppia, addirittura della coppia sposata... Quindi il rapporto che nel libro ho con la psicoanalisi è molto ambiguo; è un rapporto che, come sempre, utilizza delle descrizioni, delle nozioni psicoanalitiche, ma che le utilizza un po' come gli elementi di una finzione, non necessariamente credibile...
"Art Press", maggio 1977. A cura di Jacques Henric.
Il più grande decrittatore di miti del nostro tempo ci parla d'amore.
Roland Barthes, lei ha appena pubblicato un libro intitolato Frammenti di un discorso amoroso. Quando si è professori al Collège de France, questo suona serio?
No, è vero. Se avessi detto o scritto: "Il sentimento amoroso", questo sarebbe già suonato più serio, perché avrebbe fatto appello a qualcosa d'importante nella psicologia del diciannovesimo secolo. Ma la parola "amore" è maneggiata da tutti, è in tutte le canzoni, e "amour" può far rima con "toujours" (sempre) come tutti sanno. Allora, evidentemente, parlare dell'"amore", così non sembra serio.
E' un libro molto personale, ma vi domina tuttavia un riferimento: il "Werther" di Goethe. Questo romanzo, che scatenò la famosa ondata di suicidi "alla Werther" è del 1774. Non ci sono dunque più, oggi, grandi romanzieri dell'amore?
Ci sono, certo, delle descrizioni di sentimenti amorosi, ma è molto raro che il romanzo contemporaneo descriva una passione. Almeno non ne ho il ricordo.
L'amore è fuori moda?
Sì, senza alcun dubbio. L'amore è fuori moda negli ambienti intellettuali. Dal punto di vista dell'"intellighenzia", di quell'ambiente intellettuale che è il mio, in cui io vivo, di cui mi nutro... e che amo, ho avuto la sensazione di fare un atto di scrittura abbastanza fuori moda.
Ma al di fuori di questo ambiente intellettuale?
C'è anche un sentimento popolare che si esprime nelle osservazioni, negli scherzi, nelle battute salaci. Questi svalutano il soggetto innamorato che viene assimilato a un lunare, a un folle. Bisogna però dire che le svalutazioni enormi di cui soffre l'amore sono quelle imposte dai "linguaggi teorici". O non ne parlano affatto, come il linguaggio politico, il linguaggio marxista, o ne parlano con sottigliezza, ma in maniera riduttiva, come la psicoanalisi. Che cos'è questa "svalutazione" di cui oggi soffre l'amore? L'amore-passione (quello di cui ho parlato) non è "ben visto"; lo si considera come una malattia di cui bisogna guarire; non gli si attribuisce, come una volta, un potere di arricchimento.
Questo innamorato "svalutato" chi è, ora che non lo si riconosce più dal "costume di Werther"?
Sì, l'abito blu e il gilet giallo...
Come fare? Da che cosa lo riconosce lei?
Perfidamente, dirò che ho scritto il libro per poterlo riconoscere! Per ricevere delle lettere e delle confidenze che mi permettono di pensare, ora, che ci sono molti più soggetti amorosi di quanto non pensassi...
E se non le scrive?
Non si riconosce esteriormente. Perché nella vita urbana attuale non c'è più nessuna delle pose dell'innamorato patetico.
Per "pose" intende la scena del balcone, per esempio? "Giulietta abita al venticinquesimo piano, non c'è più un Romeo..." Era in un'anti-canzone d'amore, poco tempo fa.
E' questo. Non c'è più la scena del balcone. Ma non si ha neppure più la morfologia dei tratti dell'innamorato, le sue espressioni, la sua mimica; laddove nel diciannovesimo secolo c'erano certe litografie, certe pitture, incisioni, che lo rappresentavano. Quindi non si può riconoscere un innamorato per la strada. Siamo circondati da esseri di cui non possiamo sapere se sono innamorati, perché se lo sono si controllano enormemente.
Di fronte al suo innamorato c'è l'"oggetto amato". Perché questa curiosa espressione di "oggetto amato"?
Prima di tutto per una ragione di principio: il sentimento amoroso è un sentimento unisex, come i jeans e i capelli, adesso. Ai miei occhi è molto importante.
Per lei, l'innamorato etero-sessuale e l'innamorato omosessuale amano nello stesso modo?
Penso che si ritroverà esattamente la stessa tonalità nell'uomo che ama una donna, nella donna che ama un uomo, nell'uomo che ama un uomo e nella donna che ama una donna. E quindi ho avuto cura di sottolineare il meno possibile la differenza dei sessi. Purtroppo la lingua francese non facilita questo genere di esercizio. L'"oggetto amato" ha il vantaggio di essere un'espressione che non prende posizione sul sesso di chi si ama.
Ma "oggetto" si oppone così a "soggetto"?
Sì. E' inevitabilmente un oggetto. Non lo si vede affatto come soggetto. "Oggetto" è la parola giusta, perché indica la spersonalizzazione dell'oggetto amato.
Per lei, non è la "persona" dell'altro che si ama?
Credo che questo sia il grande enigma del sentimento amoroso. Perché quest'oggetto privato di ogni personalizzazione diventa al tempo stesso la persona per eccellenza, che non si può paragonare a nessun'altra. E' quello che la psicoanalisi chiama l'oggetto unico.
Sarebbe allora più giusto dire che si ama un'immagine?
Sicuramente. Non si è innamorati "che" di un'immagine. Il colpo di fulmine, quello che si chiama "invaghimento", si compie attraverso un'immagine.
Al limite, attraverso una "vera" immagine? Una fotografia di "Playboy".
C'è da domandarselo. Ma direi di no comunque. Perché l'immagine che ci rapisce è un'immagine viva, un'immagine in azione.
Come quella di Carlotta che taglia le tartine per i fratelli, nel "Werther"...
Sì. Aggiungerei, prudentemente, che la passione non conosce limiti. Un essere può innamorarsi perdutamente di una fotografia. Ma in generale il meccanismo del colpo di fulmine non scatta su un'immagine priva di qualunque contesto: bisogna che sia "in situazione".
Ecco il suo innamorato "rapito"... E' quello che un sondaggio dell'anno scorso chiamava il "grande amore". E una maggioranza impressionante di francesi interrogati diceva di "crederci", e che durava tutta la vita. Che ne pensa il suo innamorato?
Risponderebbe "sì", certo, alla domanda del "grande amore". Ma "tutta la vita"? Esito. Implica un ottimismo che non è nel soggetto innamorato come io l'ho simulato. Per lui, l'espressione "tutta la vita" non ha senso. E in una sorta di assoluto del tempo. Non fraziona il tempo lungo tutta una vita da prevedere...
Nella vita amorosa di questo soggetto, fra le "figure" che descrive, la sofferenza ha una parte importante. E' così presente che si ha l'impressione che l'innamorato quasi non ne rifugga granché.
Infatti, la sofferenza è assunta da lui come una sorta di valore. Ma nient'affatto nel senso cristiano.
Al contrario: come una sofferenza pura da ogni colpa.
Come reagisce a questa sofferenza?
Tenderebbe ad accettare questa sofferenza, senza accettare la colpevolezza.
Il dispiacere d'amore sembra dunque inevitabile?
Sì, credo che sia inevitabile. O meglio, direi che il sentimento amoroso si definisce appunto così perché la sofferenza è inevitabile. Ma si può sempre immaginare che il sentimento possa trasformarsi...
E cessi di essere amoroso?...
E' il più grosso problema, su cui il libro si ferma. Il buon senso dice che c'è un momento in cui bisogna staccare "essere innamorati" e "amare". Si lascia da parte "essere innamorati", col suo corteggio di lusinghe, illusioni, imprese tiranniche, scenate, difficoltà, addirittura suicidi... Per accedere a un sentimento più pacificato, più dialettico, meno geloso, meno possessivo.
Lei ha evocato la gelosia. Nei romanzi, come indubbiamente nella vita, la sofferenza più spettacolare dell'innamorato è legata alla gelosia. Non nel suo libro.
Sì, se ne è accorto, nel mio libro questa figura cardinale della passione è molto breve. Ho persino pensato di sopprimerla...
Perché le è estranea?
No, non mi è estranea, al contrario. Ma è un sentimento che, benché vissuto atrocemente, non si radica nella mia esistenza. In realtà non ho idee sulla gelosia. S ho le idee di tutti. Ed è la sola figura per cui non ho dato una definizione personale. Mi sono contentato di riprodurre quella del "Littr‚", perché è perfetta. Gelosia: "Sentimento che nasce nell'amore e che è prodotto dal timore che la persona amata preferisca qualcun altro". E' tra tutte le figure, quella che mi dà la maggior impressione di banalità.
Tutti sono gelosi?
Direi - mi cimenterò con delle parole grosse - che è un movimento di ampiezza antropologica. Nessun essere al mondo è privo di certe ondate di gelosia. E non mi sembra possibile essere innamorati, neppure nella maniera lassista e rilassata come oggi si può immaginare lo siano i giovani, senza che alla fine, in certi momenti, la gelosia non attraversi il sentimento amoroso.
Lei è scettico su questi tentativi di "rilassamento"?
Sì. Vivo tra amici più giovani di me. Molto spesso sono stupefatto per quella che, a prima vista, è un'assenza di gelosia nei loro rapporti, e mi dico che io stesso, in una data situazione, sarei terribilmente geloso. Mi stupisco, li ammiro molto per condividere i beni sensuali, i beni sessuali, i beni di coabitazione, sembra, senza grossi problemi. Se li si guarda vivere con più attenzione ci si accorge che tra loro vi sono dei moti di gelosia.
In effetti, un innamorato che non fosse geloso - stavo per dire: sarebbe il mistico per eccellenza; ma no, appunto: abbiamo testi mirabili in cui il mistico testimonia di una certa gelosia, nei confronti di Dio o nei confronti degli altri. No: sarebbe, letteralmente, un "santo".
In mancanza - se posso dir così - di essere gelosi, si può amare più di una persona per volta?
Credo che, per un certo tempo, in ogni caso, si possa. Si possa... e penso anzi che sia un sentimento - per usare un termine classico - "delizioso". Sì, è un sentimento delizioso immergersi in un clima di amori molteplici, di flirt generalizzato - dando a "flirt" una certa forza.
Solo un certo tempo?
Non credo che possa durare molto quella sovranità che dànno investimenti multipli. Perché per l'innamorato c'è un momento in cui la cosa si cristallizza.
Ed è la fine dello "sfarfallamento", o del volteggiamento?
Sì, dal momento in cui l'innamorato è sprofondato nella passione, il volteggiamento è escluso. Il volteggiamento dell'altro lo fa soffrire orribilmente, e lui stesso non ha più voglia di volteggiare.
E' il rapporto tirannico di cui parlava poco fa...
Sì. L'innamorato si sente dominato, imprigionato, sequestrato dall'oggetto amato. Ma, in realtà, colui che ama esercita anche lui un potere tirannico su colui che è amato. Non è divertente essere amato da qualcuno che è innamorato... Suppongo che non sia divertente...
Dunque niente amore senza scontro, senza rapporto di forze, lotte, vittorie, sconfitte?
L'innamorato lotta per non essere assoggettato. Ma fallisce. Constata con umiliazione, e talvolta con delizia, di essere interamente assoggettato all'immagine amata. E d'altra parte, nei momenti buoni, soffre molto di assoggettare l'altro; cerca di non farlo.
E' quello che lei chiama il "non-voler-sequestrare". E' la soluzione?
Sì. La soluzione "ideale" è di porsi in uno stato di non-voler-sequestrare. E' una nozione ripresa dai filosofi orientali. "Non sequestrare" l'oggetto amato, e lasciar circolare il desiderio. Nello stesso tempo non "sublimare": dominare il desiderio per non dominare l'altro.
E' quindi, se non un programma, almeno una proposta?
Sì è una proposta. Forse un'utopia...
Verso un nuovo mondo amoroso...
Sì, è così
Ma questo nuovo mondo amoroso sarebbe tutt'altra cosa, suppongo, dalla "sessualità liberata" di cui tanto si parlava dieci anni fa. Si ha l'impressione che oggi ci sia una reazione a quelle ideologie. Che ci sia una diffidenza nei confronti del desiderio. Lei colloca il suo libro in questa corrente o controcorrente?
Sì, in certo modo lo situo in questa corrente. Il punto comune è che l'essere innamorati permette una distanziazione dalla sessualità.
E dal desiderio?
C'è del desiderio nel sentimento amoroso. Ma questo desiderio è deviato, e si orienta verso una sessualità diffusa, verso una sorta di sensualità generalizzata.
Che cosa direbbe dell'erotismo in questo rapporto?
E' complicato parlare dell'erotismo, diciamo, "riuscito". Mettiamo delle virgolette perché la riuscita dipende da ogni soggetto. Non ci sono ricette. Un erotismo "riuscito" è un rapporto sessuale e sensuale con l'essere che si ama. Questo, comunque, succede. Ed è qualcosa di così bello, così buono, così perfetto, così sconvolgente, che a quel punto l'erotismo stesso è una sorta di accesso a una trascendenza della sessualità. La sessualità resta nella pratica, e più grande è l'erotismo più questa pratica è acuta. Ma c'è un plusvalore sentimentale a far s che l'erotismo sia completamente staccato da ogni pornografia.
"L'Impero dei sensi" è un film d'amore?
Sì, direi che è un film d'amore. Forse non ne sono stato molto toccato, per ragioni mie personali. Ma è un film bellissimo. L'esempio stesso del film d'amore...
All'innamorato, nel suo libro, lei contrappone il "dragueur"...
Sì, bisogna contrapporre due tipi di "discorso", in senso lato: quello dell'innamorato e quello del "dragueur". Le pratiche della draga non coincidono affatto con le pratiche molto ascetiche del soggetto innamorato, che non si sparpaglia nel mondo, che resta imprigionato con la sua immagine. Ma l'innamorato non è anche "dragueur"?
Sì, appunto. Vi sono dei "dragueurs" che dragano per trovare "di chi" essere innamorati. E' anzi un caso tipico. Negli ambienti omosessuali, in ogni caso, dove la draga è molto diffusa, si può benissimo dragare per anni interi, spesso in maniera inevitabilmente sordida, attraverso i luoghi stessi che questo obbliga a frequentare, con in realtà l'idea invincibile che si troverà di chi essere innamorati.
Contrariamente a don Juan, il cui piacere è proprio "tutto nel cambiamento" e che non cessa di correre di paese in paese, di donna in donna...
Per me, in effetti, don Juan è il tipo del "dragueur", con la sua famosa lista: "Mille e tre". E' la divisa stessa del "dragueur". Sa, i "dragueurs" si scambiano spesso le informazioni. E le loro conversazioni si riportano sempre a delle liste...
Oltre agli innamorati e ai "dragueurs", ci sono gli accasati, i "sistemati" (In italiano nel testo)...
Sì. Una volta parlavo con un amico che mi diceva che in italiano "accasato" si dice "sistemato". Avevo trovato molto bello che invece di dire: "Un tale si è accasato", "Un tale è sposato", si potesse immaginarlo "sistemato", preso in un sistema...
Ma parlare di persone "accasate" non è un termine da "dragueur"?
Non avevo pensato a questo. Sì, forse. Perché, in realtà, il "dragueur" e l'innamorato sono a uguale distanza rispetto agli "accasati". Sono entrambi in una marginalità rispetto alla coppia installata. Entrambi esclusi.
Nel suo libro, in ogni caso, è piuttosto la coppia che è esclusa...
Sì, è vero. Tuttavia ho fatto una "figura" sull'Unione, alla fine. Ma, perché non dirlo, non avevo esperienza personale di questo tipo di unione. E quindi non avevo il linguaggio per descriverla. Ma non è una presa di posizione...
L'innamorato pensa in termini di coppia?
Penso che la coppia sia sempre all'orizzonte. La scelta del libro era quella di un soggetto innamorato che non è amato. Ma certo pensa continuamente a esserlo, quindi a formare una coppia. Direi anzi che ha solo questo desiderio.
All'altro estremo della scena ci sarebbero quelli che, secondo i vocabolari, si chiamano i "devianti" o i "perversi". Sono altrettanto assenti che la coppia installata. Il suo innamorato, a volte, dà l'impressione di parlare in vece loro.
No. Il soggetto innamorato non parla per procura per gli altri devianti. Per una ragione essenziale: è deviante rispetto ai devianti. Nel senso che è meno rivendicativo, meno contestatario.... meno glorioso. Rispetto ai problemi dell'omosessualità c'è una conseguenza importante: se si parla di un o una omosessuale innamorato o innamorata, la parola importante non è "omosessuale" è
"innamorato/a". Mi sono rifiutato di tenere, da vicino o da lontano, un discorso omosessuale. Non per rifiutare di vedere la cosa, non per censura, o per prudenza, ma per questa ragione: che il discorso amoroso non ha più rapporto con l'omosessualità che con l'eterosessualità.
L'innamorato è dunque deviante rispetto ai "devianti", deviante rispetto ai "desideranti". Ma fra questi non c'è guerra?
Credo di no. Credo che siano in pianeti molto diversi. Cosa forse non più allegra...
Venere ai desideranti, e gli innamorati sulla Luna! Che dà loro, forse, quell'aria stupida. E' lei che scrive: "Che cosa c'è di più stupido di un innamorato?"... Che cosa lo rende stupido?
E' che si trova in quella che chiamo la "de-realtà". Tutto quello che il mondo chiama la "realtà" la sente come illusione. Tutto quello che diverte gli altri, le loro conversazioni, le loro passioni, le loro indignazioni, tutto questo gli sembra dereale. Il suo "reale" è il suo rapporto con l'oggetto amato, e i mille incidenti che lo attraversano - proprio ciò che il mondo considera la sua "follia". Con ciò stesso, a causa di questo rovesciamento, si sente prigioniero di un cocente inadattamento. E, nella pratica, ha infatti dei comportamenti, dei piccoli gesti che, agli occhi del buon senso, sono idioti...
Asociale, è anche apolitico. Lei scrive più precisamente che non "si eccita" più per la politica. Ma non è un modo per dire che non ne fa più, che per lui non conta più?
No, tengo a questa sfumatura. Perché la sento profondamente. Un soggetto umano funziona su più lunghezze d'onda. Può continuare a ricevere le onde politiche. Ma quello che non capisce più è che ci se ne possa investire passionalmente. Non è "depoliticizzato" nel senso che non è fondamentalmente indifferente a quello che avviene politicamente. Ma si è fatto una gerarchia dentro di sè E trova del tutto straordinario che ci si possa, appunto, "eccitare" per quelle cose.
Si è tentati di contrapporre al "desiderante-rivoluzionario" di ieri il suo "innamoratodecontratto", decontratto come il liberalismo... Lei assume questa contrapposizione?
Si, l'assumo. Il soggetto innamorato è esso stesso il luogo di un investimento forsennato. Allora si sente escluso dagli altri investimenti. Il solo essere umano di cui potrebbe sentirsi complice, sarebbe, esclusivamente, un altro innamorato. Purtuttavia: è vero che gli innamorati fra loro si capiscono! Ma un militante politico è, a modo suo, innamorato di un'idea, di una causa. E la rivalità è insostenibile. Per l'uno come per l'altro. Non penso che un militante politico sopporterebbe bene un innamorato pazzo...
Vedo però un'ambiguità. Il suo innamorato è veramente "intrattabile", "irrecuperabile", e, in questo senso, sovversivo? Oppure è, per qualunque sistema, tranquillo e inoffensivo?
E' un marginale. Ma, come ho già detto, modesto, non glorioso. La sua marginalità non si vede. Non è rivendicativa. In questo senso è veramente "irrecuperabile".
Ma, lo dice lei stesso: una sera su due, alla televisione, si dice: "ti amo". C'è dunque una "promozione" dell'amore da parte dei media. Come può essere che la cultura di massa diffonda "dell'amore", se è asociale e pericoloso?
E' una questione più difficile. Infatti: perché la cultura di massa sviluppa tanto i problemi del soggetto amoroso? In realtà, quello che mette in scena sono dei "racconti", degli episodi, non il sentimento amoroso in sé. E' forse una distinzione un po' sottile, ma ci tengo molto. Ciò significa che, se lei mette un soggetto innamorato in una "storia d'amore", con ciò stesso lo "riconcilia" con la società. Perché? Perché raccontare fa parte delle grandi costrizioni sociali, delle attività codificate dalla società. Con la storia d'amore la società ammansisce l'innamorato.
Se la capisco bene, il suo innamorato è sovversivo ma la "Marchesa degli angeli" è conformista?
Esattamente. E per questo, del resto, ho preso delle precauzioni draconiane perché il mio libro "non fosse" una "storia d'amore". Per lasciare l'innamorato nella sua nudità; nella sua situazione di essere inaccessibile alle forme abituali di recupero sociale: in particolare al romanzo.
Non è il lavoro di un romanziere: è il libro di un semiologo. E' il libro di un innamorato. Non è un essere bizzarro: un "semiologo innamorato"?
Ma no! L'innamorato è il semiologo selvaggio allo stato puro! Passa il proprio tempo a leggere segni. Fa solo questo: segni di felicità, segni d'infelicità. Sul viso dell'altro, nei suoi comportamenti.
E veramente in preda ai segni.
Dunque il proverbio mente: l'amore non è cieco...
L'amore non è cieco. Al contrario, ha una potenza di decifrazione incredibile, che dipende dall'elemento paranoico che è in ogni innamorato. Un innamorato, lei sa, coniuga estremi di nevrosi e di psicosi: è un tormentato e un pazzo. Vede chiaramente, ma il risultato è spesso lo stesso che se fosse cieco.
Perché?
Perché non sa né dove né come fermare i segni. Decifra perfettamente, ma non sa fermarsi su una certezza di decifrazione. Viene ripreso in un circolo perpetuo, che niente viene mai a placare.
Vengo a una domanda che ho voglia di porle sin dall'inizio: questo libro da innamorato, lei era innamorato quando lo ha scritto?
(Sorriso). E' una domanda a cui fino ad oggi ho sempre rifiutato di rispondere. Alla fine... diciamo che il libro è fatto in gran parte sulla base di un'esperienza personale; in gran parte anche di letture, di confidenze. Per la parte che mi appartiene, l'esperienza che ho utilizzato non è presa in una storia unica. Sono degli stati, dei moti, delle contorsioni che mi sono venuti da più esperienze amorose anteriori. Detto questo - perché non dirlo? - c'è stato un episodio cristallizzatore. Diciamo che ho concepito il libro come un modo per non perdermi, per non piombare nella disperazione. L'ho scritto, le cose erano entrate da sole in una dialettica...
Due tempi necessari?
Non avrei potuto certamente scriverlo con la distanza della frase, dello stile, se non avessi io stesso dialettizzato le cose...
Non è necessariamente la fine di una storia vissuta che spinge a scrivere?
Direi che il desiderio di scrivere un libro del genere viene in due momenti. O alla fine, perché la scrittura ha un meraviglioso potere di pacificazione. O in un momento di esuberanza, all'inizio, perché si pensa che si scriverà un libro d'amore. Lo si darà, si dedicherà, all'essere amato.
Allora, quell'innamorato che parla è ben lei, Roland Barthes?
Le risponderò in un modo che può aver l'aria di una piroetta. Ma non è. Il soggetto che io sono non è unificato. E' una cosa che provo profondamente. Allora dire: "Sono io!", sarebbe postulare un'unità di se stessi che io non mi riconosco.
Mi permetta allora di porla diversamente. Per ogni figura del libro, una dopo l'altra, dice forse: "Sono io questo"?
Ah! ... Quando ho fatto un seminario di ricerca sullo stesso soggetto, ho tenuto conto di figure che non avevo provato, che avevo preso nei libri... Ma, evidentemente, è quello che nel libro è saltato. Si, è sicuro, ho un rapporto personale con tutte le figure del libro.
Roland Barthes, davanti a questo "rtratto strutturale" dell'innamorato, si ha spesso l'impressione che lei non solo voglia descrivere ma convincere. Si può dire che sia un libro moderatamente militante, in favore degli "Innamorati Riuniti"?
Militante? Lei mi provoca un po'. E' un libro che implica una posizione di valore.
E' una morale?
Si, c'è una morale.
Che sarebbe?
Una morale di affermazione. Non bisogna lasciarsi impressionare dai deprezzamenti di cui è oggetto il sentimento amoroso. Bisogna affermare. Bisogna osare. Osare amare...
"Playboy", settembre 1977. A cura di Philippe Roger.
L'ultima solitudine.
[...]
Da dove è venuta la necessità di "Frammenti di un discorso amoroso".
Direi che questo libro ha due origini, un'origine oggettiva e un'altra più personale, certamente più misteriosa. L'origine oggettiva deriva dal fatto che, come si sa, sono Directeur d'etudes presso l'cole des Hautes tudes eri Sciences Sociales, dove dirigo alcuni seminari sulla ricerca semiologica. Da qualche anno questa ricerca ha iniziato a occuparsi di quel che viene chiamato "discorso" o
"discorsività", dunque dei tentativi di classificazione e di analisi dei differenti modi di enunciazione. Così, in questa prospettiva, ho voluto studiare oggettivamente il tipo di discorso che si suppone sia tenuto dal soggetto innamorato di tipo romantico, dal soggetto del cosiddetto "amour-passion"". Per questo lavoro mi sono servito di un testo-tutore, per così dire, che mi fornisse esempi di discorso amoroso e a tale scopo ho scelto un discorso amoroso dotato di una specie di ampiezza e di insistenza mitologica: il "Werther" di Goethe.
Detto ciò, perché si scrive un libro, perché ho voluto trasformare un seminario di ricerca in un'opera di scrittura? Ebbene, si tratta di determinazioni molto più complesse, sottili, e probabilmente poco chiare anche a me.
Ma scrivere non è forse andare proprio alla ricerca di un "amore inesprimibile"?
In un certo senso, s. Una delle esperienze del soggetto innamorato che ho messo in scena, del quale ho simulato il discorso, è quella per cui il sentimento amoroso parla molto. E' un gran chiacchierone, almeno nella testa dell'innamorato, anche se colui che parla ha l'impressione, per altro tormentosa, di non poter mai veramente esprimersi, di non poter mai esprimere il proprio sentimento amoroso.
Chi è l'"altro"?
L'"altro", con la a minuscola (distinzione importante) da quando la psicanalisi si è impossessata di questa nozione), è l'oggetto amato. L'ho chiamato l'altro - senza dargli né un nome, né un cognome, né un pronome - in modo da usare un'espressione francese che è in qualche misura neutra, senza riferimenti a un sesso definito. Sono infatti convinto che l'"amour-passion" non faccia differenza di sesso, per cui non dovevo marcare il sesso di colui che parla e di colui (o di colei) che è amato (o amata). La mia stessa esitazione dimostra che in francese siamo obbligati a scegliere fra il maschile e il femminile: l'espressione l'"altro" mi consentiva invece di non scegliere.
Aggiungo anche che si tratta di un'espressione consacrata dalla psicanalisi. In psicanalisi è chiamato "il piccolo altro", con la a minuscola, proprio l'oggetto del sentimento amoroso.
Lei parla dell'"attesa" dell'altro?
L'attesa è una delle innumerevoli figure - ho chiamato così queste specie di episodi del linguaggio interiore - che ho cercato di descrivere. L'attesa, attendere l'altro, colui o colei che si ama, è una figura cardinale del sentimento amoroso. L'innamorato passa la vita, il tempo, ad attendere. Se va a un appuntamento, è sempre quello o quella che aspetta.
Come vede l'incontro?
Ho distinto fra ciò che ho chiamato il "rapimento", cioè il momento in cui siamo "rapiti" dall'immagine dell'altro (comunemente detto colpo di fulmine), momento unico, anche se a volte ce ne accorgiamo a cose fatte, e l'"incontro", che ho definito piuttosto come un periodo. L'incontro è il periodo che segue immediatamente il rapimento, il periodo felice (avrei potuto chiamare questa figura "dillio") in cui abbiamo una sorta di perpetua meraviglia nello scoprire l'altro, nello scoprire quanto l'altro si attagli a noi, nello scoprire che si potrebbe - e si potrà - essere felici con l'altro. E' un periodo spesso seguito da un lungo tunnel di difficoltà, di angoscia, di sofferenza, di gelosia, di dubbi, che sono stati abbondantemente descritti dalla letteratura.
Nel momento più intimo dell'incontro, viene spesso fuori l'affermazione, un po' abusata, del "ti amo". Non si tratta di un'affermazione tragica, spesso senza risposta, ma talvolta rivoluzionaria?
Sì, effettivamente ho cercato di analizzare in un modo che sembrerà forse sofisticato (non so, bisognerebbe chiederlo ai lettori) questa espressione universalmente banale (quante volte, nello stesso momento in cui stiamo parlando, nel mondo ci sono persone che si scambiano la frase "ti amo", o comunque persone che lo dicono ad altre persone!). E un'espressione per certi versi banale, molto usata, ma nello stesso tempo estremamente enigmatica, dal momento che non possiamo dire che essa veicola una qualche informazione - se si eccettua il caso della confessione amorosa, la cui forma stereotipa sarebbe piuttosto: "perché, insomma, io l'amo!" (che è un emistichio). Il "ti amo" è piuttosto un grido incontenibile, il cui senso è assai enigmatico, poiché non si tratta appunto di un'informazione. Lo interpreterei come una specie di proferimento magico, che richiede una risposta non meno magica, che sarebbe qualcosa come: "ti amo anch'io". In effetti, quando si dice a qualcuno "ti amo", è sempre per ottenere la risposta magica: "ti amo anch'io".
Si tratta dunque di una "rivoluzione" perché effettivamente, sul piano della fantasia, il soggetto amoroso immagina che, ricevendo questa risposta meravigliosa, si produrrà una vera e propria rivoluzione nella sua vita e nel mondo. Il concetto è perfettamente illustrato nel racconto "La Bella e la Bestia". La Bestia ama la Bella, la Bella non ama la Bestia; ma, a un certo punto, la Bella è conquistata dal discorso della Bestia, e quando la Bestia le dice: "Bella, ti amo", la Bella risponde "anch'io ti amo, Bestia". In quel preciso momento, pronunziata la frase magica e ottenuta la risposta, la Bestia si spoglia del suo orrido aspetto bestiale e appare un bellissimo giovane. Ecco la rivoluzione.
Emotivamente, anche la parola "cuore" ha una grande importanza...
Si tratta di una parola che non ho effettivamente analizzato. Ho cercato piuttosto di individuare casi o problemi del linguaggio esistente. "Cuore", in francese, è una parola che possiede tutta una storia romantica; e nella misura in cui oggi tendiamo a sminuire il romanticismo, a metterlo un po' in ridicolo, il "cuore" viene trascinato in questo generale disprezzo. Ci serviamo di questa metafora in una forma sbiadita e un po' pusillanime, mentre in realtà io credo che "cuore" rinvii a un'emotività estremamente forte e intrisa di sessualità, cosa che mostra come la sentimentalità amorosa non sia scialba, ma, al contrario, sia una vera e propria forza.
La parola "amore" non è spesso legata a termini come "suicidio" e "morte"?
Certo, il soggetto amoroso che ho descritto è essenzialmente, secondo l'esempio stesso del
"Werther", un soggetto che ama un oggetto che non può amarlo, o perché non lo vuole o perché non è libero; di conseguenza, si tratta sempre di quell'amore che banalmente viene detto "infelice". Nella disperazione amorosa, l'idea del suicidio è immediata, è un'idea cui l'innamorato ricorre facilmente. Nel libro, mi sono servito dell'esempio del suicidio di Werther. Il "Werther" ha causato un'epidemia di suicidi per amore.
L'innamorato non s'immerge spesso nell'angoscia dell'assenza, che è una forma di morte?
L'assenza è una delle prove più dure dello stato amoroso, nella misura in cui alcuni elementi materiali e concreti, come l'assenza pratica dell'altro, fanno alla fin fine emergere la mancanza che si trova nel desiderio, che fa il desiderio. L'assenza, in fondo, non fa che mettere in scena questa mancanza del desiderio.
Come si può vivere la solitudine?
Direi che è il problema essenziale del libro, nel senso che è il problema che lo lega al nostro tempo. Dopo tutto, questo libro non è a caso, gratuito. Mi è sembrato che il soggetto che si lasci andare al sentimento dell'"amour-passion", o che sia posseduto da esso, si sentisse profondamente solo nel mondo attuale; per una ragione storica: il mondo attuale vive male l'"amour-passion", stenta a riconoscerlo. Certo, l'"amour-passion" fa parte di una certa cultura, della cultura popolare, in forma di film, di romanzi, di canzoni, ma nella classe intellettuale cui appartengo, che è il mio ambiente naturale, l'"amour-passion" non è affatto all'ordine del giorno della riflessione teorica, delle dispute della intellighenzia. Così, per un intellettuale d'oggi essere innamorato significa veramente piombare nell'ultima solitudine.
"Revue d'esthétique", IV trimestre, 1981, n. 2, numero speciale su "Sartre/Barthes". Intervista realizzata da Radio Canada nel 1977.
Appendice biobibliografica.
Nota biografica.
Roland Barthes nasce a Cherbourg, in Normandia, nel 1915. L'anno dopo, morto il padre in guerra, si trasferisce con la madre a Bayonne, nel sud-ovest, cittadina di provincia nella quale trascorre gli anni dell'infanzia. Nel '24 si stabilisce a Parigi, dove frequenta il liceo, non senza ristrettezze economiche. Nel '34 si ammala di tubercolosi polmonare, malattia che lo accompagnerà per molti anni, ed è costretto a recarsi per un lungo periodo di convalescenza sui Pirenei; qui ha inizio una frenetica attività di lettura di testi classici e moderni. La tubercolosi lo costringe a rinunciare all'esame di ammissione all'cole Normale supérieure, che preparava da tempo; prende così una laurea in lettere classiche alla Sorbonne; durante l'università fonda un teatro di studenti, che mette in scena alcune tragedie antiche, nelle quali B. stesso si esibisce come attore. Nel '37, esentato dal servizio militare, è lettore di francese a Debreczen, in Ungheria. Nel '39 è professore di liceo a Biarritz, e nel '40 è sorvegliante presso alcuni licei di Parigi. Nel '41 una forte ricaduta nella malattia gli impedisce qualsiasi attività. Così, dal '42 al '46 viene ricoverato presso alcuni sanatori svizzeri, dove intensifica le letture, si avvicina al marxismo, comincia una lunga ricerca su Michelet, pubblica i primi scritti sulla rivista del sanatorio: "Existences".
Tornato a Parigi, B. inizia nel '47, grazie a Maurice Nadeau, la collaborazione a "Combat", dove pubblica i primi abbozzi di quella riflessione su Camus e la "scrittura bianca" che lo condurrà alla stesura del suo primo libro. Ma le peregrinazioni non sono finite: nel '49 si trasferisce a Bucarest, bibliotecario presso l'Istituto francese di cultura, dove resta due anni. Da lì passa ad Alessandria d'Egitto, dove per un altro anno è lettore di francese all'università. Ad Alessandria conosce e frequenta Algirdas J. Greimas, che lo introduce alla linguistica strutturale: da quel momento lo studio dei testi di Saussure, Hielmslev e Jakobson si intreccia con la lettura dei romanzieri e con l'analisi di Michelet. Dal '50 B. è stabilmente a Parigi, prima come impiegato al Ministero degli Affari esteri e poi come borsista del C.N.R.S., per una ricerca lessicologica. Riprende presto l'attività pubblicistica su riviste come "Esprit", "France-Observateur" e "Lettres nouvelles" dove, nel '53, iniziano ad apparire mensilmente le prime "piccole mitologie". Nello stesso anno, riunendo diversi articoli, pubblica "Le degre zèro de 1'ècriture" (da Seuil, che resterà il suo editore per tutte le opere successive, libro in cui mette in rilievo le "impasses" autoriflessive della scrittura contemporanea. Nel '54 pubblica invece "Michelet par lui-m me", dove il grande storico francese viene letto secondo le procedure della critica tematica, suscitando non pochi scandali nel mondo accademico.
La seconda metà degli anni Cinquanta è un periodo ricco e frenetico: continua, con poca lena, le ricerche lessicologiche per il C.N.R.S.; intensifica le collaborazioni a giornali e riviste; si interessa alle prime prove del "nouveau roman" di Robbe-Grillet, Butor, Simon eccetera; ma, soprattutto, si occupa attivamente di critica teatrale, sulla rivista "Thé tre populaire", di cui sarà redattore sino al '60. Da qui la scoperta e la passione per l'esperienza drammaturgica di Bertolt Brecht, che contribuisce a diffondere in Francia. Dopo la letteratura e la linguistica, il teatro brechtiano è il terzo elemento decisivo alla formazione intellettuale di Barthes: la ricerca semiologica, che prende avvio proprio alla fine degli anni Cinquanta, è una sintesi originale dei problemi posti, in separata sede, dalla condizione sociale della letteratura, dalle istanze etico-politiche del teatro epico, dalle esigenze metodologiche dello strutturalismo linguistico e, infine, dai problemi culturali posti dalla nascente società di massa. Le "Mythologies", uscite nel '57, sono la prima testimonianza di quest'esigenza di critica ideologica della cultura di massa, che mescola Saussure, Brecht, Mallarm‚ e Marx con il cinema popolare, le automobili, gli oggetti in plastica, la pubblicità dei detersivi, il rito delle patate fritte.
A poco a poco, dall'inizio degli anni Sessanta l'opera di B. - acquisendo prestigio e successo - assume una configurazione precisa, che resterà pressoché immutata sino ai suoi ultimi scritti. Da un lato, saggi di argomento letterario, che porteranno a opere come "Sur Racine" (1963), "Essais critiques" (1964), "Critique et vèrit‚" (1966), e poi ancora "Sade, Fourier, Loyola" (1971), "Le plaisir du texte" (1973), "Sollers ‚crivain" (1979), le quali riceveranno attacchi violenti da parte della cultura letteraria tradizionale, rappresentata dal sorboniano Raymond Picard. Da un altro lato, saggi di quello che lui stesso chiamerà un "piccolo delirio scientifico", di argomento semiologico, dedicati all'alimentazione, all'automobile, alla pubblicità, al cinema, alla moda, al racconto, alla retorica classica: gli "Elèments de sèmiologie" (1964), l'"Introduction à "L'analyse structurale des rècits"" (1966) e il "Système de la mode" (1967) sono soltanto le opere più note di un'intensa attività di ricerca che, istituzionalmente, ha sede nella Cattedra di Sociologia dei segni, dei simboli e delle rappresentazioni che B. terrà, presso l'cole des Hautes tudes en Sciences Sociales, dal '62 al '77, anno in cui verrà chiamato al prestigioso Collège de France. Non mancano però opere, per così dire, intermedie, dove l'interesse per la letteratura si coniuga con quello per la significazione, e dove, soprattutto, l'interesse per la ricerca semiologica perde ogni connotazione scientifica per acquistare, invece, un carattere più apertamente trasgressivo. Si pensi a "S/Z" (1970), lunga analisi
"passo passo" di un racconto di Balzac, che mette in discussione l'analisi strutturale della narrazione; a "L'Empire des signes", atipico reportage di un viaggio in Giappone; alla "Le‡on" inaugurale al Collège (1977), dove la semiologia letteraria è intesa in modo programmaticamente politico, ma anche ai numerosi scritti sulla pittura, la fotografia, la musica, il cinema, dove B. va in cerca di una nuova "salute" del segno. L'esperienza personale della pittura, cui si dedica per molti anni, si inserisce in questa esigenza di nuove forme di significazione o, come B. la chiama, di significanza.
Così, dopo esser stato - con l'etnologo Lèvi-Strauss, lo psicanalista Lacan e il filosofo Foucault - uno dei più celebri esponenti dello strutturalismo francese, B. sembra ripudiare ogni ricerca di rigore e di coerenza tradizionalmente intesi, per avvicinarsi sempre più a forme di scrittura in cui viene meno la distinzione tra saggistica e letteratura. Da qui il suo interesse per il lavoro della rivista "Tel Quel", diretta da Philippe Solers e Julia Kristeva, ma soprattutto i suoi ultimi libri: il "Barthes par Roland Bartbes" (1975), sorta di autobiografia per frammenti, in cui B. compie un bilancio critico del proprio lavoro, i "Fragments d'un discours amoureux" (1977), raccolta dei "topoi" e delle pose caratteristiche dell'innamorato, e infine "La chambre claire" (1980) - pubblicata pochi giorni prima dell'improvvisa scomparsa - dove l'"enigma" della fotografia viene ridefinito nei termini di un'esperienza inevitabilmente intima.
(A cura di Gianfranco Marrone).
Bibliografia essenziale.
Opere.
"Le degrè‚ zero de l'ècriture", Seuil, Paris 1953; ried. con "Nouveaux essais critiques", Seuil, Paris 1972 [trad. it. di G. Bartolucci, "Il grado zero della scrittura", Lerici, Milano 1960 e trad. it. di R. Guidieri, R. Loy Provera, L. Prato Caruso, "Il grado zero della scrittura" seguito da "Nuovi saggi critici", Einaudi, Torino 1982].
"Michele par lui-mˆme", Seuil, Paris 1954 [trad. it. di G. Viazzi, Guida, Napoli 1973].
"Mythologies", Seuil, Paris 1957; ried. con una nuova introduzione, Seuil, Paris 1970 [trad. it. di L.
Lonzi, "Miti d'oggi", Lerci, Milano 1962 e ried. Einaudi, Torino 1974].
"Sur Racine", Seuil, Paris 1963 e 1979 [trad. it. di L. Lonzi, "Racine", in "Saggi critici", Enaudi, Torino 1966 e 1972].
"Essais critiques", Seuil, Paris 1964. Nella sesta ed. (1971) una nuova introduzione; ried. 1981 [trad. it. parz. di L. Lonzi, "Saggi critici", Einaud, Torino 1966 e 1972].
"El‚ments de sèmiologie", in "Communications", n. 4, 1964 [trad. it. di A. Bonomi, "Elementi di semiologia", Einaudi, Torino 1966].
"Critique et v‚rit‚", Seuil, Paris 1966 [trad. it. di C. Lusignoli e A. Bonomi, "Critica e verità", Einaudi, Torino 1969].
"Introduction à l'analyse structurale des rècits", in "Communications", n. 8, 1966 [trad. it. di P. Fabbri e L. Destrieri, "Introduzione all'analisi strutturale dei racconti", in "L'analisi del racconto", Bompiani, Milano 1969 e 1985].
"Système de la Mode", Seuil, Paris 1967 [trad. it. di L. Lonzi, "Sistema della Moda", Einaudi, Torino 1970].
"L'ancienne rhétorique: aide-m‚moire", in "Communications", n. 16, 1970 [trad. it. di P. Fabbri, "La retorica antica", Bompiani, Milano 1973].
"S/Z", Seuil, Paris 1970 e 1976 [trad. it. di L. Lonzi, "S/Z", Einaudi, Torino 1973 e 1981]. "L'empire des signes", Skira, Genève 1970 e Flammarion, Paris 1980 [trad. it. di M. Vallora, "L'impero dei segni", Einaudi, Torino 1984].
"Sade, Fourier, Loyola", Seuil, Paris 1971 e 1980 [trad. it. di L. Lonzi, "Sade, Fourier, Loyola. La scrittura come eccesso", Einaudi, Torino 1977; ried. a cura di Gianfranco Marrone, Einaudi, Torino 2001].
"Le plaisir du texte", Seuil, Paris 1973 e 1982 [trad. it. di L. Lonzi, "Il piacere del testo", Einaudi, Torino 1975].
"Roland Barthes par Roland Barthes", Seuil, Paris 1975 [trad. it. di G. Celati, "Barthes di Roland Bartbes", Einaudi, Torino 1980].
"Fragments d'un discours amoureux", Seuil, Paris 1977 [trad. it. di R. Guideri, "Frammenti di un discorso amoroso", Einaudi, Torino 1979].
"Le‡on inaugurale", Collège de France, Paris 1977, ried. Seuil, Paris 1978 [trad. it. di R. Guidieri, "Lezione. Lezione inaugurale della Cattedra di Semiologia letteraria del Collège de France pronunciata il 7 gennaio 1977", Einaudi, Torino 1981].
"Sollers ‚crivain", Seuil, Paris 1979 [trad. it. di A. Verdiglione, "Sollers scrittore. La dissidenza della scrittura", SugarCo, Milano 1979].
"La chambre claire: note sur la photographie", Gallimard/Seuil, Paris 1980 [trad. it. di R. Guidieri, "La camera chiara. Nota sulla fotografia", Einaudi, Torino 1980].
"Carte, Segni", a cura di C. Benincasa, Electa, Milano 1981.
"Le grain de la voix: entretiens, 1962-1980", Seuil, Paris 1981 [trad. it. di L. Lonz, "La grana della voce. Interviste 1962-1980", Einaudi, Torino 1986].
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"Le bruissement de la langue: essais critiques IV", Seuil, Paris 1984 [trad. it. di B. Bellotto, "Il brusio della lingua", Einaudi, Torino 1988].
"L'aventure sèmiologique", Seuil, Paris 1985 [trad. it. di M. C. Cederna, "L'avventura semiologica", Einaud, Torino 1991].
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