mercoledì 16 settembre 2020


POLIZIA
Jo Nesbø
Capitoli 1-10

Dormiva là dentro, dietro la porta.
L’interno del cantonale odorava di legno vecchio, residui di polvere da sparo e olio per armi. Quando i raggi del sole si riversavano dentro la stanza dalla finestra, un fascio di luce a forma di clessidra penetrava nel mobile dalla toppa e, se l’inclinazione era quella giusta, faceva luccicare debolmente la pistola sul ripiano centrale.
La pistola era un’Odessa russa, una copia della piú conosciuta Stechkin.
L’arma aveva avuto una vita vagabonda, aveva viaggiato con i kulaki dalla Lituania alla Siberia, si era spostata da un quartier generale degli urka all’altro nella Siberia meridionale, era appartenuta a un ataman, un capo cosacco ucciso dalla polizia mentre la impugnava, per poi capitare in casa di un direttore carcerario di Tagil collezionista d’armi. Infine, l’orrenda, spigolosa pistola mitragliatrice era stata portata in Norvegia da Rudolf Asajev il quale, prima di scomparire, aveva monopolizzato il mercato degli stupefacenti di Oslo con la violina, un oppioide simile all’eroina. E adesso l’arma si trovava proprio in quella città, per la precisione in Holmenkollveien, nella casa di Rakel Fauke. L’Odessa era dotata di un caricatore predisposto per venti cartucce calibro nove per diciotto millimetri Makarov e sparava sia colpi singoli sia raffiche. Ne restavano dodici.
Tre pallottole erano state sparate contro degli spacciatori kosovari concorrenti, ma una sola aveva centrato il bersaglio.
I due colpi successivi avevano ucciso Gusto Hanssen, un giovane ladro e spacciatore che si era impossessato dei soldi e della droga di Asajev.
La pistola puzzava ancora degli ultimi tre colpi che si erano conficcati nella testa e nel petto di Harry Hole, proprio mentre l’ex poliziotto indagava sull’omicidio di Gusto Hanssen. E anche la scena del crimine era la stessa: Hausmanns gate 92.
La polizia non aveva ancora risolto il caso Gusto, e il diciottenne arrestato in un primo momento era stato rilasciato. Fra l’altro perché gli investigatori non erano riusciti a trovare l’arma che aveva usato né a collegarlo a una. Il ragazzo si chiamava Oleg Fauke, e ogni notte si svegliava con gli occhi sgranati nel buio e gli spari nelle orecchie. Non i colpi con cui aveva ucciso Gusto, ma gli altri. Quelli che aveva esploso contro il poliziotto che era stato come un padre per lui durante l’adolescenza. Che un tempo sognava avrebbe sposato sua madre, Rakel. Harry Hole. Oleg vedeva il suo sguardo ardere davanti a sé nell’oscurità, pensava alla pistola riposta lontano, dentro un cantonale, e sperava che non l’avrebbe mai piú vista in vita sua. Che nessuno l’avrebbe piú vista. Che quell’arma avrebbe dormito in eterno.
Dormiva là dentro, dietro la porta.
La stanza d’ospedale piantonata odorava di farmaci e di vernice. L’apparecchio accanto al letto registrava il battito cardiaco dell’uomo.
Isabelle Skøyen, l’assessore alle Politiche sociali del comune di Oslo, e Mikael Bellman, il capo della polizia fresco di nomina, speravano di non vederlo mai piú.
Che nessuno lo vedesse piú.
Che avrebbe dormito in eterno.
Era stata una giornata di settembre calda e lunga, con quella luce che trasforma il fiordo di Oslo in argento fuso e infiamma le basse colline già spruzzate d’autunno. Una di quelle giornate che inducono gli abitanti della capitale a giurare che non la lasceranno mai e poi mai. Il sole stava calando dietro Ullern, e gli ultimi raggi orizzontali lambivano il paesaggio, le basse, sobrie palazzine che testimoniavano le origini umili della città, gli attici lussuosi con terrazze che raccontavano l’avventura del petrolio con cui all’improvviso la Norvegia si era trasformata nel paese piú ricco del mondo, i tossici in cima allo Stensparken di quella piccola, ordinata città, in cui i decessi per overdose erano otto volte piú numerosi che nelle metropoli europee otto volte piú grandi. Lambivano i giardini con le pedane elastiche protette da reti, dove i bambini non saltavano in piú di tre per volta, come raccomandavano le istruzioni per l’uso. E le colline e il bosco che si addentravano a semicerchio nella cosiddetta conca di Oslo. Il sole riluttava a lasciare la città, protendeva le sue dita raggiate come in un commiato protratto dal finestrino di un treno.
La giornata era iniziata con un’aria tersa e fredda e una luce forte come quella delle lampade di una sala operatoria. Con il passare delle ore la temperatura era aumentata, il cielo aveva assunto una gradazione di azzurro piú intensa e l’aria quell’affabile palpabilità che faceva di settembre il mese piú gradevole dell’anno. E quando arrivò il crepuscolo, dolce e discreto, l’aria dei quartieri residenziali sulle alture dalle parti del lago Maridal profumava di mele e di abetaie tiepide.
Erlend Vennesla era quasi arrivato in cima all’ultima salita. Nonostante l’acido lattico cominciasse ad accumularsi, era concentrato a dare la giusta spinta verticale ai pedali Spd, a rivolgere leggermente le ginocchia verso l’interno. Perché la tecnica era importante. Soprattutto quando si avvertiva la fatica e il cervello aveva voglia di cambiare postura per far lavorare i muscoli meno stanchi, ma anche meno efficienti. Sentiva il telaio rigido assorbire e sfruttare ogni singolo watt che lui gli imprimeva con i piedi, la velocità aumentare quando ingranava un rapporto piú basso; si alzò in piedi cercando di mantenere lo stesso ritmo, intorno alle novanta pedalate al minuto. Lanciò un’occhiata al cardiofrequenzimetro da polso: centosessantotto. Puntò la lampada frontale sul display del navigatore Gps fissato al manubrio. Era dotato di una cartina dettagliata di Oslo e dintorni e di un’antenna attiva. La bicicletta e l’attrezzatura extra erano costate piú di quanto avrebbe dovuto spendere un agente investigativo. Ma era importante mantenersi in forma adesso che la vita offriva altre sfide.
Sfide piú piccole, a essere sinceri.
Ormai l’acido lattico gli attanagliava le cosce e i polpacci. Faceva male, certo, ma era anche una bella promessa di ciò che lo aspettava. Un’orgia di endorfine. Muscoli indolenziti. Coscienza pulita. Una birra insieme alla moglie sul terrazzino se la temperatura non fosse scesa in picchiata dopo il tramonto.
E all’improvviso scollinò. La strada si fece pianeggiante, il lago Maridal si stendeva davanti a lui. Rallentò. Si trovava in aperta campagna. Era davvero assurdo che dopo quindici minuti di pedalata sostenuta dal centro di una capitale europea ci si potesse ritrovare di colpo circondati da poderi, campi coltivati e boschi fitti con sentieri escursionistici che sparivano nel buio della sera. Il sudore gli faceva prudere la testa sotto il casco Bell grigio antracite, che da solo era costato quanto la bici da bambina che aveva comprato per il sesto compleanno della nipote, Line Marie. Ma Erlend Vennesla non si tolse il casco. Le ferite alla testa costituivano la causa piú frequente di decesso fra i ciclisti.
Lanciò un’occhiata al cardiofrequenzimetro. Centosettantacinque. Centosettantadue. Una gradita, leggera folata portò su dalla città lontane grida di giubilo. Venivano sicuramente dallo stadio di Ullevaal, dove quella sera c’era una partita della nazionale, contro la Slovacchia o la Slovenia, ma per qualche secondo Erlend Vennesla immaginò che tanta esultanza fosse per lui. Era passato parecchio tempo da quando qualcuno lo aveva applaudito. L’ultima volta doveva essere stata in occasione della festa d’addio in suo onore alla Kripos, su a Bryn. La torta, il discorso del capo, Mikael Bellman, che da allora aveva puntato dritto alla carica di capo della polizia. Ed Erlend aveva accolto l’applauso, guardato gli altri negli occhi, ringraziato e per giunta sentito un piccolo groppo in gola al momento di pronunciare il discorso di ringraziamento, semplice, conciso e concreto secondo la tradizione della Kripos. Come investigatore aveva avuto i suoi alti e bassi, ma senza prendere cantonate madornali. Almeno, a quanto gli risultava, perché in quelle faccende non c’erano risposte sicure al cento per cento. Ovvero, adesso che le tecniche di analisi del Dna avevano fatto passi da gigante e i vertici della polizia manifestavano l’intenzione di volerle utilizzare per riesaminare qualche vecchio caso, si rischiava proprio di riceverle. Le risposte. Risposte nuove. Soluzioni. A patto che fossero casi irrisolti, non c’era nulla da eccepire, ma Erlend non capiva perché volessero spendere risorse per frugare anche in indagini ormai bell’e concluse e risolte.
Il buio si era infittito e, nonostante la luce dei lampioni, per poco non superò il cartello di legno che indicava l’accesso al bosco. Ma eccolo là. Proprio come ricordava. Lasciò la strada e imboccò un sentiero di morbido fondo boschivo. Proseguí alla velocità minima che gli consentiva di mantenersi in equilibrio. Il cono di luce della lampada frontale sul casco strisciò sul sentiero e si fermò contro il muro nero di abeti che lo fiancheggiava su entrambi i lati. Ombre lo precedevano sfrecciando, spaventate e frettolose, si trasformavano e si nascondevano con un guizzo. Cosí aveva immaginato la scena quando si era calato nei panni di lei: la corsa, la fuga con una torcia in mano, e poi finire rinchiusa e violentata per tre giorni.
E quando in quello stesso momento Erlend Vennesla vide accendersi piú avanti la torcia nel buio, per un attimo pensò fosse quella di lei, che si rimetteva a correre mentre lui in sella alla motocicletta la inseguiva, e raggiungeva. La luce guizzò prima di puntare su Erlend, che si fermò e scese dalla bici. Diresse la lampada frontale sul cardiofrequenzimetro. Già sotto i cento. Niente male.
Slacciò il sottogola, si tolse il casco e si grattò il cuoio capelluto. Oh Dio, che bello. Spense la lampada frontale, appese il casco al manubrio e procedette a piedi verso la luce della torcia spingendo la bici. Sentiva il casco dondolare e sbattere contro il polso.
Si fermò di fronte alla torcia, che si sollevò. La luce forte gli fece bruciare gli occhi. E, abbagliato, gli parve di avere ancora l’affanno: strano che la frequenza dei battiti fosse cosí bassa, pensò. Percepí un movimento, un oggetto sollevato dietro l’ampio, vibrante cerchio di luce, udí un sibilo sommesso nell’aria, e in quello stesso istante fu colto da uno strano pensiero. Che aveva fatto male. Che aveva fatto male a togliersi il casco. Che il maggior numero di decessi fra i ciclisti…
Era come se quel pensiero balbettasse, per una sorta di dislocazione temporale, come se il collegamento video fosse stato interrotto per un attimo.
Erlend Vennesla fissò sbalordito davanti a sé e si sentí solcare la fronte da una goccia di sudore caldo. Disse qualcosa, ma le parole non avevano senso, come se si fosse verificato un errore nel collegamento tra il cervello e la bocca. Udí di nuovo il sibilo sommesso. Poi il suono cessò. Ogni suono: non sentiva piú neanche il proprio respiro. Si rese conto di essere inginocchiato e che la bicicletta stava cadendo lentamente in un fosso. La luce gialla danzava davanti a lui, ma poi sparí appena la goccia di sudore raggiunse la sella del naso, colò negli occhi e lo accecò. E capí che non era sudore.
Il terzo colpo fu come un ghiacciolo che si conficcava nella testa, nel collo, fin dentro il corpo. Tutto gelò.
«Non voglio morire», pensò cercando di alzare il braccio sopra la testa per proteggersi, ma non riusciva a muovere gli arti, e capí di essere paralizzato.
Il quarto colpo non lo percepí, ma dall’odore concluse di giacere nella terra bagnata. Batté piú volte le palpebre e riacquistò la vista da un occhio. Nel fango proprio davanti al suo viso scorse un paio di grossi scarponi sporchi. I tacchi si sollevarono, poi gli scarponi si staccarono un po’ dal suolo. Il movimento si ripeté. I tacchi si sollevarono e gli scarponi si staccarono dal suolo. Come se l’uomo che lo stava picchiando saltasse per darsi la spinta. Saltasse per aumentare la forza dei colpi. E l’ultimo pensiero che gli balenò nella mente fu che doveva ricordare come si chiamava lei, la sua nipotina, che non doveva dimenticare il suo nome.
L’agente Anton Mittet estrasse il bicchiere di plastica mezzo pieno dalla piccola macchina Nespresso D290 rossa, si abbassò e lo posò sul pavimento. Non c’erano mobili su cui poggiarlo. Poi capovolse il lungo contenitore facendone uscire un’altra capsula e controllò istintivamente che il sottile coperchio di stagnola non fosse bucato, che fosse intatto, prima di infilarla nella macchinetta. Mise un bicchiere di plastica vuoto sotto il becco e pigiò uno dei pulsanti luminosi.
Consultò l’orologio mentre la macchina cominciava a soffiare e a sibilare. Quasi mezzanotte. Cambio della guardia. A casa lo aspettavano, ma era dell’idea di doverle prima spiegare l’incarico, in fondo non era che un’allieva della Scuola di polizia. Silje: era questo il suo nome? Anton Mittet fissò l’erogatore. Sarebbe andato a prendere il caffè se si fosse trattato di un collega maschio? Non lo sapeva, né gliene importava, aveva rinunciato a dare delle risposte a domande simili. Era calato un silenzio tale che udí le ultime gocce quasi lucide cadere nel bicchiere. Ormai la capsula aveva ceduto tutto il colore e l’aroma, ma era importante sfruttarla al massimo, la ragazza aveva davanti una lunga notte di guardia. Senza compagnia, senza imprevisti, senza altro da f3are che fissare i nudi muri di cemento del Rikshospital. Perciò aveva pensato di bere un caffè insieme a lei prima di andare via. Prese entrambi i bicchieri e tornò indietro. Le pareti diffondevano il rumore dei suoi passi. Superò porte chiuse a chiave. Sapeva che dietro non c’era niente e nessuno, soltanto altre pareti nude. Nel caso del Rikshospital, una volta tanto i norvegesi avevano costruito per il futuro, consapevoli che sarebbero diventati di piú, piú vecchi, piú malati, piú esigenti. Erano stati lungimiranti, come i tedeschi con le autostrade e gli svedesi con gli aeroporti. Ma i rari automobilisti che negli anni Trenta attraversavano le campagne tedesche in maestosa solitudine su quelle mastodontiche strade di cemento, o i passeggeri svedesi che si affrettavano per i terminal sovradimensionati di Arlanda negli anni Sessanta, avevano avvertito un senso di sventura? Che, nonostante fosse tutto nuovo di zecca, immacolato, e nessuno fosse ancora morto in incidenti stradali o aerei, regnava un senso di sventura. Che da un momento all’altro i fari dell’auto avrebbero potuto illuminare una famiglia sul ciglio della strada che fissava con occhi vacui la luce: coperti di sangue, pallidi, il padre infilzato, la madre con la testa rigirata, un bambino con gli arti solo da un lato. Che dalla tenda di plastica del nastro trasportatore agli Arrivi di Arlanda potessero sbucare all’improvviso cadaveri carbonizzati che ancora ardevano senza fiamma, squagliavano la gomma con urla mute nelle bocche spalancate e fumanti. Nessuno dei medici gli aveva saputo dire quale sarebbe stata la destinazione futura di quell’ala, l’unica certezza era che dietro le sue porte sarebbe morto qualcuno. Era nell’aria: corpi invisibili dall’anima inquieta occupavano già i letti.
Anton svoltò un angolo, e gli si dispiegò davanti un altro corridoio, poco illuminato, spoglio come quello prima e cosí simmetricamente squadrato da creare una singolare illusione ottica: la ragazza in divisa seduta giú in fondo sembrava un piccolo quadro su una parete liscia proprio di fronte a lui.
– Tieni, ne ho portato uno anche a te, – disse fermandosi davanti a lei. Vent’anni? Un po’ di piú. Forse ventidue.
– Grazie, ma ce l’ho, – rispose lei estraendo un thermos dallo zainetto posato accanto alla sedia. Il suo tono aveva un’inflessione quasi impercettibile, i residui di un dialetto del nord, forse.
– Questo qui è meglio, – insisté lui con la mano ancora tesa.
La ragazza esitò. Lo prese.
– Ed è gratis, – aggiunse Anton e spostò con discrezione la mano dietro la schiena strofinandosi i polpastrelli scottati contro la stoffa fredda della giacca. – Abbiamo la macchinetta tutta per noi, in effetti. È nel corridoio, giú, vicino a…
– L’ho vista quando sono arrivata, – disse lei. – Ma nella consegna c’è scritto che non dobbiamo mai allontanarci dalla porta della camera del paziente, perciò me lo sono portato da casa.
Anton Mittet bevette un sorso dal suo bicchiere. – Sei stata previdente, ma c’è un solo corridoio che porta qui. Siamo al terzo piano, e tra questo punto e la macchina del caffè non ci sono porte d’accesso ad altre scale o ad altri ingressi. È impossibile evitarci, anche se siamo andati a prendere il caffè.
– Questo mi rassicura, ma preferisco attenermi alla consegna –. Gli rivolse un sorriso breve. E poi, forse per controbilanciare il rimprovero implicito, bevette un sorso di caffè.
Anton sentí una punta di irritazione, e stava per fare un commento a proposito del pensiero indipendente cui si arriva con l’esperienza, ma non fece in tempo a completare il concetto che notò qualcosa in lontananza nel corridoio. La figura bianca sembrava venire verso di loro sospesa a mezz’aria. Udí Silje alzarsi. La figura assunse una forma piú consistente, tramutandosi in una donna bionda e prosperosa nella divisa da infermiera dell’ospedale. Anton sapeva che faceva il turno di notte. E che l’indomani sarebbe stata di riposo.
– Buonasera, – salutò l’infermiera con un sorriso faceto, alzò due siringhe e si diresse verso la porta, strinse la maniglia.
– Un momento, – disse Silje avanzando di un passo. – Ti devo chiedere di mostrarmi il tuo tesserino di riconoscimento. Hai anche la parola d’ordine di oggi?
L’infermiera guardò Anton sbalordita.
– A meno che il mio collega qui presente non possa garantire per te, – aggiunse Silje.
Anton annuí: – Va’ pure, Mona.
L’infermiera aprí la porta, e Anton la seguí con lo sguardo. Nella stanza illuminata debolmente scorse le apparecchiature intorno al letto e le dita dei piedi che spuntavano da sotto il piumino. Il paziente era cosí alto che avevano dovuto reperire un letto fuori misura. La porta si richiuse.
– Bene, – disse Anton sorridendo a Silje. E guardandola capí che non aveva gradito. Che lo considerava un maschilista che aveva appena dato il voto a una collega piú giovane. Ma per la miseria, lei era un’allieva, lo scopo dell’anno di tirocinio era proprio quello di imparare dai poliziotti esperti. Anton indugiò oscillando sui tacchi, incerto su come affrontare la situazione. Lei lo prevenne.
– Ripeto, ho letto la consegna. E immagino che tu abbia una famiglia che ti aspetta.
Anton si portò il bicchiere di caffè alla bocca. Che ne sapeva lei del suo stato civile? Aveva insinuato qualcosa, qualcosa a proposito di lui e di Mona, per esempio? Che lui l’aveva accompagnata a casa un paio di volte a fine turno, e che la cosa non era finita lí?
– L’adesivo con l’orsetto sulla tua sacca, – gli disse sorridendo.
Lui bevette un lungo sorso. Si schiarí la voce. – Non ho fretta. Visto che è la tua prima guardia, se hai qualche dubbio è il momento di approfittarne. Sai, non c’è sempre scritto tutto nella consegna –. Spostò il peso del corpo. Sperava che lei avesse sentito e colto l’antifona.
– Come vuoi, – disse Silje con quella sicurezza irritante che ci si può permettere solo se si ha meno di venticinque anni. – Il paziente là dentro, chi è?
– Non lo so. C’è scritto anche questo nella consegna. È anonimo e tale deve restare.
– Però tu sai qualcosa.
– Ah sí?
– Mona. Non ti rivolgi a una persona chiamandola per nome se non ci hai scambiato qualche parola. Che cosa ti ha detto l’infermiera?
Anton Mittet la guardò. Certo, era carina, ma fredda e priva di fascino. Un po’ troppo magra per i suoi gusti. Capelli spettinati e il labbro superiore che sembrava tenuto su da un tendine troppo corto e scopriva due incisivi irregolari. Però aveva la giovinezza. Un corpo sodo e in forma sotto la divisa nera, ne era sicuro. Quindi, se le avesse detto quello che sapeva, lo avrebbe fatto perché secondo i suoi calcoli inconsci un atteggiamento disponibile avrebbe aumentato le probabilità di riuscire a portarsela a letto dello 0,01 per cento? Oppure perché le ragazze come Silje sarebbero state promosse ispettrici o agenti speciali investigativi nel giro di cinque anni, diventando suoi superiori mentre lui sarebbe rimasto agente semplice, un misero agente per colpa del caso Drammen, che sarebbe sempre stato là, come un muro, una macchia indelebile.
– Hanno tentato di ucciderlo, – disse Anton. – Ha perso molto sangue, dicono che quasi non aveva piú polso quando lo hanno portato qui. È sempre stato in coma.
– Perché il piantonamento?
Anton si strinse nelle spalle. – Potenziale testimone. Se dovesse sopravvivere.
– Che cosa sa?
– Storie di droga. Ad alto livello. Se dovesse risvegliarsi, probabilmente potrà dare informazioni utili a incastrare personaggi importanti del traffico di eroina a Oslo. Oltre a rivelare chi ha tentato di ucciderlo.
– Quindi pensano che l’assassino tornerà per finire il lavoro?
– Se dovesse venire a sapere che è vivo e dove si trova, sí. Per questo siamo qui.
Lei annuí. – E ce la farà?
– Pensano di riuscire a tenerlo in vita per qualche mese, ma le probabilità che si risvegli dal coma sono minime. Comunque… – Anton spostò di nuovo il peso del corpo, alla lunga lo sguardo scrutatore della ragazza era imbarazzante. – Fino a quel momento dovremo proteggerlo.
Anton Mittet la lasciò con un senso di sconfitta, scese le scale dall’accettazione e uscí nella sera autunnale. Solo al momento di salire in macchina nel parcheggio si accorse che il cellulare squillava.
Era la centrale operativa.
– Maridalen, un omicidio, – disse Zero Uno. – Lo so che sei smontato di servizio, ma hanno bisogno di una mano per delimitare la scena del crimine. E visto che sei già in divisa…
– Quanto tempo?
– Avrai un rimpiazzo nel giro di tre ore, al massimo.
Anton era sbalordito. Negli ultimi tempi facevano i salti mortali pur di evitare che la gente facesse gli straordinari, il regolamento rigido combinato con il budget non permetteva neanche variazioni di ordine pratico. Aveva il presentimento che si trattasse di un omicidio particolare. Sperava che la vittima non fosse una bambina.
– Bene, – rispose Anton Mittet.
– Ti mando le coordinate Gps –. Era la grande novità: il navigatore dotato di cartina dettagliata di Oslo e dintorni e di antenna attiva che permetteva alla centrale operativa di localizzarti. Probabilmente lo avevano chiamato per questo: era il piú vicino.
– Perfetto, – disse Anton. – Tre ore.
Anche se era andata a dormire, a Laura piaceva che lui tornasse direttamente a casa dal lavoro, perciò le mandò un sms prima di innestare la marcia e dirigersi verso il lago Maridal.
Anton non ebbe bisogno di guardare il navigatore. All’imbocco di Ullevålseterveien c’erano quattro autopattuglie parcheggiate, e un po’ piú avanti nastri segnaletici arancione e bianchi indicavano dove andare.
Prese la torcia dal vano portaoggetti e si diresse verso l’agente piazzato di fronte alla recinzione. Vide le torce guizzare nel boschetto, ma anche i proiettori della Scientifica che facevano sempre pensare a riprese cinematografiche. E quell’associazione non era neanche tanto lontana dalla verità: oggigiorno non scattavano solo istantanee, utilizzavano anche videocamere hd con cui oltre alle vittime riprendevano tutta la scena del crimine, per poterla riesaminare in un secondo momento, fermare l’immagine e ingrandire particolari che di primo acchito non avevano ritenuto importanti.
– Di che si tratta? – domandò al collega tremante che indugiava a braccia conserte davanti al nastro segnaletico.
– Omicidio –. L’uomo aveva la voce velata. Gli occhi iniettati di sangue nel viso di un pallore innaturale.
– Questo me l’hanno detto. Chi dirige?
– La Scientifica. Lønn.
Anton udí il vocio proveniente dal bosco. Erano in molti. – Ancora nessuno della Kripos o dell’Anticrimine?
– Arriveranno, il cadavere è appena stato scoperto. Sei venuto per darmi il cambio?
Sarebbero aumentati ancora. E ciononostante gli avevano assegnato gli straordinari. Anton guardò meglio il collega. Indossava un cappotto pesante ma il tremore era peggiorato. E dire che non faceva nemmeno freddo.
– Sei stato il primo ad arrivare sulla scena del crimine?
L’agente annuí senza aprire bocca, abbassò gli occhi. Batté forte i piedi sul terreno.
«Maledizione, – pensò Anton. – Una bambina». Deglutí.
– Ah, Anton, ti ha mandato Zero Uno?
Levò lo sguardo. Non aveva udito i due, anche se erano usciti dalla fitta boscaglia. Aveva già visto come i tecnici della Scientifica si muovevano sulla scena del crimine, sembravano ballerini un po’ goffi, si abbassavano e si contorcevano per non toccare nulla, poggiavano i piedi quasi fossero astronauti sulla luna. O forse erano le tute protettive bianche a fare venire in mente quell’associazione.
– Sí, devo dare il cambio a qualcuno, – rispose alla donna. Sapeva chi era, lo sapevano tutti. Beate Lønn, il capo della Scientifica, aveva fama di essere una sorta di rain man al femminile per le sue spiccate doti di fisionomista che venivano sfruttate per identificare i rapinatori nei video di sorveglianza sgranati e sfarfallanti. Si diceva che fosse capace di riconoscere perfino i rapinatori ben mascherati se erano recidivi, che avesse un database di migliaia di foto segnaletiche nella sua testolina bionda. Quindi, quell’omicidio doveva essere particolare, non mandavano i capi sulla scena del crimine in piena notte.
Accanto al viso pallido, traslucido della donna esile, quello del collega sembrava quasi arrossato. Le guance lentigginose erano ornate da basette che parevano due penisole rosso fiammante. Gli occhi erano un po’ sporgenti, come se dietro la pressione fosse un po’ eccessiva, e gli conferivano un’espressione leggermente sbalordita. Ma il particolare piú vistoso era il copricapo che divenne visibile appena si tolse il cappuccio bianco. Un grosso berretto rasta nei colori della bandiera giamaicana: verde, giallo e nero.
Beate Lønn mise una mano sulla spalla del poliziotto tremante. – Adesso va’ a casa, Sivert. Non dire che te l’ho detto io, ma ti consiglio un drink forte e poi a letto.
L’agente annuí, e dopo tre secondi la schiena ricurva fu inghiottita dal buio.
– È una roba raccapricciante? – domandò Anton.
– Non ti sei portato il caffè? – chiese il berretto rasta aprendo un thermos. Ad Anton bastarono quelle poche parole per capire che non era di Oslo. Veniva dalla campagna, certo, ma come la maggioranza di chi abitava nelle città dell’Østland Anton non aveva né orecchio né un interesse particolare per i dialetti.
– No, – rispose Anton.
– Conviene sempre portarsi il caffè sulla scena del crimine, – disse il berretto rasta. – Non sai mai quanto tempo ci devi passare.
– Piano, piano, Bjørn, guarda che si è già occupato di un omicidio, – intervenne Beate Lønn. – Drammen, vero?
– Esatto, – rispose Anton oscillando sui talloni. Si era già occupato di un omicidio per modo di dire, sarebbe stato piú esatto. E purtroppo pensava di sapere perché Beate Lønn si ricordasse di lui. Trasse un respiro. – Chi ha trovato il corpo?
– Lui, – rispose Beate Lønn indicando con un cenno della testa l’auto dell’agente, che in quello stesso istante fu messa in moto e mandata su di giri.
– Volevo dire: chi ha trovato il corpo e dato l’allarme?
– La moglie ha telefonato non vedendolo rientrare dal suo giro in bicicletta, – rispose il berretto rasta. – Avrebbe dovuto durare al massimo un’ora e lei temeva per il suo cuore. Aveva con sé un navigatore con antenna attiva, perciò lo hanno trovato subito.
Anton annuí lentamente, immaginando la scena. Due poliziotti, un maschio e una femmina, che suonano alla porta. Tossicchiano, guardano la donna con espressione grave per dirle quello che presto dovranno ripetere a parole, parole impossibili. Il viso della donna che resiste, non vuole, ma poi ecco che sembra rivoltarsi, mostrare l’interno, mostrare tutto quanto.
L’immagine di Laura, sua moglie, gli affiorò nella mente.
Un’ambulanza stava venendo verso di loro, senza sirena né lampeggianti azzurri.
E allora Anton capí. La reazione immediata a una normale denuncia di scomparsa. Il navigatore munito di antenna. Il grande spiegamento di forze. Gli straordinari. Il collega talmente scosso da quello che aveva visto da dover essere mandato a casa.
– È un poliziotto, – disse sottovoce.
– Immagino che la temperatura qui fosse inferiore di un grado e mezzo rispetto alla città, – disse Beate Lønn digitando un numero sul cellulare.
– Sono d’accordo, – disse il berretto rasta bevendo un sorso dalla tazza del thermos. – La pelle non ha ancora cambiato colore. Quindi, tra le otto e le dieci?
– Un poliziotto, – ripeté Anton. – È per questo che sono venuti tutti, non è vero?
– Katrine? – disse Beate. – Potresti controllare una cosa per me? Si tratta del caso Sandra Tveten. Esatto.
– Porco cane! – esclamò il berretto rasta. – Li avevo pregati di aspettare l’arrivo dei sacchi porta-cadavere.
Anton si voltò e vide due uomini uscire a fatica dalla boscaglia con una lettiga della Scientifica. Sotto la coperta spuntava un paio di scarpe da ciclista.
– Lo conosceva, – insisté Anton. – Per questo tremava tanto, non è vero?
– Ha detto che avevano lavorato insieme a Økern prima che Vennesla passasse alla Kripos, – rispose il berretto rasta.
– Hai la data? – domandò Lønn al telefono.
Si udí un’esclamazione.
– Ma che… – disse il berretto rasta.
Anton si girò. Uno dei barellieri era scivolato nella cunetta. Il fascio di luce della sua torcia lambí la barella. La coperta che era caduta. E poi… poi cosa? Anton fissò lo sguardo. Era una testa? La cosa all’estremità di quello che indubbiamente era un corpo umano, era veramente stata una testa? Negli anni in cui aveva prestato servizio nell’Anticrimine, prima del grande sbaglio, Anton aveva visto molti cadaveri, ma nessuno ridotto in quello stato. Quella massa a forma di clessidra gli fece venire in mente la colazione della domenica a casa, l’uovo bazzotto di Laura con i pezzetti di guscio ancora attaccati e, dal punto in cui si era rotto, il tuorlo giallo colava rapprendendosi sopra il bianco solidificato ma ancora morbido. Era mai possibile che fosse una… testa?
Anton batté le palpebre nel buio mentre guardava sparire i fanalini di coda dell’ambulanza. E si rese conto che era una replica, che aveva già visto tutto quanto. Le figure vestite di bianco, il thermos, i piedi che spuntavano da sotto la coperta, aveva appena visto tutto al Rikshospital. Come se fosse stato un presagio. La testa…
– Grazie, Katrine, – disse Beate.
– Che c’è? – domandò il berretto rasta.
– Ho lavorato insieme a Erlend proprio qui, – rispose Beate.
– Qui? – disse il berretto rasta.
– Proprio qui. Lui dirigeva la squadra investigativa. Sono sicuramente passati dieci anni. Sandra Tveten. Stuprata e uccisa. Non era che una bambina.
Anton deglutí. Bambina. Replica.
– Mi ricordo quel caso, – disse il berretto rasta. – Il destino è davvero strano: morire nello stesso luogo di un omicidio su cui hai indagato, pensa. Sbaglio, o anche il caso Sandra era in autunno?
Beate non rispose, limitandosi ad annuire adagio.
Anton batté le ciglia ripetutamente. Non era vero, lui aveva visto un cadavere somigliante.
– Porco cane! – imprecò sottovoce il berretto rasta. – Non starai dicendo che…?
Beate Lønn gli sfilò di mano la tazza del thermos. Bevette un sorso. Glielo restituí. Confermò con un cenno della testa.
– Maledizione, – bisbigliò il berretto rasta.
– Il déjà vu, – disse Ståle Aune guardando la neve turbinare fitta sopra Sporveisgata mentre il buio della mattina di dicembre cedeva a un giorno breve. Poi si rigirò verso l’uomo seduto dall’altra parte della scrivania. – Il déjà vu è la sensazione di vedere qualcosa che si è già visto. Non sappiamo cosa sia.
Con quella prima persona plurale intendeva gli psicologi in generale, non solo i terapeuti.
– Secondo alcuni quando siamo stanchi si verifica un ritardo nell’invio delle informazioni alla parte cosciente del cervello, cosicché giungono a destinazione dopo essere rimaste nell’inconscio per un po’ di tempo. E perciò ci sembra di riconoscere l’evento. La stanchezza spiegherebbe perché la frequenza dei déjà vu aumenti alla fine della settimana lavorativa. Ma questo è piú o meno tutto quello che la ricerca è in grado di dire. Che il venerdí è il giorno dei déjà vu.
Forse Ståle Aune aveva sperato in un sorriso. Non che i sorrisi incidessero in qualche modo sui suoi sforzi professionali per indurre la gente ad aggiustare sé stessa, bensí perché la situazione lo imponeva.
– Non intendevo questo genere di déjà vu, – disse il paziente. L’utente. Il cliente. La persona che di lí a una ventina di minuti avrebbe pagato alla reception contribuendo cosí a coprire le spese comuni dei cinque psicologi che avevano uno studio ciascuno nell’anonimo e allo stesso tempo antiquato palazzo a quattro piani in Sporveisgata, nella semielegante zona ovest di Oslo. Ståle Aune lanciò un’occhiata furtiva all’orologio sulla parete dietro la testa dell’uomo. Diciotto minuti.
– È piuttosto una specie di sogno che faccio in continuazione.
– Una specie di sogno? – Ståle Aune scorse di nuovo con lo sguardo il giornale che teneva aperto nel cassetto spalancato della scrivania per evitare che il paziente lo vedesse. Oggigiorno quasi tutti i terapeuti sedevano di fronte al paziente, e quando Ståle si era fatto portare l’ingombrante scrivania nello studio, i suoi colleghi sghignazzanti gli avevano ricordato che secondo la moderna teoria terapeutica era meglio avere meno barriere fisiche possibili tra sé e il paziente. La sua risposta era stata concisa: «Meglio per il paziente, forse».
– È un sogno, che faccio.
– I sogni ricorrenti sono normali, – disse Aune portandosi una mano alla bocca per nascondere lo sbadiglio. Pensò pieno di nostalgia al caro vecchio divanetto che era stato portato via dal suo studio e adesso era di là nello spazio comune, dove con sopra un portapesi e un bilanciere costituiva una facezia psicoterapeutica per iniziati. I pazienti sul divanetto avevano infatti facilitato ancora di piú la lettura spudorata del giornale.
– Ma è un sogno che non voglio fare –. Un sorriso misurato, presuntuoso. Capelli radi, in ordine.
«Benvenuto dall’esorcista dei sogni», pensò Aune sforzandosi di rispondergli con un sorriso altrettanto misurato. Il paziente indossava un gessato, una cravatta a righe grigie e rosse e un paio di scarpe nere lucide. Da parte sua Aune era in giacca di tweed, allegro papillon sotto i doppi menti e scarpe marrone che non vedevano una spazzola da parecchio tempo. – Mi puoi raccontare che cosa accade nel sogno?
– L’ho appena fatto.
– Appunto. Ma forse puoi aggiungere qualche particolare?
– Come ho già detto, inizia nel punto in cui finisce The Dark Side of the MoonEclipse sfuma mentre David Gilmour canta… – L’uomo increspò le labbra prima di passare a un inglese cosí affettato che Aune quasi vedeva la tazza di tè avvicinarsi alla bocca. – «… and everything under the sun is in tune but the sun is eclipsed by the moon».
– Ed è questo che sogni?
– No! Sí. Insomma, il disco finisce cosí anche nella realtà. Con una nota ottimistica. Dopo tre quarti d’ora di morte e di pazzia. Perciò pensi che tutto andrà bene. È tornata l’armonia. Ma poi, mentre l’album sfuma, senti una voce in sottofondo mormorare qualcosa. Sei costretto ad alzare il volume per distinguere le parole. Allora, in compenso, le senti benissimo: «There is no dark side of the moon, really. Matter of fact, it’s all dark». È tutto oscuro. Capisci?
– No, – rispose Aune. Secondo il manuale avrebbe dovuto chiedergli: «Per te è importante che io capisca?» o qualcosa di questo tenore. Ma non ce la faceva.
– Il male non esiste perché tutto è malvagio. Lo spazio è oscuro. Nasciamo cattivi. Il male è il fondamento, la condizione naturale. Poi, di tanto in tanto, compare una luce piccolissima. Ma non è che un fatto momentaneo, dobbiamo tornare all’oscurità. Ed è questo che succede nel sogno.
– Continua, – disse Aune, si girò sulla sedia e guardò fuori della finestra con aria assorta. Cercò di dissimulare la sua voglia di vedere qualcosa di diverso dalla faccia dell’altro, che esprimeva autocommiserazione mista ad autocompiacimento. Quell’uomo si considerava evidentemente un caso eccezionale, allettante per uno psicologo. Senza dubbio in passato era già stato in terapia. Aune vide giú in strada un ausiliario del traffico avanzare dondolando a gambe larghe come uno sceriffo, e si chiese quali altri lavori si confacessero a Ståle Aune. E arrivò subito alla conclusione. Nessuno. E poi amava la Psicologia, amava navigare nella zona tra ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo, combinare la sua pesante zavorra di nozioni concrete con l’intuito e la curiosità. O almeno, questo era quanto si ripeteva tutte le mattine. E allora perché se ne stava seduto là impaziente che quella persona chiudesse la bocca e sparisse dal suo studio, dalla sua vita? Il motivo era la persona, o il lavoro di terapeuta? Era stato l’ultimatum di Ingrid, taciuto e malcelato, che gli aveva chiesto di lavorare meno ed essere piú presente per lei e per la figlia Aurora, a imporre i cambiamenti. Aveva rinunciato alla ricerca, che portava via molto tempo, alle consulenze per l’Anticrimine e alle lezioni alla Scuola di polizia. Era diventato un terapeuta a tempo pieno con orari di lavoro fissi. Gli era sembrata un’ottima scelta. Quali rimpianti gli lasciavano le cose cui aveva rinunciato? Forse quello di di fare il profiling di menti malate che uccidevano la gente con un’efferatezza tale da guastargli il sonno, e – ammesso che riuscisse a dormire – di essere svegliato dal commissario Harry Hole che pretendeva risposte pronte a domande impossibili? Che Hole lo avesse trasformato a sua immagine e somiglianza in un cacciatore monomaniaco esausto e sfinito per la carenza di sonno, che scattava con chiunque lo disturbasse mentre lavorava all’unica cosa che riteneva importante, e pian piano ma inesorabilmente allontanava colleghi, familiari e amici?
Ne aveva eccome, di rimpianti, per la miseria. Rimpiangeva l’importanza.
Rimpiangeva la sensazione di salvare vite umane. E non quella del maniaco suicida razionale che di tanto in tanto lo spingeva a porsi la domanda: se per una persona la vita è tanto dolorosa e noi non siamo in grado di cambiarla, perché non dovremmo semplicemente permetterle di morire? Rimpiangeva il suo ruolo attivo, di quello che interviene, che salva l’innocente dal colpevole, che fa ciò di cui nessun altro è capace perché lui, Ståle Aune, è il migliore. Era tanto semplice. Sí, aveva nostalgia di Harry Hole. Aveva nostalgia di sentire al telefono la voce di quell’uomo alto, scontroso, alcolizzato, dal grande cuore incitarlo, o meglio, chiamarlo al servizio della comunità, pretendere che sacrificasse la vita familiare e il sonno per catturare uno scarto della società. Ma all’Anticrimine non c’era piú un commissario di nome Harry Hole, e nessun altro lo aveva cercato. Il suo sguardo scorse di nuovo le pagine del giornale. C’era stata una conferenza stampa. Erano passati quasi tre mesi dall’omicidio dell’agente a Maridalen, e la polizia non aveva ancora né indizi né sospettati. Era uno di quei casi per i quali in passato gli avrebbero telefonato. L’omicidio era stato commesso nello stesso luogo e nello stesso giorno di un vecchio caso irrisolto. La vittima era un poliziotto che aveva partecipato alle indagini sul primo delitto.
Ma era acqua passata. Ora Aune doveva occuparsi dell’insonnia di un uomo d’affari sovraffaticato che gli era antipatico. Di lí a poco gli avrebbe posto le domande che con tutta probabilità avrebbero escluso disturbi da stress post traumatico. La funzionalità dell’uomo che aveva di fronte non era compromessa dagli incubi, lui voleva soltanto riportare la sua produttività al massimo. Dopo di che Aune gli avrebbe dato una copia dell’articolo Imagery Rehearsal Therapy di Krakow e… non ricordava piú gli altri nomi. Gli avrebbe chiesto di annotare l’incubo e di portarlo la prossima volta. Allora avrebbero elaborato insieme un finale alternativo, lieto, e poi avrebbero fatto degli esercizi per memorizzarlo, in modo che il sogno sembrasse piú gradevole oppure sparisse completamente.
Aune sentiva il ronzio monotono, soporifero della voce del paziente e pensò che l’omicidio di Maridalen era a un punto morto fin dal primo giorno. Neanche quando erano emerse le ovvie corrispondenze con il caso Sandra, il giorno, il luogo e la persona, la Kripos e l’Anticrimine avevano fatto progressi. E ora incoraggiavano la gente a riflettere bene e a telefonare per dare delle dritte, anche se sembravano irrilevanti. Era stato questo il nocciolo della conferenza stampa del giorno prima. Aune sospettava che fosse tutta scena, nient’altro che il bisogno della polizia di dimostrare che faceva qualcosa, che non era paralizzata. Anche se dava proprio quest’impressione: i responsabili delle indagini impotenti e molto criticati che si rivolgevano rassegnati alla cittadinanza con un «vediamo se voi riuscite a fare di meglio».
Guardò la foto della conferenza stampa. Riconobbe Beate Lønn. Gunnar Hagen, il capo dell’Anticrimine, che somigliava sempre di piú a un monaco con quei capelli spessi e folti che sembravano formare una corona di alloro intorno al cocuzzolo lucido e scintillante. Perfino Mikael Bellman, il nuovo capo della polizia, era presente: dopo tutto si trattava dell’omicidio di uno dei suoi uomini. Il viso teso. Piú magro di come lo ricordava Aune. Evidentemente la capigliatura fotogenica, ai limiti della lunghezza eccessiva, era stata sacrificata a un certo punto tra l’incarico di capo della Kripos e dell’Orgkrim e l’ufficio dello sceriffo vero e proprio. Aune pensò alla bellezza quasi femminile di Bellman, sottolineata dalle ciglia lunghe e dall’abbronzatura con le caratteristiche macchie bianche. Nella foto non si vedeva niente di tutto questo. Chiaramente l’omicidio irrisolto di un poliziotto costituiva il peggior inizio possibile per un capo della polizia che aveva fondato la sua carriera fulminea sul successo. Aveva tolto di mezzo le bande di spacciatori di Oslo, ma quell’impresa rischiava di essere dimenticata presto. Certo, tecnicamente il pensionato Erlend Vennesla non era stato ucciso in servizio, ma i piú avevano capito che in qualche modo la sua morte aveva a che fare con l’omicidio Sandra. E infatti, Bellman aveva mobilitato tutti i suoi uomini e tutte le risorse esterne possibili e immaginabili. Eccetto lui, Ståle Aune. Era stato depennato dalla lista. Ovviamente, dato che lo aveva chiesto lui.
E ora l’inverno era arrivato presto portando con sé la sensazione che la neve si posasse sopra le tracce. Tracce fredde. Tracce mancanti. Beate Lønn aveva parlato proprio di questo durante la conferenza stampa, dell’assenza quasi singolare di tracce. Naturalmente avevano controllato tutte le persone che in un modo o nell’altro avevano avuto a che fare con il caso Sandra. Sospettati, parenti, amici, addirittura colleghi di Vennesla che avevano partecipato alle indagini. Ma neanche questo aveva dato risultati.
Nella stanza era calato il silenzio, e dall’espressione del paziente Ståle Aune capí che gli aveva appena rivolto una domanda e aspettava una risposta.
– Mhm, – disse, appoggiò il mento sul pugno e guardò l’altro negli occhi. – Tu cosa ne pensi?
Lo sguardo dell’uomo era confuso, e per un momento Aune temette che avesse chiesto un bicchiere d’acqua o qualcosa del genere.
– Cosa ne penso del fatto che lei sorrida? O della luce intensa?
– Tutt’e due.
– A volte penso che lei sorrida perché le piaccio. Altre volte penso che sorrida perché vuole che faccia qualcosa. Ma quando smette di sorridere, quella luce intensa nei suoi occhi si spegne e allora è troppo tardi per saperlo, perché lei non vuole piú parlare. Perciò penso che forse la spiegazione è l’amplificatore, o no?
– Ehm… l’amplificatore?
– Sí –. Pausa. – Quello di cui ho parlato. Quello che papà spegneva sempre quando entrava in camera mia e mi diceva che avevo ascoltato quel disco anche troppo, che la mia fissazione rasentava la follia. E poi ho detto che la lucina rossa accanto all’interruttore diventava sempre piú debole fino a sparire. Come un occhio. O un tramonto. E allora pensavo di averla perduta. Ecco perché tace alla fine del sogno. Lei è l’amplificatore che ammutolisce quando papà lo spegne. E allora non posso piú parlarle.
– Ascoltavi dischi e pensavi a lei?
– Sí. In continuazione. All’incirca fino ai sedici anni. E non dischi, ma il disco.
– The Dark Side of the Moon?
– Sí.
– Ma lei non ti voleva?
– Non lo so. Può darsi. Non allora.
– Mhm. La seduta è finita. Ti do qualcosa da leggere per la prossima volta. E poi voglio che cambiamo il finale del sogno. Lei deve parlare. Ti deve dire qualcosa. Qualcosa che vorresti ti dicesse. Che le piaci, magari. Ci pensi per la prossima volta?
– Va bene.
Il paziente si alzò, prese il cappotto dall’appendiabiti a stelo e si diresse verso la porta. Aune rimase seduto, consultò l’agenda sullo schermo luminoso del pc. Metteva tristezza per quanto era già strapiena. E poi si rese conto che gli era successo di nuovo: aveva completamente dimenticato il nome del paziente. Lo trovò nell’agenda. Paul Stavnes.
– Fra una settimana, stessa ora, va bene?
– Benissimo.
Ståle prese nota. E quando levò di nuovo lo sguardo Stavnes era già uscito.
Si alzò, prese il giornale e raggiunse la finestra. Dove accidenti si era cacciato il tanto promesso riscaldamento globale? Abbassò lo sguardo sul quotidiano, ma all’improvviso non ne ebbe piú voglia, lo buttò da una parte: settimane e mesi di studio dei giornali potevano bastare. Ucciso. Colpi di una violenza efferata alla testa. Erlend Vennesla lascia la moglie, un figlio e una nipotina. Amici e colleghi sotto choc. «Una persona affabile e gentile». «Impossibile non trovarlo simpatico». «Buono, onesto e conciliante, non aveva assolutamente nemici». Ståle Aune trasse un respiro profondo. There is no dark side of the moon, really. Matter of fact, it’s all dark.
Guardò il telefono. Loro avevano il suo numero. Ma era muto. Proprio come la ragazza del sogno.
Gunnar Hagen, il capo dell’Anticrimine, si passò una mano sulla fronte, poi la spinse lungo il canale lagunare sulla sommità della testa. Il sudore che si raccolse nel palmo fu assorbito dal folto atollo di capelli che copriva la nuca. La squadra investigativa sedeva davanti a lui. Nel caso di un omicidio di ordinaria amministrazione normalmente sarebbe stata formata da dodici elementi. Ma l’omicidio di un collega era un fatto eccezionale e fino all’ultima sedia della sala «K2» era occupata: poco meno di cinquanta persone. Se si contavano anche quelle in malattia, il gruppo arrivava a cinquantatre agenti. Ed entro breve altri ancora si sarebbero messi in malattia, la pressione dei media cominciava a farsi sentire. L’unica nota positiva di quel caso era che aveva avvicinato di piú le due maggiori unità investigative della Norvegia, l’Anticrimine e la Kripos. Ogni rivalità era stata messa da parte, e una volta tanto avevano collaborato come una sola squadra, con l’unico obiettivo di trovare chi aveva ucciso il loro collega. Nelle prime settimane avevano lavorato con una convinzione e una grinta tali da convincere Hagen che avrebbero risolto il caso presto nonostante la mancanza di reperti, testimoni, possibili moventi, possibili sospettati e indizi possibili o impossibili. Semplicemente perché la volontà era formidabile, le maglie della rete fittissime, le risorse a disposizione quasi illimitate. E invece.
I visi stanchi e grigi lo fissavano con un’apatia che era diventata sempre piú evidente nelle ultime settimane. E la conferenza stampa del giorno prima – che purtroppo era sembrata una capitolazione con quella richiesta d’aiuto a chiunque fosse in grado di darne – non aveva risollevato il morale. Oggi erano arrivati altri due certificati di malattia, e dire che non si trattava di persone abituate a gettare la spugna per qualche starnuto. Come se non bastasse il caso Vennesla, quello di Gusto Hanssen da chiuso era stato classificato irrisolto dopo il rilascio di Oleg Fauke e la conseguente ritrattazione di Chris «Adidas» Reddy. Comunque, il caso Vennesla aveva un lato positivo: l’omicidio del poliziotto eclissava la morte del tossico Gusto a tal punto che la stampa non aveva neanche menzionato la riapertura di quell’indagine.
Hagen guardò il foglio che teneva sul leggio. C’erano scritte due righe. E basta. La riunione della mattina in due righe.
Gunnar Hagen si schiarí la voce. – Buongiorno a tutti. Come la maggior parte di voi sa, dopo la conferenza stampa di ieri ci sono arrivate diverse segnalazioni. Ottantanove in totale, e ne stiamo vagliando alcune.
Non c’era bisogno che dicesse quello che tutti sapevano, ossia che dopo quasi tre mesi erano arrivati a raschiare il fondo, che il novantacinque per cento delle segnalazioni era inattendibile, i soliti mattoidi che telefonavano sempre: alcolizzati, fissati che volevano gettare sospetti sull’uomo che era scappato con la loro fidanzata, sul vicino che saltava il suo turno di pulizia delle scale, burloni o semplicemente gente bisognosa di un po’ di attenzione, di qualcuno con cui parlare. Con «alcune» intendeva quattro. Quattro segnalazioni. E quando aveva detto «stiamo vagliando» era una bugia, lo avevano già fatto. Per ritrovarsi esattamente al punto di partenza: da nessuna parte.
– Oggi abbiamo un ospite illustre, – disse Hagen accorgendosi subito che il suo annuncio poteva essere preso per sarcasmo. – Il capo della polizia è voluto venire a dire due parole. Mikael…
Hagen chiuse la cartellina e la sollevò, battendo il fondo contro il piano come se contenesse un mucchio di nuovi documenti interessanti invece di quell’unico foglio A4, sperò di essere riuscito a rimediare a quell’infelice «illustre» chiamando Bellman per nome, e rivolse un cenno della testa all’uomo in piedi in fondo alla sala, accanto alla porta.
Il giovane capo della polizia si appoggiò al muro con le braccia conserte, aspettò qualche istante per dare tempo a tutti di voltarsi a guardarlo e poi, con un movimento energico, parve staccarsi a forza dal muro e si avviò a passi rapidi e decisi verso il podio. Aveva un sorrisetto sulle labbra come se pensasse a qualcosa di divertente e, arrivato davanti al leggio, si girò con agilità e disinvoltura, vi poggiò gli avambracci e si sporse in avanti fissandoli, quasi a sottolineare che non si era preparato un discorso scritto. Hagen pensò che gli conveniva mantenere le promesse di quell’entrata in scena.
– Forse alcuni di voi sanno che faccio roccia, – esordí Mikael. – E quando mi sveglio in giornate come questa, guardo fuori della finestra e c’è visibilità zero e le previsioni dicono che cadrà altra neve e il vento rinforzerà, penso a una montagna che una volta avevo intenzione di scalare.
Bellman fece una pausa, e Hagen constatò che quell’introduzione inaspettata funzionava; aveva catturato l’attenzione generale. Almeno per il momento. Ma Hagen sapeva che quel gruppo sovraffaticato aveva una soglia di tolleranza delle sciocchezze molto bassa, e che non si sarebbe sforzato di nasconderlo. Bellman era troppo giovane, occupava la poltrona di capo da troppo poco tempo e ci era arrivato un po’ troppo in fretta perché la squadra gli consentisse di mettere alla prova la sua pazienza.
– Combinazione vuole che quella montagna porti lo stesso nome di questa sala. Ed è anche lo stesso con cui alcuni di voi chiamano il caso Vennesla. K2. È un bel nome. La seconda vetta del mondo. The savage mountain, la montagna selvaggia. La piú difficile da scalare. Per ogni quattro persone che ci hanno provato, una è morta. Avevamo intenzione di scalare il versante sud di quella montagna, detto anche the magic line, la via magica. L’impresa è stata compiuta soltanto due volte e molti la considerano un suicidio ritualizzato. Il minimo cambiamento delle condizioni atmosferiche, e tu e la montagna vi ritrovate in balia della neve e di temperature alle quali nessuno può sopravvivere, almeno non con una quantità di ossigeno per metro cubo inferiore a quella che c’è sott’acqua. E siccome parliamo dell’Himalaya, sappiamo tutti che i cambiamenti delle condizioni atmosferiche sono certi.
Una breve pausa.
– E allora perché volevo scalare proprio quella montagna?
Un’altra pausa. Piú lunga, come se aspettasse che qualcuno rispondesse. Ancora quel sorrisetto. La pausa si fece lunga. Troppo lunga, pensò Hagen. Ai poliziotti non piacciono i gigionismi.
– Perché… – Bellman batté un indice sul leggio, – perché è la piú difficile del mondo. Dal punto di vista sia fisico sia mentale. Quella scalata non promette neanche un secondo di gioia, soltanto preoccupazione, fatica immane, paura, mal di montagna, mancanza d’ossigeno, panico a livelli pericolosissimi e un’apatia ancora piú pericolosa. E una volta conquistata la vetta, non ti godi il trionfo, il tuo unico pensiero è di procurarti la prova di averla raggiunta, una foto o due, non ti devi illudere che il peggio sia passato, o abbandonarti a un piacevole torpore, ma devi tener desta la concentrazione, eseguire i tuoi compiti con la sistematicità di un robot programmato, e contemporaneamente non devi mai smettere di valutare la situazione. Devi valutare la situazione incessantemente. Come sono le condizioni atmosferiche? Quali segnali mi manda il fisico? Dove siamo? Da quanto tempo ci troviamo qui? Come stanno i compagni di cordata?
Indietreggiò di un passo dal leggio.
– Perché il K2 è salita e avversità dall’inizio alla fine. Anche quando cominci a scendere. Salita e avversità. Ed era per questo che volevamo provare.
Sull’aula calò il silenzio. Un silenzio assoluto. Nessuno sbadiglio ostentato o rumore di piedi sotto le sedie. «Oh, Signore, – pensò Hagen, – ce li ha in pugno».
– Due parole, – continuò Bellman. – Non tre, solo due. Resistenza e unione. Ho considerato l’idea di includere anche l’ambizione, ma questa parola non è abbastanza importante, non è abbastanza grande rispetto alle altre due. Allora, forse, mi chiederete quale sia il punto della resistenza e dell’unione se non c’è uno scopo, un’ambizione. La lotta per la lotta? L’onore senza il premio? Sí, rispondo io, la lotta per la lotta. L’onore senza il premio. Quando, fra molti anni, si parlerà ancora del caso Vennesla, sarà a causa dell’avversità. Perché sembrava un’impresa impossibile. Perché la montagna era troppo alta, le condizioni atmosferiche proibitive, l’aria troppo povera d’ossigeno. Perché tutto era andato per il verso sbagliato. Ed è proprio il racconto dell’avversità a trasformare il caso in mito, a farlo diventare una delle leggende che sopravvivranno. Proprio come la maggior parte degli scalatori nel mondo non riuscirà mai ad arrivare neanche ai piedi del K2, si può lavorare come investigatore per una vita senza far parte di un’indagine del genere. Avete pensato che se fosse stato risolto entro le prime settimane, questo caso sarebbe stato dimenticato nel giro di pochi anni? Che cosa, esattamente, accomuna i casi di omicidio leggendari?
Bellman aspettò. Annuí come se gli avessero dato la risposta che ripeté:
– Ci è voluto tempo. Ci sono state delle avversità.
Accanto a Hagen si udí un bisbiglio: – Churchill, eat your heart out, mangiati il fegato –. Lui si voltò e scorse Beate Lønn che gli si era fermata vicino con un sorriso sghembo.
Annuí brevemente e guardò i presenti. Vecchi trucchi, forse, però funzionavano ancora. Là dove pochi minuti prima aveva visto solo un falò nero, spento, Bellman era riuscito a ravvivare i tizzoni soffiando. Ma Hagen sapeva che non avrebbe potuto ardere a lungo se i risultati continuavano a farsi attendere.
Tre minuti dopo Bellman concluse il suo pistolotto e lasciò il leggio accogliendo gli applausi con un ampio sorriso. Anche Hagen batté le mani senza convinzione mentre esitava a riprendere la parola. Per provocare l’anticlimax garantito, per annunciare che la squadra sarebbe stata ridotta a trentacinque persone. Ordini di Bellman, però avevano concordato che non sarebbe stato lui a dare l’annuncio. Hagen si fece avanti, posò la cartellina, si schiarí la voce, finse di sfogliarla. Levò lo sguardo. Tossicchiò di nuovo e fece un sorriso sghembo. – Signore e signori, Elvis ha lasciato l’edificio.
Silenzio, nessuna risata.
– Bene, abbiamo molte cose da affrontare. Alcuni di voi saranno assegnati ad altri casi.
Silenzio di tomba. Un mortorio.
Nell’istante in cui uscí dall’ascensore nell’atrio della centrale, Mikael Bellman vide di sfuggita una figura entrare in quello accanto. Era Truls? Improbabile, era ancora in quarantena dopo il caso Asajev. Bellman varcò la porta principale e a fatica si diresse verso la macchina nella nevicata fitta. Quando si era insediato come capo della polizia gli avevano spiegato che in teoria disponeva di un autista, ma che i suoi ultimi tre predecessori ci avevano rinunciato perché convinti che un simile privilegio mandasse i segnali sbagliati, visto che dovevano far fronte a tagli in tutti gli altri settori. Bellman aveva interrotto quella pratica dichiarando senza mezzi termini che non avrebbe permesso a una piccineria socialdemocratica del genere di compromettere l’efficienza delle sue giornate lavorative e che era piú importante segnalare ai gradini piú bassi della gerarchia che il duro lavoro e le promozioni comportavano certi benefici. In seguito il responsabile delle Relazioni con il pubblico lo aveva preso in disparte suggerendogli, se la stampa gli avesse fatto domande in proposito, di limitare la risposta all’efficienza delle giornate lavorative tralasciando di nominare i benefici.
– Al municipio, – disse Bellman accomodandosi sul sedile posteriore.
L’auto si immise sulla carreggiata, girò intorno alla chiesa di Grønland e si diresse verso il Plaza e il Palazzo delle poste che, nonostante l’urbanizzazione intorno all’Opera, dominava ancora la modesta skyline di Oslo. Ma oggi non c’era nessuna skyline, solo neve, e Bellman concepí tre pensieri distinti. Maledetto dicembre. Maledetto caso Vennesla. E maledetto Truls Berntsen.
Mikael non parlava con Truls né lo vedeva da quando, i primi di ottobre, era stato costretto a sospendere il suo amico d’infanzia e subalterno. O meglio, gli era sembrato di vederlo davanti al Grand Hotel la settimana precedente, in un’auto in sosta. Erano stati gli ingenti versamenti in contanti sul conto corrente di Truls a portare alla quarantena. Poiché non poteva – o non voleva – dare spiegazioni, in veste di capo Mikael non aveva avuto scelta. Ovviamente Bellman sapeva da dove venivano quei soldi: dagli incarichi di pompiere – distruzione di prove – che Truls aveva svolto per conto dei trafficanti di droga che facevano capo a Rudolf Asajev. Soldi che quell’idiota aveva versato direttamente sul proprio conto corrente. L’unica consolazione era che né i soldi né Truls potevano portare a lui. Al mondo c’erano solo due persone in grado di svelare la sua collaborazione con Asajev. Una era l’assessore alle Politiche sociali e sua complice, l’altra era in coma in un’ala chiusa del Rikshospital, in fin di vita.
Attraversarono Kvadraturen. Bellman guardò affascinato il contrasto fra la pelle nera delle prostitute e la neve bianca che si posava sui loro capelli e sulle loro spalle. Notò anche che nuove squadre di spacciatori avevano riempito il vuoto lasciato da Asajev.
Truls Berntsen. Aveva seguito Mikael fin dalla loro infanzia a Manglerud come un pesce ventosa segue lo squalo. Mikael con il cervello, la personalità del leader, l’eloquio, la bella presenza. Truls «Beavis» Berntsen con l’intrepidezza, le mani pesanti e la lealtà quasi infantile. Mikael che trovava amici ovunque si girasse. Truls che era talmente poco simpatico da essere scansato da tutti. Eppure erano sempre insieme quei due, Berntsen e Bellman. Avevano risposto all’appello uno dopo l’altro, prima in classe e poi alla Scuola di polizia, prima Bellman e subito dopo Berntsen. Mikael si era messo con Ulla, ma Truls era sempre lí, a due passi di distanza. Con gli anni Truls era rimasto indietro, non possedeva assolutamente la determinazione innata di Mikael nella vita privata e nella carriera. Normalmente era facile controllare e decifrare Truls. Normalmente bastava che lui gli dicesse «Salta» e lui saltava. Ma a volte il suo sguardo si incupiva, e allora sembrava trasformarsi in una persona che Mikael non conosceva. Come era successo con quel fermato, il ragazzino, che Truls aveva accecato a furia di manganellate. Oppure con il tizio della Kripos che si era rivelato gay e ci aveva provato con Mikael. Poiché qualche collega aveva assistito alla scena, Mikael aveva dovuto correre ai ripari per non far sembrare che passava sopra a certe cose. Allora si era fatto accompagnare da Truls a casa del tizio, lo aveva attirato giú nei garage, e là il suo amico ci aveva dato dentro con lo sfollagente. Dapprima con colpi controllati, poi con sempre piú furore, ed era come se via via il buio si espandesse nel suo sguardo, finché era parso sotto choc con gli occhi neri sgranati e lui lo aveva dovuto bloccare per impedirgli di ammazzare l’uomo. Certo, Truls era fedele. Ma era anche una scheggia impazzita, e proprio per questo una fonte di preoccupazione per Mikael Bellman. Quando gli aveva spiegato che la Commissione assunzioni aveva deciso di sospenderlo fino a quando non fosse stato chiarito da dove venivano i soldi del suo conto corrente, Truls si era limitato a ripetere che era una faccenda personale, aveva fatto spallucce come se non avesse importanza, e se ne era andato. Quasi che Truls «Beavis» Berntsen avesse qualcosa a cui tornare, una vita al di fuori del lavoro. E Mikael aveva visto il nero nei suoi occhi. Era stato come accendere una miccia, vederla allontanarsi bruciando nella galleria di una miniera e poi non succede nulla. Però non sai se la miccia sia molto lunga oppure si sia spenta, e allora aspetti in preda alla tensione, perché qualcosa ti dice che piú tempo ci vuole piú forte sarà il boato.
L’auto accostò sul retro del municipio. Mikael smontò e salí i gradini diretto all’ingresso. Qualcuno sosteneva che quella fosse l’entrata principale vera e propria – cosí come l’avevano concepita negli anni Venti gli architetti Arneberg e Poulsson – che il disegno fosse stato girato per sbaglio. E quando, verso la fine degli anni Quaranta, era stato scoperto l’errore, i lavori erano talmente avanzati che la cosa era stata messa a tacere e si era fatto finta di niente, nella speranza che chi arrivava nella capitale norvegese via mare dal fiordo di Oslo non notasse che ad accoglierlo era l’ingresso secondario.
Le suole di cuoio italiano ticchettavano dolcemente contro il pavimento di pietra quando Mikael Bellman marciò verso la reception, dove la donna dietro il banco gli rivolse un sorriso raggiante.
– Buongiorno, signor Bellman. L’aspettano. Nono piano, in fondo al corridoio a sinistra –. Mentre saliva Mikael si scrutò nello specchio dell’ascensore. E pensò che stava facendo proprio questo: stava salendo. A dispetto di quel caso di omicidio. Si aggiustò la cravatta di seta che Ulla gli aveva comprato a Barcellona. Doppio nodo Windsor. Al liceo aveva insegnato a Truls a farsi il nodo alla cravatta. Ma solo quello semplice, piccolo. La porta in fondo al corridoio era socchiusa. Mikael l’aprí con una leggera spinta.
L’ufficio era spoglio. La scrivania sgombra, gli scaffali vuoti e sulla carta da parati c’erano zone piú chiare lasciate dai quadri che prima vi erano appesi. Lei era seduta su uno dei davanzali. Il suo viso era di quella bellezza convenzionale che le donne chiamano appariscente, ma privo di dolcezza e di grazia nonostante i capelli biondi da bambola sistemati in ghirlande ridicole. Era alta e atletica, larga di spalle e di fianchi, che per l’occasione erano fasciati da una gonna di pelle aderente. Le cosce erano accavallate. L’elemento mascolino del suo viso – sottolineato da un pronunciato naso aquilino e due occhi azzurri e freddi da lupo – combinato con lo sguardo allegro, provocante e sicuro di sé, aveva indotto Bellman a fare un paio di supposizioni sfacciate la prima volta che l’aveva vista: Isabelle Skøyen era un puma che prendeva l’iniziativa e amava il rischio.
– Chiudi a chiave, – gli disse.
E aveva visto giusto.
Mikael si chiuse la porta alle spalle e girò la chiave. Si avvicinò a una delle altre finestre. Il municipio svettava sopra il modesto agglomerato di edifici a quattro e cinque piani. Sull’altro lato di Rådhusplassen, la fortezza di Akershus con i suoi sette secoli troneggiava sugli alti bastioni, con gli antichi cannoni danneggiati dalle guerre puntati sul fiordo che tremolava sotto le gelide raffiche di vento e sembrava avere la pelle d’oca. Aveva smesso di nevicare, e sotto le nubi plumbee la città si stendeva lambita da una luce azzurrognola. Come il colore di un cadavere, pensò Bellman. La voce di Isabelle rimbombò tra le pareti nude: – Allora, caro. Che te ne pare del panorama?
– Grandioso. Se non ricordo male, l’ufficio dell’assessore alle Politiche sociali precedente era piú piccolo e a un piano piú basso.
– Non quel panorama, – disse lei. – Questo qui.
Bellman si voltò verso di lei. Il nuovo assessore alle Politiche sociali e alle dipendenze di Oslo aveva allargato le gambe. Le mutandine erano sul davanzale accanto a lei. Isabelle aveva detto ripetutamente di non capire il fascino della fica depilata, ma mentre fissava quel fitto cespuglio Mikael pensò che dovesse pur esserci una via di mezzo e borbottando ripeté l’aggettivo qualificativo del panorama. Decisamente grandioso.
Lei batté i tacchi contro il parquet e lo raggiunse. Gli tolse un granello di polvere invisibile dal revers della giacca. Anche senza i tacchi a spillo lo avrebbe superato di un centimetro, ma cosí svettava sopra di lui. La cosa però non lo intimoriva. Anzi, il suo fisico imponente e la sua personalità dominante costituivano una bella sfida. Esigeva di piú da lui come uomo di quanto non facessero la figura esile e la mite arrendevolezza di Ulla. – Mi sembra giusto che sia tu a inaugurare il mio ufficio. Senza il tuo… spirito collaborativo non avrei mai ottenuto questo incarico.
– E viceversa, – disse Mikael Bellman. Inspirò il suo profumo. Era familiare. Era… quello di Ulla? Quel profumo di Tom Ford, come si chiamava? Black Orchid. Che lui le doveva comprare quando capitava a Parigi o a Londra perché in Norvegia era irreperibile. La coincidenza aveva dell’inverosimile.
Scorse la risata negli occhi di Isabelle appena lei lesse lo sbigottimento nei suoi. Poi lei intrecciò le dita intorno alla nuca di Mikael e si reclinò ridendo all’indietro. – Mi spiace, non ho resistito.
Accidenti a lei: dopo la festa d’inaugurazione della casa Ulla si era lamentata dicendo che il flacone di profumo era sparito, che qualcuno dei suoi illustri ospiti doveva averlo rubato. Da parte sua, era abbastanza sicuro che fosse stato uno del quartiere, un abitante di Manglerud, per la precisione Truls Berntsen. Sapeva benissimo che Truls era innamorato perso di Ulla fin da giovane. Ovviamente, non ne aveva mai fatto parola né con lei né con Truls. E neanche della storia del flacone di profumo. Era sempre meglio che Truls sgraffignasse il profumo di Ulla invece delle sue mutandine.
– Hai mai pensato che forse questo è il tuo problema? – disse Mikael. – Il fatto che non riesci a resistere.
Lei fece una risata sommessa. Chiuse gli occhi. Le sue dita lunghe e larghe si allentarono dietro la nuca di Mikael, scivolarono giú fino ai suoi lombi e poi si infilarono sotto la cintura. Lo guardò con un’espressione leggermente delusa.
– Che hai, torello mio?
– I medici dicono che lui non morirà, – rispose Mikael. – E l’ultima notizia è che dà segni di essere sul punto di risvegliarsi dal coma.
– Cioè? Si muove?
– No, però hanno notato dei cambiamenti nell’Eeg, perciò lo stanno sottoponendo a una serie di esami neurofisiologici.
– E allora? – Isabelle aveva accostato le labbra alle sue. – Hai paura di lui?
– Non ho paura di lui, ma di quello che potrebbe raccontare. Su di noi.
– Perché dovrebbe commettere una sciocchezza simile? È solo, non avrebbe nulla da guadagnarci.
– Lascia che ti spieghi, cara, – disse Mikael scansando la mano di Isabelle. – L’idea che ci sia qualcuno in grado di testimoniare che io e te abbiamo collaborato con un trafficante di droga per fare carriera…
– Stammi a sentire, – disse Isabelle. – Non abbiamo fatto altro che intervenire con prudenza impedendo al mercato di avere il controllo assoluto. È buona, collaudata politica da partito laburista, caro. Abbiamo permesso ad Asajev di ottenere il monopolio del traffico, e arrestato tutti gli altri signori della droga perché quella di Asajev causava meno decessi per overdose. Qualsiasi altra scelta sarebbe stata cattiva politica nella lotta contro gli stupefacenti.
Mikael non riuscí a trattenere un sorriso. – A quanto sento hai limato la retorica ai corsi di comunicazione.
– Vogliamo cambiare argomento, caro? – Avvolse la mano intorno alla sua cravatta.
– Capisci come verrebbe presentata in un processo, questa faccenda? Come se io fossi stato nominato capo della polizia e tu assessore alle Politiche sociali perché abbiamo dato l’impressione di avere personalmente ripulito le strade di Oslo e ridotto il numero dei decessi. Mentre in realtà abbiamo permesso ad Asajev di distruggere le prove, di eliminare la concorrenza e di smerciare una droga che ha quattro volte piú potenza e capacità di assuefazione dell’eroina.
– Mhm. Mi eccito da morire quando parli cosí… – Lo tirò a sé. Gli infilò la lingua in bocca, e Mikael udí il fruscio della calza quando gli strofinò una coscia contro la sua. Poi indietreggiando lo trascinò verso la scrivania.
– Se dovesse risvegliarsi nel letto d’ospedale e mettersi a blaterare…
– Zitto, non ti ho fatto venire qui per discutere –. Le dita di Isabelle armeggiavano con la cintura.
– Isabelle, abbiamo un problema e lo dobbiamo risolvere.
– Ho capito, ma ora che sei il capo della polizia devi rispettare le priorità, caro. E in questo preciso istante il tuo Comune dà la priorità a questo.
Mikael schivò il colpo quando arrivò la mano di Isabelle.
Lei sospirò. – Bene. Allora sentiamo: cosa hai pensato?
– Bisogna minacciarlo di morte. In maniera credibile.
– Perché minacciare, perché non ucciderlo subito?
Mikael scoppiò a ridere. Poi capí che lei diceva sul serio. E che non aveva neanche avuto bisogno di riflettere prima.
– Perché… – la guardò negli occhi e parlò in tono risoluto. Si sforzò di essere lo stesso irresistibile Mikael Bellman che mezz’ora prima aveva arringato la squadra investigativa. Si sforzò di trovare una risposta. Ma lei lo prevenne:
– Perché non ne hai il coraggio. Vogliamo vedere se troviamo qualche nome sotto la voce «eutanasia» sulle Pagine gialle? Tu disponi la revoca del piantonamento, in quanto utilizzo sbagliato delle risorse e bla bla bla, dopo di che il paziente riceverà una visita inaspettata dalle Pagine gialle. Inaspettata per lui, si intende. Oppure, no, a proposito, puoi mandare l’ombra. Beavis. Truls Berntsen. Quello fa qualsiasi cosa per soldi, non è vero?
Mikael scosse incredulo la testa. – Innanzitutto è il capo dell’Anticrimine, Gunnar Hagen, ad aver ordinato il piantonamento. Se il paziente venisse ucciso subito dopo che io ho battuto Hagen, la cosa mi metterebbe in cattiva luce, per cosí dire. E poi non ci sarà nessun omicidio.
– Stammi a sentire, caro. Nessun politico è migliore dei suoi consulenti. Perciò, il presupposto per arrivare in cima è circondarsi di persone piú intelligenti di te. E comincio a dubitare che tu sia piú intelligente di me, Mikael. Per prima cosa, non riesci a catturare l’assassino del poliziotto. E adesso non sai come risolvere il semplice problema di un uomo in coma. Perciò, visto che non vuoi neanche scoparmi, sono costretta a chiedermi: «Che me ne faccio di te?» Mi sai dare una risposta?
– Isabelle…
– Lo prendo come un no. Quindi stammi a sentire, perché risolveremo la faccenda in questo modo…
Non poteva fare a meno di ammirarla. Quell’aria controllata e quasi freddamente professionale, ma allo stesso tempo intrepida, imprevedibile, che induceva i colleghi a spostarsi verso il bordo della sedia. Qualcuno la considerava una scheggia impazzita, ma non aveva capito che seminare insicurezza faceva parte del gioco di Isabelle Skøyen. Era il tipo di persona che arrivava piú lontano e piú in alto degli altri in meno tempo. E che – ammesso e non concesso che lo avrebbe fatto – sarebbe caduta piú in basso e rovinosamente. Certo, Mikael Bellman si riconosceva in quella donna, però Isabelle Skøyen era la sua versione estrema. E la cosa strana era che, invece di trascinarlo, lo rendeva piú prudente.
– Per il momento, il paziente non si è ancora risvegliato, perciò non facciamo nulla. Conosco un infermiere anestesista di Enebakk. Un tipo poco raccomandabile. Mi procura le pillole che come politica non posso arrischiarmi a comprare per strada. Come Beavis, quel tizio fa qualsiasi cosa in cambio di soldi. E qualsiasi cosa in cambio di sesso. A proposito…
Si era seduta sulla scrivania. Sollevò e allargò le gambe, gli slacciò i bottoni della patta con un unico movimento brusco. Mikael l’afferrò forte per i polsi: – Isabelle, aspettiamo fino a mercoledí al Grand.
– Non aspettiamo fino a mercoledí al Grand.
– Sí, invece. Io voto a favore.
– Ah, sí? – disse lei, poi liberò le mani e gli aprí i pantaloni. Sbirciò dentro. Con voce gutturale disse: – Il risultato della votazione è due contro uno, caro.
L’oscurità e la temperatura erano scese e i raggi pallidi della luna si riversavano dentro la finestra della sua cameretta, quando Stian Barelli udí la voce della madre nel soggiorno al piano di sotto.
– È per te, Stian!
Stian aveva sentito squillare il telefono fisso sperando che non fosse per lui. Posò il telecomando della Wii. Era dodici colpi sotto il par e gli restavano tre buche da giocare, in altre parole aveva ottime probabilità di qualificarsi per i Masters. Giocava come Rick Fowler, perché era l’unico giocatore fico di Tiger Woods Masters, e aveva quasi la sua stessa età, ventun anni. E a entrambi piacevano Eminem e i Rise Against e vestirsi di arancione. Ovviamente, Rick Fowler poteva permettersi una casa sua, mentre Stian doveva ancora accontentarsi della sua cameretta. Ma era solo temporaneamente, fino a quando avrebbe ottenuto la borsa di studio per quell’università in Alaska. Ammettevano tutti gli sci-alpinisti norvegesi appena passabili in base ai risultati dei campionati nazionali juniores eccetera. Ovviamente, il problema era che finora nessuno aveva imparato a sciare meglio frequentandola. E allora? Donne, vino e sci. Si poteva forse chiedere di meglio? Magari anche un esame ogni tanto, se ne avesse trovato il tempo. Una laurea gli avrebbe potuto procurare un lavoro decente. I soldi per un appartamento suo. Una vita migliore di questa, in cui dormiva nel letto un po’ troppo corto sotto le foto di Bode Miller e Aksel Lund Svindal, mangiava le polpette della mamma e rispettava le regole del padre, allenava mocciosi maleducati che secondo i genitori abbacinati dalla neve avevano il talento di un Aamodt o di un Kjus. Badare allo skilift di Tryvannskleiva per una paga oraria che non avrebbero osato proporre ai bambini operai in India, cazzo. Perciò Stian sapeva che al telefono c’era il presidente del club di sci alpino. A quanto gli risultava era l’unico che evitava di chiamare la gente al cellulare perché costava un po’ di piú, e preferiva farla correre giú per le scale di quelle caverne dell’età della pietra che erano ancora dotate di telefono fisso.
Stian prese il ricevitore dalla mano tesa della madre.
– Sí?
– Ciao, Stian, sono Bakken –. Si chiamava veramente cosí: pista. – Mi hanno telefonato per segnalarmi che lo skilift di Kleiva è in funzione.
– A quest’ora? – domandò Stian consultando l’orologio. Le undici e un quarto. L’impianto chiudeva alle nove.
– Puoi farci un salto e verificare che cosa succede?
– A quest’ora?
– A meno che tu non sia occupatissimo, chiaro.
Stian non badò al tono ironico del presidente. Sapeva benissimo di aver fatto due stagioni deludenti, e secondo il presidente non era per mancanza di talento, ma per una sovrabbondanza di tempo che Stian faceva del suo meglio per riempire con la pigrizia, il decadimento fisico e un ozio generale.
– Non ho la macchina, – rispose Stian.
– Puoi prendere la mia, – disse subito la madre. Anziché spostarsi era rimasta accanto a lui a braccia conserte.
– Mi dispiace, Stian, ho sentito, – disse in tono reciso il presidente. – Di sicuro è qualche skatista delle rampe di Heming che ha scassinato la porta tanto per divertimento.
Stian impiegò dieci minuti a percorrere la strada serpeggiante che conduceva su a Tryvannstårnet. La torre della televisione s’ergeva come una lancia alta centodiciotto metri conficcata nel terreno sulla vetta a nord-ovest di Oslo.
Fermò l’auto nel parcheggio coperto di neve e notò che l’unica altra macchina era una Golf rossa. Estrasse gli sci dal portasci chiuso, li agganciò e pattinando superò l’edificio principale fino al punto in cui la maggiore attrazione, la seggiovia veloce Tryvann Ekspress, contrassegnava la cima del comprensorio sciistico. Da lí riusciva a vedere fin giú al lago e al piú piccolo skilift Kleiva con le ancore. Nonostante il chiaro di luna, era troppo buio per capire se le aste con le sedute a T si muovevano, però si udiva. Il ronzio degli ingranaggi in basso.
E quando partí scendendo in lunghe, pigre curve, notò lo strano silenzio che c’era lassú di notte. Era come se per la prima ora dopo che avevano chiuso l’impianto la pista continuasse a echeggiare delle grida gioiose dei ragazzini, dei finti strilli di spavento delle ragazzine, degli spigoli d’acciaio contro la neve battuta e il ghiaccio, delle urla al testosterone dei ragazzi che invocavano attenzione. Perfino quando spegnevano i proiettori, la luce sembrava indugiare ancora per un po’. Ma poi, a poco a poco, tutto si faceva piú silenzioso. E buio. E ancora piú silenzioso. Infine il silenzio riempiva ogni avvallamento del terreno, e il buio arrivava strisciando dal bosco. E allora Tryvann sembrava trasformarsi in un altro posto, un posto che perfino a Stian, che lo conosceva come le sue tasche, appariva cosí estraneo che avrebbe potuto benissimo essere un altro pianeta. Un pianeta freddo, buio e disabitato.
La mancanza di luce lo costrinse a usare la sensibilità, a cercare di prevedere come la neve e il terreno si sarebbero sollevati e abbassati sotto gli sci. Ma era proprio questo il suo talento, grazie al quale dava sempre il meglio di sé quando la visibilità era pessima, nevicava, c’era la nebbia, la luce piatta: riusciva a sentire ciò che non vedeva, era dotato di quella sorta di chiaroveggenza che alcuni sciatori hanno e altri – la maggior parte – no. Poi arrivò in fondo e girò, fermandosi davanti al gabbiotto dello skilift.
La porta era sfondata.
Schegge di legno erano sparse sulla neve, e il vano della porta si spalancava nero davanti ai suoi occhi. Soltanto allora Stian si rese conto di essere solo. Che era notte fonda, che si trovava in un posto al momento deserto dove era appena stato commesso un reato. Probabilmente un semplice atto vandalico. Però non lo sapeva per certo. Che si trattava di un semplice reato. E di essere solo.
– Ehi! – gridò per coprire il ronzio del motore e lo sferragliare delle ancore che andavano e venivano appese al cavo d’acciaio sibilante sopra la sua testa. E subito si pentí. L’eco tornò indietro dal pendio portando il suono della sua paura. Sí, aveva paura. Perché il suo pensiero non si era fermato a «reato» e a «solo», ma aveva proseguito. Fino a quella vecchia storia. Di solito alla luce del giorno non ci pensava, ma ogni tanto, quando faceva il turno pomeridiano e c’erano pochissimi sciatori, quella storia arrivava strisciando dal bosco insieme al buio. Era successo fuori stagione, una notte d’estate alla fine degli anni Novanta. Probabilmente la ragazza era stata drogata giú in centro da qualche parte e poi trasportata lassú in macchina. In manette e cappuccio. L’avevano portata di peso dal parcheggio fin lí, e dopo aver sfondato la porta l’avevano violentata dentro il gabbiotto. Stian aveva sentito dire che la quindicenne era talmente piccola ed esile che, se priva di sensi, lo stupratore – o gli stupratori – non avrebbe avuto difficoltà a trasportarla fino allo skilift dal posteggio. C’era da sperare che fosse rimasta svenuta per tutto il tempo. Ma Stian aveva anche sentito dire che era stata infilzata al muro con due grossi chiodi conficcati in ciascuna spalla sotto la clavicola, perché l’uomo o gli uomini potessero stuprarla in piedi riducendo al minimo il contatto con le pareti, il pavimento e la ragazzina. Che per questo motivo la polizia non aveva trovato né tracce di Dna, né impronte digitali, né fibre del vestiario. Ma forse non era vero. Sapeva invece per certo che avevano rinvenuto la ragazzina in tre posti diversi. In fondo al Tryvann avevano trovato il tronco e la testa. Nel bosco, ai piedi della pista di Wyllerløypa, metà addome e una gamba. In riva al lago Aurtjern l’altra metà. E poiché le ultime due parti erano state scoperte a una grande distanza l’una dall’altra e in direzioni opposte rispetto al luogo in cui era stata violentata, la polizia aveva ipotizzato che i colpevoli fossero due. Ma questa era l’unica cosa che aveva: teorie. I colpevoli – ammesso che fossero uomini, non c’era sperma a confermarlo – non erano mai stati trovati. Il presidente e gli altri buontemponi però si divertivano a raccontare ai soci giovani al loro primo turno serale all’impianto di Tryvann che stando alle voci qualcuno nelle notti silenziose aveva udito rumori provenienti dal gabbiotto. Grida che quasi coprivano l’altro rumore. Quello dei chiodi che venivano conficcati nel muro.
Stian sganciò gli sci e si diresse verso il vano della porta. Si piegò leggermente sulle ginocchia, spinse i polpacci all’indietro contro gli scarponi, cercò di ignorare la frequenza del suo polso che era aumentata.
Dio buono, cosa si aspettava di vedere? Sangue e viscidume? Fantasmi?
Tese la mano oltre la porta, trovò l’interruttore, lo girò.
Fissò la stanza illuminata.
Sul muro di pino grezzo vide una ragazza appesa a un chiodo. Era quasi nuda, solo un bikini giallo copriva i cosiddetti punti strategici del corpo abbronzato. Il mese era dicembre, e il calendario era dell’anno prima. Una sera particolarmente tranquilla di qualche settimana addietro Stian si era masturbato guardando quella foto. Certo, lei era molto sexy, ma a eccitarlo di piú erano le ragazze che gli passavano davanti proprio dall’altra parte della finestra del gabbiotto, in coda per lo skilift. L’idea di stare seduto là con il membro duro in mano ad appena mezzo metro da loro. Soprattutto le ragazze che prendevano un’ancora da sole, che con gesto esperto sistemavano l’asta rigida tra le cosce e poi stringevano. Il gancio a T che sollevava i glutei. Le schiene inarcate nel momento in cui la molla tesa fissata tra l’asta e il cavo si comprimeva e le tirava via da lui fino a farle sparire, su per il tracciato dell’impianto di risalita.
Stian entrò nella guardiola. Era evidente che c’era stato qualcuno. L’interruttore di plastica che azionavano per avviare e bloccare lo skilift era staccato. Giaceva in due pezzi sul pavimento e solo l’anima di metallo sporgeva dal pannello di controllo. Strinse il freddo perno con pollice e indice e cercò di girarlo, ma gli scivolò tra le dita. Raggiunse la piccola scatola dei fusibili nell’angolo. Lo sportelletto di ferro era serrato ma la chiave, di solito appesa per una cordicella al muro lí accanto, non c’era piú. Strano. Tornò al pannello di controllo. Cercò di staccare la plastica degli interruttori che azionavano i proiettori e la musica, ma capí che avrebbe finito col rompere anche quelli, che doveva essere incollata oppure saldata. Aveva bisogno di un attrezzo con cui stringere forte la leva di metallo, una tenaglia o qualcosa del genere. Mentre apriva un cassetto della scrivania davanti alla finestra ebbe un presentimento. Lo stesso che aveva quando sciava alla cieca. Sentiva quello che non vedeva: fuori nell’oscurità c’era qualcuno che lo spiava.
Alzò lo sguardo.
E vide un viso che lo fissava con due occhi enormi e sgranati.
Il suo viso, i suoi occhi atterriti nell’immagine riflessa a doppia esposizione nella finestra.
Stian trasse un sospiro di sollievo. Accidenti, quanto si spaventava facilmente.
Ma poi, appena il cuore riprese a battere e abbassò lo sguardo sul cassetto, gli parve di intravedere un movimento all’esterno, un viso che si staccava dall’immagine riflessa e spariva rapidamente sulla destra. Rialzò di scatto lo sguardo. E di nuovo vide soltanto la propria immagine. Ma non era a doppia esposizione come prima. Oppure sí?
La sua era sempre stata una fantasia troppo vivace. Glielo avevano detto Marius e Kjella quando aveva ammesso che pensare alla ragazza violentata lo eccitava. Non il fatto che fosse stata violentata e uccisa, ovviamente. O forse sí, pensava anche… alla storia dello stupro, aveva spiegato. Ma soprattutto che era delicata, delicata e carina, per dire. E che era stata lí nel gabbiotto, nuda, con un cazzo ficcato nella fica, e questo… sí, era un pensiero che riusciva a eccitarlo. Marius aveva detto che era «malato», e ovviamente quello stronzo di Kjella aveva fatto la spia, e nella nuova versione della storia che poi era giunta al suo orecchio Stian sosteneva che gli sarebbe piaciuto aver partecipato a quello stupro. Bell’amico, pensò Stian rovistando nel cassetto. Skipass, timbro, tampone, penne, scotch, un paio di forbici, un coltello da caccia, un blocchetto delle ricevute, viti, bulloni. Maledizione! Passò al cassetto successivo. Niente tenaglie, niente chiavi. E allora gli balenò l’idea che gli sarebbe bastato trovare l’asta con il freno d’emergenza che di solito era conficcata nella neve davanti al gabbiotto, con cui, se succedeva qualcosa, gli addetti potevano bloccare immediatamente lo skilift premendo il bottone rosso in cima all’attrezzo. E succedeva sempre qualcosa: ragazzini che venivano colpiti alla nuca dall’ancora, principianti che cadevano all’indietro al momento dello strappo e restavano aggrappati lasciandosi trascinare lungo la linea. Oppure idioti che per mettersi in mostra si tenevano con l’incavo di un ginocchio intorno all’ancora e deviavano dal tracciato per pisciare al volo al margine del bosco.
Frugò negli armadi. Non doveva essere difficile trovare l’asta, che era lunga circa un metro, di metallo e a forma di palanchino con un’estremità appuntita per poterla conficcare nella neve compatta e ghiacciata. Stian scostò guanti, berretti e occhiali da slalom dimenticati. L’armadio successivo: l’estintore. Secchio e stracci. Cassetta del pronto soccorso. Una lampada tascabile. Ma nessuna asta.
Ovviamente, potevano averla dimenticata alla chiusura dell’impianto.
Prese la torcia e uscí, fece il giro intorno al gabbiotto.
Neanche lí trovò l’asta. Maledizione: l’avevano rubata? E lasciato gli skipass? Stian ebbe l’impressione di sentire un rumore e si voltò verso il limitare del bosco. Puntò la luce sugli alberi.
Un uccello? Uno scoiattolo? Capitava che qualche alce scendesse fin là, però non cercavano di nascondersi. Se solo fosse riuscito a fermare quel maledetto skilift, in modo da poter udire meglio.
Stian rientrò nel gabbiotto, pensò che si sentiva piú a suo agio al chiuso. Raccolse dal pavimento i due pezzetti dell’interruttore di plastica, provò a stringerli intorno al perno di metallo e girarlo, ma si staccarono.
Guardò l’orologio. Quasi mezzanotte. Aveva voglia di finire quel giro di golf ad Augusta prima di andare a letto. Considerò l’idea di chiamare il presidente. Accidenti, bastava ruotare quel perno di mezzo giro!
Alzò d’istinto la testa e il suo cuore smise di battere.
Era successo cosí in fretta che non sapeva se lo avesse visto oppure no. Qualunque cosa fosse, non era un alce. Stian fece il numero del presidente, ma gli tremavano le dita e sbagliò piú volte prima di comporre quello giusto.
– Sí?
– Sono Stian. Qualcuno si è introdotto qui e ha sfasciato l’interruttore, e l’asta d’emergenza è sparita. Non riesco a spegnere l’impianto.
– La scatola dei fusibili…
– Chiusa, e la chiave è sparita.
Udí il presidente imprecare sottovoce. Trarre un respiro rassegnato. – Non ti muovere. Arrivo.
– Porta una tenaglia, eccetera.
– Una tenaglia, eccetera, – ripeté il presidente senza dissimulare il disprezzo.
Stian aveva capito da un pezzo che il rispetto del presidente era sempre proporzionale al posto che occupavi in classifica. Infilò il cellulare in tasca. Fissò l’oscurità di fuori. E si rese conto che con la luce accesa nel gabbiotto chiunque poteva vederlo ma non viceversa. Si alzò, chiuse la porta di schianto e spense la luce. Aspettò. Le ancore vuote scendevano dal pendio sopra di lui, sembravano accelerare nel momento in cui giravano intorno al capo dello skilift e prima di iniziare la risalita.
Stian batté le palpebre.
Perché non ci aveva pensato prima?
Girò tutti gli interruttori del pannello di controllo. E mentre la luce dei proiettori si accendeva sulla pista, Empire State of Mind di Jay-Z risuonò dagli altoparlanti sulla vallata. Ecco, cosí l’impianto era piú accogliente.
Tamburellò con le dita, guardò di nuovo il perno di metallo. Era forato in cima. Si alzò, spiccò la cordicella accanto alla cassetta dei fusibili, la mise doppia e la infilò nel buco. L’avvolse per un giro intorno al perno e tirò con delicatezza. Poteva funzionare. Tirò un po’ piú forte. La cordicella teneva. Ancora un po’ piú forte. Il perno si mosse. Tirò con violenza.
Il rumore della motrice dello skilift cessò con un gemito prolungato che si ridusse a un sibilo.
– Ecco fatto, figlio di puttana! – gridò Stian.
Si chinò sopra il cellulare per chiamare il presidente e dirgli che la missione era compiuta. Gli venne in mente che il presidente non avrebbe gradito sentire una musica rap a palla dagli altoparlanti di notte e la spense.
Ascoltò gli squilli del telefono, ormai udiva solo quelli, di colpo c’era un silenzio assoluto. Forza, rispondi! E poi, eccola di nuovo. Quella sensazione. La sensazione che ci fosse qualcuno. Che qualcuno lo spiasse.
Stian Barelli alzò lentamente lo sguardo.
E sentí il freddo espandersi dalla nuca, come se si raggelasse, come se fissasse il volto della Medusa. Ma non era lei. Era un uomo con indosso un lungo cappotto di pelle nera. Aveva gli occhi sgranati di un pazzo e la bocca aperta di un vampiro con strie di sangue che colavano dagli angoli. E sembrava librarsi in aria.
– Sí? Pronto? Stian? Ci sei? Stian?
Ma Stian non rispose. Si era alzato, aveva rovesciato la sedia, era indietreggiato fino a premere le spalle contro il muro dove aveva strappato Miss Dicembre dal chiodo facendola cadere sul pavimento.
Aveva trovato l’asta del freno d’emergenza. Spuntava dalla bocca dell’uomo che era infilzato a una delle ancore.
– Quindi, ha continuato a girare sullo skilift? – domandò Gunnar Hagen, inclinò la testa di lato ed esaminò il cadavere sospeso davanti a loro. La forma del corpo era strana, sembrava una figura di cera che si stesse squagliando allungandosi verso il suolo.
– Cosí ci ha raccontato il ragazzo, – rispose Beate Lønn battendo i piedi e levò lo sguardo verso il tracciato dell’impianto di risalita illuminato, dove i suoi colleghi vestiti di bianco quasi si confondevano con la neve.
– Trovata qualche traccia? – chiese il caposezione e dal tono sembrava che conoscesse già la risposta.
– Tantissime, – rispose Beate. – La traccia di sangue sale per quattrocento metri fino all’arrivo dello skilift e poi torna giú.
– Intendevo tracce che mostrino qualcosa oltre all’evidenza.
– Orme nella neve che scendono dal parcheggio lungo la scorciatoia e si fermano qui, – aggiunse Beate. – Il disegno delle suole corrisponde alle scarpe della vittima.
– È sceso quaggiú con le scarpe ai piedi?
– Sí. Ed è venuto da solo, abbiamo trovato soltanto le sue orme. Nel parcheggio c’è una Golf rossa, controlliamo subito a chi è intestata.
– Nessuna traccia del colpevole?
– Tu cosa dici, Bjørn? – chiese Beate e si girò verso Holm che li stava raggiungendo con in mano un rotolo di nastro segnaletico.
– Finora no, – rispose senza fiato. – Non ci sono altre orme. Ma molti solchi di sci, ovviamente. Niente impronte digitali visibili, niente capelli né stoffa, finora. Magari troviamo qualcosa sullo stuzzicadenti –. Con un cenno della testa Bjørn Holm indicò l’asta che spuntava dalla bocca del cadavere. – Altrimenti non ci resta che sperare che trovino qualcosa quelli di Medicina legale.
Gunnar Hagen rabbrividí sotto il cappotto. – Da come parlate sembrate già convinti che non troveranno nulla di importante.
– Be’, – disse Beate, un «be’» che Hagen riconobbe: era l’espressione con cui di solito Harry Hole introduceva le brutte notizie. – Neanche sulla scena del crimine precedente c’erano tracce di Dna o impronte digitali.
Hagen si domandò se a fargli venire i brividi fosse la temperatura, il fatto di essere arrivato sul posto direttamente dal letto o quello che aveva appena affermato il capo della Scientifica.
– Che vuoi dire? – domandò preparandosi al peggio.
– Voglio dire che so chi è, – rispose Beate.
– Mi era parso di capire che non gli avete trovato addosso nessun documento d’identità.
– Esatto. E ho impiegato un po’ a riconoscerlo.
– Tu? Credevo che non dimenticassi mai una faccia.
– Il giro fusiforme si confonde quando entrambi gli zigomi sono sfondati. Ma quello là è Bertil Nilsen.
– E chi è?
– Ti ho chiamato proprio per questo. È… – Beate Lønn sospirò.
«Non dirlo», pensò Hagen.
– Un poliziotto, – disse Bjørn Holm.
– Lavorava nell’ufficio della polizia rurale di Nedre Eiker, – spiegò Beate. – Prima del tuo arrivo all’Anticrimine abbiamo indagato su un omicidio. Nilsen si mise in contatto con la Kripos dicendo che secondo lui presentava delle analogie con un caso di stupro e omicidio avvenuto a Krokstadelva di cui si era occupato, e si offrí di venire a Oslo per darci una mano.
– E?
– Cilecca. Ci raggiunse, ma in realtà non fece che ritardare le indagini. Il colpevole, o i colpevoli, non fu mai preso.
Hagen annuí. – Dove…
– Qui, – rispose Beate. – Stuprata e squartata nel gabbiotto. Una parte del corpo fu rinvenuta qui, nel lago, un’altra un chilometro a sud, e la terza a sette chilometri nella direzione opposta, sulle sponde dell’Aurtjern. Per questo eravamo convinti che ci fosse piú di un colpevole.
– Appunto. E la data…
– … Esattamente la stessa.
– Quanto tempo…
– Nove anni fa.
Un walkie-talkie gracchiò. Hagen vide Bjørn Holm portarselo all’orecchio, parlare sottovoce. Riabbassarlo. – La Golf del parcheggio è intestata a una certa Mira Nilsen. Stesso domicilio di Bertil Nilsen. Sicuramente è la moglie.
Hagen espirò con un gemito e il vapore gelato gli uscí dalla bocca come una bandiera bianca. – Dovrò informare il capo della polizia, – disse. – Tenete la bocca chiusa sull’omicidio della ragazza.
– La stampa lo scoprirà.
– Lo so. Ma consiglierò al capo della polizia di lasciare la paternità esclusiva di queste congetture alla stampa, per il momento.
– Saggia mossa, – commentò Beate.
Hagen le rivolse un breve sorriso, per ringraziarla di quell’incoraggiamento di cui aveva tanto bisogno. Levò lo sguardo lungo il pendio, verso il parcheggio e il percorso di ritirata che lo aspettava. Fissò il cadavere. Rabbrividí di nuovo. – Sai chi mi viene in mente quando vedo un uomo alto e magro come quello?
– Sí, – rispose Beate Lønn.
– Vorrei che potessimo contare su di lui adesso.
– Non era alto e magro, – disse Bjørn Holm.
Gli altri due si voltarono verso di lui. – Harry non era…
– Mi riferisco a lui, – disse Holm indicando l’uomo appeso al cavo con un cenno della testa. – Nilsen. Si è allungato nel corso della notte. Se lo toccaste, sentireste che il corpo sembra gelatina. Ho visto la stessa cosa succedere a persone precipitate da una grande altezza fratturandosi tutte le ossa. Con lo scheletro disintegrato il corpo non ha piú un sostegno e la carne si affloscia, segue la forza di gravità finché il rigor mortis non la blocca. Buffo, non è vero?
Guardarono il cadavere in silenzio. Poi Hagen si girò bruscamente e si allontanò.
– Troppe informazioni? – domandò Holm.
– Forse qualche dettaglio superfluo, – rispose Beate. – E anch’io vorrei che lui fosse qui.
– Tornerà, secondo te? – domandò Bjørn Holm.
Beate scosse la testa. Bjørn Holm non sapeva se in risposta alla sua domanda o a commento della situazione in generale. Si voltò e con la coda dell’occhio vide un ramo d’abete che oscillava leggermente ai margini del bosco. Lo strido gelido di un uccello riempí il silenzio.
Il campanello sopra la porta emise un tintinnio stridulo quando Truls Berntsen entrò nel caldo umido dalla strada gelida. Il locale odorava di capelli marci e di brillantina.
– Taglio? – domandò il giovane dalla chioma nera lucida che Truls era sicuro si fosse fatto tagliare da un altro parrucchiere.
– Duecento? – domandò Truls togliendosi la neve dalle spalle con la mano. Marzo, il mese delle promesse infrante. Indicò con il pollice dietro di sé per assicurarsi che il cartello esposto fuori dicesse ancora la verità. Uomini 200. Bambini 85. Pensionati 75. Truls aveva visto clienti portarsi i cani dentro il negozio.
– Come sempre, amico, – rispose il parrucchiere con accento pakistano indicandogli una delle due poltrone libere. La terza era occupata da un uomo che Truls catalogò subito come arabo. Uno sguardo cupo da terrorista sotto un ciuffo nuovo di zecca incollato alla fronte. Uno sguardo che si distolse appena incrociò quello di Truls nello specchio. Forse l’uomo aveva sentito l’odore di bacon, o riconosciuto lo sguardo da sbirro. In tal caso probabilmente era uno di quelli che spacciavano dalle parti di Brugata. Solo hashish, gli arabi si tenevano alla larga dalla roba piú pesante. Che il Corano mettesse lo speed e l’eroina insieme all’arrosto di maiale? Protettore, forse, la catenina d’oro faceva pensare di sí. Uno piccolo, in tal caso, Truls conosceva i musi di tutti quelli grossi.
Gli fu messo il bavaglino.
– Sei diventato capellone dall’ultima volta, amico.
A Truls non piaceva essere chiamato «amico» dai paki, particolarmente non dai paki gay e ancora piú particolarmente dai paki gay che stavano per mettergli le mani addosso. Ma il vantaggio di questi gay tosatori qui era che non ti premevano l’anca contro la spalla, non inclinavano la testa di lato, non ti passavano la mano nei capelli mentre incrociavano il tuo sguardo nello specchio chiedendoti se li volevi cosí o cosà. Si mettevano al lavoro e basta. Non ti chiedevano se volevi che ti lavassero i capelli unti, si limitavano a bagnarteli con uno spruzzatore, e ignorando eventuali richieste ci davano dentro di pettine e di forbici come se partecipassero al campionato australiano di tosatura delle pecore.
Truls guardò la prima pagina del giornale che stava sulla mensola davanti allo specchio. Il solito ritornello: qual era il movente del cosiddetto macellaio dei poliziotti? Quasi tutte le congetture propendevano per un folle che odiava la polizia oppure un anarchico estremista. Qualcuno nominava i terroristi stranieri, ma quelli di solito volevano attribuirsi l’onore delle azioni riuscite, e nessuno aveva rivendicato niente. Che i due omicidi fossero collegati tra loro era certo; la data e il luogo escludevano qualsiasi dubbio, e per un po’ la polizia aveva cercato un criminale che sia Vennesla sia Nilsen avessero arrestato, interrogato o offeso in altro modo. Ma non era approdata a nulla. Allora, per un periodo, aveva seguito l’ipotesi che l’omicidio di Vennesla fosse stato commesso da un individuo per vendicarsi di un arresto, per gelosia o per un’eredità o per uno qualsiasi dei soliti moventi. E che dietro l’omicidio di Nilsen ci fosse tutto un altro colpevole con un altro movente, che però aveva avuto l’accortezza di imitare l’omicidio di Vennesla per indurre le forze dell’ordine a pensare a delitti seriali e a non cercare nei luoghi piú ovvi. Quindi la polizia aveva fatto proprio questo, aveva cercato nei luoghi piú ovvi come se fossero due normali omicidi a sé stanti. Ma anche cosí non era approdata a nulla.
Allora era tornata al punto di partenza. All’assassino di poliziotti. E lo stesso aveva fatto la stampa, domandando con insistenza: perché la polizia non riesce a catturare la persona che ha ucciso due dei suoi uomini?
Quando gli capitava di vedere quei titoli Truls provava soddisfazione e rabbia allo stesso tempo. Probabilmente Mikael aveva sperato che, con l’arrivo delle feste di fine anno, la stampa si sarebbe concentrata su altri argomenti, dimenticando gli omicidi, lasciandoli lavorare in pace. Lasciandolo continuare a essere il nuovo, fico sceriffo della città, the wiz kid, il difensore della città. E non l’uomo sconfitto, pasticcione, che sedeva là davanti ai flash con la faccia da perdente e trasudava una rassegnata inefficienza alle Ferrovie di stato.
Truls non aveva bisogno di sfogliare i quotidiani, li aveva già letti a casa. Aveva riso ad alta voce delle fiacche dichiarazioni di Bellman riguardo allo stato delle indagini. «Al momento non è possibile dire…» e «Non sussistono informazioni su…» Erano frasi prese pari pari dal capitolo sul rapporto con i media di Metodi d’indagine di Bjerknes e Hoff Johansen, un libro di testo della Scuola di polizia in cui c’era scritto che i poliziotti dovevano usare quelle pseudo-frasi generiche perché «no comment» gettava i giornalisti in preda alla frustrazione. E che in generale i funzionari di polizia dovevano evitare gli aggettivi.
Truls l’aveva cercata nelle foto, l’espressione disperata di Mikael, quella che di solito gli veniva quando i ragazzi grandi del vicinato a Manglerud decidevano che era ora di tappare la bocca a quel presuntuoso dalla bellezza effeminata e lui aveva bisogno d’aiuto. Dell’aiuto di Truls. E ovviamente Truls accorreva. Ed era lui che tornava a casa con un occhio nero e il labbro gonfio, non Mikael. Il suo viso rimaneva intatto e bello. Bello abbastanza per Ulla.
– Non troppo corti, – disse Truls. Nello specchio studiò i capelli che cadevano dalla fronte pallida, alta e un po’ sporgente. Per via di quella fronte e del prognatismo marcato spesso la gente lo prendeva per stupido. E a volte era un vantaggio. A volte. Chiuse gli occhi. Cercò di stabilire se nelle foto della conferenza stampa l’espressione disperata di Mikael ci fosse davvero oppure la vedesse solo lui perché la voleva vedere.
Quarantena. Sospensione. Espulsione. Esclusione.
Percepiva ancora lo stipendio. Mikael si era scusato con lui. Gli aveva messo una mano sulla spalla dicendo che era per il bene di tutti, compreso il suo. In attesa che i procuratori chiarissero quali conseguenze comportava il fatto che un poliziotto avesse ricevuto del denaro sulla cui provenienza non poteva né voleva dare spiegazioni. Per giunta Mikael aveva fatto in modo che Truls continuasse a ricevere alcune indennità. Perciò non era costretto ad andare da barbieri economici. Si era sempre servito da questo. Ma adesso gli piaceva ancora di piú. Gli piaceva farsi fare lo stesso identico taglio dell’arabo seduto nella poltrona accanto. Il ciuffo alla terrorista.
– Perché ridi, amico?
Truls ammutolí di colpo non appena udí la propria risata-grugnito. Quella che gli era valsa il soprannome Beavis. Era stato Mikael ad affibbiarglielo. Quella volta alla festa del liceo, quando tutti gli altri erano scoppiati a ridere rendendosi conto che sí, accidenti, a vederlo e a sentirlo Truls Berntsen era proprio sputato al personaggio dei cartoni su Mtv. Ulla: c’era anche lei? Oppure Mikael era seduto con il braccio stretto intorno a un’altra? Ulla dallo sguardo mite, il maglione bianco, la mano esile che una volta aveva posato sulla sua nuca avvicinandolo a sé, gridandogli nell’orecchio per coprire il rombo della Kawa una domenica a Bryn. Gli aveva soltanto chiesto se sapeva dove fosse Mikael. Ma lui ricordava ancora il calore della sua mano, la sensazione che lo avrebbe squagliato, lo avrebbe fatto sciogliere là, sul viadotto sopra l’autostrada, nel sole della mattina. E il respiro di Ulla contro l’orecchio e la guancia, i sensi in tensione che gli permettevano – perfino là in mezzo ai fumi della benzina, ai gas di scarico e al puzzo di gomma bruciata delle motociclette giú in basso – di riconoscere la marca del dentifricio, di appurare che il suo gloss era al sapore di fragola, che il maglione era lavato con Milo. Che Mikael l’aveva baciata. Se l’era fatta. O era pure questo frutto della sua immaginazione? Comunque, ricordava di averle risposto che non aveva idea di dove fosse Mikael. Anche se lo sapeva. Anche se una parte di lui avrebbe voluto dirlo. Avrebbe voluto distruggere quel suo sguardo mite, puro, innocente e ingenuo. Distruggere lui, Mikael.
Ma, ovviamente, non lo aveva fatto.
Perché avrebbe dovuto? Mikael era il suo migliore amico. Il suo unico amico. E che cosa avrebbe ottenuto dicendole che Mikael era a casa di Angelica? Ulla avrebbe potuto avere tutti gli uomini che voleva, ma non voleva lui, Truls. E fintanto che Ulla stava con Mikael, se non altro lui poteva ronzarle intorno. Aveva avuto l’occasione, ma non il movente.
Non allora.
– Cosí, amico?
Truls si guardò la nuca nello specchio tondo di plastica che il frocio tosatore teneva alzato.
Taglio alla terrorista. Ciuffo alla kamikaze. Grugní. Si alzò, posò il biglietto da duecento corone sul giornale per evitare il contatto fisico. Uscí incontro a marzo, che continuava a essere semplicemente una voce non confermata sull’arrivo della primavera. Lanciò un’occhiata in alto verso la centrale. Quarantena. Si diresse verso la stazione della T-bane di Grønland. Il taglio di capelli era durato nove minuti e mezzo. Alzò la testa, affrettò il passo. Non aveva impegni impellenti. Proprio nessuno. Anzi, uno l’aveva. Ma non richiedeva granché, bastavano le cose che aveva già: tempo per pianificare, odio, disponibilità a perdere tutto. Lanciò un’occhiata alla vetrina di uno dei negozi di alimentari asiatici lungo la strada pedonale. E constatò, finalmente, di sembrare quello che era.
Gunnar Hagen era seduto e guardava la carta da parati sopra la scrivania e la poltrona vuota del capo della polizia. Guardò i riquadri piú scuri lasciati dalle foto che erano state appese là da sempre, a quel che ricordava. Erano ritratti di capi della polizia precedenti e con tutta probabilità volevano essere uno sprone, ma evidentemente Mikael Bellman ne faceva volentieri a meno. Dell’espressione inquisitoria con cui soppesavano i successori guardandoli dall’alto in basso.
Avrebbe voluto tamburellare il bracciolo con le dita, ma non c’erano braccioli. Bellman aveva sostituito anche le sedie. Sedie di legno basse e dure.
Hagen era stato convocato, e l’assistente nell’anticamera lo aveva fatto accomodare dicendo che il capo della polizia sarebbe arrivato a momenti.
La porta si socchiuse.
– Eccoti!
Bellman fece il giro della scrivania e si lasciò cadere nella poltrona. Si portò le mani dietro la testa.
– Novità?
Hagen si schiarí la voce. Sapeva che Bellman sapeva che non c’erano novità perché aveva l’ordine permanente di comunicargli qualsiasi sviluppo nei due casi di omicidio. Quindi non lo aveva convocato per questo. Rispose comunque alla domanda, spiegò che ancora non avevano trovato piste a sé stanti né collegamenti tra i delitti, a parte il fatto ovvio che le vittime erano entrambe poliziotti rinvenuti cadavere sulla scena del crimine di un precedente omicidio irrisolto alle cui indagini avevano partecipato.
Bellman si alzò nel bel mezzo della spiegazione, raggiunse la finestra e si fermò dandogli le spalle. Oscillò sui talloni. Finse di ascoltare per un po’, poi lo interruppe.
– Hagen, devi sistemare questa faccenda.
Gunnar Hagen tacque. Aspettò il seguito.
Bellman si voltò. Le strie bianche del suo viso si erano tinte di rosso.
– E poi devo obiettare alla precedenza che dài al servizio di piantonamento continuo al Rikshospital mentre vengono ammazzati dei poliziotti onesti. Non dovresti assegnare al caso tutti gli uomini disponibili?
Hagen lo guardò sbalordito. – Per quello non utilizziamo i miei uomini, ma agenti della stazione Centro e tirocinanti della Scuola di polizia. Non penso che le indagini ne risentano, Mikael.
– Ah no? – ribatté Bellman senza voltarsi. – Voglio comunque che riesamini la disposizione di piantonamento. Secondo me il paziente non rischia piú di essere ucciso, dopo tutto questo tempo. Sanno che comunque non sarà in grado di testimoniare.
– A quanto pare, invece, dà segni di miglioramento.
– Quel caso non ha piú la precedenza –. La risposta del capo della polizia fu immediata, quasi stizzita. Prima di trarre un respiro e sfoderare il suo sorriso accattivante aggiunse: – Ma naturalmente spetta a te decidere sul piantonamento. Io mi guardo dall’intromettermi. Intesi?
Hagen fece per rispondere con un no spontaneo, ma riuscí a trattenersi e annuí brevemente cercando di capire dove Mikael Bellman volesse andare a parare.
– Bene, – disse Bellman giungendo i palmi per segnalare che il colloquio era finito. Hagen fu sul punto di alzarsi, confuso come quando era arrivato. Invece, rimase seduto.
– Pensavamo di tentare un metodo leggermente diverso.
– Ah?
– Sí, – disse Hagen. – Dividere la squadra investigativa in gruppi piú piccoli.
– E per quale motivo?
– Per dare spazio alle idee alternative. I gruppi numerosi hanno la competenza, ma non sono adatti a pensare fuori dagli schemi.
– E c’è bisogno di pensare… fuori dagli schemi?
Hagen finse di non cogliere il sarcasmo. – Cominciamo a girare a vuoto e a non vedere piú niente a furia di fissare lo stesso punto.
Guardò l’altro. Come ex investigatore naturalmente il capo della polizia conosceva quel fenomeno: il gruppo restava bloccato al punto di partenza, le congetture si trasformavano in rigidi fatti e si perdeva la capacità di vedere ipotesi alternative. Ciononostante, Bellman scosse la testa.
– Con le squadre piccole si perde la capacità esecutiva, Hagen. La responsabilità si disintegra, la gente si intralcia a vicenda e lo stesso compito viene eseguito piú volte. È sempre preferibile un’unica squadra grande e ben coordinata. A patto che abbia un capo forte ed efficiente…
Hagen sentí la superficie frastagliata dei molari quando serrò i denti sperando di non lasciar trapelare l’effetto dell’insinuazione di Bellman.
– Ma…
– Quando un capo comincia a cambiare tattica, la sua iniziativa si presta facilmente a essere presa per disperazione o addirittura per una mezza ammissione di fallimento.
– Ma noi abbiamo fallito, Mikael. Siamo in marzo, e questo significa che sono trascorsi sei mesi dall’omicidio del primo poliziotto.
– Nessuno è disposto a seguire un capo che fallisce, Hagen.
– I miei collaboratori non sono né ciechi né stupidi, sanno che siamo a un punto morto. E sanno anche che un buon capo deve essere in grado di cambiare rotta.
– I buoni capi sanno come spronare i propri uomini.
Hagen deglutí. Mandò giú quello che aveva voglia di dire. Che aveva tenuto lezioni sulla leadership alla Scuola militare quando Bellman ancora giocava con la fionda. Che se Bellman era tanto bravo a spronare i suoi subalterni, perché non spronava un po’ lui, Gunnar Hagen? Ma era troppo stanco, troppo frustrato per reprimere le parole che sicuramente avrebbero irritato moltissimo Mikael Bellman:
– Abbiamo avuto successo con la squadra indipendente guidata da Harry Hole, ricordi? Quegli omicidi di Ustaoset non sarebbero stati risolti se…
– Penso che tu mi abbia sentito, Hagen. Piuttosto considererei un avvicendamento alla guida dell’indagine. Il capo è responsabile della forma mentis della sua squadra, che a questo punto non sembra abbastanza orientata ai risultati. Se non c’è altro, fra poco avrei una riunione.
Hagen stentava a credere alle sue orecchie. Si alzò sulle gambe intorpidite, come se il sangue avesse completamente smesso di circolare per il breve lasso di tempo in cui era rimasto seduto su quella sedia stretta e bassa. Si diresse verso la porta a passi rigidi.
– A proposito, – disse Bellman alle sue spalle, e Hagen lo udí soffocare uno sbadiglio. – Novità nel caso Gusto?
– Come hai detto tu stesso, – rispose lui senza voltarsi, proseguendo dritto verso la porta per evitare di mostrare a Bellman le vene del viso, che al contrario di quelle delle gambe sembravano sotto sforzo. Ma la voce gli tremò lo stesso per la rabbia: – Quel caso non ha piú la precedenza.
Mikael Bellman aspettò che la porta si richiudesse e udí il caposezione salutare la segretaria nell’anticamera. Poi sprofondò nella poltrona di pelle dallo schienale alto e si accasciò. Non aveva convocato Hagen per interrogarlo sugli omicidi dei poliziotti, e sospettava che lui lo avesse capito. Lo aveva fatto in seguito alla telefonata di Isabelle Skøyen di un’ora prima. Come c’era da aspettarsi, aveva continuato a insistere sullo stesso ritornello, dicendo che per colpa degli omicidi irrisolti di quei due poliziotti stavano facendo entrambi la figura degli incapaci e dei deboli. E che a differenza di Mikael lei dipendeva dal favore degli elettori. Lui aveva risposto «sí» e «ah», aspettando che Isabelle finisse per poter riagganciare, quando lei aveva fatto esplodere la bomba.
«Sta per uscire dal coma».
Bellman era seduto con i gomiti puntati sul tavolo e la fronte tra le mani. Fissava lo smalto lucido della scrivania che rifletteva la sua sagoma deformata. Le donne lo trovavano attraente. Isabelle glielo aveva detto senza mezzi termini: che era questo il motivo, che le piacevano gli uomini belli. Che era questo il motivo per cui era andata a letto con Gusto. Quel ragazzo bellissimo. Di una bellezza alla Elvis. Spesso nel caso di un uomo bello la gente fraintendeva. Mikael ripensò all’agente della Kripos, quello che ci aveva provato con lui, che voleva baciarlo. Pensò a Isabelle. E a Gusto. Immaginò quei due insieme. Loro tre insieme. Si alzò di scatto dalla poltrona. Raggiunse di nuovo la finestra.
Le cose si erano messe in moto. Isabelle aveva detto proprio cosí. Messe in moto. Lui non doveva fare altro che aspettare. Avrebbe dovuto sentirsi piú calmo, piú bendisposto verso il mondo circostante. E allora perché aveva affondato e rigirato il coltello nella carne di Hagen? Per vederlo contorcersi? Unicamente per vedere un’altra faccia tormentata, né piú né meno di quella che prima era riflessa sulla laccatura della scrivania? Comunque, presto sarebbe finita. Adesso tutto era nelle mani di Isabelle. E una volta fatto quel che andava fatto, avrebbero potuto continuare come prima. Dimenticare Asajev, Gusto e in particolare l’uomo che nessuno riusciva a smettere di nominare: Harry Hole. Cosí era, tutti e tutto prima o poi finivano nel dimenticatoio, e col tempo lo avrebbero fatto anche gli omicidi di quei poliziotti.
Tutto come prima.
Mikael Bellman fu sul punto di verificare se lo volesse veramente. Ma poi decise di lasciar perdere. Sapeva benissimo di volerlo veramente.
Ståle Aune sospirò. Si trovava davanti a uno di quei bivi nel percorso terapeutico in cui doveva fare una scelta. La fece: – Forse c’è qualcosa di irrisolto nella tua sessualità.
Il paziente lo guardò. Un abbozzo di sorriso. Occhi stretti. Le mani affusolate dalle dita esageratamente lunghe si alzarono, parvero intenzionate ad aggiustare il nodo della cravatta sopra la giacca gessata, ma desistettero. Ståle gli aveva visto fare quel gesto altre volte, e gli ricordava pazienti che erano riusciti a liberarsi di atti compulsivi concreti, ma mantenevano i rituali preliminari: la mano che sta per fare qualcosa, un’azione incompiuta che è ancora piú insensata di quella originaria, involontaria, ma perlomeno interpretabile. Come una cicatrice, una zoppia. Un’eco. Un monito per rammentarti che nulla sparisce completamente, che tutto si deposita in qualche modo, da qualche parte. Come l’infanzia. Gente che hai conosciuto. Qualcosa che hai mangiato e ti ha fatto male. Una passione provata. Memoria cellulare.
Il paziente lasciò cadere le mani in grembo. Tossicchiò brevemente e la sua voce risuonò stentata e metallica: – Che accidenti vuol dire? Hai intenzione di attaccare con le cazzate freudiane, adesso?
Ståle guardò l’uomo. Aveva visto per caso in tv una serie poliziesca in cui leggevano la vita emotiva delle persone basandosi sul linguaggio non verbale. Anche se il linguaggio non verbale era accettabile, si lasciavano tradire dalla voce. I muscoli delle corde vocali e della gola sono tarati con tanta precisione da essere in grado di emettere onde sonore sotto forma di parole riconoscibili. Ai tempi in cui insegnava alla Scuola di polizia, Ståle faceva sempre notare agli allievi quanto questo fosse un vero e proprio miracolo. Eppure esisteva uno strumento ancora piú sensibile: l’orecchio umano. Il quale non solo è capace di suddividere le onde sonore in vocali e consonanti, ma anche di individuare la temperatura, il livello di tensione, le emozioni di chi parla. Negli interrogatori era piú importante ascoltare che guardare. Un aumento minimo o un tremolio quasi impercettibile del registro erano segnali piú significativi delle braccia conserte, dei pugni chiusi, della dimensione delle pupille e di tutti quei fattori cui la nuova scuola di psicologi attribuiva un grande peso, ma che secondo l’esperienza di Ståle il piú delle volte confondevano e fuorviavano l’investigatore. Certo, il paziente che aveva davanti faceva uso di parolacce, ma era soprattutto la pressione contro i suoi timpani a rivelargli che era guardingo e arrabbiato. Normalmente questo particolare non avrebbe preoccupato uno psicologo esperto. Al contrario, spesso le emozioni forti significavano che era imminente una svolta nella terapia. Ma il problema con quel paziente era che arrivava nell’ordine sbagliato. Nonostante mesi di sedute a cadenza regolare, Ståle non era riuscito a instaurare una relazione: mancava la confidenza, la fiducia. In effetti i loro incontri erano stati cosí infruttuosi che Ståle aveva considerato l’idea di proporgli di interrompere la terapia, ed eventualmente indirizzarlo a un collega. La rabbia in un clima rassicurante, confidenziale, era positiva, ma nel caso di quel paziente poteva significare che si stava chiudendo ancora di piú, che si stava scavando una trincea ancora piú profonda.
Ståle sospirò. Evidentemente aveva fatto la scelta sbagliata, ma era troppo tardi, e decise di insistere.
– Paul, – disse. Il paziente aveva messo in chiaro che il suo nome si pronunciava «Pol» e non com’era scritto. E non alla norvegese, bensí con la l inglese, solo che Ståle non riusciva a sentire la differenza. Questo particolare, insieme alle sopracciglia ben delineate e alle due piccole cicatrici sotto il mento lasciate da un lifting, gli avevano permesso di inquadrarlo a dieci minuti dall’inizio della prima seduta.
– L’omosessualità repressa è molto comune anche nella nostra società apparentemente tollerante, – riprese Aune osservando l’uomo per controllarne la reazione. – Fra i miei pazienti ci sono diversi poliziotti, e uno che era in terapia da me mi disse che personalmente aveva accettato la sua omosessualità, ma non poteva mostrarla sul lavoro perché gli altri lo avrebbero escluso. Gli chiesi se ne era sicuro. Spesso la repressione dipende dalle aspettative che abbiamo nei confronti di noi stessi, e dalle aspettative che attribuiamo alle persone che ci circondano. Soprattutto quelle piú vicine, gli amici e i colleghi.
Si interruppe.
Il paziente non rivelava nessuna dilatazione delle pupille, nessun cambiamento di colorito, nessuna resistenza a farsi guardare negli occhi, nessuna parte del corpo che si voltasse dall’altra parte. Al contrario, sulle sue labbra sottili si era formato un sorrisetto beffardo. Ma con sua sorpresa, Ståle Aune si sentí arroventare le guance. Santo cielo, quanto odiava quel paziente! Quanto odiava il suo lavoro.
– E il poliziotto? – domandò Paul. – Seguí il tuo consiglio?
– La seduta è finita, – disse Ståle senza guardare l’ora.
– Sono curioso, Aune.
– E io devo rispettare il segreto professionale.
– Chiamiamolo X, allora. E dalla tua espressione capisco che non hai gradito la domanda –. Paul sorrise. – Seguí il tuo consiglio e andò a finire male, non è vero?
Aune sospirò. – X passò il segno, fraintese una situazione e cercò di baciare un collega nei bagni. E fu tagliato fuori. Il punto è che sarebbe potuta andare bene. Ti va almeno di rifletterci per la prossima volta?
– Ma io non sono gay –. Paul si portò le dita alla gola, le riabbassò.
Ståle Aune annuí brevemente. – La settimana prossima, stessa ora?
– Non lo so. Non sto migliorando, vero?
– Lentamente, ma fai progressi, – disse Ståle. La sua risposta fu automatica come il movimento della mano del paziente che cercò il nodo della cravatta.
– Sí, me lo hai ripetuto piú di una volta, – disse Paul. – Però io ho l’impressione di pagare senza avere niente in cambio. Che sei inutile come quei poliziotti che non riescono neanche a catturare un maledetto serial killer e stupratore… – Con una certa sorpresa Ståle notò che il tono del paziente si era abbassato. E che era diventato piú calmo. Che sia la voce sia il linguaggio non verbale contraddicevano le sue parole. Quasi guidato dal pilota automatico, il cervello di Ståle aveva cominciato ad analizzare perché il paziente fosse ricorso proprio a quell’esempio, ma la soluzione era cosí ovvia che non c’era bisogno di approfondire. I giornali che teneva sulla scrivania fin dall’autunno. Erano sempre stati aperti sulle pagine che parlavano degli omicidi dei poliziotti.
– Catturare un serial killer non è cosí semplice, Paul, – disse Ståle Aune. – Ne so qualcosa di serial killer, anzi, sono la mia specialità. Esattamente come questa attività. Ma se vuoi interrompere la terapia, o preferisci passare a un altro collega, basta che tu me lo dica. Ho una lista di psicologi bravissimi e potrei aiutarti…
– Che fai, mi pianti, Ståle? – Paul aveva inclinato la testa un po’ di lato, le palpebre dalle ciglia incolori erano calate leggermente e il sorriso si era allargato. Ståle non riusciva a stabilire se quella battuta volesse alludere all’ipotesi omosessuale, oppure se Paul avesse mostrato uno scorcio del suo vero io. O l’una e l’altra cosa.
– Non fraintendermi, – disse Ståle, sicuro di non essere frainteso. Voleva liberarsi di lui, ma i terapeuti professionisti non cacciavano a pedate i pazienti difficili. Aumentavano gli sforzi, o no? Si aggiustò il papillon. – Sono disposto ad averti come paziente, ma è importante che ci fidiamo l’uno dell’altro. E ora come ora mi pare di capire…
– Ho soltanto una giornata storta, Ståle –. Paul allargò le braccia. – Scusami, lo so che sei bravo. Ti sei occupato di delitti seriali giú all’Anticrimine, non è vero? Hai partecipato alla cattura di quello che disegnava pentagrammi sulle scene del delitto. Insieme a quel commissario.
Ståle scrutò il paziente, che nel frattempo si era alzato e riabbottonato la giacca.
– Sí, sei piú che bravo per me, Ståle. La settimana prossima. Intanto mi chiederò se sono gay.
Ståle rimase seduto. Udí Paul canticchiare fuori nel corridoio mentre aspettava l’ascensore. La melodia aveva un che di familiare.
Proprio come alcune cose che Paul aveva detto. Aveva utilizzato il gergo della polizia dicendo «delitti seriali» invece del solito «omicidi seriali». Parlando di Harry Hole lo aveva definito commissario, mentre la maggior parte della gente non ci capiva nulla di gradi della polizia. E si ricordava approssimativamente i particolari cruenti delle cronache nere dei giornali, non dettagli superflui come un pentagramma inciso in una trave accanto al cadavere. Ma soprattutto Ståle aveva notato – per l’importanza che poteva avere ai fini della terapia – che Paul lo aveva paragonato ai «… poliziotti che non riescono neanche a catturare un maledetto serial killer e stupratore…»
Ståle udí l’ascensore arrivare e ripartire. Si era ricordato quale melodia era. Perché aveva ascoltato The Dark Side of the Moon alla ricerca di spunti per interpretare il sogno di Paul Stavnes. La canzone s’intitolava Brain Damage. Parlava dei pazzi. Dei pazzi che sono sull’erba, che sono nell’ingresso. Che avanzano.
Stupratore.
I poliziotti uccisi non erano stati stuprati.
Naturalmente il suo interesse per il caso poteva essere cosí scarso che aveva confuso i poliziotti uccisi con le vittime precedenti sulle stesse scene del crimine. Oppure riteneva una verità assodata che i serial killer siano anche stupratori. Oppure sognava poliziotti stuprati: un particolare, questo, che rafforzava la teoria dell’omosessualità repressa. Oppure…
Ståle Aune si bloccò nel bel mezzo del gesto, si guardò sbalordito la mano nell’atto di salire verso il papillon.
Anton Mittet bevette un sorso di caffè e abbassò lo sguardo sul paziente che dormiva nel letto. Non avrebbe dovuto essere concessa un po’ di gioia anche a lui? La stessa gioia cui Mona aveva fatto riferimento, definendola «uno di quei piccoli miracoli per i quali vale la pena sgobbare come infermiera»? Sí, certo, era bello quando un paziente in coma dato per spacciato all’improvviso ci ripensava, tornava a fatica indietro verso la vita e si risvegliava. Ma quell’uomo disteso nel letto, quel viso pallido e devastato sul guanciale, non significava niente per lui. Significava soltanto che il suo incarico volgeva alla fine. Naturalmente, questo non significava che si avvicinasse anche la fine della loro relazione. In fondo, non era là che avevano vissuto i momenti piú appassionati. Anzi, ora non avrebbero piú dovuto preoccuparsi che i colleghi notassero gli sguardi teneri che si scambiavano ogni volta che lei entrava o usciva dalla camera del paziente, le chiacchierate un po’ troppo lunghe che si concedevano, e l’eccessiva bruschezza con cui le interrompevano quando arrivava qualcuno. Ma Anton Mittet era tormentato dalla sensazione che fosse stato proprio questo il presupposto della loro storia. La segretezza. Il proibito. L’emozione di guardare, ma di non poter toccare. Di dover aspettare, di dover uscire di casa furtivamente, propinare a Laura la bugia dell’ennesimo turno di guardia straordinario, bugia che, anche se era diventata sempre piú facile da pronunciare, gli cresceva in bocca tanto da convincerlo che prima o poi lo avrebbe soffocato. Sapeva che l’infedeltà non lo rendeva un uomo migliore agli occhi di Mona, che probabilmente lei riusciva a immaginare il giorno in cui le avrebbe rifilato le stesse scuse. Gli aveva raccontato di esserci passata con altri uomini, che la tradivano. E allora era piú magra e piú giovane di adesso, quindi se lui avesse lasciato la donna grassa e di mezza età che era diventata, non ne sarebbe certo rimasta sconvolta. Lui aveva cercato di spiegarle che non doveva parlare cosí, che non doveva dirlo, anche se lo pensava. Perché si metteva in cattiva luce. Metteva lui in cattiva luce. Lo faceva sembrare l’uomo che approfittava dell’occasione, per cosí dire. Però adesso era contento che lei lo avesse detto. Doveva finire prima o poi, e lei gli aveva semplificato le cose.
– Dove hai trovato il caffè? – domandò l’infermiere nuovo aggiustandosi gli occhiali tondi mentre consultava la cartella clinica che aveva sganciato dalla sponda del letto.
– C’è una macchina espresso in fondo a quel corridoio. La uso soltanto io, ma se vuoi…
– Ti ringrazio, – disse l’infermiere. Anton notò che c’era qualcosa di strano nella sua pronuncia. – Ma non bevo caffè –. L’infermiere aveva preso un foglio dalla tasca della casacca e lesse. – Vediamo… devo somministrargli il Propofol.
– Non so che significa.
– Significa che dormirà per un bel po’.
Anton studiò l’infermiere mentre infilava l’ago di una siringa nella stagnola di un flaconcino di liquido trasparente. L’uomo era piccolo e mingherlino e somigliava a un attore famoso. Non a uno di quelli belli. A uno di quelli che avevano sfondato ugualmente. Quello con i denti brutti e il nome italiano impossibile da ricordare. Esattamente come aveva già dimenticato il nome con cui si era presentato l’infermiere.
– I pazienti che escono dal coma sono problematici, – disse l’infermiere. – Sono molto fragili e devono essere accompagnati con cautela verso lo stato cosciente. Un’iniezione sbagliata, e rischiamo di rimandarli là dov’erano prima.
– Capisco, – disse Anton. L’uomo gli aveva mostrato il cartellino di riconoscimento, aveva pronunciato la parola d’ordine e aspettato che lui chiamasse il reparto per farsi confermare che era assegnato a quel turno.
– Quindi, hai una lunga esperienza con le anestesie e roba del genere? – domandò Anton.
– Sí, ho lavorato nel reparto di anestesiologia per parecchio tempo.
– E adesso non ci lavori piú?
– Ho viaggiato per due o tre anni –. L’infermiere alzò la siringa verso la luce. Fece uscire uno zampillo che si dissolse in una nuvola di goccioline microscopiche. – Questo paziente ha l’aria di aver avuto una vita dura. Perché non c’è scritto il nome nella cartella?
– Deve restare anonimo. Non te lo hanno detto?
– Non mi hanno detto niente.
– Avrebbero dovuto farlo. Qualcuno potrebbe cercare di ucciderlo. Per questo sono seduto fuori in corridoio.
L’altro si abbassò e accostò il viso a quello del paziente. Chiuse gli occhi. Parve inspirare il respiro dell’altro. Anton rabbrividí.
– L’ho già visto, – disse l’infermiere. – È di Oslo?
– Devo rispettare il segreto professionale.
– E io no, secondo te? – L’infermiere arrotolò la manica del camice del paziente. Schioccò le dita sull’interno dell’avambraccio. C’era qualcosa, nel suo modo di parlare, qualcosa che Anton non riusciva a individuare con sicurezza. Rabbrividí di nuovo quando la punta dell’ago affondò nella pelle, e nel silenzio assoluto gli parve di udire lo stridio dell’attrito nella carne. Il sibilo del liquido nella siringa mentre lo stantuffo veniva abbassato.
– Ha vissuto a Oslo per parecchi anni prima di fuggire all’estero, – disse Anton e deglutí. – Ma poi è tornato. A quanto dicono per via di un ragazzo. Un tossicodipendente.
– Che storia triste.
– Già. Però a quanto pare avrà un lieto fine.
– È presto per dirlo, – disse l’infermiere estraendo l’ago. – Molti pazienti comatosi sono soggetti a brusche ricadute.
A quel punto Anton lo individuò. Il difetto di pronuncia. Si udiva a malapena, ma c’era: la S moscia. Era bleso.
Uscirono, e appena l’infermiere sparí in fondo al corridoio Anton tornò dal paziente. Esaminò il monitor che registrava il battito cardiaco. Ascoltò il bip ritmico, che sembrava il segnale del sonar di un sottomarino in fondo agli abissi. Non sapeva perché, ma imitò l’infermiere, si chinò verso la testa del malato. Chiuse gli occhi. E sentí il suo respiro contro il viso.
Altmann. Anton aveva guardato attentamente il suo cartellino prima che andasse via. L’infermiere si chiamava Sigurd Altmann. La sua era soltanto una sensazione di pancia, ma aveva deciso che l’indomani lo avrebbe controllato meglio. Non sarebbe andata a finire come il caso Drammen. Questa volta non avrebbe commesso errori.
Katrine Bratt sedeva con i piedi sulla scrivania e un telefono stretto fra la spalla e l’orecchio. Gunnar Hagen la mise in attesa. Le sue dita correvano sulla tastiera che aveva davanti. Sapeva che dietro di lei, di là dalla finestra, Bergen si stendeva sotto i raggi del sole. Che le strade bagnate scintillavano della pioggia caduta incessantemente dal mattino fino a dieci minuti prima. E che, con il rispetto che quella città aveva per le leggi della natura, di lí a poco avrebbe ripreso a scrosciare. Ma in quel preciso momento c’era uno squarcio di sole, e Katrine Bratt sperava che Gunnar Hagen si sbrigasse a concludere l’altra telefonata, per riprendere quella che aveva interrotto con lei. Voleva semplicemente comunicargli le informazioni che era riuscita a trovare e poi lasciare la centrale di Bergen. Uscire nella fresca aria dell’Oceano Atlantico, che aveva un sapore molto piú buono di quella che il suo ex caposezione stava inspirando al momento giú a est, nella capitale. Per poi buttarla fuori sotto forma di un grido indignato:
– Come sarebbe a dire che non possiamo ancora interrogarlo? È uscito dal coma, sí o no? Sí, lo so che è debole, ma… cosa?
Katrine sperava che il risultato delle ricerche che aveva fatto negli ultimi giorni avrebbe migliorato l’evidente malumore di Hagen. Sfogliò le pagine, tanto per ricontrollare quello che sapeva già.
– Me ne frego di cosa dice il suo avvocato, – sbraitò Hagen. – E me ne frego di cosa dice il primario. Voglio che venga interrogato adesso!
Katrine Bratt lo sentí sbattere il ricevitore del telefono fisso. Poi finalmente tornò a lei.
– Che è successo? – gli domandò.
– Niente, – rispose Hagen.
– Si tratta di lui? – insisté.
Hagen sospirò. – Sí, si tratta di lui. Si sta risvegliando dal coma, ma lo tengono sedato con i farmaci e dicono che dobbiamo aspettare almeno due giorni prima di parlarci.
– Non è meglio essere prudenti?
– Senza dubbio. Però lo sai, abbiamo urgente bisogno di risultati. Questo caso dei poliziotti uccisi ci sta mettendo ko.
– Due giorni piú, due giorni meno?
– Lo so, lo so. Ma ogni tanto devo fare la voce grossa. È uno degli scopi per cui uno sgobba per diventare capo. O no?
Quanto a quella precisa domanda Katrine Bratt non aveva una risposta. Non aveva mai ambito a diventare capo. E se anche lo avesse fatto, aveva comunque il sospetto che un’agente con alle spalle un ricovero psichiatrico non sarebbe stata fra i primi candidati al momento dell’assegnazione degli uffici piú spaziosi. La sua diagnosi era cambiata da maniaco-depressiva a borderline a bipolare a sana. Almeno finché avesse continuato a prendere le pilloline rosa che la tenevano in equilibrio. Potevano criticare quanto volevano l’uso di farmaci in psichiatria, per Katrine aveva significato una vita nuova e migliore. Certo, si era accorta che il capo la teneva d’occhio, e che i suoi incarichi operativi erano ridotti al minimo. Ma le andava benissimo: le piaceva stare nel suo piccolo ufficio con un potente pc, una password e un accesso esclusivo a motori di ricerca di cui perfino la polizia ignorava l’esistenza. Esplorare, cercare, trovare. Rintracciare persone apparentemente sparite dalla faccia della terra. Vedere un disegno là dove altri vedevano solo coincidenze. Questa era la specialità di Katrine Bratt, e piú di una volta la Kripos e l’Anticrimine di Oslo ne avevano beneficiato. Perciò accettavano volentieri che fosse una psicosi ambulante pronta a esplodere.
– Hai detto che avevi qualcosa per me?
– Nelle ultime settimane c’è stata calma qui in sezione, perciò ho dato un’occhiata agli omicidi dei poliziotti.
– Il tuo capo al comando di Bergen ti ha chiesto di…
– No, no. Ho pensato fosse meglio che guardare Pornhub o fare un solitario.
– Sono tutt’orecchi.
Katrine udí Hagen sforzarsi di assumere un atteggiamento positivo, ma non riusciva a dissimulare la rassegnazione. Probabilmente negli ultimi mesi si era stancato di sentire accendersi la speranza per poi restare deluso.
– Ho controllato i dati per vedere se c’era qualche persona che ricorresse nei primi omicidi con stupro di Maridalen e Tryvann.
– Grazie infinite, Katrine, ma lo abbiamo fatto anche noi. Troppa grazia, direi.
– Lo so. Però, come hai ben presente, io lavoro con metodi un po’ diversi.
Un sospiro pesante. – Continua.
– Ho trovato che alle indagini in questione hanno lavorato persone diverse, solo due tecnici della Scientifica e tre investigatori hanno partecipato a entrambe. E nessuno di questi cinque può essere a conoscenza di tutti quelli che furono convocati a testimoniare. E siccome non si trovava il colpevole, entrambe le indagini tirarono per le lunghe, e i dossier sono diventati molto voluminosi.
– Diciamo pure enormi. E ovviamente è vero che nessuno può ricordare tutto ciò che successe nel corso delle indagini. Però chiunque sia stato interrogato figura nel registro penale.
– È proprio questo il punto, – intervenne Katrine.
– Cioè?
– Quando un libero cittadino viene convocato per un interrogatorio, viene registrato e il verbale allegato al caso in questione. A volte, però, capita che le cose si perdano senza lasciare tracce. Come per esempio se l’interrogato si trova già in carcere. In questo caso l’interrogatorio si svolge in via informale nella cella e la persona non viene registrata perché lo è già.
– Però i verbali dell’interrogatorio vengono allegati lo stesso al dossier.
– Normalmente sí. Ma non se l’interrogatorio riguarda per lo piú un’altra indagine in cui l’interrogato è il sospettato principale e, poniamo, l’omicidio con stupro di Maridalen rappresenta solo una questione secondaria, un tentativo alla cieca di routine. Allora tutto l’interrogatorio viene allegato al primo caso, e un’eventuale ricerca sul nominativo non lo collegherebbe al secondo.
– Interessante. E hai trovato…?
– Un uomo che è stato interrogato come sospettato principale in un caso di violenza carnale a Ålesund mentre scontava una pena per aggressione e tentato stupro ai danni di una minore in un albergo di Otta. Nel corso dell’interrogatorio gli furono poste anche domande sul caso Maridalen, ma poi il verbale fu allegato al caso dello stupro di Otta. Il particolare interessante è che la stessa persona fu convocata anche per il caso Tryvann, ma secondo la procedura normale.
– E?
Per la prima volta Katrine colse segni di un interesse genuino nella voce di Hagen.
– Aveva un alibi per tutti e tre i casi, – rispose, e piú che percepire udí l’aria uscire dal palloncino che aveva gonfiato per lui.
– Ah. Ci sono altre storie divertenti di Bergen che secondo te dovrei sentire oggi?
– C’è di piú, – disse Katrine.
– Ho una riunione fra…
– Ho verificato l’alibi dell’interrogato. È lo stesso per tutti e tre i casi. Una testimone confermò che lui si trovava nella comune in cui entrambi abitavano. La testimone era una ragazza che all’epoca era considerata attendibile. Fedina penale pulita, nessun legame con il sospettato a parte il fatto che vivevano nella stessa comune. Ma se si segue il nome della donna nel tempo, saltano fuori fatti interessanti.
– Per esempio?
– Per esempio appropriazione indebita, spaccio di stupefacenti e falsificazione di documenti. Se si esaminano piú attentamente gli interrogatori cui è stata sottoposta in seguito, c’è una cosa che ricorre. Indovina.
– Falsa testimonianza.
– Purtroppo si usano raramente queste cose per guardare vecchi casi sotto una luce nuova. Almeno non casi vecchi e molto complessi come quelli di Maridalen e di Tryvann.
– Accidenti! Come si chiama la donna? – Nella voce di Hagen era tornato l’entusiasmo.
– Irja Jacobsen.
– Hai un indirizzo?
– Sí. Compare nel casellario giudiziario, all’anagrafe e in un altro paio di registri…
– Accidenti! Convochiamola subito!
– … per esempio, nel registro delle persone scomparse.
A Oslo calò un silenzio interminabile. Katrine aveva voglia di fare una lunga passeggiata, fin giú ai pescherecci di Bryggen, per comprare un sacchetto di teste di merluzzo, tornare al suo appartamento di Møhlenpris, prepararsi con tutta calma la cena e guardare Reazioni collaterali mentre, si augurava, avrebbe ricominciato a piovere.
– Bene, – disse Hagen. – Se non altro ci hai dato un punto di partenza. Come si chiama il tizio?
– Valentin Gjertsen.
– E dov’è?
– È proprio questo il punto, – rispose Katrine Bratt e si accorse che si stava ripetendo. Le dita correvano sulla tastiera. – Non riesco a trovarlo.
– È scomparso anche lui?
– Non risulta nell’elenco delle persone scomparse. Ed è strano, perché sembra sparito dalla faccia della Terra. Nessun domicilio conosciuto, nessun telefono intestato, niente utilizzo di carte di credito, e neanche un conto corrente a suo nome. Non ha votato alle ultime elezioni, e negli ultimi dodici mesi non ha preso né un treno né un aereo.
– Hai provato con Google?
Katrine rise fino a quando capí che Hagen non stava scherzando.
– Rilassati, – gli disse. – Lo troverò, vedrai. Lo cerco sul pc a casa.
Riagganciarono. E Katrine si alzò, si mise la giacca: voleva sbrigarsi, le nuvole si stavano già accumulando sopra Askøy. Stava per spegnere il computer quando le venne in mente una cosa. Una cosa che le aveva detto Harry Hole una volta. Che spesso ci si dimentica di controllare le possibilità piú ovvie. Digitò in fretta. Aspettò che apparisse la pagina.
Quando imprecò nel dialetto di Bergen percepí che piú in là nell’ufficio open space diverse teste si erano girate. Ma non aveva voglia di rassicurarli che non era un attacco psicotico. Harry aveva ragione, come al solito.
Prese il telefono e pigiò il tasto «ripeti». Gunnar Hagen rispose al secondo squillo.
– Credevo avessi una riunione, – disse Katrine.
– Rimandata, sto organizzando una squadra che dia la caccia a quel Valentin Gjertsen.
– Non occorre. L’ho appena trovato.
– Eh?
– Non c’è da stupirsi se sembra sparito dalla faccia della Terra. Visto che è sparito dalla faccia della Terra, voglio dire.
– Stai dicendo che…?
– È morto, sí. È scritto nero su bianco nel registro dell’anagrafe. Scusa per questa cantonata da Bergen. Me ne vado a casa a consolarmi con gli acquazzoni e le teste di pesce.
Quando riagganciò e levò lo sguardo aveva cominciato a piovere.
Anton Mittet levò lo sguardo dalla tazza di caffè quando Gunnar Hagen entrò a passo leggero nella mensa quasi deserta al sesto piano della centrale. Anton era seduto a guardare il panorama da un po’. A pensare. A come non erano andate le cose. E a riflettere sul fatto che aveva smesso di pensare a come avrebbe potuto farle andare. Forse invecchiare consisteva in questo. Avevi alzato le carte che ti erano toccate, le avevi guardate. Ma non te ne toccavano altre. Perciò non ti restava che giocare nel modo migliore quelle che avevi. E sognare quelle che ti sarebbero potute toccare.
– Scusa il ritardo, Anton, – disse Gunnar Hagen accomodandosi sulla sedia di fronte a lui. – Uno scherzo telefonico da Bergen. Come va?
Anton si strinse nelle spalle. – Non faccio altro che lavorare. Vedo i giovani passarmi davanti e fare carriera. Cerco di dare qualche consiglio, ma probabilmente non capiscono perché dovrebbero dar retta a un uomo di mezza età che è ancora agente semplice. Sembrano convinti che la vita sia un tappeto rosso steso apposta per loro.
– E a casa? – domandò Hagen.
Anton fece di nuovo spallucce. – Bene. Mia moglie si lamenta perché lavoro troppo. Ma quando poi sono a casa, si lamenta ugualmente. Hai presente?
Hagen emise un verso neutro che il destinatario poteva interpretare come voleva.
– Te lo ricordi il tuo matrimonio?
– Sí, – rispose Hagen lanciando un’occhiata discreta all’orologio. Non perché non sapeva che ora fosse, ma per dare l’imbeccata ad Anton.
– La cosa peggiore è che sei veramente convinto quando dici di sí a tutta questa eternità –. Anton fece una risata cupa e scosse la testa.
– Volevi parlarmi di qualcosa in particolare? – gli domandò Hagen.
– Sí –. Anton si passò l’indice sul naso. – Ieri al reparto è saltato fuori un infermiere. Mi è parso un po’ ambiguo. Non saprei dirti perché, ma sai bene che le vecchie volpi come noi certe cose le sentono. Ho fatto qualche controllo sul suo conto. E ho scoperto che è stato implicato in un omicidio tre, quattro anni fa. Fu rilasciato, al di sopra di ogni sospetto. Ma…
– Ho capito.
– Ho pensato fosse meglio rivolgermi a te. Potresti parlare con la direzione dell’ospedale, immagino. Magari farlo spostare con discrezione.
– Ci penso io.
– Grazie.
– Sono io che devo ringraziare te. Ottimo lavoro, Anton.
Anton Mittet accennò un inchino. Era contento che Hagen lo avesse ringraziato. Era contento perché quel caposezione che somigliava a un monaco era l’unico di tutto il corpo di polizia verso il quale si sentiva in debito. Era stato Hagen a trarlo personalmente in salvo dopo il Caso. Era stato lui a telefonare al comandante di Drammen per dirgli che gli avevano inflitto una punizione troppo severa, che se a Drammen non sapevano che farsene della sua esperienza se ne sarebbero avvalsi alla centrale di Oslo. E cosí era stato. Anton aveva preso servizio nella squadra del Pronto intervento di Grønland, ma rimanendo ad abitare a Drammen, come gli aveva imposto Laura. E quando riprese l’ascensore per tornare al Pronto intervento al primo piano, Anton Mittet si accorse di camminare con passo un po’ piú molleggiato, con la schiena un po’ piú dritta e un sorriso sulle labbra per soprammercato. E sentiva – sí, davvero – che questo poteva essere l’inizio di qualcosa di bello. Doveva comprare dei fiori per… rifletté. Per Laura.
Katrine fissava fuori della finestra mentre digitava il numero. Il suo appartamento era un cosiddetto piano rialzato. Situato abbastanza in alto da evitarle di vedere la gente che passava sul marciapiede. Abbastanza in basso da permetterle di vedere la punta degli ombrelli aperti. E dietro le gocce di pioggia che le raffiche di vento facevano tremolare sul vetro della finestra, scorgeva il ponte di Puddefjord che collegava la città a un buco nella montagna dalla parte di Laksevåg. Ma in quel momento stava guardando lo schermo tv da cinquanta pollici dove un professore di chimica affetto da cancro cucinava metamfetamine. Lo trovava stranamente divertente. Aveva acquistato il televisore seguendo il motto «Perché i single maschi devono avere tv piú grandi?» e teneva i dvd distribuiti in un ordine alquanto soggettivo su due ripiani sotto lo stereo Marantz. Al primo e al secondo posto all’estrema sinistra del ripiano dei classici figuravano Viale del tramonto e Cantando sotto la pioggia, mentre su quello sottostante i film piú recenti avevano trovato un inaspettato nuovo capofila: Toy Story 3. Il terzo ripiano era riservato a quei cd che per motivi di affezione non aveva dato all’Esercito della salvezza, decidendo di tenerli anche se li aveva copiati sull’hard disk del pc. I suoi gusti erano limitati: c’erano soltanto glam rock e prog pop, preferibilmente britannici e soprattutto del tipo androgino: David Bowie, Sparks, Mott the Hoople, Steve Harley, Marc Bolan, Small Faces, Roxy Music e Suede a fare da punto cronologico.
Il professore di chimica era impegnato in uno dei ricorrenti bisticci con la moglie. Katrine premette il tasto di avanzamento veloce del lettore dvd mentre chiamava Beate.
– Lønn –. La voce era acuta, quasi da bambina. E la risposta rivelava solo lo stretto necessario. Ma quando una persona rispondeva annunciando solo il cognome, non lasciava intendere che si trattava di una famiglia numerosa, che chi chiamava doveva specificare con quale Lønn voleva parlare? In quel caso però Lønn comprendeva soltanto la vedova Beate Lønn e sua figlia.
– Sono Katrine Bratt.
– Katrine! Quanto tempo. Che fai?
– Guardo la tele. E tu?
– Mi faccio stracciare a Monopoli dal mio tesoro. Mangio pizza per consolarmi.
Katrine rifletté. Quanti anni aveva adesso il suo tesoro? Se non altro era abbastanza grande da stracciare la madre a Monopoli. L’ennesimo monito della rapidità sconvolgente con cui il tempo passa. Katrine fu sul punto di aggiungere che lei si consolava mangiando teste di merluzzo. Ma si rese conto che era diventato un cliché da ragazze, la frase fatta autoironica, da semidepressa, che ci si aspettava di sentire da una single, invece della verità nuda e cruda, ossia che non era sicura di poter rinunciare alla libertà. Nell’arco degli anni di quando in quando aveva pensato di chiamare Beate, tanto per chiacchierare. Come faceva con Harry. Lei e Beate erano due poliziotte adulte e vaccinate senza marito, erano cresciute con un padre poliziotto, erano realiste dotate di un’intelligenza abbondantemente al di sopra della media, non si illudevano né tantomeno sognavano di incontrare il principe azzurro sul cavallo bianco. Fatta, forse, eccezione per il cavallo, purché le portasse dove volevano loro.
Avrebbero potuto parlare di molte cose.
Ma non l’aveva mai chiamata. Tranne che per motivi di lavoro, ovviamente.
Forse si somigliavano anche in questo.
– Si tratta di un certo Valentin Gjertsen, – disse Katrine. – Un condannato per reati sessuali deceduto. Ne sai qualcosa?
– Aspetta, – rispose Beate.
Katrine udí il martellio di una tastiera e si annotò mentalmente un’altra cosa che avevano in comune. Erano sempre on-line.
– Ecco, sí, – disse Beate. – L’ho visto diverse volte.
Katrine immaginava che avesse aperto una foto. Correva voce che il giro fusiforme di Beate Lønn, la parte del cervello che riconosce i volti, custodisse tutte le persone che aveva incontrato in vita sua. Che nel suo caso l’espressione «non dimentico mai una faccia» fosse da prendere alla lettera. A quanto sembrava dei neuroscienziati l’avevano sottoposta ad alcuni esami perché era una della trentina di persone al mondo notoriamente in possesso di questa capacità.
– È stato interrogato sia per il caso Tryvann sia per il caso Maridalen, – spiegò Katrine.
– Sí, lo ricordo vagamente, – disse Beate. – Ma mi pare anche di ricordare che avesse un alibi per entrambi.
– Una ragazza che viveva nella stessa comune giurò che Gjertsen si trovava in casa con lei la sera in questione. All’epoca l’analisi del Dna era un procedimento lento e costoso, nel migliore dei casi la facevamo ai sospettati principali e solo se non c’erano altre prove.
– Lo so, però da quando avete un laboratorio analisi Dna tutto vostro a Medicina legale, avete effettuato il test per vecchi casi irrisolti, non è vero?
– Sí, ma per quanto riguarda Maridalen e Tryvann non c’erano praticamente tracce biologiche. E se non ricordo male, Valentin Gjertsen ha avuto la sua punizione, eccome se l’ha avuta.
– Cioè?
– Be’, è stato ammazzato.
– Sapevo che era morto, ma non…
– Sí, sí. Mentre scontava la pena a Ila. Lo trovarono nella sua cella. Ridotto in poltiglia. Ai detenuti non piacciono quelli che hanno messo le mani addosso alle ragazzine. L’assassino non fu mai trovato. Ma non è detto che abbiano fatto grandi sforzi per cercarlo.
Silenzio.
– Mi dispiace di non averti potuto aiutare, – disse Beate. – E in questo momento sono finita sulla casella «Imprevisti», perciò…
– Speriamo che la fortuna giri, – disse Katrine.
– Cosa?
– La fortuna.
– Appunto.
– Solo un’ultima cosa, – disse Katrine. – Vorrei fare una chiacchierata con Irja Jacobsen, la donna che ha fornito l’alibi a Valentin. Risulta fra le persone scomparse. Però ho fatto una ricerca su internet.
– Sí?
– Non ha cambiato domicilio, non ha fatto versamenti al fisco né incassato il sussidio o usato la carta di credito. Non ha fatto viaggi né risulta avere un cellulare intestato a suo nome. Quando una persona è cosí poco attiva, in genere rientra in una di due categorie. La categoria piú grande è quella delle persone decedute. Però poi ho fatto una scoperta. Una registrazione nei file del lotto. Un’unica scommessa. Di venti corone.
– Ha giocato al lotto?
– Probabilmente spera che la fortuna giri. A ogni modo, questo significa che rientra nella seconda categoria.
– Che sarebbe?
– Quelli che cercano di nascondersi.
– E adesso vuoi che ti aiuti a trovarla?
– Ho il suo ultimo domicilio conosciuto di Oslo e l’indirizzo della ricevitoria dove ha consegnato la schedina. E so che faceva uso di droga.
– Okay, – disse Beate. – Verifico con i nostri infiltrati.
– Grazie.
– Okay.
Pausa.
– C’è altro?
– No. Sí. Che ne pensi di Cantando sotto la pioggia?
– Non mi piacciono i musical. Perché?
– Gli spiriti affini sono difficili da trovare, non sei d’accordo?
Beate fece una risata sommessa. – Sí, parliamone qualche volta.
Riagganciarono.
Anton aspettava seduto con le braccia conserte. Ascoltava il silenzio. Scrutava il corridoio.
Mona era dal paziente, e sarebbe uscita a momenti. Gli avrebbe rivolto un sorriso allegro. Magari gli avrebbe messo una mano sulla spalla. Passato le dita fra i capelli. Forse gli avrebbe dato un bacio frettoloso, facendogli sentire appena appena la lingua che sapeva sempre di menta, per poi allontanarsi lungo il corridoio. Facendo oscillare il sedere generoso per stuzzicarlo. Forse non lo faceva apposta, ma a lui piaceva pensare di sí. Che contraesse i muscoli, lo dondolasse, lo spingesse in fuori per lui, per Anton Mittet. Sí, le soddisfazioni non gli mancavano, come si diceva.
Guardò l’ora. Presto gli avrebbero dato il cambio. Stava per sbadigliare quando udí un grido.
Fu sufficiente: si era già alzato. Spalancò la porta. Vagò con lo sguardo da sinistra a destra, appurò che Mona e il paziente erano gli unici presenti.
Mona indugiava accanto al letto con la bocca spalancata e una mano alzata. Non staccava gli occhi dal paziente.
– È…? – disse Anton, ma non completò la frase perché udí che c’era ancora. Il rumore dell’apparecchio che registrava il battito cardiaco era cosí penetrante – nel silenzio assoluto – che riusciva a sentire i brevi, regolari bip anche quando era seduto fuori in corridoio.
Mona aveva portato i polpastrelli nel punto in cui le clavicole si uniscono allo sterno, quello che Laura chiamava «la nicchia del ciondolo» perché era posato proprio lí, il cuoricino d’oro che lui le aveva regalato per uno di quegli anniversari di nozze che non festeggiavano mai, ma ricordavano comunque in qualche modo. Forse era anche il punto in cui saliva il cuore vero delle donne quando si spaventavano, si innervosivano o avevano l’affanno, perché Laura era solita portarsi le dita esattamente là. Ed era come se la postura di Mona, cosí simile a quella di Laura, rubasse tutta la concentrazione di Anton. Perfino quando Mona gli rivolse un sorriso raggiante e bisbigliò, quasi avesse paura di svegliare il paziente, fu come se le parole arrivassero da un altro punto.
– Ha parlato. Ha parlato.
Katrine impiegò tre minuti scarsi a intrufolarsi per le familiari vie traverse fino al sistema del distretto di polizia di Oslo, ma ebbe maggiori difficoltà a trovare le registrazioni degli interrogatori relativi al caso di stupro dell’Otta Hotell. L’implementazione della direttiva di digitalizzare tutto il materiale audiovisivo era a buon punto, ma non gli indici. Katrine aveva provato invano con tutte le stringhe di ricerca che le erano venute in mente: Valentin Gjertsen, Otta Hotell, stupro, eccetera. Stava per lasciar perdere quando un’acuta voce maschile uscí dall’altoparlante riempiendo la stanza.
– Lo aveva chiesto lei, immagino.
Katrine si sentí scuotere da un brivido, come quando era in barca con il padre e lui le diceva calmo che un pesce aveva abboccato. Non sapeva perché, sapeva soltanto che quella era la voce. Era lui.
– Interessante, – osservò un’altra voce. Bassa, quasi suadente. La voce di un poliziotto che vuole dei risultati. – Perché dici questo?
– Sono loro a chiedertelo, no? In un modo o nell’altro. E dopo si vergognano e fanno la denuncia alla polizia. Ma questo lo sapete.
– Perciò quella ragazza all’albergo di Otta te lo ha chiesto, è questo che vuoi dire?
– Lo avrebbe fatto.
– Se non te la fossi scopata prima che avesse il tempo di chiedertelo?
– Se mi fossi trovato là.
– Ma se hai ammesso che eri là quella sera, Valentin.
– L’ho detto solo per spingerti a descrivere quello stupro un po’ piú nei dettagli. Sai, la vita in carcere è una gran noia. Bisogna… fare quel che si può per ravvivarla.
Silenzio.
Poi la risata acuta di Valentin. Katrine rabbrividí sulla sedia stringendosi nel cardigan di lana.
– Che c’è, hai la faccia di uno che ha venduto il burro… si dice cosí, no, agente?
Katrine chiuse gli occhi ed evocò il viso dell’uomo.
– Mettiamo da parte il caso Otta per un momento. Che mi dici della ragazzina su a Maridalen, Valentin?
– Cosa?
– Sei stato tu, non è vero?
Una grassa risata, questa volta. – Ti devi esercitare un po’ di piú in questo numero, agente. La fase del confronto deve avere l’effetto di una mazzata, non di un grazioso ceffone.
Katrine notò che il vocabolario di Valentin era piú ricco di quello di un detenuto comune.
– Quindi neghi di essere stato tu?
– No.
– No?
– No.
Katrine riuscí a sentire il fremito di impazienza nel poliziotto quando trasse un respiro e disse con calma forzata: – Questo significa… che confessi lo stupro e l’omicidio di Maridalen in settembre? – Se non altro, era abbastanza navigato da specificare la domanda cui sperava di sentirsi rispondere «sí» da Valentin perché dopo l’avvocato difensore non potesse sostenere che, durante l’interrogatorio, l’imputato aveva frainteso a cosa o a quale caso si riferisse. Ma colse anche la nota divertita nella voce dell’altro quando rispose:
– Significa che non è necessario che neghi.
– Che cosa…
– Comincia per a e finisce per i.
Una breve pausa.
– Come puoi essere sicuro su due piedi di avere un alibi per quella sera, Valentin? È passato tanto tempo.
– Perché me lo sono chiesto quando lui me lo ha raccontato. Che cosa avevo fatto esattamente quel giorno.
– Chi ti ha raccontato cosa?
– Quello che ha violentato la ragazzina.
Una lunga pausa.
– Adesso ci prendi in giro, Valentin?
– Secondo te, agente Zachrisson?
– Chi ti dice che mi chiamo cosí?
– Snarliveien 41. Giusto?
Un’altra pausa. Un’altra risata e la voce di Valentin. – La faccia di uno che ha venduto il burro e non l’hanno pagato, ecco come si dice. Venduto il burro…
– Chi ti ha raccontato di quello stupro?
– Questo è un carcere per depravati, agente. Di cosa credi che parliamo? Grazie per aver condiviso la tua esperienza, lo chiamiamo. Ovviamente era convinto di non aver rivelato troppo, ma io leggo i giornali, e ricordo bene quel caso.
– Allora, Valentin: chi?
– Allora, Zachrisson: quando?
– Quando?
– Quando posso contare di uscire di qui se faccio la spia?
Katrine aveva l’impulso di mandare avanti la registrazione durante le ripetute pause.
– Torno subito.
Una sedia stridette. Una porta si chiuse piano.
Katrine aspettò. Udiva il respiro dell’uomo. Ed ebbe una sensazione strana. Come se le venisse l’affanno. Come se i respiri negli altoparlanti risucchiassero l’aria del suo soggiorno.
Il poliziotto non poteva essersi assentato per piú di qualche minuto, ma le sembrò mezz’ora.
– Bene, – disse l’agente e la sedia stridette di nuovo.
– Sei stato veloce. E la mia pena viene ridotta di?
– Lo sai che non siamo noi a stabilire la durata delle pene, Valentin. Ma ne parleremo con un giudice, okay? Allora, qual è il tuo alibi, e chi è stato a violentare la ragazza?
– Quella sera non sono uscito. C’era anche la mia padrona di casa e a meno che non le sia venuto l’Alzheimer, lo potrà confermare.
– Come fai a ricordare con tanta facilità…
– Ho l’abitudine di annotarmi mentalmente le date degli stupri. So che se non trovate subito il fortunato prima o poi verrete a chiedermi dov’ero.
– Capisco. E adesso la domanda da un milione di dollari. Chi è stato?
La risposta fu pronunciata lentamente e con una dizione troppo distinta:
– Ju-das Jo-hansen. Una cosiddetta vecchia conoscenza della polizia.
– Judas Johansen?
– Lavori alla Buoncostume e non conosci un famigerato stupratore come lui, Zachrisson?
Un rumore di piedi che strusciavano sul pavimento. – Cosa ti fa pensare che non conosca quel nome?
– Il tuo sguardo è vuoto come un piccolo universo, Zachrisson. Johansen è il piú grande talento stupratore dai tempi di… be’, dai miei tempi.
Katrine ebbe l’impressione di sentire lo schiocco della mandibola del poliziotto che perdeva il contatto con la mascella. Ascoltò il silenzio crepitante. Le parve di udire le pulsazioni impazzite del poliziotto, il sudore che gli spuntava sulla fronte mentre cercava di controllare l’impazienza e il nervosismo di trovarsi davanti al momento cruciale, alla grande svolta, al grande colpo investigativo.
– Do-dove… – balbettò Zachrisson, ma fu interrotto da un ululato che si distorse negli altoparlanti, e a poco a poco Katrine capí che era una risata. La risata di Valentin. Pian piano l’ululato acuto si trasformò in una serie di lunghi singhiozzi scroscianti.
– Ti sto prendendo in giro, Zachrisson. Judas Johansen è gay. È nella cella qui accanto.
– Come?
– Vuoi sentire una storia piú interessante di quella che hai raccontato tu? Judas si scopò un ragazzino, e furono colti in flagrante dalla madre. Purtroppo per Judas il ragazzino non aveva fatto coming out e la sua famiglia era del tipo ricco e conservatore. Perciò denunciarono Judas per stupro. Judas, che non ha mai fatto del male a una mosca. O si dice ad anima viva? Mosca, anima viva. Anima viva. Mosca. A ogni modo, che ne diresti di riprendere in esame il suo caso se ricevessi altre informazioni? Posso darti qualche dritta su quello che il ragazzino ha combinato in seguito. Immagino che l’offerta di uno sconto sia ancora valida, no?
Gambe di sedie che stridevano sul pavimento. Lo schianto di una sedia che si rovesciava. Un clic e poi silenzio. Avevano spento il registratore.
Katrine rimase seduta fissando lo schermo del pc. Si accorse che fuori era sceso il buio. Le teste di merluzzo si erano freddate.
– Sí, sí, – disse Anton Mittet. – Ha parlato!
Anton Mittet era fuori nel corridoio con il cellulare premuto contro l’orecchio mentre controllava il cartellino di riconoscimento dei due medici accorsi. I loro visi tradivano un misto di stupore e irritazione: non si ricordava di loro?
Con un gesto Anton li invitò a passare, e i due si affrettarono a entrare dal paziente.
– Ma che cosa ha detto? – domandò Gunnar Hagen al telefono.
– Lei lo ha sentito soltanto mormorare, non le parole.
– È sveglio, adesso?
– No, subito dopo ha di nuovo perso conoscenza. Ma i medici dicono che a questo punto può risvegliarsi da un momento all’altro.
– Ho capito, – disse Hagen. – Tienimi aggiornato, okay? Chiama in qualsiasi momento. In qualsiasi momento.
– Sí.
– Bene. Bene. Anche l’ospedale ha l’ordine permanente di informarmi, ma… be’, loro hanno altro cui pensare.
– Naturalmente.
– Già, non è vero?
– Certo.
– Appunto.
Anton ascoltò il silenzio. Gunnar Hagen stava cercando di dirgli qualcosa?
Il caposezione riagganciò.
Katrine atterrò a Gardermoen alle nove e mezzo, salí sul treno dell’aeroporto e si lasciò trasportare da un capo all’altro di Oslo. O, per la precisione, sotto Oslo. Aveva abitato là, ma i pochi scorci della città che riuscí a cogliere non incoraggiavano i sentimentalismi. Una skyline mediocre. Basse, dolci colline soffici di neve, paesaggi addomesticati. Sui sedili del treno, visi cupi, inespressivi, nessuna traccia di quella comunicazione spontanea, futile fra estranei cui era abituata a Bergen. Poi su quella che era una delle tratte ferroviarie piú costose del mondo si verificò un altro errore nella segnaletica, e si fermarono nel buio pesto di una galleria.
Aveva motivato la richiesta della trasferta a Oslo con il fatto che nel loro distretto di polizia – quello di Hordaland – c’erano stati tre casi di violenza carnale irrisolti che presentavano tratti in comune con quelli verosimilmente attribuibili a Valentin Gjertsen. Aveva spiegato che se fossero riusciti a collegare quei casi a Valentin, avrebbero potuto aiutare indirettamente la Kripos e il distretto di polizia di Oslo nelle indagini sui poliziotti uccisi.
– E perché non possiamo lasciare che se ne occupi la polizia di Oslo da sola? – le aveva chiesto il capo del personale e dell’Anticrimine di Bergen, Knut Müller Nilsen.
– Perché la sua percentuale di casi risolti è del venti virgola otto mentre la nostra è del quarantuno virgola uno.
Müller Nilsen era scoppiato in una fragorosa risata, e Katrine aveva capito di avere il biglietto aereo in tasca.
Il treno ripartí con uno scossone e la carrozza risuonò di sospiri, sollevati, irritati, rassegnati. Katrine scese a Sandvika e prese un taxi fino a Eiksmarka.
La vettura si fermò davanti al civico 33 di Jøssingveien. Katrine mise i piedi sulla neve sciolta grigia. A parte l’alta recinzione intorno all’edificio di mattoni rossi, poco e niente rivelava che l’istituto di pena e di detenzione preventiva di Ila ospitasse alcuni dei piú feroci assassini, pescecani della droga e criminali sessuali del paese. Fra gli altri. Lo statuto del carcere dichiarava che era un istituto nazionale per detenuti maschi con «particolari esigenze in fatto di misure di supporto».
Supporto a non evadere, pensò Katrine. Supporto a non mutilare. Supporto in ciò che sociologi e criminologi per qualche ragione consideravano un desiderio condiviso dalla specie in generale: diventare buoni membri del consorzio umano, contribuire al bene del branco, essere integrati nella società esterna.
Katrine era stata ricoverata nel reparto psichiatrico di Bergen per un periodo sufficiente da sapere che perfino i devianti non-criminali di solito non erano minimamente interessati a contribuire al benessere della società, e l’unica comunione che riconoscevano era quella con sé stessi e i propri demoni. Per il resto desideravano solo essere lasciati in pace. Ma questo non necessariamente significava che desiderassero lasciare in pace gli altri.
Le aprirono, lei mostrò il tesserino di riconoscimento e l’autorizzazione per la visita che aveva ricevuto via e-mail e, un varco dopo l’altro, si addentrò nella magione.
Una guardia carceraria l’aspettava a gambe larghe, braccia conserte e con le chiavi tintinnanti. Ostentava piú baldanza e sicurezza del solito perché la visitatrice era della polizia, la casta braminica dei tutori dell’ordine, quelli che inducono immancabilmente le guardie carcerarie, i vigilantes e perfino gli ausiliari del traffico a compensare in modo eccessivo con la gesticolazione e il tono di voce.
Katrine si comportò come faceva sempre in situazioni simili: fu piú gentile e affabile di quanto la sua indole le dettasse.
– Benvenuta nella fogna, – le disse la guardia, una frase che Katrine era abbastanza sicura non usasse con i visitatori abituali ma avesse escogitato preventivamente, una dichiarazione che rivelava la giusta combinazione di humour nero e di cinismo pragmatico nei confronti del suo lavoro.
Però, tutto sommato, quell’immagine non era male, pensò mentre percorrevano insieme i corridoi del carcere. O forse sarebbe stato meglio chiamarlo apparato gastrointestinale. Il luogo dove la digestione della legge riduceva i suoi individui condannati a una massa marrone puzzolente che a un certo punto doveva essere riespulsa. Tutte le porte erano chiuse, i corridoi deserti.
– Il braccio dei pervertiti, – spiegò la guardia aprendo con la chiave un’altra porta di ferro in fondo al corridoio.
– Quindi, hanno un braccio tutto per sé?
– Sí. Se gli stupratori sono riuniti in un unico luogo, ci sono meno possibilità che i vicini facciano lega contro di loro.
– Come, facciano lega? – ripeté Katrine con stupore simulato e fingendo di non sapere.
– Sí, gli stupratori sono altrettanto odiati qui che nel resto della società. Se non di piú. E qui abbiamo assassini che hanno un controllo degli impulsi minore del tuo e del mio. Perciò, in una brutta giornata… – Si portò la chiave che aveva in mano alla gola con un gesto teatrale.
– Li uccidono? – proruppe Katrine inorridita, e per un momento si chiese se avesse esagerato. Ma la guardia non si scompose.
– Be’, forse non arrivano a tanto. Ma a una bella ripassata sí. In infermeria c’è sempre qualche maniaco con braccia e gambe fratturate. Dicono di essere caduti per le scale o scivolati nella doccia. Non hanno neanche il coraggio di fare la spia, capisci? – Serrò la porta alle loro spalle e inspirò. – Lo senti questo odore? È di sperma sul pannello elettrico a parete caldo. Si secca immediatamente. A quanto pare si fissa al metallo e non va piú via. Sembra carne umana bruciata, vero?
– Homunculus, – disse Katrine inspirando. Lei sentiva solo odore di pareti tinteggiate da poco.
– Eh?
– Nel Seicento credevano che lo sperma contenesse esseri umani minuscoli, – rispose. Scorse lo sguardo torvo della guardia e capí di aver fatto un passo falso, che avrebbe dovuto fingersi scioccata.
– Allora, – si affrettò ad aggiungere. – Valentin scontava la sua pena qui al sicuro, insieme a quelli come lui?
La guardia scosse la testa. – Fu messa in giro la voce che aveva stuprato le due ragazzine di Maridalen e di Tryvann. E per i detenuti che hanno usato violenza su minori è diverso. Perfino uno stupratore famigerato odia uno che si fa i bambini.
Katrine trasalí, e questa volta non per finta. Fu soprattutto per la disinvoltura con cui l’uomo aveva pronunciato quell’espressione.
– Quindi Valentin si prese una bella lezione?
– Lo puoi ben dire.
– E quella voce, qualche idea su chi possa averla messa in giro?
– Sí, – rispose la guardia mentre con la chiave apriva un’altra porta. – Siete stati voi.
– Noi? La polizia?
– Un poliziotto venne qui fingendo di interrogare i detenuti sui due casi. Ma piú che fare domande diede informazioni, ho saputo.
Katrine annuí. Ne aveva sentito parlare. A volte, quando la polizia era sicura che un detenuto fosse colpevole di violenza su minori, ma non riusciva a provarlo, provvedeva a farlo punire in altro modo. Bastava informare i compagni di detenzione giusti. Quelli con il maggior potere. O il minor controllo degli istinti.
– E voi siete rimasti a guardare?
La guardia si strinse nelle spalle. – Che cosa possiamo fare noialtri secondini? – E poi, a voce piú bassa, aggiunse: – E in quel caso particolare, forse neanche ci dispiaceva…
Superarono una sala comune. – Che vuoi dire?
– Valentin Gjertsen era un demonio malato. Assolutamente malvagio. Una di quelle persone che ti inducono a chiederti perché il Signore abbia voluto metterle al mondo. C’era una guardia donna qui, e lui…
– Ehi, eccoti.
La voce era mite e Katrine si voltò istintivamente verso sinistra. Due uomini stavano davanti a un bersaglio di freccette. Incrociò lo sguardo sorridente del detenuto che aveva parlato, un uomo magro, vicino ai quaranta, forse. I pochi capelli biondi rimasti erano pettinati all’indietro sopra il cranio rosso. Una malattia della pelle, pensò Katrine. O forse avevano il solarium, visto il loro particolare bisogno di supporto.
– Ormai pensavo che non venissi piú –. Con gesti lenti l’uomo estrasse le freccette fissando con insistenza Katrine negli occhi. Ne prese una, la piantò nel centro rosso sangue del bersaglio, nel barilotto. Sogghignò mentre la conficcava di piú. Poi la estrasse. Schioccò le labbra. L’altro detenuto non rise come Katrine si era aspettata. Invece, rivolse al compagno di partita un’espressione preoccupata.
La guardia afferrò con delicatezza Katrine sotto il braccio per allontanarla, ma lei si liberò alzando la mano mentre il suo cervello girava al massimo alla ricerca di allusioni. Rifiutava quelle ovvie tra freccette e dimensioni di organi genitali.
– Meno sturalavandini chimico nella lozione per capelli, magari?
Katrine allungò il passo, ma le era chiaro che, se non aveva centrato il barilotto, ci era andata vicino. L’uomo era arrossito per un attimo prima di rivolgerle una specie di saluto militare sogghignando ancora piú forte.
– Valentin parlava con qualcuno? – domandò mentre la guardia apriva la porta della cella con la chiave.
– Con Jonas Johansen.
– Quello che chiamano Judas?
– Sí. Condannato per aver violentato un uomo. Non ce ne sono molti, in effetti.
– E adesso dov’è?
– È evaso.
– Come ha fatto?
– Non lo sappiamo.
– Non lo sapete?
– Ascolta, qui c’è molta gente schifosa, ma non siamo un carcere di massima sicurezza come Ullersmo. In questo braccio, poi, i reclusi scontano pene limitate. Quel Judas aveva varie circostanze attenuanti. E Valentin aveva solo una condanna per tentata violenza carnale. Gli stupratori seriali sono detenuti altrove. Perciò non abusiamo delle risorse per sorvegliare gli uomini di questo braccio. Tutte le mattine li contiamo, e rare volte capita che manchi qualcuno, e allora li facciamo rientrare tutti nelle celle per scoprire chi manca. Ma se il numero corrisponde, tutto procede secondo la solita routine. Scoprimmo che Judas Johansen era sparito e lo comunicammo alla polizia. Poi non ci pensai piú di tanto, perché fra capo e collo ci capitò quell’altra storia.
– Vuoi dire…?
– Sí. L’omicidio di Valentin.
– Quindi Judas non era qui quando accadde?
– Esatto.
– Chi pensi possa averlo ucciso?
– Non lo so.
Katrine annuí. La risposta era stata un po’ troppo automatica, un po’ troppo precipitosa.
– Non lo dirò a nessuno, lo giuro. Perciò ti chiedo: chi pensi sia stato a uccidere Valentin?
La guardia inspirò fra i denti mentre la scrutava. Come per controllare se gli fosse sfuggito qualcosa alla prima ispezione.
– Qui erano in parecchi a odiare Valentin e ad averne il terrore. Forse qualcuno, o alcuni, aveva scoperto di avere piú di un motivo per rendergli la pariglia. Quello che lo ha ucciso doveva provare un odio feroce, a ogni modo. Valentin era… come dire? – Katrine vide il pomo d’Adamo dell’agente salire e scendere sopra il colletto della divisa. – Il suo corpo sembrava una massa di gelatina, non ho mai visto nulla del genere.
– Allora, forse è stato picchiato con un’arma contundente?
– Non ne ho idea, però era irriconoscibile. La faccia era una poltiglia. Se non fosse stato per quel tatuaggio lugubre che aveva sul petto non so come avremmo fatto a riconoscerlo. Non sono un tipo sensibile, ma dopo quella maledetta storia ho avuto gli incubi.
– Che genere di tatuaggio era?
– Che genere?
– Sí, che… – Katrine si rese conto che stava uscendo dal ruolo della poliziotta gentile e si sforzò di mascherare l’irritazione. – Che cosa raffigurava il tatuaggio?
– Be’, non saprei. Era un viso. Molto sinistro. Era come tirato ai lati. Come se fosse bloccato e cercasse di liberarsi.
Katrine annuí lentamente. – Di uscire dal corpo in cui era imprigionato.
– Sí, esatto, sí. Conosci…?
– No, – rispose Katrine. «Ma conosco la sensazione». – E quindi non avete ritrovato Judas?
– Voi non avete ritrovato Judas.
– Già. E secondo te perché noi non lo abbiamo fatto?
L’agente di custodia si strinse nelle spalle. – E io che ne so? Però immagino che uno come Judas non sia tra le vostre priorità. Ripeto, c’erano le circostanze attenuanti, e il pericolo di una recidiva era minimo. In effetti aveva quasi finito di scontare la pena, probabilmente gli è venuta la febbre, all’idiota.
Katrine annuí. La febbre del rilascio. Quella che arrivava quando la data si avvicinava, quando il detenuto cominciava a pensare alla libertà e di colpo non sopportava di rimanere recluso neanche un giorno di piú.
– C’è qualcun altro qui che mi potrebbe dire qualcosa su Valentin?
La guardia scosse la testa. – A parte Judas, evitava gli altri. Nessuno voleva avere niente a che vedere con lui, del resto. Per la miseria, faceva paura. Era come se succedesse qualcosa all’aria quando entrava in una stanza.
Katrine continuò a fargli domande finché si rese conto che cercava solo di giustificare la perdita di tempo e il biglietto aereo.
– Hai accennato a quello che Valentin aveva fatto, – disse.
– Ah sí? – si affrettò a dire lui e guardò l’orologio. – Oh. Devo…
Mentre riattraversavano la sala comune Katrine vide soltanto l’uomo magro dal cranio rosso. Se ne stava impalato con le braccia ciondoloni a fissare il bersaglio vuoto. Le freccette erano sparite. Si girò adagio, e lei non riuscí a evitare di guardarlo a sua volta. Il ghigno era sparito, e gli occhi erano smorti e grigi come meduse.
L’uomo gridò qualcosa. Quattro parole, che ripeté. A voce alta e stridula, come un uccello che annunci un pericolo. Poi scoppiò a ridere.
– Non fare caso a lui, – disse l’agente.
La risata alle loro spalle si affievolí mentre si allontanavano giú per il corridoio.
Infine Katrine si ritrovò all’aperto e inspirò l’aria pungente satura di pioggia.
Prese il cellulare, spense il registratore che aveva acceso al suo arrivo e chiamò Beate.
– Ho finito a Ila. Hai tempo, adesso?
– Metto su la caffettiera a filtro.
– Ah. Non hai…
– Sei una poliziotta, Katrine. E bevi il caffè fatto con il filtro, okay?
– Ascolta, di solito mangiavo al Café Sara in Torggata, e tu hai bisogno di mettere il naso fuori dal laboratorio. Pranzo. Offro io.
– Mi pare proprio il caso.
– Eh?
– L’ho trovata.
– Chi?
– Irja Jacobsen. È viva. Almeno, se ci sbrighiamo.
Decisero di vedersi di lí a tre quarti d’ora e riagganciarono. Mentre aspettava il taxi Katrine riascoltò la registrazione. Aveva fatto in modo che l’estremità del telefonino munita di microfono spuntasse dalla tasca, e giunse alla conclusione che con degli auricolari buoni probabilmente avrebbe potuto decifrare quello che aveva raccontato l’agente di custodia. Tornò indietro e riascoltò la parte per la quale non aveva bisogno degli auricolari. Il grido d’avvertimento del cranio rosso:
«Valentin vive. Valentin uccide. Valentin vive. Valentin uccide».
– Si è risvegliato stamattina, – disse Anton Mittet mentre si affrettava lungo il corridoio insieme a Gunnar Hagen.
Appena li vide arrivare Silje si alzò dalla sedia.
– Puoi andare, adesso, Silje, – le disse Anton. – Ti sostituisco io.
– Ma il tuo turno inizia fra un’ora.
– Puoi andare, ho detto. Vai.
La ragazza scrutò Anton. Guardò l’altro.
– Gunnar Hagen, – si presentò l’uomo tendendo la mano. – Capo dell’Anticrimine.
– Lo so chi sei, – disse lei stringendola. – Silje Gravseng. Spero di lavorare con te un giorno.
– Bene, – commentò lui. – Allora puoi cominciare facendo come ti dice Anton.
Silje gli fece un cenno d’assenso. – Sulla mia consegna c’è scritto il tuo nome, e naturalmente…
Anton la guardò mentre riponeva le sue cose nella borsa.
– Comunque, questo è il mio ultimo giorno di tirocinio, – disse. – Adesso dovrò cominciare a pensare all’esame.
– Silje è una diplomanda della Scuola di polizia, – spiegò Anton.
– Allieva della Scuola di polizia, si dice adesso, – puntualizzò Silje. – Commissario capo, mi chiedevo una cosa.
– Sí? – disse Hagen accogliendo con un sorriso sghembo quei paroloni.
– Quella leggenda che lavorava con te. Harry Hole. Dicono che non abbia mai preso una cantonata. Che abbia risolto tutti i casi di omicidio su cui ha indagato. È vero?
Anton tossicchiò per metterla in guardia e la fissò, ma Silje fece finta di niente.
Il sorriso sghembo di Hagen si raddrizzò e si ingrandí. – Innanzitutto uno può avere dei casi irrisolti sulla coscienza senza che questo significhi che abbia preso delle cantonate. O no?
Silje Gravseng non rispose.
– Quanto a Harry e ai casi irrisolti… – si stropicciò il mento. – Be’, probabilmente hanno ragione. Ma dipende dai punti di vista.
– Punti di vista?
– È rientrato da Hong Kong per indagare su un omicidio per il quale era stato arrestato il suo figliastro. E anche se è riuscito a far rilasciare Oleg e un altro ha confessato, l’omicidio di Gusto Hanssen non è mai stato risolto davvero. Non ufficialmente, almeno.
– Grazie, – disse Silje con un breve sorriso.
– In bocca al lupo per la carriera, – le disse Gunnar Hagen.
Gunnar indugiò guardandola sparire in fondo al corridoio. Non tanto perché gli uomini guardano sempre una bella ragazza, quanto per rinviare ancora di qualche secondo il compito che lo aspettava, pensò Anton. Aveva percepito il nervosismo del caposezione. Poi Hagen si voltò verso la porta chiusa. Si abbottonò la giacca. Si alzò sulle punte come un tennista che aspetti il servizio dell’avversario.
– Allora, io entro.
– D’accordo, – disse Anton. – Io tengo d’occhio qui.
– Sí, – disse Hagen. – Sí.
A metà pranzo, Beate chiese a Katrine se all’epoca fosse andata a letto con Harry.
All’inizio le aveva spiegato che un agente sotto copertura aveva riconosciuto la foto della donna che aveva testimoniato il falso, Irja Jacobsen. Aveva riferito che se ne stava praticamente rintanata in una specie di comune dalle parti di Alexander Kiellands plass, che tenevano d’occhio perché era una base dello spaccio di anfetamine. Ma la polizia non era molto interessata a Irja, che non spacciava, semmai comprava.
Poi il discorso era passato alla situazione lavorativa, alla sfera privata e ai bei vecchi tempi. Per senso del dovere Katrine aveva protestato all’affermazione di Beate secondo la quale all’epoca faceva venire il torcicollo a mezza Anticrimine quando percorreva i corridoi con incedere maestoso. Allo stesso tempo si era resa conto che quello era il modo in cui le donne si ridimensionavano a vicenda: sottolineare quanto erano state belle. Soprattutto se personalmente non erano bellissime. Ma anche se non aveva mai fatto venire il torcicollo a nessuno Beate non era neppure mai stata il tipo che lanciava frecce avvelenate. Era silenziosa, una che arrossiva con facilità, una grande lavoratrice, leale, che combatteva con armi pulite. Evidentemente qualcosa era cambiato. Forse era colpa di quell’unico bicchiere di vino bianco che si erano concesse, ma Beate non aveva mai avuto l’abitudine di fare domande personali cosí dirette.
Se non altro Katrine era contenta di avere la bocca talmente piena di pita da potersi limitare a scuotere la testa.
– Comunque, – disse appena ebbe deglutito. – Ammetto che di tanto in tanto ci ho fatto un pensierino. Harry te ne ha mai accennato?
– Harry mi raccontava quasi tutto, – rispose Beate levando il bicchiere con l’ultimo goccio. – Mi chiedevo solo se mi avesse mentito negando che tu e lui…
Katrine chiese il conto con un gesto della mano. – Perché pensavi che ci fossi andata a letto?
– Avevo notato come vi guardavate. Come vi parlavate.
– Harry e io litigavamo, Beate!
– Appunto.
Katrine scoppiò a ridere. – E che mi dici di te e di Harry?
– Harry? Impossibile. Eravamo troppo amici. Poi mi sono messa con Halvorsen…
Katrine annuí. L’agente che lavorava in coppia con Harry, un giovane investigatore di Steinkjer che aveva fatto in tempo a mettere incinta Beate prima di essere ucciso in servizio.
Pausa.
– Che c’è?
Katrine si strinse nelle spalle. Tirò fuori il cellulare e le fece ascoltare la fine della registrazione.
– A Ila ci sono dei pazzi furiosi, – disse Beate.
– Sono stata ricoverata in un reparto psichiatrico, perciò so che aria tira, – disse Katrine. – Ma mi chiedo come abbia fatto a capire che ero lí per Valentin.
Seduto sulla sua sedia, Anton Mittet vide Mona venirgli incontro. Si rifece gli occhi. La vide posare un piede davanti all’altro come se procedesse su una fune. Forse camminava semplicemente cosí. O forse camminava cosí per lui. Poi lo raggiunse, si lanciò automaticamente un’occhiata alle spalle per controllare che non arrivasse nessuno. Gli passò la mano nei capelli. Lui rimase seduto, le cinse le cosce con le braccia, alzò gli occhi e la guardò.
– Allora? – le chiese. – Hanno assegnato anche a te questo turno?
– Sí, – rispose lei. – Altman non c’è piú, lo hanno rimandato in oncologia, pare.
– Allora immagino che ti vedrò piú spesso, – disse Anton sorridendo.
– Non è cosí sicuro, – disse lei. – A quanto sembra secondo gli esami l’uomo di là si sta riprendendo rapidamente.
– Ma noi continueremo a vederci.
Lo disse con tono scherzoso. Ma non era uno scherzo. E probabilmente lei lo sapeva. Fu per questo che parve irrigidirsi, che il suo sorriso si trasformò in una smorfia, che si liberò della stretta guardandosi alle spalle fingendo di temere che qualcuno potesse vederli? Anton ritrasse le mani.
– Il capo dell’Anticrimine è di là da lui.
– A fare che?
– A parlargli.
– Di cosa?
– Non lo posso dire, – rispose Anton. Invece di «Non lo so». Dio, quant’era patetico.
In quello stesso istante la porta si aprí e Gunnar Hagen apparve. Si fermò e il suo sguardo vagò da Mona ad Anton, poi di nuovo a Mona. Come se avessero messaggi in codice stampati in faccia. Se non altro, una pennellata di rosso aveva tinto il viso di Mona mentre infilava la porta alle spalle di Hagen.
– Allora? – domandò Anton sforzandosi di apparire impassibile. E nello stesso istante si rese conto che lo sguardo di Hagen non era quello di uno che aveva capito, ma di uno che non aveva capito. Lo fissava come se fosse un marziano, il suo era lo sguardo confuso di un uomo cui avevano appena capovolto tutta la visione dell’esistenza.
– Quello di là… – disse Hagen indicando con il pollice sopra la spalla. – Non devi permettere che gli succeda qualcosa, Anton. Mi hai sentito? Non devi permettere che gli succeda qualcosa.
Anton lo udí ripetere agitato tra sé le ultime parole mentre a passo rapido si allontanava giú per il corridoio.
Appena scorse la faccia nel vano della porta, per prima cosa Katrine pensò che avessero sbagliato indirizzo, che quella donna anziana dai capelli grigi e dal viso sciupato non potesse essere Irja Jacobsen.
– Cosa volete? – domandò Irja scrutandole con uno sguardo torvo e sospettoso.
– Ti ho telefonato io, – disse Beate. – Vorremmo parlare di Valentin.
La donna richiuse la porta di schianto.
Beate aspettò che il rumore di passi all’interno cessasse. Poi abbassò la maniglia e aprí la porta.
Ai pioli del corridoio erano appesi indumenti e sacchetti di plastica. Gli immancabili sacchetti di plastica. «Perché i tossici si circondano sempre di sacchetti di plastica?» pensò Katrine. Perché volevano per forza che tutti i loro averi fossero custoditi, protetti, trasportati nell’imballaggio piú fragile, piú inaffidabile? Perché rubavano motorini, attaccapanni a stelo e servizi da tè, qualunque cosa, ma mai articoli quali valigie e borse da viaggio?
L’appartamento era sporco, ma non in condizioni penose come la maggior parte dei covi di tossici che aveva visto. Forse era la donna di casa, Irja, a mettere qualche paletto e a prendere l’iniziativa. Perché Katrine dava per scontato che fosse l’unica donna. Seguí Beate nel soggiorno. Su un divano vecchio ma integro era disteso un uomo che dormiva. Sicuramente ubriaco. La stanza odorava di sudore, di fumo, di legno marinato nella birra e di qualcosa di dolciastro che Katrine non riusciva né desiderava individuare meglio. Lungo la parete era immagazzinata la refurtiva d’obbligo, cataste di tavole da surf per bambini, tutte avvolte in plastica trasparente, decorate con lo stesso squalo bianco dalle fauci spalancate e sulla punta il segno nero di un morso che doveva dare l’illusione che ne avesse staccato un pezzo. Solo gli dèi sapevano come sarebbero riusciti a smerciarle.
Beate e Katrine proseguirono fino alla cucina dove Irja si era seduta al piccolo tavolo e stava rollando una sigaretta. Il tavolo era coperto da una tovaglietta e sul davanzale c’era una zuccheriera con dei fiori di plastica.
Katrine e Beate si sedettero di fronte a lei.
– Non si fermano mai, – disse Irja indicando con un cenno della testa la trafficata Uelands gate fuori della finestra. La sua voce rivelò esattamente quella raucedine aspra che Katrine si aspettava dopo aver visto l’abitazione e quella decrepita trentenne. – Non fanno che correre. Ma dove vanno tutti quanti?
– A casa, – suggerí Beate. – O via di casa.
Irja fece spallucce.
– Anche tu sei andata via di casa, mi pare, – intervenne Katrine. – Il tuo indirizzo all’anagrafe…
– L’ho venduta, – disse Irja. – L’avevo ereditata. Era troppo grande. Era troppo… – Tirò fuori una lingua bianca e secca e leccò il bordo della cartina mentre Katrine completava in silenzio la frase: «Troppo allettante venderla perché il sussidio non bastava piú a coprire il consumo di droga».
– … troppo piena di brutti ricordi.
– Che genere di ricordi? – domandò Beate, e Katrine ebbe un sussulto. Beate lavorava nella Scientifica, non era un’esperta di interrogatori, e adesso si stava allargando troppo, la incitava a raccontare tutta la tragedia della sua vita. E nessuno era capace di raccontarla piú nei dettagli e lentamente di una tossica piena di autocommiserazione.
– Di Valentin.
Katrine si raddrizzò. Forse, nonostante tutto, Beate sapeva il fatto suo.
– Cosa faceva?
La donna si strinse di nuovo nelle spalle. – Aveva preso in affitto il seminterrato. Era… là.
– Come, era là?
– Non conoscete Valentin. È diverso. È…
Fece scattare invano l’accendino. – Lui… – lo fece scattare ancora ripetutamente.
– Era pazzo? – suggerí Katrine impaziente.
– No! – Infuriata, Irja gettò l’accendino.
Katrine imprecò tra sé e sé. Adesso era lei la dilettante che faceva domande tendenziose restringendo la quantità di informazioni che avrebbero potuto ricevere.
– Tutti dicono che Valentin era pazzo! Non è pazzo! È solo che fa qualcosa… – Guardò la strada sotto la finestra. Abbassò la voce. – Fa qualcosa con l’aria. La gente si spaventa.
– Ti picchiava? – chiese Beate.
Anche lei era tendenziosa. Katrine cercò lo sguardo di Beate.
– No, – rispose Irja. – Non mi picchiava. Mi strangolava. Se lo contraddicevo. Era fortissimo, gli bastava prendermi per il collo con una mano sola e stringere. Continuava finché tutto girava, era impossibile scansare quella mano.
Katrine dedusse che il sorriso apparso sulla faccia di Irja fosse una sorta di umorismo macabro. Fino a quando Irja continuò.
– … e la cosa strana era che mi faceva sballare. E mi eccitava.
Katrine non riuscí a trattenere una smorfia. Aveva letto che un deficit di ossigeno nel cervello può avere quell’effetto su alcune persone, ma addirittura quando a provocarlo era un bruto?
– E poi facevate sesso? – domandò Beate, si chinò e raccolse l’accendino dal pavimento. Lo azionò, lo tese verso Irja. Irja si infilò subito la sigaretta tra le labbra, si sporse in avanti e aspirò la fiamma inaffidabile. Ributtò fuori il fumo, si accasciò contro lo schienale della sedia e parve implodere, come se il suo corpo fosse un sacco sotto vuoto che la sigaretta aveva appena bucato con la punta incandescente.
– Lui non sempre aveva voglia di scopare, – disse Irja. – E allora usciva. E io lo aspettavo, sperando che tornasse presto.
Katrine dovette sforzarsi per non sbuffare o manifestare in altro modo il suo disprezzo.
– E cosa faceva quando usciva?
– Non lo so. Non ne parlava, e io… – Di nuovo quell’alzata di spalle. L’alzata di spalle come filosofia di vita. La rassegnazione come analgesico. – Probabilmente non volevo sapere.
Beate tossicchiò. – Gli hai fornito un alibi per le sere in cui furono uccise quelle due ragazze. A Maridalen e…
– Sí, sí, bla bla, – la interruppe Irja.
– Però a differenza di quanto dichiarasti durante gli interrogatori non era a casa con te, vero?
– E come cazzo faccio a ricordarmelo? Me lo aveva ordinato lui, no?
– Di fare cosa?
– Valentin me lo disse la prima notte che, come dire… be’, insomma, passammo insieme. Che la polizia mi avrebbe fatto domande del genere a ogni nuovo stupro, solo perché una volta avevano sospettato di lui ma non erano riusciti a farlo condannare. E se non avesse avuto un alibi per i casi futuri, la polizia avrebbe cercato di farlo condannare anche se lui aveva la coscienza piú che pulita. Disse che di solito la polizia si comporta cosí con chi ritiene l’abbia fatta franca in altri casi. Perciò dovevo giurare che era in casa, comunque, a prescindere dal momento. In questo modo ci saremmo entrambi risparmiati un sacco di guai e perdite di tempo, disse. «Non fa una grinza», pensai.
– E pensavi veramente che fosse innocente in tutti quegli stupri? – domandò Katrine. – Anche se sapevi che ne aveva già commessi.
– Cazzo, no che non lo sapevo! – gridò Irja, e udirono un brontolio sommesso proveniente dal soggiorno. – Non sapevo niente!
Katrine fu sul punto di insistere quando sentí la mano di Beate darle una rapida stretta al ginocchio sotto il tavolo.
– Irja, – disse Beate in tono mite. – Se non sai niente, perché adesso volevi parlare con noi?
Irja la guardò togliendosi striscioline di tabacco immaginarie dalla punta della lingua. Rifletté. Prese una decisione.
– Vedi, lui era stato condannato. Per tentata violenza carnale, giusto? E mentre pulivo il seminterrato per affittarlo a un altro inquilino, trovai quelle… quelle… – La sua voce parve andare a sbattere contro un muro e non riuscire piú a proseguire. – Quelle… – I suoi grandi occhi ricamati di sangue si riempirono di lacrime. – Quelle foto.
– Che genere di foto?
Irja tirò su col naso. – Di ragazze. Ragazzine, quasi bambine. Legate e con un coso sulla bocca…
– Uno straccio appallottolato? Un bavaglio?
– Imbavagliate, sí. Erano sedute su una sedia o su un letto. E si vedeva il lenzuolo macchiato di sangue.
– E c’era anche Valentin in quelle foto? – domandò Beate.
Irja scosse la testa.
– Quindi forse erano truccate, – disse Katrine. – In rete circolano delle cosiddette foto di stupri realizzate da professionisti per il pubblico che apprezza queste cose.
Irja scosse di nuovo la testa. – Erano troppo terrorizzate. Lo si vedeva dagli occhi. Io… ci ho riconosciuto il terrore di quando Valentin doveva… voleva…
– Katrine sta cercando di dire che non necessariamente è stato Valentin a scattare quelle foto.
– Le scarpe, – disse Irja tirando su col naso.
– Cosa?
– Valentin portava certe scarpe lunghe, a punta, da cowboy, con una fibbia sul lato. In una foto si vedevano quelle scarpe sul pavimento vicino al letto. E allora capii che poteva essere vero. Che forse aveva veramente violentato come dicevano. Ma il peggio non era questo…
– No?
– Si vedeva la tappezzeria dietro il letto. Ed era la stessa, lo stesso disegno. La foto era stata scattata nel seminterrato. Il letto era quello in cui io e lui avevamo… – Serrò gli occhi e strizzò due minuscole gocce d’acqua.
– E allora cosa facesti? – chiese Katrine.
– Secondo te? – sibilò Irja portandosi l’avambraccio sotto il naso. – Mi rivolsi a voi! A voi che per cosí dire dovreste proteggerci.
– E noi che cosa ti dicemmo? – domandò Katrine senza riuscire a dissimulare l’antipatia.
– Voi diceste che avreste verificato. E allora andaste da Valentin con quelle foto, ma ovviamente lui riuscí a cavarsi d’impaccio. Disse che si trattava di un gioco volontario, che non ricordava i nomi delle ragazze, che non le aveva piú riviste e chiese se qualcuna lo avesse denunciato. E visto che nessuna lo aveva fatto la cosa finí lí. O meglio, finí per voi. Per me era appena cominciata…
Si portò con delicatezza le nocche degli indici sotto gli occhi, ovviamente convinta di essere truccata.
– Eh?
– A Ila hanno il permesso di fare una telefonata alla settimana. Lui mi disse che voleva parlarmi. E cosí lo andai a trovare.
Katrine non aveva bisogno di sentire il seguito.
– Lo aspettavo seduta nella sala visite. E quando entrò, bastò un suo sguardo e mi sentii la sua mano intorno alla gola. Cazzo, non riuscivo a respirare. Lui si sedette e mi disse che se mi fossi lasciata scappare una sola parola riguardo agli alibi mi avrebbe uccisa. Se avessi parlato comunque con la polizia, non importava di cosa, mi avrebbe ammazzata. E che se credevo che sarebbe rimasto in carcere ancora per molto mi sbagliavo. Poi si alzò e se ne andò. E non dovevo piú arrovellarmi. Sapendo quello che sapevo, mi avrebbe ammazzata comunque, alla prima occasione. Andai dritta a casa, sprangai tutte le porte e piansi di terrore per tre giorni. Il quarto giorno mi chiamò una cosiddetta amica per chiedermi un prestito. Mi chiedeva soldi a intervalli regolari, si faceva di una roba nuova, simile all’eroina, che in seguito fu battezzata violina. Di solito riagganciavo, ma quella volta no. La sera dopo venne da me e mi aiutò a farmi il primo buco della mia vita. E, Dio, se mi fece bene. La violina… aggiustava tutto… faceva…
Katrine scorse la luce di un vecchio innamoramento nello sguardo della donna devastata.
– E ne diventasti schiava anche tu, – concluse Beate. – Vendesti la casa…
– Non lo feci solo per i soldi, – disse Irja. – Dovevo fuggire. Non dovevo farmi trovare da lui. Tutte le tracce che potevano portare a me dovevano sparire.
– Smettesti di usare la carta di credito, non comunicasti il cambio di domicilio, – disse Katrine. – Smettesti perfino di incassare il sussidio.
– Ovviamente.
– Anche dopo la morte di Valentin.
Irja non rispose. Né batté ciglio. Rimase seduta immobile mentre il fumo saliva in volute dalla sigaretta già consumata che stringeva tra le dita ingiallite dalla nicotina. A Katrine venne in mente un animale abbagliato dai fari di un’automobile.
– Non ti sei sentita sollevata quando lo hai saputo? – domandò con prudenza.
Irja scosse la testa, meccanicamente, come un burattino.
– Non è morto.
Katrine capí subito che parlava sul serio. Qual era la prima cosa che aveva detto a proposito di Valentin? «Voi non lo conoscete Valentin, è diverso». Non: era. È.
– Secondo voi perché vi sto dicendo questo? – Irja spense la sigaretta sul piano del tavolo. – Si sta avvicinando. Di giorno in giorno, lo sento. Certe mattine mi sveglio e mi sembra di avere la sua mano intorno alla gola.
Katrine stava per dire che si chiamava paranoia ed era la compagna inseparabile dell’eroina. Ma all’improvviso non ne era piú tanto sicura. E quando la voce di Irja si ridusse a un bisbiglio sommesso mentre il suo sguardo vagava negli angoli bui della stanza, la sentí anche lei. La mano sulla gola.
– Trovatelo. Vi prego. Prima che lui trovi me.
Anton Mittet guardò l’orologio. Le sei e mezzo. Sbadigliò. Mona era passata un paio di volte dal paziente insieme a uno dei medici. Per il resto non era successo niente. A stare tanto seduti come capitava a lui si aveva molto tempo per pensare. Troppo, in effetti. Perché dopo un po’ i pensieri tendevano a diventare negativi. Forse sarebbe stato bello se avesse potuto cambiare le cose brutte. Ma non poteva cambiare il caso Drammen, né la decisione di non fare rapporto sul manganello che all’epoca aveva trovato nel bosco sottostante il luogo del delitto. Non poteva tornare indietro e cambiare, disfare le volte che aveva ferito Laura. E non poteva cancellare la prima notte che aveva passato con Mona. E neanche la seconda.
Trasalí. Cos’era stato? Un rumore? Sembrava provenire dall’altro capo del corridoio. Aguzzò le orecchie. Di nuovo silenzio. Però aveva sentito qualcosa, e a parte il suono regolare dell’apparecchio Ecg nella stanza del paziente, non avrebbe dovuto esserci nessun rumore.
Anton si alzò in silenzio, allentò la cinghia che passava sopra il calcio della pistola d’ordinanza ed estrasse l’arma. Tolse la sicura. «Non devi permettere che gli succeda qualcosa, Anton».
Aspettò, ma non arrivò nessuno. Poi si incamminò a passo lento lungo il corridoio. Provò via via ad aprire le porte, ma erano tutte chiuse a chiave come dovevano essere. Svoltò l’angolo, vide il corridoio che continuava. Illuminato sino in fondo. E non c’era nessuno. Si fermò di nuovo e si mise in ascolto. Niente. Un falso allarme, probabilmente. Rinfilò la pistola nella fondina.
Un falso allarme? No. Qualcosa aveva provocato delle onde nell’aria che avevano colpito la sua sensibile membrana timpanica, facendola oscillare, appena appena, ma abbastanza da far sí che i nervi cogliessero il segnale e lo inviassero al cervello. Era un dato di fatto incontrovertibile. Ma a provocarlo potevano essere state mille cose. Un topo o un ratto. Una lampadina che si era fulminata con uno schiocco. La temperatura che diminuiva con l’arrivo della sera facendo contrarre l’armatura in legno dell’edificio. Un uccello che era andato a sbattere contro una finestra.
Solo adesso – che si era calmato – Anton si rese conto di quanto gli fossero aumentate le pulsazioni. Doveva riprendere la palestra. Rimettersi in forma. Ritrovare il corpo, quello che era veramente.
Stava per tornare indietro quando gli venne in mente che, visto che c’era, tanto valeva farsi un caffè. Raggiunse la macchina espresso rossa, capovolse il tubo che conteneva le capsule. Ne uscí una sola, verde con il coperchio lucido su cui c’era scritto «Fortissimo Lungo». E lo sfiorò il pensiero: il rumore poteva averlo fatto qualcuno che si era intrufolato là dentro per rubare il caffè, dato che il giorno prima il tubo era pieno? Inserí la capsula nella macchina, ma all’improvviso gli venne il sospetto che fosse stata perforata. E quindi usata. No, perché in tal caso sul coperchio si formava un disegnino a scacchi dopo che era stata schiacciata. Azionò la macchina. Iniziò il ronzio, e in quello stesso istante Anton si rese conto che per i successivi venti secondi avrebbe coperto qualsiasi altro rumore debole. Indietreggiò di due passi in modo da essere un po’ meno assordato.
Quando il bicchiere fu pieno, guardò il caffè: nero e perfetto, la capsula era nuova di zecca.
Nel momento in cui l’ultima goccia cadde dalla macchina nel bicchiere, gli parve di udirlo di nuovo. Il rumore. Lo stesso rumore. Ma stavolta proveniva dalla parte opposta, in direzione della stanza del paziente. Gli era sfuggito qualcosa mentre camminava? Anton passò il bicchiere nella mano sinistra e sfoderò di nuovo la pistola. Tornò indietro a passi lunghi e regolari. Cercò di tenere in equilibrio il bicchiere senza guardarlo, ma si sentiva scottare la mano dal caffè bollente. Svoltò l’angolo. Nessuno. Espirò. Proseguí verso la sedia. Fece per sedersi. Ma si irrigidí. Raggiunse la porta del paziente, l’aprí.
Non riusciva a vederlo per via del piumino.
Ma il segnale sonar dell’Ecg arrivava regolare, e la linea avanzava sul monitor verde da sinistra verso destra facendo un salto a ogni bip.
Fu sul punto di richiudere la porta.
Ma qualcosa gli fece cambiare idea.
Entrò, lasciò la porta aperta, fece il giro del letto.
Fissò il viso del paziente.
Era lui.
Corrugò la fronte. Avvicinò il viso alla sua bocca. Non respirava?
Sí, ecco, lo sentí. Il risucchio dell’aria e un nauseabondo odore dolciastro, probabilmente dovuto ai farmaci.
Anton Mittet uscí dalla stanza. Si richiuse la porta alle spalle. Consultò l’orologio. Bevette il caffè. Si accorse di contare i minuti. Di non vedere l’ora che quel turno finisse.
– Mi fa piacere che abbia accettato di parlare con me, – disse Katrine.
– Abbia accettato? – ripeté l’agente di custodia. – Quasi tutti i ragazzi di questo braccio si taglierebbero una mano per qualche minuto a tu per tu con una donna. Rico Herrem è uno stupratore potenziale, sei sicura di voler entrare là dentro da sola?
– So badare a me stessa.
– Lo disse anche la nostra dentista. Comunque, bene, se non altro sei in pantaloni.
– Pantaloni?
– Lei portava la gonna e le calze di nylon. Sistemò Valentin nella poltrona senza che fosse presente una guardia. Il resto lo puoi immaginare…
Katrine fece uno sforzo d’immaginazione.
– Le è costato caro vestirsi come… okay, eccoci arrivati! – L’agente infilò la chiave nella porta della cella e l’aprí. – Sarò qui fuori, grida se succede qualcosa.
– Grazie, – disse Katrine ed entrò.
L’uomo dal cranio rosso sedeva allo scrittoio e si girò sulla sedia.
– Benvenuta nel mio modesto alloggio.
– Grazie, – disse Katrine.
– Prendi questa –. Rico Herrem si alzò, le avvicinò la sedia, tornò indietro e si sedette sul letto rifatto. Debita distanza. Lei si accomodò, sentí il sedile ancora caldo. Quando avvicinò la sedia lui si ritrasse sul letto, e Katrine pensò che fosse uno di quei tipi che in realtà avevano paura delle donne. Che era questo il motivo per cui le guardava e non le violentava. Si denudava davanti a loro. Le chiamava al telefono e raccontava tutte le cose che aveva voglia di fare con loro, ma ovviamente non ne aveva mai avuto il coraggio. La fedina penale di Rico Herrem era in effetti piú disgustosa che raccapricciante.
– Mi hai gridato dietro che Valentin non è morto, – gli disse sporgendosi in avanti. Lui si ritrasse ancora un po’. Il suo linguaggio non verbale era difensivo, ma il sorriso era lo stesso: sfacciato, odioso. Osceno.
– Che intendevi dire?
– Secondo te, Katrine? – Voce nasale. – Che è vivo, evidentemente.
– Valentin Gjertsen è stato trovato morto qui in questo carcere.
– Cosí credono tutti. Quello là fuori ti ha detto cosa ha fatto Valentin alla dentista?
– Ha accennato alla gonna e alle calze di nylon. Se non sbaglio quelle cose vi attizzano.
– Attizzano Valentin, o meglio, Valentin le attizza. Veniva qui due volte alla settimana. All’epoca molti si lamentavano del mal di denti. Valentin usò uno dei suoi trapani per costringerla a togliersi le calze e a infilarsele in testa. Se la fece sulla poltrona odontoiatrica. Ma, come spiegò dopo: «Se ne stava distesa là come un animale da macello». Probabilmente era stata mal consigliata su come reagire nel caso fosse successo qualcosa. E allora Valentin prende l’accendino e, sí, attizza le calze di nylon. Hai mai visto come si squaglia il nylon quando prende fuoco? E allora lei si animò, eccome. Urlava e scalciava come un’ossessa, capisci? L’odore della sua faccia arrostita nel nylon rimase attaccato alle pareti per mesi. Non so che fine abbia fatto, ma immagino che non debba temere di essere violentata un’altra volta.
Katrine lo guardò. Sbruffone, pensò. Uno che aveva preso tante di quelle botte che il ghigno era diventato una difesa automatica.
– Se Valentin non è morto, allora dov’è? – gli domandò.
Il ghigno divenne ancora piú ampio. Lui si tirò il piumino sopra le ginocchia.
– Rico, fammi il piacere di dirmi se sto perdendo tempo, – sospirò Katrine. – Il periodo che ho trascorso in manicomio è stato abbastanza lungo da farmi venire a noia i pazzi. Okay?
– Agente, non penserai che ti dia questa informazione senza ricevere nulla in cambio?
– Il mio titolo è agente investigativo speciale. Qual è il prezzo? Una riduzione della pena?
– Uscirò la prossima settimana. Voglio cinquantamila corone.
Katrine rise fragorosamente e di cuore. Di cuore quel tanto che le riusciva. E vide la collera oscurare lo sguardo dell’uomo.
– Allora, abbiamo finito, – annunciò lei alzandosi.
– Trentamila, – disse lui. – Sono al verde e quando esco avrò bisogno di un biglietto aereo che mi porti lontano da qui.
Katrine scosse la testa. – Paghiamo gli informatori solo se ci rivelano particolari che gettino una luce completamente nuova su un caso. Un caso importante.
– E se questo lo fosse?
– Dovrei comunque parlarne con i miei capi. Mi era parso di capire che avessi qualcosa da raccontarmi, non sono venuta qui per negoziare cose che non ho –. Raggiunse la porta e alzò la mano per bussare.
– Aspetta, – disse il cranio rosso con un fil di voce. Si era tirato su il piumino fino al mento.
– Posso raccontarti qualcosa…
– Ti ho detto che non ho niente da darti –. Katrine bussò alla porta.
– Sai che cos’è questo? – Le domandò lui sollevando uno strumento color rame e il cuore di Katrine diede un tuffo. Prima di capire che quella che per un nanosecondo aveva scambiato per il calcio di una pistola era una macchina per tatuaggi e la canna immaginaria un tubo con l’ago fissato all’estremità.
– Sono il tatuatore di questa azienda, – disse. – E sono anche molto bravo. E sai come hanno fatto a stabilire che il cadavere rinvenuto qui era di Valentin?
Katrine lo guardò. Gli occhi piccoli e carichi d’odio. Le labbra sottili e umide. La cute arrossata sotto i capelli radi. Il tatuaggio. Il volto di demone.
– Continuo a non avere niente da darti, Rico.
– Potresti… – fece una smorfia.
– Sí?
– Magari potresti slacciarti la camicetta, e farmi vedere…
Katrine abbassò gli occhi guardandosi incredula. – Intendi… queste?
Nello stesso istante in cui si portò le mani sotto i seni, le parve di percepire il calore irradiato dal corpo dell’uomo seduto sul letto.
Udí un tintinnio di chiavi nel corridoio.
– Agente, – disse ad alta voce continuando a fissare Rico Herrem. – Dacci qualche altro minuto, per favore.
Udí cessare il tintinnio, l’uomo borbottare qualcosa e poi un rumore di passi che si allontanavano.
Il pomo d’Adamo sulla gola davanti a lei sembrava un piccolo alieno che saltava su e giú sotto la pelle nel tentativo di uscire.
– Continua, – disse lei.
– Prima devi…
– Ti faccio una proposta. La camicetta resta abbottonata. Però mi pizzico un capezzolo, cosí potrai vederlo sporgere. Se quello che mi dirai sarà utile…
– Sí!
– Se ti tocchi, l’accordo va a monte. Okay?
– Okay.
– Allora. Sentiamo.
– Sono stato io a tatuargli quella faccia di demone sul petto.
– Qui in carcere?
L’uomo tirò fuori un foglio da sotto il piumino.
Katrine gli si avvicinò.
– Stop!
Si fermò. Lo guardò. Alzò la mano destra. Cercò il capezzolo sotto la stoffa leggera del reggiseno. Lo prese tra l’indice e il pollice. Strinse. Cercò di non resistere al dolore, di assecondarlo. Rimase dov’era. Inarcò la schiena. Sapeva che il sangue stava affluendo al capezzolo, che si inturgidiva. Lo lasciò guardare. Udí aumentare la frequenza del suo respiro.
Lui le tese il foglio, Katrine avanzò e glielo strappò di mano. Si sedette sulla sedia.
Era un disegno. Lo riconobbe dalla descrizione dell’agente di custodia. Il volto del demone. Tirato ai margini come se avesse uncini nelle guance e nella fronte. Che urlava dal dolore, urlava nello sforzo di liberarsi.
– Credevo che avesse quel tatuaggio da parecchi anni quando è morto, – disse.
– Io non direi proprio.
– Che significa? – Katrine studiò i tratti del disegno.
– Significa che gli è stato fatto dopo morto.
Katrine alzò gli occhi. Vide che lui ancora fissava la camicetta. – Mi stai dicendo che hai tatuato Valentin dopo morto?
– Sei sorda, Katrine? Valentin non è morto.
– Ma… chi…?
– Due bottoni.
– Come?
– Slacciati due bottoni.
Katrine se ne slacciò tre. Scostò la camicetta. Gli fece vedere la coppa del reggiseno con il capezzolo ancora turgido.
– Judas –. La voce dell’uomo non era che un sussurro roco. – Ho tatuato Judas. Valentin lo tenne nella sua valigia per tre giorni. Semplicemente chiuso a chiave in una valigia, pensa.
– Judas Johansen?
– Tutti credevano che fosse evaso, invece Valentin lo aveva ammazzato e nascosto nella valigia. Nessuno cerca un uomo in una valigia, ti pare? Valentin lo aveva ridotto in un modo che perfino io mi chiesi se fosse davvero Judas. Carne tritata. Avrebbe potuto essere chiunque. L’unica parte abbastanza integra era il petto su cui dovevo fare il tatuaggio.
– Judas Johansen. Il cadavere che trovarono era il suo.
– E ora che l’ho detto sono un uomo morto anch’io.
– Ma perché ha ucciso Judas?
– Valentin era odiato qua dentro. Ovviamente perché se l’era spassata con bambine sotto i dieci anni. Poi ci fu la storia della dentista. Era simpatica a molti. Anche alle guardie. Era solo una questione di tempo e gli sarebbe capitato qualche incidente banale. Un’overdose. Magari sarebbe sembrato un suicidio. Perciò decise di correre ai ripari.
– Non poteva semplicemente evadere?
– Lo avrebbero trovato. Doveva far credere che era morto.
– E il suo amico Judas era…
– A disposizione. Valentin non è come noi, Katrine.
Katrine ignorò quel «noi», che la includeva. – Perché hai voluto raccontarmi questo, se eri suo complice?
– Io ho solo fatto un tatuaggio a un morto. E poi dovete prendere Valentin.
– E perché?
Il cranio rosso chiuse gli occhi. – Ultimamente ho fatto molti sogni, Katrine. Lui sta arrivando. Sta per tornare tra i vivi. Ma prima deve liberarsi della robaccia vecchia. Di tutti quelli che lo intralciano. Di tutti quelli che sanno. E io sono tra quelli. La prossima settimana uscirò. Lo dovete prendere…
– … prima che lui prenda te, – Katrine concluse il ritornello e fissò l’uomo che le stava davanti. O meglio, fissò un punto nell’aria all’altezza della fronte dell’uomo. Perché era come se la scena si svolgesse esattamente lí, la scena che Rico aveva innescato, in cui tatuava un uomo morto da tre giorni. Ed era cosí inquietante che non fece caso a nient’altro, non udiva né vedeva nulla. Poi sentí una minuscola goccia sulla gola. Udí il gemito sommesso dell’uomo e abbassò lo sguardo. E saltò su dalla sedia. Raggiunse incespicando la porta sentendosi invadere dalla nausea.
Anton Mittet si svegliò.
Il cuore gli batteva all’impazzata, e inspirò l’aria a grandi boccate.
Batté confuso le palpebre un attimo prima di riuscire a mettere a fuoco.
Fissò la parete bianca davanti a sé. Era ancora seduto sulla sedia con la testa contro il muro alle sue spalle. Si era addormentato. Si era addormentato sul lavoro.
Non gli era mai successo prima. Alzò la mano sinistra. Sembrava pesare venti chili. E perché il cuore gli batteva cosí, come se avesse corso una mezza maratona?
Guardò l’orologio. Le undici e un quarto. Aveva dormito per piú di un’ora! Come era potuto succedere? Sentí il cuore calmarsi pian piano. Doveva essere per tutto lo stress delle ultime settimane. I turni di guardia, il ritmo circadiano scombinato. Laura e Mona.
Che cosa lo aveva svegliato? Un altro rumore?
Stette in ascolto.
Niente, solo un silenzio vibrante. E quel vago ricordo come di un sogno in cui il cervello aveva registrato qualcosa di inquietante. Era come quando dormiva nella loro casa di Drammen giú in riva al fiume. Sapeva che le barche passavano fuori della finestra aperta facendo ringhiare rabbiosamente i motori, ma il suo cervello non registrava il frastuono. Invece, bastava un cigolio appena percettibile della porta della camera da letto e si svegliava di soprassalto. A detta di Laura aveva cominciato a fare cosí dopo il caso Drammen, quello di René Kalsnes, il giovanotto che avevano rinvenuto a monte vicino al fiume.
Chiuse gli occhi. Li spalancò di nuovo. Santo cielo, per poco non si era riaddormentato! Si alzò. Gli girava tanto la testa che dovette rimettersi seduto. Batté le palpebre. Maledetta nebbia, avvolgeva i suoi sensi come una patina.
Abbassò gli occhi e guardò il bicchiere di caffè vuoto poggiato accanto alla sedia. Doveva andare a farsi un espresso doppio. No, accidenti, le capsule erano finite. Doveva chiamare Mona e dirle di portargliene una tazza, sicuramente sarebbe passata di lí a poco. Tirò fuori il cellulare. Mona era segnata come «Gamlem contatto Rikshospital». Tanto per sicurezza, nel caso Laura avesse controllato l’elenco delle chiamate sul suo cellulare scoprendo le frequenti conversazioni con quel numero. Ovviamente cancellava subito gli sms. Anton Mittet stava per mettere il dito su «Chiama» quando il suo cervello lo identificò.
Il rumore sbagliato. Il cigolio della porta della camera da letto.
Era il silenzio.
Era il rumore che non c’era a essere sbagliato.
Il bip del sonar. Il rumore dell’apparecchio che registrava il battito cardiaco.
Anton si alzò a fatica. Raggiunse vacillando la porta, la spalancò. Cercò di scacciare le vertigini battendo le palpebre. Fissò il monitor che mandava una fioca luce verde. La linea piatta, morta che l’attraversava.
Si precipitò verso il letto. Abbassò lo sguardo sul viso pallido. Udí un rumore di passi in corsa che si avvicinavano nel corridoio. Doveva essere scattato un allarme nella sala di controllo quando l’apparecchio aveva cessato di registrare il battito. Anton posò d’istinto una mano sulla fronte dell’uomo. Ancora calda. Ma aveva visto abbastanza da non avere dubbi. Il paziente era morto.

Il funerale del paziente fu breve ed efficace, con una partecipazione a dir poco scarsa. Il pastore non provò neanche a lasciar intendere che l’uomo nella bara fosse stato molto amato, avesse condotto una vita esemplare o possedesse le qualifiche per il paradiso. Passò perciò direttamente a Gesú, che a suo dire aveva concesso a tutti i peccatori la vittoria assicurata.

Perfino il numero di persone che si erano offerte di portare la bara era insufficiente, e perciò fu lasciata davanti all’altare mentre i convenuti uscivano nella nevicata dalla chiesa di Vestre Aker. La maggior parte di loro – quattro, per la precisione – era costituita da poliziotti, i quali salirono sulla stessa auto e raggiunsero Justisen, che aveva appena aperto e dove li aspettava uno psicologo. Si tolsero la neve dagli scarponi battendo i piedi, ordinarono una birra e quattro bottiglie di acqua, né piú pura né piú buona di quella che usciva dai rubinetti di Oslo. Brindarono, maledissero il morto secondo l’usanza e bevettero.

– È morto troppo presto, – disse il capo dell’Anticrimine, Gunnar Hagen.

– Solo di poco, però, – puntualizzò il capo della Scientifica, Beate Lønn.

– Possa bruciare a lungo tra mille sofferenze, – aggiunse Bjørn Holm, il tecnico della Scientifica dai capelli rossi e dalla giacca di camoscio con le frange.

– E con questo, in veste di psicologo, pronuncio la mia diagnosi e vi dichiaro di non essere in contatto con i vostri sentimenti, – disse Ståle Aune levando il bicchiere di birra.

– Grazie, dottore, ma la diagnosi è polizia, – ribatté Hagen.

– A proposito dell’autopsia, – disse Katrine. – Non sono sicura di aver capito bene.

– È morto per un infarto cerebrale, – disse Beate. – Un ictus. Può succedere, credo.

– Ma si era risvegliato dal coma, – obiettò Bjørn Holm.

– Come può capitare a chiunque di noi in qualsiasi momento, – disse Beate con voce monotona.

– Grazie tante, – disse Hagen con una smorfia. – E ora che abbiamo finito con il morto, propongo di guardare avanti.

– La capacità di elaborare rapidamente un trauma è indice di scarsa intelligenza –. Aune bevette un sorso dal bicchiere. – Tanto per dire.

Hagen soffermò lo sguardo sullo psicologo per un attimo prima di continuare: – Mi fa piacere che ci siamo riuniti qui e non in centrale.

– Già, perché siamo qui? – domandò Bjørn Holm.

– Per parlare del caso dei poliziotti uccisi –. Hagen si girò. – Katrine?

Katrine Bratt annuí. Si schiarí la voce.

– Breve riassunto per aggiornare lo psicologo, – disse. – Due poliziotti sono stati assassinati. Entrambi nello stesso luogo di un omicidio irrisolto di cui si erano occupati come membri della squadra investigativa. Per gli omicidi dei poliziotti, finora non abbiamo né piste, né sospettati, né indizi riguardo al movente. Quanto agli omicidi originali, siamo arrivati alla conclusione che fossero a sfondo sessuale. C’erano, sí, delle tracce, ma nessuna che indicasse qualche sospettato in particolare. O meglio, alcuni furono interrogati, ma poi furono scagionati, o perché avevano un alibi oppure perché non corrispondevano al profilo. Adesso, però, la candidatura di uno è stata rinnovata…

Tirò fuori una cosa dalla borsa per farla vedere a tutti. Era la foto di un uomo a torso nudo. La data e il numero rivelava che era una foto segnaletica, scattata dalla polizia al momento dell’arresto.

– È Valentin Gjertsen. Reati sessuali. Uomini, donne e bambini. Denunciato per la prima volta a sedici anni, aveva molestato una bambina di nove anni che era riuscito a far salire su una barca a remi. Un anno dopo la vicina di casa lo denunciò per tentato stupro nella lavanderia dello scantinato.

– E che cosa lo collega a Maridalen e a Tryvann? – domandò Bjørn Holm.

– Per il momento solo il fatto che corrisponde al profilo, e poi la donna che gli aveva fornito gli alibi per gli omicidi ci ha appena rivelato che erano falsi. Ha ubbidito ai suoi ordini.

– Valentin le aveva detto che la polizia stava cercando di farlo condannare anche se era innocente, – spiegò Beate Lønn.

– A-ha, – disse Hagen. – Questo potrebbe generare odio verso i poliziotti. Tu che ne dici, dottore? Non ti sembra verosimile?

Aune valutò l’idea schioccando le labbra. – Certamente. Ma la regola generale cui mi attengo riguardo alla psiche umana è che qualsiasi cosa verosimile è possibile. Piú parecchie altre inverosimili.

– Mentre Valentin Gjertsen scontava una condanna per abuso di minore, ha violentato e ferito una dentista a Ila. Temendo una vendetta decise di evadere. Fuggire da Ila non è difficile, ma Valentin voleva far credere di essere morto perché nessuno gli desse la caccia. Perciò uccise un compagno di detenzione, Judas Johansen, lo picchiò fino a renderlo irriconoscibile e nascose il suo cadavere, e quando Judas non si presentò alla conta lo dichiararono evaso. Allora Valentin costrinse con le minacce il tatuatore del carcere a tatuare il suo volto di demone sull’unica parte in cui Judas non era ridotto in poltiglia, cioè sul petto. Promise al tatuatore e ai suoi parenti una morte prematura se ne avesse mai fatto parola con qualcuno. Poi, la notte in cui evase, infilò i suoi vestiti al cadavere di Judas Johansen, lo adagiò sul pavimento della cella e lasciò la porta aperta perché pensassero che sarebbe potuto entrare chiunque. Quando l’indomani mattina trovarono il cadavere di quello che credevano fosse Valentin, nessuno si sorprese piú di tanto. Si trattava dell’omicidio praticamente annunciato del detenuto piú odiato del braccio. Era talmente ovvio che non pensarono neanche di controllare le impronte digitali del cadavere, né tantomeno di fare un test del Dna.

Intorno al tavolo calò il silenzio. Un altro cliente entrò, fece per sedersi al tavolo vicino, ma con uno sguardo Hagen lo indusse ad allontanarsi.

– Quindi, stai dicendo che Valentin è evaso ed è vivo e vegeto, – concluse Beate Lønn. – Che è responsabile sia dei primi omicidi sia di quelli dei poliziotti. Che il movente degli ultimi due è una vendetta nei confronti della polizia in generale. E che la realizza nei luoghi dove ha ucciso in precedenza. Ma che cosa vuole vendicare esattamente? Il fatto che la polizia fa il suo lavoro? In tal caso ben pochi di noi sarebbero ancora vivi.

– Non sono sicura che ce l’abbia con la polizia in generale, – disse Katrine. – L’agente di custodia mi ha riferito che a Ila si sono presentati due poliziotti per parlare con alcuni detenuti degli omicidi delle ragazzine a Maridalen e a Tryvann. Hanno parlato con assassini rispettabili, e avevano piú cose da dire che da chiedere. Hanno definito Valentin un… – Katrine prese lo slancio. – Chiava-bambini.

Vide trasalire tutti, perfino Beate Lønn. Era strano che una parola potesse avere un impatto ancora piú forte delle peggiori foto scattate sulla scena di un crimine.

– E se questa non è una condanna a morte bell’e buona, poco ci manca.

– E chi erano quei due poliziotti?

– La guardia carceraria con cui ho parlato non se lo ricordava, e non risultano da nessuna parte. Ma potete tirare a indovinare.

– Erlend Vennesla e Bertil Nilsen, – rispose Bjørn Holm.

– Comincia a prendere forma un’ipotesi, non vi pare? – disse Gunnar Hagen. – Quel Judas ha subito la stessa efferata violenza fisica dei poliziotti uccisi. Dottore?

– Sí, certo, – rispose Aune. – Gli assassini sono creature abitudinarie e si attengono a metodi omicidi collaudati. O allo stesso metodo per sfogare l’odio.

– Ma nel caso di Judas aveva uno scopo particolare, – intervenne Beate. – Dissimulare la fuga.

– Se è davvero andata cosí, – disse Bjørn Holm. – Il detenuto con cui ha parlato Katrine è tutto tranne che il testimone piú affidabile del mondo.

– Certo, – disse Katrine. – Però io gli credo.

– E perché?

Katrine fece un sorriso sghembo. – Come diceva sempre Harry? L’intuizione non è altro che la somma di tante cose piccolissime, ma assolutamente concrete, cui il cervello non è ancora riuscito a dare un nome.

– Ed esumare il cadavere e controllare? – propose Aune.

– Indovina.

– Cremato?

– La settimana prima Valentin aveva consegnato un testamento in cui c’era scritto che se fosse morto voleva essere cremato il prima possibile.

– E da allora nessuno ha avuto sue notizie, – disse Holm. – Finché non ha ucciso Vennesla e Nilsen.

– Sí, questa è l’ipotesi che Katrine mi ha tratteggiato, – disse Gunnar Hagen. – Al momento è debole e azzardata, per usare un eufemismo, ma intanto che la nostra squadra investigativa si affanna a raggiungere qualche risultato con altre ipotesi, ho deciso di dare un’opportunità a questa. Ecco perché vi ho riuniti qui oggi. Voglio che formiate una piccola unità speciale che segua questa e soltanto questa pista. Il resto lo dovrete lasciare alla squadra grande. Se accettate l’incarico, risponderete a me. E… – tossí, brevemente e forte, come un colpo di pistola, – soltanto a me.

– A-ha, – disse Beate. – Questo significa che…

– Sí, significa che lavorerete di nascosto.

– Di nascosto da chi? – domandò Bjørn Holm.

– Da tutti, – rispose Hagen. – Da tutti, tutti, tranne me.

Ståle Aune si schiarí la voce. – E da chi, in particolare?

Hagen si sfregò una piega di pelle sulla gola con il pollice e l’indice. Le sue palpebre erano mezze calate come quelle di una lucertola sotto un sole cocente.

– Bellman, – concluse Beate. – Il capo della polizia.

Hagen allargò le braccia. – Cerco soltanto risultati. Abbiamo avuto successo con una piccola squadra indipendente ai tempi in cui Harry era dei nostri. Ma il capo ha messo un freno a queste cose. Vuole squadre grandi. Può darsi che la nostra iniziativa sembri un po’ disperata, ma nella squadra grande le idee scarseggiano, e noi dobbiamo catturare il macellaio dei poliziotti. Altrimenti tutto andrà a rotoli. Se dovessimo arrivare a uno scontro con Bellman, ovviamente mi assumerò ogni responsabilità. In tal caso gli dirò di avervi tenuto nascosto che non lo avevo informato dell’esistenza di questa squadra. Ma ovviamente mi rendo conto della situazione in cui vi metto, perciò spetta a voi decidere se volete starci o no.

Katrine si colse a volgere lo sguardo – come gli altri – verso Beate Lønn. Sapevano che la decisione vera e propria spettava a lei. Se ci stava lei, ci stavano anche loro. Se avesse detto di no…

– Il volto di demone sul suo petto, – disse Beate. Aveva preso la fotografia dal tavolo e la stava studiando. – Sembra uno che vuole uscire. Uscire dal carcere. Uscire dal proprio corpo. O dal proprio cervello. Esattamente come l’Uomo di neve. Magari è uno di loro –. Levò lo sguardo. Fece un sorriso fugace. – Io ci sto.

Hagen guardò gli altri. Ricevette un cenno di conferma dopo l’altro.

– Bene, – disse. – Continuerò a dirigere la squadra investigativa ordinaria, mentre ufficialmente Katrine dirigerà questa. E poiché lei fa capo a Bergen e al distretto di Hordaland, tecnicamente non dovete rispondere al capo della polizia di Oslo.

– Lavoriamo per Bergen, – disse Beate. – Già, perché no? Un brindisi a Bergen, gente!

Levarono i bicchieri.

Quando si fermarono sul marciapiede davanti a Justisen, cadeva una pioggia leggera che sollevava l’odore di ghiaino, petrolio e asfalto.

– Voglio approfittare dell’occasione per ringraziarvi di avermi voluto di nuovo tra voi, – disse Ståle Aune abbottonandosi il cappotto Burberry.

– I vincibili alla riscossa, – sorrise Katrine.

– Sarà proprio come ai vecchi tempi, – disse Bjørn dandosi una pacca sullo stomaco, soddisfatto.

– Quasi, – lo corresse Beate. – Ne manca uno.

– Ehi! – esclamò Hagen. – Avevamo detto di non nominarlo. Non c’è piú. Punto e basta.

– Qualcosa di lui resterà sempre, Gunnar.

Hagen sospirò. Levò lo sguardo verso il cielo. Si strinse nelle spalle. – Forse. Al Rikshospital c’era un’allieva della Scuola di polizia che faceva i turni di guardia. Mi ha chiesto se sia mai successo che Harry Hole non abbia risolto un omicidio. Sulle prime ho pensato che fosse soltanto un po’ curiosa nei confronti di una persona che faceva parte della sua quotidianità. Le ho risposto che il caso Gusto Hanssen non è mai stato risolto. E oggi la mia segretaria mi ha detto di aver ricevuto una telefonata dalla Scuola di polizia con la richiesta di una copia della documentazione proprio di quel caso –. Hagen fece un sorriso mesto. – Forse, nonostante tutto, sta diventando davvero una leggenda.

– Harry non sarà mai dimenticato, – disse Bjørn Holm. – Insuperato, ineguagliato.

– Può darsi, – disse Beate. – Però qui ce ne sono quattro che ci si avvicinano parecchio. O no?

Si guardarono a vicenda. Annuirono. Si salutarono con brevi, vigorose strette di mano e si allontanarono in tre direzioni diverse.

Mikael Bellman scorse la sagoma sopra la tacca di mira della pistola. Socchiuse un occhio, tirò adagio il grilletto indietro mentre sentiva i battiti del proprio cuore. Lenti, ma pesanti, spingevano il sangue nei polpastrelli. La sagoma non si muoveva, era solo una sua impressione. Perché non stava fermo lui. Rilasciò il grilletto, trasse un respiro, si concentrò di nuovo. Riportò la tacca sotto la sagoma. Fece fuoco. Vide la sagoma sobbalzare. Sobbalzare nel modo giusto. Morta. Mikael Bellman sapeva di aver centrato la testa.

– Avvicina il cadavere, cosí potremo fargli l’autopsia, – gridò abbassando la Heckler & Koch, P30L. Si tolse le cuffie e gli occhiali di protezione. Udí il ronzio e il sibilo elettrico dei cavi e vide la sagoma veleggiare verso di loro, per poi fermarsi bruscamente a mezzo metro di distanza.

– Bene, – disse Truls Berntsen, tolse il dito dal pulsante e il ronzio cessò.

– Non c’è male, – disse Mikael e studiò il bersaglio di carta con i fori strappati nel mezzo busto e nella testa. Con un cenno del capo indicò la testa lacera del bersaglio nella linea di tiro accanto. – Ma peggio di te.

– Sufficiente per superare il test. Ho saputo che quest’anno c’è stato il dieci virgola due per cento di bocciati –. Truls cambiò il proprio bersaglio con gesti esperti, premette il pulsante e la sagoma nuova indietreggiò sibilando. Si fermò a venti metri di distanza contro la lastra di metallo chiazzata di verde. Qualche postazione piú in là sulla sinistra Mikael udí un’acuta risata femminile. Vide due ragazze accostare i visi e guardare verso di loro. Sicuramente allieve della Scuola di polizia che lo avevano riconosciuto. Là dentro ogni rumore aveva la sua frequenza particolare, tanto che al di sotto delle detonazioni Mikael riusciva a distinguere lo schiocco contro la carta e lo schianto del piombo che colpiva la lastra di metallo. Seguiti dal debole clic quando la pallottola schiacciata cadeva nella cassa sotto il bersaglio.

– In pratica, oltre il dieci per cento del corpo di polizia non è in grado di difendere sé stesso e gli altri. Qual è il commento del capo?

– Non tutti i poliziotti hanno la possibilità di esercitarsi nel tiro tanto quanto te, Truls.

– Non hanno tanto tempo libero, vuoi dire?

Truls scoppiò in quell’irritante, caratteristica risata-grugnito mentre Mikael contemplava il suo subordinato e amico d’infanzia. I denti affastellati che i genitori non si erano presi la briga di far raddrizzare, le gengive rosse. Tutto sembrava immutato, però c’era qualcosa di diverso. Forse erano solo i capelli tagliati da poco. O era la sospensione? Spesso certe cose segnavano le persone che non reputavi tanto sensibili. Forse soprattutto quelle, quelle che non erano abituate a sbandierare in continuazione i propri sentimenti, che se li tenevano per sé sperando che con il tempo ne sarebbero venute fuori. Erano le persone che potevano esplodere. Ficcarsi una pallottola nella tempia.

Ma Truls aveva un’aria soddisfatta. Rideva in continuazione. Una volta, in gioventú, Mikael gli aveva spiegato che quella risata innervosiva la gente. Che la doveva cambiare. Esercitarsi in una risata piú normale, piú simpatica. Allora Truls non aveva fatto altro che ridere ancora piú forte. E additato Mikael. Gli aveva puntato contro un dito senza dire una parola, limitandosi a insistere con quella risata sinistra e sbuffante.

– Allora, non me lo chiedi? – domandò Truls mentre infilava le cartucce nel caricatore della sua pistola.

– Cosa?

– Dei soldi sul mio conto.

Mikael spostò il peso del corpo sull’altro piede. – È per questo che mi hai invitato qui? Perché te lo chiedessi?

– Non vuoi sapere come hanno fatto i soldi a finire lí?

– Perché dovrei insistere su questo argomento adesso?

– Sei il capo della polizia.

– E tu hai deciso di non parlare. Secondo me è una decisione sciocca, ma la rispetto.

– Ah sí? – Truls inserí il caricatore con uno scatto. – Oppure non insisti perché sai già da dove vengono, Mikael?

Mikael Bellman guardò il suo amico d’infanzia. E a quel punto lo notò. Notò cosa c’era di diverso. Quella luce folle. Quella di quando era giovane, quella che gli veniva quando era in collera, quando a Manglerud i ragazzi piú grandi volevano suonarle al belloccio spaccone che si era accaparrato Ulla, e Mikael doveva farsi scudo con Truls. Aizzare la iena contro di loro. La iena rognosa e strapazzata che già aveva incassato tante di quelle botte. Talmente tante che una scarica in piú o in meno non faceva differenza. Ma come avevano imparato col tempo, erano lezioni che facevano male, troppo male perché ne valesse la pena. Perché quando Truls aveva quella luce negli occhi, quel guizzo da iena, significava che era pronto a morire, che se fosse riuscito ad azzannarti non avrebbe piú mollato la presa. Avrebbe serrato le mascelle rimanendo attaccato finché non ti fossi inginocchiato o ti avessero tagliato via la carne che aveva addentato. Ma in seguito Mikael aveva visto quella luce di rado. Ovviamente, c’era stata la volta in cui avevano dato una lezione a quel gay nei garage. E, di recente, quando gli aveva comunicato che era stato sospeso. Ma la differenza era che adesso non andava piú via. C’era sempre, come se Truls avesse la febbre.

Mikael scosse la testa adagio, quasi incredulo. – E ora di cosa parli, Truls?

– Forse quei soldi venivano indirettamente da te. Forse sei sempre stato tu a pagarmi. Forse sei stato tu a portare Asajev da me.

– Penso proprio che tu abbia aspirato troppo fumo di polvere da sparo, Truls. Non ho mai avuto niente a che fare con Asajev.

– Forse dovremmo chiederlo a lui?

– Rudolf Asajev è morto, Truls.

– Comodo, non è vero? Tutti quelli che avrebbero potuto raccontare qualcosa, guarda caso sono crepati.

«Tutti, – pensò Mikael Bellman. – Tranne te».

– Tranne me, – aggiunse Truls con un ghigno.

– Devo scappare, – disse Mikael, tirò giú il suo bersaglio e lo ripiegò.

– Giusto, – disse Truls. – L’appuntamento del mercoledí.

Mikael si irrigidí. – Come?

– Ricordo semplicemente che il mercoledí a quest’ora devi sempre lasciare l’ufficio.

Mikael lo scrutò. La cosa strana era che, anche se conosceva Truls Berntsen da vent’anni, non sapeva fino a che punto fosse stupido oppure intelligente. – Esatto. Ma permettimi di dirti che secondo me ti conviene tenere per te queste riflessioni. Cosí come stanno le cose potrebbero soltanto danneggiarti, Truls. E forse è meglio che tu non mi racconti troppo. Potresti mettermi in difficoltà se dovessero convocarmi come testimone. Capisci?

Ma Truls si era già coperto le orecchie con le cuffie e si girò verso il bersaglio. Gli occhi sgranati dietro le lenti. Un lampo. Due. Tre. La pistola sembrava tentare di divincolarsi, ma la presa di Truls era troppo forte. Una presa da iena.

Fuori nel parcheggio Mikael sentí il telefonino vibrare nella tasca dei pantaloni.

Era Ulla.

– Hai parlato con quelli della disinfestazione?

– Sí, – rispose lui. Non ci aveva neanche pensato, né tantomeno aveva parlato con qualcuno.

– Cosa hanno detto?

– Hanno detto che il cattivo odore che sembra salire dalla terrazza potrebbe essere un topo o un ratto morto che è rimasto imprigionato da qualche parte là sotto. Ma dato che il fondo è di cemento, l’unica cosa che può succedere è che si decomponga e allora il fetore sparirà da sé. Ci hanno sconsigliato di smantellarla. Okay?

– Avresti dovuto incaricare una ditta di fare quella gettata, invece di Truls.

– Lo ha fatto nel cuore della notte senza che glielo avessi chiesto, ti ho detto. Dove sei, amore?

– Mi devo vedere con un’amica. Vieni a casa per cena?

– Sí, certo. E non pensare alla terrazza. D’accordo, amore?

– D’accordo.

Riagganciò. Pensò che aveva detto «amore» due volte, una di troppo. Che cosí aveva dato l’impressione di mentire. Mise in moto l’auto, diede gas, lasciò la frizione e sentí la piacevole pressione del poggiatesta contro la nuca quando l’Audi nuova di zecca accelerò nel parcheggio deserto. Pensò a Isabelle. Controllò. Sentiva già l’afflusso di sangue. E lo strano paradosso era che non aveva mentito. Che il suo amore per Ulla non gli sembrava mai cosí tangibile come quando stava per scoparsi un’altra.

Anton Mittet sedeva in terrazza. Aveva gli occhi chiusi e sentiva il sole scaldargli appena appena il viso. La primavera ce la metteva tutta, ma per il momento vinceva l’inverno. Poi riaprí gli occhi, e il suo sguardo si posò di nuovo sulla lettera che aveva davanti sul tavolo.

Il logo del poliambulatorio di Drammen era stampato in blu.

Sapeva cos’era: la risposta dell’analisi del sangue. Fece per aprirla ma rimandò ancora, levò lo sguardo e scrutò il fiume. Quando avevano visto il dépliant degli appartamenti nuovi di Elveparken, a ovest di Åssiden, non avevano avuto dubbi. I ragazzi se ne erano andati di casa e con gli anni era diventato piú difficile domare il giardino indisciplinato e prendersi cura della vecchia casa di Konnerud, in legno e troppo grande, che avevano ereditato dai genitori di Laura. Vendendo tutta la baracca e comprando un appartamento moderno che non richiedeva molti lavori di manutenzione, avrebbero avuto piú tempo e soldi per fare ciò di cui parlavano da anni: viaggiare insieme. Visitare paesi lontani. Vedere le cose che nonostante tutto la breve vita su questa Terra ha da offrire.

E allora perché non avevano viaggiato? Perché aveva rimandato anche quello?

Anton raddrizzò gli occhiali da sole, scansò la lettera. Tirò fuori il cellulare dall’ampia tasca dei pantaloni.

Era per colpa dei giorni feriali che si succedevano frenetici all’infinito? O della vista sul Drammenselva che aveva il potere benedetto di calmarlo? O dell’idea di dover trascorrere tanto tempo insieme, la preoccupazione di ciò che avrebbe potuto rivelare su entrambi, sul loro matrimonio? O del Caso, la caduta che lo aveva svuotato dell’energia, dello spirito d’iniziativa, parcheggiato in un’esistenza dove il tran tran quotidiano sembrava l’unica salvezza dal crollo totale? Poi era capitata Mona…

Anton abbassò lo sguardo sul display. «Gamlem contatto Rikshospital».

Sotto c’erano tre scelte. Chiama. Invia sms. Modifica.

Modifica. Anche la vita avrebbe dovuto avere quel tasto, eh sí. Quanto avrebbe potuto essere diverso tutto quanto. Lui avrebbe fatto rapporto su quel manganello. Non avrebbe invitato Mona a prendere quel caffè. Non si sarebbe addormentato.

Invece, si era addormentato.

Si era addormentato durante il turno di guardia, su una sedia di legno dura. Lui che aveva difficoltà a prendere sonno perfino nel suo letto dopo una giornata lunga. C’era da non crederci. E per giunta dopo era rimasto a lungo mezzo addormentato, neanche il viso del morto e il trambusto scoppiato di conseguenza erano riusciti a svegliarlo, anzi, era stato là come uno zombi con il cervello annebbiato, incapace di fare qualsiasi cosa, perfino di rispondere con chiarezza alle domande. Con ogni probabilità non avrebbe potuto salvare il paziente se fosse stato sveglio. L’autopsia aveva solo rivelato che forse il paziente era morto in seguito a un infarto cerebrale. Però Anton non aveva fatto il suo dovere. Nessuno avrebbe mai scoperto niente, lui aveva tenuto la bocca cucita. Ma in cuor suo lo sapeva. Sapeva di aver fallito ancora una volta.

Anton Mittet abbassò lo sguardo sui tasti.

Chiama. Invia sms. Modifica.

Era l’ora. L’ora di fare qualcosa. Fare qualcosa di giusto. Farlo e basta, senza rimandare.

Pigiò il tasto «Modifica». Apparvero altre alternative.

Scelse. Scelse quella giusta. «Cancella».

Poi prese la lettera, l’aprí. Tirò fuori il foglio e lo lesse. Era andato al poliambulatorio la mattina presto del giorno dopo la morte del paziente. Aveva spiegato che era un poliziotto e che stava per montare di servizio, che aveva ingerito una pillola di cui ignorava la composizione, si sentiva strano e aveva paura di presentarsi al lavoro in stato d’ebbrezza. Sulle prime il medico avrebbe semplicemente voluto metterlo in malattia, ma Anton aveva insistito per fare le analisi del sangue.

I suoi occhi scorsero il foglio. Non capiva tutte le parole e i nomi o il significato dei valori, ma il medico aveva aggiunto due frasi esplicative a conclusione della lettera:

«… il Nitrazepam è un componente dei sonniferi potenti. non devi assolutamente prendere altre di queste pillole senza aver prima consultato un medico».

Anton chiuse gli occhi e inspirò serrando i denti.

Maledizione.

Aveva visto giusto. Era stato narcotizzato. Qualcuno lo aveva narcotizzato. E intuiva anche come. Il caffè. Il rumore in fondo al corridoio. Il tubo in cui era rimasta una sola capsula. Si era chiesto se il coperchio fosse stato perforato. Probabilmente avevano iniettato la sostanza nel caffè bucando il coperchio con una siringa. E poi avevano dovuto soltanto aspettare che Anton andasse a prepararsi da sé la sua bevanda soporifera: un espresso corretto al Nitrazepam.

Avevano detto che il paziente era deceduto per cause naturali. O, piú esattamente, che non avevano motivo di ritenere che ci fosse di mezzo un atto criminoso. Ma naturalmente quella conclusione si basava sul fatto che avevano creduto alla sua dichiarazione, ossia che nessuno era entrato dal paziente dopo l’ultima visita medica, avvenuta due ore prima che il suo cuore si fermasse.

Anton sapeva cosa doveva fare. Doveva fare rapporto. Subito. Prese il cellulare. Comunicare un’altra cantonata. Spiegare perché non aveva detto subito di essersi addormentato. Guardò il display. Questa volta neanche Gunnar Hagen sarebbe riuscito a salvarlo. Posò il cellulare. Doveva telefonare. Non adesso, però.

Mikael Bellman si annodò la cravatta davanti allo specchio.

– Sei stato grande oggi, – disse la voce dal letto.

Mikael sapeva che era vero. Vide Isabelle Skøyen alzarsi alle sue spalle, infilarsi le calze. – È perché lui è morto?

Isabelle lanciò il copriletto di renna sul piumino. Sopra lo specchio campeggiava un imponente palco di corna e le pareti erano ornate da quadri di artiste sami. Tutte le stanze di quell’ala dell’albergo erano arredate da artiste e portavano il loro nome. Quella camera in particolare era stata affidata a una cantante di joik. L’arredamento aveva creato un unico problema: un gruppo di turisti giapponesi si era introdotto nella stanza e aveva rubato i palchi di cervo. A quanto sembrava credevano fermamente nell’effetto afrodisiaco dell’estratto di corno. Mikael ci aveva fatto un pensierino le ultime due o tre volte. Ma non oggi. Forse aveva ragione lei, forse era sollevato perché finalmente il paziente era morto.

– Non voglio sapere com’è successo, – disse.

– Tanto non te lo avrei saputo dire, – ribatté lei infilandosi la gonna.

– Non parliamone e basta.

In piedi alle sue spalle, gli diede un morso sul collo.

– Non fare quella faccia preoccupata, – ridacchiò. – La vita è un gioco.

– Per te, forse. Io sono ancora alle prese con quei maledetti omicidi dei poliziotti.

– Tu non devi essere rieletto. Io invece sí. Ma ti sembro forse preoccupata?

Mikael sorrise quando lei gli diede un buffetto sulla nuca. Udí le sue scarpe ticchettare in direzione della porta.

– Forse avrò un problema mercoledí prossimo, – aggiunse Isabelle. – La riunione della giunta comunale è stata spostata.

– Perfetto, – disse lui pensando che lo era davvero: perfetto. Anzi, di piú, si sentiva sollevato. Sí, lo doveva ammettere.

Lei si fermò dietro la porta. Come al solito si mise in ascolto per accertarsi che in corridoio la via fosse libera. – Mi ami?

Mikael aprí la bocca. Si guardò allo specchio. Vide il buco nero al centro del suo viso da cui non usciva il minimo suono. Udí la risata sommessa di Isabelle.

– Scherzavo, – bisbigliò lei. – Ti sei spaventato? Dieci minuti.

La porta si aprí e si richiuse piano alle sue spalle.

Avevano concordato di lasciare la camera a dieci minuti di distanza l’uno dall’altra. Mikael non ricordava piú di chi fosse stata l’idea. Forse all’epoca pensavano che ci fosse sempre il rischio di incontrare un giornalista curioso o qualche altra faccia conosciuta alla reception, ma finora non era mai successo.

Mikael tirò fuori il pettine e se lo passò tra i capelli un po’ troppo lunghi. Le punte erano ancora bagnate dopo la doccia. Isabelle non si lavava mai dopo che avevano fatto l’amore, diceva che le piaceva avere addosso il suo odore. Guardò l’orologio. Quel giorno era andata bene, lui non aveva dovuto pensare a Gusto e per giunta era durato di piú. Tanto che se avesse aspettato dieci minuti pieni, avrebbe fatto tardi all’appuntamento con il presidente della giunta comunale.

Ulla Bellman consultò l’orologio. Era un Movado, un modello del 1947 che Mikael le aveva regalato per l’anniversario di nozze. L’una e venti. Si appoggiò di nuovo allo schienale della poltrona e vagò con lo sguardo nella hall. Si domandò se lo avrebbe riconosciuto, in realtà si erano incontrati appena due volte. La prima lui le aveva tenuto la porta quando era passata da Mikael alla stazione di polizia di Stovner, e si era presentato. Un settentrionale affascinante e sorridente. La seconda, alla cena prenatalizia, sempre alla stazione di polizia di Stovner, avevano ballato insieme, e forse lui l’aveva stretta un po’ troppo. Non che le dispiacesse, era un flirt innocente, una conferma che lei si poteva concedere, in fondo Mikael era da qualche parte nella stessa sala, e le mogli degli altri poliziotti non ballavano soltanto con i mariti. E infatti era stato un altro, e non Mikael, a seguirli con sguardo attento. Era in piedi ai margini della pista da ballo con un drink in mano. Truls Berntsen. Dopo Ulla aveva chiesto a Truls se voleva ballare, ma lui le aveva risposto di no con un ghigno. Non era capace.

Runar. Aveva completamente dimenticato come si chiamasse. Del resto non lo aveva piú né sentito nominare né visto. Fino al giorno in cui le aveva telefonato chiedendole se potevano vedersi oggi. Le aveva rammentato che si chiamava Runar. Dapprima lei gli aveva risposto di no, adducendo che non aveva tempo, ma lui le aveva spiegato che le doveva parlare di una cosa importante. Ulla gli aveva detto che poteva farlo al telefono, ma Runar aveva insistito, perché doveva mostrarle una cosa. La sua voce era stranamente distorta, lei la ricordava diversa, ma forse era soltanto perché la sua pronuncia affettata oscillava tra il vecchio dialetto del Nordland e quello dell’Østland, succedeva spesso alle persone delle province dopo un po’ che vivevano a Oslo.

Infine aveva accettato, un caffè veloce era perfetto, doveva comunque andare in centro quella mattina. Era una bugia. Come la risposta data a Mikael che le chiedeva dove fosse, e lei gli aveva detto che stava andando a un appuntamento con un’amica. Non aveva avuto intenzione di mentire, solo che la domanda era arrivata a bruciapelo, e in quello stesso momento si era resa conto di aver sbagliato a non dirgli subito che si sarebbe vista con un suo ex collega per un caffè. Perché non lo aveva fatto? Perché da qualche parte nel suo intimo aveva il sospetto che quello che doveva vedere riguardasse Mikael? Si era già pentita di essere venuta all’appuntamento. Guardò di nuovo l’ora.

Si era accorta che la receptionist le aveva lanciato un paio di occhiate. Si era tolta il cappotto, sotto indossava una maglia e un paio di pantaloni che, sapeva, mettevano in evidenza la sua figura snella. Non andava in centro spesso, e aveva dedicato un po’ di tempo in piú al trucco e ai lunghi capelli biondi, che avevano spinto un gruppo di ragazzi di Manglerud a superarla per vedere se il davanti manteneva quel che prometteva il dietro. E dai loro sguardi aveva capito che una volta tanto lo faceva. Il padre di Mikael le aveva detto che somigliava alla bella di The Mamas & the Papas, ma lei non sapeva chi fosse né aveva mai cercato di scoprirlo.

Lanciò un’occhiata verso la porta girevole. Entrava gente in continuazione, ma nessuno con lo sguardo scrutatore che si aspettava.

Udí il ding sommesso delle porte dell’ascensore e vide uscire una donna alta impellicciata. Pensò che se un giornalista le avesse chiesto se la pelliccia era vera, probabilmente avrebbe risposto di no poiché i politici del Partito laburista preferivano lisciare la maggioranza degli elettori per il verso del pelo. Isabelle Skøyen. L’assessore alle Politiche sociali. Era stata alla festa che avevano dato dopo la nomina di Mikael. In realtà era la festa di inaugurazione della casa nuova, ma invece degli amici in pratica Mikael aveva invitato le persone che erano importanti per la sua carriera. O la «loro» carriera, come diceva lui. Truls Berntsen era uno dei pochi presenti che lei conoscesse, e non era esattamente il genere di persona con cui si chiacchiera per tutta una serata. Non che ne avesse avuto il tempo, occupata com’era stata a fare gli onori di casa.

Isabelle Skøyen le lanciò un’occhiata e fece per proseguire. Ma Ulla aveva notato quella piccola esitazione. La piccola esitazione che significava che l’aveva riconosciuta e si trovava davanti alla scelta tra fingere di non averlo fatto e avvicinarsi per scambiare qualche parola con lei. E avrebbe preferito evitare la seconda possibilità. Anche a Ulla capitava di sentirsi cosí. Per esempio, proprio con Truls. Certo, in qualche modo gli voleva bene, erano cresciuti insieme e lui era gentile e leale. Però. Sperava che Isabelle scegliesse la seconda possibilità rendendo le cose piú facili a entrambe. E, con suo sollievo, la vide precipitarsi verso le porte girevoli. Ma poi evidentemente ci ripensò, fece dietro front, già tutta un sorriso e con gli occhi che le brillavano. Le venne incontro veleggiando, sí, proprio veleggiando: il modo in cui Isabelle Skøyen le correva incontro le fece venire in mente una polena di dimensioni enormi e dalle fattezze drammatiche.

– Ulla! – gridò quando era ancora a parecchi metri di distanza, come se si trattasse del ricongiungimento di due amiche per la pelle che non si vedevano da molto tempo.

Lei si alzò, già un po’ imbarazzata all’idea di dover rispondere all’imminente, inevitabile domanda: «Che ci fai qui?»

– Cara, che piacere, davvero un piccolo, delizioso party quello che hai dato!

Isabelle Skøyen le posò una mano sulla spalla e sporse il viso in avanti perché Ulla accostasse una guancia alla sua. Piccolo party? Ma se c’erano trentadue invitati.

– Mi spiace di essere dovuta andare via cosí presto.

Ulla ricordava che Isabelle era un po’ alticcia. Che mentre lei serviva gli ospiti, l’alto e vistoso assessore e Mikael erano spariti in terrazza. Che per un attimo era stata colta da una punta di gelosia.

– Figurati, la tua presenza è stata un onore per noi –. Ulla sperava che il suo sorriso non sembrasse forzato. – Isabelle.

L’assessore alle Politiche sociali la guardò. La scrutò. Come se cercasse qualcosa. La risposta alla domanda che ancora non aveva pronunciato: «Che ci fai qui, bella mia?»

Ulla decise di dirle la verità. Come l’avrebbe detta a Mikael piú tardi.

– Devo andare, – sospirò Isabelle senza accennare a muoversi né a staccarle gli occhi di dosso.

– Già, sarai senz’altro piú indaffarata di me, – commentò Ulla, e con irritazione si colse a fare quella sua risatina sciocca che aveva deciso di lasciare da parte. Isabelle continuava a fissarla, e all’improvviso Ulla pensò che era come se quell’estranea cercasse di costringerla a spiegarsi senza domandare: «Che ci fa qui, nella reception del Grand Hotel, la moglie del capo della polizia?» Sant’Iddio, credeva forse che avesse un appuntamento con un amante, era tanto discreta per questo? Sentí il sorriso allentarsi, diventare piú spontaneo: adesso sorrideva come al solito, come voleva sorridere. Si rendeva conto che il sorriso le era arrivato agli occhi. Ormai era quasi sul punto di ridere. Ridere in faccia a Isabelle Skøyen. Ma per quale motivo avrebbe dovuto farlo? La cosa strana era che anche Isabelle sembrava lí lí per scoppiare a ridere.

– Cara, spero di rivederti presto, – disse stringendo la mano di Ulla con le dita grandi e forti.

Poi si voltò e riattraversò spumeggiando la reception diretta all’ingresso, dove uno dei portieri già accorreva per assisterla nella sua uscita di scena. Ulla fece in tempo a vederla tirar fuori il cellulare e comporre un numero prima di essere inghiottita dalla porta girevole.

Mikael aspettava davanti all’ascensore a pochi, rapidi passi dalla stanza della donna sami. Guardò l’orologio. Erano trascorsi appena tre, quattro minuti, ma dovevano bastare: dopo tutto, l’importante era che non si facessero vedere insieme. Era sempre Isabelle a prendere la camera e ad arrivare dieci minuti prima di lui. Si faceva trovare pronta nel letto. Le piaceva cosí. A lui piaceva cosí?

Per fortuna erano solo tre minuti a piedi dal Grand al Municipio, dove era atteso dal presidente della giunta comunale.

Le porte dell’ascensore si spalancarono e Mikael entrò. Premette il pulsante contrassegnato dal numero uno. L’ascensore ripartí e si fermò quasi subito. Le porte si riaprirono.

– Guten Tag.

Turisti tedeschi. Una coppia anziana. Una vecchia macchina fotografica in una custodia di cuoio marrone. Mikael si rese conto di sorridere. Di essere di buonumore. Fece spazio. Isabelle aveva ragione: era piú allegro adesso che il paziente era morto. Sentí una goccia cadere dai capelli lunghi sulla pelle della nuca, la sentí colare, bagnare il colletto della camicia. Ulla gli aveva suggerito di tagliarli adesso che aveva una carica nuova, ma a che pro? Il suo aspetto da ragazzo non sottolineava forse il messaggio? Che lui – Mikael Bellman – era il piú giovane capo della polizia di tutti i tempi.

La coppia guardò un po’ preoccupata i bottoni dell’ascensore. Era il solito, vecchio problema: il numero uno indicava il piano al livello della strada oppure quello sopra? Com’era in Norvegia?

– È il piano terra, – disse Mikael in inglese, e premette il bottone che faceva chiudere le porte.

– Danke, – mormorò la donna. L’uomo aveva chiuso gli occhi e respirava rumorosamente. «Sottomarino», pensò Mikael.

S’inabissarono nell’edificio in silenzio.

Nello stesso istante in cui le porte si aprirono e i tre misero piede nella reception, una specie di tremito scosse la coscia di Mikael. La vibrazione del cellulare che captava di nuovo i segnali dopo il tragitto nell’ascensore senza campo. Lo tirò fuori e trovò una chiamata senza risposta di Isabelle. Stava per richiamarla quando il telefonino tremò di nuovo. Era un sms.

«Ho appena salutato tua moglie che è seduta alla reception :)».

Mikael si fermò di colpo. Levò lo sguardo. Ma era troppo tardi.

Ulla sedeva in una poltrona proprio di fronte a lui. Era bella. Aveva curato il suo aspetto piú del solito. Bella e impietrita nella poltrona.

– Ciao, cara, – sbottò lui, udendo subito la nota stonata nella propria voce. L’effetto lo vide nell’espressione di Ulla.

Lo stava fissando, mentre i resti della confusione cedevano rapidamente a qualcos’altro. Il cervello di Mikael Bellman lavorava. Riceveva e processava l’informazione, cercava i collegamenti, traeva le conclusioni. Sapeva che non era facile trovare un pretesto per le punte dei capelli bagnate. Che lei aveva visto Isabelle. Che proprio come il suo, anche il cervello di Ulla stava elaborando dati con velocità fulminea. Che il cervello umano è fatto cosí. Di una logica spietata quando mette insieme tutti i frammenti d’informazione che all’improvviso combaciano. La certezza. Lei abbassò lo sguardo, e quando Mikael le si piantò davanti gli fissò lo stomaco.

Lui quasi non riconobbe la voce della moglie quando gli sussurrò:

– A quanto pare hai ricevuto il suo sms troppo tardi.

Katrine girò la chiave nella serratura e tirò la porta a sé, ma era incastrata nel telaio.

Gunnar Hagen si fece avanti e l’aprí con uno strappo.

Un’umidità calda e stantia si infranse sui cinque.

– Ecco, – disse Gunnar Hagen. – È rimasta intatta dall’ultima volta che l’abbiamo usata.

Katrine entrò per prima, premette l’interruttore della luce. – Benvenuti nell’ufficio del distretto di Bergen a Oslo, – disse con voce monotona.

Beate Lønn varcò la soglia. – Sicché ci imboscherai qui.

La luce fredda e azzurra dei tubi fluorescenti ricadeva su una stanza quadrata di calcestruzzo dal pavimento rivestito di linoleum grigio azzurro e dalle pareti nude. Nell’ambiente senza finestre c’erano tre scrittoi con una sedia e un pc ciascuno. Su uno c’era una caffettiera bruciacchiata e una tanica d’acqua.

– Ci è stato assegnato un ufficio nello scantinato della centrale? – domandò incredulo Ståle Aune.

– In realtà tecnicamente vi trovate nella proprietà del carcere di Oslo, – spiegò Gunnar Hagen. – Il tunnel sotterraneo qua fuori passa sotto il parco. Se salite le scale di ferro vicino alla porta vi ritrovate nell’accettazione del carcere.

In risposta arrivarono le prime note della Rapsodia in blu di Gershwin. Hagen tirò fuori il cellulare. Katrine sbirciò da sopra la sua spalla. Vide brillare sul display il nome Anton Mittet. Hagen premette «Rifiuta» e rinfilò il telefonino in tasca.

– Adesso ho una riunione della squadra investigativa, perciò lascio il resto a voi, – disse.

Appena Hagen fu uscito gli altri rimasero impalati e si guardarono a vicenda.

– Che caldo qua dentro, – disse Katrine sbottonandosi la giacca. – Però non vedo stufe.

– È perché nel locale qui accanto ci sono le caldaie del riscaldamento centrale di tutto il carcere, – rispose ridendo Bjørn Holm appendendo la sua giacca con le frange allo schienale di una sedia. – La chiamavamo la «Fornace».

– Sei già stato qui? – Aune si allentò il papillon.

– Sí. All’epoca il gruppo era ancora piú piccolo –. Indicò gli scrittoi con un cenno della testa. – Tre, come potete vedere. Ma in effetti risolvemmo ugualmente il caso. Però il capo era Harry… – Lanciò un’occhiata a Katrine. – Oh, non intendevo…

– Non fa niente, Bjørn, – disse lei. – Io non sono Harry, e non sono neanche il capo di questo gruppo. Mi sta bene che ufficialmente rispondiate a me, di modo che Hagen possa lavarsene le mani. Ma a me basta e avanza dover organizzare me stessa. Il capo è Beate. Lei ha l’anzianità e l’esperienza per esserlo.

Gli altri guardarono Beate, che si strinse nelle spalle. – Se tutti lo vogliono, sono disposta a fare da capo nella misura in cui ce ne sarà bisogno.

– Ce ne sarà bisogno, eccome, – disse Katrine.

Aune e Bjørn annuirono.

– Bene, – disse Beate. – Cominciamo. C’è campo per i cellulari. Il collegamento a internet. Abbiamo… tazze da caffè –. Prese una tazza alta bianca da dietro la caffettiera. Lesse la scritta a pennarello. – Hank Williams?

– È la mia, – rispose Bjørn.

Beate ne prese un’altra. – John Fante?

– Era di Harry.

– Okay, iniziamo dai compiti, – disse Beate posando la tazza. – Katrine?

– Io tengo d’occhio la rete. Ancora nessun segno di vita né da parte di Valentin Gjertsen né di Judas Johansen. Ci vuole una certa astuzia per sfuggire fino a questo punto all’occhio elettronico, il che rafforza la teoria secondo cui a evadere non è stato Judas Johansen. Lui sa di non essere la priorità assoluta della polizia, e mi sembra inverosimile che limiterebbe la sua libertà nascondendosi completamente solo per evitare un paio di mesi di carcere. Ovviamente, Valentin ha ben altro da perdere. Comunque, se uno dei due è vivo e fa anche solo una mossa nel mondo digitale, gli sarò addosso.

– Bene. Bjørn?

– Sto esaminando i dossier di tutti i casi in cui sono stati coinvolti Valentin e Judas, nella speranza di trovare qualche collegamento a Tryvann o a Maridalen. Persone che ricorrono, reperti che abbiamo messo da parte. Sto redigendo un elenco di conoscenti che eventualmente potrebbero aiutarci a trovarli. Quelli con cui ho parlato finora sono disponibili riguardo a Judas Johansen. Quanto a Valentin Gjertsen, invece…

– Hanno paura?

Bjørn assentí.

– Ståle?

– Anch’io sto esaminando i casi di Valentin e di Judas, ma per tracciare un profilo di entrambi. Per redigere una valutazione come possibili assassini seriali.

All’improvviso sulla stanza calò il silenzio. Era la prima volta che qualcuno pronunciava quel termine.

– In questo caso assassino seriale non è che un termine tecnico, superficiale, non una diagnosi, – si affrettò ad aggiungere Ståle Aune. – Definisce una persona che ha ucciso piú di una volta e verosimilmente può farlo ancora. Va bene?

– Va bene, – rispose Beate. – Per quanto mi riguarda, esaminerò tutto il materiale disponibile delle videocamere di sorveglianza nei pressi delle scene del crimine. Stazioni di rifornimento, minimarket aperti ventiquattr’ore su ventiquattro, autovelox. Ho già visto parecchie riprese effettuate sul posto dove sono stati rinvenuti gli agenti uccisi, ma non tutte. E poi c’è da fare lo stesso lavoro per i primi delitti.

– Un lavorone, – disse Katrine.

– Un lavorone, – ripeté Beate.

I quattro indugiarono guardandosi. Beate prese la tazza con la scritta John Fante e la rimise dietro la caffettiera.

– E per il resto? – domandò Ulla e si appoggiò al piano di lavoro.

– Be’, – rispose Truls, dondolando la sedia e prendendo la tazza di caffè dallo stretto tavolo della cucina. Bevette un sorso. La fissava con quello sguardo che le era tanto familiare. Impaurito e avido. Timido e scrutatore. Distaccato e implorante. No e sí.

Si era pentita subito di averlo autorizzato a venirla a trovare. Ma lui l’aveva colta impreparata telefonandole di punto in bianco per chiederle della casa nuova, se c’era qualcosa da aggiustare. Adesso che era in quarantena le sue giornate erano lunghe e non aveva niente da fare. No, non c’era nulla da aggiustare, aveva mentito lei. No? E allora, che ne dici di un caffè? Mentre chiacchieriamo dei vecchi tempi? Ulla aveva risposto che non sapeva se… ma Truls aveva finto di non averla sentita, dicendole che stava arrivando, che gli andava un goccio di caffè. E lei aveva risposto: perché no? Passa pure.

– Come sai, sono ancora solo, – disse lui. – Niente di nuovo su questo fronte.

– Troverai qualcuna, vedrai. Sí, sí –. Ulla controllò ostentatamente l’orologio: aveva considerato l’idea di dire che doveva andare a prendere i ragazzi. Ma perfino uno scapolo come Truls avrebbe capito che era troppo presto.

– Chissà, – disse lui. Guardò dentro la tazza. E invece di posarla bevette un altro sorso. Quasi per prendere lo slancio, pensò lei preoccupata.

– Come sicuramente sai, tu mi sei sempre piaciuta, Ulla.

Ulla strinse il bordo del piano di lavoro.

– Perciò ricordati che se dovessi trovarti in difficoltà e avere bisogno… ehm, di qualcuno con cui parlare, puoi sempre contare su di me.

Ulla batté le palpebre. Aveva capito bene? Parlare?

– Ti ringrazio, Truls, – disse. – Ma ho Mikael.

Lui posò la tazza adagio. – Sí, certo. Hai Mikael.

– A proposito, devo cominciare a preparare la cena per lui e per i ragazzi.

– Già, capisco. Tu gli prepari la cena mentre lui… – si trattenne.

– Mentre lui cosa, Truls?

– Mangia da qualche altra parte.

– Senti, Truls, non riesco a seguirti.

– Io invece penso di sí. Ascolta, sono solo venuto per aiutarti. Voglio soltanto il tuo bene, Ulla. E quello dei ragazzi, naturalmente. I ragazzi sono importanti.

– Pensavo di preparare qualcosa di buono. E cucinare per una famiglia richiede tempo, Truls, quindi…

– Ulla, voglio dirti una cosa sola.

– No, Truls. Non dirlo, per favore.

– Mikael non ti merita. Sai quante altre donne…?

– Truls, no!

– Ma…

– Adesso voglio che tu te ne vada, Truls. E non farti rivedere qui per un bel po’.

Ulla indugiò accanto al piano di lavoro e vide Truls varcare il cancello e raggiungere l’auto parcheggiata accanto alla strada sterrata che si snodava tra le ville di recente costruzione di Høyenhall. Mikael aveva detto che avrebbe manovrato un po’, telefonato alle persone giuste al Comune per sollecitare che l’asfaltassero, ma finora non era successo niente. Udí un breve cinguettio quando Truls premette la chiave e disinnescò l’antifurto. Lo vide salire in macchina. Lo vide rimanere immobile con lo sguardo fisso davanti a sé. Poi fu come attraversato da una scossa e cominciò a picchiare. Picchiò cosí forte che il volante si abbassò sotto i colpi. Anche a distanza la sua furia era tale che Ulla rabbrividí. Mikael le aveva parlato dei suoi attacchi di ira, ma lei non lo aveva mai visto con i propri occhi. Se non fosse entrato in polizia, secondo Mikael sarebbe diventato un delinquente. E diceva lo stesso di sé quando si dava le arie da duro. Lei non gli credeva, Mikael era troppo perbene, troppo… adattabile. Truls, invece… Truls era fatto di un’altra pasta, piú cupa.

Truls Berntsen. Truls il semplice, l’ingenuo, il fedele. Ulla aveva avuto un sospetto, ovviamente, ma stentava a credere che potesse essere tanto astuto. Tanto… fantasioso.

Il Grand Hotel.

Erano stati i secondi piú dolorosi della sua vita.

Certo, di tanto in tanto le era passato per la mente che suo marito potesse tradirla. Soprattutto da quando aveva smesso di fare sesso con lei. Ma potevano esserci tante spiegazioni, lo stress per gli omicidi di quei poliziotti… Ma con Isabelle Skøyen? Perfettamente sobri, in un albergo in pieno giorno? E aveva anche capito che il loro smascheramento era stato preparato da qualcuno. Il fatto che qualcuno potesse sapere che i due si sarebbero trovati là esattamente a quell’ora, lasciava intendere che si trattasse di una routine. Le veniva da vomitare ogni volta che ci pensava.

Il viso di Mikael di colpo pallido davanti a lei. I suoi occhi impauriti, oppressi dal senso di colpa, come un ragazzino colto in flagrante a rubare le mele. Come ci riusciva? Come riusciva, quel porco perfido, a sembrare bisognoso di protezione? Lui che aveva calpestato tutto ciò che avevano di bello, un padre di tre figli, perché era lui ad avere l’aria di portare una croce?

«Torno a casa presto, – le aveva bisbigliato. – E ne parliamo. Prima che i bambini… Devo essere nell’ufficio del presidente della giunta fra quattro minuti». Aveva una lacrima nell’angolo dell’occhio? Si era permesso di versare una lacrima, quel mostro?

Appena andato via Mikael, lei si era fatta forza con una rapidità incredibile. Forse la gente reagisce cosí quando sa di non avere scelta. Quando non c’è un’alternativa, quando il crollo nervoso non è un’alternativa. Con calma assoluta aveva fatto il numero dal quale l’aveva chiamata l’uomo che sosteneva di essere Runar. Nessuna risposta. Aveva aspettato ancora cinque minuti, poi era andata via. Tornata a casa, aveva fatto controllare il numero di telefono a una donna della Kripos con cui aveva fatto amicizia. E l’agente le aveva detto che era un cellulare a scheda non registrato. La domanda era: chi si sarebbe dato tanto da fare per attirarla al Grandperché vedesse con i propri occhi? Un giornalista di qualche rotocalco? Un’amica piú o meno benintenzionata? Qualcuno dalla parte di Isabelle, un rivale di Mikael assetato di vendetta? Oppure qualcuno che non voleva dividerlo da Isabelle, ma da lei? Qualcuno che odiava Mikael o lei. Oppure che era innamorato di lei? Convinto di avere una chance se fosse riuscito a separarla da Mikael. Conosceva solo una persona che l’amava tanto da essere capace di fare del male a entrambi.

Non aveva menzionato i suoi sospetti a Mikael quando avevano parlato piú tardi quello stesso giorno. Probabilmente lui credeva che la sua presenza alla reception fosse casuale, uno di quei fulmini che si abbattono sulla vita di chiunque, l’improbabile concomitanza di eventi che qualcuno chiama destino.

Mikael non aveva provato a mentire sostenendo di non essere stato là con Isabelle. Questo glielo doveva concedere. Non era cosí stupido da non sapere che lei sapeva. Le aveva spiegato che non doveva chiedergli di troncare la relazione, che l’aveva interrotta di sua iniziativa prima che Isabelle lasciasse l’albergo. Aveva usato proprio quella parola: «relazione». Sicuramente era una scelta ponderata, la faceva sembrare cosí piccola, insignificante e sporca, una cosa che poteva essere spazzata via con un colpo di scopa. «Rapporto», invece, sarebbe stato tutt’un altro paio di maniche. Al dettaglio che lui l’avesse «interrotta» in albergo non credeva neanche un po’, Isabelle aveva un’aria troppo allegra. Ma le cose che Mikael aveva detto dopo erano vere. Che se quella storia si fosse venuta a sapere, lo scandalo non avrebbe danneggiato solo lui, ma anche i figli e, indirettamente, lei. Che per di piú sarebbe capitato proprio nel momento peggiore. Che il presidente della giunta aveva voluto parlare con lui di politica. Che intendevano farlo entrare nel partito. Che vedevano in lui un candidato valido per un futuro incarico politico. Che era proprio l’uomo giusto: giovane, ambizioso, popolare, brillante. Fino a quando non era scoppiato il caso dei poliziotti uccisi, ovviamente. Ma non appena lo avesse risolto, avrebbero dovuto incontrarsi per parlare del suo futuro, se sarebbe stato in polizia o in politica, in quale ambito Mikael pensava di poter rendere di piú. Lui non aveva ancora preso una decisione, ma era ovvio che uno scandalo per una storia di infedeltà adesso gli avrebbe chiuso quella porta.

E poi, naturalmente, c’erano lei e i bambini. Le ripercussioni sulla sua carriera erano irrilevanti in confronto alla prospettiva di perderli. Prima che l’autocommiserazione toccasse vette troppo sublimi Ulla lo aveva interrotto dicendo di aver riflettuto sulla faccenda, e di essere giunta a una conclusione analoga alla sua. La carriera. I figli. La vita in comune. Gli aveva detto d’emblée che lo perdonava, ma doveva prometterle di non avere mai piú contatti con Isabelle Skøyen. Tranne che nella sua veste di capo della polizia e in presenza di altre persone. Mikael aveva fatto un’espressione quasi delusa, come se si fosse preparato a una battaglia, e non a una fiacca scaramuccia che era sfociata in un ultimatum poco impegnativo per lui. A ogni modo, quella sera, dopo che i ragazzi erano andati a letto, per la prima volta dopo mesi lui aveva preso l’iniziativa per fare sesso.

Ulla vide Truls mettere in moto e partire. Non aveva detto a Mikael del suo sospetto né aveva intenzione di farlo. A che pro? Se era nel giusto, Truls avrebbe potuto continuare a essere la spia che lanciava l’allarme se il patto di non rivedere Isabelle Skøyen fosse stato infranto.

L’auto sparí e il silenzio della zona residenziale si posò insieme alla nuvola di polvere. E le balenò un’idea. Un’idea strampalata e inammissibile, certo, ma il cervello non è bravo ad autocensurarsi. Lei e Truls. Lí, nella camera da letto. Certo, sarebbe stata solo una vendetta. Scacciò quell’idea con la stessa rapidità con cui le era venuta.

La neve sciolta che prima colava come sputo grigio sul parabrezza aveva ceduto alla pioggia. Una pioggia pesante, verticale. I tergicristalli combattevano una lotta disperata contro il muro d’acqua. Anton Mittet guidava piano. Era buio pesto, e per giunta l’acqua annebbiava e distorceva ogni cosa, come se fosse ubriaco. Lanciò un’occhiata all’orologio della sua Volkswagen Sharan. Quando avevano comprato la macchina nuova tre anni prima, Laura aveva insistito per la sette posti, e per scherzo lui si era chiesto se intendesse mettere su una famiglia numerosa, ma sapeva che era perché in caso di incidente non voleva trovarsi a bordo di una microauto. Anche se conosceva bene quelle strade e sapeva che le probabilità di traffico in senso contrario erano minime a quell’ora, non voleva correre rischi.

La tempia gli pulsava forte. Soprattutto per via della telefonata che aveva ricevuto venti minuti prima. Ma anche perché quel giorno non aveva bevuto caffè. Dopo aver letto i risultati delle analisi, gli era passata la voglia. Un scemenza, certo. E adesso le sue vene assuefatte alla caffeina si erano ristrette fino a lasciargli un mal di testa sordo come una sgradevole, pulsante musica di sottofondo. Aveva letto che i sintomi dell’astinenza da caffeina scompaiono nel giro di due settimane. Ma Anton non voleva liberarsi da quella dipendenza. Voleva bere caffè. Voleva che avesse un buon sapore. Buono come il gusto di menta sulla lingua di Mona. Ma adesso quando lo beveva sentiva solo il retrogusto amaro dei sonniferi.

Si era fatto coraggio e aveva chiamato Gunnar Hagen per dirgli che era stato drogato durante il turno in cui il paziente era morto. Che dormiva mentre qualcuno era entrato nella stanza, che anche se i medici sostenevano che era morto per cause naturali, non poteva essere vero. Che dovevano fare un’altra autopsia piú approfondita. Lo aveva chiamato due volte. Senza ottenere risposta. Non aveva lasciato un messaggio sulla segreteria. Ci aveva provato. Davvero. E ci avrebbe riprovato. Perché la paghi sempre. Come ora. Era successo di nuovo. Qualcuno era stato ucciso. Frenò, svoltò imboccando la strada sterrata che portava a Eikersaga, accelerò di nuovo e sentí la ghiaia schioccare contro l’interno dei parafanghi.

Là il buio era ancora piú fitto, e l’acqua già riempiva gli avvallamenti della strada. Quasi mezzanotte. Era intorno a mezzanotte anche la prima volta. Poiché la località confinava con Nedre Eiker, era stato un agente della polizia rurale di quel comune ad arrivare per primo sulla scena del crimine dopo aver ricevuto una telefonata da qualcuno che aveva sentito fracasso lassú e sosteneva che ci fosse un’auto nel fiume. Non solo l’agente si era spinto nel territorio del comune sbagliato, aveva anche combinato un macello facendo avanti e indietro con la macchina distruggendo cosí eventuali tracce.

Anton superò la curva dove l’aveva trovato. Lo sfollagente. Era stato settantadue ore dopo l’omicidio di René Kalsnes, e finalmente lui era smontato di servizio ma, colto dall’inquietudine, aveva fatto una puntata nel bosco di sua iniziativa. In fondo, un omicidio non capitava tutti i giorni – né tutti gli anni – nel distretto di polizia di Søndre Buskerud. Si era tenuto all’esterno della zona che avevano già setacciato. E lo aveva trovato là, sotto gli abeti all’interno della curva. E là Anton aveva preso la decisione, quella decisione stupida che aveva mandato tutto a rotoli. Aveva deciso di non fare rapporto. Perché? Innanzitutto perché la scena del crimine di Eikersaga era cosí lontana che difficilmente il manganello poteva avere a che fare con l’omicidio. In seguito gli era stato chiesto perché avesse perlustrato quella zona se era davvero convinto che fosse troppo lontana. Ma su due piedi aveva semplicemente pensato che uno sfollagente d’ordinanza non avrebbe fatto altro che attirare un’inutile attenzione negativa sulla polizia. Le lesioni da corpo contundente di René Kalsnes potevano essere state provocate da qualsiasi attrezzo pesante, oppure dallo sballottamento nell’abitacolo quando era precipitato nel fiume da un’altezza di quaranta metri. E comunque non era l’arma del delitto: a René Kalsnes avevano sparato in faccia con una pistola, calibro nove millimetri, fine della storia.

Ma un paio di settimane dopo Anton aveva raccontato dello sfollagente a Laura. E alla fine era stata lei a convincerlo a riferire l’accaduto, che non spettava a lui stabilire l’importanza di quella scoperta. E cosí lo aveva fatto. Era andato dal suo capo e gli aveva raccontato come stavano le cose. «Un grave errore di giudizio», lo aveva definito il comandante. E come ringraziamento per aver dedicato una giornata libera a cercare di rendersi utile in un caso di omicidio lo avevano sollevato dai servizi esterni relegandolo in un ufficio a rispondere al telefono. In un colpo solo aveva perso tutto. Per che cosa, poi? Nessuno lo diceva a voce alta, ma René Kalsnes aveva fama di essere stato una carogna fredda e priva di scrupoli che imbrogliava amici ed estranei, e secondo i piú era un bene che il mondo si fosse liberato di una persona simile. Eppure, la cosa piú vergognosa era che la Scientifica non aveva trovato nessuna prova che collegasse il manganello all’omicidio. Dopo tre mesi nell’ufficio-prigione Anton aveva scelto tra impazzire, licenziarsi o farsi trasferire. Perciò aveva telefonato al suo collega e amico di vecchia data Gunnar Hagen, che gli aveva procurato il posto nella polizia di Oslo. Quello che Gunnar gli aveva potuto offrire era sicuramente un passo indietro dal punto di vista della carriera, ma se non altro Anton poteva di nuovo circolare tra uomini e ladri nella capitale, e qualunque cosa era meglio dell’aria stantia di Drammen, dove cercavano di imitare Oslo, chiamavano quel buco di stazione «centrale di polizia» e per giunta l’indirizzo, Grønland 36, sembrava un plagio di Grønlandsleiret, la sede di Oslo.

Anton era arrivato in cima alla salita, e appena scorse la luce abbassò automaticamente il piede destro sul pedale del freno. Gli pneumatici stridettero sulla ghiaia. Poi l’auto si fermò. La pioggia martellava contro la carrozzeria fin quasi a coprire il ronzio del motore. La torcia venti metri piú avanti fu abbassata. I fari colsero i riflessi del nastro segnaletico arancione e bianco e il gilè giallo catarifrangente della polizia indossato dall’uomo con la torcia. Gli fece segno di avvicinarsi, e Anton avanzò. La macchina di René era uscita di strada proprio là, dietro la recinzione. Avevano usato l’autogru e il cavo di acciaio per trainarne la carcassa lungo il fiume fino alla segheria dismessa dove l’avevano tirata in secco. Avevano estratto il cadavere di René Kalsnes centimetro dopo centimetro perché il blocco motore era entrato nell’abitacolo all’altezza delle sue anche.

Anton premette il pulsante sullo sportello per abbassare il finestrino. Fresca, umida aria notturna. Grosse, pesanti gocce di pioggia colpirono il bordo del vetro e uno spruzzo fine gli bagnò il collo.

– Allora? – chiese. – Dove…

Anton batté le palpebre. Non era sicuro di aver completato la frase. Aveva l’impressione che ci fosse stato un piccolissimo scarto temporale, un taglio malfatto nella pellicola di un film, non sapeva cosa fosse successo, solo che aveva perso conoscenza. Si guardò il grembo: era pieno di vetri. Alzò di nuovo gli occhi e vide che la parte superiore del finestrino laterale era rotta. Aprí la bocca, fece per domandare che cosa stesse succedendo. Udí un sibilo nell’aria, ne intuí l’origine, pensò di alzare il braccio ma fu troppo lento. Udí uno scricchiolio. Capí che proveniva dalla sua testa, che qualcosa si stava rompendo. Alzò il braccio, urlò. Riuscí a portare la mano sul cambio per innestare la retromarcia. Ma era come se gli resistesse, tutto succedeva con estrema lentezza. Voleva lasciare la frizione, accelerare, ma cosí l’auto sarebbe avanzata. Verso l’orlo. Verso il burrone. Dritta dentro il fiume. Quaranta metri. Una vera e propria… una vera… Strappò e tirò la cloche. Ora udiva piú distintamente la pioggia e sentiva l’aria fredda della notte lungo tutto il lato sinistro del corpo, qualcuno aveva aperto lo sportello. La frizione: dov’era il piede? Una vera e propria replica. Retromarcia. Ecco fatto.

Mikael Bellman fissava il soffitto. Ascoltava il crepitio tranquillizzante della pioggia contro il tetto. Tegole olandesi. Quarant’anni di garanzia. Si chiese quanti tetti in piú vendessero grazie a quella garanzia. Un numero che bastava e avanzava per risarcire i tetti che non tenevano. Se c’era una cosa che la gente desiderava, era la garanzia che gli oggetti durassero.

Ulla era distesa con la testa sul suo petto.

Avevano parlato. Parlato molto e a lungo. Per la prima volta da non ricordava quanto tempo. Lei aveva pianto. Non quel pianto addolorato che lui detestava, ma l’altro, quello tenero che era meno dolore e piú rimpianto, rimpianto di qualcosa che era stato e non sarebbe tornato mai piú. Il pianto che gli diceva che nel loro rapporto c’era stato qualcosa di cosí prezioso da meritare di essere rimpianto. Aveva sentito il rimpianto solo quando lei era scoppiata a piangere. Era come se le sue lacrime fossero necessarie per rivelarglielo. Scostavano quella cortina che era sempre là: la cortina fra ciò che Mikael Bellman pensava e ciò che sentiva. Lei piangeva per entrambi, lo aveva sempre fatto. E soffriva anche per entrambi.

Avrebbe voluto consolarla. Aveva carezzato i suoi capelli. Lasciato che le sue lacrime gli bagnassero la camicia celeste che Ulla gli aveva stirato il giorno prima. Poi, quasi senza volerlo, l’aveva baciata. O lo aveva fatto di proposito? Per curiosità? Per sapere come lei avrebbe reagito, lo stesso tipo di curiosità che lo muoveva quando, da giovane investigatore, interrogava i sospettati seguendo il modello dei nove passi di Inbau, Reid e Buckley, il momento in cui toccavano il tasto dei sentimenti solo per vedere quale reazione avrebbero ottenuto.

Dapprima Ulla non aveva risposto al bacio, ma si era irrigidita un pochino. Poi aveva reagito con timidezza. Mikael conosceva i suoi baci, ma non quello. Incerto, esitante. Poi ci aveva messo piú passione. E lei era completamente partita. Lo aveva trascinato di là a letto. Si era strappata i vestiti di dosso. E al buio Mikael lo aveva pensato di nuovo. Che Ulla non era lui. Gusto. E l’erezione era svanita prima ancora che si infilassero sotto il piumino.

Le aveva spiegato che era troppo stanco. Che aveva troppi pensieri. Che la situazione era troppo sconcertante, la vergogna per quello che aveva fatto troppo grande. Ma si era affrettato ad aggiungere che lei, l’altra, non c’entrava niente. Ed era anche in grado di ammettere con sé stesso che in effetti era vero.

Mikael chiuse di nuovo gli occhi. Ma non riusciva proprio a dormire. Per colpa dell’ansia, la stessa ansia con cui si era svegliato negli ultimi mesi, la vaga sensazione che qualcosa di terribile fosse successo o stesse per succedere, e per un po’ aveva sperato che fossero soltanto gli strascichi di un sogno, finché non aveva capito cos’era.

Qualcosa gli fece riaprire gli occhi. Una luce. Una luce bianca sul soffitto. Proiettata dal pavimento accanto al letto. Si girò, abbassò lo sguardo sul display del cellulare. Impostato su «silenzioso», ma sempre acceso. Aveva concordato con Isabelle di non scambiarsi mai sms di notte. Non le aveva neanche chiesto perché non volesse ricevere messaggini notturni. E apparentemente, quando le aveva spiegato che non avrebbero potuto vedersi per un po’, lei l’aveva presa bene. Con tutto che secondo lui aveva afferrato il messaggio. Che in quella frase doveva cancellare «per un po’».

Mikael si sentí sollevato appena vide che l’sms era di Truls. Poi trasalí: doveva essere ubriaco. O forse aveva sbagliato destinatario, forse voleva mandarlo a una donna di cui non gli aveva parlato. Il messaggio conteneva solo due parole:

«Dormi bene».

Anton Mittet si risvegliò.

La prima cosa che percepí fu il rumore della pioggia, che si era ridotto a un lieve mormorio sul parabrezza. Si rese conto che il motore era spento, che gli faceva male la testa e non riusciva a muovere le mani.

Aprí gli occhi.

I fari erano ancora accesi. Illuminavano il terreno in discesa, squarciavano la pioggia e poi il buio giú in fondo, dove il terreno spariva bruscamente. Il parabrezza bagnato gli impediva di vedere il bosco di abeti dall’altra parte della forra, ma sapeva che c’era. Disabitato. Silenzioso. Cieco. All’epoca non erano riusciti a trovare testimoni. Neanche quella volta.

Si guardò le mani. Non riusciva a muoverle perché erano legate al volante con fascette di plastica. In polizia avevano quasi completamente rimpiazzato le tradizionali manette. Bastava avvolgere quei nastri sottili intorno ai polsi e stringere, neanche l’arrestato piú forte riusciva a spezzarli, e se cercava di divincolarsi le fascette gli segavano la pelle fino alla carne. Fino all’osso, se non si dava per vinto.

Anton strinse il volante, capí di aver perso la sensibilità nelle dita.

– Sveglio? – La voce era stranamente familiare. Anton si girò verso il sedile del passeggero. Si ritrovò a guardare due occhi che lo fissavano da dietro i buchi di un passamontagna integrale. Lo stesso in uso alla Delta.

– Allora, allentiamo questo.

La mano sinistra inguantata afferrò la leva del freno a mano in mezzo ai sedili e la sollevò. Ad Anton era sempre piaciuto quella specie di rutto che facevano i vecchi freni a mano, dava un’idea del meccanismo, di ingranaggi e catene, di ciò che succedeva concretamente. Ora fu sollevato e rilasciato senza il minimo rumore. Solo un cigolio leggerissimo. Le ruote. Avanzarono. Ma solo per un metro o due, perché lui abbassò d’istinto il pedale del freno. Con il motore spento dovette fare molta forza.

– Bella reazione, Mittet.

Anton fissò fuori del parabrezza. La voce. Quella voce. Alleggerí un pochino la pressione sul pedale. Si levò uno stridore come dai cardini non oliati di una porta, l’auto si mosse e lui affondò di nuovo il piede. Stavolta non lo spostò. La luce dell’abitacolo si accese.

– Secondo te René sapeva che stava per morire?

Anton Mittet non rispose. Si era appena intravisto nello specchietto retrovisore. O almeno, credeva che quello fosse il suo viso: una maschera di sangue scintillante. Il naso era storto, sicuramente rotto.

– Che effetto fa, Mittet? Saperlo? Me lo puoi spiegare?

– Pe… perché? – la domanda gli uscí di bocca come di propria volontà. Anton non sapeva neanche se voleva sapere perché. Sapeva solo che aveva freddo. E che voleva andare via di lí. Che voleva tornare da Laura. Abbracciarla. Farsi abbracciare da lei. Sentire il suo odore. Il suo calore.

– Non ci sei arrivato, Mittet? Perché non avete risolto il caso, ovviamente. Vi do un’altra chance. La possibilità di imparare dagli errori precedenti.

– I… imparare?

– Lo sapevi che una ricerca di Psicologia ha dimostrato che un feedback un po’ negativo sul lavoro svolto è quello che stimola di piú la performance? Non molto negativo né positivo, ma un po’ negativo. Punirvi uccidendo un solo componente della squadra investigativa per volta costituisce una serie di feedback un po’ negativi, non ti pare?

Le ruote stridettero, e Anton pigiò di nuovo il pedale. Fissò l’orlo del dirupo. Aveva la sensazione di dover affondare ancora di piú il piede.

– È il liquido dei freni, – disse la voce. – Ho fatto un buco. Fuoriesce. Fra poco potrai spingere quanto vuoi, ma non servirà a niente. Credi che farai in tempo a pensare mentre precipiti? Farai in tempo a pentirti?

– Pentirmi di co… – Anton avrebbe voluto continuare, ma non ci riuscí, gli sembrava che la bocca gli si fosse riempita di farina. Precipitare. Lui non voleva precipitare.

– Pentirti per quello sfollagente, – disse la voce. – Pentirti di non aver dato una mano a trovare l’assassino. Ti avrebbe potuto salvare adesso, sai.

Anton aveva la sensazione di spingere fuori il liquido con il pedale del freno, che piú pigiava e piú rapidamente il sistema frenante si svuotasse del fluido. Alzò appena appena il piede. La ghiaia sotto le gomme scricchiolò e lui, in preda al panico, premette la schiena contro il sedile, puntò le gambe tese contro il fondo e il pedale del freno. L’auto aveva due sistemi di frenaggio idraulico separati, magari ne aveva manomesso soltanto uno.

– Se ti penti, forse otterrai la remissione dei peccati, Mittet. Gesú è magnanimo.

– Mi… mi pento. Fammi scendere.

Una risata sommessa. – Ehi, Mittet, guarda che mi riferivo al regno dei cieli. Io non sono Gesú, da me non avrai nessun perdono –. Una breve pausa. – E la risposta è sí, ho manomesso entrambi i sistemi frenanti.

Per un momento Anton ebbe l’impressione di udire il fluido dei freni gocciolare sotto la macchina, poi capí che era il suo sangue che dalla punta del mento gli cadeva in grembo. Stava per morire. Di colpo gli fu talmente chiaro che si sentí invadere dal freddo ed ebbe piú difficoltà a muoversi, come se il rigor mortis fosse già iniziato. Ma perché l’assassino era ancora seduto accanto a lui?

– Hai paura di morire, – disse la voce. – L’odore che emana il tuo corpo. Lo senti? Adrenalina. Sa di farmaci e di urina. È lo stesso odore delle case di riposo e dei mattatoi. L’odore della paura di morire.

Anton respirava a fatica, era come se nell’abitacolo l’aria non bastasse per tutti e due.

– Quanto a me, non ho assolutamente paura di morire, – continuò la voce. – Non è strano? Che si possa perdere un tratto umano fondamentale come la paura di morire? Ovviamente, è legata alla voglia di vivere, ma solo in parte. Molte persone passano tutta la vita nella paura che l’alternativa sia peggiore. Non è triste?

Anton si sentiva soffocare. Non aveva mai sofferto d’asma, però aveva assistito agli attacchi di Laura, visto il suo sguardo disperato, supplicante, sentito l’angoscia di non poterla aiutare ma solo essere testimone della sua lotta forsennata per riuscire a respirare. Una parte di lui però era anche curiosa, voleva sapere, conoscere l’effetto che faceva sentirsi morire, sapere di non poter fare niente, di essere costretti a subire.

Ora lo sapeva.

– Da parte mia sono convinto che la morte sia un posto migliore, – cantilenò la voce. – Però adesso non ti posso accompagnare, Anton. Sai, ho un compito da portare a termine.

Udí di nuovo lo scricchiolio, come una voce roca che introduceva adagio una frase con quel rumore che presto avrebbe accelerato. Ed era inutile affondare ancora il piede sul pedale del freno, era già premuto al massimo.

– Addio.

Anton sentí l’aria arrivare dalla parte del sedile del passeggero quando lo sportello fu aperto.

– Il paziente, – ansimò.

Fissava dritto verso il ciglio del burrone, verso il punto dove tutto spariva, ma percepí che la persona sul sedile accanto si girava verso di lui.

– Quale paziente?

Anton tirò fuori la lingua, se la passò sul labbro superiore, colse una sostanza liquida che aveva un sapore dolce e metallico. Si inumidí la bocca. Ritrovò la voce. – Il paziente del Rikshospital. Mi hanno drogato prima che fosse ucciso. Sei stato tu?

Per qualche secondo udí soltanto la pioggia. La pioggia là fuori nell’oscurità: esisteva un suono piú bello? Se avesse avuto scelta sarebbe rimasto seduto ad ascoltare quel suono giorno dopo giorno. Anno dopo anno. L’avrebbe ascoltato all’infinito, godendosi ogni secondo che gli era concesso.

L’uomo al suo fianco si mosse, Anton sentí l’auto sollevarsi leggermente quando il peso diminuí, poi lo sportello si richiuse senza far rumore. Era solo. L’auto si stava muovendo. Il rumore delle gomme che avanzavano ancora sulla ghiaia sembrava un bisbiglio roco. Il freno a mano. Era a cinquanta centimetri sotto la sua mano destra. Anton tirò a sé i polsi. Non sentí neanche dolore quando la pelle si spaccò. Il bisbiglio si era fatto piú alto e piú rapido. Anton sapeva di essere troppo lungo e rigido per riuscire ad alzare un piede e a portarlo sotto il freno a mano, e allora si abbassò. Spalancò la bocca. Afferrò l’estremità della leva, la sentí premere contro l’interno dei denti dell’arcata superiore, tirò, ma perdette la presa. Provò anche se sapeva che era troppo tardi, ma preferiva morire cosí, lottando, disperato, vivo. Si contorse, riuscí ad afferrare di nuovo il freno a mano con la bocca.

Di colpo calò un silenzio assoluto. La voce era ammutolita e la pioggia cessata di colpo. No, non era cessata. Era lui che stava precipitando. Senza peso, volteggiava in un valzer lento, come quello che una volta aveva ballato con Laura mentre tutt’intorno le tante facce familiari degli invitati stavano a guardare. Girava intorno al proprio asse, adagio, inclinandosi, pesante-leggero-leggero, con la differenza che adesso era completamente solo. Precipitò in quello strano silenzio. Precipitò insieme alla pioggia.

Laura Mittet li squadrò. Quando avevano suonato era scesa, e adesso indugiava davanti al palazzo di Elveparken, a braccia conserte infreddolita nella vestaglia. L’orologio diceva che era notte, ma fuori albeggiava, e lei intravedeva i primi raggi del sole scintillare sul Drammenselva. Era successo qualcosa, per un paio di secondi non era stata presente, non li aveva sentiti, non aveva visto altro che il fiume alle loro spalle. Alcuni secondi durante i quali era rimasta sola e aveva pensato che Anton non era mai stato l’uomo giusto per lei. Che non aveva mai trovato l’uomo giusto, o almeno, non lo aveva sposato. E quello che aveva sposato, Anton, l’aveva tradita lo stesso anno del matrimonio. Non gli aveva mai detto che lo aveva scoperto. C’era troppo da perdere facendolo. E probabilmente negli ultimi tempi lui aveva avuto un’altra scappatella. Sfoggiava la stessa espressione di esagerata normalità quando accampava gli stessi pessimi pretesti di allora. Straordinari improvvisi. Un traffico infernale sulla via del rientro. Il cellulare spento per via della batteria scarica.

Erano in due. Un uomo e una donna, entrambi in una divisa senza una grinza né una macchia. Come se l’avessero appena presa nell’armadio e indossata. Sguardi gravi, quasi spaventati. L’avevano chiamata «signora Mittet». Nessuno la chiamava cosí. E non le avrebbe neanche fatto piacere. Era il cognome del marito, e lei si era pentita spesso di averlo preso.

Si schiarirono la voce. Avevano qualcosa da dirle. E allora, cosa aspettavano? Lei lo sapeva già. Lo aveva saputo da quegli idioti, esagerati musi tragici. Era furibonda. Talmente furibonda da sentire che il viso le si storceva, si distorceva in un’espressione che non voleva, come se anche a lei fosse stato imposto un ruolo in quella tragedia comica. Avevano detto qualcosa. Che cosa? Era norvegese? Parole senza senso.

Non aveva mai voluto l’uomo giusto. E non aveva mai voluto prendere il suo cognome.

Fino a quel momento..

La Volkswagen Sharan nera saliva adagio girando su sé stessa verso il cielo azzurro. Come un razzo in super slow motion, pensò Katrine mentre guardava la scia che non era di fuoco e fumo ma di acqua che fuoriusciva dagli sportelli e dal bagagliaio dell’auto distrutta, si dissolveva in gocce e scintillava nel sole cadendo verso il fiume.

– L’altra volta abbiamo tirato su la macchina in questo punto, – disse l’agente della polizia locale.

Erano in piedi davanti alla segheria dismessa con la vernice rossa sfaldata e tutti i vetri delle piccole finestre rotti. L’erba vizza si stendeva sul terreno come una frangia alla nazista pettinata nel senso in cui l’acqua era scorsa la notte prima. Nei punti in ombra c’erano macchie grigie di neve fradicia. Un uccello migratore tornato troppo presto cinguettava ottimista, condannato a morte, mentre il fiume ridacchiava contento.

– Questa, invece, si è incagliata fra due massi, e quindi è stato piú facile tirarla su direttamente.

Lo sguardo di Katrine seguí il corso del fiume. A monte della segheria era arginato, e l’acqua mormorava placida tra i grandi massi grigi che avevano fermato l’auto. Vide il sole baluginare qua e là fra le schegge di vetro. Poi levò lo sguardo sulla parete rocciosa verticale. Granito di Drammen. Era quasi certa che esistesse davvero. Su in alto scorse la coda del carroattrezzi e la gru gialla che sporgeva sopra il ciglio del burrone. Sperava che qualcuno avesse fatto bene i calcoli del peso moltiplicato per la distanza dal fulcro.

– Ma se siete detective, perché non state lassú insieme agli altri? – domandò il poliziotto che li aveva fatti passare oltre il nastro segnaletico solo dopo aver esaminato attentamente i tesserini di riconoscimento.

Katrine si strinse nelle spalle. Non poteva rispondere che stavano facendo una scorribanda, quattro persone senza passi né autorizzazione e con un incarico la cui natura consigliava di non farsi vedere, per il momento, dalla squadra investigativa ufficiale.

– Quello che ci interessa lo vediamo da qui, – rispose Beate Lønn. – Grazie per l’occhiata.

– Non c’è di che.

Katrine Bratt spense l’iPad ancora collegato agli elenchi dei detenuti nelle carceri norvegesi, poi rincorse Beate Lønn e Ståle Aune che avevano già superato la recinzione e si dirigevano verso la Volvo Amazon di Bjørn Holm, vecchia di oltre trent’anni. Da parte sua, il proprietario dell’auto stava percorrendo a passo lento la ripida strada sterrata che scendeva dalla cima e li raggiunse davanti alla macchina d’epoca senza aria condizionata, né airbag, né chiusura centralizzata, ma con due fasce a scacchi sul cofano, sul tetto e sulla coda. Dall’affanno di Holm, Katrine concluse che quel giorno non avrebbe superato l’esame d’ammissione alla Scuola di polizia.

– Allora? – domandò Beate.

– Il viso è parzialmente sfigurato, ma dicono che con ogni probabilità il cadavere è di Anton Mittet, – rispose Holm, si sfilò il berretto rasta e lo usò per asciugarsi il sudore dalla faccia tonda.

– Mittet, – disse Beate. – Naturalmente.

Gli altri si girarono verso di lei.

– Un poliziotto di qui. Lo stesso che diede il cambio a Sivert su a Maridalen, ricordi, Bjørn?

– No, – rispose Holm senza vergogna. Katrine immaginò che si fosse abituato al fatto che il suo capo veniva da Marte.

– Era in forza alla polizia di Drammen. E partecipò, per modo di dire, alle indagini sull’altro omicidio che avvenne qui.

Katrine scosse sbalordita la testa. Una cosa era che Beate avesse reagito subito alla segnalazione dell’auto nel fiume apparsa in rete nel log interno della polizia, e ordinato a tutta la squadra di recarsi a Drammen perché le era subito venuto in mente che era la stessa località dove diversi anni prima era stato ucciso un certo René Kalsnes. Tutt’altra che ricordasse il nome di un tizio di Drammen che aveva partecipato alle indagini per modo di dire.

– Me ne sono ricordata subito perché commise un errore madornale, – spiegò Beate, che evidentemente aveva visto Katrine scuotere la testa. – Tenne la bocca chiusa su uno sfollagente che aveva trovato per paura che gettasse disonore sulla polizia. Hanno detto qualcosa sulle probabili cause della morte?

– No, – rispose Holm. – È ovvio che sarebbe morto per la caduta. E poi l’asta del freno a mano gli entrava dalla bocca e gli usciva dalla nuca. E deve anche essere stato picchiato mentre era ancora vivo, perché aveva il viso pieno di contusioni circoscritte.

– È possibile che sia andato a finire nel burrone da solo? – domandò Katrine.

– Sí. Ma aveva le mani legate al volante con le fascette. Non ci sono segni di frenata, e l’auto si è schiantata contro i massi a ridosso della parete, perciò andava piano. Deve essere uscito di strada a passo d’uomo.

– Il freno a mano in bocca? – domandò Beate corrugando la fronte. – Com’è possibile?

– Aveva le mani immobilizzate e l’auto si avvicinava al burrone, – disse Katrine. – Magari avrà cercato di tirarlo con la bocca?

– Può darsi. Comunque, si tratta di un poliziotto, ed è stato ucciso sulla scena di un crimine su cui aveva indagato.

– Un omicidio che non è stato risolto, – aggiunse Bjørn Holm.

– Sí, ma ci sono delle differenze importanti fra quell’omicidio e i delitti delle ragazze di Maridalen e di Tryvann, – disse Beate sventolando il fascicolo dell’omicidio che aveva stampato di corsa prima di uscire dall’ufficio nello scantinato. – René Kalsnes era maschio e non aveva segni di violenza sessuale.

– C’è una differenza ancora piú importante, – disse Katrine.

– Eh?

Batté la mano sull’iPad che stringeva sotto il braccio. – Mentre venivamo qui ho controllato il casellario giudiziale e gli elenchi dei detenuti. Valentin Gjertsen stava scontando una pena breve a Ila quando René Kalsnes è stato ucciso.

– Maledizione! – proruppe Holm.

– Su, su, – disse Beate. – Questo non esclude che Valentin abbia ucciso Anton Mittet. Forse in questo caso ha rotto gli schemi, ma il colpevole è sempre lo stesso pazzo. O no, Ståle?

Gli altri due si voltarono verso Ståle Aune, che era insolitamente silenzioso. Katrine notò che quell’uomo corpulento era anche insolitamente pallido. Lui si appoggiò allo sportello dell’Amazon, mentre il suo petto si sollevava e si abbassava.

– Ståle? – ripeté Beate.

– Scusate, – si sforzò invano di sorridere. – Quel freno a mano…

– Ti ci abituerai, – disse lei sforzandosi timidamente e invano di dissimulare l’impazienza. – Si tratta del nostro macellaio di poliziotti o no?

Ståle Aune si raddrizzò. – I serial killer possono rompere gli schemi, se è questo che vuoi sapere. Ma non credo che nel nostro caso si tratti di un imitatore che riprende dal punto in cui il primo ha… ehm, il macellaio di poliziotti ha lasciato. Come diceva sempre Harry, un serial killer è una balena bianca. Perciò un serial killer di poliziotti è una balena bianca a pois rosa. Non ce ne possono essere due.

– Quindi siamo d’accordo che si tratta dello stesso assassino, – concluse Beate. – Però quella condanna smantella la teoria secondo cui Valentin torna sui luoghi dove ha già ucciso e commette un altro omicidio.

– Comunque, – disse Bjørn. – Questo è l’unico caso in cui l’omicidio stesso è una copia. Le percosse al viso, l’auto nel fiume. Potrebbe significare qualcosa.

– Ståle?

– Potrebbe significare che sente di essere diventato piú bravo, che perfeziona gli omicidi trasformandoli in vere e proprie repliche.

– Smettila, – disse Katrine tra i denti. – Ne parli come se fosse un artista.

– Ah sí? – disse lui lanciandole un’occhiata interrogativa.

– Lønn!

Si girarono. Giú per la discesa sterrata stava arrivando un uomo con una camicia hawaiana svolazzante, una trippa ballonzolante e ricci ondeggianti. La velocità relativamente alta sembrava dovuta piú alla ripidezza del terreno che all’impazienza del corpo.

– Andiamo via di qui, – disse Beate.

Saliti sull’Amazon, mentre Bjørn faceva il terzo tentativo di metterla in moto, la nocca di un indice bussò al finestrino di Beate che era seduta davanti.

Lei gemette sommessamente e abbassò il finestrino.

– Roger Gjendem, – disse. – L’«Aftenposten» ha qualche domanda cui posso rispondere con un no comment?

– Questo è il terzo poliziotto ucciso, – ansimò l’uomo con la camicia hawaiana, e Katrine stabilí che quanto a pessima forma fisica batteva Bjørn Holm. – Avete qualche pista?

Beate Lønn sorrise.

– N-o c-o-m-m… – scandí Roger Gjendem fingendo di scrivere. – Abbiamo chiesto in giro. Qui tutti si conoscono. Il proprietario di una stazione di servizio sostiene che Mittet ha fatto benzina lí ieri sera tardi. Secondo lui Mittet era solo. Questo significa…?

– No…

– … comment. Pensate che d’ora in poi il capo della polizia vi ordinerà di girare con la pistola carica?

Beate inarcò un sopracciglio. – A cosa ti riferisci?

– Alla pistola di ordinanza nel vano portaoggetti di Mittet, ovviamente –. Gjendem si abbassò e guardò con sospetto gli altri: era mai possibile che non fossero a conoscenza di quel dettaglio cruciale? – Era scarica, con tutto che lí accanto c’era una scatola piena di cartucce. Se la sua pistola fosse stata carica forse sarebbe riuscito a salvare la pelle.

– Sai una cosa, Gjendem? – disse Beate. – In fondo, ti basta mettere un segno di ripetizione sotto la prima risposta che ti ho dato. E preferirei che tu non facessi parola di questo nostro breve incontro.

– E perché?

Il motore si avviò con un ringhio sommesso.

– Buona giornata, Gjendem –. Beate cominciò a rialzare il finestrino. Ma non fu abbastanza veloce da evitare la domanda successiva:

– Avete nostalgia di chi sapete?

Holm lasciò la frizione.

Katrine vide Roger Gjendem rimpicciolire nello specchietto.

Ma aspettò che avessero superato il centro commerciale di Liertoppen per dire quello che sicuramente pensavano tutti.

– Gjendem ha ragione.

– Sí, – sospirò Beate. – Ma purtroppo lui non è piú disponibile, Katrine.

– Lo so, però ci dobbiamo provare lo stesso!

– Provare a fare cosa? – domandò Bjørn Holm. – A riesumare dal cimitero un uomo che è stato dichiarato morto?

Katrine fissò il bosco che sfrecciava monotono accanto all’autostrada. Ripensò alla volta in cui aveva sorvolato quella zona a bordo di un elicottero della polizia, la zona piú densamente popolata della Norvegia, ed era rimasta colpita dal fatto che perfino là prevalevano boschi e territori incolti. Luoghi non frequentati. Luoghi dove potersi nascondere. Che perfino là le case erano puntini di luce nella notte, l’autostrada una striscia sottile che attraversava il nero impenetrabile. Che era impossibile vedere tutto. Che bisognava saper fiutare. Ascoltare. Essere consapevoli.

Erano quasi arrivati ad Asker, ma avevano viaggiato in un silenzio cosí fitto che quando infine Katrine rispose, nessuno aveva dimenticato la domanda.

– Sí, – disse.

Katrine Bratt attraversò l’ampia piazza antistante Chateau Neuf, il quartier generale dell’Associazione studentesca norvegese. Belle feste, concerti fichi, dibattiti animati. Era questa l’immagine che volevano dare a quel posto, ricordava. E di tanto in tanto ci erano riusciti.

Il dress code era cambiato pochissimo dai suoi tempi: t-shirt, pantaloni larghi, occhiali da nerd, piumini rétro e giacche militari rétro, un senso dello stile che tentava di mascherare l’insicurezza, il secchione medio con il look da lavativo scafato, la paura di fallire dal punto di vista sociale e professionale. Ma se non altro erano felicissimi di non rientrare fra i poveracci dall’altra parte della piazza, dove era diretta Katrine.

Alcuni di quei poveracci le vennero incontro uscendo da quello che somigliava al cancello di un carcere davanti al settore riservato alla scuola: allievi con indosso le divise nere della polizia che per quanto aderenti potessero essere parevano sempre un po’ troppo grandi. Riusciva a riconoscere le matricole anche da lontano: sembravano tentare di non farsi ballare l’uniforme addosso e tenevano la visiera del berretto un po’ troppo calata sulla fronte. Per mascherare l’insicurezza con la severità, oppure per evitare gli sguardi lievemente sprezzanti o addirittura compassionevoli degli studenti sul lato opposto della piazza, gli studenti veri, gli intellettuali liberi, indipendenti, alternativi, pensanti. Che sogghignavano dietro i capelli lunghi e unti distesi al sole sui gradini, esaltati dalla loro sregolatezza mentre aspiravano quella che, ne erano sicuri, gli allievi poliziotti sapevano poteva essere una canna.

Perché loro erano i giovani veri, il meglio della società con il diritto di sbagliare, quelli che avevano le scelte di vita ancora davanti a sé, non alle spalle.

Forse questi erano stati soltanto i pensieri di Katrine ai suoi tempi, quando aveva voglia di gridare che non sapevano chi era, perché aveva deciso di fare la poliziotta, cosa aveva intenzione di fare nella vita.

Il vecchio custode, Karsten Kaspersen, era ancora in piedi nella guardiola subito dopo la porta, ma se si ricordava dell’allieva Katrine Bratt non lo diede a vedere quando guardò il suo tesserino di riconoscimento e annuí brevemente. Katrine si avviò lungo il corridoio diretta all’aula. Passò davanti alla porta della «sala del crimine», in cui era stato ricostruito un appartamento con pareti mobili e una galleria da dove potevano osservarsi a vicenda mentre si esercitavano nelle perquisizioni, nella ricerca delle tracce, nella ricostruzione dei fatti.

La porta della palestra con i materassini e l’odore di sudore dove imparavano la fine arte di atterrare e ammanettare la gente. La socchiuse un attimo, senza far rumore, e poi sgusciò dentro la porta dell’aula 2. La lezione era già iniziata e Katrine raggiunse a passo felpato un posto libero nell’ultima fila. Si sedette senza farsi notare dalle due ragazze che parlottavano animatamente nella fila davanti.

– Ti dico che è strana. Ha una foto del prof sulla parete della sua stanza.

– Davvero?

– L’ho vista con i miei occhi.

– Santo cielo, ma è vecchio. E pure brutto.

– Trovi?

– Ma sei cieca? – Con un cenno della testa indicò la lavagna su cui l’insegnante stava scrivendo girato di spalle.

– Movente! – L’uomo si era voltato verso gli allievi ripetendo la parola che aveva scritto alla lavagna. – Il prezzo psicologico di commettere un omicidio è cosí alto per le persone dotate di una mente razionale e di una sfera emotiva normale che occorre un movente molto valido. In genere i moventi molto validi sono piú facili e piú rapidi da trovare dell’arma del delitto, dei testimoni, e delle prove. E di solito indicano un potenziale colpevole. Perciò ogni investigatore deve partire dalla domanda: «Perché?»

Fece una pausa vagando con lo sguardo nell’aula, quasi come un cane da pastore che accerchia e tiene unito il gregge, pensò Katrine.

L’uomo alzò un indice. – In soldoni: trova il movente e avrai trovato il colpevole.

Secondo Katrine Bratt non era brutto. Neanche bello, ovviamente, non nel senso convenzionale del termine. Rientrava piuttosto nella definizione inglese di acquired taste, qualcosa che si impara ad apprezzare col tempo. E la voce era la stessa di sempre: profonda, calda con un che di consumato, roco, che non piaceva solo alle studentesse giovanissime.

– Sí? – il docente esitò un attimo prima di dare la parola all’allieva che aveva alzato la mano.

– Perché mandiamo grandi e costose squadre della Scientifica sulla scena di un crimine, se un investigatore brillante come te può risolvere il caso con qualche domanda e qualche riflessione?

Non c’era traccia di ironia nel tono dell’allieva, solo un candore quasi infantile e un’inflessione da cui si capiva che doveva aver vissuto su a nord.

Katrine vide le emozioni passare sul viso dell’insegnante – imbarazzo, contrarietà, irritazione – prima che si decidesse a rispondere: – Perché non basta mai sapere chi è il fuorilegge, Silje. Durante l’ondata di rapine a Oslo di dieci anni fa, nell’Antirapina lavorava una poliziotta che era capace di riconoscere le persone incappucciate dalla forma del viso e del corpo.

– Beate Lønn, – disse la ragazza che lui aveva chiamato Silje. – Il capo della Scientifica.

– Esatto. E perciò, in otto casi su dieci l’Antirapina sapeva chi erano le persone mascherate che apparivano nei video di sorveglianza. Ma non aveva prove. Le impronte digitali sono prove. Una pistola che ha sparato è una prova. Le convinzioni di un investigatore, per quanto brillante possa essere, non sono una prova. Oggi ho usato parecchie semplificazioni, e ne aggiungerò ancora un’altra: la risposta alla domanda «perché?» non ha nessun valore se non scopriamo il «come», e viceversa. E con questo abbiamo anticipato un po’ le cose: Folkestad terrà una lezione sull’indagine scientifica –. Consultò l’orologio. – Approfondiremo il movente la prossima volta, ma abbiamo il tempo di fare un esercizio di riscaldamento. Perché la gente uccide la gente?

Scrutò di nuovo il pubblico con un’espressione incoraggiante. Katrine vide che, oltre alla cicatrice che come una crepa nel ghiaccio partiva dall’angolo della bocca e arrivava all’orecchio, se ne era procurate altre due. Una, sulla gola, sembrava una ferita da coltello, l’altra, sul lato della testa all’altezza delle sopracciglia, poteva essere stata causata da una pallottola. Ma per il resto non lo aveva mai visto tanto in forma. La figura alta un metro e novantatre era eretta e agile, la corta spazzola bionda dei capelli non mostrava tracce di grigio. E Katrine riusciva a vedere che sotto la t-shirt era in buone condizioni fisiche, si era rimesso in carne. E, piú importante di tutto, il suo sguardo era vivo. Aveva di nuovo quell’aria vigile, energica, quasi maniacale. Rughe d’espressione intorno agli occhi e un linguaggio del corpo aperto che non gli aveva mai visto prima. Veniva quasi il sospetto che conducesse una vita sana. In tal caso sarebbe stata la prima volta da quando Katrine lo conosceva.

– Perché ha un tornaconto, – propose una voce maschile.

Il docente annuí benevolo. – Verrebbe da pensarlo, vero? Però, Vetle, l’omicidio a scopo di lucro non è molto comune.

Un’uggiolante voce del Sunnmøre: – Perché si odia qualcuno?

– Elling suggerisce l’omicidio passionale, – disse l’insegnante. – Gelosia. Ripulsa. Vendetta. Sí, decisamente. Altro?

– Perché uno è pazzo, – propose un giovane corpulento e ingobbito.

– Pazzo non è il termine giusto, Robert, – intervenne la ragazza di prima. Katrine vedeva soltanto una coda di cavallo bionda a forma di ssopra lo schienale di una sedia in prima fila. – Si dice…

– Va bene cosí, Silje, abbiamo capito che cosa intende –. L’insegnante si era seduto sulla parte anteriore della cattedra: tese le lunghe gambe sul pavimento davanti a sé e incrociò le braccia sopra il logo dei Glasvegas. – E personalmente non ho nulla in contrario alla parola pazzo. Ma in effetti è una causa di omicidio piuttosto rara. Naturalmente c’è chi è convinto che il delitto sia di per sé una prova di pazzia, ma la maggioranza degli omicidi è razionale. Proprio come è razionale perseguire un vantaggio materiale, è razionale perseguire il riscatto delle emozioni. L’assassino può essere convinto che uccidere lenirà il dolore causato dall’odio, dalla paura, dalla gelosia, dall’umiliazione.

– Ma se l’omicidio è tanto razionale… – intervenne il primo ragazzo. – Mi dici quanti assassini soddisfatti hai conosciuto?

Il furbo del corso, pensò Katrine.

– Pochi, – rispose l’uomo. – Ma il fatto che l’omicidio venga percepito come una delusione non significa che non sia un atto razionale nella misura in cui chi lo compie pensa di ottenere un riscatto. In genere però la vendetta è piú dolce nell’immaginazione, al furioso omicidio per gelosia fa seguito il pentimento, il crescendo che il serial killer ha preparato con tanta cura si trasforma quasi sempre in un anticlimax che lo costringe a ricominciare daccapo. In breve… – Si alzò e tornò alla lavagna. – Per quanto riguarda l’omicidio, il detto «il crimine non paga» non è del tutto sbagliato. Per la prossima volta chiedo a ciascuno di voi di pensare a un movente che potrebbe spingervi a uccidere. Non voglio stupidaggini politically correct, voglio che sondiate il vostro lato piú oscuro. Magari va bene anche il vostro lato quasi piú oscuro. E poi voglio che leggiate il saggio di Aune sulla personalità omicida e il profiling, d’accordo? E sí, farò domande di verifica. Perciò, tremate, siate preparati. Dateci dentro.

Un fracasso di sedili che si sollevavano.

Katrine rimase seduta a guardare gli studenti che le sfilavano davanti. Alla fine rimasero soltanto tre persone. Lei, il docente che cancellava la lavagna e la coda di cavallo a forma di s che gli si era piantata alle spalle a piedi uniti e con gli appunti sotto il braccio. Katrine constatò che era magra. E che adesso la sua voce era diversa da quella con cui aveva parlato durante la lezione.

– Ma secondo te quel serial killer che hai catturato in Australia non si è sentito appagato nell’uccidere quelle donne? – Un ostentato tono da ragazzina. Come una bimba che volesse ingraziarsi il padre.

– Silje…

– Sí, insomma, le ha violentate. E deve essergli piaciuto.

– Leggi il saggio, e la prossima volta ne riparliamo, okay?

– Okay.

Ma lei non si mosse. Oscillò sui piedi. Come per alzarsi sulle punte, pensò Katrine. E arrivare fino a lui. Mentre l’insegnante raccoglieva i fogli in una ventiquattrore di pelle ignorandola. Poi la ragazza si girò bruscamente e salí di corsa le scale verso l’uscita. Quando scorse Katrine rallentò e la scrutò per poi affrettare di nuovo il passo e uscire.

– Ciao, Harry, – disse lei sottovoce.

– Ciao, Katrine, – rispose lui senza alzare lo sguardo.

– Ti trovo in forma.

– Grazie altrettanto, – disse lui chiudendo la lampo della ventiquattrore.

– Mi hai vista arrivare?

– Ti ho sentita arrivare –. Alzò lo sguardo. E sorrise. Katrine si era sempre stupita della grande trasformazione che il suo viso subiva quando sorrideva. Quell’aria dura, distaccata, stanca di vivere che era solito indossare come un cappotto liso veniva spazzata via. Di colpo sembrava un bambinone allegro e raggiante. Come una bella giornata di luglio a Bergen. Benvenuta quanto rara e breve.

– Che cosa vuoi dire? – gli domandò.

– Che un po’ me lo aspettavo che saresti venuta.

– Ah sí?

– Sí. E la risposta è no –. Si infilò la ventiquattrore sotto il braccio, con quattro lunghi passi salí i gradini che lo separavano da lei e l’abbracciò.

Katrine lo strinse, inspirò il suo odore. – No a cosa, Harry?

– No, non mi avrai, – le bisbigliò nell’orecchio. – Ma questo lo sai già.

– Uff! – esclamò lei fingendo di liberarsi dall’abbraccio. – Se non fosse per quella bruttona, mi basterebbero cinque minuti per farti scodinzolare, bello mio. E poi non ho detto che sei cosí in forma.

Lui scoppiò a ridere, e Katrine avrebbe voluto che la stringesse ancora un po’. Non si era mai chiarita se Harry le piacesse sul serio oppure se quel gioco fosse diventato un’abitudine perché la prospettiva era talmente irrealistica che poteva anche fare a meno di prendere una decisione. E col tempo era diventato uno scherzo dal contenuto oscuro. Infine lui si era rimesso con Rakel. O «quella bruttona», come lui le permetteva di chiamarla perché la definizione era tanto assurda da non fare altro che sottolineare la bellezza di Rakel.

Harry si lisciò il mento mal rasato. – Mhm, se non è al mio corpo irresistibile che miri, allora deve essere… – Levò un indice: – Ci sono. La mia mente geniale!

– Non sei nemmeno diventato piú spiritoso con gli anni.

– E la risposta è sempre no. E sai già anche questo.

– Hai un ufficio dove ne possiamo discutere?

– Sí e no. Ho un ufficio, ma là non possiamo discutere della possibilità che vi aiuti con quel caso.

– I casi.

– È un unico caso, a quanto ho capito.

– Affascinante, non trovi?

– Non ci provare. Ho chiuso con quella vita, e lo sai.

– Harry, questo caso ha bisogno di te. E tu hai bisogno di questo caso.

Stavolta il sorriso di lui non arrivò fino agli occhi: – Ho bisogno di un caso di omicidio quanto ho bisogno di un drink, Katrine. Mi dispiace. Risparmia il tuo tempo e rivolgiti alla seconda scelta.

Lei lo guardò. Pensò che il paragone con il drink era stato immediato. Che confermava i suoi sospetti, che Harry aveva semplicemente paura. Paura che gli sarebbe bastato dare un’occhiata al caso perché gli facesse lo stesso effetto di un goccio d’alcol. Non sarebbe piú riuscito a fermarsi, si sarebbe lasciato irretire, consumare. Per un attimo Katrine fu colta dal rimorso, dall’improvviso attacco di autodisprezzo dello spacciatore. Fino a quando con l’occhio della mente rivide le immagini delle scene del crimine. Il cranio fracassato di Anton Mittet.

– Sei l’unica scelta, Harry.

– Posso farti un paio di nomi, – rispose lui. – C’è un tizio con cui ho frequentato quel corso all’Fbi. Potrei telefonargli…

– Harry, – Katrine lo prese sottobraccio e lo condusse verso la porta. – Hai del caffè nel tuo ufficio?

– Quello te lo offro volentieri ma, ripeto…

– Non parliamo piú del caso, dài, abbandoniamoci ai ricordi.

– Hai tempo per farlo?

– Ho bisogno di distrarmi.

Lui la guardò. Fu sul punto di dire qualcosa, ci ripensò. Annuí. – Bene.

Salirono una rampa di scale, si avviarono lungo il corridoio che portava agli uffici.

– A quanto ho sentito arraffi a piene mani dalle lezioni di Psicologia di Ståle Aune, – disse Katrine. Come al solito era costretta quasi a correre per stare al passo con le falcate da gigante di Harry.

– Arraffo dove posso, dopo tutto lui era il migliore.

– Per esempio, che la parola «pazzo» è una delle poche allo stesso tempo precise, intuitive e poetiche. Ma che le parole precise finiscono sempre nella spazzatura perché esperti ottusi ritengono che l’astrusità linguistica giovi al benessere del paziente.

– Già, – disse Harry.

– Perciò io non sono piú maniaco-depressiva. E neanche borderline. Sono una bipolare due.

– Due?

– Ti rendi conto? Perché Aune non insegna piú? Credevo gli piacesse tanto.

– Voleva una vita migliore. Piú semplice. Piú tempo da dedicare ai suoi cari. Una decisione saggia.

Katrine guardò il suo profilo. – Dovresti convincerlo. Chi ha un talento cosí spiccato dovrebbe impiegarlo per legge dove ce n’è piú bisogno. Non sei d’accordo?

Harry fece una breve risata. – Non ti dài per vinta, eh? Penso che ci sia bisogno di me qui, Katrine. E la scuola non chiama Aune perché nel corpo docente vuole piú divise, non civili.

– Tu non porti la divisa.

– E proprio qui ti volevo. Si dà il caso che non sia piú in polizia, Katrine. Ho fatto una scelta. E questo significa che la situazione è cambiata, per me, per noi.

– Come ti sei fatto quella cicatrice sulla tempia? – domandò lei e lo vide trasalire subito, quasi impercettibilmente. Lui non fece in tempo a rispondere che una voce sonora riecheggiò nel corridoio:

– Harry!

Si fermarono e si voltarono. Un uomo basso e tarchiato con una barba rossa uscí dalla porta di un ufficio e venne verso di loro a passo vacillante e asimmetrico. Katrine seguí Harry incontro all’anziano.

– Hai visite, – tuonò l’uomo molto prima di trovarsi alla distanza opportuna per rivolgergli la parola.

– Esatto, – disse Harry. – Katrine Bratt. Ti presento Arnold Folkestad.

– Intendevo dire: hai visite nel tuo ufficio, – aggiunse Folkestad, si fermò e trasse un paio di respiri prima di tendere una grossa mano lentigginosa.

– Arnold e io ci dividiamo le lezioni sulle Tecniche investigative, – spiegò Harry.

– E siccome lui si occupa della parte divertente della materia, è il piú popolare dei due, – brontolò Folkestad. – Mentre io li devo riportare alla realtà con il metodo, l’indagine scientifica, l’etica e il protocollo. Il mondo è ingiusto.

– In compenso Arnold possiede qualche nozione di Pedagogia, – disse Harry.

– Però il ragazzo fa progressi, – disse Folkestad ridacchiando.

Harry corrugò la fronte. – Quella visita, non sarà, spero…

– Rilassati, non è la signorina Silje Gravseng, solo dei vecchi colleghi. Gli ho offerto un caffè, io.

Harry lanciò un’occhiata penetrante a Katrine. Poi girò sui tacchi e marciò verso la porta dell’ufficio. Lei e il collega lo seguirono con lo sguardo.

– Oddio, ho detto qualcosa che non va? – domandò Folkestad sbalordito.

– Immagino che questa iniziativa possa essere interpretata come una tattica di accerchiamento, – disse Beate portandosi la tazza di caffè alle labbra.

– Con questo vuoi dire che non si tratta di un accerchiamento? – domandò Harry inclinando la sedia all’indietro quanto il minuscolo ufficio gli permetteva. Dall’altra parte della scrivania, dietro le pile svettanti di carte, Beate Lønn, Bjørn Holm e Katrine Bratt avevano infilato una sedia ciascuno. Il giro dei saluti era stato frettoloso. Brevi strette di mano, niente abbracci. Niente tentativi appiccicosi di parlare del piú e del meno. Harry Hole non era il tipo. Era il tipo che veniva subito al punto. Del quale, ovviamente, sapevano che era già informato.

Beate bevette un sorso, si protese involontariamente e posò il bicchiere di plastica con un’espressione severa.

– So che hai deciso di non occuparti piú attivamente di indagini, – disse. – E so anche che le tue ragioni sono piú valide di quelle di tanti. Ma ciononostante la domanda è se non potresti fare un’eccezione per questo caso. Dopo tutto sei l’unico esperto di delitti seriali che abbiamo. Lo Stato ha investito dei soldi per mandarti a studiare all’Fbi, che…

– … che, come sai, ho ripagato col sangue, col sudore e con le lacrime, – la interruppe Harry. – E non soltanto con il mio sangue e con le mie lacrime.

– Non ho dimenticato che Rakel e Oleg finirono sotto tiro nel caso Uomo di neve, ma…

– La risposta è no, – disse Harry. – Ho promesso a Rakel che nessuno di noi si troverà piú in una situazione simile. E una volta tanto ho deciso di mantenere la mia promessa.

– Come sta Oleg? – chiese Beate.

– Meglio, – rispose lui lanciandole un’occhiata guardinga. – Come sai, si sta disintossicando in una clinica in Svizzera.

– Mi fa piacere. E Rakel ha ottenuto quell’incarico a Ginevra?

– Sí.

– E fa la pendolare?

– Di regola passa quattro giorni a Ginevra e tre qui. Per Oleg è un vantaggio avere la madre vicino.

– Capisco, – disse Beate. – Laggiú in un certo senso sono lontani da qualsiasi linea di tiro, o no? E tu passi tutta la settimana da solo. E in quei giorni puoi fare quello che vuoi.

Lui fece una risata sommessa. – Cara Beate, forse non sono stato abbastanza chiaro. Questo è quello che voglio. Insegnare. Trasmettere le cose che so.

– Ståle Aune è dei nostri, – intervenne Katrine.

– Buon per lui, – disse Harry. – E per voi. Di omicidi seriali ne sa quanto me.

– Sicuro che non ne sappia di piú? – domandò Katrine con un sorrisetto e un sopracciglio inarcato.

Harry rise. – Bel tentativo, Katrine. Okay. Ne sa di piú lui.

– Dio, – disse Katrine. – Che fine ha fatto il tuo spirito di competizione?

– Voi tre e Ståle Aune formate la squadra migliore in assoluto per questo caso. Ho un’altra lezione, perciò…

Katrine scosse la testa adagio. – Che ti è successo, Harry?

– Una cosa bella, – rispose lui. – Mi è successa una cosa bella.

– Ricevuto e recepito, – disse Beate alzandosi. – Però mi permetto ugualmente di domandarti se qualche volta potremo chiederti un consiglio.

Notò che Harry stava per scuotere la testa. – Non rispondere adesso, – si affrettò ad aggiungere. – Ti chiamo piú tardi.

Tre minuti dopo in corridoio, appena Harry ebbe raggiunto l’aula dove era atteso dagli studenti, Beate pensò che forse era vero, forse l’amore di una donna poteva salvare un uomo. E in tal caso dubitava che il senso del dovere di un’altra donna potesse ricacciarlo a forza nell’inferno. Ma era il suo compito. Lui sembrava sprizzare salute e felicità da tutti i pori. Lo avrebbe lasciato andare volentieri. Ma sapeva che presto sarebbero ricomparsi, i fantasmi dei colleghi che erano stati uccisi. E concepí il pensiero successivo: «E non sono gli ultimi».

Telefonò a Harry appena tornata nella Fornace.

Rico Herrem si svegliò di soprassalto.

Batté le palpebre nel buio prima che la vista mettesse a fuoco lo schermo bianco tre file piú avanti, dove una donna grassa lo succhiava a un cavallo. Sentí le pulsazioni impazzite rallentare. Non c’era motivo di farsi prendere dal panico, si trovava ancora nella Pescheria: a svegliarlo erano state solo le vibrazioni di un nuovo arrivato che si era seduto alle sue spalle. Rico aprí la bocca, cercò di incamerare un po’ dell’ossigeno contenuto nell’aria che puzzava di sudore, fumo di tabacco e qualcosa che sembrava pesce ma non lo era. Erano passati quarant’anni da quando la Pescheria Moen vendeva l’originale combinazione di pesce relativamente fresco al banco e riviste porno relativamente fresche sottobanco. Quando Moen aveva ceduto l’attività ed era andato in pensione per potersi ammazzare con l’alcol piú metodicamente, i nuovi proprietari avevano avviato nello scantinato un cinema aperto ventiquattr’ore su ventiquattro che proiettava film porno etero. Ma quando il vhs e i dvd avevano portato via i clienti, si erano specializzati nel reperimento e nella proiezione di film impossibili da trovare in rete, o almeno non senza rischiare una visita della polizia.

Il sonoro era talmente basso che Rico riusciva a sentire la gente che si faceva le seghe tutt’intorno nell’oscurità. Gli avevano spiegato che l’effetto era voluto, che lasciavano apposta il volume al minimo. Dal canto suo, aveva superato da un bel pezzo l’attrazione adolescenziale per le seghe di gruppo, non era questo il motivo per cui si trovava là. Né era questo il motivo per cui ci era andato appena uscito dal carcere, restandoci per due giorni e due notti, con l’unica interruzione delle indispensabili brevi uscite per mangiare, cacare e procurarsi da bere. In tasca aveva ancora quattro compresse di Roipnol. Doveva farle durare.

Ovviamente, non poteva passare il resto della sua vita nella Pescheria. Ma era riuscito a convincere sua madre a prestargli diecimila corone, e in attesa che l’ambasciata thailandese gli concedesse un visto turistico prolungato, la Pescheria offriva il buio e l’anonimato che lo rendevano introvabile.

Inspirò, ma era come se l’aria fosse costituita esclusivamente da azoto, argon e anidride carbonica. Guardò l’ora. La lancetta fosforescente indicava le sei. Pomeriggio o mattina? Là dentro era sempre notte, ma con ogni probabilità era pomeriggio. Il senso di soffocamento andava e veniva. Non doveva farsi venire un attacco di claustrofobia, non ora. Non prima di aver lasciato il paese. Di essere lontano. Lontanissimo da Valentin. Per la miseria, quanta nostalgia aveva della cella. Del senso di protezione. Della solitudine. Dell’aria respirabile.

La donna sullo schermo ce la metteva tutta, ma dovette spostarsi per seguire il cavallo che era avanzato di qualche passo venendosi a trovare per un attimo fuori fuoco.

– Ciao, Rico.

Rico si irrigidí. La voce era bassa, un bisbiglio, ma il suono sembrava un punteruolo di ghiaccio che gli perforava l’orecchio.

– Vanessa’s Friends. Un vero e proprio classico degli anni Ottanta. Lo sai che Vanessa morí durante le riprese? Fu calpestata a morte da una cavalla. Gelosia, secondo te?

Rico fece per girarsi, ma fu bloccato da una mano che gli stringeva la parte superiore della nuca, immobilizzandola come una morsa. Fece per urlare, ma un palmo inguantato gli aveva già coperto la bocca e il naso. Inspirò l’odore acre di lana bagnata.

– Mi hai deluso, è stato troppo facile trovarti. Un cinema per depravati. Troppo ovvio, no? – Una risata sommessa. – Per di piú il tuo cranio rosso brilla come un faro qua dentro. A quanto pare il tuo eczema si è riacutizzato ultimamente, Rico. Gli eczemi si aggravano con lo stress, non è vero?

Il palmo davanti alla sua bocca allentò la pressione permettendogli di inspirare un po’ d’aria. Sapeva di polvere di calce e sciolina.

– Si dice in giro che a Ila hai parlato con una poliziotta, Rico. Avevate argomenti in comune?

Il guanto di lana davanti alla sua bocca sparí. Rico respirò a fatica mentre con la lingua cercava la saliva.

– Non ho detto niente, – sbuffò. – Lo giuro. Perché avrei dovuto farlo? Sarei comunque uscito dopo pochi giorni.

– Per soldi.

– Ce li ho i soldi!

– Hai speso tutti i soldi che avevi per il roip, Rico. Scommetto che hai le pasticche in tasca adesso.

– Non sto scherzando! Dopodomani me ne vado in Thailandia. Non ti caccerò nei guai, te lo giuro.

Rico capí che le sue ultime parole sembravano la supplica di un uomo terrorizzato, ma non gli importava. Era terrorizzato.

– Datti una calmata, Rico. Non ho intenzione di fare del male al mio tatuatore, uno si fida dell’uomo da cui si è fatto ficcare gli aghi nella pelle. O no?

– Ti… ti puoi fidare di me.

– Bene. Pattaya dovrebbe essere un bel posto.

Rico non rispose. Non aveva detto che sarebbe andato a Pattaya, come…? Fu catapultato indietro quando l’altro afferrò il suo schienale per alzarsi.

– Devo scappare, un lavoretto mi aspetta. Comunque, goditi il sole, Rico. Ho sentito dire che fa bene agli eczemi.

Rico si voltò e alzò lo sguardo. L’altro si era camuffato coprendosi la parte inferiore del viso con una sciarpa, e il buio gli impediva di vedere bene gli occhi. L’uomo si abbassò bruscamente verso di lui:

– Lo sapevi che quando fecero l’autopsia a Vanessa le trovarono delle malattie veneree di cui la scienza medica ignorava l’esistenza? Non tradire la tua specie, ecco il mio consiglio.

Rico seguí con lo sguardo la figura che si affrettava verso l’uscita. La vide togliersi la sciarpa. Fece in tempo a scorgere la luce verde dell’insegna della porta lambirgli il viso prima che sparisse dietro la tenda nera di feltro. Fu come se l’ossigeno riaffluisse nella sala, e Rico lo inspirò avidamente mentre batteva le palpebre guardando l’omino in corsa sul cartello dell’uscita.

Era confuso.

Confuso perché era ancora vivo e confuso da quello che aveva appena visto. Non dall’inclinazione dei pervertiti a notare le vie di fuga, l’avevano sempre avuta. Ma dal fatto che non era lui. La voce era la stessa, e anche la risata. Ma l’uomo che aveva visto nella luce dell’insegna per una frazione di secondo, non era lui. Non era Valentin.

– E cosí ti sei trasferito qui? – domandò Beate guardandosi intorno nella cucina spaziosa. Fuori della finestra il buio era sceso su Holmenkollåsen e sulle ville vicine. Non ce n’erano due uguali, ma condividevano la caratteristica di essere grandi il doppio della casa che Beate aveva ereditato dalla madre nella zona est, di avere siepi alte il doppio, garage doppi e doppi cognomi sulla cassetta della posta. Beate sapeva di essere prevenuta nei confronti della zona ovest, ma ciononostante le faceva uno strano effetto collocare Harry Hole in quell’ambiente.

– Sí, – rispose lui versando il caffè a entrambi.

– Non ti senti… solo?

– Mhm. Anche tu e la piccola vivete da sole, no?

– Sí, ma… – Beate non concluse la frase. Avrebbe voluto dire che lei abitava in una graziosa casina dipinta di giallo eretta all’epoca della ricostruzione del secondo dopoguerra nello spirito di Gerhardsen, sobrio e pratico, lontano dallo stile nazional-romantico che spingeva la gente danarosa a edificare fortezze che somigliavano a baite come questa. Con legname mordenzato di nero e gli incastri a mortasa-tenone che perfino nei giorni di sole le immergeva in un’atmosfera di perenne buio e di tristezza come la villa che Rakel aveva ereditato dal padre.

– Rakel torna a casa nei fine settimana, – disse lui portandosi la tazza alle labbra.

– Quindi, va tutto bene?

– Va tutto benissimo.

Beate annuí e lo guardò. I cambiamenti. Gli erano venute le rughe d’espressione intorno agli occhi, ma ciononostante sembrava ringiovanito. La protesi di titanio che aveva rimpiazzato il medio destro tintinnò sommessamente contro la tazza.

– E tu? – domandò Harry.

– Bene. Indaffarata. La piccola ha avuto il permesso di assentarsi da scuola per andare a stare dalla nonna a Steinkjer.

– Davvero? Fa venire i brividi vedere quanto… – Lui socchiuse gli occhi e rise sottovoce.

– Sí, – disse Beate bevendo un sorso di caffè. – Harry, volevo vederti perché mi piacerebbe sapere che cosa è successo.

– Lo so, – disse Harry. – Avevo intenzione di farmi vivo. Ma dovevo prima provvedere a Oleg. E a me stesso.

– Racconta.

– Okay, – disse Harry posando la tazza. – Sei l’unica persona che ho informato all’epoca dei fatti. Mi hai aiutato, e ho un grande debito di riconoscenza nei tuoi confronti, Beate. E sei l’unica persona a cui ne parlerò, se vuoi. Ma sei sicura di voler sapere? Potresti ritrovarti in un dilemma.

– Sono diventata tua complice nello stesso momento in cui ti ho aiutato, Harry. E ci siamo liberati della violina. È sparita dalla strada.

– Magnifico, – disse lui distaccato. – Il mercato è di nuovo dell’eroina, del crack e dello speedball.

– E l’uomo della violina non c’è piú. Rudolf Asajev è morto.

– Lo so.

– Ah? Sapevi che è morto? Sapevi che è stato in coma sotto falso nome al Rikshospital per mesi prima di morire?

Harry inarcò un sopracciglio. – Asajev? Credevo fosse morto in una stanza del Leons.

– Lo hanno trovato là. Il pavimento era coperto di sangue da un muro all’altro. Ma sono riusciti a tenerlo in vita. Finora. Come fai a sapere del Leons? Tutta quella storia è stata tenuta nascosta.

Harry non rispose, limitandosi a rigirare la tazza di caffè fra le mani.

– Maledizione, non… – ansimò Beate.

Harry si strinse nelle spalle. – Ti ho detto che forse non avresti voluto sapere.

– Sei stato tu a piantargli quel coltello in corpo?

– Va meglio se dico che è stato per legittima difesa?

– Abbiamo trovato una pallottola conficcata nel legno del letto. Ma la ferita del coltello era grande e profonda, Harry. Il medico legale ha detto che sicuramente la lama era stata rigirata piú volte.

Lui abbassò lo sguardo sulla tazza. – Be’, evidentemente però non ho fatto un lavoro abbastanza accurato.

– Sinceramente, Harry… tu… tu… – Beate non era abituata ad alzare la voce, che sembrava la lama tremolante di una sega.

– Ha trasformato Oleg in un drogato, Beate –. Harry aveva parlato sottovoce e senza alzare lo sguardo dalla tazza.

Indugiarono senza dire nulla ascoltando l’esclusivo silenzio di Holmenkollen.

– È stato Asajev a spararti in testa? – domandò infine Beate.

Harry si passò un dito sopra la cicatrice nuova sul lato della fronte. – Cosa ti fa pensare che sia un colpo d’arma da fuoco?

– Già, che ne so io delle ferite da arma da fuoco? Non sono che un tecnico della Scientifica.

– Okay, è stato uno che aveva lavorato per Asajev, – disse Harry. – Tre colpi a distanza ravvicinata. Due nel petto. Il terzo in testa.

Beate lo guardò. Capí che stava dicendo la verità.

– E come hai fatto a sopravvivere?

– Indossavo il giubbotto antiproiettile da due giorni e due notti. Perciò era ora che si rendesse utile. Ma il colpo in testa mi ha messo fuori combattimento. E mi avrebbe ucciso se…

– Se…?

– Se il tizio non si fosse precipitato alla guardia medica di Storgata. Ha costretto un dottore a seguirlo e quello mi ha salvato.

– Ma cosa dici? Perché non ne ho saputo niente?

– Il medico mi ha rappezzato sul posto. Avrebbe voluto ricoverarmi, ma mi sono svegliato in tempo e fatto portare a casa.

– Perché?

– Non volevo creare trambusto. Come va con Bjørn al di fuori del lavoro? S’è trovato una donna?

– Quel tizio… prima ha cercato di ucciderti e poi ti ha salvato? Chi…

– Non ha cercato di uccidermi, è stato un incidente.

– Un incidente? Tre colpi non sono un incidente, Harry.

– Sí, se sei in crisi di astinenza da violina e impugni un’Odessa.

– Un’Odessa? – Beate sapeva dell’esistenza di quell’arma. Una sottomarca della Stechkin russa. Nelle foto l’Odessa sembrava un attrezzo saldato da uno scolaro mediocre durante la lezione di Applicazioni tecniche, il bastardo tracagnotto di una pistola e una mitragliatrice. Ma era popolare tra gli urka, i professionisti del crimine russi, perché poteva sparare sia colpi singoli sia raffiche. Una leggera pressione sul grilletto di un’Odessa ed ecco che avevi sparato due colpi. O tre. Beate si ricordò subito che l’Odessa caricava il raro calibro Makarov nove per diciotto millimetri, lo stesso con cui era stato ucciso Gusto.

– Mi piacerebbe vedere quell’arma, – disse lentamente e vide lo sguardo di Harry volgersi d’istinto verso il soggiorno. Si girò. Non notò niente, solo un vecchissimo cantonale nero.

– Non mi hai detto chi era quel tizio, – riprese.

– Non ha importanza, – disse lui. – Ormai è fuori dalla tua giurisdizione.

Beate annuí. – Stai proteggendo qualcuno che per poco non ti ha ucciso.

– Tanto piú è da lodare per avermi salvato la vita.

– È per questo che lo proteggi?

– Spesso il modo in cui scegliamo chi vogliamo proteggere è un mistero, non trovi?

– Sí, – rispose lei. – Prendi me, per esempio. Io proteggo i poliziotti. Siccome mi occupo di riconoscimento facciale, ho partecipato all’interrogatorio del barman di Come As You Are, il locale dove quel trafficante che lavorava per Asajev è stato ucciso da un uomo alto e biondo con una cicatrice che andava dall’angolo della bocca all’orecchio. Ho mostrato delle foto al barman mentre gli parlavo a raffica. Come sai, è facilissimo manipolare la memoria visiva. I testimoni non ricordano piú quello che credevano di ricordare. Alla fine il barman era sicuro che l’uomo del bar non fosse affatto l’Harry Hole che gli avevo mostrato in fotografia.

Lui la guardò. Poi annuí adagio. – Grazie.

– Stavo per dire che non mi devi ringraziare, – disse Beate portandosi la tazza alla bocca. – Ma ci ho ripensato. E ho un suggerimento su come potresti farlo.

– Beate…

– Io proteggo i poliziotti. Sai bene che quando un agente muore in servizio per me è un fatto personale. Jack. E mio padre –. Si rese conto di essersi portata involontariamente la mano all’orecchino. Al bottone della divisa del padre, che aveva fatto modificare. – Non sappiamo chi sarà il prossimo, ma ho deciso di fare qualunque cosa per fermare quel demonio, Harry. Qualunque cosa. Capisci?

Lui non rispose.

– Scusa, è ovvio che mi capisci, – disse Beate sottovoce. – Tu hai i tuoi morti cui pensare.

Harry strofinò il dorso della mano destra contro la tazza come se avesse freddo. Poi si alzò e raggiunse la finestra. Esitò prima di parlare.

– Come sai, un assassino è venuto qui con l’intenzione di uccidere Oleg e Rakel. Per colpa mia.

– È successo tanto tempo fa, Harry.

– È successo ieri. Sarà sempre ieri. Non è cambiato nulla. Ma ci provo ugualmente. A cambiare me stesso.

– E come va?

Harry si strinse nelle spalle. – Ci sono alti e bassi. Ti ho mai raccontato che dimenticavo sempre di comprare il regalo di compleanno per Oleg? Anche se Rakel mi ricordava la data con settimane di anticipo, chissà come rimuovevo puntualmente quell’informazione. Poi arrivavo qui, notavo le decorazioni di compleanno e mi trovavo costretto a ricorrere al solito vecchio trucco –. Sollevò un angolo della bocca abbozzando un sorriso. – Dicevo che dovevo uscire a comprare le sigarette, salivo in macchina, mi precipitavo alla stazione di servizio piú vicina, compravo un paio di cd o qualcosa del genere. Sapevamo che Oleg avrebbe mangiato la foglia, perciò io e Rakel avevamo stretto un patto. Appena entravo dalla porta, trovavo Oleg che mi fissava con quegli occhi scuri e accusatori. Ma prima che potesse perquisirmi lei mi si gettava al collo come se fossi tornato dopo una lunga assenza. E durante l’abbraccio sfilava i cd, o quello che era, dalla cintura dei pantaloni dietro la mia schiena, li nascondeva e si scansava mentre Oleg mi dava l’assalto. E dieci minuti dopo Rakel aveva incartato il regalo, con tanto di bigliettino.

– E?

– E poco tempo fa è stato il compleanno di Oleg. Gli ho dato un regalo già confezionato. Mi ha detto che non riconosceva la scrittura del bigliettino. Gli ho spiegato che era perché era la mia.

Beate fece un breve sorriso. – Una bella storia. Con tanto di happy end.

– Ascolta, Beate. Devo tutto a quelle due persone, e ho ancora bisogno di loro. E per mia fortuna anche loro hanno bisogno di me. Come madre sai quale benedizione e maledizione sia essere necessario per qualcuno.

– Sí. E io sto cercando di dirti che anche noi abbiamo bisogno di te.

Harry tornò indietro. Si sporse sopra il tavolo verso di lei. – Non quanto loro due, Beate. E nessuno è indispensabile nel suo lavoro, neanche…

– No, certo, riusciremo a rimpiazzare gli agenti uccisi. Uno era in pensione, per giunta. E troveremo anche un numero sufficiente di persone che prendano il posto dei prossimi che saranno macellati.

– Beate…

– Le hai viste, queste?

Harry evitò di guardare le foto che lei aveva estratto dalla borsa e stava posando sul tavolo della cucina.

– Stritolati, Harry. Non restava un solo osso intero. Perfino io ho fatto fatica a identificarli.

Lui restò impalato. Come un padrone di casa che segnali che si è fatto tardi. Ma Beate rimase seduta. Bevette un piccolo sorso dalla tazza. Non si mosse. Harry sospirò. Lei prese un altro sorso.

– Oleg vuole iscriversi a Giurisprudenza quando tornerà dalla clinica di disintossicazione, vero? E poi fare domanda alla Scuola di polizia.

– Chi te lo ha detto?

– Rakel. Ho parlato con lei prima di venire qui.

Gli occhi chiari, azzurri di Harry si rabbuiarono: – Che cosa hai fatto?

– Le ho telefonato in Svizzera e le ho esposto la questione. Ho davvero esagerato, e mi dispiace. Ma, come ho detto, sono disposta a fare qualunque cosa.

Harry mosse le labbra in un’imprecazione muta. – E che cosa ti ha detto lei?

– Che stava a te decidere.

– Già, immagino.

– E adesso, ti prego, Harry. Ti prego, in nome di Jack Halvorsen. In nome di Ellen Gjelten. Ti prego in nome di tutti i poliziotti morti. Ma innanzitutto, ti prego in nome di quelli che sono ancora vivi. E di quelli che forse diventeranno poliziotti.

Vide le mascelle di lui muoversi freneticamente. – Ti avevo chiesto di non manipolare i testimoni per causa mia, Beate.

– Tu non chiedi mai niente, Harry.

– Bene. È tardi, perciò pensavo di chiederti…

– … di andarmene –. Lei annuí. Harry aveva assunto quello sguardo che induceva la gente a obbedirgli. Allora Beate si alzò e andò nell’ingresso. Si infilò la giacca, l’abbottonò. Lui, nel vano della porta, la guardava.

– Scusa se sono cosí disperata, – disse. – Ho sbagliato a intromettermi nella tua vita. Il nostro è un lavoro. Nient’altro che un lavoro –. Si rese conto che la voce stava per tradirla e si sbrigò a dire il resto: – E ovviamente hai ragione, ci devono essere delle regole e dei limiti. Ciao.

– Beate…

– Dormi bene, Harry.

– Beate Lønn.

Lei aveva già aperto la porta d’ingresso, voleva uscire, uscire prima che lui vedesse i suoi occhi pieni di lacrime. Ma Harry le si era piantato alle spalle e con una mano teneva il bordo superiore del battente. La sua voce le sfiorò l’orecchio:

– Vi siete chiesti come l’assassino sia riuscito a indurre i poliziotti a raggiungere spontaneamente le sue vecchie scene del crimine nella stessa data in cui aveva commesso l’omicidio?

Beate lasciò la maniglia. – Che vuoi dire?

– Voglio dire che leggo i giornali. C’era scritto che l’agente Nilsen è andato a Tryvann con una Golf ritrovata nel parcheggio, e che nella neve c’erano soltanto le sue orme lungo il percorso che ha fatto per scendere fino al gabbiotto. E che avete le immagini del video di una stazione di servizio di Drammen in cui si vede Anton Mittet da solo nella sua macchina poco prima che fosse ucciso. Anche se sapevano che dei poliziotti erano stati ammazzati proprio con quel sistema, sono accorsi lo stesso.

– Certo che ce lo siamo chiesto, – disse Beate. – Ma non abbiamo trovato una risposta certa. Sappiamo che poco prima hanno ricevuto una chiamata da una cabina telefonica nei pressi della scena del crimine, perciò immaginiamo avessero capito chi era e che avevano la possibilità di catturare l’assassino da soli.

– No, – disse Harry.

– No?

– La squadra della Scientifica ha trovato una pistola della polizia scarica e una scatola di cartucce nel vano portaoggetti dell’auto di Anton Mittet. Se pensava di trovare l’assassino sul posto come minimo avrebbe caricato la pistola prima.

– Magari non ne ha avuto il tempo e ha pensato di farlo solo una volta arrivato là, e l’assassino ha colpito prima che potesse aprire il vano portaoggetti e…

– Ha ricevuto la chiamata alle dieci e trenta e ha fatto benzina alle dieci e trentacinque. Quindi ha avuto il tempo per fare benzina dopo la telefonata.

– Forse stava per rimanere a secco?

– No. L’«Aftenposten» ha pubblicato il video della stazione di servizio sul suo sito con il titolo: Le ultime immagini di Anton Mittet prima di essere giustiziato. Si vede un uomo che fa benzina per appena trenta secondi prima che la pistola erogatrice sussulti, il segnale che il serbatoio è pieno. Perciò Mittet aveva carburante piú che sufficiente per raggiungere la scena del crimine e tornare a casa: e anche questo conferma che non c’era nessuna urgenza.

– Bene, quindi avrebbe potuto caricare la pistola là, ma non lo ha fatto.

– Tryvann, – disse Harry. – Anche Bertil Nilsen aveva una pistola nel vano portaoggetti della Golf. Ma non l’ha portata con sé. Abbiamo, quindi, due poliziotti con un’esperienza in casi di omicidio che si presentano sul luogo di un delitto irrisolto, pur sapendo che di recente un collega è stato ucciso proprio in quel modo. Potrebbero armarsi ma non lo fanno, e apparentemente non hanno alcuna fretta. Poliziotti esperti che non ambiscono piú a giocare agli eroi. Che cosa vi dice tutto questo?

– Okay, Harry, – disse Beate, si girò e appoggiò la schiena alla porta, che si richiuse. – Che cosa dovrebbe dirci?

– Dovrebbe dirvi che non si aspettavano di trovare un assassino da catturare.

– Eh già, non se lo aspettavano. Magari pensavano che fosse un appuntamento con una bella donna che si eccitava a fare sesso sulla scena di un crimine.

Lei aveva voluto fare una battuta, ma Harry rispose senza scomporsi: – Un preavviso troppo breve.

Beate rifletté. – E se l’assassino si fosse spacciato per un giornalista che voleva parlare di altri delitti irrisolti sulla scia di questi? E avesse detto a Mittet di volerlo vedere la sera tardi per avere l’atmosfera giusta per gli scatti del fotografo?

– Le scene del crimine sono un po’ fuori mano. Perlomeno Tryvann: a quanto ho capito Bertil Nilsen veniva da Nedre Eiker, che è a piú di mezz’ora di viaggio in auto. E i poliziotti seri non fanno volontariato per aiutare la stampa a pubblicare l’ennesimo articolo choc di cronaca nera.

– Dicendo che non fanno volontariato, intendi…

– Sí, intendo proprio questo. Secondo me erano convinti che fosse una faccenda di lavoro.

– Che fosse stato un collega a chiamarli?

– Mhm.

– L’assassino li ha chiamati, spacciandosi per un agente che lavorava su quella scena del crimine perché… perché potenzialmente l’omicida dei poliziotti avrebbe potuto colpire là la prossima volta e… e… – Beate tirò il bottone della divisa che portava all’orecchio – … ha detto che aveva bisogno del loro aiuto per ricostruire il primo omicidio!

Si accorse che stava sorridendo come una scolaretta che aveva appena dato la risposta giusta al maestro e arrossí addirittura quando lui rise:

– Fuoco! Ma considerate le restrizioni sugli straordinari penso che Mittet si sarebbe stupito di essere stato convocato nel cuore della notte anziché durante l’orario di lavoro, quando per giunta è giorno e c’è luce.

– Mi arrendo.

– Eh? – disse Harry. – Come ci riesce, un collega, ad attirarti dovunque nel cuore della notte con una telefonata?

Beate si batté la fronte. – Ma certo, – disse. – Quanto siamo stati idioti!


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