venerdì 11 settembre 2020

IL DOTTORE È MALATO Anthony Burgess

  

 


IL DOTTORE È MALATO 

Anthony Burgess 

Traduzione di Roldano Romanelli 

Titolo originale: The Doctor Is Sick 

© 1960 by the Estate of Anthony Burgess 

© 2004 by Fanucci Editore 

A L.W. 

«E questo che odore è?» volle sapere il dottor Railton  cacciando sotto il naso a Edwin una specie di calamaio. 

«Potrei sbagliare, ma direi menta piperita.» Attese il gong del signor indovinalagrillo. Di là dai paraventi a rotelle che gli accerchiavano il letto si udiva pasteggiare il resto del padiglione. 

«Infatti ha sbagliato, temo» dichiarò il dottor Railton. «Lavanda.» Gong. Ma Edwin era ancora in gara. «E questo?» 

«Probabilmente agrumi o giù di lì.» 

«Nuovo errore. Gravissimo errore. Chiodi di garofano.» Parve sottintendere un giudizio d'ordine morale il tono d'accusa insinuatosi nella voce gentile. Gentilmente il dottor Railton sedette sul bordo del letto. Gentilmente chinò su Edwin gli effeminati occhi castani dalle lunghe ciglia. «Andiamo maluccio, eh? Maluccio davvero.» Quali strumenti di un'orchestra d'invalidi, coltelli e forchette picchierellavano e razzolavano gracilmente. 

«Ho il raffreddore» disse Edwin. «Per via del brusco mutamento di clima.» L'agonizzante anno inglese rantolava alle finestre del reparto come per mendicarvi un letto. 

«Faceva abbondantemente oltre i trenta quando abbiamo lasciato Moulmein2.» 

«Sua moglie l'ha accompagnata?» 

«Sì. Ufficialmente in veste d'infermiera. Ma ha sofferto mal d'aria per gran parte del viaggio.» 

«Capisco.» Il dottor Railton annuiva, annuiva, come se il caso fosse davvero grave assai. «Bene, ci sono vari altri accertamenti che dovremo condurre. Non adesso, s'intende. Ci daremo sotto con tutti i crismi lunedì.» Edwin si rilassò. Il dottor Railton, avvedutosene, tornò lesto alla carica con un diapason che brandì, sfrigolante come un attizzatoio, all'altezza della guancia destra di Edwin. «Lo sente?» 

«Do sotto il rigo.» 

«No, no, mi dica se lo avverte.» 

«Oh, sì.» Impedì a Edwin di cantar vittoria l'espressione arcigna del dottor Railton, che rincarò immediatamente la dose domandando: 

«Come definirebbe una 'spirale'?» 

«Spirale? Oh, be', sa, tipo una scala a chiocciola, una cosa a forma di vite.» Edwin si diede con ambo le mani a disegnar spirali in aria. «Una roba che sale sale sale e gira gira gira ma a ogni giro diventa sempre più piccola più minuscola più infinitesima finché a un certo punto non resta un bel niente di niente. Non so se ho reso l'idea.» E, supplice, lo sguardo di Edwin implorò che tale definizione fosse accettata. 

«Proprio così» dichiarò il dottor Railton con la sua nuova aria truce. «Proprio così.» Ma evidentemente non si riferiva alla definizione. «Ordunque» disse. Si alzò dal bordo del letto e spinse via brutalmente i paraventi. Quelli scorsero cigolanti a ruota libera di circa un metro svelando con terrificante subitaneità una camerata piena di sbafatori di gelato. «Giù da quel letto» intimò non meno brutalmente il dottor Railton con un gesto che significava bando all'ipocondria. Edwin aveva perso la cintola dei pantaloni del pigiama chissà dove fra Moulmein e Londra, e arrossì nel sollevarsi di torno alle caviglie le pieghe zebrate. I divoratori di gelato osservarono impassibili come fosse una pubblicità televisiva. «Ora» disse il dottor Railton «cammini in linea assolutamente retta da qui a quell'uomo laggiù.» Indicò un paziente dall'aria ansiosa che annuì, apparentemente ben disposto a partecipare a qualsivoglia utile esperimento, un paziente imprigionato in gabbie e serpentine di tubature di gomma. Edwin avanzò come un ubriaco. «Benissimo» approvò il paziente ansioso a mo' d'incoraggiamento. «Se la cava ch'è una meraviglia, garantito.» 

«Adesso torni indietro» ordinò il dottor Railton. («Arrivederci» salutò il paziente ansioso.) Edwin invertì la rotta procedendo più sbronzo di prima. «Ora torni a letto» ingiunse il dottor Railton. Poi, come se nulla di tutto ciò andasse davvero preso troppo sul serio, come se lo pagassero proprio per comportarsi a quel modo e davanti a due boccali di birra non si potesse incontrare al mondo persona più amabile di lui, il dottor Railton ruppe in una risata fanciullesca e cazzottò per celia Edwin sul petto, gli scompigliò i capelli e cercò quasi di staccargli un pezzo di spalla. 

«Lunedì» promise continuando a ridere mentre varcava la soglia «cominciamo veramente.» 

Edwin volse lo sguardo sui compagni di stanza che ora giacevano satolli leccandosi i baffi. 

«Lo sa chi era?» gli domandò il paziente ansioso. 

«Il dottor Railton, no?» 

«Certo, si capisce. No, chi era prima, intendo. Vuol dire che non lo sa? Quello è Eddie Railton.» 

«Davvero?» 

«Ai tempi che studiava medicina compariva in tivù. Suonava la tromba niente male, garantito. C'era da aspettarselo, non crede?» 

Un inserviente negro si accostò al capezzale di Edwin. Carezzò lentamente le coltri, fissandolo attraverso le spesse lenti da intellettuale con un paio d'occhi limpidi e luminosi. «Adesso» disse «mangerà.» 

«No, credo proprio che non mi vada.» 

«E invece sì, mangerà. Deve mangiare. Tutti devono mangiare.» Toni profondi da sermone negro. Si diresse all'uscita con incedere austero. Annidato fra i suoi tubi, il paziente ansioso lo chiamò: 

«Ehi, ci vada a prendere un giornale della sera. A quest'ora c'è un tizio che li vende nell'atrio.» 

«Non ho tempo» rispose l'inserviente negro «di andare a prendere i giornali della sera.» E filò via. 

«Ecco qua» commentò disgustato il paziente ansioso. «C'era da aspettarselo, non crede? Proprio un bell'esempio di buon samaritano, vero? Insomma, come volevasi dimostrare, no? Roba da uscir di sentimento, sul serio.» 

Scrutando depresso il padiglione Edwin si gingillò con del pesce lesso e una mestolata di purè di patate. Tranne il degente limitrofo erano tutti coricati. La maggior parte indossava turbanti a mo' di pellegrini alla Mecca, ancorché sintomo non fossero di grazia bensì di teste rapate. Una stanza piena di hajji  male in arnese. Seduto sul letto in vestaglia il vicino di Edwin fumava con aria tetra guardando la sera londinese nella piazza immobile. Recava impresso in faccia un ghigno patologico, elemento di una sindrome complessa. Quel pomeriggio, poco dopo l'arrivo di Edwin, erano venuti a trovarlo due pazienti di un altro reparto, anch'essi ghignanti, per confrontare i ghigni. Una specie di club dei ghignatoli. Alla fine avevano salutato ghignando il ghignante vicino di Edwin e ghignando se n'erano andati. Assai deprimente. 

Florida in modo deprimente fece il suo ingresso una vice caposala, e l'uomo ansioso ingabbiato e tubificato l'accolse con un «'Sera, infermiera.» La vice caposala si diresse senza rispondere verso il fondo del reparto. «Ecco qua» disse l'uomo ansioso. «C'era da aspettarselo, non trova? Che diavolo avrò fatto di male? Le dico buonasera e quella non mi dice né buonasera né vaffanculo ne crepa. Roba da uscir dai gangheri, nevvero?» 

«No,» disse Edwin «il gelato non lo voglio. No, grazie tante, niente gelato. No, per favore, no. Niente gelato.» 

«Calma» replicò il negro in tono da predicatore. «Si rilassi, amico mio. È qui per questo, per rilassarsi. Nessuno la costringe a mangiar gelato se il gelato non lo vuole. Però glielo lascio qui al capezzale casomai cambiasse idea e più tardi le venisse voglia di mangiar gelato.» 

«No,» insisté Edwin «no. Il gelato non mi piace. Per favore, lo porti via.» 

«Su, si rilassi. Magari più tardi le andrà di mangiarlo.» L'inserviente negro se ne andò col suo incedere austero. Edwin scese esasperato dal letto e afferrò la fondente coppetta gelida deciso a tirargliela dietro. Ma la ragione ebbe il sopravvento. «Vacci piano, stai attento, non te la prendere, pensa che gusto ci avrebbero a vederti fare una cosa del genere.» 

«Se non lo vuole,» disse l'uomo ansioso in mezzo ai tubi «lo dia a me. Lo offrirò al mio giovanotto quando viene a trovarmi stasera. Gli piace un sacco quella roba lì. Tutta la roba fredda. Ci va a nozze, ci va.» 

Edwin s'infilò la vestaglia, un capo in seta cinese brulicante di draghi, e si diresse a passo felpato verso il letto dell'uomo. Ai cui piedi faceva bella mostra di sé una vasta messe di diagrammi: liquidi in ingresso e in uscita, tasso salino in circolo, contenuto proteico del fluido cerebrospinale, e così pure grafici di temperature e pulsazioni ricchi di picchi e profonde vallate. Il nome che tutti li contraddistingueva era semplice e fiero… R. Dickie4. «Gradirebbe una visitina alla mia gasofficina?» propose R. Dickie. «Questo tubo qui con quella bottiglia capovolta lassù serve a versarmi dentro vattelapesca che medicina, e questo tubo qua mi s'attacca in un certo posticino, e quel tubo là mi s'infilza nel gobbo, e quell'altro non so di preciso neanch'io dove va a finire. E quella specie di gru è messa che mi ci posso sollevare, e quella specie di gabbia è per fare in modo che niente mi tocchi le gambe. Incredibile cosa riescono a escogitare, vero? Attento a non rovesciare quella bottiglia lì per terra perché quel tubo che ci s'accrocca da una parte mi s'appicca al buon vecchio aggeggio da quell'altra. Ci gocciola dentro tutto il santo giorno. E dopo la misurano. Fantastico, no? Per davvero.» Aveva una faccia rossastra da cinquantenne e i capelli parecchio in disordine, come se il suo soggiorno ospedaliero fosse stato un'ardua crociera su un peschereccio a strascico. 

«Cosa le è successo?» domandò Edwin. 

«Lavorando sono caduto da una maledetta scala. Faccio il muratore, io.» 

Un incidente semplice e drammatico, un lavoro rischioso di cui essere orgoglioso. Edwin pensò al proprio lavoro, al proprio incidente. Insegnante di linguistica in una università birmana, un giorno, senza il minimo preavviso, s'era accasciato sul pavimento dell'aula nel bel mezzo d'una lezione. Stava parlando di etimologia popolare (penthouse, primrose, Jerusalem artichoke ) allorché, del tutto repentinamente, aveva perso i sensi. Nel riprendere conoscenza aveva trovato piatti volti birmani delicatamente brunastri chini con espressione allarmata su di lui che stava dicendo: «E proprio questione di assimilare l'ignoto al noto, vedete, il rifiutar di ammettere che una parola straniera è davvero straniera.» Intanto che giaceva sul pavimento fresco aveva visto distintamente, in margine al gruppo che l'attorniava, un paio di studenti annotare le sue parole nei propri quaderni. «Mentre altri non celebriamo che quello orizzontale6» aveva soggiunto. Anche questo era stato annotato. 

Prendendo la faccenda molto sul serio, i medici lo avevano sottoposto a una noiosissima sequela di accertamenti. Una puntura lombare aveva rivelato un'elevata eccedenza di proteine nel fluido cerebrospinale. «Il che mostra la presenza di qualcosa che non dovrebb'esserci» aveva sentenziato il dottor Wall. «Sarà meglio rispedirla in Inghilterra a consultare un neurologo.» Per questo si trovava a Londra, a chiacchierare con un muratore caduto da una scala. 

«È successo in Germania» rivelò R. Dickie. «Fosse capitato qui, magari le cose potevano andare diversamente. Guardi, eccoli che arrivano, li stanno facendo entrare.» 

Li stavano facendo entrare. Via dalla stanza fiori a carrellate, riempimento di bottiglie per la notte, e porte aperte ai visitatori. Giunsero al letto di R. Dickie varie donne ingrigite e un pargoletto succhiapollice che principiò a mangiare il gelato di Edwin. Ai prostrati pellegrini della Mecca si approssimarono con braccia onuste di grappoli festose famigliole annoveranti aitanti uomini in maglione recanti copie di The Autocar. Da Edwin Spindrift si recò Sheila Spindrift. Insieme a Sheila Spindrift c'era un uomo che Edwin non conosceva. 

«Caro,» disse Sheila «ti presento Charlie. Ti chiami Charlie, vero? Bene. L'ho incontrato al bar e ha avuto la cortesia di accompagnarmi. Non ero tanto sicura di ritrovare la strada, di notte.» Sheila aveva un'aria un po' svagata: in disordine i capelli neri, screpolato in faccia il fondotinta. Edwin era in grado di valutare, quasi al millimetro cubo, quanto sua moglie avesse bevuto. Non gliene voleva, ma avrebbe preferito che si fosse astenuta dal rimorchiare quel Charlie. 

Charlie abbrancò la mano destra di Edwin con entrambe le sue grosse tiepide zampe callose. «Allora tu sei Edward» disse calorosamente con voce baritonale in stretta cadenza popolaresca londinese. «Tua moglie al bar ce l'ha detto a tutti quanti della tua malattia. Piacere veramente di conoscerti, ma proprio tanto.» D'una avvenenza grossolana e minacciosa, indossava un azzurro vestito buono da classe operaia. 

«Mi ha accompagnato fin qui passo passo» ribadì Sheila «perché al buio non ero tanto sicura della strada. Ed è stato così caro. Guarda un po' cosa ti ha comprato. Ha insistito per fermarsi a comprartele all'edicola della stazione della metro. Ha detto che avresti gradito qualcosa da leggere.» 

«È stato un vero piacere» disse Charlie, ed estrasse dalle tasche laterali fasci di riviste chiassose… Girls, Form Divine, Laugh It Off, Vibrant Health, Nude, Naked Truth, Grin, Brute Beauty. «Perché» spiegò «tua moglie m'ha detto che ti piace leggere, proprio come a me, e quand'uno è malato non c'è niente di meglio di una buona lettura per passare il tempo.» 

Squadernò a titolo d'esemplificazione un periodico, e uomini e donne nudi sorrisero fiaccamente, detumescevolmente, sotto le plafoniere del padiglione. «E se ci sedessimo?» propose Charlie, ed Edwin, sentendo di comportarsi da cattivo ospite, guidò i visitatori sino al suo letto. «Allora,» disse Charlie «cos'è che tua moglie dice che fai?» 

«Insegno linguistica.» 

«Aha.» Sedettero tutti e tre sul letto, le gambe ciondoloni. «Mai sentita» dichiarò Charlie. «Garantito. Intendiamoci, non dico che non esiste, solo che non m'era mai capitato di udirla.» 

«Oh,» disse Edwin «esiste eccome.» 

«Possibilissimo, ma, anche se esiste, è lontana le mille miglia da gente come me e lei.» Accennò col capo a Sheila. «Io faccio il lavavetri. Tutti capiscono che vuol dire, e non finisci in posti come questo se fai un lavoro del genere. Intendiamoci, puoi finire in ospedale anche se fai il lavavetri, ma non in un ospedale come questo, perché lavare i vetri non incide sul cervello. Non se sei tagliato per quel lavoro, cioè. Certa gente non c'è tagliata, e secondo me è più che probabile che nemmeno te ci sei tagliato. Mica per offendere, ma a ciascuno il suo mestiere. Se tu salissi in cima a una di quelle scale probabilmente t'incepperesti. Ne ho visti di giovani principianti acrobati li chiamiamo - restarsene grippati in vetta a una scala, e nessuno può fare un cavolo di niente per farli scendere se non sono disposti a scendere. Insomma, possono sbloccarsi solo di propria iniziativa. Ricordo quando tentai di schiodargli le mani, a uno di questi acrobati che s'era immobilizzato a venti piani d'altezza. Tirava un vento della malora e io sul davanzale a dargli manate per disincagliarlo, ma per quanto facessi non mi riuscì di smuoverlo.» 

Edwin soffriva di acrofobia. Sentì che la testa cominciava a girargli e poggiò delicatamente i piedi a terra. 

«Che ti faranno, caro?» domandò Sheila. 

«Mi sottoporranno ad accertamenti diagnostici» rispose Edwin. «Immagino che cercheranno di darmi un'occhiata dentro il cervello.» 

«Non lasciarglielo fare» ammonì Charlie. «Se non sei già matto ti ci fanno diventa-

re loro. Poi ti rinchiudono da qualche parte e non ne esci più e non riuscirai a convincere nessuno che è tutta colpa loro e mica tua. Il tuo cervello ti appartiene e non devi permettergli di trafficarci. Fa' che li prenda a cercar di guardare nel mio, di cervello» diffidò sprezzante. «Il cervello è un meccanismo delicato assai, un po' come un orologio o un cronometro.» 

Una suora indiana con baffi e basette sopraggiunse da dietro e disse: «Siignoora Spiindriift? Il dottore vorrebbe dirle una parolina in ufficio.» 

«Se cercano di strapparti l'autorizzazione a fare al suo cervello cose che altrimenti non oserebbero fare» insorse Charlie «digli chiaro e tondo di no. Semplicemente no. La parola più corta della lingua e una delle più espressive.» Ma Sheila s'era già incamminata verso la grande vasca di vetro che fungeva da ufficio in fondo al reparto. 

«A puro titolo informativo» puntualizzò Edwin «non è quella la parola più breve della lingua.» Sentiva che, espropriato com'era di tutto fuorché un pigiama, un letto e una bottiglia d'acqua, doveva affrontare quel losco lascivo lavavetri facendo sfoggio dell'unica autorevolezza in suo possesso. «La più succinta parte del discorso è l'articolo determinativo. Si tratta di un vero e proprio fonema. Mi riferisco, naturalmente, alla forma maschile plurale premessa a nomi che cominciano per consonante, tranne V impura - cioè seguita da altra consonante - 'z', 'x', i gruppi 'pn' e 'ps', i digrammi 'gn' e 'sc', e con l'eccezione del plurale di 'dio'.» Ciò precisato si sentì meglio, ma Charlie replicò: 

«Brava ragazza, tua moglie. E dico 'ragazza' senza volerle mancare di rispetto, intendendo con ciò 'donna' o magari 'giovane donna', a seconda dei punti di vista. Direi che ha più o meno la tua età, e a te ne darei trentotto, anche se ancora sfoggi una capoccia ben fronzuta. Oggi ero al bar, all'Anchor, e te la vedo entrare. Ha battuto Fred 

Titcombe a freccette. S'è scolata tante pinte quante me. Onore al merito.» 

Edwin avvertì lievitare un altro dì quegli inusitati accessi d'irritazione, per lui dimostrazione del suo stato morboso. «Lei mi divaga e non coglie il senso» protestò «delle mie osservazioni circa l'articolo determinativo. Non mi chiede neppure che cosa sia un fonema. E sono sicurissimo che lei lo ignora.» 

«Be',» ribatté Charlie imperturbato «ciò è totalmente irrilevante, nevvero? Non è pertinente, per così dire. C'è cataste di robe che non so ed è ormai troppo tardi per principiare a impararle.» 

«Ma no, macché.» Edwin rintuzzò un fiotto di pianto. «Lei sa perfettamente che non è mai troppo tardi.» Certuni dei visitatori più accosti, smaniosi che la campanella intervenisse a sloggiarli, avendo già detto tutto, e anche più di quanto avessero da dire, volsero speranzosi lo sguardo su Edwin. Ma, padroneggiandosi, egli tornò a sedersi silenziosamente sul letto, soffocando le lacrime. 

«Andrà tutto bene» disse Charlie. «Tieni a mente le mie parole. Ti passerà e sarai sano come un pesce.» Troppo radiosa, troppo gioiosa, Sheila tornò in quel momento e dichiarò: 

«Be', pare proprio che andrà tutto bene, non c'è nulla di nulla di cui preoccuparsi.» «Tutto qui» domandò Edwin «quel che aveva da dirti?» 

«Be', sì, più o meno. Dice che ti rimetterai perfettamente. Ecco quel che ha detto.» 

«Proprio quel che gli dicevo» disse Charlie. «E mica sono un medico.» 

Un'infermiera nigeriana, testa d'ebano deliziosamente modellata, fece ingresso con 

la campanella. «I visitatori per favore tutti fuori» decretò. Un'ondata di sollievo percorse il padiglione. Edwin constatò mestamente con quanta prontezza sua moglie si affrettasse a baciarlo, con quanta sollecitudine si spicciasse a promettergli di tornare il giorno dipoi, con quanta repentinità non esitasse a dirottare le labbra imbellettate verso il mondo sano in attesa di fuori. Charlie disse: 

«Leggi quei libri che t'ho portato. Su col morale. Smettila di rimuginare.» 

Alla partenza dei visitatori un sospiro di placida soddisfazione parve esalare da un capo all'altro del reparto: lo squillo della campanella aveva sfrattato quelli che, dopo tutto, erano estranei. Con le voci vivaci e gli abiti eleganti costoro personificavano l'universo mondano. Ora ciascuno poteva tornare a occuparsi d'una faccenda seria come la malattia, nella malattia consistendo in definitiva l'autentica condizione umana. Grappoli e riviste del mondo esterno permasero intatti per qualche tempo, il tempo di acclimatarsi, di assimilarsi. Il degente vicino a Edwin, che non avendo ricevuto visite se n'era rimasto seduto immobile sul letto a fumar meditabondo, gli rivolse ora per la prima volta la parola attraverso una bocca contorta e inerte: «Sua moglie è un vero schianto» sogghignò. «Così piacciono a me. Bruna, per giunta.» Poi tacque, continuando a sogghignare. 

Edwin estrasse il termometro dal posticino caldo in cui alloggiava, lo lesse e lo porse all'infermiera. «Trentasei e nove» disse. 

«Lei non dovrebbe conoscere la sua temperatura» rabbuffò l'infermiera. Era una slava arcigna e giallastra, dai piedi grandi. «Lei non dovrebbe neppure saper leggere il termometro.» Si accigliò sentendogli il polso, glielo restituì bruscamente, e annotò i dati serali. «Va bene di corpo?» gli domandò. 

«Sì» mentì Edwin. Altrimenti chissà quali orrori purgativi non avrebbe escogitato costei. «Alla grande.» 

«Non è necessario particolareggiare. Basta rispondere sì.» 

«Spiacente» disse Edwin. Quindi soggiunse, mentre quella se ne andava: «Spasíba, tovàrìsh.» 

«Non c'è bisogno che mi ringrazi. È il mio lavoro. E poi non sono russa.» 

Edwin si sdraiò, la lampada al capezzale gli inondò il viso di calore. Sfogliò uno dei doni di Charlie, pagine su pagine di nudi. Nudo; svestito. Quella gente era nuda, non svestita. Trovava preoccupante il fatto di emozionarsi più alle differenze connotative fra i due vocaboli che alla vista della carne stessa, ignuda o spogliata, dal vero o raffigurata che fosse. Il dottor Mustafà, grassoccio olivastro indagatore presso la Clinica per le Malattie Tropicali ove Edwin era stato inizialmente spedito, se ne era preoccupato anche lui. «Non prova desiderio per sua moglie? Per la moglie di qualcun altro? Per le donne in genere? Non prova desiderio per nessuno?» Poi si era chinato innanzi in preda a un contenuto fermento. «Nemmeno per i ragazzi? Nemmeno per le capre?» Ecco quel che si dice un serio approccio scientifico. «E i feticci?» aveva incalzato il dottor Mustafà. «Calzature? Biancheria? Occhiali?» Il dottor Mustafà aveva cacciato un sospirone di profondissima commiserazione. «È accaduto qualcosa di grave alla sua libido. Mi rincresce, poverino.» 

Poverino davvero. Indirettamente poverino, tuttavia. Un uomo che abbia vinto la dipendenza dal tabacco riceve mille felicitazioni. Era quest'altra perdita di appetito, sebbene involontaria, di natura assai diversa? Sì, giacché malgrado l'estrosità di Barrie, la nicotina non è una signora . Una signora non è nicotina. La propria moglie non è un pacchetto di Senior Service. Egli era, dunque, indirettamente poverino. 

Edwin fissava, pur se al momento non lo vedeva, un nudo di nome (perché le virgolette? si era domandato) 'Felicità'. Egli non pensava alla felicità, bensì alla fedeltà. Lui e Sheila avevano da lunga pezza convenuto che l'infedeltà sessuale non è affatto vera infedeltà. Si può accettare una bevuta o una sigaretta da qualcuno, perché non anche un paio d'ore a letto? Queste e quelle pari sono. Anche quando non si era trovata in grado, per qualche oscuro motivo attitudinale, di contraccambiare il desiderio manifestato per il suo corpo da un amico o da un estraneo, era sempre stata disposta a giacere tranquilla, a farsi alimento passivo di quell'appetito. Ça vous donne tant de plaisir et à moi si peu de peine . Uno dei suoi adagi preferiti. La vera infedeltà, secondo lei, meritava una condanna assoluta e definitiva, essendo un imperdonabile peccato contro lo Spirito Santo. Preferire esclusivamente di essere con qualcun altro, immergersi volontariamente in intimità spirituale con un altro, quello era autentico adulterio. 

Era stato abbastanza facile accettare a livello razionale tale concezione della moralità, pensava Edwin. Era quando la promiscuità passava da concezione a percezione che nascevano i problemi. Curioso come le donne, tanto irrazionali, potessero esaltare la ragione, e rimanere francamente perplesse nel constatare che persino un dottore in filosofia propendeva a sguainare il coltello quando effettivamente vedeva, quando realmente sentiva. Edwin aveva effettivamente visto, realmente sentito, una volta sola, e ciò si era verificato abbastanza di recente, in un albergo di Moulmein. Sheila aveva dolcemente perdonato la sua collera; dopotutto la caduta della libido aveva già avuto luogo; egli non era affatto normale. 

Ciò che Edwin adesso temeva era che il suo matrimonio andasse completamente in malora essendo Sheila stata privata della facoltà di scelta, del proprio diritto a optare fra il di lui letto e tutti gli altri letti al mondo. Le necessitava una base dalla quale condurre le sue scorrerie; ora avrebbe potuto, pur senza cercarla intenzionalmente, trovarne una nuova. Edwin dubitava che qualsivoglia neurologo o psichiatra di qualunque ospedale potesse rimettere in sesto checché di basilare. La libido era venuta meno definitivamente; la condizione più recente di una personalità ne costituisce sempre per forza di cose lo stadio finale; egli desiderava garantirsi di non stramazzare mai più di punto in bianco durante una lezione di etimologia popolare, ma se fiutava chiodi di garofano anziché menta piperita chi poteva accusarlo di sbagliare? E quantunque solo indirettamente s'impensierisse circa la conclusione della propria vita sessuale, l'accertamento di durata del suo matrimonio doveva senza dubbio basarsi proprio su tale elemento. Tutti i matrimoni sono prima o poi destinati a divenire asessuati, anche se in genere bisogna attendere almeno una quindicina d'anni. A trentott'anni (corretta la valutazione di Charlie) si è decisamente troppo giovani per mandare in disarmo baracca e burattini. 

Il ghignatore limitrofo a Edwin dormiva già, dandosi un gran daffare. Di tanto in tanto proclamava un risultato calcistico dal punteggio sbalorditivo. 

Edwin decise che preferiva senz'altro crucciarsi per la perdita del desiderio sessuale piuttosto che farsene guarire da gente come il dottor Railton. Era consapevole che si trattava di un atteggiamento irragionevole e ingrato, ma intuiva che adottandolo difendeva il suo diritto a scegliere. Poi rammentò che era proprio tale facoltà di scelta a venir negata a Sheila. Si sentiva alquanto disorientato. Ma ecco, nell'oscurità del padiglione fugata soltanto da poche lampade ai capezzali, giungere in punta di piedi il dottor Railton come per porre rimedio a quel disorientamento. Sorrise. E dichiarò: 

«Lieto di trovarla ancora sveglio, signor Spindrift. Ci sarebbero giusto un paio di cosette…» 

«Sarà meglio mettere in chiaro una questione» l'interruppe Edwin. «La questione del titolo. Io sono il dottor Spindrift.» 

«Dottore?» Il dottor Railton assunse un'aria diffidente: prendevano piede manie di grandezza? 

«Sì. Ho conseguito il dottorato in filosofia presso l'università di Pasadena. Con una tesi sulle implicazioni semantiche del gruppo consonantico 'shm' nel linguaggio colloquiale americano.» 

«Semantica» disse il dottor Railton. «Non se l'è mica cavata tanto bene con quella 

'spirale', vero?» 

«Non era mia intenzione cavarmela brillantemente» rispose Edwin. 

«Ordunque» disse il dottor Railton sedendo sul letto e parlando a bassa voce. «Le racconterò una storiellina. Poi voglio che lei me la ripeta con parole sue. D'accordo?» «D'accordo.» 

«Una volta» esordì il dottor Railton «nella città di Nottingham un poliziotto si presentò alla porta di un signore di nome Hardcastle, in Rook Street. Tutti quanti nella strada dissero: 'Ah, finalmente sono venuti ad arrestarlo, lo sapevo che prima o poi si sarebbe fatto beccare.' Ma in realtà il poliziotto era soltanto andato a vendere al signor Hardcastle un biglietto per il ballo annuale della polizia. Il signor Hardcastle si recò al ballo della polizia, alzò alquanto il gomito, die' di cozzo con l'auto contro un lampione e venne in effetti arrestato, dimodoché i vicini, in certo qual modo profeti, finirono per avere ragione. Adesso me la racconti con parole sue.» 

«Perché?» domandò Edwin. «Dove vuole andare a parare? Che sta cercando di dimostrare?» 

«So quel che faccio» rispose il dottor Railton. «Su, racconti con parole sue.» 

«A Nottingham c'è un castello, da cui il nome del personaggio» disse Edwin. «Il castello possiede una torre, il che spiega il nome della strada .» «Adesso la storia, per favore» insisté il dottor Railton. 

«L'ho dimenticata. Comunque è una storia stupida.» 

Il dottor Railton prese svelto qualche appunto. «Bene» disse. «Che differenza c'è fra 'allegro' e 'malinconico'?» 

«Differenze di vario genere» rispose Edwin. «Uno è trisillabo, l'altro pentasillabo. Uno viene dal latino, l'altro dal greco. Possono essere usati entrambi come aggettivi qualificativi, ma il primo può essere utilizzato anche in funzione sostantivale e avverbiale in campo musicale.» 

«Per lei sono una vera ossessione, nevvero?» osservò il dottor Railton. «Le parole, intendo.» 

«Non un'ossessione ma una preoccupazione. È il mio lavoro.» 

«Proviamo coi numeri» disse il dottor Railton mestamente, pazientemente. «Faccia cento meno sette, poi continui a togliere sette dal resto.» 

«Novantatré» calcolò Edwin senza esitare, poi, meno baldanzosamente «ottantasei… settantanove… settantadue…» 

Levandosi da un letto abbuiato una voce dichiarò: 

«Nessun problema per chi gioca a freccette, no? È tutto un togliere, no?» E mitragliò: «Sessantacinque, cinquantotto, cinquantuno, quarantaquattro, trentasette, trenta, ventitré, sedici, nove, due. Facile, no, se uno gioca a freccette?» 

«Grazie, signor Dickie» fece sarcastico il dottor Railton. «Le assicuro che può bastare.» 

«Per forza, no? Non c'è più numeri, no?» Poi il ghignatore addormentato accanto a Edwin cominciò a snocciolare nuovi risultati: 

«Blackburn dieci, Manchester United cinque. 

«Nottingham Forest ventisette, Chelsea due. 

«Fulham diciannove, West Ham tre.» 

«Penso proprio» disse il dottor Railton sospirando «che per oggi abbiamo lavorato abbastanza.» 

«Ha il totocalcio in testa, vero?» disse R. Dickie. «Ce l'ha nella crapa, ecco cos'è. Il totocalcio.» 

«Vuole un sonnifero?» domandò il dottor Railton. «Per aiutarla a dormire» spiegò. Edwin scosse il capo. «Benissimo. Allora buonanotte, dottor Spindrift.» E se ne andò. 

«Che mattacchione, vero?» disse R. Dickie. «Gli piace canzonare. Se lei era davvero dottore, col cavolo che veniva qui.» 

Edwin spense la luce al suo capezzale, l'ultima. Il reparto era adesso immerso nell'oscurità eccezion fatta per una fioca lampada notturna sul soffitto e un lume altrettanto fioco sulla scrivania dell'infermiera di notte, una scrivania opportunamente celata entro un improvvisato riparo di paraventi. L'infermiera di notte era a cena da qualche parte. 

«Racconta storie su Nottingham» disse R. Dickie. «Scommetto che a Nottingham non c'è mai stato in vita sua. Io là ci avevo una sorella sposata. A volte andavo a trovarla, davvero. Bel posticino, Nottingham. Incredibile come la gente ciancia di certe cose, che non ne sa un tubo, vero?»

Seduto sul bordo del letto, col cuore che gli batteva forte e tirando accanite boccate dalla sigaretta, Edwin si domandava come mai lei non fosse venuta. La domenica mattina era trascorsa fra rintocchi e scampanii e il fruscio di News of the World , una giornata senza dottori né inflizione di sofferenze che si trascinava tediosamente in attesa d'essere interrotta da due ondate di visitatori, una porzione supplementare, una gratifica domenicale. Ma non per Edwin, a quanto pare. Suonate le due al campanile dall'altra parte della piazza, orario visite già mezzo consumato, e di lei nemmeno l'ombra. R. Dickie stava dicendo: «Giusto, sì, esatto, proprio» a una donna ciarliera di un'ottantina d'anni, probabilmente sua madre; il ghignatore s'intratteneva con un pretonzolo dall'aria astuta e discorrevano l'uno uggiolando l'altro ghignando dell'amor di Gesù; più in là nel padiglione un giovanotto, mentuto e gibboso come un Pulcinella, sedeva sul letto con una specie di casco da sci in testa, discutendo di motori d'auto con un parente maschio che annuiva mordicchiandosi le labbra. Le due fette di rosbif domenicale avevano infuso nuova vita nei pazienti. Agitato, Edwin constatò che il suo intestino voleva andar di corpo. Ben le sarebbe stato, si angustiò tirando su col naso, se fosse venuta e non l'avesse trovato lì, congetturando magari che lo si fosse portato via in lettiga cadavere, sì, ben le sarebbe stato. 

Sedette al gabinetto cercando di rammentare in quale albergo si fosse trasferita, un posto vicino all'ospedale. Forse avrebbe potuto telefonarle a quel bar che adesso pareva frequentare, quel bar dove rimorchiava lavavetri. Ma ormai erano le due passate, e le due erano ora di chiusura. Poi, mentre l'intestino si liberava, lo colse un'idea più audace. Si sarebbe vestito, sarebbe uscito dall'ospedale, sarebbe andato a cercarla. L'Anchor, così si chiamava il bar, da qualche parte nei paraggi. Anche ristorante, probabilmente. 

Era abbastanza facile. Gli armadietti s'impettivano dirimpetto ai bagni. Alla musica dello sciacquone dischiuse il suo e, tremando, tirò fuori i pantaloni sgualciti, la giacca sportiva, la cravatta e una camicia. Inutile, ovviamente, chiedere l'autorizzazione. Ma nessuno se ne sarebbe accorto. Entrò in uno dei due bagni e cominciò a vestirsi. Nello specchio vide una faccia di aspetto abbastanza assennato, abbastanza giovane, abbastanza sano, una massa di capelli castani appena un poco ingrigiti. Indossò insieme ai vestiti altra salute e altro discernimento, si pettinò accuratamente i capelli, accese una sigaretta. Ma continuava a sentirsi insufficientemente equipaggiato. I soldi, naturalmente, la mancanza di denaro. Aveva consegnato due mesi interi di stipendio, pagatigli in anticipo a Moulmein e cambiati ora in biglietti da cinque sterline, a sua moglie. 

Il suo portafoglio era smilzo e le sue tasche, a parte pochi scellini, vuote. 

Nessuno fece commenti, nessuno parve notarlo allorché oltrepassò la vetrata dell'ufficio del reparto. Le infermiere all'interno ridacchiavano di qualcosa appartenente al loro mondo senza uniforme, un mondo di abiti e balli. Con la coda dell'occhio intravidero, forse, l'abbigliamento di un visitatore. Edwin richiuse la pesante porta esterna del padiglione e prese a scendere le scale di corsa. Lungo il corridoio che conduceva all'atrio incontrò giganteschi busti di medici barbuti collocati in alte nicchie, e una targa commemorativa che non ebbe voglia di leggere. Né il tempo, perché udì cantare dietro di sé una voce di negro, quella dell'inflessibile somministratore di gelati. 

Suonarono le campanelle di fine visita. Davvero incredibilmente facile. Superò disinvoltamente il banco dell'usciere facendo oscillare il braccio sinistro. Fuori, lasciatosi il portone alle spalle, venne colpito in pieno petto dall'autunno. Un vento stizzoso gli salterellò giro giro punzecchiandolo; le foglie folleggiavano a folate sul marciapiede con raschio di puntali di bastoni da passeggio; la malinconia, immancabilmente pentasillaba, troneggiava su un piedistallo in mezzo alla piazza. L'autunno inglese sibilava intorno al monumento ai caduti assieme alle minuscole anime dei morti. Edwin rabbrividì, traversò la piazza e imboccò un vicolo: appartamenti da un lato, una chiromante a buon mercato dall'altro. Varcò una via variegata di vagherelloni domenicautunnali, svoltò un angolo e incappò difilato nella rincuorante facciata di una stazione della metro. La sotterranea significava normalità ed evasione a un tempo. Chinando lo sguardo a osservarsi i piedi si avvide di calzare ancora le ciabatte. Si domandò se non gli restasse che piangere, ma poi individuò in un angolo dall'altra parte della strada il bar denominato Anchor. Traversò, titubante. Presso il bar si apriva un'angusta viuzza in cui un autocarro tentava invano di entrare. L'automezzo rugghiò, avanzò e rinculò, sbrecciando due muri, sbatacchiando un parafango contro un lampione. Edwin rasentò l'autocarro e, oltrepassata la viuzza, s'imbatté in un modesto ristorante. Ne proveniva la medesima percussione di coltelli e forchette udita la sera innanzi di là dai paraventi, ma stavolta più gagliarda. Attraverso le due bisunte vetrine si vedevano i commensali. Uno di loro era Charlie, che maldestramente intento a consumar spaghetti arrotolava sulla forchetta fagotti alla salsa per osservarli poi pazientemente ridisarticolarsi nel piatto. Accanto a lui un tizio strabico col berretto pasteggiava a fagioli. Charlie, le fauci spalancate in un nuovo tentativo, volse lo sguardo alla vetrina e vide Edwin. Rimase a bocc'aperta trascurando però la pingue forchettata. «Entra» mimò con le labbra attraverso la vetrina, accennando verso l'interno col capo e col pollice libero. Edwin, rammaricandosi a gesti, additò le sue ciabatte. «Non è il caso. Mi prenderebbero per matto.» Sempre a bocc'aperta Charlie premé la fronte contro la vetrina cercando di guardare in basso. Non vide alcun cane. Esitò fra l'infornare e l'uscire incontro a Edwin. Le sue ganasce si abbatterono. Annuendo trionfante allo strabico e a Edwin masticò e inghiottì; sbrancate estremità di spaghetti si lasciarono fagocitare senza opporre resistenza. Masticando, uscì e andò da Edwin. 

«Non dovresti esser qui. Dovresti esser là. Chi ti ha detto che potevi uscire?» lo rimbrottò. «Sei malato.» 

«È per via di mia moglie, Sheila. Non è venuta.» 

«Discutine con lei» disse Charlie. «Io di questa faccenda me ne lavo le mani. Metti che ora stramazzi per strada, declino ogni responsabilità.» «Dov'è?» domandò Edwin. 

«Dov'è? E come faccio a sapere dov'è? Sono qui a mangiare un boccone col mio collega. Spaghetti, come vedi. Io non c'entro niente. Adesso torna di corsa all'ospedale.» 

«Prima devo vederla.» Sentiva freddo ai piedi, nelle ciabatte. E aveva una voglia tremenda del malsano calduccio testé abbandonato. 

«Potresti provare laggiù» disse Charlie indicando verso il fondo della strada bigia. «All'ora di chiusura ci va un sacco di gente. È una specie di circolo. Ma non hanno soci, solo clienti. Vedrai se di qui a poco la polizia non fa una retata. Se ci vai, non restarci troppo. Sai che spasso un malato pizzicato dagli sbirri a sbevazzare in violazione di legge. E in ciabatte, per giunta.» 

«Proverò là.» 

«Aggiudicato, ma sta' attento. Adesso tomo ai miei spaghetti. Un'impresa, mangiarli. Roba italiana è.» Rientrò nel locale con aria seccata. Edwin percorse il tragitto oltrepassando tetri ristoranti indiani che, pensava, avrebbero dovuto olezzare di curcuma e parevano invece tanfare di colla. Giunse all'angolo, a un negozio senza insegna, l'unica vetrina opacizzata da vernice azzurra e la porta, stesso azzurro con pannelli marrone, socchiusa. D pavimento dell'ingresso, constatò nell'introdursi guardingo, era cosparso di sudiciume assortito fra cui spiccavano vecchi gazzettini ippici a brandelli, pacchetti di sigarette, un busto di bambola, un pallone sgonfio. Sulla parete di sinistra due porte sprangate a lucchetto. Schiamazzo e musica trapelavano da dietro una terza porta. A disagio, Edwin vi si diresse e l'aprì. In un'ondata di calore il rumore rigurgitò su per le scale dello scantinato intiepidendo il freddo umido sentor di sottosuolo che risultò a Edwin stranamente floreale. Malsicuri ripidi gradini lo condussero all'ultima porta. Doveva bussare? No, decretò la porta spalancandosi di schianto. Un lazzaroncello dalle labbra umide in maglione turchese col nome JUD cucito in giallo sul petto fu espulso fra chiassose rimostranze. Edwin s'appiattì alla parete. 

«Ripròvace» minacciò un semita giovaniloide in abito vecchiotto «e mica solo te se caccia, ve'. Prima te se concia pe' le feste, sa'. Laonde nun te punga d'arprofacce, tie'. E mica solo qvi» promise «ma dappertutto, eh.» In doppiopetto color cioccolato cascante allo sparato, sformato alle ginocchia, costui stava divenendo disordinatamente pelato. Prese a pressare il guittarello sul deretano su per la scala. Il ragazzo ringhiava sconcezze. Il semita, gli occhi colmi d'afflizione, sollevò mento e braccio pronto a un mostaccione. 

«Buco di merda» proclamò il ragazzo. «Branco di troiazze.» Per nulla intimorito salì zufolando e tonfando a ogni passo come calcasse una cassa d'aringhe. Il semita disse a Edwin: 

«Bel risultato, neh? Ho qvastato 'sto posto lassiannoce trasí teppisti come desso. So' io che l'ho minato e ningun altro.» Mestamente, e con un residuo d'ancestrale levantina cerimoniosità, fece entrare Edwin. Un omaccione in felpa zebrata e cintura con fibbia anguiforme li fronteggiò, birra in pugno, assolutamente immobile, come un'esibizione di statua vivente cui Edwin fosse andato ad assistere. «Se me lo chiedevi» disse «l'avrei fatto io, ma non me l'hai mai chiesto.» Aveva minuti ma tutt'altro che sgraziati lineamenti mustacchiuti stampati, come in un'edizione di pregio, su un volto dagli ampi margini. Edwin la cercò sopra le teste di, nei varchi fra, uomini di gran lunga più laidi e femmine scarmigliate: unica linda una sbronza femmina di mezz'età dal copricapo raffinato che contegnosamente volteggiava a suon di musica con un bicchiere di Guinness per cavaliere. Gli occhi castani colmi di tristezza, il semita scosse il capo addolorato. «Ve' che robba ce tocca albergà» deplorò. «Lo hodio 'sto posto» sostenne con amara mosaica passione. «Lo hodio come gnent'altro hodiai ciammai.» 

A suon di spintoni Edwin raggiunse scusandosi la mescita ed eccoti Sheila, elegante nell'abito verde. Sgranò gli occhi sbalordita mentre in lui si diffondeva rapido il sollievo. «Tesoro!» lo accolse protendendo spalancati una sigaretta e un bicchiere di gin. «Sei evaso» constatò. «Però ti hanno preso le scarpe» soggiunse, giacché nulla le sfuggiva. 

«Non sei venuta» disse Edwin. «Ero preoccupato.» 

«Ma è stasera che venivo, di sicuro.» 

«La domenica è diverso. Di domenica puoi venire due volte. Alla domenica c'è ingresso doppio.» 

«Oh, quanto mi dispiace. Dovevo immaginarlo. Che sciocca sono stata.» Ciò che Edwin non riusciva a capire era come facesse il semita a stare in due posti contemporaneamente, lagnandosi in giacca e cravatta davanti al bancone in compensato e servendo allegramente in maniche di camicia dietro il medesimo. Chissà che bell'indovinello ne avrebbe cavato il dottor Railton. «Che ne sapevi ch'ero qui?» gli domandò. Poi subito: «Sì, capisco la tua perplessità. Sono gemelli, sai, Leo e Harry Stone. Quello dietro il banco è Leo. Sono loro che gestiscono il locale, se così si può dire. Un sarto greco m'ha chiesto or ora la tariffa pomeridiana, quel tipo losco là m'ha pizzicato il fondoschiena, e c'è una specie d'inglese che balla in un bislacco modo tutto suo.» 

«Ti rincrescerebbe mica» domandò Edwin «pagarmi un whiskino o roba del genere?» 

«Niente whisky» rispose Sheila. «T'hanno detto di sospendere i superalcolici per un paio d'anni. Una birra chiara.» 

A Edwin venne servita un'acqua dorata che sapeva di sapone e cipolle. «Mica tanto per la quale, eh?» punzecchiò Leo Stone. La sua calvizie, notò Edwin, era più pronunciata di quella del fratello. Il suo accento possedeva una sfumatura aristocratica com'egli fosse stato un tempo un piazzista d'alto bordo. Dal jukebox nel canto opposto due esili voci americane, della nuova generazione di castrati, cantavano d'amore adolescenziale fra adolescenziali strilli preregistrati. Si die' inizio a un goffo ballo. Un cane male in arnese si destò e abbaiò. «Tranqvillo e assiutto» lo rincuorò Harry Stone. «Te tangono mica, promisso. Metti che uno te mette 'na mano adosso e gnela sfrango io.» Il cane sbadigliò, rasserenato. Un bollitore elettrico gorgheggiò d'improvviso dietro il bancone. «Eqqveqqvà,» dichiarò Harry Stone «er tu' disinare è qvasi pronto. Dagne solo tiempo de stiepidisse. Nu dilizioso cvor de ciofenco» rivelò all'omaccione baffuto. «Potrebbi qvasi magnallo pe' me.» L'omaccione ruttò dopo un sorso di birra trasformando l'eruttazione nello squillo del corno di Sigfrido. Proseguì berciando «Nothung! Nothung !» per concludere con un paio di battute dal rogo del Walhalla. «Nun facce caso» disse Harry Stone a Edwin. «Trafaglia al Cofent Garden, qvello.» E scosse il capo, gli occhi deliranti di sofferenza, dinanzi alla follia del mondo, guardando Edwin come se loro due partecipassero a un complotto in favore della salute mentale. Il cuor di giovenco venne attanagliato ed estratto dal bollitore tramite due apribottiglie dopodiché giacque fumigante sul bancone bagnato. «Aspetta, Negro» temporeggiò Harry Stone. «Oh, Leo, tiemmelo sotto er rubinetto.» 

Una Medusa dal lungo soprabito frusto e nero di polvere al pari del vello canino abbordò Edwin invitandolo a ballare. «A dire il vero non sarebbe il caso» declinò Edwin. «Veramente dovrei essere in ospedale.» Senonché, gentiluomo fino all'osso, si lasciò trascinare entro la calca ballonzolante. Cercò Sheila con lo sguardo, ma ne era stato separato da due nuovi assetati: giovani snelli soldati della Guardia, ciechi dietro le loro visiere. Frenetica e sgomitante, la danza si protraeva al cospetto del vitello d'oro del jukebox annoverando: un uomo che per celia si era tolto la dentiera; una donna dalle mammelle sobbalzanti indolenti fuori tempo rispetto alla musica; un avventore mediterraneo sbarbificato sino all'azzurrastro; un cocchiere col berretto; una manierosa madama in impermeabile, tremolante di gin; due signorinelle pettopiatte volteggianti legnosamente assieme conversando in tedesco; una bionda di mezz'età con la faccia da bulldog… tutti quanti in qualche modo mescolati in un'unica poltiglia semovente similmente a uno sformato di piselli. Edwin e la sua compagna si aggregarono al calderone, e l'anguicrinita cavallerizza chiomeggiante pilotava alla bersagliera. Edwin si accorse ben presto d'essere stato scalzato d'una ciabatta. Danzò dunque, come parodiasse un veglio ricurvo, scrutando fra i piedi, sotto il jukebox, negli angoli. Ma l'oggetto permase illocalizzabile. Smarrì anche l'altra e poi, continuando a ballare, sentì la birra versata zuppargli i calzini. Conclusa la musica mossero tutti in suo soccorso. 

«Cos'ha perso?» 

«Ciabatte, sembrerebbe, ma non vedo proprio come sia possibile.» 

La manierosa madama in impermeabile manifestò meticolosamente a Edwin: «Constato in lei la presenza di un temperamento artistico, quello che pur dimora in me. Ho funto da modella pei migliori pittori, i nonplusultra. John, Sickert, via dicendo. Ne ho uno alla Tate, l'avrà visto di certo.» 

«Le mie ciabatte» replicò Edwin inginocchiandosi, sbirciando fra le gambe degli assisi. «Eccone una là» annunciò gattonando alla volta delle due teutoniche pulzelle, una delle quali appollaiata in grembo all'altra. 

«Edwin,» volle sapere Sheila «che diamine stai facendo?» 

«Le mie ciabatte.» 

«Non saresti dovuto uscire, lo sai che non dovevi. Adesso chiamo un taxi e ti faccio ricondurre là difilato.» 

La perdita delle ciabatte, il fatto d'aver danzato in calzini avevano improvvisamente, per qualche motivo, accattivato a Edwin la simpatia dell'uomo che si era tolto la dentiera. «Bevici su, compare» lo invitò quello a tutte gengive. «Piglialo nella destra e segui il mio esempio.» Lo sdentato indossava un abito al verso, ma senza bavero né cravatta. Edwin, disorientato, si ritrovò a impugnare un bicchiere di scotch. «Sei un tipo che ti piace scherzare, proprio come me. L'ho visto appena sei entrato.» A quanto pare i clienti del circolo erano svelti a scovare affinità. 

«Aspetta che finisco di bere» promise Sheila «poi ti riporto all'ovile. Bella prodezza ballare in calzini. Ti dà di volta il cervello?» Avvedutasi sgomenta di aver colto sin troppo nel segno: «Oh,» ripiegò «non volevo dir così, lo sai che non volevo» e l'afferrò per un braccio. 

«Cominciano domattina» disse Edwin. 

«Sì, caro, e credo che faresti bene a dormire il più possibile stanotte. Stasera non vengo. In fondo ci siamo visti oggi pomeriggio, no?» 

«Oh» reagì Edwin. «Be', immagino che la decisione spetti a te.» 

«Verrò domani sera, si capisce.» 

«Cvarda le mensole, vedo» osservò Harry Stone rivolto a Edwin. «Ce sta poca robba, fero?» C'erano mezza bottiglia di gin e un piccolo nudo in plastica. «Me fanno gnente credito, posso tene' poca provvista. Qvanto me fergogno quanno penso a come l'ho affossato 'sto posto. Ma forse è perché lo hodio così tanto.» Il cane Negro ingozzò il ventricolo residuo. «Accattiamo ar minuto ar bar dell'Anchor all'ora de chiusura e carchiamo un pochinino. Modo nun è pe' gnente de mena' 'n'assienda, cribbio.» 

Le germaniche donzelle recapitarono ciascuna una ciabatta. «Danke sehr» le ringraziò Edwin. Poi udì l'omaccione che lavorava a, o al, Covent Garden parlare di filologia. «L'italiano è una lingua incantevole» andava dicendo. «Ho ascoltato alcuni dei più insigni cantanti italiani di tutti i tempi. Si reputa sia la miglior lingua per cantare. Logico,» postillò illogicamente «trattandosi della più antica. L'italiano non è che una specie di latino, e il latino è l'idioma più antico.» 

«Oh, si danno lingue ancor più antiche» corresse Edwin. «Il sanscrito, ad esempio.» 

«Be', questione d'opinione, no?» L'omaccione parlava una sorta d'inglese del nord che lentamente, nel corso di lunghi anni, s'era rimodulato in direzione della tipica inflessione londinese. 

«Oh, no» replicò Edwin. «Macché questione d'opinione, è un dato di fatto.» Si preparava a tener lezione ma Sheila intervenne. 

«Su, andiamo, si torna alla base» intimò consolidando la presa sul braccio di lui. 

«Fra un attimo, cara. Volevo solo mostrare al nostro amico…» 

«Mi chiamo Les.» 

«Piacere. Mostrare al nostro Les…» 

«Andiamo.» Prese a trainarlo verso l'uscita. Edwin ebbe l'impressione - ma poteva sbagliarsi - che ella avesse rivolto una fulminea smorfia all'indirizzo dei fratelli Stone, una smorfia significante che suo marito non era del tutto normale, che non bisognava incoraggiarlo a parlare. Era comunque certo che Sheila non si fosse puntato il dito alla tempia. Abbastanza certo.

Tornarono a piedi all'ospedale, la mano di Sheila inamovibile dal suo braccio. Ancora non era nemmeno l'ora del tè: l'escursione aveva avuto vita breve. Soltanto sui gradini dell'ingresso principale Edwin si decise a chiederle ciò che bramava, ma paventava, di domandarle. Sheila disse: 

«Credo ormai di conoscerla la strada. Anche al buio. Sarò capace di tornare da me.» Si alzò d'un tratto una brezza fredda, foglie accartocciate se la svignarono lungo il marciapiede. Edwin disse: 

«In merito a che cosa ha voluto vederti Railton?» 

«Railton?» 

«Sì, il dottore. Senti,» disse Edwin «fa freddo. Entra un momento nell'atrio.» 

«Preferirei di no. Davvero non mi va. Non vedo l'ora che ti dimettano. Detesto gli ospedali.» 

«Cosa ti ha detto?» 

«Te l'ho già spiegato, no? Che andrà tutto bene e non c'è niente da preoccuparsi.» 

«Piantala. Non t'ha chiamata solo per dirti questo. Che t'ha detto davvero?» 

«Qualcosina d'altro, ma ho parlato sempre io, sul serio. Voleva conferma di certe cose, cose presenti sul referto iniziale.» 

«Per esempio?» 

«Oh, lo sai bene quanto me. Ha voluto sapere del tuo svenimento e via dicendo. Di quanto bevevi. Della nostra vita coniugale. Se eravamo felici e così via.» 

«Be', lo eravamo, lo siamo?» 

«Certo che lo siamo.» Non sembrava troppo convinta. Infilò le mani nelle minuscole tasche della giacca del completo. «Fa freddo. Grazie a Dio ho portato la pelliccia.» 

«E degli aspetti sessuali, ovviamente?» 

«E degli aspetti sessuali. Senti, si sta facendo davvero freddo, ti pare? Non credo che ti faccia bene stare qui fuori al freddo.» 

«Cosa sospettano che non vada in me?» domandò Edwin. 

Sheila esitò. «Non sospettano niente. Dicono che evidentemente c'è qualcosa che non va e sperano di scoprirlo presto. Nulla di troppo grave, secondo loro.» 

«Come fanno a dirlo se non sospettano niente?» 

«Non lo so. Non sono un medico. Senti, fa freddo. Non s'è parlato d'altro, sinceramente.» 

«Va bene» capitolò Edwin. E poi: «Mi rincresce per la vita sessuale.» 

«Oh, si aggiusterà tutto. Ne sono certa.» Pestava i piedi delicatamente, ballonzolando pel freddo. «Hai fatto una stupidaggine a uscirtene in ciabatte.» 

«Già. Che fai stasera?» 

«Oh, Cristo,» sbottò Sheila «che vuoi che faccia? Sai che spasso, anche per me, impantanata qui in un albergo da quattro soldi senza conoscere nessuno.» 

«Conosci un lavavetri e un paio di gemelli ebrei.» 

«Via, non fare lo scemo. Lo sai benissimo quel che intendo. Comunque sono mezzi ebrei. Leo conosce la Birmania, o così dice. È stato in Marina.» 

«Farò meglio a entrare, mi sa.» Anelava al padiglione confortevole, al tè servito dalle inservienti italiane, alla lettura dell'articolo sulla morfologia nell'ultimo numero di Language. 

«Proprio uno spasso.» Pareva intenzionata a dilungarsi. «Cosa vuoi che faccia tutte le sere?» 

«C'è il cinema, il balletto…» Non gli veniva in mente nient'altro. «Il teatro» gli sovvenne. «L'opera.» Il tutto dava l'idea di una gran noia. 

«Lo sai che non posso andarci da sola.» 

«Certe donne ci vanno.» 

«Questa donna no. C'è un tipo con la barba che frequenta l'Anchor. Si è offerto di portarmi a un circolo di cui è socio. È uno scrittore o pittore o roba del genere. Potrebb'essere un diversivo.» 

«Mi raccomando, stai attenta. A Londra c'è gente della più strana risma.» 

«Non sono mica una bambina. Si è detto dispiaciuto di sapere che ho il marito all'ospedale. Ha detto che devo sentirmi tanto sola.» Sheila ridacchiò, poi rabbrividì. 

«Che freddo che fa» disse. «Bisogna che vada.» 

«E stasera non vieni?» 

«M'hai avuta a sazietà.» Sorrise. «Cerca di coricarti presto. Ci vediamo domani.» «Come vuoi. Ah, l'albergo.» 

«Sì?» 

«L'albergo in cui alloggi adesso. Dov'è, come si chiama?» 

«Non voglio che ti alzi dal letto per telefonarmi e pigli freddo e via dicendo. E poi non sono nemmeno sicura di come si chiama. Ah, sì, il Farnworth. All'ospedale comunque lo sanno. L'indirizzo di un parente stretto.» 

Folate di foglie. «Sapessi il tutto quanto mi rincresce» disse Edwin. «Ma per te non è un diversivo? Una piccola novità? Una specie di vacanza? Un bel cambiamento rispetto a Moulmein?» 

«Caro il mio Edwin, tesoro, perché mai dovrebbe rincrescerti… a questo modo, dico? Non è mica colpa tua. E un cambiamento rispetto a Moulmein lo è di certo. Più freddo, un po' più squallido… Ma no, dai, Londra mi piace, scherzavo. In qualche 

modo me la caverò. Ora rientra e goditi il tuo tè, o quel che è.» 

«E tu? Devi mangiare. Sono sicuro che non mangi abbastanza.» 

«Mangio, mangio, stai tranquillo. Ora rientra, torna dalle tue brave infermiere.» Riprese a ballonzolare; di concerto le foglie balzellavano attorno siccome micini. «Adesso devo proprio andare» disse «a scaldarmi un pochettino. Oh,» soggiunse «quasi dimenticavo.» Gli elargì un freddo bacio; freddo, suppose lui, perché aveva le labbra fredde, perché voleva andarsene in cerca di calore. «È al calore» pensò lui «che in definitiva siamo fedeli.» Sheila scappò via lesta lesta che pareva una scolaretta. Edwin entrò nell'ospedale: crankhouse, cogitò, l'avrebbero appellato le due tedesche damigelle . Dal suo banco lo apostrofò l'usciere: «Fuori orario per le visite, signore. Può tornare stasera.» «Ho l'aria d'essere tanto in forma?» celiò Edwin. 

«I pazienti in uscita» puntualizzò severamente l'usciere «debbono lasciare il proprio nome al banco. Qui non vedo scritto alcun nome.» 

«Dottor Spindrift.» 

«Oh, spiacente, signore. Non sapevo, signore. Chiedo venia, signore.» 

Edwin non prese l'ascensore; detestava gli ascensori. Salì lentamente le scale riguadagnando il reparto. Non incontrò nessuno che potesse rampognarlo. Raggiunto silenziosamente l'armadietto, ne trasse pigiama e vestaglia e si cambiò tranquillamente in bagno. Si esaminò di nuovo il volto allo specchio: un volto abbastanza normale, all'apparenza. Poi ricordò di aver dimenticato di porre a Sheila un'ultima esplicita domanda. Lo riteneva cambiato? Ma tanto avrebbe risposto evasivamente. Fece ingresso in pigiama e vestaglia nel lungo tiepido posto indisposto che ora era casa sua. 

Era l'ora del tè. R. Dickie disse: 

«Dov'è stato? L'hanno tutti cercata.» 

«Che volevano da me?» 

«Un bel niente, in effetti. Volevano solo sapere dov'era.» 

«Sono stato al…» Quantunque filologo, determinate parole si vergognava a utilizzarle in pubblico. Cercò un eufemismo e, automaticamente, fu un surrogato alla R. Dickie che gli venne in mente. «In un certo posticino» disse. 

«Ce ne ha messo di tempo.» 

«È stata una faccenda piuttosto lenta e frustrante» spiegò Edwin. 

«Se glielo dice le appiopperanno un purgante. Garantito. Frustrante, eh? Buona questa.»

L'indomani mattina Edwin fu fatto penetrare in un mondo sotterraneo di tecnici muliebri, ricciolutamente permanentate giovani donne in camice bianco disinvoltamente sicure di sé. Il loro rango appariva ambiguo. Nonostante la carenza di conoscenze tecniche, malgrado la nulla più che modesta padronanza di taluni marchingegni, esse non assoggettavano il proprio operato all'autorità di chicchessia. Sembravano avere accesso a una speciale lavanderia che sbiancava i loro camici sino a un candore accecante, appetto al quale l'abbigliamento del personale medico appariva quasi sudicio. Percorrevano svelte i corridoi su tacchi alti e a testa alta. Deambulando con passo strascicato alle calcagna di una di tali baldanzose creature, Edwin raggiunse il reparto raggi X. 

Premette il petto gelido contro una piastra a parete e udì lo scatto della radiografia. Si lasciò avvincere con cinghie a un lettino e il suo teschio ghignante venne immortalato da numerose angolazioni. «Anche Webster» disse «vedeva il cranio sotto la pelle.» 

«Chi era Webster?» 

«Un poeta.» 

«Oh, un poeta.» Meticolosamente l'operatrice introdusse un'altra lastra. «Stia fermo» raccomandò. «Rimanga assolutamente immobile.» Vi fu un nuovo scatto. «Non m'interesso granché di poesia» confessò. «Roba che andava bene a scuola, immagino.» 

«Crede sia meglio fare il radiologo che il poeta?» 

«Oh, sì.» Tutta infervorata di professionale dedizione. «In fin dei conti salviamo vite, no?» 

«A che scopo?» 

«Come sarebbe, a che scopo?» 

«A che serve salvare vite? Cosa volete che la gente viva a fare?» 

«Questa» fece lei sussiegosa «non è cosa che mi riguardi. Al corso non s'è fatta. 

Ora, se vuole attendere, le faccio sviluppare.» 

Edwin fu a lungo lasciato solo. Volse lo sguardo fuori della finestra su un manipolo di pattumiere. Troppo grassi per sentir freddo, due pingui gatti dormivano nel grigio mattino autunnale. Di che s'ingrassavano? Di tessuto cerebrale di scarto, forse. Ebbe la sensazione che la macchina scintillante gli guatasse il dosso. Si voltò a sfidarla con lo sguardo. Doveva pur esserci un qualche difetto che ne contaminasse la massiccia eleganza. Da giovanotto aveva combattuto la propria insicurezza in presenza d'intelligenti e belli cercando microscopici ma ridimensionanti segni di negligenza: scaglie di forfora su sargia nera, un minuzzolo di pasticcino all'angolo della bocca. Approssimatosi adesso al pesante apparato lucido e levigato ebbe la soddisfazione di rinvenire una lentiggine di ruggine. Inoltre, in una scatola di cartone sul davanzale della finestra giaceva, fra morsetti metallici e fusibili, un solitario pulsante bianco. Si sentì cogliere dall'euforia. Al ritorno la radiologa lo trovò che percorreva il pavimento a maestosi passi di danza. 

«Perfette» disse scrutandolo timorosa. «Nitidissime. Ce la fa a tornar da solo al padiglione?» 

Ce la fece. Rincasatovi, si trovò nel bel mezzo di un sopralluogo: un grand'uomo trascorreva di letto in letto con un corteggio di satelliti fra i quali il dottor Railton. Edwin sapeva trattarsi del signor Begbie, insigne neurologo, rinomato scopritore della sindrome di Begbie. Reverente e ammutolito quasiché si celebrasse una solenne messa pontificale, l'inserviente negro, accennato a Edwin di raggiungere il suo letto, ve lo fece rimbucare facendogli sciò sciò come a un pollo sbandato. Ed egli attese, perfettamente immobile, come nell'imminenza dell'eucaristia. 

Il signor Begbie accusava un tic sotto l'occhio sinistro. Così talvolta avviene che i dentisti esibiscano carie, o che il peggio calzato sia proprio il figlio del ciabattino. «E lei» disse il signor Begbie «dev'essere il signor Spindrift.» I satelliti in bianco sfoggiavano sorrisi incoraggianti; il dottor Railton appariva ansioso come un caporalmaggiore durante un'ispezione generale. 

«Dottor Spindrift.» Meglio mettere i puntini sulle i. «Dottore in filosofia» specificò. Unanime fu l'allargamento dei sorrisi. 

«Già. E lei è stato indirizzato qui da…» 

«Sono stato indirizzato qui dalla Clinica per le Malattie Tropicali. Arrivo direttamente da Moulmein.» 

«Già. E attualmente lei per chi lavora?» 

«Per il C.I.S.U., Consiglio Internazionale per lo Sviluppo Universitario.» 

«Molto bene» concesse il signor Begbie. Però arricciò il naso come se si trattasse di un'organizzazione sospetta. Esaminò con maggior concentrazione la scheda che recava in mano. «Già, già» disse. «Cos'è questa storia della corazzata?» 

«Corazzata?» 

«Stando al referto lei sarebbe ossessionato dalle corazzate.» 

«Ah, quello.» Edwin rise. «Capisco cos'è successo. A volte mi vengono delle emicranie. Al dolore sembra accompagnarsi la visione di una corazzata che mi naviga dritta dentro i lobi frontali.» Sorrisetti ammiccanti salutarono la bizzarria dell'immagine; la caposala parve indignata dalla saccenza di Edwin in materia anatomica. 

«La qual cosa» obiettò il signor Begbie «non sembra affatto emicrania. Bene, vedremo, vedremo quel che si può fare.» Sospirò, con lo scoramento di uno che di gente ne ha aiutata tanta, di gratitudine ottenuta tanto poca. Il corteo traslò al ghignatore. Il signor Begbie lo gratificò di una pacca sulla schiena. «Gliela raddrizziamo quella faccia » promise. «Non tema.» La faccia, per il signor Begbie, non era che un altro arto. Gli uccelli bianchi piombarono quindi su R. Dickie. La cui voce trapelò soffocata, punteggiata da incontenibili interiezioni interrogative: vero? no? Certo, conveniva il signor Begbie, sicuro. 

Poco prima di pranzo un'altra esponente della legione delle impeccabili lindochiomate, in grembiule bianco e nude le braccia rosee, venne a espletare una sorta di terapia a suon di pugni sul giovanotto pulcinelmentuto e pulcinelgibboso in casco da sport invernali. Costei lo scazzottò vigorosamente, ed egli reagì tossendo dal profondo ed espettorando in una sputacchiera. Avvennero lesti scambi di padelle. Furon richiesti dei pappagalli; furtive minzioni ebbero luogo sotto le coltri. Poi fu annunziata a Edwin la cuccagna pomeridiana. 

«Una puntura lombare» disse la caposala, una scozzese dal naso smunto che faceva vibrare le erre con gran diletto. «Le si estrarrà un po' di liquido dal midollo spinale. 

Poi lo si porterà in laboratorio. Poi si vedrà che cos'ha che non va.» 

«L'ho già fatta» eccepì Edwin. «Due volte.» 

«E la rifarà» ribadì l'infermiera, che aggiudicatosi il botta e risposta tornò nel suo ufficio. 

Un buontempone del reparto ristorazione aveva scelto di servire cervello in umido per seconda colazione. Un altro cuciniere, più misericordioso, aveva approntato patate cucinate in quattro distinte guise, un minuscolo florilegio patatario. Venne il negro col gelato, raggiante di derisione all'indirizzo di Edwin. Edwin lesse nella rivista di filologia un articolo americano totalmente privo di umorismo sul conteggio delle parole de Il gufo e l'usignolo . Cervello in umido, decisamente. 

Nel gradevole lasso del sopore pomeridiano, turbato peraltro dal sapore del tè postprandiale, Edwin subì l'accerchiamento dei paraventi a rotelle. «Addio, amico» disse R. Dickie. «Ci rivediamo all'altro mondo.» Un medico occhialuto, dal volto mite e più giovane del dottor Railton, si portò al cospetto di Edwin presentandosi come il dottor Wildbloode. «Il mio collega» disse «è a una prova. Sa, suona la tromba.» Alle sue spalle indugiava la caposala. Edwin fu fatto distendere di fianco, gli scoprirono le natiche e la parte inferiore del dorso. «Bella pelle pulita» elogiò il dottor Wildbloode. «Non le farà tanto male.» Iniettò un anestetico locale. «Ecco» disse. «Magnifico.» Sopravvenne un armeggiare, intervenne un delicato acciottolio vetrometallico. «Ora» disse «preleverò alcuni centimetri cubici. Rimanga assolutamente immobile.» Edwin avvertì, come a distanza di svariati chilometri, una profonda trafittura, poi gli parve che le sue vertebre, sordamente, si afflosciassero. «Splendido» disse il dottor Wildbloode. «Viene via ch'è una meraviglia.» Edwin si sentiva vittima d'una evirazione, aveva l'impressione che progressivamente lo spossessassero della sua essenza. Disse, come si trattasse di una scoperta importante: 

«Vede, il vero problema non è mai il dolore. È la sensazione di disgregazione, per soggettiva che sia.» 

«Tranquillo» demulse il dottor Wildbloode. «Pazienza. Passa giù alla grande. Quasi finito ormai.» Edwin vide con la coda dell'occhio la caposala tener pronta una provetta. «Bene,» annunciò il dottor Wildbloode «credo che ci siamo.» Edwin udì uno sprizzo sommesso. Disse: 

«Posso vedere?» L'infermiera gli concesse ritrosa una sbirciata fugace alla provetta piena. «Sembra gin, vero?» motteggiò Edwin. 

«Burnett's White Satin» se ne uscì sorprendentemente l'infermiera. «Squisito se bevuto liscio.» 

«Adesso» disse il dottor Wildbloode «se ne stia giù buono disteso fermo e pacifico fino a domattina. Coricato di schiena senza muoversi, mi raccomando.» E annuendo dolcemente se ne andò. I paraventi vennero ritratti cigolando ed Edwin giacque esposto al reparto, nuova recluta della brigata dei prostrati. 

«Fantastico quel che non t'architettano oggidì, vero?» disse R. Dickie. 

Era in certo qual modo vivificante vedersi imporre passività assoluta, sentirsi ingiungere di ridursi a mera cosa. Era appagante, inoltre, sapere di star contribuendo all'omogeneità del padiglione. Più nessuno v'era ormai che non fosse abbarbicato, come un fiore, al letto. Persino il ghignatore riposava fissando il soffitto, ammaliato da speranze d'un bel restauro nervoso. Ma la bonaccia non poteva durare. Uomini aitanti in berretto e uniforme vennero a portar via da un angolo appartato un paziente sbavante ed evidentemente incurabile che abbandonato nella sua sedia a rotelle rispose ai commiati con biascichii inarticolati. 

«Addio, signor Leathers.» 

«Ciao, amico.» 

«Continua a sorridere, prima o poi ci si rivede.» 

Il vuoto fu colmato in men che non si dica. All'ora del tè fece la sua comparsa un uomo alto con l'aria da studioso che incedeva qual giocattolo meccanico, con una gamba rigida e il braccio destro affaccendato come una frusta sbattiuova. Un nuovo elemento venne ad aggiungersi alla banda di strumenti a percussione dell'ora dei pasti: un vibrato di coltello e cucchiaino da tè. 

Dopo il tè eccoti la caposala con un messaggio per Edwin. «Ha telefonato sua moglie» disse. «Dice che s'è buscata un raffreddorino e preferisce rimanere a letto. Dice che non stia a preoccuparsi. Dice che viene a trovarla domani.» 

Subito prima di cena eccoti il dottor Railton tutto giulivo. «Salve, Doc» disse a Edwin. «Hanno eseguito l'esame di laboratorio sul suo liquido. Ho riscontrato i valori coi precedenti. Direi che sono aumentati. C'è dentro un casino di proteine.» Si stropicciò le mani. «Ma andremo avanti. Scopriremo cosa c'è che non va. Quando la dimetteremo sarà sano come un pesce.» E il gagliardo trombettista, lui sì sano come un pesce, se ne andò sorridendo. 

Niente visite per Edwin. R. Dickie ne ebbe parecchie. «Senti,» disse a un ragazzino «fa' il buon samaritano e va' da quel signore là. Non è venuto a trovarlo nessuno. Che vergogna, vero? Allora vacci e facci una bella chiacchierata e tiragli un po' su il morale.» Il ragazzino andò al capezzale di Edwin e ben presto s'immerse nelle riviste di nudo, dono di Charlie. Tirava di continuo su col naso e cercava di smoccicarselo sulle lenzuola di Edwin. 

Sloggiati i visitatori, R. Dickie disse: «È un bravo garzoncello, vero? Non dà noia a nessuno. Ogni volta» propose generosamente «che non ha visite, può sempre prenderne una delle mie. Io ne ho un sacco.» Visitatori e grappoli appartenevano per lui alla medesima categoria. 

Il nuovo paziente era in preda a un incubo. «Aaaaah» gridava nel buio. Il ghignante vicino di Edwin non si peritava di fornire nuovi risultati calcistici. Il giovanotto pulcinellesco tossiva. Edwin giaceva sveglio riflettendo sulle mirabilia della parola albicocca, in inglese prima aprícock poi apricot, in irlandese aibreog, in tedesco aprikose, in francese abricot, in spagnolo albarícoque, in portoghese albrícoque: tutti dall'arabo al-barquq (aramaico barquqa) derivante con anteposizione d'articolo dal greco praikokion, adattamento del latino praecoquum, ossia frutto precoce o primaticcio che dir si voglia. Quanto fascinosa è la divina filologia. Ma possedeva davvero maggior validità dell'incubo all'angolo o degli onirici esiti calcistici? Bisognava che Sheila, raffreddore o non raffreddore, venisse a trovarlo. 

L'indomani Edwin venne convocato nei sotterranei per un elettroencefalogramma. Elettroencefalogramma era un gradevole dotto vocabolo ridotto, sul cartello fuori della porta, a EEG… un volgare strillo da fumetto. Edwin fu accolto da un'altra nivea frizzante fanciulla che lo invitò a distendersi su un tavolo. In vena di chiacchiere, egli le domandò che cosa intendesse con l'elemento intermedio del termine 'elettroencefalogramma'. 

«Noi lo chiamiamo semplicemente EEG» rispose lei. Fissò una reticella sui capelli di Edwin, premendo sotto ciascun elettrodo del cotone idrofilo imbevuto d'acqua salata. «Altrimenti è una parola troppo lunga. Vattelapesca perché le fanno tanto lunghe.» Tutta impegnata nei preparativi, mentre collegava Edwin alla macchina le spuntava dalle labbra bella rossa la punta della lingua. La macchina somigliava a una consolle d'organo provvista di quadranti, con un chilometro di carta collocato superiormente in un rullo tipo pianoforte meccanico. 

«Cos'è che fa vedere, di preciso?» domandò Edwin. 

«Una specie d'impulsi elettrici prodotti dal cervello» rispose la ragazza. «Cosa se ne facciano non lo so proprio, ma serve a questo. Lei non deve far altro che rilassarsi. Apra e chiuda gli occhi quando glielo dico, e non si muova.» La ragazza sedette alla consolle. Dietro di lei c'era un pannello di vetro di là dal quale un uomo e un giovane tecnico in gonnella scherzavano silenziosamente. Da che parte era l'acquario, si domandò Edwin, di qua o di là? La coppia lo guardò come se fosse una cosa, rise di chissà quale spiritosaggine, se ne andò. Edwin si sentì inspiegabilmente più incavolato di quanto gli capitasse da un bel pezzo. Disse: 

«Non credo che ci consideriate davvero esseri umani. Un paio di lastre a raggi X, i vostri maledetti impulsi elettrici… spiacente, chiedo scusa per la scortesia. Quel che voglio dire è che…» 

«Permette?» lo interruppe la ragazza. «Devo fare il mio lavoro.» 

«Tutto qui, vero? Deve fare il suo lavoro e ritiene di farlo con qualcosa d'inerte, di passivo. Lei dimentica che sono un essere umano.» 

La ragazza lo guatò in modo inedito. «Se guardarmi la eccita» dichiarò con aria sussiegosa «non c'è mica bisogno che lo faccia. Può sempre fissare il soffitto.» 

Edwin rimase inorridito. Era questo, dunque, uno dei di lei rischi professionali, oppure un postumo della sua vita sociale, o invece un'affettazione indotta da cinema o televisione? «Non è affatto ciò che intendevo» ribatté Edwin. E avendo reso tale smentita sentì una sorta di desiderio rudimentale, o un desiderio di desiderio, risvegliarsi in lui. 

«Siamo qui» disse la ragazza in tono convincente «per aiutarla. Per ricondurla alla normalità. Adesso stia fermo con la testa e tenga gli occhi aperti.» 

Che cosa avrebbero detto i medici, si domandò Edwin, se avvertendo improvvisamente il sesso tornare ad avvampargli nelle vene egli avesse come un satiro aggredito una di quelle nivee compassate tecnoninfe stuprandola sulla sua stessa macchina mentre la carta continuava a scorrere e i pennini a cesellare forsennatamente i loro tracciati? Ne sarebbero rimasti, immaginò, assolutamente deliziati. Scrutò la ragazza, china sul grafico elettroencefalico che fluiva con regolarità. Lei alzò le pupille un istante, colse il suo sguardo, tornò contegnosa ad abbassarle. 

«Adesso chiuda gli occhi.» 

Edwin lo fece, e percepì più distintamente il palpito dei bulbi oculari, il flusso sanguigno che li traversava. Sangue giovane ancora. Cercò di colmare il vuoto con un harem una languida distesa d'anche, d'ombelichi, di capezzoli, di braccia - però non ravvisò risposta alcuna nei suoi lombi, soltanto una lieve contrazione alla gola. 

«Ora li riapra.» 

Pregno d'odio Edwin spogliò la ragazza del suo rigido candore, le strappò l'abito a fiori sottostante, la torchiò contro il pannello di vetro. Lei rimase compita a sguardo chino. Niente da fare: il più violento atto dell'immaginazione non era in grado di suscitare la minima reazione. Edwin sospirò, mero manichino in pigiama a righe disteso su un letto duro con in capo una ridicola reticella per capelli elettrodizzata, impegnato ad alimentare una macchina. 

«Tenga ferma la testa. Adesso richiuda gli occhi.» 

Edwin ripensò a un articoletto proposto a una rivista di studi sull'inglese popolare, articolo concernente la bilabiale fricativa e il suo perdurare durante secoli d'inglese colloquiale. Sam Weller , naturalmente, non scambiava «v» con «w»: utilizzava per entrambe un unico fonema, la bilabiale fricativa. Ma un cronista come Dickens, digiuno di fonetica, credeva di udire «v» quando si aspettava «w», «w» quando si aspettava «v». 

«Adesso» raccomandò la ragazza «non apra gli occhi. Li tenga strettamente chiusi. Li sottoporrò a un lampo di luce molto intenso. Cerchi di rimanere assolutamente immobile.» 

Nel cervello di Edwin un paio di braccia parvero stringersi attorno alla bilabiale fricativa, per proteggerla da tutta quella gente coi suoi camici bianchi e le sue luci e le sue macchine ronzanti. Poi venne il lampo: un vivido disegno colorato gli si impresse all'interno delle palpebre, raccapricciante e in qualche modo osceno. «Oh, Cristo,» esclamò Edwin «è stato orribile.» 

«Davvero?» disse la ragazza. «Allora riproviamo.» 

Riecco il vivido disegno osceno… coni, cubi, globi in abominevoli colori che Edwin non avrebbe saputo definire. La macchina cessò di ronzare. «Bene» fece lei. «Tutto qua. Ora può riaprire gli occhi.» Canticchiando a bocca chiusa un motivetto non meno monocorde del mormorio della macchina, tolse a Edwin la reticella e staccò i salsi tamponcini di umido cotone idrofilo. Poi, con fredda indifferenza, concluse: «Adesso può tornare al reparto.» 

Edwin sostò in corridoio tremante di una collera che gli risultava difficile spiegare. «Troia,» disse sottovoce «puttana, sgualdrina.» Ma aveva già scordato la ragazza elcttroencefalografica. Era come se l'osceno lampo gli avesse ingenerato un repentino e alquanto sorprendente odio per sua moglie. Si sentiva oltraggiato dal fatto che lei avesse ritenuto necessario mentire sì da non ferire i suoi sentimenti. Consultò l'orologio da polso: quasi mezzogiorno. Le avrebbe telefonato onde mettere perfettamente in chiaro che non era minimamente obbligata a fargli visita se non lo desiderava. Anzi, meglio, le sarebbe stato assai grato se avesse cessato del tutto di venirlo a trovare. «Lasciami in pace,» le avrebbe detto «lasciami solo con la mia malattia e la mia bilabiale fricativa.» Poi si rese conto che, ovviamente, una soluzione del genere non avrebbe risolto nulla. Oltretutto l'impresa di reperire spiccioli con cui effettuare la telefonata sarebbe stata, prevedeva, estenuante. Lasciamo perdere, decise. 

Quella sera se la vide arrivare da sola, che tirava su col naso in preda a un'autentica infreddatura, e com'era inevitabile le disse: 

«Non saresti dovuta venire.» 

«Sì, l'ho pensato anch'io, ma mi son detta… be', chissà come ci saresti rimasto male a non veder nessuno, probabilmente.» 

«E poi non è mica una visita qualunque che desidero, vero?» 

«No, immagino di no. Oh, come vorrei che fosse tutto finito.» Parole che pronunziò con gran fervore, come se il suo coinvolgimento nella malattia di lui fosse ben più della semplice immedesimazione di una mogliettina affettuosa. Ed Edwin pensò che doveva esserle stato confidato un segreto circa la malattia e la sua prognosi. Sheila non riusciva mai a serbare disinvoltamente un segreto: per lei era un tormento non esser libera di spiattellare tutto proprio alla persona che doveva essere l'ultima a sapere; inclinazione affine, ipotizzava Edwin, alla sua incontinenza sessuale. Pertanto le disse: 

«Se Railton ti ha rivelato qualcosa che non dovrei sapere… be', mi conosci abbastanza. Sono adulto e vaccinato. E come non piacciono a te, i segreti non piacciono neppure a me.» 

Lei si alzò con fare nervoso dal bordo del letto. «Te l'ho già detto» rispose. «Niente di speciale, soltanto che andava tutto bene e non dovevo preoccuparmi, tutto qui. Davvero.» Nei suoi occhi uno sguardo implorante. «Ora» soggiunse «bisogna proprio che vada. Da un momento all'altro suoneranno quella maledetta campanella, e detesto che qualcuno mi ordini di uscire.» 

«Ma sei appena arrivata. C'è un sacco di tempo.» 

«Ascolta» replicò lei in tono pacato. «Non serve a nulla. Insomma, non vedi che situazione ipocrita? In realtà non abbiamo niente da dirci, e continuiamo tutti e due a guardare l'orologio di nascosto. Puoi negarlo? Non è normale, una cosa del genere… ho i nervi a fior di pelle. E poi lo sai che odio gli ospedali.» 

«Il che significa che non vuoi vedermi, vero?» 

«No, la questione è diversa. Finché stai qui dentro ho l'impressione che non sei veramente tu. E infatti non sei davvero tu, non credi? Sei tu, però malato. Sei tu ma come… come in stato comatoso, non so se mi spiego. E non sopporto questa mancanza d'intimità e il tener d'occhio l'orologio e tutta questa situazione innaturale. Quindi ti spiacerebbe proprio tanto se non venissi ogni sera?» 

«Ecco,» rispose Edwin lentamente «se devi prenderla così… Ti capisco, sai, non credere che non ti capisca. Potresti magari» domandò «scrivermi qualche lettera?» 

«Sì che potrei farlo. Buona idea, sì.» 

«Per quanto paia un po' ridicolo, nevvero, alloggiando tu a un paio di cento metri appena da qui.» 

«E poi» propose Sheila impaziente «c'è un bel po' di gente all'Anchor che sarebbe felicissima di venire a farti visita. Così non resteresti troppo solo.» 

«D'accordo, così sia s'è così che vuoi che sia. Vuoi dire che posso aspettarmi un corteo di pittoreschi personaggi di basso ceto disposti ad allietare la mia solitudine?» 

«Be', sono stati cortesi a offrirsi, non credi?» 

«E tu quand'è che torni a trovarmi?» 

«Oh, fra pochi giorni. Nel fine settimana. Ti prego, Edwin, non farmi prendere impegni precisi. Lo sai quanto aborro i vincoli. Torno abbastanza presto, promesso.» 

All'espletamento degli esami successivi non risultava sufficiente una sola operatrice in camice bianco, ragion per cui si presentarono maggiori occasioni per trattare Edwin alla stregua di una cosa. Disteso impotente sovr'un tavolo nel sottosuolo egli poteva essere oggetto di discussioni oppure, allorché prevaleva un clima socievole, semplicemente ignorato. Gli esami furono approfonditi e meticolosi, sicché egli venne ulteriormente palpeggiato, ulteriormente sollevato, recalcitranti parti del suo corpo subirono ulteriori rimbrotti. Quando però si mostrava particolarmente docile e malleabile veniva elevato al rango di animale domestico e accarezzato. 

I medici esigevano un arteriogramma. Una rosea infermiera cicciottella dalle labbra vermiglie gl'inoculò un sedativo nel deretano, quindi lo si trasportò in lettiga a un ascensore trasferendolo dabbasso. Le radiologhe l'accolsero cordialmente: donne più mature, e forse più verginali, di quelle incontrate in circostanze precedenti. Lo fecero scivolare sopra un tavolo operatorio sotto gli occhietti e le bocchette di un apparecchio a raggi X, poi furono lieti conversari e affaccendarsi nell'attesa del dottore apritore d'arterie. 

«Ho messo un cono nuovo, Mabel.» 

«Oh, bene.» Un gridolino sul capo di Edwin. 

Edwin vide volti capovolti scrutarlo indifferenti. Orribile è il viso umano a rovescio: troppi orifizi, di gran lunga più mostruoso di qualsivoglia mostro dello spazio profondo. 

«E lei allora cos'ha detto?» 

«Ha detto che non intende passar tutta la vita ad attendere l'uomo ideale. Perché quando l'avrà trovato, ha detto, sarà comunque troppo tardi.» 

«Ma chi si crede d'essere per cianciare d'attendere l'uomo ideale? Glieli hai visti quei capelli?» Seguì una sbuffata beffarda. 

Il volto capovolto 

D'un membro qualchessia dell'umana genia 

Di gran lunga è più mostruoso d'ogni 

«Salve, ragazze.» Si trattava di un dottore canadese, dal volto affilato e con folti capelli en brosse . Era giovane e con ogni evidenza assai accessibile ai profani. «Questo è il nostro paziente? Signore, i miei rispetti.» 

«Dottore» corresse Edwin. 

«Sì?» fece il dottore. «Esatto, sono il dottore. Adesso le somministrerò un blando anestetico locale.» Agguantata l'arteria sul lato destro del collo di Edwin v'iniettò il suo narcotico. Sedette quindi in attesa. Altri due giovani medici nullafacenti sopraggiunsero e lo raggiunsero. Intervennero amichevoli convenevoli e le voci femminili crebbero di volume, percorrendo un bel tratto lungo la breve femminea tratta che mena all'isteria. Hysterikos, hystera, l'utero. Ma Freud aveva dimostrato che non esisteva correlazione, nonostante l'etimologia. 

«E come ve la siete passata in Italia?» 

«Ce la siamo spassata, direi. Molto buono .» 

«Attento alle vocali» ammonì Edwin quasi automaticamente. 

«Abbiamo bevuto il vino  e cercato di farci le señoritas. Molto bella .» 

«Le seiioritas le trovi in Spagna,» eccepì una radiologa «non in Italia.» 

«Sempre quelle sono, comunque le chiami, dovunque vai. Le donne sono tutte uguali, sono fatte per farsele.» 

«Non è vero che sono tutte uguali» insorse provocatoria la radiologa. «Grazie tante.» 

«Non ringraziarmi, sorella. Allora, è ora di cimentarsi con quell'arteria.» 

La stanzetta sotterranea pareva piena di gente, di volti capovolti tutt'intorno a Edwin, di giocondi suggerimenti mentre il medico canadese tentava d'acchiappare l'arteria divincolantesi. «Sembra viva» disse. «Sembra un serpente o poco ci manca. Allora,» disse a Edwin «in questa siringa ho una specie di tintura, una tintura a base di iodio. Entrando in circolo colora i vasi sanguigni, di modo che fotografandoli fa vedere cosa c'è che non va. D'accordo?» 

Ma l'arteria aveva vita propria. Edwin vedeva gli occhi puntati sovr'essa, affascinati, come assistessero a un duello all'ultimo sangue fra feroci animaletti. «Perdio!» sacramentò il medico. «Non vuole proprio entrare.» Finalmente un urlo collettivo di trionfo salutò lo stabilirsi del contatto, l'arteria venne trafitta e la tintura iniettata al suo interno. Una giovane donna in camice bianco dalle mani fresche prese a introdurre nell'arteria una soluzione fisiologica. Si fecero i preparativi per la radiografia. 

«Sentirà» disse una delle donne altivocianti «una sensazione come di calore da tutta questa parte. D'intenso calore. Ma sia quel che sia, non si muova.» 

La ripresa delle foto parve, al disorientato Edwin, comportare l'enunciazione urlata di segnali. A un forte grido che somigliava a un «Vai!» fece seguito il calore, e non solo. Un patimento che sembrava di color verde e sapeva d'ossido d'argento e per giunta pareva mostrare, in virtù d'un qualche miracolo sinestesico, che aspetto avessero i nervi momentaneamente sotto tortura, gli si abbatté sulla faccia cavandogli gli occhi, estirpandogli i denti con gelide tenaglie. Anche stavolta punto dolente non era il dolore, bensì la ripugnante consapevolezza di quali perverse esperienze si annidassero in agguato nel corpo. 

«Ma come fa il bravo» disse la ragazza della soluzione fisiologica. «Sì, bravo davvero.» E il braccio destro di Edwin conobbe una breve carezza. Vi fu una pausa. Ora toccava all'altra arteria farsi perforare e colmare di colore, di calore, di dolore. 

L'insignificante diviene, allorché reduplicato, significativo. Una macchia grossolana disordinatamente espansa s'un foglio produce, ove la carta venga piegata in due e poi dispiegata, un disegno che, pur sempre grossolano, si presta a una lettura. Fu così che la reiterazione dei procedimenti sull'altro versante del collo fornì a Edwin una strana immagine di bellezza. L'esame divenne un rituale. L'arteria serpeggiante fu acciuffata, domata, forzatamente alimentata. La testa inerme di Edwin venne collocata sotto il macchinario sospeso, giunse di lungi il grido isterico, e di bel nuovo si die' la compagine gusto d'ossido, dolore verde - come fosse un urlo d'albero - e sradicamento di denti e occhi. «Bene» dissero tutti. «È fatta.» 

Edwin venne risospinto s'una lettiga, traslato all'ascensore e ricondotto di sopra. Al ritorno l'eroe trova ad accoglierlo un mondo immutato. Il giovanotto col groppone da Pulcinella era in via di scazzottamento e scatarrava il suo schiodato escreato. R. Dickie sedeva tranquillo come un pascià sulla padella. Al nuovo arrivato con la gamba strasciconi e la mano sbattiuova avevano rapato il capo; vagava pel padiglione, strascicando e frullando, in papalina di lana. Avvicinatosi a Edwin chinò su di lui, baffi grigi tremolanti, uno sguardo intercettato da spesse lenti. 

«Seppi da che lillo gnaffe?» disse. 

«Molto probabile, direi» rispose Edwin. 

«Bongo» annuì l'uomo e, apparentemente soddisfatto, lasciò il padiglione in direzione dei cessi. R. Dickie disse: 

«Non parla inglese come lei e me. Il cervello, sa. Ma loro glielo aggiustano e dopo sfodererà un inglese fino, l'inglese del re e anzi meglio della regina, l'inglese che parliamo io e lei e tutto il baccellaio. Poveraccio. Si chiama signor Ridgeway, e conosce bene certe strade dove ho lavorato. I nomi non riesce a dirli bene, però si capisce uguale a cosa allude. Stamattina qui al mio capezzale tutti me li ha snocciolati ben bene, quei nomi. Pensa un gran bene di me, si vede bene. Fantastico, no?» 

Trascorse la giornata inebetita su Edwin apatico in letto. A sera vennero a trovarlo due visitatori. Ne riconobbe uno, l'omaccione mustacchíuto, il ruttatore a mo' di squillo del corno di Sigfrido, l'urlatore di «Nothung!». Si chiamava Les, ricordò. Assieme a Les c'era una femmina ignota e bizzarra che Edwin stentò a inquadrare. «Una lettera della sua signora» disse Les. «M'ha chiesto di portargliela. Le hanno un po' ammostato il collo, vero?» Edwin lesse: 

Caro, 

scrivo come promesso anche se ovviamente non ho molto da dire. Spero tu stia bene. L'uomo con barba che si chiama Nigel ed è un artista stasera mi porta a una specie di enoteca. Cercherò di venire fine settimana. Stammi bene, tesoro. 

Sheila. 

«Molto gentile» disse Edwin. «Molto gentile davvero. Ma non doveva disturbarsi, proprio non doveva.» La compagna di Les era una bruna dalla faccia di luna piena, evidentemente mediterranea, abbigliata d'un maglione azzurro in affanno patente sotto la prepotente pressione pettorale e una sottana decorata con nomi gastronomici: kebab, risotto, pilaf, chow mien, nasi goreng. Possedeva penetranti occhi scuri, una gran massa di capelli corvini e innumerevoli verruche. Recava tatuato sulla gola un emblema enigmatico. Edwin si aspettava che gli fosse presentata, ma Les disse: 

«Stasera non c'era niente in programma, quindi ho pensato che un posto valeva l'altro. Ieri sera c'era il Sieg e domani sera c'è il Goff , ma stasera non fanno nulla. Il lavoro è pesante e una sera di tregua ci vuole. I cantanti cantano e si fanno gli affari loro, ma io glielo dico sempre che dovrebbero provarci a scarrozzarsi avantindietro il dannato Walhalla senza dimenticarsi indove sta il maledetto oro del Reno pronto per rischiaffarlo in acqua. Una volta s'è perso e per cercarlo han fatto il diavolo a quattro. Per questo m'hanno smesso da trovarobe e m'hanno rimesso all'attrezzeria pesante.» Sembrava decisamente in grado di gestirla, l'attrezzeria pesante, pensò Edwin: spalle di quercia massiccia, un collo che pareva un ceppo, un petto grosso come una grancassa. S'era seduto sul bordo del letto mentre la sua madama rimaneva in piedi a braccia conserte, fumando. 

«Lì oltre da qualche parte dovrebb'esserci una sedia» disse Edwin. Il problema era che R. Dickie aveva tanti di quei visitatori: il suo letto sembrava il letto di Socrate in punto di morte. 

«A Carmen non gli rincresce stare in piedi» disse Les. «Carmen non è mica il suo vero nome, ma quando l'ho conosciuta trafficavo a quell'opera, e in qualche modo m'è sembrato che gli andasse a pennello. È proprio una scocciatura con tutti quei cambi di scena: tabacchifici, arene, caverne di briganti. Ma l'Aida è peggio ancora. In pratica tocca montare l'Egitto intero, piramidi, canale di Suez e compagnia bella. Questo signore» disse Les scandendo a Carmen «è ammalato. Perciò siam venuti a trovarlo.» Carmen fece la riverenza. «L'inglese lo spiccica così così» disse Les. «L'han fatta venire dal Nordafrica per fare il mestiere, non so se mi spiego.» Fece occhiolino. «Ma io l'ho tolta dalla strada. Uno magari potrebbe aspettarsi un briccico di riconoscenza.» 

«Yo hablo español, señora» disse Edwin. Carmen allora parlò. Sorrise mettendo in mostra un catafascio di carie, ritrazione gengivale e ferraglia, e disse: 

«Caspita, sentito? Parla corno bravomo. Perché tu no parla comò lu? Tu sempre quelo danato iaculo. Señora, lu dice. Vecia ciavata schifosa e troia fututa, tu dice. Perche tu no bravomo? Tu nisba soldo uno giorno, duo, tre. Uno giorno io va. Cribio, sì, trova bravomo. Como lu lo trova.» 

«È un pochino scocciata perché non l'ho sposata» spiegò Les con voce pacata. «Gliel'ho detto che non posso, non sotto questi cieli. Ne ho già una a Gateshead. Buona cosa, per certi versi, averne una da qualche altra parte. Le tiene sul chi vive.» 

Carmen aveva raccattato una delle riviste di nudo. «Birichino» disse, rivolgendo a Edwin un lascivo sorriso cariato. «Tu molto birichino.» E si esibì ridacchiando in un vivace andirivieni pelvico. 

«Piantala immediatamente» ordinò Les. «Proprio non vuoi capire. Qui siamo in Inghilterra, non in Nordafrica. Siamo gente civile, qui. È una figlia della natura» spiegò a Edwin. «Ecco il suo problema.» 

«Caramba, io no fa cosa bruta quano fa così.» 

«Sì, lo sappiamo che non volevi far nulla d'inurbano, ma ogni cosa a tempo e luo-

go, ragazza, ricorda. Al momento ci troviamo qui in questo ospedale in visita a questo signore la cui moglie conosciamo e che tu dici che ti piace tanto. Capito?» 

«Chi moglie? Lu moglie? Cià moglie?» 

«Sì, certo, quella che t'ha offerto il doppio gin quando l'altro giorno hai ballato quella specie di fandango. Quella che gli hai pettinato i capelli.» 

«Oh, quela? Capeli neri, ma mica tanti. Io cià più capeli neri. No me piace mica tanto. Vecia ciavata schifosa anco quela. Bala co' greco.» 

«Lascia perdere con chi balla» replicò Les. «Sono affari suoi. E non t'azzardare a chiamare le altre donne troie e ciabatte solo perché sei gelosa» la rimbeccò aspramente. «Non t'ho portata qui a conoscere un signore rispettabile e istruito per consentirti d'insultarlo apertamente. Siamo in visita agli infermi» spiegò. «Un'opera di misericordia corporale, come suol dirsi.» 

«Troia e ciavata tu ciama me, sì. Caspita, io sente. Quano semo casa io te fa ve' sorci verdi, sì. Oh cribio.» 

«Non è vero che t'ho chiamata troia e ciabatta» ribatté Les, in tono paziente ma ad alta voce. «Ho detto solo che non devi chiamare così le altre donne, specialmente la moglie di questo signore. La quale è una signora, il che non può certo dirsi di te.» 

«Tu dice io no segnora? Caramba, ora te fa ve'.» Gli si avventò contro ma Les, sollevando tranquillamente un braccio, un braccio avvezzo ad abbattere il Walhalla e prosciugare il Reno, l'afferrò per il polso. «No, ahi, basta!» gridò lei di dolore. «Oh cribio.» 

«D'accordo, però comportati un pochinino meglio. Spiacente per l'incidente» disse a Edwin. «Non posso condurla da nessuna parte, come può vedere.» Constatando che il reparto era molto interessato alla scenata pseudoconiugale, Edwin s'ingegnò di prenderne le distanze vieppiù rincantucciandosi in letto, senonché il letto stesso era per l'appunto divenuto campo di battaglia. Carmen tentò di mordere. 

Les disse: 

«Mordi, eh? Mordi e sgraffieggi come una miciagatta, eh? Ma sarà ben il caso di smetterla subito, vero, mia pusilla passiflora?» 

«Yo me voy cagar…» 

«E al bando le parolacce spagnole, inoltre. Questo signore, essendo ch'è istruito, sa ben quel che vogliono dire, e ci arrivo benino anche io pur essendo che sono ignorante. Ignorante, ecco ciò che pensi ch'io sia, vero, mia cucciola bellezza bruna?» Le torse il polso come girasse un cacciavite. 

«Oh cribio, bruto stronzo putano.» 

«Quell'espressione triviale potrebbe quasi ammettiamolo addirmisi, ma l'ultima parola no di certo che no, selvaggio mio fiore africano. Quindi fammi ti prego il favore di tapparti cotesta lurida deliziosa boccuccia di merda, chiaro?» 

«Tanto te piglia, vede tu se te piglia.» 

«E invece ti sbagli» disse Les. «Ti pigli un abbaglio. E adesso ti porto via di qui prima che ti sbattono fuori loro.» Niente infermiere in vista, latitante la caposala, ma l'inserviente negro ciondolava nei pressi timoroso e titubante. «Torneremo a farle visita» disse Les «se mi riesce d'indurla a comportarsi con decoro. Prima di ricondurla qui le caccerò di corpo a suon di sberle questa esecrabile selvatichezza primitiva, vedrà se non la dirozzo.» Più brusco e menò nevrotico del don José operistico, la trascinò fuori. «Spero che si rimetta» gridò dalla porta. 

Edwin pensò che forse l'iniziativa di Sheila dell'invio delegazione non era, in fin dei conti, un'idea tanto buona. Partiti che furono tutti i visitatori R. Dickie lo interpellò amichevolmente. 

«Parenti suoi?» 

E giunse più tardi il dottor Railton massaggiandosi le labbra a dire: 

«Dopo gli esami dovrebbe rimanersene tranquillo, sa? Giacere immobile, placido e pacifico, ecco cosa dovrebbe fare. Ho invece saputo che s'è dimenato come un ossesso o giù di lì, stando almeno a quanto m'ha detto un'infermiera. Non faccia così, non si agiti. Necessiterà d'ogni stilla d'energia che le riuscirà di spremersi innanzi che s'abbia finito con lei.» Sedette sul letto. «Allora, abbiamo dato tutti un'attenta occhiata alle immagini odierne. Qualcheccosa c'è di sicuro, riteniamo. Ma dobbiamo acquisirne certezza assoluta intrufolandoci un tantino più a fondo. Posdomani le pomperemo pertanto aria nel cervello e scatteremo altre foto. Quanto ne risulterà avrà valenza definitiva.» Sbottò in una risata fanciullesca e mollò una pacca sulla coscia celata di Edwin. Augurò quindi buonanotte e tornò, suppose Edwin, alla sua tromba. Stronfia chi tromba e chi soffia la tromba, chi s'insuffla si scava la tomba. 

«Immagino» disse la voce alle sue spalle «che incominci a conoscere questa sensazione abbastanza bene ormai.» Edwin sedeva a chiappe ignude similmesso alla berlina in un'altra stanza sotterranea, assistito su ciascun fianco da nuove meno chiassose ninfe in vesti bianche. Il medico si era già presentato in veste di psichiatra per una rinfrescatina d'un paio di settimane in materia neurologica e parlava in tono professionalmente tranquillizzante. «Pochi centimetri cubi» tranquillizzò «di liquido cerebrospinale.» L'ago penetrò in profondità, le vertebre di Edwin si abbacchiarono secondo copione, il pavimento si disseminò di condili e dischi scaraventati come ossa di pollo durante un epico banchetto, il suo sugo vitale sbrodolò dappertutto. «Ottimo, perfetto» approvò il medico. Ben presto fece fugace comparsa una provetta di gin alla spina. 

«E adesso ristabiliamo l'equilibrio. Avendo sottratto qualcosa al suo cervello, qualcosa provvederemo a immettervi. Qualcosa di assolutamente innocuo. Qualcosa che all'ospedale non costa nulla. Aria. Sì, aria. La quale aria, alla maniera dell'aria, dal punto d'ingresso ascenderà al cervello, circolando liberamente. Dopodiché entreranno in azione queste incantevoli signore.» Mentre la voce melliflua induceva Edwin alla sonnolenza si udivano le smancerie delle incantevoli signore. 

L'aria penetrò timidamente, cautamente si fece strada su per l'osseo camino, si suddivise in tranquilli coccodrilli girovaganti per non mai visti cammini. Edwin patì d'improvviso una gran sete e un'intensa nausea. 

«Adesso stia fermissimo.» 

«Mi sa che sto per vomitare» disse Edwin. 

«No che non vomita. Che avrà mai da vomitare. Ha lo stomaco vacante. Fermo con quella testa piuttosto.» 

La nausea si placò ma la sete si ostinò. Edwin ebbe visioni di trafitte noci di cocco qual bronzee villose mammelle e cubetti di ghiaccio sciabordanti a tintinnabulo in una pinta di gin gingerato, si vagheggiò succubo a un rubinetto d'acquaio spalancato a tutta randa, si agognò con la bocca impippiata di neve, coi denti sgranocchiami limoni. Uno scatto, una foto. Bene, ora un'altra. Clic. 

«Adesso la mettiamo a capo in giù. Sentirà l'aria borbogliarle dentro. La sente? Dev'essere una sensazione buffa assai.» 

Ce l'avevano col suo corpo, Edwin ne aveva certezza. Era d'intralcio, un lungo sgraziato messiticcio rampollato dalla patata che stavano cercando di sbucciare. Magari si fosse potuto, possibilmente in maniera indolore, momentaneamente recidere la testa e poi, tramite una resina epossidica o altro, ricollocarla in loco. L'aria sibilava nelle circonvoluzioni e nei meandri del cervello di Edwin, e le signore in bianco, anelanti, la persuadevano con mille e una moina a palesarsi all'occhio che avrebbe visto tutto. Clic. Riclic. Ci volle quasi tutta la mattina. 

«Avrà per un paio di giorni un'emicrania piuttosto feroce» pronosticò una signora. «Dovrà starsene chiotto e mansueto.» 

«E dell'aria che ne sarà?» Edwin si sentiva esageratamente spiacente per detta aria, imprigionata in cotanto labirinto. «È possibile risucchiarla fuori?» 

«L'aria» risposero «verrà assorbita.» 

Il paziente e la sua aria furono ricondotti in lettiga al padiglione, dov'era in corso un convegno di ghignatoli patologici. Disteso immobile sul letto, Edwin prestò orecchio al vicino in vestaglia e ai due giovanotti in maglioncino saliti da medicina generale, ostacolati nell'eloquio dall'inquietante irremovibile smorfia che li accomunava. 

«Le dirò, se l'incontrassi per strada e fossimo entrambi così combinati penserei che vuol prendermi pei fondelli, non crede?» 

«Potrebbe anche accadere viceversa, a seconda di chi guarda per primo.» 

«Assolutamente impressionante. Ci sarebbe da far soldi in qualche film dell'orrore.» 

Edwin ebbe improvvisamente la sensazione che la faccia gli si fosse incoercibilmente contorta e irrigidita in una maschera da homme qui rít. Con la mano sinistra si tastò prima una gota poi l'altra, quindi fece un allungo verso l'armadietto personale per attingervi lo specchietto da barba. L'aria che aveva nel cranio e nel capo parve scindersi. Tornò a sdraiarsi, persuaso che se avesse dovuto parlare gli sarebbero scaturite dalla bocca spalancata le medesime vocali incolori e ghignanti che adesso udiva. Disse a voce alta: 

«Ye Old Tea Shop è un solecismo. La 'Y' è un erroneo sostituto della lettera anglosassone denominata thom, che fungeva da 'TH'.» 

Tacquero i convegnisti. I giovanotti in maglioncino dichiararono di opinare che avrebbero fatto meglio a scendere per il pranzo. Edwin si rendeva conto di versare sotto stretta sorveglianza da parte del vicinato viciniore. Certo, se lo reputavano pazzo… La sua bocca serbava comunque intatta la propria mobilità, era capace di farsi tondeggiante quanto beante; egli l'aveva indubbiamente dimostrato. 

Un'altra lunga giornata uggiosa, pastone insipido condito di sbadigli. In orario di visite entrò a passo strascicato un ometto in un vecchio abito sformato, berretto e sciarpone. Recava in mano un foglietto. Lo mostrò a un'inserviente italiana impegnata nella rimozione dei crisantemi. Quella indicò il letto di Edwin. «Il dottore » disse in tono privo di sarcasmo. L'uomo, senza togliersi il berretto, strascicò a destinazione. 

«M'ha detto di venir qua» dichiarò impalandosi in posizione di riposo. Era un tipo giovanile benché segnato dalle rughe, con incisivi e canini sfacciatamente prominenti di concerto in foggia di cuneo. «È stata lei a dirmi di venire.» «Gentile, davvero gentile» ringraziò Edwin. 

«M'ha battuto a shove-ha'penny  all'ora di cena. Non pensavo che mi batteva, no proprio, e non avevo di che pagargli una pinta. Quindi non ho potuto pagargliela. Allora in cambio m'ha detto di venir qui.» Permaneva in posizione di riposo, ma teneva gli occhi sull'attenti. Erano occhi cilestrini, e guardavano fisso il muro spoglio dirimpetto. 

«Non c'è bisogno che rimanga se non vuole» concesse Edwin. 

«Devo. Quel ch'è giusto è del dovere. M'ha battuto a shove-ha'penny.» Cadde il silenzio e si protrasse. Poi Edwin disse: 

«Come la chiamano?» Un tipo come quello, ne era certo, un nome vero non ce l'aveva. 

«Ippo.» 

«Hippo? Perché la chiamano così?» 

«Perché mi chiamano così. Ippo.» 

«Davvero un nomignolo coi fiocchi, direi. Mai sentito parlare di sant'Agostino d'Ippona ?» 

Senza abbandonare la posizione di riposo, l'uomo volse lo sguardo su Edwin con un barlume di vivacità dicendo: «Strano che me lo chiede. Era la scuola che stava a due passi da noi. Santa Gosti. Quando i ragazzi tornavano a casa ci facevamo sempre a botte un pochino. Ci sono rimasto poco, però.» 

«Come mai?» 

«Sempre in giro eravamo, sempre in giro per un sacco di tempo. Il mio vecchio era parecchio severo. Ci pestava a sangue noi ragazzi. Così adesso mica so leggere e manco scrivere. Mica bene cioè.» 

«Che mestiere fa?» 

«Quel che capita, capirà. Un po' qua un po' là. Adesso porto un po' in giro i cartelli. Pubblicità. Uno davanti, uno di dietro, tipo tramezzino. Però non lo so cosa ci sta scritto. Vattelapesca.» 

«Sì, mi rendo conto.» 

«Così è la vita.» 

«S'intende.» Altro lungo silenzio. Che Edwin infranse dicendo: «Ho avuto una giornata piuttosto difficile. Vorrei dormire. Ora può andare, se vuole.» «Terrò duro.» Risolutamente in posizione di riposo. 

«Non c'è bisogno se non vuole.» 

«Lei ha detto che dovevo.» 

«Capisco. Io però vedrò ugualmente di dormire.» Edwin si distese di fianco, osservando di tra le ciglia lo scrupoloso ometto. Ma il finto sonno divenne sonno vero: doveva pur sfuggire all'assillante cefalea. Al risveglio i visitatori se n'erano tutti andati da un pezzo. Si chiese che ora fosse e dolente indirizzò lo sguardo allo stipetto sul quale teneva di solito l'orologio da polso. L'orologio non c'era più. Strano. Si alzò a sedere e guardò ancora. Non poco preoccupato, essendo quell'orologio un regalo di Sheila, e un regalo costoso per giunta, aprì i due scomparti dell'armadietto. Non era facile frugare nel guazzabuglio d'asciugamani e sudici pigiami dismessi restando a letto. Con estrema cautela, Edwin cominciò a sortirne. L'aria gli caracollò da un capo all'altro del cervello e il dolore martellò selvaggiamente. Perlustrò ginocchioni ambedue gli scomparti, cercò sotto lo stipetto, esplorò dietro. Niente orologio. Be', cavolo, ben le stava. Era un'idea sua, no? Mandargli gli eccentrici loschi personaggi che incontrava al bar, ladri, adulteri, fors'anche persino assassini. Nella sua chiorba affranta la sofferenza adesso era quasi insopportabile. Proprio nel mentre si ritrascinava a letto sopraggiunse tutto giulivo il dottor Railton. 

«Ha una vera vocazione per disobbedire agli ordini, vero?» disse il dottor Railton. «Mi chiedo a volte com'abbia fatto a diventar dottore.» Era evidentemente, per quel dottore in medicina e chirurgia, un punto dolente. «È una questione di elementare 

buon senso, alla fin fine, evitare il dolore per quanto possibile.» 

«Vede, si tratta del mio orologio. Cercavo il mio orologio.» 

«Ora lasci stare l'orologio. Dobbiamo parlare di cose assai più serie, altro che orologi. Forse sarà meglio disporre i paraventi.» Trasse i cigolanti siparietti rotati verso il letto in cui Edwin era tornato a coricarsi, creando una fragile stanzetta privata che nulla prometteva di buono. 

«Non vorrà mica sottopormi a qualche esame adesso, vero?» paventò Edwin. 

«No, adesso no. Voglio parlarle degli esiti degli esami pregressi.» 

«Mi dica.» 

«C'è davvero qualcosa. È stato abbondantemente confermato. Ora sappiamo esattamente dove si trova.» 

«Sì, ma che cos'è?» 

«Lasci perdere che cos'è. È qualcosa che non dovrebb'esserci, tutto qui. Non ha bisogno di apprendere altro. Qualcosa che dovrà essere rimosso.» 

«Un tumore, immagino» concluse Edwin. «È questo che ha detto a mia moglie, presumo. Non avrebbe dovuto gravarla d'un simile segreto. Non è giusto. Perché non dirlo direttamente a me?» 

«Perché metterla in allarme prima dell'indispensabile? Non che vi sia nulla per cui veramente allarmarsi. L'operazione è faccenda abbastanza semplice.» 

«E se fosse maligno?» 

«Non lo credo. Naturalmente non si può mai dire, ma non lo credo. I profani,» proseguì il dottor Railton pigiando immaginari pistoni di tromba sul copriletto «i profani tendono a essere impressionabili di fronte alla terminologia medica. Cancro, gastrico, maligno. Le basti sapere che nella sua testa s'attesta qualcosa che non le giova affatto, e che questo qualcosa può essere asportato rapidamente, agevolmente e in modo indolore. Mi rincresce» aggiunse il dottor Railton «che si sia reso necessario accollare a sua moglie i nostri sospetti. Ha un carattere estremamente emotivo. Ma si trattava di ottenere la sua autorizzazione a operare, ove un'operazione si fosse rivelata imprescindibile.» 

«Ve l'ha data l'autorizzazione?» 

«Oh, sì. Era molto in pensiero per lei, desiderosissima di vederla tornare in piena forma.» 

«E con la mia autorizzazione come la mettiamo?» 

«Parliamoci chiaro» rispose il dottor Railton. «Non possiamo evidentemente trascinarla in sala operatoria mentre urla il suo rifiuto a farsi operare. E abbastanza sano di mente, e ha piena facoltà di scelta. Ritengo tuttavia che non le sarà difficile comprendere che è assolutamente nel suo interesse formulare un assenso.» 

«Non lo so» ribatté Edwin. «A dire il vero non mi sono poi sentito troppo male finora, malgrado i mancamenti e altri fatti bizzarri, problemi di sesso e via dicendo. Ho l'impressione che potrei comunque sopravvivere senza che qualcuno venga a pasticciarmi dentro il cranio.» 

«Non ne sia troppo sicuro» replicò il dottor Railton, continuando a premere con dita palpitanti i pistoni di tromba sul copriletto. «Direi che nella condizione attuale corre seri rischi. C'è anche la questione del suo lavoro in Birmania.» 

«Potrei rinunziarvi.» 

«Dovrebbe però trovarne un altro altrove. Non sarà facile. E tenga presente che andrà costantemente peggiorando.» 

Edwin ci rifletté un poco. «Non ha dubbi circa l'esito positivo dell'intervento?» 

«Qualche dubbio sussiste sempre. Non potrebb'essere altrimenti. Ma le probabilità che l'operazione abbia successo sono schiaccianti. Cento a uno, oserei dire. A cose fatte lei sarà un uomo diverso, non sarà più la stessa persona. Ci benedirà, glielo garantisco.» 

«Un uomo diverso, eh? Con una diversa personalità.» 

«Oh, nulla di radicalmente mutato. Sarà sano invece che malato. Le basta?» 

«Capisco. D'accordo. Quando?» 

«Martedì prossimo. Bene» approvò il dottor Railton. «Bravo ragazzo.» 

«E mettiamo caso che nel frattempo cambiassi idea?» 

«Non lo faccia» rispose serio il dottor Railton. «Qualunque cosa accada, non ci ripensi. Si fidi di noi, si fidi di me.» Si alzò a braccia spalancate, un personaggio di cui ci si poteva fidare, somigliante peraltro oltremisura a un trombettista da orchestra da ballo che avesse deposto lo strumento per prodursi in una cantatina. 

«D'accordo» disse Edwin. «Mi fido di lei.»

Domenica pomeriggio comparve Sheila, appena un poco alticcia, trascinando per mano un recalcitrante giovanotto barbuto. Appariva più giovane e carina, era elegantemente truccata, e indossava il soprabito in opossum nocciola sdondolante aperto sopra un nuovo abito in mohair. «Caro!» esclamò. «Tesoro, mio diletto.» 

«Scusa se non scendo di letto a salutarti» disse Edwin. «Ho ancora quest'aria che mi stranguglia dentro.» 

«Oh,» fece Sheila «voi due ovviamente non vi conoscete. Strano davvero, nevvero? Nigeledwin. Edwinigel. Sono sicura che vi piacereste un sacco se aveste occasione di conoscervi a dovere.» 

«Piacere.» 

«Piacere.» 

«Senti,» disse Edwin «quell'omiciattolo orrendo m'ha fregato l'orologio. Quello che hai battuto a shove-ha'penny che si chiama Ippo.» 

«Davvero? Che fregatura. Dopo non l'ho più visto, non l'ha più visto nessuno. Era di passaggio, il riposino del tramezzino, e 1'Anchor non è mica il suo locale abituale. Quanto sei fesso, Edwin. Ti fidi troppo, ecco il tuo problema. Bisognerà trovartene un altro, che dici? Meno male che quello non è costato un quattrino.» 

«Non è costato…?» 

«L'ho sbarbato a Jeff Fairlove, ricordi? L'ho indotto a darmelo. Per regalarlo a te.» 

«E come hai fatto» volle sapere il barbuto Nigel «a indurvelo? In altre parole, quale ascendente esercitavi su di lui?» Edwin sogghignò fra sé a quel malizioso furtivo barlume di gelosia. Nigel era un giovanotto sciamannato che tentava di apparire non più anziano bensì senza età: sempreverde dipintor zazzeruto e barbuto. 

«La mia bellezza» rispose Sheila gigioneggiando sorniona. «Il mio fascino sconfinato. Nessun uomo può resistermi quando esercito pressione.» Il pittore annuì con aria grave. «Oggi pomeriggio» proseguì Sheila «Nigel ha intenzione di disegnarmi. Non di dipingermi, di disegnarmi. Sono così contenta, caro, che sia tutto finalmente sistemato. Che sollievo sarà farla finita. Devi esserne ben lieto anche tu.» 

«Dunque te l'hanno detto, vero?» 

«Ho incocciato quel Railton giù all'ingresso. M'ha confidato che si apprestano a operare e che andrà tutto bene. Che sollievo.» 

«Sollievo non aver più da serbare il segreto?» 

«Anche.» Sorrise. «Possiamo tornare a Moulmein per l'inverno. Detesto il freddo, sai» disse a Nigel. «Spero ci sia calduccio nel tuo appartamento.» 

«Se fossi un pittore» ipotizzò Edwin «una delle cose che mi piacerebbe ritrarre è la veduta aerea che si gode in fase di discesa su Moulmein. Bellezza e utilità. Tutte quelle risaie di differenti forme e dimensioni, non un centimetro quadro sprecato, un grande manufatto collettivo, eppur nient'altro in vista che sia umano o anche solo naturale. Ma immagino che sarebbe troppo facile da dipingere.» 

«Nulla è facile da dipingere» dissentì il pittore. Possedeva una voce sul gloglottante. «Mi creda sulla parola, dipingere è briga indescrivibilmente infernale. Proprio perciò persevero e non demordo.» 

«E quali pittori moderni maggiormente ammira?» domandò Edwin. 

«Pochi, molto pochi, pochissimi davvero. Chagall, forse, Dong Kingman, può darsi. Un paio d'altri.» Aveva l'aria tetra. 

«Che importa» disse Sheila. «Perché stare a preoccuparsi. Tutto si aggiusterà.» Gli sorrise rassicurante, buffettandogli il braccio. Indossava pantaloni attillatissimi, l'artista. «Nigel» soggiunse Sheila «è veramente un bravissimo pittore. Quando ti sarai rimesso devi proprio vederle un po' delle sue cose. Sono un sacco d'effetto.» 

«Non azzardarti ad adoperare quel termine» ringhiò Nigel. «Non sono affatto d'effetto. È l'espressione più abominevole che mai potresti in assoluto almanaccare.» Alzò la voce. «Ci risiamo col rumore» sospirò Edwin fra sé. Dal drappello di visitatori stazionati presso R. Dickie piovvero occhiate interessate, nella certezza che qualche sorta di spettacolo fosse immancabilmente in programma sul letto di Edwin. «Sostenere che sono d'effetto è svilirle al livello… al livello… al livello d'un manifesto cinematografico. È atrocemente offensivo.» I visitatori di R. Dickie annuirono l'un l'altro, lieti che le aspettative non andassero deluse. 

«D'accordo» disse Edwin. «Potremo allora dire che non sono d'effetto?» 

Nigel lo folgorò con lo sguardo. «Non ne ha vista neanche una» ribatté. «Non è in grado di formulare giudizi di alcun genere.» 

«Non dimenticare, Nigel,» intervenne Sheila bruscamente «che ti stai rivolgendo a mio marito e che mio marito è gravemente malato. Non intendo tollerare tanta suscettibilità in merito alla tua arte.» Nigel mise il broncio. «Così va meglio» si rabbonì Sheila. «E, Nigel, ricorda la tua promessa.» 

«Quale promessa?» 

«Tutti uguali voi artisti, eh?» rampognò Sheila. «Tutto prendere e niente dare. La tua promessa circa il bucato di Edwin.» 

«Oh, quella.» 

«Nigel» disse Sheila «è un ragazzo molto fortunato. Ha una donna, un'ungherese, che ogni settimana va a fargli il bucato. In cambio di lezioni d'inglese.» 

«E che ne sa» domandò Edwin «di come s'impartiscono lezioni d'inglese?» 

«Sta imparando» rispose Sheila. «Impara facendo pratica. E ha promesso di farle lavare tutti i tuoi panni sporchi. Dove sono?» 

«Davvero un pensiero gentile» ringraziò Edwin. Gli stava venendo a noia d'esprimersi come il signor Salteena , ma che altro poteva dire? «Questo stipetto qui è pieno di pigiami sudici e asciugamani lerci e altre robe zozze, e poi c'è una camicia nell'armadietto grande là fuori.» 

«Bene» disse Sheila. «Andremo dritti all'appartamento di Nigel, o studio, o quel che è, quindi possiamo portarci appresso i capi in questione.» 

«Ora faremmo meglio ad andare» la sollecitò Nigel. «Non ho pranzato, ricorda.» «Però hai fatto colazione.» 

«Da quel dì.» 

«Da ragazzina» rimembrò Sheila «ero convinta che gli artisti morissero di fame. La vie de Bohème.» 

«Nei primi due atti dell'opera non fanno altro che ingozzarsi» osservò Edwin. 

«Ah, già,» fece Sheila «a proposito. Les e Carmen tornano a trovarti stasera. Io, ovviamente, non ce la faccio. Carmen viene a scusarsi.» 

«No!» reagì Edwin con impeto. «Sono molto malato. Non posso ricevere visite. Diglielo, per favore.» 

«Ma noi mica li vediamo, vero Nigel? Quindi mi sa che ti toccherà abbozzare. Les fa una vita davvero curiosa, no?» «Probabilmente» disse Edwin. 

«Sicuramente. La mattina presto lavora in un bar di Covent Garden, e la sera è impegnato all'opera. Il che mi sembra giusto… per via dell'unità di luogo o roba del genere. Per il resto del tempo ha la sua Carmen. Fatti un po' dire che razza di scazzi gli zazzica, certe volte.» 

«Andiamo» insisté Nigel. «Dobbiamo mangiare.» 

«Sì» disse Sheila. «È proprio una tipa stravagante. Davano Sansone e Dalila e lei andò a vederla e un paio di giorni dopo battibeccarono un tantino e lui destandosi nel cuor della notte se la ritrovò forbici in pugno sovrastante il letto…» 

Edwin si ritrovò d'un tratto oggetto di attenta osservazione da parte di Nigel, il quale «Non so se il suo cervello» dichiarò, temporaneamente a quanto pare immemore di assilli alimentari «valga la pena di salvarlo, ma quanto alla testa, è una bella testa. Una testa migliore» proseguì con imparzialità d'artista «della testa di sua moglie. Non mi spiacerebbe ritrarla. Sì, credo che da ritrarre preferirei quella che ha lei a quella della di lei signora, sebbene ovviamente sia lei, dal mio punto di vista, a detenere il corpo più interessante di gran lunga. E poi, naturalmente, presto lei non avrà più capelli.» 

«Troppo ancora ce ne corre» dissentì Edwin. «La mia famiglia non è una famiglia votata alla calvizie precoce.» 

«No, no» ribatté Nigel. «Se vorranno operarla al cervello dovranno raparla a zero. Credo che gradirei affrontare allora tale soggetto. Costituirebbe uno studio assai raffinato e alquanto originale. Un dipinto, direi. L'abbronzatura tropicale del volto sotto una sorta di rosa madreperlaceo… sì, mi piacerebbe proprio cimentarmici.» 

Pallido, sbigottito, «Lo sa» disse Edwin «che non me n'ero reso conto? Non ci avevo davvero pensato.» 

«Niente paura» disse Sheila. «Ricresceranno in men che non si dica. E sarà l'esatto contrario di Sansone, vero?» 

«Che vuoi dire?» domandò Edwin. 

«Riflettici, caro. Senti» disse Sheila a Nigel, che tirato fuori un blocchetto da disegno andava schizzando bozzetti preliminari di Edwin. «A forza di parlarne m'hai fatto venir fame. Andiamo a mangiare.» 

«Ben detto» approvò Nigel. «E non dimentichiamo di racimolare gli articoli di lavanderia.» Sotto la crosta d'artista si celava un giovanotto premuroso. Accolse fra le braccia, con un lieve arricciarsi del naso camuso nel senso di ça pue  un fastello di calzini, biancheria intima e pigiami scaturiti dallo stipetto fianco al letto. Quindi sortirono insieme per andare a prendere la camicia sporca nell'armadietto esterno destinato ad abiti civili e valigie. Ciò fatto tornò Sheila a far gioconda capolino sventolando la camicia, con la mano mandò un bacio che coinvolse pure R. Dickie e il ghignatore, a Edwin sorrise radiosa, amorosa e beffarda, poi se ne andò. 

«Che gran sagoma la sua signora» commentò più tardi R. Dickie. 

Appena prima di cena Edwin comunicò alla caposala di non sentirsi sufficientemente bene per ricevere visite, pregandola di disporre i paraventi attorno al letto. Fu accontentato, e nel rassettargli le coltri l'inserviente negro rinvenne il bozzetto preliminare scartato da Nigel. Palesava, pensò Edwin, scarso talento. 

«Moribondo, quello là?» si udì sonoramente bisbigliare trepidante d'eccitazione uno dei visitatori di R. Dickie. 

«Macché» mormorò in risposta R. Dickie. «Non muore mica. E la sua donna, mi sa, che lo mette un po' in subbuglio, tutto qua. Ma chissà se poi sarà la sua donna, quella là.» Fecero seguito più sommesse sussurrate congetture. 

10 

«Adesso, compagnuccio caro, sgombriamo il ponte per accingerci al combattimento.» Barbagliando luce da ogni epidermica sfaccettatura, con gli occhiali rutilanti di sfavillìi, l'inserviente negro ridacchiò all'arditezza dell'immagine e prese ad armeggiare col suo vassoio d'aggeggi. Impalato gli ciondolava accanto un apprendista, un italiano alto immusonito appena entrato in servizio cui spiegò, ottenendone assenso in italiano, che cosa fossero i vari arnesi. 

«Forbici.» 

«Sì.» 

«Tosatrice.» 

«Sì, sì.» 

«Rasoio elettrico.» 

«Sì, sì, capito.» 

Non avendo evidentemente tempo per una lettera e ancor meno per una visita, 

Sheila aveva inviato un telegramma: AUGURISSIMI PENSEROTTI BACI. Messaggi di tal sorta gli erano in passato pervenuti presso alberghi per rappresentanti in ignote città, alla vigilia di un nuovo colloquio di lavoro. Adesso stava per incamminarsi verso l'estremo limite di realtà donde fosse possibile far ritorno. Un pellegrinaggio, ma prima di giungere in vista della Mecca gli toccava farsi inturbantare. Il negro pose mano all'opera. Disinvoltamente canticchiando a bocca chiusa s'infilò un paio di guanti in gomma. Poi disse: «Forbici.» E forbici gli furono porte. Presero ad abbacchiarsi volute chiomate. Edwin domandò: «Come si chiama?» Il negro rispose: 

«Voglia di grazia favorire la cortesia di non distrarmi.» Ma mentre sempre più falciate s'accovonavano al suolo, costui s'ammansì e concesse: «Se proprio vuol saperlo, mi chiamo signor Southey. Signore» sottolineò, come a sminuire il titolo di Edwin «al pari del signor Begbie, insigne specialista.» 

Il precipite autunno proseguì, non s'arrestò il deciduo spicinio di ciuffoli e riccioli castanei. «Guarda qui quanta forfora» deplorò lo specialista. «Di questo passo perderà i capelli.» L'italiano osservava attentamente ogni minuzia dell'operazione, annuendo di continuo per mostrare che, a dispetto della barriera linguistica, egli comprendeva perfettamente quanto stava accadendo. Edwin cominciò ad aver freddo, a sentirsi leggero e docile come un agnellino. «Tosatrice» disse il signor Southey. 

Man mano che la completa nudità si approssimava, andò sbocciando in Edwin una nuova e voluttuosa sensazione, un curioso abbandono. I capelli grondavano come un intero Corano di lettere arabe mescolato a un manuale di stenografia. Mietendo in ampie passate il signor Southey governò il suo ronfante arnese sopra un collina che, per trentott'anni, aveva celato il proprio profilo al mondo. Consapevole dell'impresa, cantava. A mezza strofa disse: 

«Rasoio.» 

Eccoci dunque alle fasi finali della depilazione. L'italiano stava a bocca mezz'aperta e ansimava un pochino. Perseverava il rasoio nel suo ronzio irascibile, il canto del negro si faceva più esultante. Presto però il canto scemò causa la necessità di sostare, indietreggiando poi per verificare - un saltuario brusio qua, un affricato passaggetto là - e la scultura giunse alfine a compimento. «Si presenta bene, una meraviglia.» «Bello» convenne in italiano l'italiano. 

«Aspetti» disse il signor Southey «che le porto uno specchio.» 

«No, no» declinò Edwin. «No, no, no.» Dita spaurite ramingarono sulla pelata palpeggiando, pattinando. «Per l'amor del cielo, me la copra!» 

«Tutti» eccepì il signor Southey «apprezzano un pizzico d'apprezzamento. Mica chiedo tanto. Si dia un'occhiatina allo specchio.» 

«Credo d'essere stato chiaro» ribadì Edwin. «Non voglio vederla, non voglio saperne niente. La copra e basta.» 

«Ah, l'ingratitudine» si crucciò il negro. Portò un berretto di lana che si adattò alla perfezione. Edwin arrischiò poi una sbirciata nello specchietto da barba. Vide il piccolo Edwin in carrozzina - il piccolo Edwin di una foto che sua madre aveva fatto incorniciare per appenderla in salotto - ma il piccolo Edwin con due occhi vigili e sospettosi, la mandibola prominente, e la barba di un giorno. Risbatté lo specchietto sullo stipetto e si distese immobile a letto. L'italiano spazzò via una pavimentata di capelli degna di una barbieria; il negro discostò i paraventi rotodotati. Edwin si sentiva adesso finalmente membro a pieno titolo di quel prostrato circolo di pellegrini. 

Fece una capatina la vice caposala a domandare: «Dorme abbastanza profondamente?» Si esprimeva col benigno accento di Manchester. 

«Abbastanza» rispose Edwin. 

«Ehi, non mi sembra tanto convinto. Sarà meglio non correre rischi. Domattina la vogliamo bello rincoglionito, mezzo morto, non so se rendo l'idea.» Erogò dalla sua boccetta una dose generosa di pastiglie. Edwin le inghiottì con un bicchierone d'acqua. 

Di lì a poco si addormentò. Fece sogni policromi, stereoscopici. Camminando in un bosco incontrò tre cagnoni accovacciati che si rivelarono le spire di un pitone. Sorrise in sogno: significava sesso. Cadde di pozzo in pozzo in pozzo. In fondo a un pozzo s'imbatté nell'atteso: grossi insetti striscianti, un disegno animato sgorgato da un Punch del 1860, una testa di marmo mozza zampillata da un film di Cocteau che monotonamente ripeteva la parola habituel. Seduto sulle sabbie di Brighton, attorniato da gente sorridente, Edwin cercò disperatamente di occultare i piedi nudi. In fondo all'ultimo pozzo niente immagini, soltanto oscurità.

11 

Edwin si destò con meccanica subitaneità, senza traccia di demarcazione fra un sonno simile alla morte e il completo stato di veglia. Si alzò anche a sedere, perfettamente consapevole del luogo in cui si trovava e del motivo per cui era lì. Non aveva la minima idea di che ora fosse, ma era notte fonda, e la fulgida luce del plenilunio mondava Londra. Si svegliò pervaso da un intendimento inequivocabile, febbrilmente intenso, di un'acutezza indubbiamente indotta, lo capiva, dalla massiccia dose di sonnifero: che nessuno gli avrebbe aperto il cranio, che non ci sarebbe stata asportazione di alcun tumore, che sarebbe vissuto, sia pur fugacemente, e sarebbe morto, sia pure di lì a poco, così com'era, malato o sano che fosse. E a dire il vero si sentiva meravigliosamente bene. 

Nell'ospedale c'era la morte, comunque: la si sentiva Tonfare nel padiglione. Fuori c'era la vita. Doveva andarsene immediatamente. Perché se si fosse riaddormentato il suo proposito rischiava di essere smorzato dalla sonnolenza mattutina; avrebbe dovuto combattere contro troppa gente; innanzi che si rendesse conto di dov'era gli avrebbero iniettato nella natica un sonno invincibile e uomini robusti lo avrebbero trasportato in sala operatoria. A quel punto sarebbe stato troppo tardi. Doveva agire adesso. 

Racchiusa dalle fragili pareti di paraventi l'infermiera di notte sedeva alla scrivania debolmente illuminata. Era, Edwin lo sapeva, una giovane americana venuta in Inghilterra nell'ambito di uno scambio annuale. Una ragazza del Missouri o giù di lì. 

Com'era stato maledettamente sciocco a riporre fiducia nel dottor Railton e la sua cricca. Egli era per loro già una cosa, e non lo sarebbe stato di meno se fosse crepato sotto anestesia. Che peccato: il dottor Spindrift ridotto a mero esemplare anatomico. 

Quando scese, il letto scricchiolò. Si portò una mano alla testa: il berretto di lana c'era ancora; un berretto di lana che sarebbe sembrato mica poco ridicolo nel mondo esterno. Non importa. Cappelli e parrucche ce n'erano d'ogni sorta, no? L'infermiera aveva l'udito fine. Diede una sbirciata, poi si diresse verso Edwin con passo rapido e felpato. 

«Tutto bene? Desidera qualcosa?» Era una ragazza graziosa e l'uniforme le donava. 

Un'infermiera di quelle che si vedono nei film, dalla voce morbida e profonda. 

«Ho soltanto bisogno di andare al…» 

«Oh. Non preferirebbe che le portassi la padella?» Quella parola odiosa designante un oggetto sgraziato e indocile assumeva, anche in virtù dell'altalenare vocalico, intonazioni ironiche nell'accento di lei. Era una parola che non si udiva mai nei film americani. 

«No» rispose Edwin. «Preferisco… Non sono mica inabile fino a questo punto, sa?» 

«D'accordo. S'infili la vestaglia.» La luna rischiarava in pieno la sua leggiadria. Era un onore ricevere ordini da costei, una diva del cinema. E pensare che stava per metterla nei guai. Edwin si sentiva dispiaciuto per lei, ma non più di tanto. «E non ci metta troppo» gli raccomandò. 

«Potrebb'essere» rispose Edwin «una faccenda piuttosto lunga, non so se mi spiego.» S'interruppe sul punto di scendere in fasulli dettagli clinici. «Qualcosa che ho mangiato» si limitò a precisare. 

«Va bene, va bene.» La ragazza tornò alla sua luce appartata. Fremendo d'eccitazione, Edwin uscì svelto e silenzioso dalla sala. Nell'aprire lo sportello d'acciaio dell'armadietto nel corridoio di fronte ai bagni, si rese conto all'improvviso fino a che punto quell'ultima settimana l'avesse spossessato delle sue cose: orologio, biancheria, capelli. Niente calzini, niente camicia, rammentò: migrati all'appartamento di Nigel per farsi lavare da un'ungherese. Avrebbe avuto freddo; senza soprabito, senza impermeabile: dismessi entrambi prima di partire per la Birmania. Portò in gran fretta cravatta, giacca e pantaloni in uno dei bagni. E stavolta non doveva dimenticare le scarpe. Indossò il tutto sopra il pigiama. A strisce e piuttosto sudicia com'era, la giacca del pigiama non somigliava granché a una camicia. Guardandosi allo specchio, Edwin fece una smorfia. Avvolse la cravatta sotto il colletto e l'annodò. Dalle spalle in su appariva a dir poco eccentrico. L'interno delle scarpe gli accolse i piedi nudi con una sferzata gelida, ed egli, rabbrividendo, esitò. Doveva sgraffignare qualcosa? Gli armadietti non erano chiusi a chiave, e al loro interno avrebbe trovato altro vestiario: camicie, forse soprabiti. Poi pensò: no. Commettendo un reato, per quanto piccolo, avrebbe fatto il loro gioco. Tali furti insignificanti sarebbero stati attribuiti a cleptomania, parte di una sindrome complessa: quella di un uomo assai malato, niente affatto responsabile delle proprie azioni. 

Possedeva pochissimo denaro (l'avrebbe contato poi) e nulla da impegnare o da vendere. La ventiquattrore, aveva notato, era scomparsa dall'armadietto; nulla da eccepire, ovviamente, poiché Sheila e Nigel dovevano pur cacciare da qualche parte la biancheria da portar via. Rinvenne nella tasca interna della giacca documenti personali, indubbiamente ripostivi quando la valigetta era stata trasformata in portabiancheria, e sentì ripiegata sotto le dita la carta pergamenata del diploma dottorale. Perché diavolo se l'era portato appresso? Un motivo, pensò, doveva pur esservi. Ma non era il momento adesso di domandarsi qual fosse. Innanzitutto doveva squagliarsela. 

Grato alle suole di gomma, timoroso guadagnò alla chetichella la pesante porta a vento dai padiglioni maschile e femminile condivisa. (Ma tale dualità era essa stessa definita, Padiglione Philpotts; ciascun reparto era dunque un sottopadiglione o semipadiglione o che altro?) Non produsse, ne era certo, alcun rumore capace d'insospettire chi di nulla sospettava. Sul pianerottolo fuori dell'uscio trovò il macabro chiarore d'una lampadina bluastra. Niente chiaro di luna lì, causa l'assenza di finestre. La penombra azzurrognola lo vide discendere la prima rampa di scale, bluastro gli si ripresentò il chiarore sul pianerottolo inferiore, e via di questo passo quatto quatto verso il basso. Approdò presto a pianterreno. Dove dovevano cominciare i problemi veri. I corridoi erano immersi nell'ombra, le ombre infondevano vita fittizia nei busti degli illustri defunti: occhiatine maliziose, ammiccamenti, sorrisetti di falsa complicità. 

L'ultimo corridoio sfociava nell'atrio, ove imperava il portiere di notte che per nulla sonnacchioso compitava gli avvisi affissi in bacheca. Era inimmaginabile che Edwin riuscisse a oltrepassarlo. Né si dava inoltre alcuna garanzia che il portone esterno non fosse inchiavardato. Edwin lesse l'ora sull'orologio dell'atrio - le quattro e quaranta - e cercò istintivamente di rimettere il proprio. Stramaledetto Ippo. Si rannicchiò nelle ombre del corridoio, riflettendo. 

C'erano s'intende i sotterranei. Ben lo sapeva, sant'Iddio, che c'erano i sotterranei! Conosceva persino l'ubicazione di una scala - sudicia e nient'affatto ospedaliera - che pareva condurre appunto nel sottosuolo; si trovava un corridoio innanzi o giù di lì. Tale scala era divenuta una mera appendice, un organo indesiderato, essendoci di rigore, per calare nelle sale di tortura, gli ascensori. Tornò sui suoi passi nella semioscurità sino a rintracciare la scala, scoprì che scricchiolava in modo abominevole. Discesala, s'imbatté in una mensa sbarrata e nelle porte della cucina. Ovviamente. Se n'era scordato. Il sottosuolo si strutturava su più di un livello. Vide una finestra donde trapelava di sbieco il chiarore lunare; all'esterno una desolazione di pattumiere; accanto alla finestra una porta. La tentò speranzoso, ma era chiusa a chiave. Saggiò quindi la finestra. Il paletto inferiore scorse agevolmente; come fare a raggiungere il fermo superiore? Si guardò attorno: una scatola, una sedia, una cosa qualunque per salirci sopra? Incredibilmente, vide acquattato in un angolo un piccolo scaleo, di quelli che a foggiarli ci si aggeggia una sgraziata seggiola da cucina. Gli vorticò nel cervello una raffica di dubbi. Che si trattasse di una trappola? Avevano forse previsto, forti della loro diuturna esperienza in cerebrocasi, che avrebbe cercato di sottrarsi tentando la fuga? Si trattava per caso d'immancabile evento alla vigilia d'ogni intervento, sotto l'influsso d'un determinato genere di sonnifero? Si riteneva magari utile al paziente lasciarlo giungere sino a quel punto per alleviarne la claustrofobia, prima di ricondurlo gentilmente e spiritosamente a letto? Che il dottor Railton e altri, forse addirittura il signor Begbie in persona, l'attendessero in quel momento all'esterno? Presto l'avrebbe saputo. Sollevato lo scaleo lo portò sotto la finestra. Ci salì e sbloccò senza sforzo il paletto superiore. La finestra si aprì dolcemente e una quieta notte autunnale penetrò furtiva. Edwin fiutò libertà e autunno londinese: marcio, fumo, freddo, motoròlio. Troppo facile era. Arrampicatosi fuori atterrò al suolo con un balzo di poche decine di centimetri. Due gatti sgattaiolarono via silenziosissimi, ma un terzo fece sferragliare il coperchio d'una pattumiera. Si ergevano una cancellata puntuta e un cancello del pari acuminato. Il cancello era chiuso col lucchetto, ma scavalcarlo non fu difficile: piede su pattumiera, piede all'aria, ed eccolo balzato in strada. Lo strincio nei calzoni era un impiccio, ma non grave. Sheila avrebbe provveduto a rammendarglielo. 

Non poteva permettersi d'indugiare per via. Era capace che sopravvenisse per entrata in servizio un'infermiera o un inserviente di sua conoscenza: Edwin ignorava a che ora di preciso principiasse il turno diurno. Esisteva l'eventualità che il portiere di notte comparisse sui gradini d'ingresso a guisa di selenologo dilettante deciso a sceverare l'Oceanus Procellarum dal Mare Tranquillitatis. Non era improbabile che un poliziotto si mettesse all'erta. Passo passo si allontanò per la tangente dalla facciata tondeggiante dell'ospedale, rasentando la ringhiera della piazza sino a trovare una traversa provvista di negozi e un autentico pub in stile Tudor, e antichi vicoli che se ne diramavano. Pensò che per di là avrebbe potuto attendere al sicuro un'ora adatta al transito della gente per bene. Dovevano ormai essere, calcolò, quasi le cinque. 

Grazie a Dio s'era preso la briga di memorizzare il nome dell'albergo di Sheila. Il Farnworth. Nel timore di smemorarlo aveva composto una sera, prima d'addormentarsi, un promemoria in rima intitolato A far vita sedentaria si rimane a corto d'aria: 

Amando meriggiar pallido e assort 

Finii per ritrovarmi il fiato cort Così decisi pria di cader mort Di far enne due volte il gir dell'ort. 

Non poteva ragionevolmente recarvisi prima d'un'ora decente, l'ora diciamo di colazione quando, se la caffetteria s'affacciava sulla via come in gran parte degli alberghetti, avrebbe potuto attrarre la di lei attenzione nel mentre sgranocchiava il suo crostino. Pur non nutrendosi granché, Sheila nutriva predilezione per la prima colazione. Edwin non se la sentiva di scampanellare e affrontare la direzione combinato a quel modo. Ma dove sorgeva esattamente il Farnworth? Poteva scoprirlo consultando un elenco telefonico. Quanto all'elenco telefonico, poteva procurarselo in una cabina telefonica. 

Un momento! Poteva allora pure, a un'ora conveniente, telefonare a sua moglie che avrebbe preso un taxi per andare a raccattarlo in un luogo convenuto. Ciò avrebbe scongiurato inconvenienti a iosa. Ma una minuscola vocettina endocranica gli diceva che sua moglie non era del tutto affidabile. Perché preoccuparsi di possedere del contante e qualcosa da cedere in pegno quando sua moglie disponeva del considerevole residuo di due mesi di stipendio? Perché temeva che sua moglie, pur assecondandolo per telefono, facesse intervenire non un taxi bensì un'ambulanza corredata d'uomini nerboruti? Si trattava tuttavia, rifletté, d'una diffidenza inevitabile: troppa gente agiva nel suo esclusivo interesse. Sua moglie era sua moglie; Sheila era Sheila. Avrebbe capito, avrebbe acconsentito, avrebbe collaborato. 

Percorse la traversa sino a un'ampia arteria ricca di vetrine e uffici. Presunse esser essa una delle principali vie di Londra, città che non conosceva molto bene. C'erano lampioni al sodio, luci alle finestre. Ogni tanto sfrecciava un'auto. Passò anche, proveniente dall'aeroporto, un autobus navetta stipato di passeggeri sbadiglianti. Edwin si vide riflesso in una vetrina colma di registratori a nastro: vesti cascanti, complessione macilenta, volto altezzoso fra berretto di lana e colletto di pigiama… una tenuta accettabile in un posto come Londra. Poi si mise in cerca di un elenco telefonico. Era cosa buona e giusta. Se fermato da un poliziotto, poteva dire la verità e raccontare che si affrettava alla volta di una cabina. Qualcosa d'urgente, come testimoniato dal pigiama se non dalla cravatta. Il berretto di lana? Qualcosa, si capisce, di correlato con l'urgenza. 

Gli ci volle un po' per scovare una cabina dotata d'almeno un volume dell'elenco telefonico di Londra, ma figurarsi s'era quello che gli necessitava. Finalmente però, presso una statua equestre e un negozio di stoffe americane per abiti, reperì l'opera in questione nella cospicua completezza dei numerosi tomi, una tesi per qualche superdottorato. Strada facendo non s'era imbattuto in alcun gendarme: unici incontri un bisboccione randagio, un paio d'operai con l'aria da cani bastonati e gatti a bizzeffe. Gli venne a mente che non solo non aveva familiarità con Londra, ma mancava dall'Inghilterra da oltre un triennio. Tale sensazione d'estraneità esacerbò il suo nervosismo, l'impressione d'essere braccato. Tastando nella tasca interna si sentì rassicurato dal solido baluardo del passaporto. 

Mai e poi mai avrebbe concepito che potessero esistere tanti alberghi Farnworth. Ne scelse uno col medesimo numero di codice postale dell'ospedale, ma il nome della strada non gli disse nulla. Nondimeno ciò che gli restava da fare era proprio rintracciare il posto. Aveva ancora molte ore da ingannare. Quella bara di vetro verticale dava l'idea d'un luogo sufficientemente scevro da rischi per trascorrervi un intervallo di tregua. Erano ben poche, pensò, le attività sospette che potessero in pieno agio e tutta segretezza svolgersi dentro una cabina telefonica. Tirò fuori il denaro, lo contò come intendesse fare un'interurbana, e scoprì di possedere, in valuta britannica, poco più di tre scellini. Disponeva inoltre di alcune rupie e altre monete straniere, oltre a una limetta da unghie e un minuscolo temperino. Era abbastanza certo che, nonostante l'aumento del costo della vita verificatosi in sua assenza in Inghilterra, gli sarebbe risultato possibile acquistare da qualche parte una tazza di tè e un po' di sigarette senza pretese. Non ancora, ovviamente; non per lo meno in quel quartiere di negozi e uffici e dormiglioni e posapiano. 

Pigiò tanto per fare il Pulsante B. Con sua gran sorpresa e gioia scaturirono tintinnando allegramente quattro penny. Considerò l'episodio di buon auspicio. Non gli sembrò corretto, tuttavia, intascare l'inatteso dono per spenderlo in seguito in qualcosa di non telefonico. Una volta, alla fine della guerra, in una tabaccheria di Berkeley Street aveva consegnato una banconota da dieci scellini ricevendo il resto a una sterlina. Senza esitare aveva comperato altri dieci scellini di sigarette . Gli era parso doveroso. Nella presente circostanza intendeva restituire all'amministrazione postale quei quattro penny. Gli venne un'idea. Cercò il numero dell'ospedale e poi, inserite le monetine, si chiese che accento adottare. Optò per un irlandese smaccato, quindi compose il numero. 

«Ué, ciò 'n'anfurmazia 'mpurtanta da digne» strascicò. 

«Ah, sì?» rispose la voce stanca del centralinista. «Le passo il portiere di notte.» Si udirono commutazioni e sbadigli. Perché, si domandò Edwin, il portiere di notte? Perché non un medico o un'infermiera o qualcun altro? «Pronto?» fece il portiere di notte. 

«Ué, mica ciavite nu paziento chi s'è scappato du vostro spidale?» 

«Scappato? Scappato? Come sarebbe, scappato?» Era la voce di qualcuno che di giorno non dormiva abbastanza. «Nessuno è scappato, per sua norma e regola.» 

«Ué, embè, sarà, ce sta nu tizio qua a Hounslow chi dice ca s'è scappato, peccúi si vulite 'stu scaramaldo mu sapite 'ndu' truvallo.» 

«Dove ha detto? Ma di che parla?» 

«A Cockfosters, cioè» rispose Edwin. «Ué, nun sarà ca pue me straligno anca lu mi' nome.» 

«Mi sa proprio» disse la voce «che tu sei scimunito. La gente non scappa di qui. 

Non è mica un manicomio.» 

«Cumpa', cuntento te» replicò Edwin. «Pue nun di' ca nun t'ho avirtito. Ca la biata Virgine Maria e tutti gli angili cilesti e i santi te pussano prutegge e custodì» soggiunse. Poi riagganciò. Curioso. Possibile che l'infermiera americana lo ritenesse ancora rintanato al sizio? Reputava forse verosimile, essendo di fresca importazione, che il lasso d'evacuazione britannico differisse dallo statunitense? Strano che l'ospedale non brusisse costernato da cima a fondo. Si ritrovò mani in tasca a canticchiare a bocca chiusa un motivetto, asserragliato in quel minuscolo faro. Tirò fuori una mano per ripigiare il Pulsante B, ma stavolta non avvenne alcuna donazione di monete, nessuna - gli venne da ridere - evacuazione metallica ovverosia nomismatorrea. 

12 

Pur essendo ancora di buonora circolava già gente risoluta diretta in gran fretta ai convogli della metro. Edwin aveva derelitto la sua bara perché una donna di mezza statura e di media età con indosso una pelliccia spelacchiata era sopravvenuta per subentrargli ignara nel ruolo di occupante, sebbene ben le si addicesse pure la qualifica di istante stante l'urgente suo tamburellamento monetario esternamente al vetro. Edwin, sfrattato, s'incamminò a lenti passi cogitando che, se William Barnes  o i nazisti potuto avessero trafficare con la lingua inglese a lor libito, si sarebbe adesso probabilmente avuto il LUNGIPARLANTE in luogo del TELEFONO; quel macellaio chiuso avrebbe potuto essere, come nell'antica Scozia, uno scarnificatore; quel tabaccaio lì sarebbe forse stato un sigarettiere. All'esterno del sigarettiere faceva bella mostra un distributore automatico di sigarette. Possedendo un fiorino28, Edwin fu in grado di acquistare un pacchetto da dieci. Senza mediazione umana. Meglio così. Adocchiò certe riviste sciorinate sulla porta a vetri d'una cartoleria. C'era quella della quale l'aveva omaggiato Charlie: Brute Beauty. E ce n'erano altre che non aveva mai veduto: Valour; Act; Oh! Si stropicciò gli occhi che lo affliggevano con una strana menomazione visiva. C'erano davvero Air, Pride, Plume, Here? Si accese una sigaretta (gli restavano cinque fiammiferi) e cercò di stabilizzarsi la vista leggendo i manifestini pubblicitari racchiusi in una vetrinetta. Modella Esotica Color Caffè 95-60-90, Disponibile Pomeriggio. Annette, Specialista in Erettificazione. Janice a Briglia Sciolta. 

Passeggino Prezzo Stracciato. Miniappartamento Manageriale, Astenersi Dicolore. 

Svoltato un angolo ulteriore scorse una grossa macchina elargilatte bianca. Possedeva monete da mezzo scellino. Magnifico. Una colazione antelucana, di nuovo senza mediazione umana. Gli fu consegnato, in un brilluccichio di luci, un cartone umidiccio dotato d'un angolo azzurro a strappo. S'abbeverò con animo grato al mommo freddo, gli occhi affisi all'acerbo cielo mattutino ch'era ancora un cielo notturno a dire il vero. Ma tramontata era la luna. Proseguendo adocchiò poco più avanti una macchina esacolonnata erogacioccolata. V'introdusse il suo mezzo scellino postremo e n'estrasse una tavoletta di Frullatte Nocciomiele. 

Ciancicò, ciucciandosi i denti avvischíolati. Possedeva una moneta da tre penny e due monete da un penny. Mica di che andar lontano, vero? Senza cambiare neppure poteva telefonare. Ma, naturalmente, non aveva intenzione alcuna di telefonare. Continuando a biascicare, accompagnato da sporadici ruttini lattei (adeguati, pensava, al berretto di lana), fece ritorno all'ampia arteria interminabile. A quell'ora non erano aperti musei né biblioteche né gallerie d'arte, vero? Il letto era, a quell'ora, l'unico intrattenimento gratuito di coloro che non lavoravano. Londra dormigliona, metropoli lettacolare. A quell'ora del giorno le città d'Oriente brulicavano di vita. Edwin fece una sosta. Gli giungeva clangor di treni. In una stazione si poteva attendere al calduccio. 

Si diresse quasi a naso verso la grande stazione di testa. Sapeva trattarsi di sentore d'idrogeno solforato, ma il suo naso malato l'aveva edulcorato in qualcosa d'erborato. Scalò un ampio scalo verso una cattedrale gotica tegumentata di sporcizia. Sferragliamento di turiboli da latte; acri esalazioni d'incenso; una sirena mugghiò l'Oremus. Nell'immensa sala d'attesa cavernosa s'allineavano panche. Fu lieto di assidersi. Sempre sia lode al Signore Onnipossente. 

Gente incagnata calava aggrovigliandosi ringhiosa dai treni locali; poca più placida ve n'era che meditava sulle panche, in attesa di trasferte di maggior tratta. Edwin si sentiva testa e piedi parimenti intormentiti. Giaceva sul sedile al suo canto un giornale scompigliato. Aveva udito dire che un'imbottitura di giornale tiene caldo. Si trattava del Daily Window, che non appena lo raccattò gli strillò: JAZZISTA STECCHITA ALL'ALTARE. Più compostamente sussurrando che un migliaio di giapponesi eran rimasti senza tetto per via d'un terremoto. Si domandò se fosse abbastanza salubre da improvvisarci un paio di calzini. Considerò che avrebbe potuto farcire il berretto di lana con uno strapagato cantante adolescente fresco di fidanzamento, ma poi ci ripensò. Come ignorare il volgare grugnetto ghignante incollato alla pelata? Provò a confezionarsi i calzini con una pagina che impartiva suggerimenti in materia di reggipetto alle undicenni e un'altra che titolava MAMMA CI PIACE COM'È VERIDDIO. Trovando il compito eccessivamente arduo finì per foderare di fumetti ambo le scarpe, rendendole in tal modo un tantino più comode. Ma testa e caviglie rimasero al freddo. Eccoti qua, vasto mondo da godere in libertà. Poco mancò che risolvesse di tornare in ospedale. 

Risolse in cambio di affrontare la lettura del proprio passaporto, passport 433045. Dr. Edwin Cyril Spindrift, Docente universitario, Nato a Whitby il 25.2.21, Altezza 180, Occhi nocciola, Capelli castani. Si vide fissato dritto in faccia da un giovanotto di bell'aspetto con una gran massa di capelli, un giovanotto destinato ad andar lontano, fino a Moulmein e oltre. Edwin esaminò tutti i visti con grande attenzione, sentendo nel frattempo sempre più freddo. Poi si accorse che nella grandiosa stazione di testa era incastonato a mo' d'enclave un approdo della metropolitana. Pensò che laggiù dentro potesse far più caldo. Nel traversare la sala d'aspetto vide due donne anziane guardargli il berretto di lana e ne udì una dire: «Povero ragazzo. Cià la tigna.» 

Edwin possedeva cinque penny. Anzi, a dirla tutta possedeva qualcosina di più: cinque penny e mezzo. Il prezzo della corsa sino alla stazione più vicina all'ospedale ammontava a due penny. La macchina gli consegnò il biglietto senza far commenti sul suo aspetto né a sguardi né a parole. Gli venne concesso accesso a un marciapiede e a una panchina e ottenne in lettura del materiale pubblicitario. Faceva discretamente caldo. I treni arrivavano in volata, si aprivano sibilando poi si chiudevano, ripartivano di gran carriera, e lui non ne prese nessuno. Di tempo ne aveva sin troppo. Riuscì persino a farsi un pisolino. 

Alle otto pensò fosse tempo di andare. Il traffico era in aumento: sbarbati uomini con quotidiani; ragazze col rossetto. La maggior parte lanciava una fugace occhiata apatica alla sua zucca tignosa. Si domandò se non fosse meglio svelare il mistero, sberrettandosi a mostrare una sana calvizie. Ma decise di no. In piedi in carrozza cercò di apparire straniero e conferire al suo strano abbigliamento dignità di costume nazionale. Salendo in ascensore disse al controllore: «Ashtì vahrosch.» Era sempre stato bravo a improvvisare idiomi. Lo guardarono tutti. S'inchinò dimesso, sorridendo umilmente. Distolsero tutti lo sguardo. 

Incontrò qualche difficoltà a rintracciare il Farnworth. Sorgeva in una strada specializzata in pensioni, alcune delle quali squallide. Dalle soglie squallide sgualdracche scarruffate si sporgevano ad arraffare bottiglie di latte, ne sortivano sparuti uomini con la faccia pudibonda e irrasata. Ma il Farnworth squallido non era. Sfoggiava un'aria indolentemente rispettabile e i fiori alle fioriere. Edwin gli spasseggiò davanti avanti e indietro sbirciando timidamente nel tinello. Sheila non c'era ancora, presto ancora era però. Osservò un giovanotto in maglione allestirsi un tramezzino con un uovo al tegamino; una ragazza indiana pasteggiare asciutto a fiocchi di granturco con le dita; un uom d'iraniano sembiante sedere al desco col copricapo in capo. Un tipico albergo londinese a buon mercato. 

Sloggiarono i satolli e affamati novelli s'impossessaron dei bricchi del latte. A servir sopperiva una donna dai capelli grigi: opachi gli occhiali, la bocca aperta, assenza d'anima in ogni suo gesto. Edwin attese. Si presentò di lì a poco una coppia con un bimbetto capriccioso che rifiutava di fare colazione. Andò il marmocchio alla finestra, puntò il dito al berretto di Edwin e scoppiò in pianto spasimando d'averlo. Edwin si affrettò ad allontanarsi e fatta sosta altrove si pose a esaminare una muraglia di manifesti. Un surrogato di salsa strillava al mondo le proprie virtù tramite un'immensa grigliata mista, salsicce lunghe un metro, fette di pomodoro come ruote di bicicletta, in perenne raffreddamento all'aere londinese. Una fotomodella di aspetto non dissimile da quella troietta dell'EEG fumava una nuova sigaretta detta FUAGRANT. C'era un intingolo di nome MISIRIZ che un marito deficiente si sbrodava nel piatto nel mentre una massaia roseabonda proclamava alla via: «Sostiene il mio sposin che senza misi non glisi.» 

Edwin fece ritorno alla finestra del tinello. Il frugoletto era impegnato a quanto pare a pestare i piedi in terra. Fra gli sguardi apertamente sprezzanti o con discrezione distolti quelli di Sheila latitavano. Era ora di farsi audace e indagare. Salì gli scalini e suonò il campanello. Comparve dopo un poco un vecchio truce con bianche ciocche pendule da una scriminatura centrale e un lercio grembiale e una trancia di pesce in mano che gelido fece: 

«Eh?» 

«Chiedo venia, sono appena uscito dall'ospedale qui vicino il che spiega il mio bizzarro abbigliamento, c'è mica la signora Spindrift per favore?» 

«Signooora…?» 

«Spindrift. Un nome piuttosto curioso, lo so, eppure è davvero un nome, mi creda, tant'è vero che mi chiamo anch'io così.» 

«Qui non ci sta nessuno co' 'sto nome. C'è stato, ma ora non c'è più.» 

«Le spiacerebbe dirmi quand'è che se n'è andata?» 

«Ieri, ierlaltro, chissà? Gente che va gente che viene, negli alberghi è così. Voglia scusarmi, mi si brucia il pesce.» 

«Ma non ha lasciato un messaggio, un indirizzo?» 

Dalla cucina provenne un bercio. «Le ripeto» disse il vecchio «che mi si brucia il pesce. Devo andare, non so altro.» E chiuse la porta ciondolando il capo. Edwin restò impalato sugli scalini impaurito, esitante. Chi se lo sarebbe mai aspettato. L'albergo Farnworth gli riservava un supplemento, però. Sopravvenne la grigiocrinita sonnambulica, aprì la porta e domandò: «Com'è il nome?» Era palesemente inglese. «Spindrift.» 

«Già. Un nome adatto a una lavatrice, ho pensato quando l'ha scritto nel registro.» Niente aveva di sonnambulico nella voce, una voce aspra e mercantile. «Ma non è l'unico motivo per cui probabilmente non me lo scordo tanto presto. Non l'avrei ospitata un minuto di più, e le dica pure da parte mia ch'è inutile che cerchi di tornare sotto altro nome perché tanto la riconosco. Un uomo in camera con lei, diamine, e il suo povero marito malato all'ospedale. E se lei è un altro di quei tipi che le corrono appresso, sono ben lieta di comunicarle che se n'è andata e non so proprio che fine abbia fatto. Cosa non tocca vedere.» Il pesce in cucina sfrigolò sonoramente. «Questo è quanto.» E richiuse la porta. 

Edwin ristette un poco costernato. Prima o poi naturalmente l'avrebbe rintracciata, ma era la Sheila foraggiatrice o la Sheila acquirente di cappello e camicia che gli necessitava urgentemente. E anche d'un paio di calze. Un pezzetto di un fumetto del Daily Window gli era sgusciato fuori della scarpa destra. La vignetta mostrava un tipico malvivente, brutto ceffo e basettoni, con una camicia a righe che Edwin gl'invidiò. Il figuro guatava astuto dichiarando in maiuscoletto: «Ce li ho mica io i cordoni della borsa, amico. Dovrai rivolgerti al gran capo.» 

«Sei proprio una carogna, Louie» esordiva la vignetta successiva. 

Era non solo una buona idea, era l'unica idea. Il Consiglio Internazionale per lo Sviluppo Universitario disponeva di soldi a palate. I suoi uffici londinesi con sede a Mayfair traboccavano di marmi ed eleganti segretarie. Che vuoi che gli facesse sganciare un par di sghei. Peccato che fosse una scarpinata tanto lunga, però.

13 

Acquistare una scatola di fiammiferi o un metrobiglietto da tre penny? Ecco il dilemma. Edwin era abbastanza certo che reperire al giorno d'oggi fiammiferi che costassero meno di due penny la scatola fosse impossibile. Con tre mezzi penny, ne era assolutamente convinto, non avrebbe potuto comprar nulla tranne forse un dado d'estratto di carne per brodo. Meglio sciropparsi tutta la strada a piedi e farsi Prometeo di sé medesimo: abbordare degli sconosciuti per chieder loro d'accendere sarebbe stato imbarazzante e indubbio indizio di vagabondaggio. Al chiosco tabacchi in fondo alla via Edwin tirò fuori i suoi tre penny e mezzo, mise due penny sul banco, domandò venia per il proprio aspetto, e se ne andò con del fuoco in scatola. Ci si sente immancabilmente meglio ad avere in tasca un elemento. 

Quando giunse a Tottenham Court Road era già stanco. Il traffico lo disorientava e lo faceva sudare, non meno d'un maglione. Oxford Street, Bond Street, un'anonima svolta a destra, Berkeley Square. Tutto in ghingheri Mayfair gli gigioneggiava intorno. In pigiama e berretto da notte attraverso il cuore radioso di Mayfair. Osservò invidioso un uomo entrare da Trumper . 

L'ufficio londinese del Consiglio Internazionale per lo Sviluppo Universitario situavasi in Queen Street. Edwin tergiversò all'esterno sistemandosi il berretto, stringendosi il nodo della cravatta, lisciandosi il colletto del pigiama. L'ingresso, sovrastato dalle nudità d'un gruppo scultoreo simboleggiante il sistema didattico, era concepito per incutere soggezione. Il portone era interamente in vetro, ragion per cui dava l'impressione d'essere sempre aperto; la qual cosa doveva essa pure simboleggiar qualcosa. Troneggiava nell'atrio sopra un cippo marmoreo un busto in bronzo: Sir George Marple, gran promotore universitario, un Sandow  dell'istruzione superiore. Marple: marmo . Peccato non vi fosse affinità etimologica. La faccia di Sir George era venata, dura e insensibile. In alto sul muro di fronte all'entrata campeggiava il motto dell'organizzazione: SIC VOS NON VOBIS . Elusivamente privo di verbo, ambiguo, intrigante, tipico. Si avvicinò a Edwin un usciere. «Si è mai chiesto che cosa significhi?» lo interpellò Edwin. 

«Che cosa, signore? Quello, signore? No, signore.» Era, costui, un decoroso vecchio asmatico. 

«Probabilmente significa: 'così voi lavorate, ma non per voi'. Mi domando a chi si riferisca quel 'voi'.» 

«Chi desiderava vedere, signore?» Il vecchio, pensò Edwin, l'aveva già valutato. Di tal sorta dovevano capitarne a bizzeffe in quel luogo: pubblicità ambulanti delle virtù della cultura universitaria… sbracalati farfuglianti pedanti che andavano mantenuti in carreggiata. Non ve n'era alcuno nei pressi al momento, notò Edwin: l'atrio appariva animato d'uomini di carnagione scura trascorrenti lestamente avanti e indietro, altivocianti e dall'aria competente. Innegabilmente competente. 

«Desidererei vedere il signor Chasper.» 

«Il signor Chasper, signore? E chi devo annunziare?» 

«Il dottor Spindrift.» 

«Oh, capisco, signore.» L'usciere annuì e indietreggiò lentamente. «Benissimo, signore.» Sorrise gentilmente, rinculando sino alla sua garitta di vetro. «Mi metto immediatamente in contatto telefonico con la segretaria del signor Chasper, signore.» Nel suo cubicolo imbastì all'apparecchio una conversazione più lunga di quanto sarebbe parso necessario. Edwin gironzolò per l'atrio osservando pubblicazioni recenti del Consiglio: lussuose monografie gratuite e riviste di nuova architettura. Potevano certo permettersi di elargire un paio di scellini o giù di lì. 

«Come ha detto che si chiama?» Una voce aristocratica, una bionda segretaria d'impressionante eleganza, completo nero dal taglio impeccabile, gambe che parevano una pubblicità di calze scaturita dalle pagine di Vogue. 

«Mi chiamo Spindrift» disse Edwin. «Dottor Edwin Spindrift.» 

«Oh. E per quale motivo desiderava vedere il signor Chasper?» Edwin preparava una lezione sugli usi idiomatici del passato. Si sarebbe intitolata: 'L'imperfetto come arma letale'. 

«Desidero ancora vederlo, se possibile. Mi è stato concesso di uscire dall'ospedale al precipuo scopo d'incontrarlo. Il che giustifica» soggiunse Edwin «il mio alquanto singolare abbigliamento.» 

«Oh» disse la segretaria. «Credo sia meglio che lei mi segua per di qua.» Il che probabilmente significava: «Non posso permettermi che mi si veda qui a dialogare con lei un istante di più.» Gli fece strada lungo alcuni corridoi sino infine a una porta che Edwin rammentava bene. Fuori dell'uscio c'era un attaccapanni a pioli cui stava appesa con la sua tesa leggermente arricciata la bombetta del signor Chasper. Un uomo dal capo grosso. «Se vuole attendere qui» disse la segretaria. Entrò. Tempo tre minuti e venne alla porta Chasper in persona, voce sonante e stretta di mano cordiale. «Spindrift» disse. «Spindrift, Spindrift. Il nome più poetico dell'intera facoltà. Entri pure, caro amico.» Tipo lui pure d'un'avvenenza minacciosa, elegante quanto la segretaria, probabilmente giocatore in qualche squadra universitaria. Seduto nerboruto mani giunte alla scrivania irraggiò Edwin d'uno sguardo gagliardo e disse con inflessione in flessione: «Sì.» 

«Sono, come può constatare, appena uscito dall'ospedale» dichiarò Edwin. «Volevo accennarle d'una questione pecuniaria.» 

«Suppongo che l'operazione sia andata benone» replicò Chasper. «Immagino che riceveremo la relazione a breve. Spetta al nostro uomo, il dottor Chase, concederle il benestare pel ritorno, capirà. E la signora Spindrift come sta?» 

«Benissimo, credo» rispose Edwin. «Ciò che davvero mi necessita al momento è un tantino di contante.» 

«Hm. È già stato retribuito, no?» Chasper inalberò un faceto cipiglio. «Due mesi di stipendio anticipati. Il tesoriere ci ha inviato copia della quietanza. Ciò significa che non le spetta altro emolumento sino, vediamo, ecco, sì, sino alla fine di novembre. Un lasso di tempo non indifferente. Presumo» disse mellifluo «che abbia trovato piuttosto cara la vita di qui. O che tale l'abbia trovata sua moglie.» Sorrise, come a intendere: «Le donne che spendaccione, nevvero? Anche la mia, vecchio mio. Lo so, lo so, chi non lo sa?» 

«Ecco,» disse Edwin «a esser sincero l'incaglio è che mia moglie s'è concessa qualche giorno di vacanza portandosi via tutto il valsente, e non trovo facile per niente pormi in contatto con lei. È giusto una questione di pochi spiccioli, vede, per permettermi di tirare avanti finché non toma.» 

«Ma all'ospedale si prendono cura di lei, no?» obiettò Chasper. «Insomma, è insolito non contentarsi di quel che passa il convento in ospedale, vero? E altra roba gliela porta la gente, no? A proposito, ancora non son passato a trovarla, vero? Devo proprio rimediare, così quando vengo le porto dell'uva o dell'altro. L'uva suppongo le piaccia, no?» Scribacchiò sul memorandum. 

«Se potessi avere» insisté Edwin «un paio di baiocchi per tirare avanti. Se potesse darmi una nòticina per il tesoriere. Da detrarre dalla retribuzione di novembre. Tutto qui. Appena un paio di cucuzze. Di sterline» tradusse, di modo che Chasper non equivocasse. 

«Le porterò pure un po' di sigarette» disse Chasper. «Sono lieto di vederla stare così meglio.» 

«Meglio di come?» domandò Edwin. «Senta. Per quel paio di svanziche. Sterline. Anche una sola…» 

«Oh, meglio di come mi aspettavo di trovarla dopo tutto quello sfrugacchiare che le han fatto dentro la cara vecchia materia grigia. Immagino che i capelli le ricresceranno in men che non si dica, giusto?» 

Comparve la segretaria. «C'è di là per lei il professor Hodges, signor Chasper. Un po' in anticipo sull'appuntamento.» 

«Lo faccia entrare» non esitò Chasper. «Che piacere ch'è stato rivederla, Spindrift. Farò una capatina in orario visite. Avrei dovuto ottemperare prima, ma lo sa quanto siamo indaffarati da queste parti. I miei omaggi alla signora Spindrift.» 

Una carta geografica addobbava la parete. Edwin la fissò a bocc'aperta. «Zenobia» disse. «Non esiste un posto chiamato Zenobia.» Fece il suo ingresso un individuo azzimato dallo sguardo penetrante, il professor Hodges. «Guardate un po' qui» fece Edwin. «Che sarebbe questa storia di Zenobia? A chi vorreste darla a bere?» 

«Le spiacerebbe portarmi l'incartamento, signorina Woolland?» intimò Chasper. La segretaria si dileguò in una stanza interna. Nessuno accompagnò Edwin alla porta. «Arrivederci, Spindrift» lo accomiatò Chasper. «Cerchi di riposarsi come Dio comanda.» 

Fuori dell'ufficio di Chasper stava appeso adesso non soltanto il copricapo di Chasper, ma anche quello del professor Hodges. Il cappello del professore era piccolo assai. Il cappello di Chasper era un pochino troppo grande. A Edwin scese a depositarsi sulle orecchie. Il nome sul nastro apparteneva a un cappellaio illustre. L'oggetto era suscettibile di restituzione, di permuta. Sarebbe stato il suo prossimo impegno. E perché non impegnarlo al banco dei pegni? Avrebbe reso ben poco. Edwin s'introdusse in sala lettura. Indiani aggrondati erano intenti a leggere il Punch e il New Statesman. Niente Brute Beauty lì dentro. Edwin ravvolse la bombetta di Chasper in una copia del Times. La mensola del caminetto ospitava un volume piuttosto bello sugli uccelli caraibici. Qualcosina avrebbe reso, pur se forse non abbastanza per una camicia. «Mi scusi» intervenne immediatamente un negro. «Quel libro mi appartiene.» 

Edwin tornò in sé sgomento. Eccoci al furto, eh? Degenerazione bell'e buona. Ma era tutta colpa di Chasper. Carogna d'uno spilorcio. Comunque non sarebbe riuscito a vendere o barattare quel cappello tanto facilmente. L'avrebbe preso in prestito, ecco tutto. Restituendolo non appena fosse riuscito a procurarsi del denaro. E il Times? Edwin decise di utilizzare quale carta da imballaggio solamente una doppia pagina. Valore approssimativo un penny. Lasciò tre mezzi penny, un gesto, si disse, di autentica generosità. Adesso era (parola deliziosa) completamente al verde. 

«Ha ottenuto ciò che desiderava, signore?» gli chiese cortese l'asmatico usciere vedendolo uscire col pacchetto. Edwin sorrise. 

La cosa da fare adesso era tornare in zona ospedaliera, magari proprio all'Anchor che a quell'ora - tanto gli rese noto un orologio pubblico - era aperto. Poteva darsi che Sheila ci capitasse, sebbene in fondo egli ne dubitasse. Le sue intuizioni funzionavano piuttosto bene ultimamente, probabilmente in conseguenza della malattia. Era tuttavia il miglior posto da bazzicare. Qualcuno doveva pur sapere dov'era andata a finire; chissà che non avesse consegnato a qualcheduno un biglietto da recapitargli in ospedale. 

Nei pressi di Great Russell Street vide un uomo imberrettato oberato fronteretro di cartelloni pubblicitari. Camminava con passo strascicato e con aria avvilita lungo una strada grigia, sotto un cielo bigio. Il tabellone anteriore proclamava: NON VI STUPITE, FRATELLI, SE IL MONDO VI ODIA. Giovanni I, 3, 13. Il tabellone posteriore recava scritto: LO STOLTO DICE NEL SUO CUORE: DIO NON ESISTE. Salmo 53. «Ippo» disse Edwin. 

«Eh? Cosa?» Grinzoso e sudicio, il labbro superiore affossato in un punto nel quale il cuneo dentale faceva difetto, Ippo lo fissò. «Che vuole?» domandò. 

«Lo sai maledettamente bene» rispose Edwin «cosa voglio. Rivoglio il mio fottuto orologio.» Tese la mano. 

«Nemmanco te conosco» negò Ippo. «Mai visto 'n vita mia, porcaccia.» 

«Shove-ha'penny. Ospedale. Orologio. Non fare lo gnorri.» Un passante intercettò l'ingiunzione e si arrestò un istante. «Che immonda coppia in faccia al mondo» pensò Edwin. La voce d'Ippo prese a impennarsi nel piagnisteo da bazar del popolano londinese doc. 

«Mai visto '1 tu' schifoso riologio. So parecchio che ciavivi 'n pidocchioso riologio. Propio a me lo veni a chiede.» Gesticolava all'orientale. «Uno fa 'na bonazione e guarda te che gnene viene. Ma figurate te se me faccio tampinà da gente come te o chicche sia.» Cercò di adunare una piccola folla. «Questo qui crede che gno fregato '1 su' porco riologio. Chi mai la visto 'sto cacchio de riologio. Nemmanco lo sapivo che ce laviva.» Le sue citazioni bibliche gli guadagnarono la solidarietà degli astanti. 

«Vergogna» disse una donna in abito di tweed fuori moda, dai modi manierosi ma già alticcia. «A casa loro bisognerebbe lasciarli. Gli stranieri ci rubano il lavoro.» 

«Se lei sostiene che costui le ha sottratto l'orologio» opinò un occhialuto in soprabito «dovrebbe dimostrarlo. Dovrebbe condurlo al commissariato e sporgere denuncia con tutti i crismi.» 

«Non voglio noie» disse Edwin. «Voglio solo il mio orologio o l'equivalente in moneta sonante.» 

«Vengono qui» deplorò un tizio recante un fascio di giornali dell'edizione di mezzodì «ad apprendere la nostra lingua. Troppo di manica larga il governo con questa gente, secondo me.» 

«Dice che gno soffiato '1 su' merdoso riologio» piagnucolava Ippo. «Che diritto a danna 'ngiro a sputanamme? Mai fatto male a 'na mosca o. Uno cerca de guadambiasse 'nestamente da campà annanno 'ngiro co' 'sti cartelli e viene questo e cerca de damme adosso. Veggogna marcia è.» 

«Proprio così» convenne la brilla in tweed. «Il nostro è un paese libero, o almeno lo era finché questi stranieri non han cominciato a invaderlo. Li vedi» disse a una donnetta grassottella aggregatasi al gruppo «vivere dei proventi immorali delle donne bianche. Non c'è nulla di più turpe.» 

«Vo 'ngiro a fa' publicità» ribadì Ippo «come se pò vedé da que' che ce sta scritto qui. Fo la reclame a locali pebbene dove mica ce li fano entrà li papponi come lu'. Vu lo vidite che cerco solo de procacciamme 'nestamente da campa pe' mantené 'na mogne e sette figni.» La geremiade crebbe di tono. 

Edwin non gradiva affatto l'accusa, inaugurata dalla donna in tweed e perfezionata da Ippo, di essere un magnaccia. Oltretutto l'analfabetismo d'Ippo si era reso evidente alla piccola folla accrescendone la commiserazione. Folgorato dall'ispirazione, Edwin disse a Ippo: 

«Io so tutto di te. Sei stato al bagno penale.» 

Sbigottito, Ippo agitò ancor più in alto le braccia. «No, gnente bagno penale» uggiolò. «Solo nu po' de gattabuia. Roba morta e sepolta. Giuro su Dio Nipotente che poi ho filato dritto. Figurate te se vogno sta' qui a famme insulta. Adesso me ne vo» annunciò ai suoi simpatizzanti. «Damme adosso a 'sto modo.» Issando i suoi cartelloni si apprestò a sgombrare il campo. 

«Può sempre denunciarlo alla polizia» suggerì la donna in tweed. Lupus in fabula, eccoti tutt'occhi comparire in fondo alla strada un poliziotto. «Credo» disse la donna in tweed «che faremmo meglio a non intrometterci.» Chi è senza peccato…, pensò Edwin mentre, imbarazzato e schivo, il minuscolo assembramento si disperdeva. Sostituto statale del peccato originale. Ippo se la squagliò più ratto di tutti. Ma il tizio con le edizioni del mezzodì lasciò cadere, nella fretta, una copia dello Star. Una raffica autunnale se ne impadronì spiaccicandone un foglio sul tabellone posteriore d'Ippo. LO STOLTO DICE NEL SUO CUORE ne risultò momentaneamente occultato, e Ippo proclamò ateismo al viavai londinese. Ma questo o quello per lui pari erano.

14 

«Io e Carmen» disse Les «venivamo a trovarla stasera per consegnarle questo. Ma, visto che è qui, posso darglielo adesso.» Porse a Edwin un biglietto in busta aperta. Che diceva: 

Caro. Vo via dal Farnworth perché troppo caro. Non so ancora dove andrò però ti scriverò. Contentissima operazione andata. Vengo trovarti quando stai davvero meglio. 

Amoti. S. 

«Bene,» disse Les «si sono sbrigati in men che non si dica, vero? Fenomenale quel che ti combinano al giorno d'oggi.» 

«Non ha idea di dov'è andata?» domandò Edwin. «Non l'ha detto?» 

«Iersera era qui» rispose Les «con quel pittore. Ho l'impressione che andasse dalle parti di Earl Court. Non posso esserne certo, beninteso.» 

«Non m'è rimasto il becco d'un quattrino» disse Edwin. «Non ho altro che questo dannato cappello.» Il quale giaceva sul banco, imbacuccato nel Times. 

«Non ne ricaverà granché» disse Les. «Forse un paio di scellini. I soldi son sempre un problema. Ho trovato un lavoro a Carmen. In un'hamburgheria» soggiunse. 

Les era, concluse Edwin, un individuo assai più sensibile di Chasper. Les aveva già offerto due pinte di birrachiara mista a birramara. I frequentatori del bar denominato Anchor sembravano tutti gente ammodo. Anche il padrone e la padrona parevano tipi per bene. Molto comprensivi. 

«Non serve a niente arrovellarsi a scandagliare troppo avanti nel futuro» sentenziò Les. «L'esperienza ce lo insegna. Impensierirsi non oltre il prossimo boccale, tanto basta. Potremmo» disse «se vuole…» Ruttò e trasformò l'eruttazione nell'attacco della Trauermarsch  del Sigfrido. «Formidabile davvero» disse Les. «Il trasporto del vecchio Sigfrido alla pira funeraria. Pesa una tonnellata, poffare. Quello che abbiamo adesso, Hans Wahnfreud, offre sottobanco generose libagioni a tutti quelli che lo portano. Perché possano bere alla sua salute. Che bravo ragazzo. Ciò che stavo per dire era che, se c'impensierisce il pensiero di donde la prossima bevuta ci verrà, perché non sfidiamo a shove-ha'penny quei due là? Vinti che li avremo, quando le chiederanno cosa prende non si limiti a dire mezza pinta di leggera birramara. S'arrischi per un whisky o un bicchierin di gin. Se lo possono permettere.» «E se perdiamo?» obiettò Edwin. 

«Non perderemo» rispose Les immensamente fiducioso. Diede una voce ai due bevitori, uno cicciottello, l'altro magrolino. Oziavano s'una panca presso la grande vetrina opaca del bar, con dietro i boccali sul davanzale. «Larry» chiamò Les. «Fred. Io e lui vi sfidiamo.» Fece tintinnare le cinque monete che aveva in mano. «Albert» proseguì Les. «Tu prendi il gesso.» Albert era un ex peso gallo andato a riposo suonato. Si sgrullò come un cane, sedette accanto al ligneo tavoliere dello shove-ha'penny e attese ansante. 

Les e Edwin si aggiudicarono a testa e croce il primo tiro. Les proiettò senza indugio sulla fascia centrale le sue tre monetine, tutt'e tre precise nel bel mezzo della striscia. Albert marchiò col gesso la colmatura. Larry ne sistemò tre lanciandone cinque, alla rinfusa. Edwin provò una repentina gioia da giocatore. Les aveva ragione: l'esito della gara era l'unico traguardo per cui valesse la pena di darsi pensiero. Edwin ne lanciò due nella fascia apicale, una in una banda intermedia. Le altre due si fermarono sulle linee. «Bene» disse Les altisonante. «Li abbiamo in pugno.» Fred, ruotando la mano con stile elegante, ne piazzò quattro, ma nessuna vicina alla cima. Les le accasò tutt'e cinque. Ora la lista al culmine era colma. «Ottimo, ottimo» gongolò Les. Larry puntò alle due strisce in alto e vi collocò tre monete. Edwin ne tirò quattro che finiron sulle righe. La quinta le spinse nettamente entro le fasce. «Splendido» disse Les schioccando le labbra. 

Era fatta. Lo scarto fra le due squadre non scese mai sotto cinque. Les riempì la lista inferiore e piazzò due monete in quella immediatamente sovrastante… il tutto con impertinente abilità. Toccava a Edwin assestare il coup de grace, in un punto qualunque della zona intermedia. Ma s'impapocchiò e sbagliò. Talché il divario si ridusse pericolosamente. A entrambe le compagini mancava ormai soltanto un punto. Domandò una voce giovane alle spalle di Edwin: 

«Sentite, gente, di chi è questo cappello?» 

«Ora no» replicò Les. «Un momento, per favore.» 

Edwin sprecò tre monete. Collocò la quarta in buona posizione. «Sfiorala appena» disse Les. «Basta che le fai il solletico.» Edwin sentiva il cuore palpitargli svelto. 

Lambì con la quinta la quarta moneta. La quale quarta scivolò in banda. Les esultò. 

«Un tantino rasente per un ultimo tiro» lamentò Fred. 

«Rasente?» replicò Les. «Rasente?» Fece appello ad Albert. «Potrebbe passarci una fottuta carrozza con tanto di cavalli, amico.» Albert convenne che non era rasente. Larry e Fred concessero la vittoria a Les e Edwin, chiedendo loro che cosa prendessero. Una birrachiara con birramara e un whisky. «Ehi, dico,» insisté il giovanotto, elegante e sofisticato «di chi è questo cappello?» Il Times si era scartocciato lasciando la bombetta accucciata nella sua tesarricciata nudità. 

«È mio,» rispose Edwin «più o meno.» 

«Me lo presti» impetrò il giovanotto «giusto per il pomeriggio. È importante.» 

«Volentieri» disse Edwin «ma…» 

«Non avrebbe dovuto dire che era importante» intervenne Les «in quanto ciò rincara l'addebito. Diciamo una sterlina di cauzione, da restituirsi alla restituzione del copricapo, e cinque scellini di corrispettivo netto per il prestito. D'accordo?» 

«D'accordo.» Il giovanotto porse i cinque scellini. «E adesso signori se non vi spiace…» Una sterlina di cauzione; una sterlina sul bancone. 

«Replichiamo» disse Les alla gestrice, faceta donna di bell'aspetto. «Che ti dicevo?» disse quindi a Edwin. «Dieci minuti fa ti preoccupavi di non aver soldi per una bevuta. E guardati adesso… non solo hai raddoppiato, ma ti sei messo qualcosa in tasca.» 

«Dovrei comprarmi una camicia» disse Edwin. 

«Una camicia? Per farne che di una camicia? Porto nemmai la camicia, io.» Les si piluccò l'attillato indumento zebrato. «Non una vera camicia, vale a dire, che tocchi abbinarci la cravatta. Quel che ti sei messo indosso equivale a una nuova moda. Fa risparmiare un sacco di tempo la mattina. Se si dorme in pigiama, cioè. E di sicuro fa risparmiare un mucchio di tempo la sera. Ecco che arrivano i dioscuri» soggiunse Les. «Dovrebbero saper qualcosa della tua signora.» Edwin però vide soltanto il cane Negro. Il quale cane pose le zampe sul bancone e venne gratificato d'un salsicciotto. «Farai meglio a pagare» disse Les a Edwin. «I soldi ce li hai tu.» 

Terminato che ebbe Negro di sbafare il salsicciotto, i gemelli Stone fecero ingresso nel locale. «Cvarda chi c'è» disse Harry Stone mestamente. «Er prufessó. Cor capello e compagnia pella. Si fusse la mi' donna ve carantisco che gne taría 'na pella sculazzata. Fisto qver tanchero con che sta? Nullo suppottereppi, me.» «Adesso dov'è?» volle sapere Edwin. 

«Lo renderò stasera senza fallo» garantì l'elegante giovanotto agitando garbatamente il cappello di Chasper. «E grazie ancora.» 

«Non c'è prescia» disse Les. Il giovanotto se ne andò, calcandosi il copricapo in capo. Gli calzava a pennello. 

«Era qvi ieri» disse Harry Stone «e ha ditto che putía tornà occi. Mezza pirramara, peffafore, Leo.» Leo Stone era intento a guardare attentamente Edwin. Principiò a parlare quel che pareva un gergo incomprensibile, rapido, ritmico. Essendo filologo Edwin sapeva trattarsi d'uno dei trompe-l'oreille supplementari dell'antica Londra. Sillabe di parole autentiche suonavano inframmezzate dal vocabolo 'boro'. Troppo svelto comunque per stargli dietro. Harry Stone rispose nel medesimo vernacolo, guardò Edwin, commentò di suo. Un'ebraica animazione s'impadronì dei gemelli. 

«Qver che for sapé» disse Harry Stone «è qver che ciai sotto qver capello.» 

«Niente capelli» disse Edwin «ora come ora. Pelato come un uovo per motivi clinici.» 

«È orripile a fetesse?» domandò Harry Stone. «Cioè, è qvarmodo sficurato e orrento? Ossia, è carco anzichenò de zicatrizi e tagli e rope che gne rifortano lo stommaco a 'na pezzona nommale?» Essendo pertanto dato tacitamente per scontato che gente proprio normale da quelle parti non ce n'era. 

«No» rispose Edwin. Con due whisky e un paio di pinte in corpo andava facendosi disinibito. «Mirate popolo.» Con gesto fulmineo si sfilò il berretto. «Aaaaah. Porcaputtana che figata» strabiliò Leo Stone. 

«Canzissimo nun c'è che dì» convenne Harry Stone. «Seconno me se pole usà.» «Vado subito a telefonare» disse Leo Stone. Su di giri, si mise in cerca di spiccioli. «Prestami un par di lilleri» disse al gemello. Poi, provvisto di quattro penny se la batté. 

«Che vuol dire?» domandò Edwin. «Che succede?» Harry Stone aveva preso a esaminargli in lungo e in largo la pelata. «Se credete» disse Edwin «di poter ricominciare tutti quanti a usarmi come una cosa… ne ho abbastanza, sia ben chiaro.» Si rinfilò dignitosamente il berretto. 

«Sòrdi» esplicitò Harry Stone appassionatamente. «Vordí sòrdi. 'Gnicosa vordí sordi a 'nforcalla pel ferso cíusto. Qvesta testa rapata vordí sòrdi.» Si sbracciò tutto eccitato smanacciando Edwin. «Soordi» ripeté. Edwin ammirò l'enfatizzazione della vocale. «Sooordi.» Accentuata, prolungata, dilatata, sicché la bocca di Harry pareva spalancarsi bramosa ancorché sdegnosa come ad acchiappare mosche monetarie aleggianti nell'aere londinese. 

Rifece precipitoso ingresso Leo Stone. «Hai meno di quaranta, sì?» boccheggiò a Edwin. Edwin annuì, chiedendosi che cosa mai… «E che nome usi di solito?» ansimò Leo. 

«Il mio» rispose Edwin. «Spindrift. Ma che diavolo…» 

«Spindryer» disse Leo . «Mica male oltretutto come trovata.» Riscomparve con destinazione telefono. 

«Sarebbe giusto» dichiarò Larry nell'angolo «che ci si concedesse la rivincita.» Dato fondo alla sua pinta si alzò risolutamente. 

«Giusto eccome» corroborò l'esile Fred. «Albert, ripiglia il gesso.» Gesso in mano e bocc'aperta Albert continuava a sedere presso la piastrelliera. 

Les accondiscese alla controsfida annuendo vigorosamente e principiò inaspettatamente a intonare il canto marinaro che apre il Tristan und Isolde fornendone un'originale versione apocrifa: 

«Frescheggia il maestrale Soffiando cortese. 

Su, monta le scale, 

Bagascia irlandese.» 

Si aggiudicò a testa e croce il primo tiro e piazzò tre monete. Gesso, gesso, gesso. Fred fece quattro. Edwin riempì una fascia intermedia e ne sistemò due nella banda centrale. «Che opera incantevole» commendò Les. «Questo ruffiano va in Irlanda e ne riporta 'sta baldracca per suo zio. Indi quei due s'incapricciano a vicenda. Che accade poi, direte voi? Una tragedia. Un'orrenda orripilissima tragedia. Lui finisce in esilio e lei gli muore addosso. Naturalmente prima di crepare canta. Ci mette ore a tirare le cuoia.» Toccava a lui giocare. Cinque monete s'accomodarono senza problemi nei quartieri alti. Edwin si sentiva sulla calvizie il respiro dei fratelli Stone. 

«C'è cià mpo' de piluria che rispunta» constatò Harry Stone. «Toccherà tasse da fà cor rasoio lettrico. Fino a ciofetí sera nun se pole trascurà.» «Ma si può sapere…» principiò Edwin. 

«Sordi» ribadì Harry Stone quasi pigliando Edwin a scrolloni. «Cratterai crana pe' tutti noantri.» 

«Manco per idea, figuriamoci. Se credete che mi lascerò sfruttare in qualche fottu-

to spettacolino o roba del genere…» Si rassettò dignitosamente il berretto. 

«Piano con le parole» disapprovarono scandalizzati alcuni astanti. 

«Faremmo peccato mortale» dichiarò appassionatamente Harry Stone «a perte 

'noccasione come qvesta. È 'na cara, tutto qva.» 

«Tocca a te» disse Fred dando di gomito a Edwin. Incollerito, Edwin ne mise a segno quattro con sbalorditiva facilità. Larry riuscì a far tre. Les le piazzò tutte quante. Harry Stone disse: 

«'Na pella cara pe' crape pelate. La megno pelata fozzata sotto i qvaranta. Pelata rasata selezionata, cioè. Pure caruccia la fogliono.» Scrollò Edwin. «Ciuticata da qvarcuno de qvei strunzetti pellocci tela tele.» Edwin si sentì scuotere sull'altra sponda: toccava a lui. Zeta di gesso marchiavano in fretta le zone segnapunti: era un gioco svelto. Les canterellò: «La tua piccola… è intorpidita; làsciametela ravvissolare», ma piano, sicché a pochi fu dato intendere. Fece quattro con poco sforzo. Edwin disse: 

«Il vocabolo da te utilizzato  ha un'interessantissima storia. In medio inglese si trova la forma coynte. Forme precedenti presentano una più definita iniziale kw. Affine a quim , ovviamente, e anche, forse meno sorprendentemente di quanto si possa opinare, a queen. La quimtessenza della femminilità, potrebbe dirsi.» Si compiacque del gioco di parole, ma nessuno parve trarne edificazione né diletto. Harry e Leo Stone prestavano attentamente orecchio a una voce fuori della porta del bar. 

«Arifa» disse Harry Stone al gemello. «Te cerca.» 

«Prendi il mio posto per oggi almeno, per l'amor di Dio» implorò Leo. «Proprio non sono in vena. Sinceramente non ce la faccio, davvero.» La donna all'esterno della porta, visibile adesso sotto l'architrave, annuì a qualcuno fuori campo e concluse per propria parte la conversazione dichiarando «Ja, ja, ganz schrecklich ». Un mostruoso autocarro sterzò e aggredì l'angusta viuzza alla destra del bar, strappando frammenti di mattone e pietre medievali. In uno sferragliar di parafanghi la nuova arrivata si stagliò un istante sulla soglia scagliando all'interno un'occhiata spietata. «Uno de qvesti ciorni» pregò Harry Stone «fa' che possa finì sfranta e sparagnata da uno de 'sti carri. Facce la crazia, Signore.» La donna era un'arcigna corpulenta anseatica pettoruta in lana blu elettrico e scarpe basse recante una borsetta arazzabescata. Volse lo sguardo dall'un gemello all'altro onde decidere a ragion veduta. Annuì, poi diresse ancheggiando dritta verso Leo Stone. «Doppel gin» ordinò. 

A Les e Edwin ne mancavano tre; ai loro avversari cinque. Les fallì un buon piazzamento, imprecò, fece un due. La conclusione era di nuovo in mano a Edwin. Larry ne sistemò quattro delle cinque richieste. Fred aveva da completare soltanto la facile fascia bassa, ma a Edwin toccava cimentarsi con un'ardua posizione intermedia. Doveva mettercela tutta. Si ansimava sul tavoliere come sopra un portfolio pornografico. La prima moneta di Edwin andò sprecata. La seconda filò sparata fino in fondo alla piastrelliera, in zona di fuorigioco. «Non t'innervosire» disse Les. «Adesso fai con calma. Delicato e pian pianino. Prenditi tutto il tempo che ti serve.» La terza moneta finì nella fascia sovrastante quella che toccava riempire. La quarta spinse ancor più su la terza e si arrestò essa pure troppo in alto per marcare. Edwin ricordò di avere soldi in tasca e che non importava se vincevano o perdevano. Lanciò l'ultima moneta, la quinta, che intercettata dalla quarta proprio al punto giusto giacque nel bel mezzo dell'agognata banda. «Oh, fantastico, splendido, magnifico» giubilò Les. «Anche stavolta ce l'abbiamo fatta.» E andò in visibilio siccome Erode al veder cadere il settimo velo: «Stupendo! Meraviglioso!» 

Una birrachiara con birramara e un whisky. Edwin sentiva di dover qualcosa a quella piccola comunità, non però filologia. «Senti là come lo strapanza» disse Harry Stone sottovoce. «Se cumpotta come si fosse su' moglie, invece d'esse qvella ch'è neffetti. Nun se riesce a falla stà zitta.» La donna andava uggiosamente rampognando Leo Stone mentre Leo Stone non cessava di mordicchiarsi tormentosamente il labbro inferiore. «Doppel gin» ingiunse quella a due riprese. Asserì Edwin, non del tutto sobrio: 

«Se l'idea è d'adoprare la mia testa calva al fine d'ingozzare dessa femmina là con sterminata sequela di doppi gin, potete pure scordarvelo.» 

«Naaah» ringhiò Harry Stone. «Gnanca tutto l'oro der monno putrebbe renne felice qvela tonna. La tu' vincita sarà 'na parzecola, sai qvanto gnene frega a le'. Ce vò na fortuna a mantené qvela tonna a cin. Nullo so perché la supporta. Anche si nun certo senso lo so.» «Ossia?» 

«Senso de corpa» fu la sorprendente risposta di Harry Stone. «Li teteschi gnanno fatto feté li sorci verdi a l'eprei. Percui qvanno la cverra è finita Leo gna fatto vedé li sorci verdi a sei o sette de qvei teteschi carognoni. Gnanca te pò imacinà li sorci verdi che gna fatto vedé. Solo a pensacce a vorte gne piglia la tremarella. E allora la supporta. Pure a le' gne voleva fa vedé li sorci verdi, ma le' gne n'ha mai dato l'orcasione. E pò gna cominciato a fení un po' de senso de corpa. Senti là che tiritera.» La donna s'era irrefrenabilmente scatenata in una bestiale invettiva nella lingua di Goethe. Leo Stone pareva replicare nel medesimo idioma. Edwin comprese dopo alcune frasi trattarsi di yiddish. Tutte le tribolazioni della sua razza, irrequieta, errabonda, martoriata, covavano negli occhi di Harry Stone mentre diceva al gestore: «Ohé, Jack, senti.» 

«Che c'è?» Il proprietario era uomo di solida complessione e bella presenza, occhi cortesi e scaltri sopra un naso risoluto e una bocca beffarda. 

«Tacce 'na poltiglia de Gordon's» disse Harry Stone «e 'na pottiglia de Scotch. E 'na mezza tazzina d'acque toniche e 'n sifone.» Si volse a Edwin mentre il barista si volgeva alle sue scansie. «Ce tocca aprì 'sto pomericcio perché ce serve qver par de scellini che se pole cvadagnà. Tetesto qver posto ma ce sò lecato mani e piedi. Però» precisò Harry Stone «le pirre nun ce le scarozzo. Gne toccherà pefe liqvori.» Poi disse al padrone: «Te saniamo fenertí matina.» Levò lo sguardo alla pelata celata di Edwin, annuendo. «Ce tofreppe riuscì de pianà qvarche tepito 'n sospeso, doppo ciofetí sera.»

15 

Ora di chiusura e prosaica la strada; un bigio meriggio minacciante pioggia. S'incamminarono verso il circolo; Les e i gemelli Stone in avanguardia, Edwin e la mantenuta tedesca appresso. Il cane Negro caracollava per proprio conto trotterellando da un delizioso effluvio viario all'altro: escrementi, aglio, grasso di montone, urina, cibinscatola, ragazzini zozzi. Un ragazzino zozzo nasalizzò qualcosa di glottidale a Harry Stone e Harry Stone schizzettò vezzosamente il ragazzino col sifone. La mantenuta tedesca si chiamava Renate. Ancheggiando affianco a Edwin disse: 

«Se denaro intendi dargli non darglielo, caro. Ogni pfennig che gli do lo spende. Venni qui in Inghilterra che ricca ero e adesso povera in canna sono. Pensi forse che in Germania tornar possa? E invece no che non posso. Pensaci bene, due volte pensaci prima di soldi dargli. Né per un biglietto aereo, mio caro, no, né per un passaggio per mare posso economizzare. Qui eccomi» disse, e s'interruppe a riprender fiato, arrestandosi di botto, a Edwin sbarrando l'andata con mano di lana marrone guantata «qui eccomi col corpo di biancheria intima privo, schiava d'un lurido ebreo divenuta.» 

«Sì,» disse Edwin «l'eterno femminino verso l'empireo ci trae superno. Ho fame» dichiarò, avvertendo uggiolare brezzoline in varie parti del corpo, un rampicar di crampi, un brucior di stomaco dal gusto alcolico speronargli lo sterno. «Debbo mangiare qualcosa.» 

«Mangiare, dici? Mangiare? Niente soldi per mangiar son cinque giorni, una settimana è, che io non ho. Hai moneta? Denaro ne hai? Insieme allora a mangiare andiamo, in asso piantando quei tre marpioni.» Le trapelò saliva dagli angoli della bocca. Avrebbe ben potuto, pensò Edwin, chiedere un salsicciotto o due invece di doppel gin a ripetizione. Forse, provenendo da una terra famosa pei salsicciotti, disdegnava la produzione indigena. «Qui a due passi» disse Renate «un posticino c'è dove carne di maiale e di vitello e bue con cavolo acido e pane nero mangiare si può.» Prospettiva stuzzicante anzichenò. 

«Il guaio è» replicò Edwin «che quella sterlina è una cauzione, sul serio, da rendere non appena l'uomo che ha preso in prestito il cappello che ho preso in prestito me lo riporta.» Scosse il capo: stava divenendo teutonico e incomprensibile. «Quel cappello, vede, non è mio. Se non posso restituire la sterlina di cauzione dovrò lasciare a quell'uomo un cappello che, dopotutto, non mi appartiene. Il che equivarrebbe a un furto. E rubare» concluse Edwin «non posso.» 

Renate pareva avere assimilato la filosofia cristiana del bar. «Te ne preoccuperai domani» disse. «Se quello il cappello non riporta, chi è dunque il ladro? Non tu, mio caro. Forse quando lo riporta i soldi avrai.» 

«Sì» ammise Edwin. «Mia moglie. Oggi pomeriggio. Al circolo. Ma mangiare innanzitutto devo» ribadì. Quell'ordine lessicale era idiomatico, vero? 

Renate lo prese per un braccio e gli fece rapidamente traversare la strada allontanandolo dal circolo. I gemelli Stone e L'es avevano già aperto ed erano entrati: si udiva provenire soffocata dall'interno la voce di Harry Stone imprecante e deplorante. Renate condusse Edwin dietro l'angolo a una fila di basse botteghe, da una delle quali emanava un intenso profumo di violammammole. Tenendo come di consueto in debito conto l'infermità del proprio epitelio olfattivo, Edwin interpretò l'odore primaverile qual sentore grossolano di grasso bollente. «Oppure» disse Edwin «s'io evitassi quell'uomo, sì da non esser mai presente quando riporta il cappello, come potrebbe parlarsi di furto?» 

«Dentro vieni, mio caro» esortò Renate trascinando Edwin smaniosamente. «Mangia, mangia, ragazzo mio.» 

La trattoria si chiamava, ed Edwin se ne compiacque, JUNG. Annoverava un banco e una macchina da caffè e svariati archetipici, quantunque di aspetto non teutonico, sfaccendati assisi a tavoli privi di tovaglie bianche. Una grassona immusonita dalle chiome, un tempo bionde, tuttora intrecciate alla Gretchen, teneva le fila. Intervenne fra costei e Renate un aspro scambio di convenevoli. Dal colloquio che seguì Edwin arguì che il suo berretto di lana non era ritenuto decoroso. Renate spiegò, emettendo rumor di forbici e mimando rasoiate tagliagola. Ammansita, la Gretchen annuì, concedendo a Edwin un sorrisetto agrodolce. Renate ordinò, abbandonandosi a enunciati già di per sé succulenti, un pasto. 

Si dimostrò, una volta imbandito, un pasto di qualità mediocre: braciole di maiale grasse assai con contorno di cavolo bianco salato e accompagno di formaggio e pan di segale. Ma ve n'era in abbondanza, e Edwin aggredì la sua porzione come un lupo. Ingozzandosi di cavolo bianco Renate dichiarò «Fabelhaft » e serrò i denti sul pane nero come saggiasse una moneta, come affrontasse un provino per far la parte di Medea in un film. Poi fece irruzione ansimando Harry Stone. Agguantò Edwin strattonandolo neanche fosse imprigionato nelle sabbie mobili. «Mòfete» ingiunse. «Tefi fení sferto. C'è la pula. Arifa la matama. Pietipíatti 'nfista. Tefi fení a fà un tiscorso. C'è Tacenti, te tico.» La sua faccia espressiva trasudava angoscia, aveva gli occhi di un animale in trappola. 

«Un discorso? Gli agenti? Che significa?» 

«Lo saprai qvanno ce sei. Le tomanne le fai topo.» Edwin si alzò e fu preso a traino dal disperato Harry Stone. «Paga, mio caro» ammonì Renate. «I soldi lascia. Il resto te lo porto quando finito di mangiare avrò.» Non insensibile alla pressante esortazione di Harry Stone, Edwin gettò sul tavolo la sua sterlina gualcita e corse fuori. «Eccoli là» disse Harry Stone. «In fonno a la strata. Nun corre. Camina tranqvillo, tatte un cottegno, come si eri pertafero 'mprufessó.» 

«Ma lo sono.» 

«Nun tiscute. Qvesta tannata itea l'ha afuta Leo. Qver circolo fottuto. Se Cesù Cristo cestiva un circolo gnanca lú pativa de più. Camina piano e rilassato, su. Come si eri qvello che tici t'esse.» 

«Come facevi a sapere dov'ero?» 

«Stè schezzanno? Tieci forte '1 ciorno, schiattasse, va là drento a 'ncozzasse de cafoli 'n agro. Lo sapifo che c'era annata, e ho pinzato che tofefa afette pottato cun sé fisto che ciafifí 'na sterlina da spenne e spanne. Eccoce. Ecco ch'arifano qve' tu' pastarti.» Mentre raggiungevano il portone del circolo, Edwin vide a una cinquantina di metri due omaccioni in borghese calzanti stivali pesanti e con indubbia aria da sbirri. «Topo de te, prufessó» die' strada Harry Stone. Varcata la porta esterna si affrettarono, disturbando vetusto sudiciume e giornalame, verso la scala recante al sottosuolo, giù per la quale Edwin fu strattonato incespicante. Li accolse infine l'umido scantinato con le sue due lampadine fievolucce, il circolo, ma circolo non più. Sul banco, poggiata a una cassa d'acqua minerale vuota, troneggiava un'infantile lavagnetta. Di fronte alla lavagnetta una dozzina circa di loschi individui sedeva mansueta su due file di sedie. Il jukebox risultava gualdrappato d'un vecchio telo da biliardo. Neanche un beveraggio in vista. All'apparir di Edwin Leo Stone applaudì fragorosamente e proclamò, con la sua voce da piazzista d'alto bordo: «Biechissimo ch'abbia voluto oltraggiarci della sua presenza, dottore. Il suo pubblico l'appende addante da non star più in palle.» S'udì tambureggiare sul soffitto un pesante incedere di stivalonacci. «Gli venisse la pipita» disse Leo Stone levando lo sguardo. Poi, rivolto agli astanti con aria seria, in tono erudito sonoramente declamò: «Abbiamo 1 inestimabile e detestabile odore» - palese che avesse in passato calcato le scene - «di dare il bembevuto infra noi al dottor Livingstone Presumo. Anzi diciamo pure al dottor Spindryer di veneranda memoria. Il quale in affetti, fratelli miei diletti, non è mica un qualunque pirocuratore, pur se oggidì mando proprio l'odore d'un assistente di pirocuratore.» Si annusò minuziosamente il bavero sinistro. «Mica sarebbe un'idea pellegrina, vero?» soggiunse con sguardo malizioso. «Il dottore» proseguì con aria più seria «vi si rivolterà, anzi diciamo pure rivolgerà, e una volta presa la pirola, in altre parole la parola, farà sicuramente scuola. Egli ha interpretato il suo numero di fame mondiale dianzi al duca di Connaught, in fronte al principe di Galles, e presso altre mescitorie o edifici pubici che dir si voglia. Un piccolo applauso con mambo le mani, o tutt'e tre se le avete, per il dottore.» Un maldestro quadrupede stivalato stava ormai discendendo le scale zoccolando pesantemente. Scrutando l'uditorio Edwin ebbe a ravvisare la sorridente verrucosa Carmen, una ragazza dai capelli color stoppa e la mandibola ciondoloni dall'aria puttanesca, qualche zotico stupefatto, varie bocche cariate che non gli giungevano nuove, un cane alsaziano, e altra gente che normalmente non ci si aspetterebbe di veder assistere a una conferenza d'argomento filologico. 

«Signore e signori,» esordì Edwin con voce chiara e baldanzosa «il cockney è un dialetto?» L'alsaziano, che teneva la lingua penzoloni, serrò a quel punto le fauci e prestò a Edwin tutta la sua attenzione. «Dipende tutto, come dubitarne, da ciò che intendiamo per 'dialetto'. Per 'dialetto' gran parte di noi ritengo intendano una forma di linguaggio ascrivibile a una regione, un linguaggio facente parte di una lingua proprio come una regione fa parte di una nazione, avente caratteristiche che lo apparentano direttamente alla versione convenzionale della lingua ma difforme dall'ortodossia pel fatto di possedere un sistema fonetico, un vocabolario, e peculiarità sintattiche e morfologiche difficilmente reperibili in ogni altra forma di detta lingua. Non che un dialetto, s'intende, non sfumi in un altro, proprio come una regione si stempera in un'altra. La vita, dopotutto, non presenta soluzioni di continuità, e il linguaggio è un aspetto dell'esistenza.» Gli occhi del pubblico, da vitrei che erano stati, fissavano adesso vigili la porta dello scantinato, sulla cui soglia si stagliavano due massicci individui ciancicanti immaginari sottogola. «Un aspetto importante di un dialetto» proseguì Edwin «è la sua ambizione a esser preso sul serio quanto la lingua in versione ordinaria, il fatto di essere altrettanto antico e di essersi sviluppato in ossequio alle medesime leggi fonologiche e agli stessi principi di mutamento semantico. Perché cos'è, signore e signori, che conferisce alla versione convenzionale di una lingua - diciamo, per esempio, l'inglese puro - la sua pretesa di un maggiore apprezzamento, la sua - diciamo pure - egemonia? Non certo meriti intrinseci di qualsivoglia natura, ma solo la circostanza di essere stato utilizzato per lungo tempo dagli individui più influenti del paese.» 

«Cosa succede qui?» domandò uno dei poliziotti, forse un sergente. Era il più grosso, era il più anziano, era quello che sprigionava maggiore autorità. 

«Una conferenza» rispose Edwin. «Di filologia.» I gemelli Stone non fiatarono. 

«La cosa mi pare sospetta» ribatté il sergente. «E poi mica parlavo a te. Parlavo al responsabile, chiunque sia, di questo posto, sia quel che sia.» 

Edwin si sentì punto sul vivo. Ora che finalmente poteva far sfoggio. «Ora come ora» disse «lei si trova in una sala conferenze e sta interrompendo una conferenza da me tenuta. Vorrebbe avere la compiacenza d'esaurire il suo mandato, ove ne abbia, e consentirmi di continuare?» 

«Non è questo» replicò il sergente «il modo di parlare. È molto sospetto, ecco cos'è, e con te facciamo i conti dopo.» Puntò un dito in direzione di Leo Stone. «A te» disse «ti conosco.» 

«È a me che si rivolge ovvero al cane?» chiese serafico Leo Stone. 

«Lo sai benissimo a chi mi rivolgo» rispose il sergente. «Non fare il furbo con me. 

Ci conosciamo fin troppo bene.» 

«Mica forrà» intervenne Harry Stone «'ntimitillo?» 

«Chiudi il becco» ingiunse Leo repente. «Sì?» disse al sergente. 

«In base a informazioni pervenuteci» disse il sergente «abbiamo motivo di ritenere che vengano qui venduti senza remore superalcolici a tutti e a tutte l'ore, che questo locale venga inoltre utilizzato per l'illecito spaccio di stupefacenti e per il traffico di merce di provenienza furtiva e articoli di contrabbando e sia per giunta una casa di malaffare. Ecco qua» disse. 

«Omiciti 'gnimoto 'nne consettiamo» precisò Harry Stone. «È cià qvarcosa.» 

«La tua insolenza non sarà tollerata» disse il sergente. «Ti farò arrestare per intralcio alla forza pubblica. Ciò che voglio sapere è il motivo del presente assembramento.» 

«Istruzione» disse Leo Stone. «L'istruzione è il contrario dell'ignoranza, e la gente istruita è il contrario di quella ignorante, non so se rendo l'idea.» 

«Non sono venuto qui» disse il sergente «per vedere l'esercizio legittimo delle mie funzioni impedito, ostacolato e osteggiato dall'uso del sarcasmo.» Volse con aria impensierita lo sguardo a Edwin. «E quello comunque chi è?» domandò. «Non l'avevo mai visto. Vorrei proprio sapere qui che ci sta a fare.» 

«Sono il dottor Spindrift» disse Edwin. «Mi occupo di linguistica.» 

«Mi suona male» dichiarò il sergente. «E mi sembri tutt'altro che un dottore. In pigiama e con quella specie di berretto in testa.» 

«E un eccentrico» spiegò Leo Stone. «Essendo uomo di cultura bisognerà pur che sia eccentrico. Logico, no? Ma forse alla polizia non capita spesso di venire a contatto con uomini di cultura.» 

«Non mi par giusto dire una cosa del genere» protestò l'altro poliziotto prendendo per la prima volta la parola. 

«Diamogli dunque modo di dimostrare s'è davvero un dottore» concesse il sergente. «Non porta nemmeno le calze.» 

«L'era malato e l'è appena sceso da letto» rivelò Harry Stone. Rendendosi conto d'aver detto la verità rimase lì qualche secondo a bocc'aperta. 

«Ecco il mio diploma» disse Edwin. Esibì la pergamena e il sergente la esaminò con aria scettica. 

«Potrebb'essere falso» opinò. «Non mi convince per niente.» Lo restituì. «Avanti» disse. «Continua col tuo discorso. Vediamo quanto ne sai.» 

«Il cockney» disse Edwin «è, fonologicamente, un dialetto, e i suoi caratteristici fonemi sono stati attentamente esaminati dagli esperti di fonetica.» Il pubblico sedeva tranquillo, ma gli occhi di tutti indugiavano sugli agenti. «Le sue strutture e il suo vocabolario, però, non differiscono materialmente da quelli della forma convenzionale della lingua. Ciò è abbastanza naturale, in quanto il cockney è l'idioma adottato in parte della capitale, e la forma convenzionale ebbe origine dal dialetto dell'East Midland che, ovviamente, era parlato qui a Londra. La forme caratteristiche del cockney non sono sviluppi dialettali bensì intenzionali e consapevoli alterazioni delle forme ortodosse. Prendiamo il rhyming slang …» 

«Se stai tenendo una conferenza» obiettò il sergente «dovresti farlo come si deve, e non tirare in ballo lo slang. Va bene» disse quindi rivolto ai presenti tutti. «Adesso ce ne andiamo. Ma qui sta succedendo qualcosa di equivoco assai. Mi pare parecchio strano che una combriccola come la vostra voglia istruirsi, figurarsi poi un'istruzione del genere.» Riservò a Edwin uno sguardo particolarmente pregno di sospetto. «La prossima volta» minacciò «non andrà tanto liscia.» 

«Consideriamo arse40» disse Edwin ad alta voce «per esempio. Arse diviene bottle and glass. Avviene in seguito una sorta d'apocope tesa a confondere le acque e rimane unicamente bottle. Ma bottle subisce il medesimo trattamento e diviene Aristotle. Ulteriore apocope e residua il solo Aris. Termine talmente simile al vocabolo di partenza da vanificare in gran parte l'intero procedimento. Ammetto di avere scelto un caso piuttosto eccezionale, dal quale è tuttavia possibile arguire…» 

«Ci puoi scommettere che hai scelto un caso eccezionale!» insorse il sergente. «Sarebbe dunque questa la tua conferenza? Zozzerie e sconcezze. Lo sapevo che qui c'era in corso qualcosa di losco. Comunque voi marmaglia vi ho avvertiti» disse. «Attenti a non fare passi falsi, passo e chiudo.» Se ne andarono a passo pesante. Il quadrupede stivalato riscarpinò su per gli scalini, lo si riudí sul soffitto, poi scalcagnò via. La platea tirò un sospirone di sollievo, quindi si sparpagliò in forma d'equivoci individui turpiloquenti reclamanti a gran voce da bere. Edwin sbraitò: 

«Fermi tutti! Nessuno vi ha dato il permesso. Non ho congedato la classe.» Percosse il banco di compensato. 

«Pasta cusí, prufessó» disse Harry Stone. «Atesso rilassate. La tu' parte l'hai fatta, l'hai fatta eccome. Anca si qvella parolaccia» redarguì «te la putivi rispammià. C'è dei limiti, com'ha tetto lo spirro. Putivi anche scegne artre parole, 'nfece che qvella. 

Er troppo stroppia, no?» 

16 

Appostata una sentinella al portone - un omiciattolo barbugliante con una faccia tirata alla duca di Windsor - si ridiede la stura alle interrotte libagioni. Ma Edwin mise su il muso. «Una cosa» si dolse immusonito. «Qualcosa che s'usa, ecco quel che sono, qualcosa che s'usa e poi si getta via.» Harry Stone lo cazzottò, replicando appassionatamente: 

«Ciafrai 'n antra occasione, anca si noi speramo de no. Si tonna la pula armettemo qvei sfaticati a sede a 'scortà e tu poi riprenne da dof'hai smesso. Ner frattempo» disse «cvarta che belle beve che t'hanno preparato sur bancone i tu' scolari riconoscenti. Bevele» ingiunse impetuosamente tonfando Edwin. «Bevele sverto. Si ariva er segnale nun ce teve sta nessuno là 'mpalato con tutti qvei picchieri 'n fila.» 

Dopodiché i gemelli Stone cercarono, in modo timido e maldestro, di manifestare gratitudine a Edwin. Narrarono per fargli piacere racconti di dubbia autenticità, inattendibili aneddoti, grossolani brani autobiografici. Erano entrambi vissuti per breve tempo all'Est. Entrambi s'erano imbarcati nella marina mercantile. Nessuno dei due aveva svolto alcuna attività a lungo. Leo da bambino aveva recitato in tournée nel Peter Pan ed era stato l'efebo, sino alla pubertà, dell'uomo che interpretava il ruolo del signor Darling. Aveva fatto da spalla a un comico, era stato danzatore di tip tap, fìnto tecnico sanitario, cameriere, marinaio, venditore di tricolozioni rigeneranti, invadentenace commesso viaggiatore latore d'enciclopedie rubate, camicie nipponiche e mangime per cani, friggitore di patatine in olio da motori, tenutario di circoli, bancarottiere. Harry aveva fatto il fattorino d'un allibratore, era stato cameriere di bordo ben disposto a recar sesso assieme al tè al mattino, sguattero, cuoco, impiegato postale a Natale, mantenuto, addestratore di levrieri, piazzista di vestiario estivo a buon mercato, servintavola in vagone ristorante, aiutante in pescheria, procacciatore di budelli per loschi salsicciai, dimostratore di smacchiatori. Ma quantunque ciascuno dei due fosse andato perlopiù per la sua strada, i richiami della gemellanza, più cogenti dell'amore, li avevano raffratellati sovente in disastrose intraprese in patria e, in due occasioni, all'estero. Quando si trattava d'addossarsi la colpa era Leo solitamente a eligere d'aggobbirsi sotto il fardello. La vita carceraria non gli risultava molesta se le detenzioni erano brevi e non troppo frequenti… masochismo risalente alla terra d'Egitto e alla casa della schiavitù . 

Harry rimembrò conquiste di vecchie riccastre stronze al tempo di sua vita giovanil quando beltà splendea sulla di lui persona ed ei sfoggiava una gran chioma riccioluta; parlò di levrieri indolenti rianimati concedendogli una preda, di levrieri esuberanti abbacchiati somministrandogli una gran bevuta; di quando era l'unico ebreo di Londra ad aver aderito contemporaneamente al partito fascista e a quello comunista; di chiavatine mattutine con infermiere australiane durante la guerra in cabine di navi trasporto truppe; di come distinguere le aringhe fresche; della tecnica per trasmettere le quotazioni all'allibratore tramite segnali convenzionali; di quella volta che aveva incontrato un boia somalo affranto di non essersi potuto vendicare d'una vittima che gli aveva sputato in un occhio in articulo mortis. Leo parlò d'ars amatoria, dell'importanza dei postliminari e del ruolo speciale della collinetta goduriosa; di come distinguer successo da fiasco aguzzando l'orecchio; della vita privata degli attori scespiriani; di perversioni amburghesi; di una contorsionista tailandese con cui era vissuto; di un ricco finocchio con cui era quasi vissuto; di eminenti figure criminali come Harry il Grosso, Tony lo Snob, Herman lo Svelto, Pirelli; di Qwert Yuiop, il Re della Dattiloscrivente. Nel frattempo s'esaurirono i beveraggi, da un segreto ripostiglio sbottaron bottiglie dalle ignote etichette, e di Sheila neanche l'ombra. Ancheggiando in compenso comparve Renate, repleta di cavolo acido che, il resto di Edwin sul banco sbattendo, asserì: «Ora pago da me. Doppel gin.» Edwin s'adirò e quattro differenti accenti cicalecciarono e gloglottarono al bar. 

Fu in quel momento che superata senza problemi la sentinella e discese le scale fecero ingresso quattro membri della Ghenga delle Patacche o pataccari, come li definì Harry Stone in un sussurro. Edwin, studioso di filologia, non ignorava che cosa comunemente s'intendesse per patacche: orologi di contrabbando da quattro soldi garantiti funzionanti un paio di giorni. I quattro figuri, sebbene sbronzi, parevano bene in arnese. C'era un biondo dall'ossa grosse avvenente come un divo del cinema in completo di tweed e un gran bel soprabito raglan, ma con gli occhi esaltati e le labbra sottili. C'era un tipo corpulento che sembrava sul punto di piangere e si guadagnò la simpatia di Edwin pel fatto d'indossare lui pure un pigiama sotto un paio di pantaloni bene in piega (il cordone del pigiama dava l'idea di sbucargli dall'ombelico), giacca sportiva, cravatta larga dal nodo lento, impermeabile. C'era un tale dall'aria decisamente afflitta recante una gran tintinnante valigia di cuoio a soffietto. Il quarto si chiamava Jock  e aveva la faccia non poco sfregiata da, evidentemente, colluttazioni in quel di Gorbals43. I quattro s'eran portati da bere - whisky in fiasche - e parevano esser lì solo in cerca di compagnia. Il bel biondo dagli occhi esaltati chiese musica. 

«Oggi no» supplicò Leo Stone dal bar. «Oggi s'è dovuto farne a meno, Bob. S'è avuto visite.» 

«Cacchio» disse Bob dondolandosi con mossette vezzose. Guardò Edwin e disse: «Ehilà tu, tutto in ghingheri, canta.» 

Ma un ometto bruttino e brunetto silenziosamente comparso chiese a Bob: «Quanto ha preso Nobby?» 

«Freme, eh sì» fece il mesto valigifero. 

«Cosa? Gnente multa né gnente?» «No.» 

«Fottuta fortuna ciavuto.» E il brunetto bruttino scantonò. 

«Perché Nobby ha preso tre mesi?» volle sapere Edwin. 

«Quando l'hanno pizzicato aveva indosso mille sterline di patacche» spiegò Bob. «È stato un errore, mi spiego? Farsi beccare con quella roba addosso. Niente permesso d'importazione né niente. Ma tu che ne sai di Nobby?» Ciò detto Bob, sospettoso ma allettato, si avvicinò a Edwin. 

«Niente, proprio niente. M'interessa sempre quando sento che qualcuno s'è buscato qualcosa. Tutto qui.» 

«Perché? Che ti sei fatto tu?» 

«Mi sono fatto il bagno» rispose Edwin senz'alcuna esitazione scandendo con piacere le parole, essendo le parole, per lui filologo, soltanto un gioco. 

«Ma cos'hai fatto? Cos'hai fatto per buscartelo? E poi, chi sei? Perché sei conciato così? Come ti fai chiamare, eh?» incalzò Bob elettrizzato. «Sei un pervertito, nevvero? Te lo leggo negli occhi che sei un pervertito. Anch'io sono un pervertito. Cos'è che preferisci, eh? Avanti, dimmelo. Che razza di robe ti piacciono?» Gli sfavillavan gli occhi d'eccitazione. Edwin s'impaurì. Fu salvato dall'interporsi vacillante del tipo corpulento. Il quale disse: 

«Nessuno vuol bene al povero vecchio Ernie. Nessuno parla col povero vecchio Ernie.» Impugnava nella mano destra una pinta di Johnny Walker. «Nemmeno mia madre ormai mi parla più. Povero vecchio Ernie.» 

«Fatti gli affaracci tuoi» protestò Bob. «Nessuno t'ha chiesto di sbatter di mezzo la tua trippa lardosa. Sei uno zoticone. Non vedi che stiamo parlando? Garbino l'è morto?» 

Ernie strabuzzò gli occhi pronti a inondarsi di lacrime. «Ecco qua, l'avevo detto» fece con voce piagnucolosa. «Nessuno mi vuole.» 

«Ti voglio io» lo demulse Edwin. «Su, su, coraggio.» 

«Davvero?» gorgheggiò Ernie con trepida gioia. «Faresti amicizia col vecchio Ernie?» 

«Per te non va bene» disse irritato Bob a Edwin. «Non va bene per niente. È normale.» 

«Lui e io» disse dignitosamente Ernie a Bob «ci siamo appena levati di letto. Si vede subito, basta un'occhiata. Solo che lui a letto c'è stato di più perché il suo pigiama è più sudicio del mio.» Circondò Edwin con un braccio e disse: «Se fai amicizia col vecchio Ernie non te ne pentirai. Ti porto a casa della mia mamma e se le dico che sei amico di Ernie anche lei ti sarà amica.» 

«Perché» domandò Edwin «non ti parla più?» Addolorato Ernie si scostò uggiolando: 

«Non l'avresti dovuto dire, non me l'avresti dovuto ricordare.» Era almeno, calcolò Edwin, sui quarantacinque. A Edwin tornò d'un tratto in mente una cosa raccontatagli una volta da A.S. Neill: la storia d'un fanciullo delinquente che rubava orologi e li apriva per scoprire, simbolicamente, donde vengono i bambini. Madre patacca… un buon titolo per qualcosa. Domandò: 

«Ti piacciono gli orologi?» 

Ernie si fece serio e cercò di ricomporsi. «Un buon orologio sicuro che mi piace» rispose. «Un ottimo esemplare d'oreficeria svizzera con un sacco di rubini e un meccanismo come Dio comanda. Ma questa robaccia,» disse «meglio starne alla larga, garantito.» Cacciò la mano in tasca dell'impermeabile ed estrasse una manciata ticchettante. «Puoi averne uno qualchessia» offerse, dimentico di quanto testé sostenuto «per tre sterlicchie. Per via che vuoi essere amico di Ernie.» Sopravvenne, orribile a vedersi, l'uomo di Gorbals, che alitandovi sbirciò dappresso le patacche. 

«Tre sterlicchie non ce l'ho» disse Edwin «e nemmeno una, e neanche mezza, e neppure uno scellino, e manco l'ombra di un misero pennyno. Non posso comprare un bel nulla.» 

Gli uomini della Ghenga delle Patacche lo scrutarono con scaltro interesse, soppesando, valutando. Bob lo abbrancò per la giacca del pigiama traendolo in disparte. «Ti andrebbe» gli chiese con voce tremante «di fare uno spuntino? Sono ben fornito, sai? In macchina ho due interi salmoni affumicati. Ho una bottiglia di champagne francese. Ho la tasca interna piena di croccantini. Vieni con me» disse, esalando su Edwin un respiro rovente «e vedrai cosa ti darò, vedrai cosa farò per te, basta che tu…» Ma l'alsaziano, proprietà della bionda con la faccia da bulldog, si era scagliato su Negro, ancorché per gioco. Negro guaiolò, e l'alsaziano spirò uno sbuffo simile al soffiar di sguincio nel collo di un bottiglione. «Cani!» strillò Bob raccogliendosi nel suo raglan e zampettando in punta di piedi tal qual ci si ritrae quando monta la marea. «Non mi piacciono i cani.» Ma i cani l'accerchiarono, maretta furibonda di nero e di marrone coronata d'una candida spuma di zanne, mentre Bob dava sfogo a gridolini effeminati. Mollò una pedata, ma la punta della scarpa non gli entrò in collisione con alcunché. Disse Harry Stone: 

«Gnente carci ar mi' cane, poccaccia. Qvi nun foglio casini, però gnente carci ar mi' botolo rignoso, faccaccia.» 

«Allora scacciale a cuccia, 'ste atroci bestiacce feroci.» Stavolta la punta impattò il deretano dell'alsaziano, un fondoschiena ben pasciuto che non ne risenti minimamente. Ma la bionda buldogrugnata ingiuriò Bob con sconcezza donnesca, affrante di cui l'oscenità maschile fa figura d'infantile chiacchiericcio. Il melanconico e il manigoldo glasgoviano fecero le facciacce, pronti alla baruffa. Poi la sentinella si precipitò giù per le scale dello scantinato berciando: 

«A-arrivano! Son'in fo-fondo alla strada! Presto fate sparire il be-bere!» 

«Le sedie! Le sedie!» urlò Harry Stone. «Mettete 'n fila qvele sedie!» 

Nessuno nel locale era ancora inabile. Ebbe luogo un celere ingurgitamento alcolico, un intascamento e imborsamento di appiccicosi bicchieri vuoti. I pataccari, ottusi com'erano, toccò brutalmente irreggimentarli a forza di spintoni. Bottiglie di gin e bottiglie di whisky vennero lanciate da Leo Stone al banco a Les presso il jukebox. Les le acchiappava al grido di «oplà!» inguattandole sotto il telo del biliardo. L'alsaziano gagnolò lugubremente mentre veniva trascinato pel collare al suo posto in classe. Negro strisciò ventre a terra oltre la porticina basculante del bancone. Harry Stone sventagliò furiosamente il fumo di sigaretta ricorrendo a una copia dell'Annuario delle Signore. «Pene, prufessó» ansimò. «Fa' la tu' patte.» 

«Prendiamo adesso in considerazione» disse Edwin, trovando difficoltà a concentrarsi «ciò che i filologi definiscono etimologia popolare. Scriverò queste parole sulla lavagna.» Gli gettarono un pezzo di gesso da sarti. Mancò la presa, si chinò e lo raccolse da terra. Sentendosi venir meno si domandò come mai la circostanza gli paresse in qualche modo adeguata. S'aggrappò un attimo al bancone, poi si sentì meglio. 

Qualcuno aveva scarabocchiato una parolaccia sulla lavagnetta. L'obliterò con la manica. Quindi scrisse, nitidamente e accuratamente, ETIMOLOGIA POPOLARE. 

«L'etimologia» disse Edwin «ha a che fare con l'origine delle parole, e per l'esattezza l'origine vera, in quanto etymon in greco significa 'vero'. Con l'espressione etimologia popolare s'intende il tentativo da parte degli illetterati di assimilare nel linguaggio colloquiale una parola straniera o inconsueta modificando l'aspetto esotico di tale parola in qualcosa di più familiare. Gli incolti cercano in tal modo di convincersi che quanto è davvero straniero non è straniero affatto: essi spiegano l'elemento estraneo e ne annullano l'estraneità immaginandolo affine a qualcosa di ben noto. Esistono numerosi casi classici di etimologia popolare. Prendiamo, per esempio, la parola penthouse .» Mentre la scriveva sulla lavagna, tornò a farsi udire il quadrupede stivalato. Nel girarsi a fronteggiare il pubblico Edwin vide gli occhi di tutti levarsi velati al soffitto. Quattro piedi gravosi ritmarono verso il caposcala. «Penthouse» proseguì «contiene un elemento familiare, house . Ma la forma originaria era pentice, derivata dal francese appends, derivato a sua volta dal latino appendicium, che significa 'aggiunta, complemento'. La desinenza -ice è stata cambiata in house per conferire alla parola un aspetto più familiare.» 

Pesanti, rumorosi, implacabili discesero i piedi. E sulla soglia tornarono a stagliarsi i due marcantoni in borghese ciancicanti immaginari sottogola. «Analogamente» continuò Edwin «il medio inglese primerole venne scartato a beneficio di primrose , in quanto il secondo elemento della parola esisteva già per conto proprio quale nome di un fiore.» Il poliziotto più giovane trascrisse diligentemente sul taccuino ETIMOLOGIA POPOLARE, PENTHOUSE, PRIMROSE. Sospetto, quest'ultimo: che alludesse alle ragazze squillo ? «E non possiamo naturalmente dimenticare» perseverò Edwin «Jerusalem artichoke , dove Jerusalem è alterazione popolare dell'italiano girasole, trattandosi in effetti di piante dello stesso genere.» Si soffermò. A questo punto doveva accadere qualcosa, qualcosa d'importante. «E v'è inoltre causeway , corrispondente al francese antico caucie, derivato dal latino calx, che significa gesso. Significa gesso,» ripeté «significa gesso .» 

«Giusto» disse il sergente. «Credo proprio che basti così . Siamo stati al consiglio di contea e dicono che non gli risulta in corso un corso così e cosà. Lo sapevo che c'era del marcio.» 

«Oh, piantala» disse Edwin. S'afflosciò accuratamente al suolo in un'assoluta, riposante oscurità. Rinvenendo trovò chini su di sé dei volti, non delicata brunezza birmana bensì coriaceo biancore londinese. «Onoriamo finché possiamo» citò «l'uomo verticale .» Poi risvenne.

17 

Ora sì ora no, ora sì ora no, baluginavano i sensi a Edwin. Fu trasportato su per le scale dai due poliziotti, il cui abito di lana pettinata odorava di funghi umidi di pioggia. Suoni di voci, rimescolio di gente. Lo distesero davanti all'ingresso e constatò, sorpreso, che il marciapiede era umido di pioggia. Poi si discusse del dove e del come, si parlò d'auto, ambulanze, ospedale. All'udir l'ultima parola Edwin tornò completamente in sé, e sentì che non era mai stato meglio da quando era fuggito, come se mentre non ci faceva caso si fosse compiuto un profondo processo di guarigione. Meditando i due poliziotti d'impiegare la macchina di Bob, Bob stava spostando dal sedile posteriore a quello anteriore uno scatolotto da cui spuntava un filoncino dorato; i loro occhi si distrassero un istante; intanto Harry Stone dall'interno si dirigeva al portone. Edwin s'alzò in piedi silenzioso e svelto e svoltò l'angolo di corsa. «To' tiafolo l'afete misso?» si lagnò la voce di Harry Stone in avvicinamento. Edwin trovò un vicoletto. «Tofefate cuparfene foi, no?» DAN AMA BRENDA SHERRIFF proclamava una graffito tracciato a gesso. Un uomo di gesso pendeva da una forca di gesso. Gesso, gesso, calx. Il vicoletto ospitava delle pattumiere. Edwin si nascose dietro una di esse, accovacciandosi basso basso. «Forse» disse la voce di Harry Stone «s'è rintanato dreto una de qvelle pattumiere.» Edwin schizzò ritto e svicolò. In fondo al vicoletto la strada echeggiava delle strilla degli strilloni, la gente rincasava dal lavoro, brillava l'insegna azzurra della Metropolitana. Il vicoletto virava a mancina - altre pattumiere, altri graffiti - e per di là corse Edwin, finendo per ritrovarsi sulla strada che aveva lasciato, ma stavolta di fronte all'Anchor. «Ohé!» sentì, e «Tonna qvi, tannato tiota!» Le luci dell'Anchor erano accese, ma le porte non ancora aperte. La viuzza a sinistra dell'Anchor menava, vide Edwin, al cortile in disordine d'una segheria. Esitò, si scoprì incalzato dappresso da un Harry Stone in duplice copia, ma ancor più daccosto tallonato da un autocarro. Il veicolo aveva appena svoltato dalla via affollata e giornalaia e aveva ora intenzione di fare ingresso nel cortile. «Momento!» berciò Harry Stone all'autista. «Tranquillo, amico» lo rassicurò il conducente. «Non è mica la prima volta.» E scardinando mattoni e torturando parafanghi imboccò l'accesso alla viuzza. Poi si ritrovò incastrato. Adesso Edwin per un pochino era al riparo dagli inseguitori. Tentò la porta della sala interna, ma era ancor chiusa. L'autocarro faceva progressi: fra le urla dei braccatoli di Edwin, la demolizione di muratura e il clangor di metallo si andava raddrizzando, ed era quasi pronto a entrar liscio come l'olio. Edwin corse nel cortile della segheria e si guardò attorno disperatamente. Alla sua sinistra una sega circolare, tavoloni, tronchi grezzi, un operaio in tuta con berretto e sigaretta. «Si, amico?» disse a Edwin. Edwin volse lo sguardo a destra: una baracca di legno per ufficio, con dentro una luce a mostrar mollettate di fatture arricciolate penzoloni alle pareti, un uomo anziano seduto a un tavolo, laboriosamente intento a cavarsi la dentiera di sopra per poi scrutarla tutto serio e rimettersela infine dopo aver scosso il capo rassegnato. A destra del suddetto ufficio c'era un muro di cinta abbastanza basso per dargli la scalata. Edwin lo raggiunse di corsa, infilò la punta del piede in una sbrecciatura poco fonda e udì l'operaio dire: «Lascia perdere, amico, non farlo.» Sollevatosi a forza di braccia Edwin puntò un ginocchio in cima al muro, scoprì dall'altra parte un giardino rigoglioso, poi scavalcò. Indugiò qualche secondo addossato alla parete. Di fronte aveva una casa di quattro piani più seminterrato, appartenente a una schiera. Il crepuscolo s'era quasi trasformato in oscurità. Valicò incespicolando erba folta e rampicanti, rischiò di capitombolare sopra un inesplicabile rotolo di filo spinato, fece reciprocamente tintinnabulare svariate bottiglie come in un assolo di xilofono, quindi giunse a una porta posteriore aperta, un retrocucina con un'accesissima lampadina. Un giovanotto pallido dai capelli neri alquanto untuosi stava chino sul lavandino indossando un grembiale femminile colle gale. Pelava cipolle immerse nell'acqua, ciononostante accecato dal pianto. Di soppiatto Edwin traversò il retrocucina, varcò una buia cucina, attinse un corridoio. Da una stanza sulla sinistra del corridoio una voce chiamò: «È lei, signor Dollimore?» Edwin oltrepassò un cartellino con gli orari delle funzioni religiose, un altro con la dicitura PECCATORI DELLA STRADA (X), una pianta di Londra, un telefono a muro, e aprì la porta d'ingresso su cui pendeva appeso a una puntina da disegno l'avviso COMPLETO. 

La strada era tutt'altro che deserta - la stazione della Metro aveva giustappunto rigurgitato un'ascensorata di passeggeri - ma nessuno pareva esplicitamente in cerca di un paziente evaso in berretto di lana e pigiama e - come vide chiaramente Edwin alla luce del lampione - un lungo strincio in una gamba dei pantaloni. Scandagliò la tasca destra dei calzoni rinvenendovi null'altro che due penny. Quella mignotta d'una tedesca aveva speso il resto della sua sterlina in doppel gin. Dov'era Sheila? Edwin provò l'angoscia e l'autocommiserazione del viaggiatore smarrito che avverte nella notte non un manto protettivo bensì mani pronte a strangolare. Scorse oltretutto dall'altra parte della via un poliziotto in divisa che fatta sosta nel pattugliamento gli puntava gli occhi addosso. S'incamminò dunque senza indugio verso la stazione della Metropolitana, entrò nell'atrio, vivacemente illuminato e tintinnante di penny, poi seguì verso l'ascensore i possessori di biglietto. Di fronte all'ascensore c'era una fila di cabine telefoniche, una delle quali vuota. Edwin vi entrò, vide d'ambo i lati silenziosi conversatori boccheggiar come pesci nei ricevitori, si accertò che la porta di vetro fosse ben chiusa, quindi sostò a riflettere. Pigiò istintivamente il Pulsante B, ma il meccanismo si limitò a un secco clic infruttuoso, e voltandosi un attimo egli vide che già cominciava a formarsi una coda: una donna di mezza età con dietro un tizio con la faccia da coniglio. Che strano. Nessuno in attesa all'esterno delle altre cabine. Che voleva il tipo conigliesco? Edwin sollevò la cornetta, compose - ripensando a James Joyce - Edenville 0000  e domandò di Adamo. Senza dar modo a chicchessia di rispondere, «Sei stato tu» disse «a cacciarmi in questa bega. Se tu non fossi esistito neanch'io esisterei. Come se la passa quella melandrona di tua moglie? E quegli incestuosi dei tuoi figli? Digli a tutti lì da voi che vi odio.» Il segnale di libero svanì. Edwin chiese di esser messo in linea con vari altri personaggi biblici. La donna di mezz'età picchiò sul vetro col pomolo cinocefalo dell'ombrello. Ciò visto Edwin scorse il tipo conigliesco scipparle la borsa e darsela a gambe, vide la donna trafitta dalla sorpresa, la vide rompere in pianto e partir vacillante brandendo l'ombrello, poi vide che in testa alla coda c'era adesso Bob, il pataccaro dagli occhi esaltati, disposto ad attendere a lungo. 

Edwin disse qualche parolina uno dopo l'altro a Ezra, Abacúc, Elia, Geremia e Isaia, poi si sentì debole, affamato e stanco. Bob batté forte sul vetro. Edwin aprì. 

«Sì?» disse. 

«Meglio che vieni con me. Ho la macchina qui fuori.» 

«Non voglio venire con te.» 

«E invece faresti bene. O me o gli sbirri.» 

«Che c'entrano gli sbirri?» 

«Gli sbirri pensano che sei matto. Ma io lo so che non lo sei. Secondo me sei un pervertito, proprio come me. Vieni con me, che è meglio.» 

«Perché? Cos'è che vuoi? Che intenzioni hai?» 

«In macchina ho due bei salmoni affumicati. Una sterlicchia a cranio. Mica troppo cari, tutto sommato.» 

«Sai quanto me ne frega del salmone affumicato.» 

«In frigo ciò un altro paio di cosette. Ma il salmone affumicato è considerato una vera prelibatezza.» 

«Ohé, in piccionaia» fece una voce irritata alle spalle di Bob. «Andate a cianciare di salmone affumicato da qualche altra parte. Devo telefonare a mia moglie, cribbio.» Bob si girò con indolente sguardo canagliesco e disse: 

«Vai a farti fottere.» Poi afferrò Edwin per il polso allontanandolo dalla soglia della cabina. Edwin pensò che il miglior modo per svignarsela era seguirlo senza opporre resistenza. Adesso l'atrio era pieno di gente e i distributori automatici di biglietti ingurgitavano monetine a tutto spiano. Fresco d'ingresso nella stazione, eccoti il giovanotto che aveva preso in prestito l'arricciata bombetta di Chasper. L'indossava, ma scorto Edwin se la tolse dicendo: «Eccola qua.» 

«Mi rincresce oltre ogni dire» disse Edwin «ma non ho più la sua sterlina di cauzione. Temo di averla spesa. Non potrebbe restituirmelo domani, il cappello?» 

«Oh» fece il giovane. «Veramente quella sterlina mi serviva proprio. Non questa sera, s'intende, ma domattina di sicuro. Ho trovato lavoro, sa? Questo cappello mi è stato di grande aiuto. Ho guardato al bar ma lei non c'era. Sarei tornato più tardi.» 

«D'accordo, d'accordo» tranciò Bob impaziente. «Se si tratta di sborsare una sterlicchia appena…» Mollò il polso di Edwin per estrarre il portafogli. Edwin colse l'occasione e sfrecciò. Fendette facilmente una lasca compagine di giovani tardigradi prossimi all'ingresso in un Ristorante Italiano. I quali poi fecero indignati barriera allorché Bob tentò a sua volta di penetrarli. Edwin oltrepassò di corsa il DISCOBAR, poi un negozio proclamizzante RAGAJEANS, e voltò l'angolo immettendosi in una traversa in pendenza provvista di pub. Si fermò un taxi e il passeggero aprì la portiera. «Sali, svelto» disse Les. «Avanti, muoviti, sono già in ritardo. Hanno alzato il sipario, miseriaccia.» Edwin ottemperò ansimando grato. 

«Meno lo vedi quel porcaccione meglio è» disse Les. «Lo so io quel che cerca. 

Dove vuoi che ti lasci?» 

«Portami con te,» disse Edwin «per l'amor di Dio.» 

«Non ti sei sentito troppo bene, vero?» disse Les. «Poco fa sei svenuto, ricordi? Avevi fatto il pieno, ecco il problema. Non dovresti bere a quel modo appena uscito 

d'ospedale. Pensi di poterlo fare un lavoretto o ancora non ti senti?» 

«Quando? Stasera? Un lavoretto come?» 

«Una scena di massa. Alla fine del terzo atto. Quando linciano quel povero coglione. E mentre lo linciano non la smette di cantare. Guarda,» disse Les gettando un'occhiata dal lunotto «quella è la sua macchina. Certo che non molla, gli si deve riconoscere. Quando vuole una cosa si dà da fare. Anche se non t'acchiappa almeno potrà dire d'avercela messa tutta.» Edwin pure guardò, ma non vide che fari. «È lui di sicuro» ribadì Les. «Riconosco la targa. Allora,» diede istruzioni a Edwin «quando arriviamo buttati dentro. Se dici che vieni dall'università passi senza problemi. Le comparse le pigliano là. Io intanto trattengo quel balordo. Bob Courage, si chiama. Sì, proprio Courage. Da far ridere i polli. Ha il nome d'una birra, anche se di quelle buone.» Si frugò in tasca e ne estrasse una manciata di spiccioli per pagare la corsa. «L'ho presi nella scatola di cartone sotto il banco» disse. «Mentre gli altri seguivano il tuo cadavere al piano superiore. Solo in prestito, s'intende. Li rendo domani o posdomani.» 

Il taxi s'era fermato in mezzo a odori che Edwin intuì essere di crisantemi e torsoli di cavolo ma che il suo naso giurava esalassero da mentine. Il taxi attese vibrando mentre Les contava con comodo le monetine in mano. L'auto inseguitrice sembrava essere stata distanziata, probabilmente grazie ai semafori. «Coraggio, entra» disse Les. Edwin entrò, rese note provenienza e missione, fu da un pollice indifferente indirizzato innanzi verso scale che dovevano evidentemente condurre nel sottosuolo. Nella sua vita gli scantinati giocavano un ruolo importante. Edwin si guardò attorno, osservando a bocca aperta i grandiosi apparati del teatro lirico. C'erano uomini che camminavano in alto sulle passerelle, quasi volando. C'erano ruote che venivano ruotate e coorti d'interruttori che venivano azionati. In lontananza un'orchestra suonava a tutto spiano e un tenore strillava ancor più forte. Dietro le quinte un coro attendeva di cantare, mentre il maestro sbirciava ansioso lo spartito, e un uomo lui pure in attesa sedeva all'organo. «Laggiù» disse qualcuno perentorio a Edwin indicando, e Edwin percorse quel che gli parve un chilometro, oltrepassando gigantesche pareti di fondali, sino alle scale degli scantinati. 

Nelle viscere della terra trovò una grande cripta gelida piena di gente e ceste di materiale scenico. La gente era giovane e dall'aria arrogante; evidentemente studenti. «Sei in ritardo» disse a Edwin un uomo snello. «Su, avanti, togliti tutto.» 

«Tutto?» Edwin volse in giro lo sguardo preoccupato, ma donne non ne vide. Forse le avevano imbrancate in un'altra cripta. 

«Tutto. Berrettino di lana compreso.» E pinzando delicatamente fra pollice e indice fu l'uomo stesso a sollevare il berretto, per poi indietreggiare alla vista del cranio pelato di Edwin. «Ma è assolutamente fantastica» disse. «Non c'era bisogno, a dire il vero, di prendersi tanto disturbo, ma già che c'è tornerà comoda eccome. A te ti mettiamo dritto filato in prima fila, ci puoi scommettere. Il problema» disse, gettando agli studenti una sprezzante occhiata panoramica «è che tutta questa gente ha troppi capelli. Il che appare innaturale in una folla.» Gli studenti principiarono, con tipica malcreanza studentesca, a ridacchiare della calvizie di Edwin, ma l'uomo snello li rimbrottò come fossero scolaretti e lui il maestro. «Non c'è proprio niente da ridere» disse. «Voialtri avete tutti quanti un aspetto di gran lunga troppo giovane. Un branco di sciocchi giovincelli sbarbatelli che vorrebbero far credere d'essere una plebaglia.» Gli studenti misero il broncio. Erano tutti abbigliati, Edwin ebbe ora agio di notare, in un ampio assortimento d'indumenti vittoriani. Taluni esibivano basette finte la cui efficacia adesiva di tanto in tanto verificavano con precauzione; certuni ostentavano barboni alla Karl Marx; qualcuno sfoggiava persino una catena da orologio sul panciotto. Indossavano tutti il cappello. 

«Non vedo il problema dei capelli» osservò Edwin. «Cioè, sia come sia portano tutti quanti un copricapo, no?» 

«Certo che sì» replicò seccato l'uomo snello. «Però proprio alla fine devono tutti scappellarsi, no? Quando giunge la notizia della morte. Tu invece» disse, nel mentre abilmente agghindava Edwin «starai scappellato tutto il tempo. Questa testa è troppo bella per occultarla sotto un cappello.» Edwin non ebbe il coraggio di domandare come s'intitolasse l'opera né di che cosa trattasse. La musica gli era parsa contemporanea e vagamente britannica… temi elgariani  in aperta sfida con vistose dissonanze. L'avrebbe chiesto a uno studente. Ben presto si trovò fornito d'un blusone da vecchio campagnolo, una pipa di coccio, un bastone da pastore e un paio di pesanti stivali che gli calzavano male. Lo preoccupava il fatto che il suo berretto di lana fosse stato gettato chissà dove. Non foss'altro perché quel berretto apparteneva non a lui ma all'ospedale. Lo impiastricciarono di cerone e di matita per gli occhi e gli diedero da appiccicarsi due basette bianche. Così conciato sembrava più anziano: in mezzo a una folla, effetto garantito. 

Edwin domandò lumi sullo spettacolo a uno studente indiano. Anche costui si era vista assegnare la parte di umile lavoratore agricolo, e a Edwin non sfuggì che lo considerava frutto di un pregiudizio razziale. «S'intitola» disse lo studente con una certa ripugnanza «Presbury Newton, e l'autore è un musicista inglese di nome Emery Turnbull… A meno che» soggiunse dopo una breve esitazione «non sia il contrario. Potrebb'essere Emery Tumbull o magari Turnbull Emery di un autore di nome Newton Presbury.» Nuova fugace esitazione dovuta alla prospettiva di ulteriori eventuali permutazioni, quindi proseguì: «Sia come sia non ha la minima importanza. Non è mica un granché. È un episodio inventato di storia americana in cui il governatore di uno Stato s'innamora della moglie di un altro. L'altro è geloso e inviperito e spara al governatore mentre il governatore viaggia in treno per andare a fare un discorso da qualche parte. Il governatore è dato per spacciato e la folla, cioè noi, tira fuori di prigione il suo assassino conclamato e lo lincia a suon di musica. Poi il governatore muore, però s'inaugura una nuova ferrovia e viene concluso un trattato di pace sempiterna con certi pellerossa. I pellerossa festeggiano improvvisando una specie di balletto. Du' palle così.» 

«Sta di certo» disse Edwin «che in America i contadini mica si vestono a questo modo. Ossia, contadini veri e propri in America non ce n'è mai stati, no?» Brandì il bastone e si domandò se in America ci fossero mai state pecore. 

«Come no? I negri» ringhiò l'indiano. «Solo che non erano contadini ma schiavi. E la superficialità con cui l'intero argomento è affrontato salta all'occhio anche per via di questi costumi che ci tocca indossare… abiti che in America non si sono visti mai e poi mai. Saranno superficialità e futilità» disse in tono più rassegnato «a decretar la morte dell'arte occidentale, se arte si può definire. Dopodiché forse gli artisti apprenderanno la dolcezza e la forza della monodia indiana in campo musicale, nonché della stilizzazione che nelle arti figurative evita la volgarità dell'eccessivo naturalismo e gli errori che ne derivano. Come questo» concluse, e indicò il proprio blusone villereccio, sollevando sprezzante la bruna testa ariana. 

Edwin volse attorno lo sguardo sugli indumenti momentaneamente dismessi da parte del popolino patibolista, ammontante a una cinquantina di elementi. Si leccò le labbra alla vista di tutte quelle camicie e calze e cravatte. C'erano persino un paio di cappelli flosci. Si abbandonò deliziato al pensiero di quanto denaro doveva celarsi nelle tasche di quei calzoni, banconote e monete d'argento frutto di pingui borse di studio. Sgomento, si scoprì non più stomacato al pensiero del furto. Poi gli vennero in mente le parrucche. Il teatro doveva esserne pieno. Bramoso com'era di riacquistare quanto meno un'apparenza di normalità, gli venne l'acquolina in bocca. 

«Adesso» disse l'uomo snello sollevando un lungo indice «mi assenterò per un poco. Desidero che nessuno di voi lasci la stanza per andarsi a ubriacare e magari vagolare in palcoscenico nel bel mezzo di qualche duetto d'amore. Esigo che restiate qui e rimaniate sobri. Consentite le carte e altri passatempi tranquilli come la lettura. Ma niente chiasso e niente ragazzate. Mi sono spiegato?» Tolse il disturbo. Due minuti dopo anche Edwin se la svignò, in silenzio, con scarpe e vestiti in un fagottino sottobraccio. Il berretto ospedaliero era scomparso. Non importa. Parrucca in arrivo. Nessuno lo vide andar via, essendosi in molti messi a giocare a una specie di rugby con qualcosa che avevano trovato nella cesta della Salomè. 

Edwin girovagò senza dar nell'occhio a livello del palcoscenico, ma di Les nessuna traccia. Era in corso un laborioso cambio di scena, l'orchestra suonava un sorta di scherzo ferroviario, e svariati eminenti americani vittoriani - tutta gente, immaginò Edwin, con un ben definito ruolo vocale uscivano dai camerini per attendere fra le quinte. «Che opera obbrobriosa» dichiarò con accento gallese uno dei protagonisti maschili. Si trattava senza dubbio di uno spettacolo assai lungo, stando al primo atto. Poggiandosi pesantemente al suo bastone, Edwin si diresse vacillante come un vecchio ai camerini. Gran parte delle porte erano aperte e le stanze tutte vuote, tranne una in cui un tenore si aerosolizzava l'ugola per poi cacciare abominevoli trilli. Un altro vano pareva albergare un ectoplasmico spettro di fumo di sigaro. Edwin vi entrò pian pianino e, con gran gioia, rinvenne sopra un termosifone un'ottima camicia bianca e un paio di calzini di nylon. Sulla toeletta, nel bagliore prepotente di orrende lampadine, giaceva un mucchietto di foto firmate. Edwin non riuscì a decifrare la firma, ma provò un'immediata avversione per quella faccia grassoccia dal sogghigno ammiccante, grondante autocompiacimento, e cercò qualcos'altro da sgraffignare. Il denaro gli sembrava in qualche modo volgare, sfacciato, quindi scelse un anello da un porta anelli e l'infilò nella tasca della blusa. Uscendo dal camerino si fermò indeciso. Poi si udì il rumore fortissimo di uno sciacquone, si aprì la porta di un gabinetto, e una donna dal petto opulento, forse l'eroina a giudicare da tanta abbondanza, uscì dondolando addobbata d'una veste fluente. Edwin s'inchinò profondamente e prese possesso del gabinetto. Spogliatosi, indossò gli indumenti sottratti. La camicia gli stava un po' grande di colletto, e Edwin vide per un istante nello specchio un'antica celebrità letteraria… testa d'Eschilo e collo di tartaruga, probabilmente O.M. Comunque l'effetto non era tanto male. Lasciò il blusone sul vaso igienico, aprì la porta e fece capolino. Via libera. 

Mentre si allontanava adagio da quell'empireo gli avvenne d'imbattersi, trasalendo sbigottito, in una donna in là con gli anni e di aspetto formidabile, in abito nero da castellana e ciabatte scalcagnate. «Ohibò,» sospettò quella biascicando torno torno «cosa desidera vossignoria?» 

«Una parrucca» rispose Edwin con sincerità. 

«Oh, una parrucca» disse la donna ammansita. «Che misura e che colore, se è lecito?» 

«Di cappello porto la settima, credo» disse Edwin. «Quanto al colore, quel che più le aggrada.» 

«Non è questione di gusti, né i tuoi né i miei,» ribatté la vecchia «ma solo di lasciar scegliere a chi se ne intende. Di parrucche ne sai poco, non ci piove. Farai meglio a venire con me.» Edwin la seguì fino a un magazzino olezzante di fiammiferi, il che voleva dire, interpretò, capelli umani. «Che razza di testa sgraziata che hai» deplorò la vecchia continuando a biascicare giro giro. Glieli fece provare in stile Adone taglia piena, a guisa di ricciolini carolingi, irti e ribelli alla Jerry Cruncher. «Che ne dici di questa?» disse infine. Gli andava bene, rossicci boccoli baironiani. Edwin si rimirò in un antico raffinato specchio azzurro. Il piccolo poeta spiccicato. «Grazie» disse. «Grazie mille davvero.» 

Ora aveva una gran fretta di squagliarsela, ma la vecchia era in vena di chiacchiere. «Mica le fanno più le melodie di una volta,» disse biascicando «così dolci e orecchiabili. Al giorno d'oggi è tutto un gran frastuono.» A conferma dell'affermazione l'orchestra s'inalberò improvvisamente in un interminabile accordo di dodici note, tutte diverse, a gran volume. «Non dimenticar le mie parole,» disse la vecchia «lo sfacelo l'han portato quei tedeschi… Andel e Waggoner e compagnia bella. Prima c'era tante di quelle belle dolci arie, che quelle d'adesso non gli arsomigliano neanche lontanamente.» 

Edwin si scusò e telò. D'un tratto si trovò impaniato in una cricca d'alquanto grassottelli pellerossa ridacchianti, in attesa di fare la loro corale comparsa in scena. Brandirono asce di guerra all'indirizzo d'Edwin e uno disse, in tono ricercato: «Gradirebbe uno scotennamento in piena regola, signore?» Edwin rimase sgomento. Si trattava evidentemente del personale medico dell'ospedale sotto mentite spoglie. C'era Railton di sicuro, e quel pluripennuto capo indiano era Begbie, tutta gente che di scotennamenti se ne intendeva. «Augh» fece il gran capo a mo' di saluto, e pur avvedendosi che in fondo non si trattava di Begbie, Edwin se la diede a gambe. 

Parcheggiata fuori in strada un'auto familiare a Edwin, con un filoncino dorato luccicante sotto il lampione. C'era anche Bob. «Lo sapevo che prima o poi saresti uscito» disse. «Bando agli indugi, il salmone affumicato ci aspetta. E mica lui solo, s'intende. Sapessi che graziose cosettine ho da mostrarti» disse, agguantando Edwin per l'avambraccio. «Credevi mica di farmi ghiozzo» disse «aggeggiandoti quell'affare in chiorba. Gli occhi te li riconosco anche a occhi chiusi. Occhi da pervertito, sono. Perché lo sai che siamo? Siamo due pervertiti, siamo.» 

18 

Inerme come un pulcino, Edwin si lasciò condurre all'auto. Ma si sentiva protetto da una lorica di camicia e calzini, da un cimiero di riccioli, da un talismano in foggia d'anello. Purtuttavia l'anello, rammemorò d'un tratto, era rimasto in tasca al camicione abbandonato, in uno al pastoral bastone, in quel cesso. Al volante, Bob disse: 

«Il salmone affumicato andrebbe mangiato col pane nero e condito col pepe rosso, a dire il vero. Certo, potrei fare un salto via facendo a procurarmeli, immagino, però non mi fido di te, sai com'è. Potresti saltar fuori e riandarti a infognare chissadove. Non che me la sia legata al dito, ma non voglio che succeda.» Parlava da uomo il cui tempo è prezioso. «Quindi niente pane nero e nemmeno pepe rosso col salmone affumicato. Spero non ti rincresca.» 

«Potremmo» disse Edwin speranzoso «entrare insieme in un negozio, no? In quel modo mica avrei modo di svignarmela, vero?» O invece sì? pensò. 

«Oh, invece sì» disse Bob. Scosse il capo, afflitto, stanco del mondo. «E anche ai semafori. Ecco perché, come vedi, sto seguendo strade secondarie. Comunque quel che importa è che il mio appartamento non dista tanto, proprio no. Saremo a casa in men che non si dica.» Parlava in tono rassicurante, come se stesse liberando Edwin dal flagello raccapricciante della libertà. Mentre l'auto trangugiava l'asfalto, Edwin cercò la libertà per via: vetrine prodighe di pianoforti e candelabri; uno sgrammaticato manifesto lattivendolo; adolescenti bacati di noia sbracati entro un antro al cospetto di plastitazze caffearie; i ciechi butirrosi occhi squadrati d'una rivendita di televisori; gente. «Ormai manca poco» ribadì Bob come a lenire una legittima impazienza. «Proprio qua dietro, lì oltre, costà, e poi eccoci, vedi?» Edwin vide: un caseggiato d'appartamenti risalente all'anteguerra, quando gli appartamenti comportavano una sorta di teutonico vigore, che ora, nel buio, aveva l'aspetto squallido d'un grande ospizio. «Abito proprio al culmine» disse Bob. «Lassù si sta meglio, davvero. Alla larga da tutti. Una volta c'erano gli ascensori, pare. Però adesso non ci sono più. Buffo che un ascensore possa sparire così, no? Tocca salire a piedi fino in vetta.» Bob fermò l'auto sotto un'altissima struttura di scalini di ferro con ferree ringhiere, ciascun pianerottolo della quale era fievolmente illuminato da una lampadina dondolante. Una lunga arrampicata, pensò Edwin, e strada facendo poteva succedere di tutto… un agile salto sopra la prima balaustra; un frenetico bussare alla porta di qualcuno al grido di «Polizia! Polizia!»; Bob sgambettato e spedito a schiantarsi dabbasso assieme ai suoi salmoni; Bob con la testa fracassata proprio tramite la sua bottiglia di vino, destramente sottratta alla scatola. Ma era destino che così non fosse. 

Non avevano fatto neanche in tempo a scendere di macchina che «Sali prima tu» disse Bob, trafiggendo guardingo Edwin coi suoi occhi esaltati mentre tendeva le lunghe braccia a prendere la scatola sul sedile posteriore. «Ti starò alle calcagna quindi niente più scherzetti, intesi? Sappi» disse Bob «che ho un coltello nella manica, e stavolta l'userò. Oltretutto so usarlo, amico caro, sia d'infilzo sia di scaglio. Stavolta starò sull'avviso, perciò basta stronzatine. La corda l'hai tirata già abbastanza, come ben sai.» 

Al quarto pianerottolo Edwin implorò un minuto di tregua. Disospedalizzato or ora, senza fiato, giù di forma. L'implacabile Bob lo schidionò a salire con la crostosa punta del filone. Al sesto e ultimo pianerottolo Bob disse: «Eccoci qua. Te l'avevo detto che mica ci voleva tanto.» Aggrappato alla ringhiera, lo sguardo affisato precipite ai lampioni lontani, Edwin tracannò parecchie polmonate d'aria rarefatta. «Vedi questa porta?» disse Bob. «L'ho fatta installar io appositamente. Nessuno può sfondarla, poco ma sicuro. Viene da una casa di lusso bombardata, eh sì. A Belgravia .» Edwin vide ansimante sotto la lampadina oscillante un massiccio tavolone di rovere col batacchio in foggia d'annerita ringhiarne testa leonina. Bob inserì un'immensa chiave di ferro. Stridor di serratura, quindi la porta intera cigolò un preludio a una signorile residenza. «Prima tu» disse Bob. Buio e l'odore di un'abitazione estranea, poi si accese la luce a disvelare lo squallore del minuscolo vestibolo di Bob. «Sei sterlicchie al mese» disse Bob «il che non è malaccio, tutto sommato.» Avanzarono fra due file di bottiglie vuote di whisky e di gin, un piccolo luccicante picchetto d'onore. Poi Bob precipitò nel regno della luce, il soggiorno. Bottiglie di birra e bicchieri appiccicaticci e schiumosi, sullo sfondo un divano vittoriano coperto di polvere, un giradischi. Bob pestò l'interruttore del caminetto elettrico: tizzoni finti e un ventilatore nascosto a simulare il movimento delle fiamme. «Adesso» disse Bob, con la scatola delle cibarie ancora sotto il braccio sinistro «non cercare di sgraffignarmi questa chiave.» L'agitò sotto il naso a Edwin. «Ti tratterrai un pochino qui, ecco che farai, e non voglio che tenti di svicolare. Dai un'occhiata in giro o mettiti a sedere o arrangiati altrimenti mentr'io preparo qualcosa da metter sotto i denti.» Lasciando la chiave sulla credenza scheggiata e ammaccata, mobile maltrattato che suscitò in Edwin uno schietto empito di compassione, Bob abbandonò la stanza. Edwin raggiunse il vano d'ingresso al soggiorno e vide nel cucinino lurido Bob di schiena accingersi a preparare un pasto, Bob con ancora indosso il soprabito raglan, elegante in mezzo a lattine di sardine vuote, bottiglie di latte appannate e tozzi di pane raffermo. Un frigoriferino ronfava placido. Edwin sgattaiolò quatto quatto con la chiave alla volta della porta dell'appartamento. Non abbastanza quatto, però. Bob si voltò, coltello in pugno, e sopraggiunse truce. «Senti un po',» disse, esibendo la chiostra bassa «non voglio tonfarti perché, per quel che ne so, potrebbe anche piacerti. Non so cosa ti piace e cosa no, non ancora per lo meno. È quanto scopriremo. Ma tu di qui non te ne vai.» Strappò la chiave a Edwin e se la mise nella tasca della giacca. Poi mutando tono nel ricondurre 

Edwin in soggiorno lamentosamente domandò: «Qual è il problema? Non ti piaccio?» 

«Non è questione» rispose Edwin «di piacere o non piacere. Non so cosa m'hai portato qui a fare, ma se credi ch'io sia un degenerato ti sbagli di grosso. Sono assolutamente normale.» 

«Normale? Tu? Questa è buona. Tu sei un deviato, proprio come me. Te lo leggo negli occhi. Ogni tuo atto lo dimostra. E quando avremo mangiato un po' di questo salmone affumicato ci metteremo sotto di buzzo buono. Ti farò vedere un paio di cosette e vedremo cosa ne dici. Prima però mangiamo. Vieni in cucina con me, così posso tenerti d'occhio.» 

«È inutile, dammi retta» disse Edwin. «Non vedo proprio cosa potremmo avere in comune. Tanto vale che mi lasci andare. Stai solo perdendo tempo.» 

«Vedremo» ribatté Bob annuendo. Spinse Edwin nel cucinotto e prese dallo scolapiatti due imbrattati bicchieri da gin. «Guarda un po' che po' po' di champagne» disse. Edwin constatò trattarsi di un Veuve Clicquot del 1953. «Aprilo» disse Bob «e lo berremo intanto che trincio il salmone. E se mi colpisci col tappo non protesto mica.» Edwin cominciò a vederci più chiaro. Disse: «Sei un masochista, vero?» 

Bob fece una faccia sospettosa. «Un cosa?» 

«Un masochista. Ami farti far male fisicamente. Magari prediligi la flagellazione. È così?» 

A quanto pare il significato di questo secondo vocabolo Bob lo conosceva. «Le fruste» disse eccitato. «Le fruste, sì. Mi piacciono le fruste. Vieni a vedere le mie fruste. Adesso. Subito. Mangeremo dopo.» Fremente d'eccitazione, col respiro corto e concitato, trascinò Edwin verso una stanza dall'altra parte del corridoio. Annaspò sull'interruttore poi fatta luce spinse dentro il prigione. La stanza, eccezion fatta per un armadio e una falange di bottiglie vuote, era completamente vuota. Bob quasi alla cieca raggiunse tremante l'armadio, ne aprì lo sportello e disse: «Guardale. Mie, tutte mie sanguedigiuda, tutte quante dalla prima all'ultima, le mie fruste.» Poi prese le fruste dall'armadio e le scaraventò sul pavimento in calce a Edwin… sferze da bovaro, un gatto a nove code, un frustino equino, un lungo staffile da carovaniere mulattiere, uno scudiscio coll'impugnatura in madreperla, una fanciullesca funicella trottolesca, un flagello crudelmente nocchiuto, un nerbo di bue, una correggia chiodata: insomma, fruste. «Prendi quella che vuoi» intimò a Edwin. Non stava più nella pelle dalla frenesia. «Scegli quella che preferisci. Avanti. Avanti, sacripante. Voglio vedertene una in mano.» Edwin esitava. «Su, dai, forza.» Con ancora indosso il soprabito a raglan, Bob pativa le pene dell'inferno. 

«No» ricusò Edwin. 

«E invece sì. Devi farlo. Guarda.» Bob cominciò a sfilarsi smaniosamente gli indumenti. «Ora ti faccio vedere» disse, con voce soffocata dalla maglietta. «Ecco» disse, gettando via la suddetta. «Guarda qua. Cinquanta punti m'hanno dato sulla schiena. Cinquanta.» Aveva messo in mostra un ampio dorso raggrinzato e vescicato di sferzate. «Ma chissenefrega. Puoi picchiar sodo quanto ti pare. Me ne sbatto. Avanti, AVANTI!» gridò. 

«No» disse Edwin. E poi: «Se lo faccio mi lasci andare?» 

«Sì, sì, sì, sì, sì.» 

«Solo una volta, però. Una sola. E poi mi lasci andare?» 

«Tutto quel che ti pare. Avanti, fallo.» 

Edwin scelse una frusta dal corto manico robusto e lunga di sverzino. La fece schioccare in aria e poi sulla schiena di Bob. Una stizzita istantanea della sferzata comparve a solcare la torturata pelle corrugata. «Più forte, più forte» gemette Bob. Edwin si sentì risvegliar nei lombi il sollucchero del sadico. Che situazione incresciosa. In bestia con sé medesimo fece di nuovo schioccar lo staffile. Poi ancora. Poi scagliò via l'immondo oggetto, che trasvolata la stanza acciottolò sulle bottiglie finendo a corcarsi come un serpe morto. Bob giaceva bocconi al suolo, ansante, immoto. Era caduto sul mucchio dei suoi panni. Edwin disse: «Ora lasciami andare. Dammi la chiave.» «No» venne la voce dal pavimento. 

«Hai promesso. Lasciami andare.» 

«No. No. Rimani.» 

Edwin, il mite dottor Spindrift, calciò ferocemente Bob, cercando d'arrovesciarlo dalla giacca che celava la chiave. «Sì» disse Bob. «Rifammelo.» 

«Ti pesto a sangue» minacciò Edwin «se non mi dai quella fottuta chiave.» «Sì, sì, fallo.» 

Niente da fare. «Schifoso che non sei altro» disse Edwin. Bob ruppe in pianto. Disgustato di sé, Edwin raggiunse l'ingresso e provò ad aprire la porta esterna. Sprangata senz'ombra di dubbio. Penetrato in camera da letto la rinvenne lastricata di bottiglie, col letto disfatto e le lenzuola bisognose di cambio, e dappertutto laceri rotocalchi a forti tinte. La finestra si affacciava su sei piani di vuoto. Edwin se ne distolse e fu sorpreso di trovare s'una sedia una rivista esclusivamente consacrata alla fustigazione. Sfogliò affascinato le pagine patinate, un riquadro dopo l'altro d'entusiastiche pubblicità, selvagge immagini di fruste in azione, un dotto articolo sulle camere di tortura babilonesi, un loquace editoriale evocante l'amicizia per la pelle intercorrente fra i fraterni lettori. Mentre leggeva a bocc'aperta udì la testa leonina del picchiotto picchiare tre capate. Nel recarsi gemebondo in soprabito alla porta, Bob gettò strada facendo una placida occhiata a Edwin. «Tu resta qui» ordinò. «Faccende di lavoro.» Edwin trovò sulla toeletta un mazzo di fotoscene e le scartabello, sbalordito da quante intorcinate variazioni fossero possibili su un tema che, ai bei tempi quando era in salute, gli era parso tanto semplice. Sentì fare ingresso una voce scozzese: l'uomo di Gorbals, probabilmente. Prestò orecchio a una conversazione in soggiorno. 

«La fregna ha gn'irti molli pruriginando male, sbarca le grecce polpide sull'arraffoso retto.» 

«La torsoletta svien dalla bafagna in sul ciavon del pieno, e derra l'arparpia per mesto calle.» 

«Conciopiacasaché?» 

«Va sifflando per turpida selva il giuggiolon prestandosi ai cavilli. Il furibiondo pencola, ma la suzzacchera delle squinternote è pronchia a sbolognare.» 

«Titire tupa tulere cuba. Chiadatadà tadà. Chiadadà redarà.» 

«Gnempà sciatàn, nompà saràn, alàrm! Nel prezzo del carlín di nostramica li mestrizzi son tutti borogovi. Andra moienne pemusa politropo. Lugetò venerè scupi dinesque.» 

«Benedicite.» 

Bob tornò in camera da letto mentre Edwin era intento a esaminare da varie angolazioni una posizione multipla di estrema complessità. «Devo uscire» disse. «Vado in macchina e non chiedermi dove tanto non te lo dico. Questioni d'affari. Torno domani. Diciamo verso l'ora di pranzo. Tu resti qui.» 

«Neanche per idea.» 

«E invece sì. Starai benissimo. Di fame non morirai. Due salmoni affumicati a una sterlicchia cadagnuno. Ora vado a vestirmi.» Un tramestio di bottiglie scalcettate sottolineò il suo reingresso in camera di tortura. Sopravvenne in visita a Edwin l'uomo di Gorbals. Annuì, ammiccò con l'occhio superstite, e sguerciò Edwin con aria maliziosa. 

«Te» disse «dattore fillosserfia?» 

«Esatto» rispose Edwin. «Dottore in filosofia.» 

«Diivid Gnum» disse l'uomo di Gorbals. «Berrrrchelly. Immagnuel Kent.» Niente affatto sorprendente, in verità, udire da un tipo del genere un tal sciorinamento di nomi. I criminali francesi, Edwin lo sapeva, erano soliti, al momento di tagliar gole, citare Racine e Baudelaire; e i malviventi italiani conoscevano almeno Benedetto Croce. Soltanto gli inglesi non riuscivano a scorgere l'onnicomprensività dell'esperienza umana. «Metafrizzica» disse l'uomo di Gorbals, e avrebbe perseverato se non fosse tornato Bob annodandosi la cravatta. «Se vogliamo farcela» disse Bob «bisogna andare. Sei sicuro che ci sarà?» 

«Cribbio.» 

«Mi raccomando, fa' il bravo» disse Bob a Edwin. «Fatti una bella dormita. Guarda la tele in salotto. Mangiati un poco di salmone affumicato ma attento ai diti quando lo affetti.» 

«È una faccenda d'orologi, vero?» chiese Edwin. 

«Cavoli nostri, sono» rispose Bob. «Mica tuoi. A domani.» E annuendo se ne andarono. Sbatté la porta, cigolò la chiave. Poi Edwin fu lasciato a quella ch'era in fond'e in fine, da un sacco e una sporta di tempo, la sua prima serata di libertà.

19 

Con un bicchier da birra colmo di champagne e una fetta di salmone affumicato su un bel tocco di filone, Edwin sedette a guardare la televisione. La poltrona, l'unica, emise uno straziante clangor di molle rotte esalando una nube di polvere che lo fece starnutire. Accese l'apparecchio e pressoché all'istante si trovò immerso in una trattazione di medicina squisitamente tecnica al punto da indurlo a immaginarsi d'essere incappato, per un capriccio del caso, nel circuito chiuso d'una rete ospedaliera. All'oratore in camice bianco l'obesità conferiva un aspetto malsano, mentre gli occhiali abbarbagliati di luci lo facevano oltretutto sembrar cieco. «Il minimo odore identificabile» stava dicendo «o MOI, è determinato tramite l'apparato di Elsberg. I metodi di misurazione olfattiva hanno logica seppur limitata applicazione in neurologia clinica. Nel settantacinque per cento circa dei pazienti con tumori ai lobi frontali, o aree limitrofe, il MOI è immancabilmente alquanto elevato.» Sorrise a Edwin. «I metodi di Elsberg» disse «come pure quelli di Zwaardemaker, forniscono soltanto le soglie relative. Per quanto riguarda le soglie assolute…» Edwin pigiò una linguetta bianca sull'apparecchio e immediatamente un uomo col cappello sparò a un uomo senza cappello e disse a una donna rannicchiata: «Ora puoi star tranquilla. Non ti darà più fastidio.» Scortati da un tema musicale grandioso e suggestivo scorsero sullo schermo i nomi degli interpreti: 

Jack Fairfly………………………..A.E. Maudlin 

Brenda Pill…………………………Mary Critchlow 

Lo Speculatore……………………Bert Laidlow-Storm L'Ignobile Servo………………….Herbert Rector 

Poi sopraggiunsero festosamente i comunicati commerciali. «Spindrift» proclamò una gaia massaia boccalona «lava tutto, ma proprio tutto, in un battibaleno e con la massima efficacia.» 

«No, no, no» disse Edwin. «Non lo sopporto, non è giusto.» Ma un trio fuori campo gorgheggiò: 

«Spindrift, Spindrift senza esitar 

Non costa un tubo ma è di lusso 

Se ancor più niveo vuoi lavar 

Prendi Spindrift, prodigio indiscusso.» 

Il valzerino dozzinale accompagnava le turbinolenze d'una candida macchina squadrata squadernante il cognome di Edwin. «No» ripeté lui. «No, no.» E spense. Pur essendo quella l'abitazione d'un pataccaro matricolato, era priva di orologi, sicché il tempo strascicava fiaccamente per la stanza in pantofole. Edwin, molto più in fretta del tempo, principiò a guardarsi attorno. Bob possedeva un paio di libri piuttosto monotoni con cosce fasciate di nailon e schiamazzi e scollacciature in copertina. Edwin ne fece intenzionalmente a brandelli uno e disseminò i coriandoli di carta sul pavimento osservando con soddisfazione la spruzzaglia di parole scompagnate snevischiolare sul tappeto frusto. Le fruste di Bob gli avevano sferzato il sangue scatenando in lui una smania di violenza. Gli fu facile bistrattare il vecchio divano e la decrepita poltrona, squarciandoli e sparpagliandone l'imbottitura. Della credenza, già abbondantemente malconcia, Edwin ebbe misericordia. D'altro canto fracassò senza pietà lo schermo televisivo e cercò di danneggiare, quantunque con scarso successo, il frigorifero. Sventrando un cuscino in camera da letto fu sorpreso ma ben lieto di rinvenirvi fasci di banconote da cinque sterline, parecchie delle quali non esitò a cacciarsi in tasca. Spalancata la finestra, gettò fuori tutte le fruste di Bob tranne una. Ripromettendosi di usarla non come strumento di piacere bensì come arma a sorpresa al ritorno dell'inquilino. In faccia, pensò, sugli occhi, sulla bocca. Quindi si soffermò, sgomento oltremisura, a contemplare quella sua rapida degenerazione. Che diavolo gli stava succedendo? 

Parole, comprese, parole, parole, parole. Era vissuto troppo con le parole invece che con ciò che le parole significavano. La stessa cosa capitata a James Joyce, con la sua scelta deliberata d'una dulcinea da un dolcivendolo e il suo rifiuto di correggere un visitatore che aveva chiamato un quadro fotografia perché fotografia era una parola talmente deliziosa. Ma James Joyce per lo meno non aveva detto a un malvivente d'essersi fatto il bagno solo perché gli suonava tanto bene. Un mondo di parole, pensò Edwin, e lo disse ad alta voce godendosene il suono. «Un turbinante mondo di parole .» Ma qualità sonora, etimologia e definizione lessicale a parte, conosceva egli davvero il significato d'ogni parola? Prendiamo per esempio la parola love, amore. Interessante, quella collocazione di suoni: il nitido allofono dello scisso fonema sonoro scivolava verso la più recente di tutte le vocali inglesi, una vocale che Shakespeare, per esempio, non conosceva, approdando al morso delicato della labiodentale sonora. E quanto all'origine? Edwin vide il vocabolo ruzzolare addietro all'anglosassone e oltre, e le sue affini forme teutoniche capitombolare a ritroso anch'esse, talché tutte le forme andavano alla fin fine a fondersi nella preistorica matrice protogermanica. Affascinante. Ma c'era qualcosa in quella parola che avrebbe dovuto essere ancor più affascinante, per l'uomo se non per il filologo: il suo significato concreto quando utilizzata in un'espressione come «Edwin ama Sheila». Edwin però si rese conto di non trovarlo affatto affascinante. A lasciarlo libero nel mondo reale, dove le parole son tutt'uno con le cose, guarda un po' che ti combinava il dottor Spindrift: rubava, imprecava, mentiva, commetteva atti di violenza a danno di cose e persone. Non avere in realtà mai provato abbastanza interesse per le parole, ecco il suo guaio. 

E poi tutta quella faccenda dell'offendersi perché lo trattavano come una cosa. 

Sembrava proprio roba tipo il bue che dice cornuto all'asino, no? Egli aveva trattato le parole come cose, cose da analizzare e classificare, e non come parte della calda corrente della vita. Adesso certe incantevoli parole come «cerebrale» ed «encefalogramma» e «neurologico;» gli rendevano spietatamente pan per focaccia. E in questa licenziosa abitazione la flagellazione s'era attuata con una frusta vera, mica il romano flagellimi, diminutivo di flagrum, e osservate, signori, quant'è affascinante quest'interscambio fra elle ed erre. E che deliziosa allitterazione, arzigogolò, in quest'iterazione cui fa da mezzano lo sfizio vizioso d'un tizio zozzone. «Oh, zíttati» disse a voce alta. Un pervertito, inutile negarlo, ecco cos'era. La elle spagnola cede a erre in portoghese: bianco, branco. E glamour, fascinoso incanto, è in realtà, ah ah, «grammatica». Notevole. Oh, smettila. 

D'un tratto si sentì tremendamente stanco. Forse quei sonniferi stavano finalmente facendo effetto. Si affettò un'altra porzione di salmone affumicato e diede fondo alla bottiglia di champagne. Singhiossendo in preda a violenti stranguglioni (tosse e singhiozzi, ci manca che ti strozzi) si coricò vestito sul letto sfatto e sudicio di Bob. 

Senza nemmeno levarsi la parrucca. Quella almeno gli andava a pennello. 

20 

Subito prima di svegliarsi completamente ebbe contezza che si aspettava di pensare di ritrovarsi in ospedale, quindi quando si svegliò completamente sapeva esattamente dov'era e tutto quel ch'era successo la sera innanzi. Dedusse dal chiarore ch'era un'ora ragionevole per destarsi… l'ora di tastarsi le gote dopo la rasatura e di udire il secco crepitio dei fiocchi di granturco fioccanti dentro una scodella. Una rivista lì accanto giaceva aperta a un'immagine pornografica - una donna completamente vestita che faceva schioccare una frusta - e il globale squallore della stanza, peggiore alla luce del mattino, era mitigato soltanto dai contingenti di bottiglie vuote sul pavimento. Edwin alzò delicatamente dal letto l'emicrania e la bocca impastata di champagne e, avendo scovato nel cucinino un bricco impataccato (recipiente di rigore, rimuginò, nel covo d'un briccone pataccaro), nettatolo, pose sul fuoco l'acqua per il tè. Si recò quindi nel bagnetto buio ricco di sbocconcellature di sapone, prodigo di lamette rugginose, non privo d'un sozzo cinto irsuto nel contorno del lavabo. Il rasoio di Bob era un orripilante aggeggio spaventosamente intasato, ma se lo portò comunque alle guance sottoponendole controvoglia a una grossolana raschiata. Tornato in camera, guardò giù in strada e vide dei monellacci che nel recarsi a scuola si frustavano di santa ragione. Bob sarebbe stato contento: chissà mai quali giovani entusiasti flagellanti potevano rampollare da siffatta esperienza. 

Osservando quei bordellotti, a Edwin venne un'idea. Carta da lettere e strumenti scriventi l'appartamento non ne racchiudeva assolutamente, però c'era abbondanza di cartigienica e, nel cassetto della toeletta di Bob, un assortimento di rossetti. Edwin ne scelse uno il cui tubetto metallico recava stampigliato Orchidaceo. Nome grazioso, leggiadra parola. Orchide: testicolo. Criptorchide: fiore spuntato nel sotterraneo di una chiesa. Su tre foglietti di cartigienica Edwin vergò vermiglio e untuoso: PRIGIONIERO ULTIMO PIANO CHIEDO AIUTO. Ripiegò il messaggio entro una banconota da cinque sterline, andò in cucina e avvolse entrambi attorno a un tozzo di pane raffermissimo. Spago disponibile non ce n'era, ma egli avvinse l'involto con una cravatta di Bob e lo fiondò dalla finestra. Due garzoncelli interruppero la reciproca fustigazione per trottare in mezzo alla carreggiata a recuperarlo. Elettrizzati com'erano per aver messo le grinfie s'un biglietto da cinque, ignorarono la cartigienica e la lasciarono cadere. Sollevarono lo sguardo alla finestra, salutarono Edwin con gesti festosi e si allontanarono a passo di danza. Che mattinata: fruste e soldi. Edwin vide il messaggio involarsi nel vento attraverso la via, appiccicarsi un istante addosso a un lampione, poi ghermito da una raffica rapace fuggir piroettando onde andare nell'aere a roteare ramingo per l'orbe vorticante. Di parole un furibondo turbinio, mio Dio. 

Dopodiché giù in strada, di buonora all'opera, ecco arrancare, insapida farcitura carnea di un tramezzino, Ippo. L'agenzia per cui lavorava l'aveva evidentemente trasferito alla sezione mondana, giacché la fetta anteriore, Edwin riuscì aguzzando a decifrare, dichiarava: SPINDRIFT VUOL DIR PULITO. Coerentemente la trancia posteriore sosteneva: TUTTO PULITO CON SPINDRIFT. Che diavolo era questo Spindrift? Uno strumento puliziesco, non v'è dubbio, ma se macchina o detersivo permaneva ambiguo. Roba da mandar in brodo di giuggiole il dottor Railton. Proponete le vostre domande inoltrandole su cartolina postale. Lei cos'è mai, Spindrift, detersivo o macchina? Sgolandosi a pieni polmoni nella mattinata londinese, Edwin gridò: 

«Ippooooooooo!» 

Ippo si guardò attorno con piglio da 'quest'isola è piena di rumori . Se l'era soltanto immaginato, decise. Voci ancestrali nell'aura londinesca pregna di spiriti. Stentatamente proseguì. Edwin, dopo aver tossito, lanciò un secondo richiamo. 

«Ippoooooooooooooo!» 

Stavolta Ippo si fermò, abbracciò con un'occhiata panoramica l'intera rosa dei venti e poi, mutando dimensioni, scandagliò i cieli da tetto a zenit a tetto. Finalmente vide Edwin gesticolante e ricambiò cordialmente il saluto. Viveva in un mondo dal codice gestuale precipuamente fatico. Faticosamente riprese il cammino soddisfatto. 

Edwin sospirò e si recò a occuparsi del bricco, il quale aveva nel frattempo rarefatto molta dell'acqua propria in vapore. Preparò il tè e affettò del salmone affumicato e fece malinconicamente colazione. Era dunque questa la sorte riserbatagli… fare da fustigarzone a un membro della Ghenga delle Patacche? Non era certo ciò che i suoi genitori - il mite pastore defunto, studioso di greco; la madre orticoltrice e criptoteosofa - avevano avuto in mente per l'unico loro figlio. Dopo colazione, intanto che fumava una sigaretta di Bob, Edwin andò alla finestra del soggiorno e la spalancò. Con gioia incredula vide Charlie il lavavetri al lavoro tre piani sotto e due finestre a sinistra. Lo chiamò. 

«Buongiorno» salutò Charlie senza ironia. «Oggi qui domani là, eh? Ti sei pure tinto i capelli. Fatti tuoi, comunque, mica miei.» E aggrondato tornò a struffare con la sua squittente pelle di camoscio. 

«Senti» disse Edwin. «Ascolta attentamente. Lo so che può sembrar romantico e baironiano e roba del genere, ma sono prigioniero qui. Il mio carceriere se n'è andato dopo aver sbarrato la porta, e non posso assolutamente uscire. Tornerà in mattinata, ogni momento è buono, dopodiché probabilmente tenterà d'accopparmi. Potresti, per favore, aiutarmi?» 

Charlie ci ponzò un po', parve soppesare accigliato pro e contro. «In quell'appartamento» disse infine «ci abita Bob Courage. Un tipo strambo anzichenò. E ti cià inchiavato dentro. Questo è quanto.» Dopo ulteriore riflessione soggiunse: «Non si può fare. Questa scala non ci arriva lassù dove sei tu. Di solito si entra da dentro e si pulisce dai davanzali. Non che a quella gente interessi granché. Mucchio di furfanti sudicioni che non son altro.» E si rimise a stropicciare. 

«In tal caso» tenne duro Edwin «potresti dirlo a qualcuno, per favore? Ci sarà pur modo di tirarmi fuori di qui. Qualcuno potrebbe forzare la serratura, per esempio.» Charlie rifletté. «Ti ci vorrebbe uno scassinatore» replicò. «Non credo di conoscerne di disponibili al momento. Naturalmente si potrebbe sgangherarla, quella serratura. 

Probabilmente è il sistema migliore.» 

«Sì, d'accordo, ma chi può farlo?» 

«Chiunque in quei paraggi» rispose Charlie rimanendo nel vago. «Io quanto a me non ho tempo» disse. «C'è anche chi per sbarcare ha da lavorare» aggiunse indignato. «Mica tutti possono permettersi il lusso di farsi inchiavare ad aspettare che torni un depravato con una saccata di patacche. Lo conosco eccome il mio pollo, quel Bob Courage.» Riprese stizzito a sbruschinare. 

«Mica me lo fai gratis» si ostinò Edwin. «Soldi ne ho. Posso pagarti. Ti prego. Potrebb'essere questione di vita o di morte.» Ostentò verso Charlie un fascio di cartamoneta da cinque. 

«Non li voglio i tuoi soldi fottuti» ribatté Charlie. «Se non lo sai, te lo dico io dove puoi cacciarteli i tuoi denari. Quando faccio una cosa la faccio perché il tipo per cui la faccio è amico mio. Non lo so mica se sei mio amico oppure no, tu. Non me l'hai dimostrato né in un senso né nell'altro, no? Invece con tua moglie è diverso, non so se mi spiego. Ha bevuto insieme a me e ha giocato a freccette e quando è toccato a lei ha pagato di tasca sua. E son sicuro che si farebbe il sangue amaro se scoprisse che te la fai con simili debosciati. Vuol dire che andrò a cercare Harry Stone e Leo Stone e gli dirò cos'è successo, e fra tutt'e due dovrebbero riuscire a sistemare un pochino la faccenda. Ora aspetta che finisco questa lastra e poi vediamo cosa si può fare.» Indirizzato a Edwin un sorriso alquanto affettato si dedicò meticolosamente a completare il vetro principiato. Quantunque ormai persuaso d'essere l'unico individuo sano di mente in un mondo di matti, tale consapevolezza recava a Edwin magra consolazione. Gli galoppava il cuore al pensiero del rientro di Bob, onusto di patacche e scostumato e non troppo pago di ritrovarsi l'appartamento a soqquadro. Però tempo un quarto d'ora disse Charlie: «Guarda qua che meraviglia, sacripante, che bellezza e che splendore, ma credi forse che quelle canaglie l'apprezzino? Assolutamente no, caspiterina. Godono a campare nel lerciume e colla lolla e frammezzo ai cacarelli e chi più ne fa più n'emetta, ma sappi che io perseguo l'arte per l'arte. Un perfezionista, ecco quel che sono. Quella è gente fuor di capo, ecco quel che è, e tanto più di te, ma tant'è. Adesso stacco.» Attaccò a discendere la scala fischiettante, indugiando a mezza via per gridare a Edwin: «Sorvegliami l'attrezzeria mentre son via e non lasciarmela cianfrugliare da chicchessia. Vado, li ammasso e tomo.» Toccata terra si sgranchì come se fosse or ora resurretto da sotterra piuttosto che atterrato, quindi spiccò atleticamente la corsa voltando l'angolo. 

Il vento sbarullava fogli e foglie giù per strada, e parve a un certo punto a Edwin di notare la fugace ricomparsa del suo messaggio su cartigienica. Si fermò un'auto di fronte al casamento e a Edwin balzò violentemente il cuore in gola parendogli ravvisarvi un aspetto familiare. Ma l'uomo che ne discese claudicava e aveva l'aria innocua di un esattore d'affitti. Edwin si recò all'altro capo dell'appartamento e sbirciò fuori della finestra di camera. La via si crogiolava nella quiete feriale di una zona residenziale, a stento turbata da persone o veicoli. Edwin raccolse l'unica frusta superstite e girovagò per l'appartamento in preda all'ansia facendola schioccare e sibilare. 

Al termine di un incommensurabile lasso di tempo a Edwin sembrò di udire un'al-

tra automobile far sosta davanti al condominio. Fece ritorno alla finestra di camera e, con sollievo altrettanto incommensurabile, vide da un taxi riversarsi Charlie, un bastardo nero, e due uomini identici, uno però dei quali recante una borsa. Si sbracciò forsennatamente e seguitò a smanacciare mentre la squadra scalava il ferreo scalone del casermone e il taxi si allontanava. Divenuto che fu Edwin chiaramente visibile ai suoi, sperava, liberatori, Harry Stone gli gettò un'occhiata attenta e fece con voce chioccia: «Cesú Cristo Niputente. Gnè arcresciuti li capegli» aggiunse. «Cvardate là che razza de rupiconta zazzerona rizzioluta.» Leo Stone rincuorò il gemello illustrandogli con dovizia di ragionamenti l'impossibilità del verificarsi di siffatto fenomeno in sì modesto volgere di tempo, e Edwin ne produsse conferma sparruccandosi un momento. Harry Stone non parve del tutto tranquillizzato. «Gnarcresce la piluria» disse. «Toccherà tagne 'na pell'arpassata prima de tomansera.» Quando il drappello raggiunse la porta di casa Edwin si recò nel vestibolo e attese, qual colui che apparecchia in tavola non appena vede finire il pollo in pentola. Giacché la faccenda andò per le lunghe. Mentre il cane Negro annusava sotto la porta, Leo Stone pronunciò la parola «scassinatore» e Charlie disse: «Proprio come dicevo io, uno scassinatore.» Gli arnesi tintinnavano e specillavano, e la serratura prometteva sempre timidamente di capitolare e sempre, all'ultimo istante, recalcitrava. «Carognazza che 'nnè antro» disse Harry Stone. «Tosta 'mpestata che l'è.» 

«E se la togliessimo dai cardini?» propose Charlie. Trapelava dal buco della serratura il fiatone degli accovacciati gemelli Stone. «Ora mi sa che viene» pronosticò Leo Stone. «Incrociate le dita. Porcaputtana» imprecò, constatando la pertinacia dell'impertinente barriera. «Una forcina?» suggerì Charlie. «Se non s'apre stavolta non s'apre più» replicò Leo Stone. Seguì lancinante un metallico sferraglio, il rotto del serraglio. «Ce semo» disse Harry Stone. Gemiti strozzati provennero dall'effrattore quindi un asmatico crescendo culminò nella repentina entroteazione dell'uscio, in simultanei aaaaah di sollievo, nell'affisarsi su Edwin di una testa canina, una testa leonina, tre teste ominine. «Eccote libero, porca putella» esultò Harry Stone. 

«Ora che avete aperto» disse Charlie «tanto vale che gli dia una pulitina alle finestre. Dal lezzo che c'è qui promette male» disse entrando. I gemelli Stone non rimasero impressionati dalla devastazione perpetrata da Edwin in soggiorno. «Come 'n cane» disse Harry Stone. «Come qver che compinò 'l nostro Negro qvela vorta che lo lassammo solo.» 

«Vorrà fartela pagare» disse Leo Stone. «Ti toccherà nasconderti fino a domani sera.» 

«Mia moglie,» disse Edwin «avete visto per caso mia moglie?» Teste dagli occhi castani fecero mestamente di no. 

«Ve lo dico io che si può fare» disse Leo Stone. «Tanto se l'è voluta e ben gli sta. Chi è quel tizio nel giro della protezione, ma sì, coso, Mantovani o Schiaparelli o come cavolo si chiama?» 

«Perroni?» 

«Proprio lui» disse Leo Stone, effervescente d'esaltazione creativa. «Lasciamogli un messaggio di Perroni. Gli farà raggricciolare le budella. Si può avere qualcosa per scrivere?» 

Mentre Charlie infliggeva alle finestre uno spietato brusca e striglia, Leo Stone rossetto cubitale sulla tinteggiatura panna del soggiorno DOVE PASSA LA BANDA DI PERRONI ATTENTI A VOI COGLIONI. Ci vollero tre tubetti interi: Rosa Corallo; Rosa Mattutina; Foresta in Fiamme. «Ma» paventò Edwin «non è che questo provocherà guai? Insomma, non è che la Ghenga delle Patacche verrà alle mani con la banda di Perroni?» 

«Cvai?» strillò Harry Stone. «Ale mani?» Spintonò Edwin con la spalla destra. «Ma te pare che que' bischeri vano ataccà brica co' loro? Li racazzi de Perroni so' 'n sacco mejo de' pataccari, ma parecchio, gnanca se pono confrontà. Cvai, eh? Bela qvesta!» 

«Adesso le finestre sono immacolate» disse Charlie. «Mi pagherà alla prima occasione. Certo che vive proprio come un maiale.» 

«Comunque,» disse Leo Stone a Edwin «oggi faresti meglio a rimanertene chiotto. Da noi non puoi nasconderti perché c'è solo un par di letti e di giorno ci stanno le due figlie di Renate, quindi credo sarebbe meglio se ti rintani da Les. Secondo me, ti ci troverai benissimo. Verdura fresca a palate, hai voglia a rosicare.» 

Charlie riguadagnò la sua scala mentre Edwin e i gemelli Stone abbordavano un taxi dietro l'angolo. Il cane, alla maniera dei cani, salì per primo e s'accomodò in mezzo al sedile, slinguandosi le ganasce dopo un pasto ittico costato almeno una sterlicchia. Raggiunta una strada sudicia non lungi dall'Anchor si fermarono dirimpetto a una decrepita villetta a schiera: scarabocchi a gesso sgorbiavano i muri, tela da setaccio pendeva a guisa di tendaggi, mocciosi forcaioli si scambiavano berci trastullandosi con frantumi di mattone. «Les nun tef'esse rientrato ancora» disse Harry Stone. «Ma le' scommetto che ce sta. Torna a dormì a l'orario normale d'apertura, Les, e prima che fa ciorno sa' quanti gne tocca fanne de latti alo scotch.» Edwin cercò di pagare il tassista con un biglietto da cinque sterline. «Tenga il resto» disse. 

Il conducente era un tipo faceto e abbondantemente maturo che doveva averne viste di cotte e di crude. Ridacchiò e disse: «Non dovevi provarci con me, amico, perché capirai, ci vuol poco a mettermi in sospetto. In un negozio avresti anche potuto farla franca, magari per il rotto della cuffia. Guarda un po' qui questo biglietto» invitò cordialmente. Pareva il signor Begbie sbandierante un tumore cerebrale della più bell'acqua. «Non è nemmeno fatto come Dio comanda» deplorò l'autista. «Guarda gli occhi di questa puttanella coll'elmo in capo su quella che dovrebb'essere Rule Britannia o quel che cavolo è. Sono strabici, vedi? E questa specie d'anello che traversa il muso del leone ? Non va bene per niente, ti pare? Ne ho visti ai miei tempi di lavori ben fatti, che ci cascava il colto e l'inclita. E invece guarda ora qui che roba. Anche un orbo se n'avvede» disse. «Nessuno al giorno d'oggi sembra più capace di far nulla come si deve. Tutta colpa della guerra» si dolse «come per un mucchio d'altre cose. 

Terribile flagello per l'umanità, quella guerra là.»

21 

Carmen fu estasiata di concedere asilo a Edwin. «Oh cribio» disse «sì, lu parla corno bravomo. Caballero lu parla corno. Tuto solo soleto puareto ma lu dorme nel mezo del leto.» Dall'ultima volta che Edwin l'aveva vista le carie dentarie davano mostra d'aver fatto progressi (carie galoppanti, per caso?) ed ella gli rivolse un gran sorriso non dissimile da un'illustrazione di un manuale d'odontoiatria. Indossava ancora il maglione azzurro, i cui interstizi si dilatavano sul petto a pertugi veri e propri, ma la gonna sciorinante nomi di piatti esotici s'era vista sostituire da una sottana istoriata d'una composizione più sobria: famose cattedrali europee. Gli tornò in mente chissà perché un canto tradizionale spagnolo udito una volta sul Terzo Programma «Lascia ch'io metta lo diavoletto mio nel tuo ninferno» - e sventatamente accennò tale istanza ad alta voce. «Birichino» lo sbirbonò Carmen in sollucchero, e dondolò un istante il corpo greve inducendo le cattedrali a dimenarsi sconciamente. 

«Alora te lo lassiamo» disse Harry Stone con aria mesta. «E fata come fata nun lassiallo ussí. Pe' lu' è piricoloso, capito? Pisogna mantenello 'ntatto fino a tomansera, la cocuzza spezialmente.» 

«Si può sapere che cos'è questa questione di domani sera?» indagò Edwin. «Continua a non essermi per nulla chiaro.» 

«Te l'ho titto» ringhiò Harry Stone. «Nu coccorso pe' cape calfe pe' feté qvalè la più ssiccosa. C'è 'na specie de tilettanti ala ripalta che c'è de mezzo pure Leo, e ala fine fano 'sta corpellata dele crape 'gnude orcanizzata da' risponsapili d'un nofo filme tofe '1 protaconista lo fa uno de 'sti lazzaroni calfi. Lo mannano pure ala tele.» «E il primo premio com'è?» domandò Edwin. 

«'Na pazza!» strillò Harry Stone. «Cento sterlicchie e 'mprofino. Penzampò che fordí pun pizzente prufessó porincanna come te. Ma l'hai visti 'sti tifi? Scvazzano ne' sordi e scurazzano a pichellone 'nzerte machinone e tute qvele strunze scarmanate tognetà che gne fano 'rtiafolo a qvattro pe' putilli palpazzà. Te piacerebb'esse ne' panni loro, eh?» giudaicamente subornò Edwin, tambussandolo alla gagliarda. «E ce sarai,» soggiunse «si patì pene a nun sterenatte 'testa testa fra ora e tomansera.» 

«Io quindi non becco il becco d'un quattrino?» tirò le somme Edwin. «Ottengo insomma soltanto il provino?» 

Vociarono all'orientale i gemelli come un sol uomo, sbracciandosi a più non posso, disposti, se soprammobili vi fossero stati, ad abbattere al suolo soprammobili. Che cos'era mai il vil danaro, argomentarono, a paragone della prospettiva di divenire internazionalmente noto come un grande mito del grande schermo? Le cento sterlicchie erano nulla, essi avevano in tutta convinzione presunto che un uomo del suo calibro intellettuale avrebbe disdegnato un volgare fascio di sudice banconote, mentre ben diverso era per loro modesti giudietti senza un briciolo di talento in due, e comunque di chi era stata l'idea, alla fin fine? Scazzottarono e sballottarono Edwin per persuaderlo di che servigio egregio in effetti gli rendevano, il tempo, lo scazzo, la briga, mentre lui diciamola tutta non è che poi gli desse una gran mano lasciandosi rimorchiar dai pataccari e facendosi dar la caccia dagli sbirri per mezza Londra. Mancava di senso di responsabilità, ecco il suo guaio. 

«Ma» obiettò Edwin «trattandosi d'un premio tanto ambito non vedo proprio quali probabilità di successo possa mai aver io. Ci saranno milioni di persone pronte a raparsi per un centone e un provino. Non ho alcuna possibilità, parliamoci chiaro.» 

Questa era bella, bella davvero. Riteneva egli seriamente in tutta onestà che cose siffatte non si potessero manipolare? Sempliciotto era egli a tal segno da immaginare che gare del genere non si potessero truccare? Lo si rendesse pertanto per sua norma e regola edotto che l'organizzatore del concorso aveva in passato a buon diritto trascorso un certo periodo nelle patrie galere e che loro, i gemelli Stone, ne erano a conoscenza, e che sussistevano altresì talune questioni legate a cernine trascorse importazioni illegali - no, niente patacche, macché patacche, tutt'altro, non diciamo corbellerie - che ove rese di dominio pubblico avrebbero tuttora potuto recare nocumento incalcolabile a soggetti sulla cui identità si rendeva opportuno tacere. E i giudici? Altro aspetto tale pur esso da suscitare ilarità. Per contratti s'una certa rete televisiva sarebbero tornate di grand'ausilio certe sgallettate sostanzialmente prive certo di talento ma equipaggiate bensì d'una certa quale avvenenza. Che non li facesse ridere, dunque. Ma Edwin non rimase del tutto convinto. 

Partiti che furono i gemelli altivocianti ancora e di concerto il loro cane giocolante con un torsolo di cavolo, Edwin fu in grado d'esaminare l'appartamentino ch'era adesso il suo rifugio. Il cui arredo consisteva essenzialmente in ortaggi di provenienza mercatale. C'erano due o tre zucche adagiate in una poltrona in soggiorno, patate nel caminetto, broccoli e cavolo verza e cavolfiore e cavolo cappuccio accuratamente disposti sulle poche superfici piane, un intenso afrore di frutta ammostata in camera da letto. Carmen andava fusto dopo fusto foraggiando di sedano un pentolone fumante per approntare, spiegò, un potente rimedio antireumatico. Edwin constatò, interessato e speranzoso, che il suo snaturato apparato olfattivo sembrava in via d'assestamento, giacché un sentore di rum lo guidò sino a un catino di latta di banane avariate. 

Ed era di latte allo scotch che olezzava Les quando tornò. Carmen disse: «Mica lo fa entra io, quelo. Mica fotte co chi capita io. Oh cribio, loro porta lu qui, que due.» 

«So tutto in proposito, ragazza» disse Les. «E figurarsi se m'inquieto di lui in tal senso, dopo quanto m'ha dettagliato sua moglie.» Rivolse a Edwin uno sguardo gelido. «N'hai proprio combinate di pelle di becco iersera, nevvero? Ti sei cacciato in un bel pasticcio, eh? Così impari, no?» Edwin chinò il capo. «Non te la prendere» disse Les più gentilmente. «Il mondo è un postaccio.» Recava seco un sacco di iuta ch'evacuò sul pavimento: ancora frutta e verdura. Rotolarono patate sotto il tavolo e vi fu un frufrù di foglie verdi, s'udì un frusciare di cavoli cappucci, s'intese un pispigliar di cavolini di Bruxelles. Ma quando il terzetto s'assise di buonora al desco per desinare, la portata fu per carnivori di stretta osservanza: vermicolare carne tritata portata dall'hamburgheria da Carmen. «Non mangiate molta verdura, allora?» domandò Edwin. «In effetti no» rispose Les. «Se ne vede anche troppa, in effetti. Legumi e ortaggi sempre nei paraggi.» 

Passato il pasto Les corse a coricarsi, Carmen sparecchiò e s'apparecchiò per recarsi al lavoro, sulle chiome corvine un tocco che non le donava e la sporta della spesa in mano. Solo che non era per la spesa ma per il macinato. Disse Edwin con aria disinvolta: «Credo proprio che uscirò con te, mi va di fare una passeggiatina. Una boccata d'aria fresca, sai com'è.» 

«Oh caspita!» esclamò Carmen sopraffatta dallo sgomento. «Tu sente? Les, tu sente? Dice che esce lu.» Immediato intervento di Les che zampettonò in calzini in soggiorno e fissando Edwin mestamente dichiarò: 

«Vedi, non dovrei aver bisogno di spiegarti le cose proprio a te, visto che ti ritieni più intelligente di me. Ma non credi che abbiamo patito abbastanza fastidi, per un verso o per l'altro? Non pensi che sarebbe più assennato se te ne stessi qui buonino e ti astenessi dal morsicar la mano che ti sfama, evitando di correre rischi? Non mi ripropongo di segregarti, perché non sono per niente d'accordo col relegare la gente dietro le sbarre, però in nome del bene comune t'impetro di rimanertene pacifico a Casina senza far casini. C'è un sacco di cosine che puoi cosare per sbarcare il tempo. Puoi leggere, puoi sbucciar patate, puoi contribuire alla lotta contro i reumi introducendo sedano nel calderone. Mica è detto che devi annoiarti. Rifuggi però dal porre in periglio la tua esistenza ficcando nel contempo noi, che di ritenerci amici avresti ben donde, nella magica epica runica delfica antífogna.» 

Fu un'arringa persuasiva e Edwin, una volta tanto, si vergognò. Carmen se ne andò e Les russò, e Edwin pelò un ferreo pentolone di patate. All'imbrunire Les si svegliò schioccando le labbra aride e si recò in cucina dove trovò Edwin al lavoro. «Bene» disse Les. «Bene. Sono le meglio King Edward che c'è, la patata più pregiata dell'universo mondo. Non ch'io ne faccia grand'uso. Fanno ingrassare.» Sbadigliando, grattandosi il capo, calzò le scarpe inanellando: «Conflitto confitto confetto concetto concerto consiglio sbaaaaa… diglio» dischiuse e conchiuse. «Scusasse» disse. «Fatto sta che mi sto domandando qual sia la miglior strategia d'adottare in serata. Con te, intendo. Stasera ridanno l'opera, ma non credo proprio che saresti più al sicuro al belcanto che altrove. D'altro canto non puoi seguitare a mondar patate ore vespertine natural duranti. C'è da uscì pazzi, me ne rendo conto.» 

«Star qui mi sta benissimo» disse Edwin. Sua intenzione segreta era sortire in cerca di Sheila. Riteneva che le sue banconote fasulle sarebbero potute forse passar per genuine col favor delle tenebre e non avrebbe pertanto incontrato difficoltà a pagarsi mezzi di trasporto di luogo in luogo come pure generi di conforto strada facendo. Le cose erano migliorate enormemente, davvero. Era vestito dignitosamente, possedeva una capigliatura decorosa e denaro contante. Capelli finti e soldi falsi, eccellente abbinamento. Se la passava un sacco meglio di quando s'era ritratto avvilito dal covo di quel gretto taccagno di Chasper. E del cappello di Chasper non gliene fregava più. 

Stava finalmente conquistando una posizione consona al suo rango. 

«Bene,» disse Les «allora d'accordo. Guarda, là c'è un mucchio di roba da leggere.» Indicò una pila miseranda di Pan e Penguin  sbrindellati. «E c'è anche un paio di classici, ma quelli li tengo dentr'una credenza. Roba tipo J.B. Priestley e Nevil Shute e Niente orchidee. Che non è che possano andare in mano al primo che capita, in fin dei conti. Ma tu sei uomo di cultura, come me e il vecchio Charlie.» Si vesti tutt'allegro, intonando sull'aria dell'Habanera dalla Carmen: 

«Io son bastardo e tu sei troia. 

Se fossi mia sazierei la tua foia.» 

Uscì cantando, e Edwin rimase solo con le verdure e i classici. Era ancora abbastanza presto, ragion per cui si bolli un po' di patate, senza scordare il sale, e se le mangiò, facendole seguire da una poltiglia di banane al rum che ingozzò a cucchiaiate in ragione delle loro ben note virtù corroboranti. Mentre si pettinava la parrucca, udì bussare alla porta. Che fosse Bob? Afferrò la coltella del pane, aspettò che picchiassero di nuovo e più pressantemente, poi pensò: «Dev'essere Sheila.» Andò all'uscio impugnando la coltella, aprì e brandì, e sulla soglia trovò Renate. 

«Na» disse lei scuotendo il capo. «Dentro non entro. Qui dirlo posso.» Ondeggiava, satura di doppel gin. 

«Sì? Che c'è? Di che si tratta?» 

«Ungeduld» disse Renate. «Impazienza. Ora ti dico. Con un giovane pittore con la barba tua moglie vista è stata. Tu soldi dammi. Io ti dico dove.» Tese un palmo fiducioso. 

«Ma io che ne so?» obiettò Edwin. «Che ne so che lo sai?» 

«Lo so, lo so» annuì Renate. «Caro mio se lo so. Ieri sera e l'altrieri sera visti in quel posto li hanno.» 

«Ecco qua» disse Edwin porgendole cinque sterline. «Dove?» 

Renate baciò la banconota e la piegò in quarto, in ottavo. Si sporse innanzi con ginnico tentennamento e sussurrò: «Soho. Soho. Che nome scemo per un posto.» 

«Ma dove a Soho?» domandò Edwin. «Soho è un quartiere grande, accidenti.» 

«Il nome ho dimenticato» rispose Renate. «Oh, sì. È per pittori. Un circolo.» Sollevò le braccia dai fianchi, divenendo cruciforme. «Grandi quadri alle pareti. Ma mica tanto buoni. Nicht so schlecht» sfrigolò sommessa. «Nicht so gut .» 

«Greek Street? Frith Street? Dove?» 

«Soho» ribadì Renate, e allontanandosi col capo ciondolante per andare a procurarsi altro gin soggiunse: «Vacci, mio caro, mio povero ragazzo.» Edwin chiuse la porta sbattendo e corse a finire di prepararsi. Se non altro era un inizio, un punto di partenza. Ammirandosi allo specchio rimirò un bel prototipo di poeta, e si domandò se non sarebbe magari stato meglio con la barba. L'uomo del futuro, infinitamente duttile. Fors'anche antiboblocalizzazione. Ma era tutta una questione d'occhi, no? Rovistò in soggiorno e dentro un cassetto trovò - in mezzo a biglietti d'autobus, forcine, bottoni, denti di pettine sbrancati, apribottiglie, filo fusibile, un paio di pomodori in via di maturazione, sorpresine dei fiocchi di mais, capelli ammatassati brutalmente strappati, fotoscene, un libropaga dell'esercito, una vecchia dentiera, pastiglie aromatiche, un segnamessale profumato col sacro simulacro della BVM, alcune mentine scartocciate, forchettine da antipasto della compagnia di navigazione Peninsular and Oriental, quattro o cinque carte da gioco, tessere del domino, un dado e un bussolotto tiradadi - un polveroso paio d'occhiali da sole da quattro soldi. Riconducibili probabilmente a Carmen, o a chi l'aveva preceduta, essendo di misura esigua. Gli si sistemarono abbastanza comodamente tuttavia sul naso e sulle orecchie. Bardato in tal guisa, resa occulta la propria devianza, era pronto a qualunque avventura. 

Dopo aver molto cercato, girovagato per vie traverse, oltrepassato minacciose friggitorie, Edwin si ritrovò su di un'ampia ed elegante arteria londinese, quella per l'appunto che aveva bazzicato in ora antelucana il giorno innanzi. Occhieggiò all'interno di parecchi tabaccai finché non vide ciò che cercava: una sgraziata malservente donzella ruminante dedicante più attenzione a un'amica in attesa - una lei pure ciancicante plastimpermeabilizzata grassoccia sgualdrinella - che ai clienti. 

«Venti Senior, per favore» disse Edwin porgendo una banconota. 

«Non ce l'ha un taglio più basso?» biascicò stizzosamente la pischella. 

Edwin si tolse gli occhiali da sole a mostrare occhi sinceri seppur degeneri e disse: «Spiacente.» Poi senza batter ciglio aspettò che la pulcella gli conteggiasse scontrosamente il resto. «Mi tocca darle quasi tutti spicci» lamentò la tabaccaia. Così ben gli stava, che diamine. Edwin si profuse in ringraziamenti. Tornato in strada, intanto che si godeva una fumata a ufo fece appello (deverbale del latino appellare = «rivolgere la parola», intensivo di appellere = «accostare», composto di ad - «verso» e pellere = «spingere») a un taxi. Soldi veri stavolta, niente corsa a sbafo. Anche se pur sempre a scrocco sarebbe stata, no? Come si fa a sapere dov'è che sta il confine, che differenza c'è in realtà fra meum e tuum! «Soho Square, in fondo a Greek Street» impartì al conducente. Sembrava sensato come punto di partenza. Essendo egli stesso un raffinato simulatore Edwin avvertì, mentre procedevano difficoltosamente verso Soho, una sorta di affinità coi piaceri fasulli di Tottenham Court Road e Oxford Street. Quando Crosse & Blackwell  rifulse sulla sinistra disse il tassista: «Qui va bene, capo?» La piazza era una bolgia d'auto parcheggianti, e arrancanti. Edwin pagò aggiungendo una mancia modesta, poi s'incamminò per Greek Street. Un circolo con quadri alle pareti. Come faceva uno a entrare in un circolo metti che putacaso non ne era socio? Forse l'aspirante rimaneva in attesa all'esterno e chiedeva a un socio di farsi garante per l'accesso. Più o meno come ai tempi che lui aspettava fuori d'un cinema e chiedeva a ogni adulto in ingresso di farsi adulto accompagnatore senza il quale nessun ragazzo infrasedicenne poteva essere ammesso quando davano film di un certo genere. I pericoli dell'ignoranza. Il miracolo della nascita. L'uomo che perse il naso. 

Edwin procedette a lungo senza trovare alcun circolo per pittori. C'erano ristoranti che offrivano ogni bendiddio tranne rosbif e focaccine. C'erano bar con trovatine sfiziose: Paradiso in alto, Inferno in basso e Purgatorio ai cessi; La Tana dei Necrofili; Il Vampiro, dall'illuminazione sanguigna per invermigliare il caffè. C'erano pub a bizzeffe. Sentendosi infine assetato, Edwin entrò in uno dei suddetti, decise che il gestore non gli piaceva, e spacciò cinque sterline in pagamento d'un doppio scotch. «Ehilà, perbacco, che roba è questa?» trasecolò il padrone esponendo la banconota alla luce. «L'hanno imbrogliata, ecco com'è andata, questa è falsa sputata.» 

«Quel porco» disse Edwin, offrendo in cambio moneta di buon conio. «Non ci si può proprio fidare di nessuno, vero?» Il proprietario andò al telefono, perciò Edwin trangugiò il suo whisky e sgombrò il campo. 

Finalmente la sorte parve arridergli conducendolo al luogo che cercava. IL BIANCO CINESE. Il posto giusto per Han Suyin , pensò maligno. Un negro con la barbetta si apprestava a entrare, quindi Edwin lo apostrofò cortese: «Mi scusi, signore. Sto cercando qualcuno. Allo scopo di acquistare un quadro, probabilmente. Vorrebbe essere tanto gentile da…» 

«Se intende comperare un quadro,» disse il negro «io quadri ne ho. Un facoltoso mecenate, eh?» Ghignava e sorrideva a un tempo, lasciando trasparire la secolare dicotomia dell'artista. «Entri» disse. «Ho dei quadri appesi dentro.» Aprì la porta, rivelando un cadaverico individuo in maniche di camicia addetto al registro dei visitatori. Edwin vergò la propria firma e ottenne accesso. Il negro, che pareva rispondere al nome di F. Willoughby, scostò una tenda. Edwin si tolse gli occhiali scuri e vide ciò che si aspettava di vedere: irsuti sbrindelloni e ragazze dalle calze colorate. La stanza era lunga, stretta, chiassosa e fumosa. Proprio in fondo troneggiava un banco di mescita, e le pareti erano coperte di tele. Nigel e Sheila però manco in effigie. Forse sarebbero capitati più tardi. Dopotutto era ancora molto presto. 

«Immagino che in qualità di non socio io non abbia diritto ad acquistar bevande» ipotizzò Edwin. «Quindi forse potrei darle del denaro e lei potrebbe farlo in vece mia.» Cercò d'inzeppare una banconota da cinque nella zampona pittoresca di F. Willoughby. Ma F. Willoughby dichiarò: 

«Qui dentro tutti possono comprar da bere una volta entrati. Io prendo un bel Pernod abbondante.» 

«E così sia» disse Edwin, osservando con soddisfazione che il barista era indaffarato e che comunque il suo aspetto non gli sconfinferava. L'uomo risultava un po' strabico, proprio come la pseudo Britannia che si apprestava a incassare. Ma Edwin era lì lì per attirarne l'attenzione allorché si reclamò a furor di popolo silenzio e sopravvenne una temporanea cessazione delle transazioni. Distogliendo circolarmente lo sguardo dal banco, Edwin scorse seduto in mezzo alla stanza s'uno sgabello un occhialuto giovinotto allampanato dai capelli perfettamente lisci con indosso un maglione a collo alto, intento ad accordar maldestramente una chitarra classica. Dopo un paio di semplici accordi biliosi costui principiò a recitare, sottolineando con altri accordi le sue cadenze alla presumibile maniera del Salmista : 

«Per color che quesirono l'uscita e rinvenir: 

Questo. 

C'eran brecce che a quesirle s'ingrandivan come porte, E per quanti a fronte alta le varcar quali aquilon, Questo. 

Dov'eran le brecce? 

Nell'uomo, nella donna, nei colli di bottiglia, nel libro sbrindellato dal fango raccattato in un giorno assai pluviario presso il nodo ferroviario. 

Ma la breccia delle brecce, l'intera tuttotalità, il sacerrimo sacrario, dov'era, dov'è questo?» 

La faccenda, talmente fuori moda da esser tornata in auge, sembrava voler andare per le lunghe, e Edwin moriva di sete, ma la gran maggioranza prestava rispettosa udienza. «Questa» spiegò F. Willoughby bisbigliando «è Questo. Poesia» soggiunse. «Ma quelli sono miei, quelli lassù.» Additò, e vedendolo additare, qualcun lo tacitò. Edwin vide una serie di tele di modeste dimensioni, ciascuna raffigurante un cerchio. Alcune erano più grandi delle altre, e sebbene gli sfondi in tinta unita svariassero in una gamma di accesi colori da cartellonistica, ogni e qualsivoglia dipinto di F. Willoughby rappresentava un cerchio. «Sono soltanto cerchi» sussurrò Edwin. «Nient'altro che cerchi.» 

«Shhhhh.» 

«Soltanto?» replicò F. Willoughby. «Soltanto, dice? Ha mai provato a disegnare un cerchio a mano libera?» 

«Shhhhhh. Shhhhhhh.» 

«Oltre la breccia estrema si raggiunge Questo: 

Ciò ch'è sorcino divien leonino quando la breccia è percepita non sol come un'entrata bensì come un'uscita, 

Un'uscita da 

Questa 

Gabbia, 

Ov'a impedirmi di trasumanare e le mie ali di cella sgabbiare Sol la mi solfa mi si fa fare.» (Al che SOL LA MI SOL FA MI SI FA FA RE fu costretta di concerto la chitarra a solfeggiare). 

«Ma non v'è dubbio» mormorò Edwin «che ogni dipinto sia in quanto tale realizzato a mano libera, no?» 

«Ehilà, senti un po' qua» protestò il Salmista. «Sono sul punto di concludere. Vorresti farmi il sacrosanto piacere?» 

«Ora sì che ci s'intende» approvò Edwin. 

«Shhhhhhh.» Le ragazze apparivano più graziose quando s'imbronciavano per far shhhhhh. Detto fatto il Salmista concluse per poi postludiare: 

«Il sacro, ecumenico obietto attraverso la breccia percetto Pur se nel suo complesso non ci appare, lui sol santotale ci puote liberare da 

Questo.» 

L'euritmica mano destra dell'aedo pizzicò, si ritrasse dalle corde e s'immobilizzò a mezz'aria in posizione pizzicogena. Edwin si associò entusiasticamente all'ovazione, ordinò due super Pernod offrendo insieme da bere al barista, e ricevette una barca di resto in soldi buoni. «Torniamo alla questione del cerchio» disse. 

«Vi fu nei tempi andati un gran pittore,» disse il negro «un italiano, capace di farlo. Poi più nessun altro. A parte me» disse, e sorseggiò. 

«Ma ciò vale forse a renderlo esteticamente più valido?» domandò Edwin. «Chi l'osserva non lo sa mica se lei l'ha fatto a mano libera o col compasso, giusto?» 

«Scruti pure con la massima attenzione» disse F. Willoughby «e vedrà che non troverà alcun foro di compasso al centro.» 

«Ma supponiamo che io voglia praticarvi un forellino come se fosse stato tracciato col compasso» insisté Edwin. «Ciò comporterebbe una qualche differenza estetica?» «Senti, amico» disse F. Willoughby con accento parigino. 

«Io li faccio punto e basta. Dell'estetica me ne infischio, chiaro? Dieci ghinee  tutto il blocco.» 

«Affare fatto» disse Edwin allungandogli quindici sterline. «Favoriscimi quattro e dieci di resto.» 

«Per quattro e dieci» propose F. Willoughby «puoi avere quella tela lassù.» Si trattava d'una figurazione non sgradevole: girigogoli spiraliformi color grigio pulce, giallo limone e verde giada. 

«No, spiacente» disse Edwin. «E comunque questo giro tocc'a te pagar da bere.» F. Willoughby s'aprì un varco nella calca per procedere all'acquisto di due scipite birre chiare e riportò anche il resto a Edwin. Edwin divenne consapevole d'un crescente ed eccitante palpito d'interesse nei suoi confronti, vividi occhi calcolatori puntati su questo munifico avventore che, s'era disposto a spendere dieci ghinee per una sfilza di cerchi, sarebbe stato indubbiamente incline a comprar qualunque cosa. «Mi piace alquanto il lavoro di Nigel» disse Edwin. «Ce n'è qualcuno nei paraggi?» 

«Nigel?» fece F. Willoughby. «Quale Nigel? Nigel Crump? Nigel Meldrum? Nigel 

Mackay-Muir? Ce n'è un bel po' di Nigel.» 

«Un Nigel con la barba.» 

«Benedett'uomo,» esclamò dichensianamente F. Willoughby «la barba la portano quasi tutti. E roba loro qui comunque non ce n'è.» Volse uno sguardo piuttosto malinconico sulle in gran parte deplorevoli pitture penzolanti alle pareti: desueti pastrocchi alla Dechirico con colonne infrante e cavalli artritici; un paio di ritratti del solito amico dell'artista; nature morte senza vita; una specie di Klee con un uomo a stecchetto e un tozzo di luna. 

Col trascorrere della serata Edwin comprò gran parte di tali dipinti. Che peccato, pensava, che tanti artisti supini ad accettare avidamente le banconote fallaci di Bob fossero dotati di sì mediocre senso dell'osservazione, ma in fin dei conti erano cavoli loro. Edwin cominciava a sentirsi navigato e permeato d'afflato criminale. I pittori promisero di provvedere alla consegna delle proprie opere e, previa breve riflessione, Edwin fornì quale recapito l'ospedale qualificandosi come R. Dickie. Ancora nessun segno di Sheila e di quel Nigel qual che fosse, ma man mano che i bicchieri si rincorrevano Edwin prese a curarsene meno. Per render giustizia ai giovani pittori c'è da dire ch'erano lesti a tramutare i loro biglietti da cinque sterline in vino, alcolici e soldi autentici. In definitiva, inoltre, non parve essere il circolo a scapitarne: sopraggiunse infatti a convertire in contante un assegno d'importo piuttosto elevato un pittore il quale, a giudicare dall'assenza di barba, doveva passarsela relativamente bene. Lo si vide guadagnar l'uscita a testa alta e nari dilatate nell'arroganza del successo, gonfio d'un bel fastello di fasulle banconote. Andava tutto quindi veramente a gonfie vele. 

Il giovanotto coi capelli lisci e il maglione a collo alto alla Colin Wilson , ripreso centralmente posto sul suo sgabello, scoccò un plumbeo MI basso e un nevralgico MI cantino, un LA bemolle, un metallico RE, un SOL naturale e un risoluto SI diesis. Quindi, a un pubblico più folto che in precedenza, avviò a cantare una canzone all'epoca assai popolare fra i giovani inglesi: una ballata storica americana che narrava la sconfitta degli albionici in occasione della protesta antibritannica di Boston . Ma F. Willoughby, F. Primum Mobile Willoughby, continuò a volteggiare, come un gufo, in cerchio. 

«Non puoi non riconoscere» disse «che questo è il vero banco di prova della maestria nell'arte figurativa. Fu Rubens capace di farlo? Ci riuscì quello con un orecchio solo ? E quel grosso pittore astigmatico spagnolo ? Macché. Io invece sì, no? Te li ho messi troppo poco» disse. 

«Posso darti un'altra sterlina» concesse Edwin pigliandone cinque. 

«E così quei cittadini bostoniani, dei lor piumaggi tutti adorni ancora, Usciron barcollando dalla stiva ciascun con in groppa una cassa. 

Festeggiate, ragazzi, gioite, mentre il tè fra i flutti va in malora: Davy Jones  potrà berselo lui e il demonio pagarci la tassa.» 

«Conta parecchio pure l'apprezzamento» disse F. Willoughby. «Di due generi di mecenati si necessita in realtà. Quelli agiati e quelli raffinati. Palanche da una parte, buongusto dall'altra. Anche un matrimonio potrebbe trarre giovamento da cotanto abbinamento.» 

«Shhhhhhh. Shhhhhhh.» 

«Ma» obiettò Edwin «se può farlo meglio una macchina…» 

«Non può farlo meglio una macchina.» 

«In pratica è come la fotografia, no?» si ostinò Edwin. «Ciò che non si ottiene in una fotografia è la visione umana. Ma la visione umana è sostanzialmente imperfetta. Ecco perché un cerchio perfetto…» 

«Shhhhhh. Shhhhhhhhhhhh.» Edwin imbronciò le labbra amo' di bacio in replica a una scarmigliata fanciulla tacitante. Un bacio? Che il sesso riprendesse aire? 

«Sentite, gente» disse il menestrello. «Ne ho piene le tasche. È successo pari pari quando recitavo la poesia. Son proprio manieracce da villan fottuto. O s'azzitta lui o m'azzitto io.» La sua chitarra risuonò in assenso. 

«Spiacente» disse Edwin, tenendo pronta una banconota da cinque. Il cantante lo guatò in cagnesco e continuò: 

«Quello fu dunque il cominciamento della famosa Rivoluzione: 

Combattete, ragazzi, guerreggiate finché d'America la liberazione…» 

Eran comparsi alla tenda del circolo Nigel e Sheila, Sheila in verde con un cappellino in foggia di foglia. «Sheila!» chiamò Edwin cercando di fendere la folla. 

«Shhhh. Shhhhhh.» 

«Sheila! Sheila!» Sheila però accusò ricevuta del richiamo con un gesto puramente protocollare. Un uomo d'ignota capigliatura incontrato in quello stesso luogo chissà quando. Non poteva essere altrimenti, visto che costui conosceva il suo nome. Edwin esercitò pressione, ma la sua spinta suscitò in reazione una controspinta. 

«Mi si potrebbe» domandò il cantore «concedere di concludere la canzone? In fondo non restano che pochi versi. Potrei implorare l'elargizione d'un briciolo di fottuta creanza?» Un corrucciato mormorio d'approvazione coronò la prece. 

Sheila e Nigel tennero a bassa voce conciliabolo: troppo affollato, troppo disagevole, troppo difficile farsi servire, troviamo un posto meno incasinato. Troppi avventori stasera. (Colpa della prodigalità d'un avventore avventuriero come Edwin.) 

«…Impiccate re Giorgio, arrostite i suoi fanti e i suoi armigeri odiati; Il diavolo li aspetta tutti quanti per invitarli al tè giù fra i dannati.» 

Sheila e Nigel sulla tenda levavano le tende. «Sheila!» chiamò Edwin. Si levarono applausi e condoglianze a pro del canterino, balenarono occhiatacce all'indirizzo d'Edwin. Egli tentò disperatamente di frangersi un passaggio verso la sposa migrante. 

«Sheila!» 

«E di me che ne diresti?» fece sfacciata una rossa vistosa. Non era un'artista: semplicemente una malafemmina indotta ad associarsi a molti circoli dall'interdetto ministeriale sul meretricio ambulante. Ed era un commercio carnale - ancor meglio del pitturale - che aveva da proporre al danaroso Edwin. Il bardo, brandendo la chitarra per il manico, appropinquatosi a Edwin dichiarò: 

«I modi sgarbati proprio non li sopporto. E sopporto ancor meno gl'insulti smaccati.» Abbrancò Edwin per la giacca. «Esigo delle scuse.» 

«Perché? Per cosa? Ascolta, laggiù c'è mia moglie. Devo raggiungerla. Per l'amor di Dio, tesoro mio…» 

«Scilla, tu mi hai apostrofato . T'ho udito distintamente. È tutta la sera che t'accanisci a darmi addosso. Be', non intendo tollerare…» 

Edwin affrancò la giacca con uno strattone e tentò di svignarsela. Il rapsodo volle acchiapparlo per il bavero. Edwin montò in collera e sferrò una sventola. L'altro l'acciuffò per i capelli. Ma quelli, orrore e raccapriccio, gli rimasero in mano senza opporre resistenza. «Guarda un po' che hai combinato» disse la rossa. «Roba da trascinarti in tribunale.» 

La parrucca baironiana prese a fuggire per il circolo ad altezza cranica, come in uno di quei sollazzi a penitenza in cui, temendo ciascuno che la musica s'interrompa all'improvviso, avvien di mano in mano un frenetico passaggio del palloncino. Edwin partì all'inseguimento. F. Willoughby non era di alcun ausilio; sghignazzava alla negresca sciorinando una dentatura lapidaria. La parrucca raggiunse il bancone indugiando qualche istante sullo strabismo del barista. Quindi velocemente completò l'ellissi, tornando fra grandi acclamazioni a Edwin per intercessione d'una ragazza inguainata di lana che gliela porse con goffa riverenza. 

«Non farci troppo caso, caro» disse la rossa. «Lasciali pure ridere a garganella. Sapessi io quanto li trovo attraenti gli uomini calvi.» Ed era lei pure, seppure invereconda, non priva d'attrattiva: una faccia di bronzo, bronzea la folta chioma riccioluta, zizze che sotto il maglione color senape parevano prometter la saldezza del bronzo. Gentile da parte sua complimentarlo a quel modo. Riuscito finalmente a uscire, Edwin scrutò a destra e a manca. D'entrambi manco l'ombra. Avevano probabilmente preso un taxi. O s'erano infognati in chissà quale locale dei dintorni. Che faccenda spossante e inebbriante, cercar moglie. 

22 

In relazione alla ricerca di Sheila all'interno dei pubblici locali alcolici, il problema era il tempo: ne restava molto poco. Ben presto, quando il barista del quarto locale annunciò l'ora di chiusura, non ne rimase più. Edwin aveva acquistato in ciascuno dei primi tre locali un doppio scotch e venti Senior Service ottenendo di resto quattro sterline dodici scellini e un penny, oltre a perlustrare ovunque ininterrottamente a caccia d'una traccia di Sheila. Coccolandosi in tasca ai calzoni la montante marea di soldi genuini aveva preso a domandarsi come mai la stesse cercando. Finché non gli sovvenne: amore. Ecco cos'era, amore. Lo sapeva che un motivo c'era. 

«Cavati di capo quell'accrocco» suggerì la rossa. «Sei un sacco più carino senza. Sul serio. Vado matta per i calvi.» Il barista aveva sollecitato le ultime ordinazioni, ed ella sostava al banco assieme a Edwin. «Grazie, caro» disse. «Prendo quel che prendi 

tu, e faresti meglio a comprare una bottiglia da portar via.» 

«Basta così» disse Edwin. «Il soverchio rompe il…» 

«Ma neanche per idea» replicò lei. «La notte è ancora giovane e tu sei così bello…» Ed eseguì uno di quei lievi scaltri rituali movimenti pelvici che le donne talvolta fanno. 

«Dovrei esser io a dirlo» disse Edwin «a dire il vero.» 

«Ma dai, che vuoi che sia» blandì lei. «Ce n'è di tempo per i convenevoli. Il signore» disse al barista, agguantando il suo doppio scotch «desidera una bottiglia di Martell Tre Stelle da portar via.» Edwin porse un'altra banconota da cinque sterline. 

«Certo che ne ha a bizzeffe, capo» fece il barista faceto. «Ma le fabbrica o che?» 

«Sicuro» ammise Edwin. «Niente male per un dilettante, vero?» Argute battute per cui risero tutti di cuore. Chiese la rossa: 

«Come ti chiami, caro?» 

Edwin rifletté fulmineo e rispose: «Eddie Railton.» 

«Chi vorresti minchionare? Eddie Railton è uno che suona la tromba in tivù. Anzi, suonava. Adesso fa il dottore. Ma ho sentito che domani sera si ripresenta. Che gran bel figliolo che è.» 

«D'accordo» disse Edwin. «Hai vinto. Il mio nome vero è Bob Courage.» 

«Oh, ma che nome grazioso. Fa pensare a un cagnolone da pastore o giù di lì. Vezzoso, davvero delizioso. Dovresti averci i capelli sugli occhi, però.» Edwin per compiacerla accondiscese, appruandosi risolutamente la parrucca. Lei scoppiò a ridere di gusto, sicché lui le domandò: «E tu come ti chiami?» 

«Coral» rispose lei, non senza un sorriso melenso. Curioso, pensò Edwin, come una donna possa condividere il proprio nome, mentre il nome di un uomo appartiene a lui e basta. Quel nome rendeva meno metallurgica la di lei sodezza, attirava l'attenzione sulla bocca e sulle unghie; le connotazioni marine conferivano ai suoi occhi coloriture verdemare. Anche se, va da sé, probabilmente non era il suo vero nome. 

Il barista annunciò la chiusura e un drappo zuppo ammantò le pompe della birra. «Allora vuoi tutta la notte, vero, caro?» chiese Coral. «Mica una di quelle sveltine prima dell'ultimo treno, no?» 

«Ecco» rispose Edwin «a dire il vero non ho dove andare. Parliamoci chiaro, non mi va né punto né poco di tornare a dormire in tre in un letto in mezzo a tutte quelle verdure. Pensavo di trovarmi un albergo o roba del genere.» 

«E io conosco il posto giusto» disse Coral acchiappandolo per un braccio. 

«Tuttavia» disse Edwin «dovrei dirti una cosa. Non credere sia questione di soldi o cose così, chiedimi pure quanto vuoi, però, vedi, c'è una piccola difficoltà.» 

«Cioè? Cristo, qui fuori si gela.» Faceva indubitabilmente freddo; il freddo invadeva le strade, un freddo che pareva il freddo personificato. «Taxi!» chiamò Coral. Non gradendo l'aspetto di alcuni giovani antropoidi italianoidi poco innanzi, Edwin brandeggiò a mo' di manganello la bottiglia di Martell. «Taxi!» strillò nuovamente Coral, e un taxi si fermò. «Guarda guarda chi si vede» fece il conducente. «Guarda guarda chi si vede» lo scimmiottò Coral. «Chi volevi che fosse, la bell'addormentata?» e diede il nome di un albergo nei pressi di Tottenham Court Road. 

«Il fatto è» disse Edwin mentre si avviavano «che c'è una certa difficoltà. Una caduta della libido, come suol dirsi.» 

«Non c'è problema» rispose Coral. «In vita mia ne ho viste di tutti i colori. Basta che non sei un degenerato e il resto va bene. Ma l'ho capito subito appena t'ho inquadrato che non eri un degenerato. A uno basta guardargli gli occhi. Non ci crederesti mai che razza di roba chiede certa gente, non ci crederesti neanche lontanamente.» 

«Il fatto è» disse Edwin «che non posso proprio chiedere un bel nulla.» 

«Una volta uno di quelli» disse Coral «mi fece andare a casa sua e c'erano casse da morto dappertutto. Che una però ciaveva da una parte una porticina per poter uscire. Strano, eh? Mai visto niente del genere. Ma erano cinque sterlicchie al chiodo, e da quando i mericani avevan tolto le tende l'era tosta sbarcare il lunario. E quello giù a menar martellate ai chiodi gridando 'Preparati a incontrare il tuo Dio!', e io dentro che tremavo come una foglia meschina sperando che al momento buono la ribalta s'apriva sul serio. E s'aprì, sennò non sarei qui a raccontartela, no? E poi ce n'è di quelli che per farsi frustare darebbero qualunque cosa. Qualunque. Ringrazia il cielo che non fai il mio mestiere e così non ti tocca battere il muso in tutti questi pervertiti, te lo dico io. A me mi bastano quelli normali, con un po' di coccole prima e dopo.» E fece a Edwin un po' di coccole. 

«Il fatto è…» disse Edwin. 

«Eccoci qua» disse Coral. «Non dargli troppa mancia a questo qui, ch'è un tantino impertinente.» Edwin pagò con soldi buoni, circostanza tuttavia che non suscitò nel vetturiero alcuna particolare manifestazione di riconoscenza. («Te la meriteresti proprio una bella cartamoneta da cinque, ragazzo mio» pensò Edwin) E soldi buoni pagò in anticipo al recezionista dell'albergo, un albergo che non sembrava meramente funzionale: c'era una minuscola saletta televisiva, e l'impiegato li spedì lesto di sopra senza un ammicco né un sorriso malizioso. La camera ospitava un semplice letto a due piazze sotto cui luccicava glaciale un pitale e disponeva di una stufa elettrica a scellini. «Fa un freddo buggerone» strillò Coral. «Apri quella bottiglia e allungami un goccetto.» Edwin sciorinò sul letto le sue monete in cerca di scellini. «Già che ci sei» disse Coral «metti anche dieci sterlucce sul caminetto. Così poi sul lato dindi cosa fatta capo ha, no?» 

Sedettero accanto alla stufa su di un paio di sedie da camera, bevendo brandy a turno nel bicchiere portaspazzolini. «Mi gusta» disse Coral «fare una bella chiacchierata prima d'andare al sodo. Lo rende più umano, sai com'è. Ed è carino ciacolare con una persona istruita, tipo appunto come te.» «Il fatto è…» disse Edwin. 

«Io pure ho sempre avuto propensioni in tal senso. Libri e musica e via discorrendo. Ma uno così facendo che fine fa? Che fine hai fatto tu? Pelato prima del tempo a forza di studiare, mi sa, a furia di star continuamente appiccicato ai libri, te lo leggo negli occhi. Anche se, intendiamoci, mi garbano i pelati. I pelati mi garbano un sacco. Levati quell'aggeggio» disse Coral. «Ecco, così, mira che bella chiorba, che bignè, che burraia, una vera ganzata.» E un bacio appiccicaticcio schioccò a Edwin sulla pelata. Poi con mossa nient'affatto seducente si sollevò la gonna e cominciò a sganciarsi le calze in cima. «Si sta più caldi a letto che fuori» dichiarò. 

«Il fatto è» completò Edwin «che non posso.» 

Lei s'interruppe, le dita immobili s'una giarrettiera. «Non puoi cosa?» disse scrutandolo. «Hai perso qualcosa in guerra o roba del genere?» 

«No, no, non è quello, ce l'ho tutta la chincaglieria. È solo che non posso. Caduta della libido.» Edwin deglutì. «Come suol dirsi.» 

«Com'hai già detto» notò Coral. «Che razza di parte del corpo sarebbe?» 

«Non è una parte del corpo» spiegò Edwin. «Significa solo che non riesco a provare interesse per nessuna donna. Ecco perché mia moglie se n'è andata con un altro uomo, un pittore con la barba.» 

«Mica perché portano la barba sono più in boccia» osservò Coral scuotendo il capo. «E anche coi capelli non è mica che uno ci zuppa meglio. In questo la Bibbia ha preso una cantonata. A me comunque dei capelli me n'importa poco. Ma insomma, che vuol dire quel che hai detto? Il fatto che non t'interessano le donne?» 

«Ora per favore non t'arrabbiare» disse Edwin. «Non vuol mica dire che penso che non sei attraente. Lo sei, e molto. Però non voglio entrare in bazzica, tutto qui.» 

«Perciò preferiresti andare con un altro uomo, vero? Sei un finocchio, giusto? Sangue di Giuda, ma allora si può sapere perché cavolo m'hai rimorchiata?» 

«Non sono io che t'ho rimorchiata,» disse Edwin «come ben sai. E tu non hai niente da lamentarti. C'è i tuoi soldi sul caminetto. Puoi anche andartene, no? Dieci sterlucce per non fare un fico secco.» 

«Già, bella roba» rispose Coral. «Forza, sbattimi fuori al gelo. Coraggio, fammi fare una figura di merda giù all'ingresso. Ho il mio orgoglio, che ti credi?» 

«Ma non è forse vero» obiettò Edwin «che per te si tratta solo d'un modo per far soldi?» 

«Oh, i soldi» sogghignò lei. «Certo, sui soldi non ci si sputa, vorrei vedere. Ma mica si può campare solamente per i soldi e nient'altro, vero? Insomma, mi dà sui nervi, mi dà. Offende il mio amor proprio e mica poco. Voglio dire, eccoti qui, e non sei un ricchione, non sei uno snaturato e non hai seminato niente in guerra. E allora io mi spoglio e mi sdraio sul letto o davanti alla stufa e tu non sai far altro che dire che non t'alluzza. Con quella zucca pelata, per giunta.» 

«È tutto qui, in sostanza, ciò che voialtre avete da vendere?» replicò Edwin. «Passività? Riducendovi a oggetti, a momentanei contenitori d'acqua sporca? Pensa a quanto è offensivo per me!» 

«Vuoi dire» disse Coral sbalordita «che per te è la prima volta? Che finora non l'hai mai fatto? Che per te sono la prima?» 

«Be', improbabile che tu possa esserlo» rispose Edwin «come t'ho spiegato. Tuttavia» soggiunse «penso che in un certo senso tu lo sia. Non ne ho mai avuto bisogno. Mi sono sposato giovane, sai. Ciò che intendo è che finora non l'ho mai fatto a pagamento.» 

«E non dovrai sborsare un lillero nemmeno stavolta» disse Coral «se insisti su questo tono. Ho la mia sensibilità come chiunque altro. E non intendo farmi insolentire.» 

«Per favore, abbi pazienza» disse Edwin. «Lungi da me la voglia di recarti offesa. Ti prego. Mi piaci. Ti trovo carina. Ma fatto sta che sono in panna e tanto varrebbe pestassi l'acqua nel mortaio. Tutto qua.» 

«Oh, no,» ribatté Coral «tutto qua manco per niente.» Si alzò dalla sedia e si tolse il maglione con piglio battagliero; il reggicalze a mo' di cinturone le dava l'aria di chi si accinge a scatenare un attacco. «Spogliati anche tu,» intimò «salta dentro e scalda il nido. Vediamo un po' s'è proprio vero che non puoi cavare un ragno dal buco.» 

23 

Edwin si svegliò colpevolmente tardi. Deduceva esser tardi dal fatto di udir gli stentorei rumori di Londra in pieno fervore lavorativo. Insomma, gli stentorei rumori di Londra, quanto meno. Coral se n'era andata, lasciando raggomitolata sul cuscino come un gatto la parrucca. Edwin era esausto ma nutriva un formidabile appetito. Chiamò a raccolta i dispersi frammenti della notte e li rimise approssimativamente assieme, come un documento a brandelli. Aveva lavorato sodo, la ragazza. Se le era meritate quelle dieci sterline che, vide Edwin, sul caminetto non c'erano più. Si augurò che non avessero a crearle delle noie. Scese nudo di letto rabbrividendo e accese la stufa elettrica. La manovra non diede luogo a incandescenza, e gli sovvenne che la sera innanzi non s'eran presi la briga di spegnerla. Cercò uno scellino in tasca agli abiti e non lo lasciò indifferente il rilevare che tutte le monete nessuna esclusa avevano spiccato il volo. Le banconote s'erano anch'esse dileguate, le fallaci al par delle veraci. Oh, be', si disse, probabilmente lei se l'era interamente meritato, il malloppo. Pur se lui avrebbe gradito essere in grado di comperarsi una colazioncina. Le sigarette, bottino di vari locali bidonati, gliele aveva lasciate tutte, come pure i fiammiferi. Che pensiero delicato. Edwin s'infilò calzoni, camicia e calzini e si lavò svogliatamente nel lavabo, asciugandosi colle lenzuola. Aveva lavorato sodo, la ragazza: una sfilza di trattrici per schiacciare una nocciolina. Be', non esageriamo. S'era ottenuta la prova certa ch'era possibile la riabilitazione: una pagliuzza d'oro in mezzo al fiume. Edwin finì di vestirsi e, prima d'indossare la parrucca, sottopose ad attento esame l'ignudo cuoio scapelluto di quello sconosciuto. Lì pure stava crescendo qualcosa: una specie di lanugine percepibile al tatto. Si ritrasformò con gesto teatrale nel piccolo poeta spiccicato e poi si preparò a sgombrare, non del tutto insoddisfatto. Aveva le saccocce piene zeppe di sigarette. I fiammiferi non gli facevano difetto. Come la ragazza aveva saggiamente dichiarato, il denaro non è tutto. Lui però aveva una fame dell'altro mondo. Avrebbe potuto almeno lasciargli una sterlina. Magari due. 

Edwin scese dabbasso ed entrò nell'atrio. Era di turno un recezionista diverso che salutò Edwin con festosa familiarità. «La signora ha lasciato un biglietto» disse porgendogli un foglietto di carta igienica piegato. Il messaggio, privo di firma, diceva IMBROGLIONE. Senti da che pulpito. Esperta del ramo, eh? «Ci capita un sacco di gente così» disse gaio l'impiegato. «Il mondo è bello perch'è vario.» Mentre percorreva la strada indaffarata in direzione di un grande ristorante appartenente a una catena i cui gestori durante la guerra l'avevano foraggiato di crostatine alla frutta monoporzione, compose a suo pro la seguente litania: 

Fornicatore frollo, 

Trastullo di tapini tavernieri, 

Picchiatore di perverso pataccaro, 

Carpitore di copricapi, 

Massacratore di mobilia, 

Mentitore a mansalva, 

Propalatore di pecunia posticcia, Sbafatore a sbafo, Preda per noi. 

Rimase sorpreso nel rilevare, da un orologio esposto da un orologiaio, che erano quasi le undici e mezzo. Affrettatosi a raggiungere il grande ristorante scoprì affascinato che una maniacale sorta di compartimentazione aveva reso impossibile - a chiunque prendesse le cose alla lettera - fare un pasto completo ed equilibrato. C'erano infatti una bottega dell'aroma espresso, un tempio della sublime bistecca, un emporio della pollastrella in gratella, uno spaccio della patata esagerata (Patatone a Vapore Smezzate e Imburrate), un salottino del divino pasticcino e, persino somigliante a una giungla, un posticino denominato Dove Osano i Lattughiotti. Edwin finì per reperire una Caffetteria Pickwick, s'assise al banco s'uno sgabello premeditatamente scomodo e investigò il menu delle colazioni. «Dalle sei di mattin pel mattiniero a mezzodì per chi dorme come un ghiro» proclamava. Bravi ragazzi. Prese l'ordinazione una ragazza stanca (niente colazione Pickwick per lei) con in capo un eminente cappello da cuoco. Edwin optò per biscotti d'avena allo sciroppo d'acero, eglefino con due uova in camicia, salsicce di maiale e pancetta affumicata con rognons sautés, focaccine tostate e imburrate, marmellata, bigonce di caffè. Dalla parete svariati personaggi picuicchiani gli rivolsero sguardi d'approvazione. La vista di Sam Bilabiale Fricativa-eller gli riportò alla mente quel suo articoletto sull'inglese popolare. Soprassediamo. C'era tutto il tempo. Nel frattempo onore e lode all'esercizio sessuale, benemerito promotore di cotanto appetito. Edwin fu contento di notare un vivace traffico di rompidigiuno e una ritirata targata UOM in sito opportuno. Avanti tutta. 

Mangiò a quattro palmenti, ruttando un ricco contrappunto d'aromi in conclusione. Diede fondo al caffè, accese una sigaretta, e vide la cameriera affaccendata con una gigantesca caffettiera esalante un borborigmo soffocato. Si alzò dallo sgabello e andò al cesso. Ivi si tolse parrucca e cravatta, inzeppandosele sotto la camicia. Poi sortì claudicante, ottuso e attempato, impugnando uno scopino da latrina. Ci mise il tempo che ci voleva, indugiando perfino a lanciare occhiate d'affamato biasimo agli sdigiunatoli Zoppicò quindi sino alla porta, scrutò a dritta e a mancina tremolante, titubante, arrancando lentamente raggiunse l'angolo e lo svoltò. Facile, anche troppo. E ora era ora di portarsi all'Anchor, indossando occhiali scuri per celarsi all'occorrenza a Bob, e là finalmente indubbiamente l'incontro con Sheila, preoccupata e innamorata, dettagliatamente ragguagliata, ma forse adesso lieta di sapere che suo marito era guarito. Guarito? Poteva dimostrarlo. Ricomparsa del desiderio. Sconfitta della parosmia con recupero delle normali facoltà olfattive. Niente più mancamenti. E il futuro? Non diciamo sciocchezze, il futuro non esiste. Vivere alla giornata era massimamente stimolante e straordinariamente agevole, filosofeggiò, sloggiandosi con una linguata da un dente posteriore un cartilagineo rimasuglio di salsiccia. 

Aveva tuttavia necessità di un poco di denaro: quanto bastava per una pinta se Sheila tardava a capitare o magari rimaneva latitante l'intera giornata. Non c'era poi mica tutta quella fretta quanto a Sheila, dopotutto. Edwin vide una biblioteca pubblica, edificio vittoriano sconcacato dai piccioni e corroso dalla fuliggine, e vi entrò. Nell'atrio non mancavano gabinetti a destra e a manca, quindi Edwin ne occupò uno e ruscello una pinta o giù di lì di diuretico caffè, si rincalcagnò la parrucca, si riannodò la cravatta, e fu pronto a commettere un nuovo atto di microcriminalità. Ammesso che lo fosse. Giacché, sebbene si apprestasse a prendere, aveva anche donato: i cessi dei signori possedevano adesso due scopini da latrina. 

La Sala di Lettura in cui s'introdusse sfoderava travi a vista e un'aria sinistra. Uomini male in arnese fronteggiavano in piedi i leggìi dei giornali come al sizio o al supplizio; qui dovevano soccomber sin l'arguzie più sottili dei romanzi d'appendice, le notizie di conti divorziati divenire oscenità. Anziani seduti su file di panche da officina leggevano dentro robuste copertine di tela, del colore dei libri di preghiere con sbiaditi titoli dorati, Il Diciannovesimo Secolo e Oltre, La Gazzetta dell'Intenditore di Pollame, Registro degli Atti Giudiziari, Il Trimestrale dell'Avventista del Settimo Giorno, Blackwood's, L'Organista di Chiesa, Suinicoltura casalinga. Un vecchio immerso in Punch scoppiò, chissà perché, in una risata sgangherata. Edwin raggiunse gli scaffali dove ammuffivano l'Encyc. Brit. e le Navi da guerra di Grove e Jane. Scelse un manuale d'araldica abbastanza recente dalla copertina incontaminata, con le pagine nient'affatto deturpate dal marchio della biblioteca. Il risguardo presentava il numero d'acquisizione ma mancava l'ex libris. Edwin si cacciò senz'ambagi il volume sotto il braccio e, pianin canterellando a bocca chiusa come un vecchio al sole, zonzerellò dintorno ai quotidiani per sbirciarne i titoli. Un altro popolare cantante adolescente, apprese, era stato strapazzato dalle giovani ammiratrici; uno spacciatore d'orologi di contrabbando - disgraziatamente non Bob - era finito in galera; si prevedeva un inverno rigidissimo; il presidente americano voleva la pace. Interessante. Senza fretta, seguitando pian pianino a canticchiare, Edwin uscì dalla Sala di Lettura e rientrò in bagno. Ove strappò accuratissimamente il risguardo e si accertò, esaminandolo a lungo, che adesso il manuale non tradisse appartenenza alcuna. Abbandonò l'edificio con l'araldica sottobraccio e cercò una strada di libri d'occasione. Nel negozio d'aspetto più losco trovò un tizio irrequieto ed equivoco con tre paia d'occhiali. Edwin chiese quindici scellini. «Ho scoperto» disse «di averne già una copia in biblioteca. Neppure all'appassionato più insaziabile ne serve più di una.» Mosse obiezioni all'offerta di cinque scellini ma finì per accettarla. 

Com'era facile la vita in questo mondo, in questa grande Londra innocente e fiduciosa. Un ritorno alla natura, con frutti che crescevano ovunque pronti a esser colti. Soltanto un dissennato, parliamoci chiaro, avrebbe riabbracciato il compito ingrato d'insegnare linguistica sotto il sole birmano. Gli rimaneva dunque da decidere se avesse smarrito del tutto il ben dell'intelletto.

24 

«Ecchelo qva!» esclamò Harry Stone cazzottando forte Edwin non appena mise piede nel locale. «To' tiafolo se' stato? Scvagnattela a 'sto moto senza pimmesso co' tutta 'sta lercia città che te va ceccanno tappettutto.» Leo Stone e Les scoccarono sguardi di rimprovero, e così pure vari altri presenti pur non appartenenti alla cerchia entro cui Harry Stone scatenava le sue virulente lamentazioni. «Mo te pigni 'na mezza,» disse Harry Stone «'na zozza mezza soltanto, e topo te rinchiutemo su da noi, e chissenefreca se ce stano qvele tu' pucchiacchette tetesche. Ecco, vede» disse rivolto a Les «che nun ce se putiva fità de te, maiala. Te l'avemo tato ta cvartallo e ch'è successo? Ha lagnato la corta e gna fatto li porchi comoti sui finora ch'è qvasi le tre ch'è l'ora de chiute.» 

«Senti,» disse Les «non è certo colpa mia. L'uomo nasce libero ed è ovunque in catene, come osserva J.B. Priestley. E assolutamente indegno segregare un uomo contro la sua volontà. A mio modo di vedere, la decisione spetta al buonsenso di ciascheduno. Se un individuo non ravvisa motivo di starsene recluso, allora nessuno può farci nulla.» 

«Ma qvesto» replicò Harry Stone tutto fremente d'indignazione «è nu caso particolare. 'Sto malantrino nun vole o nun pole intente racione, poccaccia. Nun fete l'impottanza de tené ar sicuro qvela capa calfa fino a stasera. Figurate te» disse, levando lo sguardo sulla parrucca di Edwin. «Tiosolosà che gna lassiato capità, maiala. Tamo 'nocchiata.» Fulmineo sbarazzò Edwin dei suoi riccioli per quindi torneare siccome una pantera torno torno la testa nuda. «Cià pisogno t'una pella arpassata» constatò «ma sinnò sempra tuttaposto. Ropa ta nun crete, a penzà ch'è stato fora tuttanotte a fa tiosolosaché. Su, movete» disse brusco tonfando Edwin. «Scolate 'sta schifa mezza e topo fiene co' Leo e io.» 

«Leo e me.» 

«Leo e io. Fenco anch'io, maiala, che te crete?» Al che Edwin venne immediatamente scortato fuori del locale dai gemelli Stone, un monozigote tenacemente avvinghiato per fianco, col cane Negro caracollante e latrante tutt'intorno. 

«Mia moglie» disse Edwin. «Che ne è di mia moglie?» 

«A tu' mogne c'è toccato racontagne nu sacco de porche fandogne» rispose Harry Stone. «Pe' protecce 'testa testa 'nfista de stasera.» 

«Allora l'avete vista?» chiese Edwin divincolandosi nel tentativo di affrancarsi. «Dov'è che l'avete vista?» 

«Al momento si trova all'interno della sala interna» rivelò Leo Stone «impegnata a sbevazzare con quel tanghero con la barba.» Edwin si dibatté più forte e il cane gli ringhiò. 

«Nun tofefi tignelo, Leo» disse Harry Stone. «Mo se acita e gne fa pegnente bene a qvela crapa. Sient'ammé» fece in tono amareggiato. «La tu' donna nnè pegnente amica tua. Lo sai ch'è suzzesso? È annata a l'ospitale peffeté come stafi, e gnanno tetto che te l'eri sqvagnata e ch'erano tutti 'nsacco peroccupati. E allora la tu' mogne fole annà tala pula pe' fa mette nu cortone de pietipiatti tuttontonno la città pe' nun fatte scappà, pocca troia. Gne fole ti' che se' piricoloso pe' fatte achiappà e rispatte là drente.» Con un fremito della spalla destra accennò approssimativamente in direzione dell'ospedale. 

«Oh» fece Edwin. «Davvero l'ha fatto?» 

«Sì» confermò Harry Stone, e con un velenoso concentrato d'amarezza, afflizione, disgusto - fiele, assenzio e aloe distillati nella loro intima essenza a formare un unica parola digrignando i denti disse: «Tonne.» 

«Ma dove sei non lo saprà mai» intervenne Leo Stone. «Quanto meno fintantoché non sarà troppo tardi. Non potrà uscir dalla sala dell'Anchor per un bel pezzo ancora.» 

«Perché? Com'è possibile?» 

«Ma che te creti» disse Harry Stone «che io e lu semo cretini come te pure se te se' nu fottuto prufessó? Ma 'stocchi ter cafolo che li tieni a fa'? Nnai fisto qver camione 'ncastrato ner ficolo che nissuno pole uscì e nimmeno entrà e che tutti li crienti che stano nela sala so' 'ntrapolati pe' chisà qvanto tempo? Pecché la potta tela sala» spiegò scrollando Edwin «sta 'nto ficolo, no? C'è cente che occi pomericcio nun pole armà a lavorà» soggiunse mestamente «si qvel'autista se comporta come se teve.» 

«Però,» obiettò Edwin «se potessi spiegarle, se potessi mostrarle… ormai sto bene, capito? Sono guarito. L'ho sempre saputo che l'operazione non era davvero necessaria. Se solo potessi spiegarle…» Ma forze soverchiami continuavano a distanziarlo inesorabilmente da sua moglie. «C'è un telefono là?» domandò. «Se potessi parlarle…» 

«Gnente telefono» ribatté Harry Stone. «Ce sta solo la capina da l'antra parte de la strata, e nissuno ce pole arifà. Atesso nun te priocupà de gnente fino a stasera, chiaro? Ciavrai tutto er tempo de priocupatte topo c'hai finto er premio, e a qver punto nun ciavrai gnente ta preocupatte.» 

«Che razza di menzogne le avete raccontato?» chiese Edwin. 

«Poca roba» rispose Leo Stone facendo spalluccia con la spalla sinistra. «Le abbiamo detto solo che hai trovato rifugio presso una vecchia bagascia dalle parti di Stepney. Una rancida mignotta materna, le abbiamo detto, che s'è incapricciata di te. Ma le abbiamo anche detto che esci ogni tanto a prendere una boccata d'aria e che non stia troppo ad angustiarsi. È stato a quel punto che ha cominciato a dire che voleva rivolgersi agli sbirri.» 

Erano giunti a un'elevata facciata in stile reggenza, aristocratica ma in decadenza, la cui pristina unità famigliare era stata miserabilmente sminuzzicata in innumerevoli loculi locatizi. «Eqqveqqvà» annunciò Harry Stone stomacato. «Ecco tof'è che fifemo ner tisacio più estremo.» 

In vetta a due rampe di nude scale ove l'originale tappezzeria stile reggenza languiva pendula, scarabocchiata e scortecciata dalle pareti della tromba, pervennero a una porta da gran pezza deprivata della dipintura avita. All'interno regnava un'alta e vasta stanza contenente due letti. In un letto giaceva Renate, nell'altro due fanciulle pettopiatte che Edwin rimembrava da quella domenica pomeriggio al circolo, le germaniche pischelle che gli avean recuperate le pianelle. Loro si godevano in silenzio un sonno quieto e redditizio; lei stronfiava e borbogliava con cadenze irregolari. «Cvarta che ropa» disse Harry Stone nauseato. «Sfégnate» urlò «maletetta troia tetesca», e sollevato atleticamente un piede lo vibrò ad appioppare una pedata nel deretano saliente di Renate. 

«Non far così» protestò Leo Stone. «Ricorda che sono io a vivere con lei, mica tu.» Ma non lo disse in tono aspro. 

«Stè schezzanno?» replicò il gemello. «Co' le' ce fifemo tutt'e tu', tiociaiuti, e se te va poi pignalla a carzi pure te.» E si volse come colto da conati. 

Renate si svegliò, obnubilata, con gran schiocchi di fauci. «So» disse. «Wieviel Uhr?» 

«È l'ora che t'arzi da qver porco letto» rispose Harry Stone «e metti qvarcosa sur fonnello. È talla colazione te tomenica che noantri nun manciamo gnente.» Quanto ai gemelli Stone, pensò Edwin, doveva trattarsi della pura verità; ma, avendo di nuovo fame, non si dissociò dal comune accorato appello al nutrimento. Renate sedette sul bordo del letto squassata dagli sbadigli, coi grossi teutonici seni ciondolanti e ballonzolanti e i piedi callosi piantati sul pavimento nudo. Finito di sbadigliare parve riconoscere Edwin. «Sei tu, mio caro» disse annuendo. «Cinque sterline di doppel gin ieri sera ho sì bevuto.» Scosse il capo come colta da stupore. Poi s'infilò le scarpe e un soprabito da uomo - probabilmente intercambiabile fra Leo e Harry - e prese con indubbio garbo a occuparsi del desinare. 

Edwin s'accomodò sul letto adesso sgombro e volse lo sguardo per la stanza. Una bella finestra stile reggenza s'affacciava sulle antenne televisive e sul cielo autunnale. C'erano un cassettone e un armadio, entrambi del genere che fuor d'un negozio di rigattiere è possibile vedere a fianco d'un sontuoso radiogrammofono a sette sterline i cui belati ricordano quelli d'una vecchiarda che vorrebbe imitare la parlantina delle giovincelle. C'erano una stufa a gas e un fornello a gas e un contatore. Renate girò la manopola del fornello, ma mente sibilo; accese un fiammifero, ma niente fiamma. «Uno scellino» disse «serve.» Le si rivoltò Leo Stone qual uom dal collo scavezzo e replicò: 

«Qui ieri c'era una catasta di scellini. Che diavolo ne hai fatto, eh? Che fine ha fatto quella caterva di scellini che avevo raggranellato, sovente mendicando carponi in questo quartiere di morti di fame l'elemosina di qualche fottuto soldino per vecchie zitelle indigenti sull'orlo dello sfratto, patendo inenarrabile tormento e umiliazione di fronte ai frequenti dinieghi, eh?» Era questo un novello Leo Stone dal favellar spogliato di posticce inflessioni teatrali e mercantili. Dinoccolato s'appropinquò alla druda come una scimmia guatandola in tralice, braccia tese e mani adunche. «Scellini, scellini, scellini» declamò in crescendo. «Quanto andrebbe destinato a energia elettrica e riscaldamento e alimenti se ne va in gin. Non è forse così? Gin. Quante mai volte son rincasato stremato e anelante ai conforti e al nutrimento cui ciascun uomo ha diritto senza distinzione di colore e confessione per invece trovare il gas stutato e non il becco d'un quattrino per spillarne? È dunque questa la ricompensa spettantemi per aver coccolato e rimpinzato qualcuno che è, a buon diritto e a rigor di termini, il nemico? Il nemico, sì, perdio. Giacché la casa della schiavitù dei tempi moderni fu l'esecranda Germania. Ah, ja, ja, ríchtig . Ed eccola qui la stramaledetta, quantunque abbattuta e disfatta, crogiolarsi nel lusso impinguata e viziata dall'ebraico sudore, abominevole cagna scellerata interamente dedita a dissipar gli scellini del gas tramutandoli dal primo all'ultimo in gin per sé medesima turpe ubriacona buzzona mangiacrauti abietta specie di vecchia baldracca ignominiosa sorta d'inetta carogna nefanda razza di scioperata lazzarona scrofa immonda e ripugnante puttanaccia che non è altro.» Riprese fiato. Harry Stone disse: 

«Ce metto la fimma.» Le due rampolle di stirpe germanica dormivano profondamente immerse nell'estasi del mito: l'anello nella foresta, il drago guardiano e il fulgido eroe con la spada. Replicò Renate alzando la voce: 

«Ach, giudeo. Porco giudeo. Grasso di porchi giudei buono per concimare terra tedesca. Nient'altro.» 

«Ritira quel che hai detto» disse Leo Stone facendosi più dappresso. «Ritratta questa perfida calunnia se non vuoi che ti sgozzi immantinente con la coltella del pane.» Minaccia che non mancò con ogni evidenza d'intimorir Renate. «Avanti,» la spronò 

Leo Stone agguantando il bavero del soprabito «rimangiati l'infamia.» 

«Porco giudeo, cane d'un giudeo» rincarò Renate. «Grasso giudeo buono per sapone per lavare porcili.» Leo Stone, il volto infiammato dagli odi ancestrali del suo popolo, disse: 

«L'unica gente in gamba che avete mai avuto in Germania erano ebrei. Ammettilo!» 

«No, no. Giudei maiali. Oh» disse Renate sentendosi strangolare da due ferree mani. «Sì, sì, giudei buoni, giudei bravi. Ora basta, porco giudeo. Giudei buona brava gente in gamba sì.» 

«Tu» ringhiò imbelvito Leo Stone rivolto a Edwin. «Tu che sei istruito. Chi furono i grandi tedeschi? Scrittori e via dicendo?» 

«Oh» fece Edwin. «Sentite, ecco qua due begli scellini. Accendiamo quel che c'è da accendere, per amor del cielo.» Harry Stone si fece avanti e acquisì le monete con aria cupa. Appicciò la stufa a gas. I minuscoli pilastri fiammeggianti sibilarono emettendo un confortevole chiarore. «Dunque,» disse Edwin «vi furono Goethe e Schiller e Heine. E Kotzebue e Wagner e Schumann. E Nietzsche e Kant e Schopenhauer e 

Beethoven. E Hans Sachs e Martin Lutero.» 

«Ed erano tutti ebrei, vero?» incalzò minaccioso Leo Stone. «Ognuno di quei bastardi tedeschi era ebreo. Ammettilo, di' di sì, sanguedigiuda, o t'ammazzo.» 

«No, no» negò Renate. «Sì, sì» si sbrigò a palinodiare. «Tutti giudei. E Hitler un maledetto porco schifoso. Giudeo anche lui.» 

Ammansito, Leo Stone mollò l'abbranco e ammainò le mani. «Tanto per mettere in chiaro chi comanda» disse. «Qui non vogliamo subbugli, sul serio. Vogliamo amore e pace e armonia, in ossequio agli antichi ammaestramenti. Vogliamo scellini nel contatore e un pasto caldo pronto quando lo chiediamo. Adesso datti da fare.» Il fornello emise sibilando il suo veleno. Renate attizzò il bruciatore. Leo le depose un bacio s'una guancia. Incidente chiuso. 

«Pinzafo» disse Harry Stone «che se putrebbe usalle qvele due.» I suoi occhi afflitti e meditabondi puntavano le sorelle addormentate. Edwin disse: 

«Oggi pomeriggio il circolo non apre?» 

«Stè schezzanno?» insorse Harry Stone. «Dopo le 'mprofisate de' pietipiatti? E te che se' sfinuto e gnai messi 'nsospetto? Toccherà stassene chiotti pe' nu poco.» 

«Credo di capire che vuoi dire» disse Leo Stone. «Metterle in ghingheri e utilizzarle come una specie di damigelle d'onore. E lui potrebbe impugnare una sorta di scettro e trainarsi appresso uno strascico. Tipo incoronazione.» 

«Ciusto» approvò Harry Stone. «Putrebbe annà pene qvela tenta là.» E in effetti un bel taglio di stoffa tarmangiata che pareva flanella rossa penzolava raccolta all'estremità di una guida fissata in cima alla finestra. 

«Quelle ragazze» disse Edwin. «Di preciso che fanno?» 

«Be', ti dirò,» rispose Leo Stone «lavorano di notte, ecco. Che lavoro sia veramente non lo sappiamo, però lo fanno assieme. Due brave ragazze, a pigliarci confidenza. Le chiamiamo Lili e Marlene.» Mamma Renate nel frattempo friggeva un qualche agliaceo intruglio intonando: 

«Mit blankem Eis und weissem Schnee 

Weihnachten kommt, juchhe, juchhe !» 

E al solo nominar Natale si mise a piangere in silenzio, sfrigolante stillicidio di lacrime dentro la padella, pensando a Gesù Bambino e alle candele, alla silente notte innevata e all'acciottolio dei boccali di birra. Scendeva la sera, vellutata intimità rischiarata unicamente dai due focherelli del gas in combustione. «Cristo,» disse Leo Stone «quasi dimenticavo. Devo provare. Mica una cattiva idea, in effetti, fare una prova lui presente.» 

«Sottanto la cazzone?» domandò Harry Stone, porgendo al gemello un bastone da passeggio. 

«Soltanto la canzone. Il resto posso improvvisarlo. Sai, una cosa tipo: spiacente d'essere un tantino in ritardo, gente, ma via facendo ho trovato un traffico da giorno del giudizio. Roba del genere. Viene abbastanza facilmente. Luci» ordinò. «Musica.» La musica mancò all'appello, ma Harry Stone accese l'unica, disadorna lampadina, e l'intima atmosfera della stanza accusò il colpo. Le sorelle dormienti si agitarono, si lamentarono, si accigliarono. In rauco cockney vecchio stile Leo Stone cantò: 

«Er mi' vecio 'gni sera quarchessia Se n'esce panna lesto a l'ostaria. Passa'a notte a trinca com'un dannato Facenno fora er salario sudato. Mamma lo sa che quanno torn'a casa Lu' come 'na ciavata la strapasa. 

Poi c'è caso che dia 'nallisciatina Ar piccolo Jack sur tavolo de cucina. 

______ 

Anche a zio Joe se lo piglia lo scianca E zia Mabel difficile che scampa. 

Noi pupetti starno de sopra a nanna Ma lo sapemo che pe' poco nu li scanna. 

E quanno lo sentimo montà 

Tutti quanti cominciamo a strillà:» 

«E atesso» disse Harry Stone «tutt'insieme er ritonnello.» Leo Stone stornellò, esibendosi nel contempo in una rudimentale danza del bastone: 

«S'è sbronzato, s'è ubriacato, 'Nantra vorta s'è inciuccato. Se n'è gito a l'ostaria Propio ar fonno de la via. Ha cioncato a catinelle E mo ride a crepapelle. 

S'è ciurmato, s'è inzuccato, 

'Nantra vorta s'è sborniato.» 

Dopodiché, in difetto d'uno scellino, la luce si estinse, e Leo Stone si ridusse a un'ombra che sullo sfondo della stufa balzava e berciava reiterando il ritornello. «È pronto» annunziò Renate. «È pronto da mangiare, miei cari.» 

«Pisogna tagne 'narpassata cor rasoio a 'testa capa» si lagnò Harry Stone. «E non c'è luce. Luce, luce» gemette. «Oh, poia d'un monto latro.» 

Stanato dalla fragranza del cibo pressoché invisibile che Renate scodellava in quattro piatti, il cane Negro strisciò fuori di sotto il giaciglio delle fanciulle guaiolando e sgranchendosi. Le ragazze si rigirarono all'unisono come eseguendo anch'esse un numero comico, e s'intravide appena lo scapigliarsi dei loro caschetti all'eschimese. Dormivano sodo. Negro invece scodinzolava stuzzicato dall'aroma complicato d'aglio, salsa di pomodoro, grasso arsiccio, fagioli stufati, pane raffermo soffritto, tocchetti di pancetta e formaggio sbriciolato. Pose il mento s'un ginocchio di Leo Stone come su di un violino e sollevò lo sguardo adorante nel chiaror della fiamma. Per lui le aspre parole del padrone e dell'amante del padrone erano state invece un'armonia di flauti e viole. 

«Qvelle tue lì a cuccia nnanno gnanca un sordo pe' la luce?» domandò Harry Stone. «Tutta la pocca notte ar ciro e nnacattano 'na sfanzica.» Ritto accanto al caminetto, inforcava cibo nel piatto tenebroso. «Se pole sapé nnometetio che razza de laforo fano che nnarportano 'nqvatrino?» 

«Di giorno dormono» rispose Renate. «Durante il sonno denaro non si spende.» «Ma che razza de laforo fano?» insisté Harry Stone. 

«Per la loro madre lavorano» disse Renate, e parlò, struffando il piatto col pane, con materno orgoglio. «Lavoro duro, poco denaro, ma non mi arrabbio se ogni notte abbastanza per una bottiglia di gin riportano. Mi contento, perché madre snaturata non sono.» 

«CHE TIAFOLO FANO?» sbottò Harry Stone infilzando la forchetta nel muro. 

«Che potrebbero fare?» replicò mamma Renate. «Istruzione per colpa della guerra crudele non hanno. Poco inglese parlano. Ma di notte a Londra lavoro per ragazze volenterose di corpo si trova. Sgobbano tosto, e a volte soltanto pochi scellini mi portano.» 

«Ssellini» disse Harry Stone con amarezza. «Ssellini pe' la luce e pel cas, e tefi spenneli tutti in cin.» Ma brancolò dattorno in cerca di un rasoio, portò dal pianerottolo una latta d'acqua fredda, quindi ordinò a Edwin di accostarsi alla stufa. La rasatura venne effettuata con cura, pur se paziente e agente dovettero entrambi accoccolarsi presso le colonnine fiammeggianti. Un'amena serata casalinga: due teutoniche sgualdracche a letto, la genitrice lor che si ciucciava i denti, Leo Stone chiassosamente incessato sul pianerottolo, Negro intento alla lavanda di piatti e padella, Edwin diveniente liscio come un uovo accanto al fuoco. «Fantastica, nun c'è che tì» disse infine Harry Stone tastando il cuoio scapelluto di Edwin con dita da frenologo. «Si nun fai strullate, stasera con 'testa farai fafille.» 

25 

Dei suoi cinque scellini adesso residuavano a Edwin solamente quattro penny. Tre uomini e un cane con appena quattro penny in tutto dovevano raggiungere un cinematografo all'altro capo di Londra. Gli toccò di conseguenza andare a piedi, ma pareva indubbio che disponessero di un sacco di tempo, e Edwin era in possesso di un mucchio di sigarette. Si deliberò di utilizzare i quattro penny nell'acquisto d'una leccorniuccia per Negro. Discussa che ebbero la cosa e scrutato nelle vetrine di macellerie economiche, finirono per comprare un po' d'ossa con appiccicato qualche brandello di carne. Negro ricusò qualsivoglia commercio con tale mercanzia. Harry Stone riconsegnò a brutto muso le ossa al macellaio proferendo sprezzanti considerazioni circa la loro qualità e ottenendo la restituzione dei quattro penny, quindi procedette all'acquisto di un'attempata testa di pesce presso un pescivendolo in procinto di chiudere. Negro ci si trastullò per buona parte del tragitto. 

Sorgeva una luna da favola. Nell'avanzare con la prua a levante parlarono di tante cose. Maniere legittime per far soldi: avviamento d'una fabbrichetta di sigarette approvvigionata a mozziconi raccattati; organizzazione di visite guidate notturne per turisti americani; utilizzazione di Leo quale stallone da monta; vendita di vecchie molle letterecce a guisa d'antenne radiofoniche; preparazione casalinga di patatine fritte; realizzazione di una crema per il viso a base di grasso di cavallo; addestramento di Negro in funzione di giocoliere; esercizio della chiromanzia; ritorno di Leo a calcare le scene; smercio di polvere gabellata per tabacco da fiuto; vendita di idee a grandi aziende (un frigorifero con sportello posteriore, fiammiferi bicefali per risparmiare legno, una macchina solleticatrice, spruzzatori d'acqua tiepida per tazze igieniche); espulsione di Renate e sfruttamento meretricio delle sue due figliole a esclusivo beneficio degli Stone; impianto d'una tavola calda a prezzo modico con pane a volontà; commercializzazione di placchette commemorative del Golden Hind , valore mezzo penny, cedute in busta a nove penny cadauna ai turisti di Westminster; intrapresa del canto di strada in veste rispettivamente di cieco e di storpio; reclutamento, presso la stazione di King's Cross, di fanciulle abbandonate da avviare al marciapiede; spaccio di costose boccette di profumo colme di Soir de Stoke-on-Trent; allestimento d'uno spettacolo da baraccone con Edwin nel ruolo dell'uomo famelico; diffusione d'una terapia antifumo (sigaretta inaccendibile); mercimonio del corpo di Leo ad usum delle checche; un buon lavoro onesto. Vecchia Londra: le porte della città da ovest a est, da Ludgate a Aldgate; Finsbury Fields; chiesa di St Olave; Thames Street e Fleet Ditch; lampioni a gas e anguille in gelatina; Jack lo squartatore; Sweeney Todd ; la principessa nella torre; difficoltà di trafugare i gioielli della corona. Omicidi classici; il truffatore gentiluomo del buon tempo antico; un percorso per allargare le vedute. E a ogni pié sospinto Negro non desisteva dal sollazzarsi con la sua testa di pesce, giocondo come la luna in cielo. 

Fu Negro, quantunque non per colpa sua, a cagionar l'inciampo che per poco non guastò la serata. Lui e i suoi padroni e Edwin distavano soltanto una strada o giù di lì dall'agognata meta allorquando si verificò il fattaccio. Avevano raggiunto una contrada già ben nota alla stampa internazionale quale arena d'antagonismi razziali, un quartiere singolarmente sguarnito di forze dell'ordine con marmaglie perennemente stazionanti sulle soglie e nei cantoni. «Fe sconciuro racazz'in cappana» raccomandò Harry Stone ai compagni. «Qvi anatece co' pieti de piompo. Nun tite gnente, nun fate gnente. Efitiamo cvai, stasera sopratutto.» Edwin scrutò con interesse una ciondolante accozzaglia di giovinastri dalle fronti scimmiesche e dagli orrendi ceffi patibolari stile museo delle cere ma dalle vesti e dalle acconciature, per contrasto, assolutamente decorose. Indossavano giacche lunghe come corti soprabiti militari, pantaloni di foggia tipo Secondo Impero, calzature soprelevate su multiple stratificazioni suolesche. Le chiome s'ammonticchiavano vertiginosamente sulle teste senza peraltro venir controbilanciate da poetici cravattoni; in luogo dei quali figuravano infatti rudimentali cravattucce, mere fettucce. Vero e proprio dandismo collettivo, rifletté Edwin, una demenziale sintesi di ribellione e conformismo. «Smettela te spircialli accussí» ammonì Harry Stone. «Qvelli nun ce metereppero gnente a sparazzasse de noi.» Ma poi com'è come non è avvenne che l'allegro corvettante Negro se ne andasse a caracollare, con la testa di pesce fra le fauci, un po' troppo accosto la razzumaglia, sicché una di quelle giovani canaglie lo scacciò allungandogli una pedata. Negro, ancorché indenne, uggiolò di sorpresa e paura, e abbandonato il vestigio ittico ruppe in fuga. «Fercogna e tistoro e pestefecolca» deplorò Harry Stone inveendo a voce alta. «Atto integno e infamia apominefole e oppropriosa fignaccata che nnè antro e tiofefurmini fil razza tannata pignassela accussí co' nu pofero cane 'ntifeso, tiè.» Nel frattempo Leo Stone, sconvolto dal folle panico dell'inerme bestiola atterrita, le corse appresso berciando: 

«Negro! Negro!» 

Il caso malauguratamente volle che tre autentici negri delle Indie Occidentali sortendo in quel preciso momento dalla loro stamberga stipata d'esuli scorgessero un bianco ora piantato nel bel mezzo del selciato e lo udissero formulare stentorea la seguente ingiustificata ingiuria: 

«Negro! Vieni qui, stupido bastardo!» 

Edwin vide i tre negri - eleganti individui in impermeabile e cappello floscio di feltro - avanzare su Leo Stone. Ne avevano abbastanza del ludibrio dei bianchi; avevano imparato che ignorarlo equivaleva pari pari ad attizzarlo. Furon raggiunti da altri due della lor genia provenienti da un'altra abitazione, essendo che l'invocazione di Leo aveva fatto rizzar loro le orecchie. Frattanto i sette zotici damerini si stavano più lentamente e con assai minor garbo apprestando a liquidare Harry Stone. «E l'è» disse Harry Stone «'na fignaccata artretanto 'gnomignosa prennesela co' me. Posso sfitaffe tutti qvanti uno pefforta ma no tutti qvanti tutt'assieme, se capisce.» La logicità dell'argomentazione non era tale tuttavia da far breccia negli aggressori, appartenendo la norma dell'equa e leale competizione a un codice ormai obsoleto. Leo Stone andava d'altro canto illustrando, sinceramente turbato e contrito, che egli aveva semplicemente chiamato il suo cane e nulla di più, stante la circostanza che tale cane rispondeva al nome di Negro per via del suo colore. La delucidazione non parve sortire l'effetto desiderato. «Sentite,» disse Leo Stone «vi proverò la veridicità di quanto sostengo. Lo richiamerò. Guardate, eccolo laggiù.» E disperatamente, veementemente, Leo Stone lanciò di nuovo l'aborrito appello. Ma Negro non rispose; volse avvilito lo sguardo arretro, la coda fra le zampe, certo un bell'esemplare canino, però mica tanto sveglio. 

Edwin alternò disorientato l'attenzione da un gruppo all'altro. I gemelli andavano convergendo e altrettanto i rispettivi perseguitori. Indioccidentali e tangheri bianchi si apprestavano probabilmente a patir loro malgrado lo smacco d'una tregua imbarazzata. Finirono per trovarsi faccia a faccia, sostanzialmente impreparati allo scontro, e d'un tratto si girarono sorpresi udendo la mite voce professorale di Edwin dichiarare: «Ciò è palesemente destituito di senso, non vi pare? Si è trattato semplicemente di un paio d'errori, nient'altro. Suggerisco a tutte le persone coinvolte di lasciar perdere e tirare innanzi.» Harry e Leo Stone si scambiarono cenni, Leo parti di gran carriera, e sia bianchi sia neri constatarono d'apparecchiarsi a uccidere o menomare o altrimenti sgominare il medesimo soggetto. Era dunque stata un sogno collettivo la convinzione che quell'uomo fosse per qualche istante esistito in duplice copia prima che quell'altro individuo principiasse a parlare? «Eqqveqqvà» disse forte Harry Stone sfoggiando una sorta di timorosa gaiezza «ferita massa te spocchi fignacchi. Nun contetti de scanaffe fra te foi, mo fe la pignate tuttetua co' nu pofero ciutíetto. Afanti maramalti» disse. «Pianchi e neri 'ncomputta pe' 'sto scopo apietto.» Un becero bianco brandì una catena di bicicletta e un negro replicò lesto esibendo un coltello. In mezzo secondo vennero alle mani. «Pene» disse Harry Stone a Edwin. «Lassamoli fa.» Spiccarono la corsa, lasciandosi alle spalle i clamori della battaglia in corso, e poi Negro riacquisí tutto d'un tratto la sua baldanza e disciolse ardimentoso l'ugola in un latrato poderoso. Aveva smarrito, ma forse ormai dismemorato, la sua testa di pesce da quattro penny. 

Galoppato che ebbero per un isolato si fermarono spompati e trovarono ad attenderli Leo che stava giusto riprendendo fiato. «'Na fortuna fottuta» disse Harry Stone. «Tepisti contro ciutii e necri contro ciutii e mo necri contro tepisti. Pori ciutii ter cafolo» disse. «Tutto er monno 'nfame gnè stato contro fino da l'inizio. Li eciziani e li papilonesi e li filistei e mo sti carognoni qvi.» Harry Stone spalancò le braccia a mo' di profeta ollivudiano. «Che male» domandò al monte Sinai «gnafemo fatto a qvei pastarti? Qvanno sarà mai, tiopono, che li ciutii sarano finarmente liperati da la casa de la tripolazione? Qvanto ancora ce vorrà, maiala?» Il cane Negro, tornando a incontrare Leo Stone, si fece giocherellone, e abbaiando implorò il padrone di ruzzare a rincorrersi. Leo Stone sbraitò: 

«Negro! Negro! Stupido bastardo!» Detto fatto comparve un negro col berretto, pencolante, propellente innanzi a sé come petali floreali l'alito saturo di rum. «Amico,» disse «non hai il diritto di dire ciò che hai detto.» Un corps de ballet di negri si apprestava, Edwin ne era certo, a scaturire dalle quinte. Edwin disse: 

«Chiamava il suo cane. Che in tenera età si chiamava Melampo, ma non era un leone, si noti la litote, ed essendosi mostrato inadeguato a far da guardia e anzi semmai propenso socievole com'era a tollerar presenze indesiderate anzichenò, deciso a eufemisticamente dare il benservito a cotanto mangiapane a tradimento un bel giorno metaforicamente fuor dai gangheri il suo datore di lavoro spietato impastoiato lo tradusse sul ciglio del Tamigi, che potrebb'essere una catacresi ma forse non lo è, sbraitando quel figlio d'un cane senza perifrasi e non certo per iperbole 'Tanto t'annego! Tanto t'annego!', ch'è un buon esempio di paronomasia allitterativa. Sopravvenne nel drammatico frangente il qui presente Harry Stone che intenerito senza menare il can per l'aia a riscattar periclitante per una misera sterlicchia l'imbavagliato cucciolo provvide. A significare una cesura col passato nel contempo ammonendolo a rigar dritto, allusivamente lo ribattezzò Tannego, di lì a poco per aferesi scempiatosi inevitabilmente in Nego, dopodiché ben presto il color della bestia fece il resto. Al fin della licenza si vorranno perdonarmi i troppi tropi. E anche qualche omoteleuto. E pure un par d'iperbati mi sa. Fatto sta che costui non intendeva arrecar danno morale o materiale. Non ha neppur detto ciò che lei ritiene ch'egli abbia detto, di fatto.» 

In preda ai fumi del rum, il negro stentava a persuadersi. Da non molto distante continuavano a provenire i gemiti e i tonfi del conflitto interrazziale. «Non me garbano punto tutti 'sti paroloni» replicò il negro a Edwin proferendo come attraverso la campana di vetro di un lume a petrolio. «Se non sono istruito la colpa di chi è? Sulle navi negriere mica ci facevano scuola, amico. E chi è stato a caricarci sulle navi negriere?» 

«Oh qvante storie» replicò Harry Stone. «Armettemose 'ncamino, cafolo. Possipile mai che tutt'i lerci peccati de 'sto pocco monno tefono fení a calla propio qvanno se n'annamo a 'mpel concosso inocente pe' cape calfe, pertio.» Ma il cane Negro pareva aver rimuginato, sulla scorta fors'anche della narrazione d'Edwin, pensieri di natura analoga a quelli dell'umana creatura la cui tinta egli condivideva. Cani vessati e oppressi, cani asserviti e domi, cani umiliati e offesi, cani in catene nei canili. Fatto sta che con agile balzo s'avventò addosso a Edwin, ghermì fra le zanne il calzone, e tirò. La gamba del pantalone divenne all'istante una sorta di gonna a spacco. «Bastardo d'un Negro» imprecò Edwin mentre il cane se la batteva a spron battuto con un gagliardetto sbandierante fra le fauci. «Ci risiamo, amico» constatò l'indioccidentale all'aroma di rum. «Vai proprio in cerca di guai.» Ciò detto sgombrò il campo vacillante, intonando un mesto canto di schiavi del sedicesimo secolo. 

«Eqqveqqvà qver che succete» deplorò Harry Stone «qvanno ce se concentra s'una cosa a tetrimento de 'nantra. Se' propio nu prutto cagnazzo catifo, Necruzzo» soggiunse parenteticamente stillando miele. «Qvann'arrifamo là ce toccherà frecà li carzoni a qvarchetuno. Mica potemo mannatte ar ciro co' qvela campa 'gnuta. È 'ntecente, a parte tutto. Nun se presenta pegnente pellaqvale 'sta pocca serata.» 

Qualche altro isolato, una svolta a destra, ed ecco che in fondo alla strada comparve un cinematografo sfavillante di nome PANTHEON. Si diressero agognanti alla sua volta come verso il fulgore del focolare domestico. Sopra l'ingresso del locale troneggiava gigantesco il ritratto di un attore calvo dalle labbra sensuali e dai beffardi occhi da mongolo, probabilmente il prototipo di tutti i pelati in gara quella sera. «Atesso lefate 'testa parucca» ingiunse Harry Stone «pe' fa fete che se' nu concorente cenuino.» Edwin si tolse i riccioli cacciandoseli al sicuro sotto la camicia, donde a indice di virilità seguitarono a far capolino un paio di boccoli. STASERA, PROCLAMAVA UNO STRISCIONE INONDATO DI LUCE, GRANDIOSO CONCORSO. CHI SARÀ L'ADONE CALVO 

DELLA GRANDE LONDRA? «La ripposta è una e una sola» dichiarò fiducioso Harry Stone. Si diressero, mentre d'apprensione palpitava il cuore a Edwin, verso l'ingresso degli artisti. 

26 

Il secondo giorno di servizio militare Edwin aveva partecipato a una specie di adunata spirituale durante la quale il sergente maggiore di compagnia aveva intimato: «Gli anglicani da questa parte, i cattolici da quest'altra, i culattoni in mezzo.» Un ciccione in smoking fosforescente stava ora gestendo una segregazione di genere analogo dietro lo schermo cinematografico, e Edwin si ritrovò membro di una maschia mandria dagli sguardi sospettosi. Essendo lo schermo gigantescamente invaso da un'ansimante lotta cosmica avente luogo in un buio scantinato, non era possibile vedere granché degli altri concorrenti. La comunicazione verbale risultava anch'essa inattuabile per via del mastodontico incubo stereofonico fungente da commento musicale. Quando cavalli colossali si sfrenarono in un sismico galoppo s'una pianura soleggiata, Edwin fu finalmente in grado di valutare gli avversari. Non avevano niente di speciale: molti davano l'idea d'una calvizie sopraggiunta per cause naturali nell'ambito d'un complesso di sintomi legati al decadimento fisico; c'era un ragazzo pelato pressappoco decenne capace, orribile a vedersi, di farsi accapponare il cuoio scapelluto. Durante il lungo interludio silenzioso d'un titanico bacio, uno smilzo individuo dall'aria artigianale suppergiù coetaneo d'Edwin disse: 

«Che spasso, eh?» 

«Già.» 

«Mica tanto, però, secondo me. Ma qualcuno deve pur farlo, immagino.» «Esatto.» 

«Lo sapesse mia moglie andrebbe in bestia. È stata quell'altra, sa, che m'ha costretto.» All'immensa osculazione risubentrò repentino un fragoroso scalpitamento di mostruosi cavalli scatenati, e Edwin non ebbe modo di udire oltre. L'uomo in smoking, raggiando nel buio come un'ipertrofica aringa rancida, si aggirò meticolosamente con schede numerate, boccheggiando inaudibile nel frastuono. Edwin si appese al collo un grosso 8 nero. Poi, in un trionfo di tromboni più stentoreo di quanto Berlioz avrebbe mai osato immaginare, la pellicola giunse al termine e si accesero le luci. Comparve Harry Stone in mutande: palesava gambe mingherline ma, sorprendentemente, indossava giarrettiere. Porgendo a Edwin un fagotto gualcito disse: 

«Pisogna che te metti li mi' cazzoni. Gnente ta fa', maiala, ho cvattato tappettutto, ma nn'ho trofato gnanca 'mparo ta gratta. Su, sfetto, spicciate a cagnatte.» 

Accolta da un fervoroso applauso, aveva iniziato a esibirsi un'orchestrina jazz di vecchio stampo. Con aria mesta e torva Harry Stone sgambettò le zampelose improvvisando un breve cakewalk. Si udiva in lontananza abbaiare Negro, probabilmente segregato in qualche cesso. I pantaloni, constatò Edwin, erano troppo corti: lasciavano scoperto un bel pezzo di calze. Ma gli toccava accontentarsi. Avendo ciascuno strumentista dato prova del proprio virtuosismo interpretando separatamente il ritornello, l'orchestrina giunse al culmine dell'esecuzione disintegrandosi in un'ecatombe di contemporanei assolo ove ognuno suonava pei cavoli suoi. Strilla d'adolescenti infiocchettarono gli applausi. Harry Stone tornò dal gemello, e da dietro le quinte Edwin osservò il numero successivo. Un'accoglienza estasiata venne tributata a un giovinotto sciamannato. Il quale cantò d'amore adolescente, di com'esso e sol desso fosse davvero vero amor, e di come qualmente la vita finisse a vent'anni. Costui trattava il microfono come si trattasse di un'esilissima adolescente e, avendogli tributato svariate carezze, lo reclinò prepotentemente al suolo e giacque prono sulla lunga asta di sostegno, cantabaciando il microfono in questione mentre andava col corpo compiendo inequivocabili movimenti copulatori. Le urla delle fanciulle divennero orgiastiche, orgasmiche. Che epoca austera, pensò Edwin, che età parsimoniosa. Un tempo si era resa necessaria l'opulenza del Tristano per produrre un effetto affine, seppur solo a livello epidermico, su una generazione più anziana. 

Si presentò quindi sul palcoscenico il grassone fosforescente ad annunziare che stasera tutti gli interpreti erano rigorosamente dilettanti, ma che qualcuno di questi dilettanti - chissà? - avrebbe ben potuto divenir professionista. Il prossimo tuttavia era, disse, un artista che professionista lo era stato tanto ma tanto tempo prima: che gli si accordasse pertanto un calorosissimo battimani. Rimasti sospesi sull'orlo dell'orgasmo gli adolescenti ulularono, accogliendo Leo Stone come volessero crocifiggerlo. «Setti là 'sti strafottiti» disse Harry Stone all'orecchio di Edwin. Ma Leo Stone, tosto semita sopravvissuto in vita sua a ogni sorta di batoste, fece tosto un gran sorriso e disse che gli rincresceva d'essere piuttosto in ritardo, fatto sta che strada facendo aveva intoppato un traffico da giorno del giudizio, ma le vie del Signore si sa sono infittite, e poi Londra val bene una ressa, e oltretutto nel mentre che s'arrabattava appunto quella sera per giungere a pigliare il loro encomio in quell'esimio panteonio gli era successa una cosa buffa, s'era imbattuto in quello scompiglio nel vecchio scarmigliato Abie Goldstein incamminato alla sinagoga assieme al piccolo Izzie, e il vecchio Abie aveva detto che doveva farsi dare una sfoltita senza tema di smentita e che ai suoi tempi scapigliato com'era e testardo come un mulo s'era fatto un fottio di mule, persino una suora, o forse era solo sua nuora, sta di certo che non era una signora, ma poi eccoti piombar l'erede come un maglio e gli era toccato darci un raglio o per dir meglio un taglio, perché per togliersi di testa una cosa non c'è niente di meglio di un buon taglio, parola di Erode, pardon, di erede. Tirò innanzi a sproloquiare in tal guisa suscitando magre risa. Cantò poi la sua canzone malamente accompagnato a memoria dal pianista, e in pochi si associarono al coro. Disse infine che gli andava di prodursi in un monologhetto intitolato 'Ridi e il mondo riderà con te, russa e dormirai da solo'. «L'ha scritto hi' 'mpezzona» puntualizzò Harry Stone con gemellare orgoglio. 

«Strana cosa la vita, amici cari. Reca gioie ed affanni; L'ho scoperto a mie spese nel corso degli anni. 

La vita è un di d'aprii con sole e pioggia accanto… 

Un trastullo, due risate, un doloretto e un pianto.» 

Comparve a questo punto sul palcoscenico Negro. «Ohiohiohiohiohi» si afflisse Harry Stone gemendo a denti stretti. «Chi tiafolo l'ha fatto ussí, poccaputana?» Negro riconobbe il padrone e gli si approssimò sprizzando gioia da tutti i pori. «Vaffancú» si vide Leo Stone imprecare in punta di labbra. Il pubblico irrispettoso sguainò cachinni, ma Leo Stone sfoderò prontezza di spirito. Raccolto Negro, forte e chiaro senza fretta improvvisò: 

«Percorriam dunque la vita verso l'ultimo ricetto, Ma la vita che sarebbe senza un amico schietto, Un amico, amici cari, necessario quanto il pane: 

Per le mammole è la mamma, ma per un uomo è il cane.» 

S'inchinò in simultanea a un dissonante accordo dell'orchestrina, artigliando Negro che adesso, con perversità canina, si divincolava per sfuggirgli. Il pubblico non mancò di fischiare e applaudire ironicamente. Edwin si sentì cogliere dall'ira. 

«E adesso» disse il fosforuomo «un altro esordiente, che però il cane non se l'è portato: Lennie Bloggs di Bermondsey, che canterà per voi 'Cuore adolescente'.» Si levarono nuove grida esaltate. Edwin sentì crescere la rabbia. Ma Leo Stone disse: 

«Meglio non poteva andare. Mi hanno visto, l'essenziale è questo. Ci sono le telecamere puntate. Stasera sono entrato in milioni di case, non ve lo scordate. Entro la settimana pioveranno offerte contrattuali a barilate, aspettate e vedrete.» 

Una volta congedato Lennie Bloggs a suon di urla, fu annunziato l'evento principe della serata. «Ladrone calvo della Grande Londra» proclamò il presentatore. «Questo concorso è stato organizzato dalla Megalopolitan Pictures Incorporated in concomitanza al lancio del loro nuovo film, il sensazionale Spindrift con protagonista Feodor 

Mintoff, idolo crapelato del grande schermo, in tutte le sale da lunedì prossimo.» 

«Che significa?» chiese Edwin. «Che succede? Cosa c'entra il mio nome?» 

«Te fa' e tonna ficcitore» replicò Harry Stone. «Er nome nun cettra gnente. 'Na pura cohen zitenza, tutto qvi. Cioca pene le tu' carte e ficcerai.» 

«Ma credevo» eccepì Edwin «che aveste detto ch'era tutto stabilito. Pensavo aveste detto ch'era tutto combinato.» 

«Praticamette» rispose Harry Stone. «Cvarta qvel'antri tancheri de coccorenti. Nun farcono nu cafolo coffrott'a te. Te se' pello come 'napollo. Cvarta che capa che ciai. Appi fitucia 'ntesta testa e ficcerai. Ora fai. Se so cia tutti affiati.» E spinse Edwin verso il palcoscenico. 

«Imbroglioni» protestò Edwin. «Siete due lestofanti. Non ci vado.» 

«Se' 'mpallo, racazzo» tagliò corto Harry Stone. «Puona fottuna.» 

Edwin si ritrovò in un cerchio di pelati in marcia in tondo in scena, come carcerati durante l'ora d'aria. Il pubblico acclamò. Li inquadrarono le telecamere, e sullo schermo di un piccolo monitor Edwin si vide in miniatura arrancare torno torno volgendo lo sguardo corrucciato su svariati milioni di telespettatori. Nel golfo mistico l'orchestrina jazz andava emergendo lentamente appollaiata s'una piattaforma idraulica, eseguendo una vecchia canzonetta scanzonata intitolata 'Non è il capello che rende il cranio bello'. La prima tromba denunziava una sospetta somiglianza col dottor Railton. Sul palco, s'un podio a un tavolo corredato di segnapunti sedevano tre telerinomate bellezze scimunite. Accorse in scena un tizio più imbecille ancora dal pendulo cravattino da sera che ossequiò le giubilazioni degli astanti con gesticolazioni stravaganti. «Spiacente del ritardo, gente» dichiarò con voce alquanto adenoidea «ma ho intoppato un ingorgo da fine del mondo.» L'uditorio tripudiò. «Vengo giusto dall'abboccarmi or ora con una bella mula qua fuora» confidò col birignao. «Era una suora, sissignore, una suora, ammenoché non fosse mia nuora, ma di sicuro non era una signora.» Il pubblico si sbellicò. «Ma quante belle biglie stasera che c'è» proseguì. «Piste di pattinaggio pelle mosche, garantito. Guardate un po' qua che popò di capò» precisò, appioppando una pacca alla capoccia d'Edwin come fosse una chiappa. La platea si sganasciò. «Adesso» seguitò il guitto «marciate in tondo, ragazzi. Ecco qui» disse «tre splendide tocche di birignocche per far da giudicesse… Ermine Elderley, Desiree Singe e Chloe Emsworfh. Innanzitutto eliminiamo i brocchi. Giusto, ragazze? Scrivete i numeri di scalzacani, peracottari e anatre zoppe. Marciate, schiavi, marciate. Musica, maestro.» Ciò detto simulò di scudisciare i concorrenti con una sferza immaginaria, nel mentre che l'orchestrina strimpellava e gli spettatori davan la stura alla loro gaiezza. Giro giro strascicarono i pelati. «Altolà!» strillò l'istrione dal farfallino floscio. Le deliziose giudicesse strulle scoccodarono e sfornarono l'esito del comune deliberare. «Rompete le righe quei che mo dighe!» berciò il ciarlatano affettando un ringhio da sergente maggiore che mandò in visibilio i presenti. «Quarranchia. Cenciacé. Vencisei. Diziannueve. Sudici. Sinco.» Gli scartati scantonarono scornati, spennacchiati senza frutto. «Dopodiché» sbraitò il gigione dal cravattino moscio 

«SGRULLIAMO IL SACCO. Troppi bulli ancora in ballo» affermò affranto. «Un buggerio di zombi. Marciate, zucconi, marciate. Sinist dest, sinist dest, sinist dest.» Rifustigò la sdinoccolante carola, mentre il batterista sbacchettava di concerto un tamburellio sincronizzato. La gente in sala s'asciugava lacrime a dirotto. Alla successiva eliminazione il teatrante dal farfallin bazzotto sfrattò le virtù teologali, i fiumi degl'Inferi, i sigilli dell'Apocalisse, le piaghe d'Egitto, i segni zodiacali, il tetracisesaedro, le serenate di Scarlatti, le sezioni del Corano, i canti dell'Inferno nonché svariati altri. Edwin fece fronte indenne. «Tico catto pecché l'ho ner sacco!» esultò Harry Stone fra le quinte. 

L'estrema falcidia lasciò circuitanti sulla scena Edwin e altri quattro. Adesso si trattava di stabilire una graduatoria di merito alopecico. Il commediante dal cravattino flaccido scorrazzava a destra e manca come prossimo a schiattar di frenesia. Il pubblico era prossimo a crepar dal ridere. «Ci siamo!» esclamò il giullare. «L'ora fatale è giunta!» Gli strumenti melodici tacquero e un tamburo soltanto rimase a rullare in lento crescendo. «Ahimè, la vista m'è venuta meno» declamò il buffone, e mosse passi vacillanti strabuzzando gli occhi dinanzi a un foglio di carta. «Affé mia qual terribile sorte m'incolse conciossiacosaché dubbio non v'è che mo stavvedé me so' tutto cecato, me so.» I presenti si scompisciarono. «Ma ecco» soggiunse il pagliaccio con voce da ufficiale di cavalleria «che il velo si squarcia e la luce m'infarda d'un novello chiarore talché senza clamore oso dirvi che il vincitore è il vincitore è il vincitore è… il numeroooo… OTTO!!!» Al colmo dell'eccitazione irruppe sul palcoscenico Harry Stone, finendo telecamerinquadrato scalzonato com'era. Riscappò fuori campo. L'orchestrina eseguì 'Mamma, perché m'hai fatto così bello?' con brio e una certa accuratezza. A braccetto del finedicitore dal farfallino lasco, Edwin si lasciò condurre alla ribalta. 

«Come ti chiami, figliolo?» chiese a Edwin il presentattore. «Qual nome t'impose tua madre?» Edwin glielo disse. «Non è squisito?» fece l'altro rivolto agli astanti. «Qual proprietà d'eloquio. Che raffinata eleganza. Hai dunque tu, in qualità di Adone Calvo della Grande Londra, qualcosa da confidare al grandioso pubblico dei telespettatori?» 

Edwin vide la prima tromba, palesatasi ormai senz'ambagi pel dottor Railton, abbandonare in fretta la piattaforma e uscir di scena. «Nulla ho da dichiarare» rispose 

Edwin «tranne che prima me ne vado meglio è.» 

«Ohé, non è mica il caso di prenderla così» replicò l'imbonitore dal cravattino molle fingendosi sdegnato. «Cosa c'è che non va, mando per avventura cattivo odore o che? Bene, posa dunque lo sguardo su qualcuno che ti piacerà di certo, figliolo. Non è forse deliziosa, eh?» Detto fatto ecco avanzare a suon di musica acclamazioni e fischi una visione d'aureo lamé con spalle petto sorriso madreperlacei. «Sia lode orbene alla presenza del vostro e mio diletto bene, se il ciel ci sorridesse, ossia. RAYNE WATERS» annunciò. L'uditorio andò in delirio. Rayne Waters baciò la calvizie di Edwin, poi lo prese a braccetto. Fra le dita affusolate ungulate di scarlatto Edwin le scorse un assegno: per un importo di dieci sterline appena. Ma non avevano i gemelli Stone ribadito senz'altro trattarsi di cento? Rayne Waters parlò con accento angloamericano, astutamente inteso a non recare oltraggio ai fratelli d'oltreatlantico. 

«Questo dovrebb'essere per te davvero un gran momento» gli disse. Edwin era certo d'aver visto fra le quinte uomini in divisa, rappresentanti delle istituzioni cui non era possibile opporre resistenza. 

«Non proprio» rispose Edwin. «Ho vissuto momenti più grandi, molto più grandi. Anzi, provo in verità una certa qual vergogna ad aver preso parte a tutto ciò. Quanto mai tipico esempio, nevvero, di quel che al giorno d'oggi si gabella per spettacolo. Volgarità venata di crudeltà e con magari una spruzzatina di erotismo perverso. Insulse bottegaie sublimate al rango d'Elene di Troia. Grotteschi cicisbeoti che tentano di far gli spiritosi. Ottusi ragazzini urlanti. Adulti a corto di comprendonio. Ecco qua dunque ciò che mi sento d'esprimere al grandioso pubblico dei telespettatori.» Si sporse e spiattellò in pieno microfono una parola volgare, crudele, erotica . Fatto così scalpore e passato alla storia, Edwin si precipitò verso le quinte alla sua destra ove ovviamente trovò uomini robusti agli ordini del dottor Railton pronti a impadronirsi di lui. Fra le quinte dirimpetto i gemelli Stone cercavano invano di tener testa ad altri sbirri brutali. «Me sa che te tocca sartà, maiala» disse Harry Stone. «Ma prima ritamme qvei fotuti cazzoni.» Edwin tornò di gran carriera in scena, spiccò un balzo oltre le luci della ribalta e atterrò sulla piattaforma idraulica dell'orchestrina in un rovinio di leggìi tintinnanti e spartiti svolazzanti cui tenne bordone un lugubre accordo esalato da una fisarmonica scombussolata. Egli saltò quinci fra gli astanti, mentre alle sue spalle si levavano grida incollerite e latrati canini. Gli spettatori si ritrassero atterriti mentre il fuggiasco rimontava a tutt'andare la platea in pendio. Ma un membro del pubblico lo arrestò in piena corsa per dirgli: «Posso succintamente esprimerle il mio pieno consenso, signore, per quanto da lei testé dichiarato?» Sembrò nel contempo che dal palcoscenico una voce urlasse: «Fermatelo. E un pericolo pubblico. Ha un tumore cerebrale. Può dare in escandescenze da un momento all'altro. Non lasciatelo scappare.» La qual cosa indusse viepiù i presenti a concedere a Edwin ampio spazio di fuga. Cacciato uno strillo una donna berciò: «Vieni qui, Alfie, stammi vicino, Alfie, è il bobonero, Alfie.» 

Giunto in vetta alla blanda pendice Edwin si volse a chinare lo sguardo sul palcoscenico. Gli parve di udir la voce battagliera di Harry Stone sbraitare soverchiando le altre: «Pigna qvesta sur crugno, prutto strozzo!» Negro da par suo si apprestava ringhiando a lacerare pantaloni. Regnava in scena sotto i riflettori una certa confusione e qualcuno s'industriava a scusarsi col pubblico televisivo. Svignatasela dalla tenda dell'USCITA Edwin si ritrovò nell'atrio in mezzo a sagome smaniose di divi cinematografici. Percorsa di corsa ansimante la passofelpante mochetta color grano saraceno, raggiunse l'imponente battente a invetriata sortendone in strada. Dove lo accolse una voce familiare. 

«Abbiamo un conticino in sospeso, vero?» disse Bob Courage. «Io e te, no? E c'è caso anche i ragazzi. Scocciatissimi per quel che hai combinato. Avanti, a bordo.» Ammanettato d'una stretta spietata il polso destro d'Edwin, Bob gl'inflisse in pieno volto un manrovescio dimostrativo a caparra di futuri sviluppi, inzeppandolo quindi sul sedile anteriore a leccarsi uno sprizzo di sangue dal naso. 

27 

«Stavolta» mise in chiaro Bob mentre per vie traverse facevano rotta a ponente «niente salmone affumicato sul sedile di dietro. Stavolta per te nulla c'è fuorché le conseguenze delle tue bricconate. E si può dir che te le sei cercate? Sì, si può ben dir che te le sei cercate.» 

«Tutta colpa tua» obiettò Edwin. «Ecco che cosa succede a essere un degenerato.» 

«Astieniti pure dall'infastidirmi» replicò Bob mentre locali pubblici riccamente illuminati baluginavano via sprofondando in un passato inoffensivo e lieto. «Non credere di potermi indurre a fermar l'auto per ammollarti un altro mostaccione profittando dell'occorrenza per svignartela a man salva. Mica ciò scritto giocondo.» Oltrepassarono un cantieredile notturno dove gru agili saliscendevano e martelli percuotevano alacri. «Là l'altro giorno cinque patacche ho sbolognato» sbandierò Bob orgogliosamente. Si volse a Edwin facendo la faccia feroce. «Se pensi di potermi far fesso così ti sbagli di grosso. Ora lo so di che pasta sei fatto. M'hai sfasciato la tele. M'hai buttato le fruste dalla porca finestra. M'hai sgraffignato i soldi. Ma in un modo o nell'altro me la paghi, stai tranquillo che la sconti.» «Erano soldi falsi» precisò Edwin. 

«Oh, falsi, cribbio, dici sul serio?» fece Bob sarcastico. «Signore e signori, ha parlato l'esperto, perdincibacco. Bene, se vuoi saper la verità erano falsi soltanto in parte. Il resto erano veri. Sempre si mischia il buono col cattivo, a questo mondo, il falso col vero, la vita funziona così. E il tuo caso non fa eccezione. Perché pure tu sei finto. Ecco qua cosa sei, finto. Proprio come un pocherello di quelle colombelle da cinque che m'hai trafugato.» 

«Io però per lo meno non sono strabico» rivendicò Edwin. 

«Vorresti fare lo spiritoso, eh?» rintuzzò Bob. «Vorresti tirarla per le lunghe, vero? Ma io lo so a cosa ti riferisci, stanne certo. Ti riferisci a quell'ucellona coll'elmo in capo che vorrebbe far credere d'esser Rule Britannia. Be', quel che l'ha fatta se n'aveva parecchio per male a farglielo notare. Certo che a dirla tutta aveva perso un po' di smalto, però al tempo ch'era nei suoi panni non c'era chi fosse degno d'allacciargli le stringhe. Sì, spiritoso davvero» sogghignò Bob. «E invece te lo dico io che razza d'occhi hai. Son occhi falsi, ecco cosa sono. Proprio come quei capelli posticci che t'eri messo. Occhi falsi che fanno finta d'esser depravati e invece macché depravati, meno depravati delle mie chiappe sono, che depravate non sono. Un mistificatore, ecco cosa sei, un orditor d'inganni, una serpe infida. Ma avrai quel che ti meriti, vai tranquillo.» 

«Che cosa vuoi farmi?» volle sapere Edwin. Avendo patito un arteriogramma e subito un'insufflazione endocranica, l'eventualità di soffrire lo lasciava del tutto indifferente. Però l'affascinava l'idea che un masochista escogitasse qualcosa che avrebbe recato dolore e, per logica solipsistica, in tal modo donato piacere. 

«Ancora non ho deciso» rispose Bob. «Ma penserò a qualcosa da farti fare dai ragazzi. Una qualche tortura coi controfiocchi che ti farà strillare come un ossesso.» 

«Allora ci sono i ragazzi, eh?» disse Edwin. «Ci sarà da divertirsi.» 

Continuando a percorrere ad andatura spedita una via secondaria per nulla trafficata, Bob gli scoccò in tralice un lungo sguardo sornione. «Secondo me menti sapendo di mentire» disse. «Non è vero per niente che pensi che sarà divertente. A te queste cose così non ti piacciono mica. Sei un impostore, ecco cosa sei.» 

«Che ne diresti» rilanciò Edwin «se ti rifilassi una bella strigliata a suon di fruste e compagnia bella? Tante toste staffilate sulla schiena col sangue che sbrodola sul pavimento a catinelle e tu che urli implorando pietà. Sarebbe fantastico, non credi? E per me sarebbe una vera punizione, visto che non sono un depravato.» 

«Vade retro» esorcizzò Bob digrignando i denti e rizzando le spalle in reazione all'illusorio subisso di busse sul gobbo. «Non tentarmi. Punizione ti spetta e punito sarai. Nulla di più giusto e legittimo ed equo. È imprescindibile che tu soffra. Non riempirti la bocca di cose siffatte» gli diede diffida. «Mica è leale subornarmi in tal guisa mentre sono alla guida.» 

«Hai nulla in contrario» domandò Edwin «se mi metto la parrucca? Non mi trovo punto a mio agio con questa testa pelata e si sa, la lingua batte dove il dente duole.» 

«E ti dorrà pure altrove» minacciò Bob «quando i ragazzi t'avran conciato per le feste. Tieni a cuccia quelle manacce dove posso vederle. Non voglio che mi combini altri scherzetti, ci mancherebbe.» Seguitò a guidare, traendo respiri profondi. «Jock s'è portato un tipo con una depravazione tutta sua. Ti brucerà tutti i peli delle gambe coi fiammiferi accesi. Ci si eccita come un riccio. Roba da non credere, ma tant'è. È passato a trovarmi l'altro giorno» proseguì Bob discorrendo adesso affabilmente «per vedere un po' d'organizzare una festicciola in combutta. Non stava più nella pelle per via di quei fiammiferi accesi.» Edwin ci avrebbe messo la mano sul fuoco ch'eran tutte balle, un patetico tentativo di Bob di spaventarlo. «Ma il fatto è» soggiunse Bob «che sono le fruste che m'alluzzano alla grande, francamente. E tu, carognone che non sei altro» disse astioso «tutte fuori giù in strada me l'hai sbalestrate. Tutte quante quelle fruste deliziose, l'intera mia diletta collezione, che la vale un patrimonio, e tu via tutte quante me l'hai scaraventate, me l'hai fatte tutte fuori buttandole per via. Una pura immotivata canagliata, una vera porcheria.» 

«Presumo tuttavia che tu le abbia recuperate» obiettò Edwin. «In parte, quanto meno. Come faresti altrimenti a sapere che le ho gettate di sotto?» 

«Sentilo là l'intelligentone» disse Bob. «Ma il tuo giochetto non ha mica attaccato. Simulatore dei miei stivali, con quella finta della banda di Perroni e via dicendo. Perché questo guarda caso è il periodo giustappunto che la banda di Perroni chiude bottega per un poco e Perroni scende a sgavazzarsela in Costazzurra. T'è andata buca, vero? Tentare di addossar la colpa al povero Perroni, che Dio lo strafulmini. Non che abbia tempo da scialacquare con Perroni, bada bene. Quel lurido bastardo. Ma un inghippo del genere è tipico dei tuoi processi mentali.» Quindi, avendo meditato sulla nequizia di Edwin: «Per riavere le mie fruste m'è toccato andare in giro a minacciar tutti i mocciosi del circondario. E ancora non le ho mica rincamerate tutte. Un bamboccio mi ha controminacciato, figurarsi. Ha detto che me le avrebbe suonate di santa ragione proprio con una delle mie fruste. Il che mi ha posto in situazione assai bizzarra, garantito.» 

A questo punto Bob dovette svoltare in un'ampia arteria doviziosa di negozi, luminarie e gente. Edwin lo vide innervosirsi, ne scorse le dita guantate contrarsi spasmodicamente sul volante. «Questa proprio non ci voleva, miseriaccia» deplorò Bob. «Là c'è un semaforo, e non vorrei che ti saltasse il ticchio di sgattaiolarmi di macchina quando scatta. Sarà meglio che lo scavalco e buonanotte al secchio. Completamente indegno di fiducia sei,» rampognò «fedifrago sleale e disonesto.» 

«Senti,» disse Edwin «ti piaccia o no, adesso mi rimetto la parrucca.» Detto fatto se l'estrasse fulmineo di seno sbarbando nel farlo un bottone alla camicia. 

«Oh, fa' un po' come ti pare» replicò Bob stizzoso. «Se proprio te ce la vuoi mettere mettiticela. Sapessi te quanto m'hai sfranto coi tuoi capricci.» 

«Santo cielo» trasecolò Edwin deferente fissando lo sguardo di là da Bob s'una vetrina sul lato destro della via mentre ancora impugnava la parrucca. «Che magnifica esposizione che hanno fatto. In vista del Natale, ci scommetto. Tutte quelle fruste.» Incapace di trattenersi Bob girò la testa a destra e Edwin colse al volo l'occasione per schiaffargli in capo la parrucca, la quale andandogli un tantino larga gli calò sugli occhi. Preso alla sprovvista Bob sacramentò, tolse ambo le mani dal volante per strapparsi la ricciolaglia a tutta forza, calcando giù di botto entrambi i piedi nel contempo, sicché l'auto si arrestò a rigor di codice proprio allorché scattava il giallo. Edwin pigiò la maniglia e spalancata la portiera scese in strada a precipizio. Guadagnato in due secondi il marciapiede ricorse a una coppia di passanti corpulenti (marito e moglie, con ogni evidenza: procacciatisi nel coniugio concomitante conseguimento della pinguedine) per farsene scudo. Si produsse in vari spunti velocistici e repentine soste alla Chariot finché, discernendosi davanti un gabinetto pubblico, galoppò grato a quella volta. Catapultatosi giù per gli scalini sino all'echeggiante sottosuolo vide uomini austeri con entrambe le mani occupate dinanzi agli orinatoi, nonché file di cabinet d'aisance a gettone accessibili dietro modesto esborso di un penny. La sua fretta e il suo improvviso grido d'ambascia (neanche quel misero penny gli residuava in saccoccia) non risultarono fuor di luogo in quei vani votati al pubblico sollievo. Metti caso che Bob facesse irruzione laggiù dentro proprio adesso… 

Edwin adocchiò un uomo in abito da passeggio e cappello di feltro, col giornale della sera sottobraccio, trarsi spiccioli di tasca e scegliere un penny. Mentre costui inseriva la moneta nel ricettacolo metallico ed esercitava trazione sul pomello d'apertura, Edwin colmò di slancio la distanza che li separava, disse: «Poi le spiego», spinse quindi l'uomo nel cubicolo, gli tenne dietro, e fece scattare il chiavistello. Ambienti del genere sono tutt'altro che capienti. Edwin e l'uomo ristettero accosti come innamorati, quest'ultimo a bocc'aperta. «Mi sorprende, Spindrift, mi sorprende davvero» asserì l'uomo, che sgombrato il volto dalla maschera dell'iniziale sbigottimento palesava senz'ombra di dubbio le sembianze del signor Chasper. «Non avrebbe potuto attendere sino a domattina in ufficio? Insomma, in certi luoghi un individuo avrà pure il diritto di restarsene solo.» 

«Mi danno la caccia» dichiarò Edwin. «C'è un pazzo che m'insegue.» Suonava ridicolo, ma che altro avrebbe potuto dire? 

«A quanto pare siamo nella stessa barca» osservò Chasper. 

«La mia rischiava di affondare» replicò Edwin. «Quel folle mi ha rapito. Sono riuscito or ora a evadergli di macchina.» 

«Capisco» disse Chasper. «Se adesso volesse avere la compiacenza di aprire quella porta e lasciarmi uscire… Ho una fretta birbona, capirà.» 

«Faccia pure» esortò Edwin. «Non guardo mica.» Poi udì il frastuono di una discesa precipitosa, Bob all'inseguimento, Bob attardato ma non rassegnato che gridava: «Dove sei, canaglia d'un manigoldo? Lo so che sei qui da qualche parte», Bob che prendeva a percuotere in successione le porte dei gabinetti. «Parli» sussurrò Edwin a 

Chasper. «Gli dica qualcosa.» 

«Sci può sciapere coscia sciuscede?» Era la voce, probabilmente, del custode dell'installazione, contrariato da un baccano suscettibile di nuocere al buon nome dell'impianto. «Coscé queshta casciara?» Edwin notò l'alterazione fonematica in palatoalveolari fricative delle articolazioni alveolodentali fricative e palatoalveolari affricate. 

«Cerco un uomo» ansimò Bob. «M'è scappato. So che è qui da qualche parte, quel bastardo d'un farabutto.» Bersagliò la porta accanto a quella di Chasper e Edwin. «È un ladro e un mascalzone» rincarò Bob. 

«Queshto è un poshto rishpettabile, scignor mio» ammonì il custode. 

«Vieni fuori di lì!» urlò Bob tempestando. «Lo so che sei lì dentro.» 

«Aspetta il tuo turno» replicò la voce della porta accanto, aggiungendo il registro basso d'una salutare raffica escretoria. Bob picchiò allora al cubicolo del dottor Spindrift. Il signor Chasper domandò distintamente: «Sta forse inseguendo un uomo calvo, un uomo che pareva avesse il diavolo alle calcagna?» 

«Sì, sì, sì…» 

«L'ho visto entrare e risortire. Correva come il vento.» 

«Quella carogna» bollò Bob, e lo si udì veementemente allontanarsi e riprecipitarsi fragorosamente su per gli scalini. 

«Razza di screanzato» disse Chasper. «Non ha nemmeno ringraziato.» Sedette, con calzoni e tutto, sulla seggetta e sollevò su Edwin uno sguardo severo. «Si renderà conto, ne sono ragionevolmente certo, che, quantunque la sua vita privata esuli completamente dall'ambito delle mie competenze, circostanze di siffatta natura tendono inevitabilmente a deludere le aspettative. A Moulmein trascorre forse il tempo libero a farsi dar la caccia nei gabinetti pubblici?» 

«Le sono molto grato» disse Edwin «del suo sagace intervento. Temo si tratti nel complesso di una storia piuttosto lunga.» 

«Non lo metto affatto in dubbio» convenne Chasper rimanendo seduto. Poi, meditabondo, soggiunse: «Il professor Harcourt di venerata memoria venne arrestato in un gabinetto pubblico di Nottingham, nientedimeno. Mostrava foto alla gente, roba da non credere. Bene,» disse, assiso in trono coronato di feltro, brandendo il giornale a mo' di scettro «sono lieto d'aver scambiato quattro chiacchiere con lei. Mica per combinazione ha idea di qual sorte sia mai toccata alla mia bombetta dalla tesa arricciolata, metti caso?» 

«Magari ne disponessi adesso» rispose Edwin. «Da queste parti è pieno di correnti d'aria.» 

«Bene, torni a trovarmi una volta o l'altra» concesse Chasper. «Dolente di doverla con tanta urgenza estromettere di qui, ma m'incombe una faccenda discretamente impellente. Felicissimo d'esser potuto tornarle utile.» 

Edwin fece scattare all'inverso il catenaccio, rivolse a Chasper un cenno col capo, e uscì circospetto nello spoglio salone igienico, ove echeggiava alto un concerto di cascate. Riemerse guardingo in strada. Bob non c'era. La sua macchina neppure. Ma quanto a caduta d acque 1 esterno non era da meno dell'interno. Pioveva. La prima pioggia inglese in vita sua dal giorno dell'imbarco per la Birmania, essendo entrato in ospedale in periodo siccitoso. Veniva che Dio la mandava. Il pungolo di quegli strali sul cranio dalla nuda cute gl'incuteva una sensazione strana, quasi ultraterrena. Si affrettò alla volta dell'ingresso di un negozio, uno sfavillante esercizio elegante straripante di macchine calcolatrici. Il vano d'accesso offriva già ricetto a una coppia d'innamorati impermeabilizzati avvinghiati in uno sfrusciacolar di plastica. Duttilità e sinteticità della passione amorosa, pensò Edwin. Dopodiché pensò che aveva scordato di tentar di spillare a Chasper un paio di scellini. Pe' 'na tazza de tè e 'na focaccia, capo, e 'mpacchetto de cicche. Ma di cicche ne aveva ancora in abbondanza. Ne accese una. Altro non gli aveva accordato il buon Chasper che un penny d'asilo. Con sfacciataggine degna d'un Harry Stone, Edwin faccia di bronzo picchiettò l'innamorato su di un braccio abbrancicato. «Damme 'no scellino pe' 'na tazza de tè e 'na focaccia, capo» piatì. L'innamorato elargì con fare impaziente al povero calvo Edwin due mezzi scellini e una monetina da tre penny. Poi, duttile e sintetico come plastica, tornò plastifrusciando ai suoi baci.

28 

Una oblunga galleria di ampiezza modesta gremita di macchine ricreative. Edwin da fuori guardò dentro senza minimamente ricrearsi. Gli effimeri strali di pioggia precipitanti a bombardargli il cranio gli comunicavano telegraficamente l'approssimarsi per lui dell'epilogo. Gli angeli della pioggia proclamavano la sua stanchezza, la sua solitudine, la sua brama di umana comunanza, la sua sensazione d'essersi dato la zappa sui piedi, la sua inquietudine circa il futuro. Si era rovinato con le proprie mani, né più né meno. E nella sala giochi una musica spavalda e clamorosa distillava, soverchiando colpi di carabina e schiocchi di biglie e grida di speranza e delusione, l'essenza stessa dell'angoscia claunesca. «Entra a ripararti dal mollo, amico» invitò un uomo in gabbanella bianca, bianca ma non clinicamente bianca, insufficientemente bianca per le dee delle radiografie. Edwin tastò le sue monete, dono di un innamorato. Uno dei due mezzi scellini recava la consunta testa calva di Edoardo VII… un fiorellin d'argento gettato da una riscaldata carrozza di lusso in cui era stata servita una frittata di cento uova; bottigliette colme di brandy in tasca a pastrani da viaggio; coppie di galli cedroni sui portabagagli; il Rosenkavalier  in attesa al Covent Garden. Edwin fece adesso ingresso in un universo assai diverso dove giovani boccapendula scialacquavano i loro penny in bizzarri giochi d'azzardo. A uno dei quali, battezzato Bombacca, si vinceva distruggendo il mondo intero. Un innesco a molla propelleva palla dopo palla lungo celeri canali a impattare contro ostacoli che uno dopo l'altro smorzavan le luci simulanti Tokyo, Singapore, Nuova Delhi, Atene, Roma, Berlino, Londra. All'estinzione di New York con un estremo tremito s'abbioccava nel silenzio tutto il globo, e il giocatore recuperava il suo penny. C'era quindi, vide Edwin, un gioco di tortura… un cubo di vetro con dentro un pupazzo alla ruota; pigiando la leva abbastanza forte si otteneva, a ricompensa della propria vigoria, un urlo d'estremo realismo. C'era anche un trastullo assolutamente ossessivo nel quale il giocatore combatteva contro un cancro ai polmoni (schema toracico e bronchiale con luci lampeggianti a indicar le zone infette). C'era inoltre un sollazzo per due giocatori raffigurante con profetici simboli di fuoco il conflitto fra la Cina comunista e il resto del mondo. Edwin rabbrividì e si rivolse a una convenzionale macchinetta mangiasoldi. V'introdusse il mezzo scellino edoardiano, vide sfrecciare ruote e numeri baluginare; poi mutismo, immobilità, quiescenza. V'inserì l'altro, deuteroelisabettiano, e, in capo ad alcuni secondi di laboriosa gestazione meccanica, proruppe vittorioso il tintinnio della nascita. Il lieto evento attrasse sguardi da altre postazioni e conquistò a Edwin un piccolo pubblico intento, intanto che ramazzava l'argenteo raccolto. «Fottuta fottuna» lo invidiò un giovanotto. A chi altri aveva arriso? Naturalmente a Nobby della Ghenga delle Patacche, soltanto carcerato, gnente multa né gnente. Edwin conteggiò sei scellini in monete da mezzo scellino. Bene. Ma, a ben vedere, bene davvero? Un ricovero per la notte, cercando il sonno reclino s'una fune tesa che si sarebbe immancabilmente afflosciata all'alba, un tozzo di pane e margarina, e poi? Vivere alla giornata, alla maniera di Cristo. Però quelle sette impoverite e imprevidenti avevano visto ognor la luce in climi caldi, dove campare alla giornata era possibile. Avendo rivolto cortesi formule di gratitudine al filiale individuo che l'aveva invitato a entrare, Edwin uscì nella notte fredda e umida. Tornò quindi sui propri passi ripercorrendo il cammino che ivi l'aveva condotto, col bavero rialzato e le mani in tasca. Gli innamorati continuavano a stazionare avvinghiati nell'ingresso, ma l'intensità del loro amplesso era cresciuta a tal grado di sì veemente intimità che Edwin non se la sentì di restituire all'uomo l'importo della sua incurante elemosina. Voltò l'angolo nei pressi dei cessi ipogei e pervenne a un gigantesco albergo edoardiano. Un'insegna luminosa proclamava l'accessibilità del bar ai non residenti. Ecco dunque il luogo della sua ultima bevuta. Poi si sarebbe finalmente abbandonato alla passività, arreso alla definitiva reificazione in mero oggetto, e che le forze della natura prendessero pure il sopravvento. Cicuta o viatico? Chissà. Un doppio whisky. Un paio d'olive oppur croccanti patatine. O magari cetriolini sottaceto. 

Fatto ingresso dalle porte a vento Edwin si trovò in presenza d'uomini avvenenti o floridi intenti a offrir liquori a signore longilinee su sgabelli da bar muniti di schienale, signore dalle chiome sapientemente scarmigliate e dalle gambe generose dilungate in pose aggraziate. Il banco di mescita troneggiava bislungo, illuminato come un aitar maggiore e sormontato dalla maestria scultorea di un complesso baldacchino. Baristi austeri dai capelli radi eloquivano sommessamente attendendo solerti alle lor sacerdotali incombenze. Zelanti si chinavano verso gli avventori con sorrisi di spontanea deferenza. Pervaso da subitanea timidezza Edwin reclinò il bavero, cercò di lisciarsi un capo che Dio sa se non era digià liscio abbastanza, e mosse in direzione del fulgor degli UOMINI. Qui niente dimidiati UOM in ritirata, niente apocope capponante. Entro un sontuoso ritiro di marmo e cristallo con gradini in alabastro per assurgere allo schieramento degli orinatoi, Edwin s'imbatté in una forza della natura… l'ampio dorso di un uomo in abito da sera con in capo una ghirlanda di pampini che volgendosi riabbottonandosi manifestò al nuovo venuto una faccia grassoccia dai menti azzurrastri, cui faceva da contraltare un naso più adeguato al muso rapace di un'aquila urlatrice. «Dio mio» fece costui. «Che ti hanno combinato? Dimmi, in che mani sei finito? Quanto sei cambiato, Spindrift.» 

Bene, eccoci al dunque. Può darsi che le fluttuazioni esistenziali, tanto spesso consistenti in incontri imprevedibili, vengano in special modo favorite dall'atmosfera particolare delle latrine collettive. Difatti quanti incontri al cesso tendono a risultar fatidici: quello infantile col corruttore in agguato; l'uomo con indirizzi e foto; il narrator di aneddoti divenuto amico; i due estranei che pigliano a discettare della rispettiva moglie; l'imbattersi nel proprio capo mentre si vien braccati da un pataccaro fustigaiolo; quest'uomo semisbottonato sgorgato dal proprio passato tutto inghirlandato di pampini. «Jack Thanatos» disse Edwin. «Bene.» E sogghignò al pensiero di che cosa avrebbe pensato Jean Cocteau di un incontro del genere. 

«Aristotle Thanatos» disse Aristotle Thanatos. «Non so proprio voi ragazzi dove l'abbiate mai pescato questo Jack.» 

«Credo» disse Edwin «che fosse per proteggerti dalle persone volgari e ignoranti. Aristotle, per gli inglesi, ha sempre avuto connotazione negativa rimandando ad alcunché di sudicio .» 

«Certo, certo, ma tu che cos'hai fatto dai tempi dell'università? Io per quanto mi riguarda mi son dato al vino, non so se l'hai saputo. Ecco perché adesso sono qui. Vi si tiene un convegno di commercianti di vini. Un simposio sulla promozione dei vini 

greci in Inghilterra. Vini attualmente in bevizione al piano superiore.» 

«Parole» disse Edwin. «Parole, parole, parole.» 

Aristotle Thanatos non nascose una subitanea irritazione. «Parole un corno» reagì. 

«È la pura verità. Vieni di sopra se non mi credi. Vieni di sopra comunque.» 

«No, no» replicò Edwin. «Si tratta dei miei studi.» 

«D'accordo, come non detto. Un tempo non eri così pervicacemente maleducato» osservò Aristotle Thanatos. «Questo mutamento caratteriale ha forse qualcosa a che vedere con la calvizie? La qual cosa, oserei dire, è di assai cattivo gusto. Quantomai sconveniente e inappropriata.» Il suo accento non tradiva assolutamente alcuna traccia di lidi stranieri. Egli olezzava di britannica agiatezza: Trumper Eucris78, delicate fregagioni con dopobarba Yardley, tabacco dolce, niente aglio. 

«Ciò che intendevo» disse Edwin paziente «è che i miei studi hanno sempre riguardato, in misura crescente, le parole, e che sarei ben lieto e lusingato di venire con te di sopra a degustar quei vini.» 

«Perché non l'hai detto subito?» disse Aristotle Thanatos. «Temo tuttavia che al momento non sia in corso alcuna degustazione propriamente intesa. La gente è su che beve. La degustazione, tienilo, ti prego, bene a mente, è un'occupazione seria e ha luogo di giorno.» Precedutolo fuori della ritirata e gettata mezza corona nel piatto dell'inserviente, fece strada a Edwin su per un'ampia scalinata dai bassi gradini ammantati d'un tappeto dalla liquida cedevolezza, assicurato in loco da verghe sfavillanti. Edwin udì rumori e canti avvinazzati. Aristotle Thanatos spinse una delle porte ponderose e con gesto magniloquente ostentò a Edwin uno spettacolo incoraggiante: bevitori che sorbivano non da prosaici bicchieri bensì da calici un vino dorato erogato da vasi ellenici. Nel bel mezzo dell'immenso locale edoardiano dominava un oggetto con tutto l'aspetto di una gran tinozza da pigiatura, trescando entro la qual fanciulle dalle gonnelle sollevate frangeano grappoli coi piedini vezzosi, mentre uomini dai nasi pronunciati facean corona ridendo e applaudendo. Qui certo si condiscendeva all'ubriacatura, ma non la volgare ubriachezza, bensì la sacra ebbrezza del bevitor di vino. Un individuo corpacciuto camuffato da Bacco si aggirava vacillando con il calice levato, distribuendo pacche sulle spalle, baciando le belle dal naso dritto, vociando. D altro canto, aggrondato, le labbra dischiuse a disvelare una straordinaria penuria dentaria, girovagava per la sala nientemeno che Ippo, Ippo in una sorta di costume da antico ateniese, grappoli finti in luogo del berretto, e indosso le sue tavole da tramezzino. Il cartello posteriore suggeriva: COLMA LA COPPA CON VINO DI SAMO. Mentre Ippo orbitava alla volta di Edwin e Aristotle Thanatos divenne visibile il pannello anteriore: UN SORSO DI VINO DIVINO TI BEATIFICA IL PANCINO. Le funzioni mondane e religiose d'Ippo s'erano dunque infine amalgamate. Ravvisato Edwin senz'ombra di sorpresa disse: «Nemmanco un capello t'è rimasto,» e poi «stramaledetto lavoro che l'è questo qua. Gnanca un goccio de birra se pole trovà.» Seguitò a gironzolare. Aristotle Thanatos fece cenno a una fanciulla con le gambe ignude dal delizioso profilo cipriota. Ella si approssimò sorridente recando una ghirlanda di pampini per Edwin. «Dai ora un'occhiata» propose Aristotle Thanatos «ai nomi coi quali alcuni di questi vini verranno commercializzati. Nomi di eroi, come puoi constatare.» Un espositore sciorinava campioni di etichette: Ulisse, Agamennone, Achille, Aiace, Menelao. 

«Menelao non va bene» eccepì Edwin. «Evoca reminiscenze ponziopilatesche. Adesso vorrei dunque assaggiare questi nettari, suvvia.» 

I vini erano esuberanti, taluni resinosi, certuni dal sentor di fumo, tutti grati al palato. «Ora dimmi però» disse Aristotle Thanatos. «Che intendi fare, di preciso, della tua vita? Non dai l'idea di passartela troppo bene nella tua situazione attuale, sbaglio? Questa calvizie, per esempio. Calzoni dozzinali e fuor di taglia. Scarpe scalcagnate. Igiene personale a dir poco approssimativa. Colma la coppa con vino di Samo, siediti qui e raccontami tutto. Sei sposato? Me ne compiaccio. Guadagni abbastanza denaro? Non rispondere, tanto vedo bene che la risposta è no. Tutte quelle tue parole ti rendono felice? Probabilmente sì, altrimenti non ti assoggetteresti così supinamente alla tua attuale condizione di calvizie e, a dir poco, ineleganza. Dove abiti? Dov'è che lavori? Figlioli ne hai? Possiedi un'automobile? Sappi che non sei tenuto a rispondere a tutte queste domande immediatamente.» Sopraggiunse con un vassoio un'incantevole donzella dell'età dell'oro. «Assaggiane uno» disse Aristotle Thanatos. «Sono dolmàs.» Edwin prese un involtino di foglie di vite con ripieno di riso e carne aromatizzato alla menta, lo mangiò con gusto, e se ne servì un altro prima che il vassoio passasse oltre. 

«Sì,» disse Aristotle Thanatos «vedo che oltretutto sei pure affamato.» 

Edwin fornì motivazione plausibile di tanta calvizie. Aristotle Thanatos annuì, esalando parve un sospiro di sollievo; evidentemente quella disfunzione l'aveva turbato. Edwin dichiarò di non essere particolarmente impaziente di tornare a insegnare linguistica a Moulmein. Il perché non lo spiegò: la vitaccia scandalosa degli ultimi tre giorni, la parolaccia sbattuta in faccia a innocenti telespettatori, la caccia conclusasi al cesso per gentil concessione di Chasper. Aveva la sensazione che Aristotle Thanatos si apprestasse a offrirgli un lavoro. 

«Ci serve, vedi,» disse Aristotle Thanatos «qualcuno in grado di gestire una specie d'ufficio di pubbliche relazioni. Qualcuno che abbia molto viaggiato, un poliglotta navigato, d'ampia cultura general dotato, con gente d'alto bordo ammanicate, d'indubbio fascino fregiato, elegante e ben curato.» Scrutò Edwin mestamente. «Che peccato.» 

«Ascolta» disse Edwin. «Mica son sempre conciato a questo modo. Dovresti vedermi quando sono nei miei panni che gli mangio la pappa in capo a molti, cavolo.» E inorridito del gergo sfuggitogli rimase a bocc'aperta, emulato da Aristotle Thanatos. Ammanicato con gente d'alto bordo, eh? Edwin esorcizzò con un sorriso quell'uscita non proprio in punta di forchetta, ovviamente una facezia, un solecismo utilizzato di proposito, non infrequente fra la gente d'alto bordo. «Paro proprio 'n figurino» sorrise Edwin disperatamente «quanno sfoggio 'na gran chioma riccioluta.» Rise forte e agguantò il ginocchio paffuto abbigliato di buon taglio di Aristotle Thanatos. Aristotle Thanatos fece la faccia scura e disse: 

«Ma certo, sicuro, capisco, l'hai detto per celia. Be', perché non torni a trovarmi quando ti senti un pochettino meglio? Appare evidente che al momento non sei in te. Sappi che non ti biasimo, poverino. Non credo proprio che in sostanza tu sia realmente mutato a tal segno, sbaglio?» Avvicinò gli occhi neri scintillanti a quelli di Edwin, come a voler condurre una visita oftalmica. «Mi chiedo come mai» disse. «Mi domando perché. All'università eri molto diverso, vero? Possedevi, rammento, quattro ottimi abiti per lo meno. E poi ti han trafficato nel cervello, sbaglio? Un vero peccato, a dir poco.» 

«Abiti eccellenti ne possiedo ancora» disse Edwin. «Sei, per l'esattezza. Si dà però purtroppo il caso che li abbia tutti lasciati a Moulmein.» 

«Moulmein» gli fece eco Aristotle Thanatos. «Città piuttosto malfamata anzichenò, se la memoria non m'inganna. Ma capirai, c'era la guerra allora. Io ero nella RAF, sai com'è. Orbene, Spindrift, fatti un altro goccetto o quel che vuoi. Io bisogna che intervenga senza indugio laggiù per impedire al signor Thalassa  di piombar nella tinozza. Un uomo affascinante, Spindrift, ma incline alla bisboccia.» Ciò detto mollò una pacca a Edwin come l'avrebbe ammollata a un vecchio cane mollo e s'incamminò. Il signor Thalassa andava eseguendo movimenti natatori, il pizzo caprino grondante vino. Edwin disse, deglutendo: «Jack.» 

«Non chiamarmi Jack.» 

«D'accordo. Aristotle, Bottle and Glass , Thanatos, Morte, come ti pare. Prestami una cocuzza, ti spiace? Due cocuzze. Un par di sghei.» Il termine giusto non gli veniva. «Per un tetto per la notte.» 

«Povera creatura.» Abbandonando il signor Thalassa all'annegamento, Aristotle Thanatos tornò di un passo sui suoi passi. «Vuoi forse dire che te la passi male a tal punto? Mi spiace tremendamente. Colpa mia, lo ammetto, metterti nell'imbarazzante condizione di dover chiedere. Avrei dovuto lasciarti concludere il tuo racconto. Proprio non immaginavo. Ma sono un uomo impaziente, vedi, lo sono sempre stato. Il mio peggior difetto, mi dicono gli amici. Risiediti. Risiedo anch'io.» Risedettero. 

«Senti,» disse Edwin «non facciamone un dramma. Insomma, soldi ne ho, o per meglio dire li ha mia moglie, non so dove. Non sapendo dov'è lei. Ho solo bisogno d'un posto per dormire. Soltanto per stanotte, tutto qui.» 

«Donne» sintetizzò Aristotle Thanatos con amarezza non inferiore a quella che avrebbe potuto sfoggiare Harry Stone. «Certo, capisco. Se n'è andata, vero? Proprio così. Hm. Ai vecchi tempi erano gli uomini a lasciar le donne nelle peste. Ma abbiam fatto progressi. Bene, sarà meglio che passi la notte con me. Ho una camera a due letti. E poi domattina magari facciamo una bella chiacchierata e vediamo di venirne a capo. Hm. Sapessi quanto mi rincresce, sul serio.» Volse attorno lo sguardo sull'ebbra sala cosparsa di pampini e zuppa di vino. Il volto gli si contrasse, per la prima volta quella sera, in un'espressione divertita. «Decisamente» disse «non è questo il momento per discutere seriamente. Ritengo tuttavia sconsigliabile per te indulgere ulteriormente nel bere. Non hai per nulla una buona cera. Lo sfinimento, suppongo.» 

«In effetti è stata una faticaccia» ammise Edwin. Si passò l'anulare sinistro sugli occhi chiusi in un tradizionale gesto di spossatezza. Si sentiva intontonito; il vino, probabilmente. 

«Vatti dunque a coricare» disse Aristotle Thanatos. «Ho la camera a questo piano. Fatti un bel bagno e datti una degna sbarbata col mio rasoio elettrico. Poi dritto a letto. Domattina toccherà alzarsi presto se vogliamo aver tempo di conversare, dovendomi trovare in aeroporto per le dieci e mezzo. Quindi coraggio, subito a letto. Io non posso ancora lasciar la festa, si capisce. La mia stanza è la numero dodici. La porta non è chiusa a chiave. Avanti, non indugiare, vai a farti una ricca dormita. Povero Spindrift» disse affettuosamente, stringendo il braccio a Edwin. «Nessuno in ateneo si sarebbe mai sognato di chiamarti così» soggiunse. Edwin cercò qualche parola in greco moderno, ma non gli venne in mente niente. «Apothanein thelo » disse invece, senza averne l'intenzione. Aristotle Thanatos rise. «Orsù, bando alle ciance, a nanna. Domattina ti sentirai un altro.» 

Sortito dal salone salubremente brillo Edwin barcollò un pochino. Tutto quel vino. Intoppò Ippo che di ritorno dalla ritirata si abbottonava al riparo del pannello anteriore. «Che minchiata» disse Ippo. «Ancora 'n l'hai artrovato '1 tu' riologio?» Nel percorrere il corridoio soffice come neve Edwin vedeva i numeri delle camere ondeggiare. Ma, senza alcun tentennamento oculare né qualsivoglia suggestione fantasmatica, incrociò sicurissimamente le due figlie pettopiatte di Renate che ridacchiarti sotto i loro caschetti all'eschimese si recavano, tenendosi per mano, in missione in qualche camera. Facevano dunque sempre tutto quanto insieme, quelle due? Sbirciò un numero in tralice, vide dodici, aprì la porta, si rese conto che era la stanza sbagliata, sbagliata di grosso, ma i due occupanti erano troppo occupati per accorgersi che qualcuno aveva aperto la porta della stanza sbagliata. Dischiuse le labbra e deposta la punta della lingua in zona alveolare Edwin si apprestava a dichiararsi «Spiacente» allorché, come il ratto dal serpente, il suo sguardo venne catturato, ipnotizzato, dalla vista dell'atto. Si, quell'atto lì. Con tanto di effetti sonori, apparecchiandosi il treno a fare ingresso in stazione. «Sheila» disse Edwin, ritraendo la punta dall'alveolo inferiore si da sollevar la lingua in posizione palatoalveolare ed egli stesso, in un compartimento del suo cervello sgomento, consapevole del fatto. Era Sheila di certo, sicuramente Sheila, giacché, pur nella foga della sua foia, volse il capo. «Aspetta» ansimò l'uomo, un uomo che Edwin non aveva mai visto, un uomo senza barba. «Lasciami finire, accidenti a te.» 

«Fate pure con comodo» disse Edwin piuttosto freddamente, freddamente prendendo atto d'esser sul punto di venir meno - primrose, Jerusalem artichoke, causeway, penthouse - e poi venendo meno con raggelante subitaneità.

29 

«Stasera,» annunciò Harry Stone, presentatore scalzonato «anzi, staporcasera, er qvi presente prufessó fole completà la su' prima sessazionale copparsa ala tele co' 'nantra timostraporcazione de porche parole. L'antra fotta, come er monno 'ntero ricorta - e afemo ricefuto telecrammi dala Cina e dar Perù e da 'nsacco d'antri porchi posti stragneri che ce n'è tanti de qvesti lerci telecrammi che là drento nun ce s'entra chiù - lu' ha tetto 'na parola che nun se pole ripete ma se pole tescrife ufizialmente come…» Consultò un foglietto dattiloscritto, «…'mprecazione pleonastica trifiale 'n fuzzione sostattifale e ferpale co 'na porca struttura fonematica compretente 'na schifa costrittifa spiratte lapiotettale sorta secvita da 'na fetusa focale semiaperta potteriore e cocclusa da 'na lurita occlusifa felare sorta. Atesso er prufessó rimostrerà er fuzionametto de nu sozz'omocrafo.» Muto, percosso, attonito, il mondo al nunzio stette. «Ecco a foi er prufessó.» 

Grazie a un dispositivo particolare, a colmare per prima lo schermo del monitor fu la testa calva di Edwin col diagramma vocalico in sovrimpressione. Egli sollevò le palpebre palpitanti prendendo quindi copiosamente a sanguinare dalle nari. «Chiedo venia a lorsignori» disse. «Sono inciampato per caso in un vaso andando a lume di naso. La classica goccia che fa traboccare il vaso e pure il naso.» Fece occhiolino. «Parecchi omografi nonché omofoni e omonimi abbiamo allo studio stasera. Questo, per esempio.» Afferrato un volantino con una sacra immagine aureolata sullo sfondo d'un turrivelato brigantino, lo modellò in foggia di cartaceo aeroplanino e, alitatovi tre fiate, un fiato lo proiettò a evoluire nell'aere domandando: «Che penseremo di un santo predicatore decollato? Gli è capitato d'esser decapitato oppure assurto in cielo s'è involato? Probabilmente entrambi perché verba volant, e se vi sembra assurdo tenete a mente che la mente non mente, ma pur se l'accetta è bene accetta provate voi a rincollare colla colla un mozzo mozzo. A ogni buon conto sarà bene officiargli una messe di messe dimesse. Proseguiamo» incalzò. «Ecco qui la nostra ispanica amichetta.» Sollevò la gonna a Carmen a disvelare una calza bene in carne. «Tu molto birichino» fece lei crogiolandosi nei nei. «Oh caramba.» I suoi denti masticarono lo schermo due secondi. «È la gamba» spiegò Edwin «che c'incalza, non la calza, e siccome non siam sorci e amiamo imporci come porci perché porci una meta a metà? Guardate qua.» Al che si vide inopinatamente Charlie, irretito da quella calza a rete, arrampicarvisi a piedi nudi verso il Walhalla con una fune di spaghetto in spalla lagnandosi, non essendo una galla: «Pur collocandomi s'un salvagente non praticavo la catechesi né bramavo di certo l'ascesi quando la scesi dal marciapiede, ma il sale di chi sale le scale per accedere alle sale e di chi scala scalzo le calze come fossero balze è un condimento che può indurre al pentimento. Infatti non è italiana ma guai a darle spago, ti dà filo da torcere, ti fa prender lo spaghetto, però capirete è una grande amatrice, e poi, checché ne dicano le checche, come la passera strizza l'occhio al fringuello così la linguina ben s'accoppia al vermicello.» 

«Voi che ne dite?» disse Edwin. «E più facile che s'accoppino o che s'accoppino? Prevarrà il fuoco della passione o la vampa del focone? Ma poiché mi volgo al volgo in quest'ambito ambito, considerata la nostra indigenza, ai prosperi l'ardua semenza. Ciò detto passiamo oltre, lasciate che vi prospetti un'invenzioncina tutta mia, un bricco spataccogeno per bricconi pataccari da tiro e da trotto, a vela e a vapore, per tutte le stagioni, le magioni, le cagioni e le ragioni non escluse libagioni e salagioni, una cuccuma autospataccante le cui funzioni ove funzioni sono tante, dal bollire le verze al nettare le verghe e le sferze col nettare purificante idoneo pure pel bagno lustrale, pel bagno orinale e pel bagno penale. Soltanto una sterlina, di fiorini una decina, di scellini una ventina, di pennyni una duecentoquarantina.» Una coriandolata di monetine, il montepremi, spiraleggiò giù dal contatore elettrico. Edwin raccolse una manciata di scellini, ciascun dei quali lo implorò: «Frustarne, su, scudisciarne forte. Non esitare, me devi spennare, scuoiare, spacciare. Lapidare non me poi ma me poi dilapidare. Si non spenni e spanni fino a l'ultimo penny lo dico ala ghenga che te pigli e te tenga.» 

«Prodigi della filologia e dell'anfibologia» disse Edwin colmo di legittimo orgoglio. «Prendete questo cane, per esempio.» E prese tra le braccia Negro divincolantesi come un ossesso, con indosso una testa di luccio a uso di muso posticcio. «Per esser Negro è Negro, non lo nego, e per esser nero è nero, nevvero, ma è pur vero ch'egli è Negro in quanto nero e non Negro in quanto negro, e siccome è meglio dire pane al pane e vino al vino, diciamo cane al cane e tino al tino e diamo pane al cane e vino al tino.» Ridepose delicatamente Negro tuttora corvino e canino ma ora tutto perbenino, un cane buono come il pane, contento in attesa del contentino. «Se gli affetto la pagnotta affetto affetto, direte voi, se lo carezzo piano ho un piano, e in effetti lo faccio perché non s'inalberi e non mi bagni in bagno lasciando il rigagno, ma salvando la faccia la faccia agli alberi con reciproco guadagno.» Levando Edwin gli occhi al cielo basso vide Les per contrappasso segnare s'una passerella il passo. «Passerà» gli disse. Poi gli parve che corresse e si corresse in fretta. «Hai furia?» domandò. «È il cielo che ti manda e non ti celo che ce l'ho» Les cantò. E per mantenere l'equilibrio senza esporsi al pubblico ludibrio lesse un classico di Hesse poi si cosse una cassa di patate lesse. 

«Lasciamo adesso perdere gli omografi eccetera» Edwin concesse «e dedichiamoci a ragionar d'amore, essendo l'amore la più problematica combinazione fonematica che mai si sia vista sotto il sole e soprattutto all'ombra.» Comparve Coral, priva di sottana. «Semo propio 'na pella coppia, nun c'è che tì, maiala» disse accorato Harry Stone, scalzonato. «L'omofollia tutte le teste le porta via» sogghignò Coral corallina. «L'amore, eh? Un gioco da ragazzi, quando il gioco si fa duro, meglio quindi andare sul sicuro e non far torto al cuore, nonne che avete interdetto d'amore. A buon intenditore…» 

«Dimostrazione d'amore la fornirà ora mia moglie Sheila» disse Edwin «titillando i sentimenti con tutti e sette i sacri rapimenti. Non cercate di schiarire le vostre tivù, giacché gran parte dell'esibizione deve svolgersi al buio, trattandosi di un atto occulto da attuarsi col favor delle tenebre. Andiamo a incominciare. A iniziare. A principiare. Ma non a debuttare. Verbi diversi, tutti però di origine latina tranne l'ultimo, che francamente è una parola franca. Le innumerevoli risorse del linguaggio. Fondamentalità delle radici, estranee a volte, ma mai traditrici. Mentre dunque la dimostrazione è in corso, potendo la medesima risultare alla lunga piuttosto tediosa, m'ingegnerò d'intrattenervi con spassose curiosità filologiche. Esse sono di solito in vendita esclusivamente nei cessi pubblici, la cui frequentazione mai cessa anche perciò di dar sollievo alle necessità intellettuali non meno che a quelle corporali. Cionondimeno stasera grazie a speciale dispensa ciasperiana esse sono qui rese disponibili e sottoposte alla cortese attenzione di codesto spettabile pubblico.» Energici rumori amorosi salivano in crescendo. «Crescendo, schietto vocabolo italiano appartenente al gergo musicale d'uso internazionale e come tale adottato anche dalla lingua inglese, palesa la propria affinità con coniazioni indicanti formazioni a mezzaluna. Pur se questi rumori in sottofondo e sullo sfondo, prodotti nell'ombra e dietro le quinte da mia moglie in combutta con svariati sconosciuti ben difficilmente si prestano, temo, a formare oggetto di analisi linguistica. A tutto infatti c'è un limite. 

«Un altro punto» proseguì Edwin «necessita d'essere puntualizzato innanzi che giunga a scadenza il mio tempo. Tempo assegnatomi, a proposito, per gentile concessione della Ghenga delle Patacche. Non trova giustificazione alcuna che io debba giacer costretto e avvinto a un letto assolutamente immobile come Ulisse cinto di funi all'albero della nave per udir senza che male gliene incolga delle sirene l'irresistibil canto mentre curvi sui remi, l'orecchie turate di mollita cera, i compagni imbiancan l'onde. Non corro infatti alcun rischio, sia perché non intendo strapparmi i legami sia perché odo si delle voci, ma sono semplicemente alcuni di voi che gridano: 'stia calmo, signore, non si strappi i capelli'. Al qual proposito vorrei pregarvi di chiamarmi non signore bensì dottore, se non vi rincresce. Ecco qua il mio diploma, carta canta, rosso su bianco.» Ciò detto esibì fiaccamente un pezzo di carta igienica vergato a rossetto: IMBROGLIONE. «Quanto al fatto di serbar la calma e con essa i miei capelli non chiederei francamente di meglio.» Sorrise alla telecamera che l'inquadrava dal soffitto. Quindi si sollevò alla testa una mano anchilosata. Con profondo sbalordimento si accorse che già gli rispuntavano i capelli, un ispido e crespo vello negresco. In cilindro e marsina immacolata, mulinando un bastone dal pomo d'argento, Leo Stone prese a danzare in scena. S'era abilmente ingrossato il semitico naso con convincente cera color carne. «Adesso tutt'insieme» concionò: 

«Gne rispunta, gne risboccia, gne s'arveste la capoccia 

Inciuchita da bisboccia ma pregevole e belloccia, 

Né emaciata né grassoccia, più cocciuta d'una roccia, 

Destinata ad esser riccia se il dottore non si spiccia 

Ad estinguere la miccia della zazzera posticcia 

Che invadente e carboniccia la cocuzza gì'impelliccia. Ha gustato ormai la feccia dell'infamia godereccia, 

Ha lanciato la sua freccia contro l'ansia lettereccia, 

Deve or battere in breccia chi gl'insidia la corteccia, 

Far dei sogni cartastraccia, liberarsi infin le braccia, 

Affrontare faccia a faccia chi la vita gli minaccia 

E mondarsi d'ogni traccia del timor che il cuore agghiaccia.» 

«Ma non s'era detto basta con tutti questi tuttofoni?» protestò Edwin indignato. Aristotle Thanatos gli stava chino suso con la testa come un teschio dal naso aquilino. Parlava greco moderno con lieve accento turco. Il suo cranio spoglio, gentile concessione del reparto raggi X, lentamente si rivestì di carne. «Avanti» disse Edwin. «Un altro poco.» Ma la carne s'arrestò a uno stadio di ragionevole paffutezza e non oltre. Edwin l'osservò ammiccando. Svaporarono tutte le immagini tranne quella di un uomo in vestaglia che non era Aristotle Thanatos e seguitava a barbugliare sul letto di Edwin nel suo greco sbrodolato come affetto da disturbi neurologici ai centri del linguaggio. Edwin diede riammiccando concretezza a un bianco padiglione che però non era quello da cui s'era dato alla fuga. Non riconobbe alcuno. Dov'era R. Dickie, dov'era il ghignatore, dov'era il gibboso giovanotto pulcinellesco? Forse si trattava di un altro ospedale. A pensarci bene ben difficilmente l'avrebbero ricondotto a quel primo nosocomio, non dopo un comportamento che dovevano aver giudicato imperdonabile. Il grecofono chino su Edwin sembrava matto e beato. Mosse vacillando verso il letto successivo, socievole sebbene monoglotta. Da entrambi i lati del reparto s'allineavano letti con dentro pazienti, taluni con indosso occhiali scuri, la gran parte col capo bendato, uno con le membra tremule del morbo di Parkinson. Edwin si tastò delicatamente la testa. C'era cresciuto qualcosa: inamovibili spire di crespo sopra uno strato d'ovatta. Piombando privo di sensi doveva essersi ferito in malo modo. Poi eccoti entrare tutto allegro il dottor Railton strofinandosi le labbra da trombettiere. 

«Lei qui che ci fa?» chiese Edwin timoroso. 

«Io qui ci lavoro» rispose il dottor Railton. «Ora come si sente, dottore!» 

«Lo so» fece Edwin contrito. «Aveva ragione lei, eccome se l'aveva. Sono troppo irresponsabile per fregiarmi di sì nobile titolo. Ma non posso disconoscerlo, vero? Come faccio a rinnegare quanto mi è stato conferito?» 

«Non si agiti così» ammonì il dottor Railton. «E la smetta di sentirsi in colpa. Il senso di colpa ostacola considerevolmente la guarigione.» 

«Lei quindi considera la colpa in senso clinico e non morale?» stupì Edwin. «Ma che cosa direbbe dovendo esprimere un giudizio morale su di me?» 

«Questo non c'entra nulla» replicò il dottor Railton. «L'accordo fra di noi non lo prevede. Ora stia calmo e non ci pensi più.» 

«Comunque mi spiace davvero» disse Edwin. 

«Se dispiacersi la fa sentir meglio» concesse il dottor Railton «continui pure a dispiacersi.» Si alzò dal bordo del letto. «Torno a trovarla più tardi.» 

«Si è divertito a suonare la tromba ieri sera?» 

«Sappia che io mi diverto sempre a suonare la tromba» rispose il dottor Railton. «La tromba è per me probabilmente ciò che per lei è lo studio delle parole. Però» precisò il dottor Railton «esercito anche una professione, io.» Sorrise di tutto cuore, poi lasciò il reparto.

30 

Venne un'infermiera a prendergli il polso e la temperatura. Era un gran pezzo d'irlandesona pasturata a patate, con due belle guancione prugnemela. Non appena il termometro si fu intrufolato nel suo nidino caldo per restarvi rincantucciato un minutino, Edwin arrischiò un paio di quesiti circospetti. «Dove mi trovo?» volle saper per prima cosa. Essendo costei di stirpe villereccia, e quindi non disposta a tollerare corbellerie anglosassoni, rispose: 

«Non faccia domande sciocche. Si trova nel reparto postoperatorio.» 

«Vuol dire che mi hanno operato? Digià?» 

«Non faccia domande bischere e non si buscherà bugie. E poi le sto prendendo il polso, come vede.» 

«Che giorno è?» volle allora sapere Edwin. L'infermiera annotò le pulsazioni in un registro, quindi estrasse il termometro e lo lesse. «Tutti i giorni sono uguali per chi lavora sodo» rispose. Tracciò un segnetto sulla tabella termometrica. «Tranne la domenica, e anche quel giorno lì bisogna che il lavoro vada avanti» soggiunse, essendo rampolla di un povero contadino. 

«Hanno dato niente d'insolito ieri sera in tivù?» domandò Edwin. 

«E io che ne so? Un mucchio di stupidaggini, di sicuro. Ho meglio da fare che guardare un mucchio di stupidaggini in tivù.» 

«Non ne dubito» osservò Edwin galante. «Una bella pollastrella come lei.» 

«Non faccia lo sfacciato» replicò l'interessata, e passò al paziente successivo. Ma, mentre era lì impegnata, scoccò a Edwin un'occhiata piuttosto sfacciata a sua volta. 

Prima di cena venne in visita un prete anglicano. «Mi chiedo se non vorrebb'essere tanto gentile da rispondere a una domanda semplicissima» disse Edwin. «Che giorno è?» 

«Che giorno? Oggi?» Era un vecchio inargentato e un poco assente. «Dunque, vediamo…» Frugandosi in una tasca interna ne trasse un'agenda che parve a Edwin considerevolmente povera di appunti. «Non credo proprio che servirà a granché. Bisognerebbe innanzitutto sapere quanti ne abbiamo. Ciò stabilito si potrebbe dedurre, con l'aiuto di questo libriccino, il giorno preciso della settimana. Immagino» disse «che sia mercoledì o giovedì. Non sono sicuro. Ma sono assolutamente certo» sorrise 

«che oggi è un giorno feriale.» 

«Grazie» disse Edwin. «E che ore sono?» 

«Il fatto è» rispose il prete «che temo di aver lasciato l'orologio a casa, come al solito. Vedo però qui sul comodino quel che ritengo sia il suo, di orologio, e fa, vediamo, ecco, quasi le sei.» 

«Il mio orologio?» trasecolò Edwin incredulo. «Come caspita c'è arrivato?» Il prete glielo mostrò da presso. L'oggetto scandiva il tempo ticchettando tranquillamente, al pari d'un gatto girandolone che rincasando dopo prolungata assenza imperturbabilmente ronfi indifferente alle angustie in cui ha precipitato i suoi cosiddetti padroni. Era proprio il suo orologio. 

«Come c'è arrivato?» gli fece eco l'ecclesiastico. «Be', sarebbe azzardato, persino blasfemo, ascrivere la circostanza a un intervento miracoloso. Parrebbe più ragionevole supporre che ce l'abbia messo lei stesso. O qualche altra creatura di natura comunque non divina.» 

«Che cosa vuol dire» domandò Edwin «Spindrift?» 

«Spindrift? Povero me, quante domande. Direi che si tratti di spruzzi provenienti dal mare. C'è una poesia di Kipling, mi pare, in cui tale vocabolo trova eccellente impiego. 'Qualcosa qualcosa qualcosa giammai non perirà, spruzzi sull'ali dell'aria e liberi voli di procellaria'. Una poesia» soggiunse il religioso «avente a oggetto il mare, com'è agevole intuire.» E ridacchiò d'un riso da vecchio. 

«Può anche significare un detersivo o una lavatrice o qualcosa del genere?» 

«Io i miei panni sporchi li mando in lavanderia» dichiarò il pastore con un certo distacco. «Perché, se mi è lecito chiederlo, me lo chiede?» 

«Oh, roba da poco,» rispose Edwin «anzi da nulla.» 

«Bene, sono lieto di aver fatto questa chiacchieratina» disse il prete. Edwin lo scrutò attentamente per vedere se tante volte non stesse seduto sopra un vater. «A meno che, naturalmente, lei non abbia da pormi un'altra domanda» aggiunse il religioso in tono faceto, affrettandosi a puntualizzare: «Faccio appello alla sua indulgenza… ciò non vuol dire, s'intende, che cesserò d'esser lieto se lei vorrà rivolgermi tale domanda. Queste formule d'uso comune, queste frasi fatte, sono destituite di senso o quanto meno di buonsenso. Che cosa insidiosa, infida e traditrice, le parole.» 

«Ritiene lei» chiese Edwin lentamente «che un uomo abbia mai il diritto di abbandonare sua moglie?» 

«No» rispose prontamente il religioso. «Ci è stato detto di perdonare fino a settanta volte sette.» Questione chiusa. Si alzò con artritica difficoltà dalla sedia accanto al letto. «Se gradisse preghiere,» disse imbarazzato «o qualcosa del genere, sarei ben lieto, ossia, sarei felicissimo di…» «Davvero gentile» disse Edwin. 

«Credo proprio che lei m'abbia giocato un scherzetto» disse il pastore con cristiana tolleranza. «Mi accorgo ora dalla sua tabella termometrica che Spindrift è in effetti il suo nome. Sì, capisco, una specie d'indovinello, certo. Bene, arrivederci. Spindrift, spindrift» continuò a borbottare benignamente fra sé mentre tirava innanzi. 

Edwin non riuscì a consumare che una cena leggera (trito di carne con purè di patate al forno e altre patate di contorno: passate, rosolate, una arrosto). Rimuginava a che cosa avrebbe detto a Sheila, ammesso ovviamente che si degnasse di farsi viva. Poteva perdonarla, si capisce, ma il perdono le sarebbe parso atto del tutto immotivato e persino arrogante, stante la di lei convinzione che nulla vi fosse da perdonare. Forse in realtà spettava a lui chiedere perdono a Sheila, considerato che di solito le mogli non se ne vanno in giro a fornicare e commettere adulterio ove trovino soddisfazione coniugale fra le mura domestiche. La faccenda durava da gran pezza, e a Edwin non risultava troppo arduo ammettere che in definitiva fosse tutta colpa sua. Quanto egli si proponeva di fare adesso era già carico di un potenziale strascico di senso di colpa. Il quale però sarebbe stato controbilanciato dal senso di colpa che Sheila avrebbe dovuto provare e non aveva mai provato nel commettere il misfatto di ferirlo (perché l'aveva ferito, tremendamente, e non serviva a nulla che gli dicesse che lui non aveva il diritto di considerarsi parte lesa). Edwin aveva intenzione di lasciarla perché, trascurandolo quando egli aveva più avuto bisogno di lei, Sheila stessa aveva rinnegato quel suo tanto decantato credo: l'importante era stare insieme, il resto non contava nulla. Lasciarla, ovviamente, significava né più né meno dirle di uscire dalla sua vita. In Inghilterra erano due senza dimora, i loro pochi beni mobili si trovavano a Moulmein. Ma, dopo tutto quel ch'era successo, Edwin era assolutamente certo che a Moulmein non ci sarebbe più tornato. Quando Sheila fosse scomparsa dal suo futuro, quel futuro avrebbe dovuto essere riprogettato. 

Ma, si chiedeva Edwin, avevano davvero avuto luogo quei bizzarri accadimenti? Non poteva essere altrimenti, considerato il realismo con cui gli persistevano in memoria. Il SOL LA MI SOL FA MI SI FA FA RE solfeggiato in quel circolo; la lucida tromba di Railton catturante la luce del riflettore; un comedone non strizzato sul labbro superiore di Harry Stone. E, soprattutto, quell'agghiacciante sbuffante indaffarata nudità, il treno ch'entrava in stazione, la voce di Sheila penetrante smaniosa agonizzante. Quella cosa lì era successa di sicuro. E s'era successa quella cosa lì, allora era successo anche tutto il resto. Ma in qual modo dimostrare o confutare checché? La gente detiene una presa assai debole sulla realtà, rammenta soltanto ciò che vuole rammentare. E anche gli individui più colti e raffinati - Raillon, Chasper, Aristotle Thanatos - avrebbero intenzionalmente adottato una selettiva forma di reticenza, nell'intento di non aggiungere l'umiliazione della testimonianza all'umiliazione della circostanza. 

Aristotle Thanatos. Trafitto dall'inquietudine Edwin principiò a sudare, lo colse un ansito angosciato. Aveva mai davvero conosciuto qualcuno così chiamato? Passò implacabilmente al vaglio la memoria, lambiccandosi in cerca di Aristotle Thanatos. Aveva precisamente l'aria di un nome fittizio, proprio come Mr. Eugenides, il mercante di Smirne . Era possibile che un greco si chiamasse Thanatos? Cercò di riesumare frammenti di vita universitaria, di rievocare specifiche scene, determinati incontri. Gli parve di recuperare, a prezzo d'una feroce emicrania, un'immagine di se stesso in compagnia d'altri tre o quattro uomini nel pub dirimpetto alla sede della confraternita maschile - il College Arms - tutt'infervorati a discutere con gran serietà di qualcosa, forse di estetica oppure della capitolazione della Francia, forse dell'imminente chiamata alle armi oppure della definizione precisa di un termine tecnico, forse della natura del barocco oppur di chissaché. Gli parve d'intravedere, proprio sul limitare del gruppo, un tipo grassoccio e scuro di carnagione, più attempato dei compagni. Aguzzò lo sguardo e scoprì trattarsi di uno studente egiziano di ingegneria di nome Hamid. Aristotle Thanatos. Qualcuno incontrato in America durante l'anno di perfezionamento postuniversitario? Un nome del genere non sarebbe stato inverosimile in America. Vide l'uomo che parlava greco moderno vagolare pel padiglione con passo strascicato in vestaglia e ciabatte, sbavando, fingendo d'essere un medico, annuendo goffamente di fronte alle tabelle termometriche. Edwin lo convocò gridando «Ehilà» e l'uomo accorse, incespicando nelle sedie a rotelle, urtando contro le sponde dei letti. 

«Nome» disse Edwin. «Tuo nome.» Rievocò dal passato brandelli di greco. «Kyrie. Onoma.» 

«Johnny» sbavò l'uomo prontamente. «Johnny Dikikoropulos. Cipro. Turchi no buono.» 

«Dynatos » disse Edwin. «È possibile onoma Thanatos?» Il cipriota ruppe immediatamente in pianto. 

«Maledizione» si adirò Edwin. «Non ho detto che sei moribondo né t'ho augurato di morire. È possibile il nome Thanatos? Conosci nessun greco che si chiami così? Thanatos, signor Thanatos. Torna qui, accidenti a te.» Ma il cipriota si allontanò singhiozzando. Si levarono grida di vergogna, oltraggiare così quel poveraccio soltanto perché era un disgraziato di straniero, non si sarebbero dovute consentire certe cose. 

«Ora un bel sedativo non glielo toglie nessuno» minacciò la caposala. «È intollerabile che un paziente solo debba mettere in subbuglio tutto il padiglione. Bisognerà pure porre un freno all'intemperanza.» 

«Ma» disse Edwin «aspetto una visita. Mia moglie.» 

«Niente visite per lei. Non è ancora in grado di riceverne, esagitato com'è. E adesso avanti coi paraventi.» Era una donna esile ma grintosa che indossava occhiali dalla montatura assai antiquata. 

«Ma è indispensabile che veda mia moglie» insisté Edwin. 

«Vedrà sua moglie a tempo debito. Stasera però no di sicuro.» Ciò detto addusse i cigolanti paraventi su rotelle a escludere Edwin dalla temperante vitalità dell'egro mondo circostante. «Ne avrà di tempo per veder sua moglie quando starà meglio.»

31 

«Bene,» disse Sheila «adesso hai proprio l'aria d'essere in gran forma. Erano tutti in angustia per te, sai?» Meravigliosamente bruna nell'ampia gonna nera e maglione color limone, la pelliccia poggiata sulle spalle, si mise a sedere. Era la sera dopo. Edwin si sentiva riposato, avvertiva lui pure d'aver l'aria d'essere in gran forma. E varie forze risanatrici avevano concorso a porlo in uno stato d'animo propenso all'indulgenza. Tant'è vero che si autoperdonava. Si perdonava gli ultimi giorni e tutti quelli precedenti. Perdonava anche Sheila, ma si trattava di un segreto, di un'informazione riservata, a uso esclusivamente interno. 

«Come mai tutti erano in angustia?» chiese Edwin prendendola per mano. Una mano fredda, ma anche la sera autunnale lo era. Tamburellava alla finestra, proclamando il suo freddo. 

«Certo, presumo che in pratica tu ignori l'accaduto, vero?» disse Sheila. «Comunque non vedo proprio a che pro ragguagliarti in proposito.» 

«Dopo che sono caduto, intendi?» 

«Oh, d'esser caduto dunque ti ricordi? Hanno deciso di rinviare l'operazione. E poi, così dicono, hai subito una specie di trauma postoperatorio. Sei caduto in coma, a quanto pare. Parecchie volte ho cercato di venirti a trovare, ma non me l'hanno mai permesso.» 

«E Nigel come sta?» 

«Nigel? Quell'imbecille? Un ipocrita impostore quant'altri mai. Ma perché me lo domandi? Perché invece non mi domandi come sto io?» 

«Ho dato per scontato che stessi bene. Hai un aspetto magnifico. Non ti ho mai visto tanto in forma.» 

«Non ho mai sentito tanto freddo.» Rabbrividì un pochino e si aggiustò la pelliccia sulle spalle onde averne più tepore, sottraendo per farlo la mano alla stretta lieve di Edwin e omettendo di restituirgliela. 

«E… quell'altro come sta?» chiese Edwin timidamente. «Il successore di Nigel?» 

«Vedo che i miei spasimanti t'interessano molto» disse Sheila. «Quanto alle condizioni di salute del successore di Nigel temo di non saperne nulla. Anzi, mi correggo, ne sono perfettamente al corrente. Il successore di Nigel soffre di un grave attacco d'inesistenza.» 

«Dai, piantala» replicò Edwin bruscamente, avendone abbastanza. Poi adagiò sul cuscino la testa bendata. «Non è da te. Io so tutto del successore di Nigel, non credi? Anche se desidero dimenticarmene al più presto.» 

«Allora perché mi chiedi di lui? Senti, Edwin, come ben sai non avrei bisogno di renderlo esplicito, ma se credi che abbia trascorso il mio tempo a Londra andando a letto con chiunque mi capitasse a tiro ti sbagli di grosso. Sono stata in giro un paio di giorni con Nigel perché lo trovavo un tipo divertente. Poi ho scoperto che non lo era per niente. Oltretutto sembrava provare una forte avversione per la clorofilla. Puzzava. Diciamo pure che faceva schifo in tutti i sensi.» 

«Te la sei fatta restituire la mia biancheria?» 

«No che non me la sono fatta restituire, ma che vuoi che sia.» Edwin la guardò fissamente. Niente successore di Nigel, eh? Finora non gli aveva mai mentito. Quindi le disse: 

«Ho un po' di confusione in testa. Detesto dover affermare che menti, ma è ciò che penso. Il guaio è che al momento sono l'ultima persona al mondo a poter dire che le cose sono andate così o cosà. Il fatto è che non lo so. Ma ho la nettissima impressione che mi siano accaduti fatti che potrebbero benissimo non essere accaduti affatto.» 

«Oh» disse Sheila. «Colpa degli anestetici, frutto del coma. Sei stato un sacco male.» Stavolta fu lei a guardarlo fisso. «Sei l'ultima persona al mondo, come tu stesso hai giustamente ammesso, a poter accusare chicchessia di mentire. E sono certa che quel che hai appena detto in realtà non lo pensi. Menzogna è una parola grossa, e velenosa.» 

«Ciò che intendevo in effetti» replicò Edwin «è che non vorrei che pure tu, tu specialmente, facessi parte del ristretto gruppo di persone che mantengono il riserbo su quanto ho fatto, o credo di aver fatto, durante quei tre giorni, se di tre giorni si è trattato. Lo so che ero malato, ma vorrei comunque poter sceverare la realtà dalla fantasticheria, ammesso e non concesso che qualcosa d'illusorio vi sia stato. Ammesso e non concesso» soggiunse «che qualcosa di concreto vi sia stato.» Sheila assunse un'aria perplessa. «Un problema schiettamente ontologico» disse Edwin. «Non si può affrontare il mondo senza una chiara percezione della realtà.» 

«Oh, se è per questo ci sono cose peggiori» commentò Sheila. «Adesso comunque sei guarito. L'operazione è andata bene, a sentir loro.» Lo disse in tono piatto, senza gioia né sollievo. 

«Dimmi la verità» la incalzò Edwin. «Per l'amor di Dio, dimmi cos'è successo.» 

«Posso dirti solamente quello che hanno detto a me. Sei svenuto e ti sei ferito. E loro hanno deciso di rimandare l'intervento.» 

«Che giorno era?» 

«Oh, come faccio a saperlo? I giorni sono tutti uguali, a parte la domenica, e la domenica riesce a essere persino più noiosa dei giorni feriali.» 

«Ciò significa» disse Edwin «che non ti ho vista a letto con un altro uomo?» 

«Diamine,» rispose Sheila «certo che no. Non sarei mai tanto sciocca da cacciarmi in una situazione del genere, dopo tutto il putiferio che hai scatenato a Moulmein. Quella volta io e Jeff non facevamo davvero niente di male. È stato allora che ho capito che il tuo cervello aveva qualcosa che non andava.» 

«E che mi dici dei gemelli Stone e della Ghenga delle Patacche e del concorso per la miglior testa calva della Grande Londra?» 

«I gemelli Stone esistono di sicuro. Il concorso sembrerebbe un'idea graziosa. Ma che roba è questa Ghenga delle Patacche? Cosa fanno… vanno in giro a impataccare la gente?» 

«Vendono orologi fasulli» rispose Edwin. «A proposito. Come ha fatto il mio orologio - anzi, l'orologio di Jeff Fairlove, a sentir te - a ricomparire tutt'a un tratto? Avrei giurato che me l'avesse rubato quel tizio, quell'Ippo.» 

«Infatti» disse Sheila. «A quanto pare l'ha venduto a un certo Bob vattelapesca, un tipo che ho incontrato in quell'orrendo circolo dei gemelli Stone. Gliel'ho visto al polso e me lo sono fatto ridare. Poi l'ho riportato qui mentre tu vagavi ancora nei tuoi mondi immaginari.» 

«Come hai fatto a fartelo ridare?» 

«Me lo sono fatto ridare.» 

«Quel Bob non ti ha chiesto per caso se eri una depravata?» 

«In effetti si. Come fai a saperlo?» 

«Proprio questo è il punto» replicò Edwin in tono risoluto. «Vedi, questa cosa qui dev'essere successa per forza. Ossia, il fatto che quel Bob mi abbia rapito e costretto a frustarlo. E assolutamente inconcepibile che possa essermelo immaginato.» 

«A quanto pare hai immaginato un sacco di cose» ribatté Sheila. «Quando sono tornata con l'orologio ero insieme a Charlie… te lo ricordi, il lavavetri. Per quanto privo di conoscenza, magari eri in grado di percepire qualcosa, non ci sarebbe niente di strano. E visto che ho raccontato a Charlie la storia dell'orologio…» 

Inverosimile, assurdo. Perché Sheila mentiva? Perché non lo aiutava a scoprire la verità? Cosa stava cercando di nascondergli? 

«Comunque,» disse Sheila «dal momento che sei tanto ansioso di affrontare la realtà, sarà meglio che ti metta al corrente del mio incontro con Chasper.» 

«Immagino abbia capito che gli ho rubato il cappello» disse Edwin. «Te ne ha parlato?» 

«Aveva ben altro di cui parlare, altro che cappelli» rispose Sheila. «Nella fattispecie la questione del tuo ritorno a Moulmein.» 

«Non capisco» disse Edwin. «Per qual motivo avrebbe dovuto parlartene? Perbacco, è il mio capo, mica il tuo. E poi com'hai fatto a incontrarlo?» 

«Mi ha scritto» rispose Sheila semplicemente. «All'albergo Farnworth. Il mio recapito era noto, ricorda. Parente stretto.» 

«Ma dal Farnworth ti avevano cacciata via» osservò Edwin. 

«In vita mia» replicò Sheila «non mi hanno mai cacciato via da un bel nulla. Tranne una volta da quella chiesa in Italia. Perché ero a capo scoperto. È vero, non alloggio più al Farnworth, però siamo rimasti in ottimi rapporti. Ogni tanto ci passo a ritirare la posta. Povera me, devi proprio avermi attribuito un ruolo mostruoso nella tua fantasticheria.» Accese una sigaretta, fu sul punto di porla fra le labbra di Edwin, poi ci ripensò. Fumandola per sé gliene offrì una come si fa fra conoscenti, più che fra intimi, e gliela accese con un altro fiammifero. 

«Su, avanti» fece Edwin impaziente. «Che ti ha detto Chasper?» 

«T'invierà una lettera ufficiale, ma non subito. Mi ha pregato di comunicarti, con tutta la delicatezza del caso, che non tornerai in Birmania, e che il tuo contratto è da considerarsi rescisso in ossequio a quanto previsto dall'articolo 18. Ecco fatto, te l'ho comunicato con tutta la delicatezza del caso.» 

«Che più delicatamente non si può» disse Edwin. «Con la delicatezza di una frustata sul groppone di un pataccaro. Comunque me l'aspettavo.» 

«Davvero?» 

«Quando Chasper m'ha beccato in quelle pubbliche latrine ho capito che era finita.» 

«In mani esperte» disse Sheila «ne verrebbe fuori un titolo coi fiocchi per News of the World. L'articolo 18, tuttavia, sembra non aver nulla a che fare colle latrine. A quanto pare sei stato dichiarato inabile per invalidità.» 

«Capisco» disse Edwin. «Non è che m'abbiano dato molte possibilità di rimettermi in sesto, vero? Inabile per invalidità e buonanotte al secchio. Sei proprio sicura che l'articolo 18 non riguardi la cattiva condotta?» 

«Inabile per invalidità» ribadì Sheila. «Né più né meno. Però ti riconosceranno due mesi di sussidio per malattia. Evidentemente ritengono rischioso rispedire ai tropici gente che ha avuto il problema che hai avuto tu. Cattiva condotta, dici? Tu, mio caro Edwin, non sai nemmeno dove stia di casa la cattiva condotta. Le bilabiali fricative non si macchiano di cattiva condotta.» 

«E invece in un certo senso sì» ribatté Edwin vivamente. «Ossia, pensa alla confusione fonetica che creiamo in Birmania. Bilabiali fricative invece di semivocali. Diversamente andarono le cose in certe fasi della evoluzione dell'inglese britannico, non verificandosi allora alcuna imposizione di consuetudini fonetiche straniere su…» 

«Proprio così» disse Sheila. «Proprio così.» 

«Oh,» disse Edwin «sì.» E poi: «Due mesi di sussidio per malattia. E poi che faremo?» 

«Cosa farai tu non lo so» rispose Sheila. «Per quanto mi riguarda, me ne torno in Birmania.» 

Edwin la fissò a bocc'aperta per ben cinque secondi, mentre la sigaretta lentamente ardeva in direzione delle sue dita. «Non capisco» disse infine. «Che lavoro farai? Requisiti professionali non ne hai.» 

«E invece sì» dissentì Sheila. «I requisiti ce li ho, eccome se ce li ho. Jeff Fairlove, per lo meno, è convintissimo che ce li ho.» Edwin rimase a bocc'aperta altri sette secondi. Poi disse: «Fairlove però non lo sposi. Non lo permetterò, non ti concederò il divorzio.» 

«Quanto a questo, mica c'è bisogno di scapicollarsi» disse Sheila. «Prima o poi me lo concedi, ci scommetto. Non t'interesso abbastanza, finirai per lasciarmi andare. A te davvero t'importa soltanto delle bilabiali fricative e delle semivocali e tutta quella sguana.» 

«E a te quanto te ne importa di Fairlove?» La brace della sigaretta aveva raggiunto la pelle delle dita. «Porca…» disse Edwin sparpagliando cenere per tutto il lenzuolo. 

«Quanto basta» rispose Sheila. «E poi in Birmania ci sto bene. Mi piace il clima. Mi piace la gente. E mi piace anche la prospettiva di non esser più costretta a essere infedele. Ad andare a letto con una bilabiale fricativa non c'è mica tanta soddisfazione, non so se mi spiego.» 

«La vuoi smettere» disse Edwin, prossimo alle lacrime «con queste bilabiali fricative? Sei ingiusta con me, sei crudele. Convalescente come sono. Ma già, di me che te ne importa, non te n'è mai importato.» 

«Altroché» disse Sheila. «Certo che me ne importava. Finché non si sono messe di mezzo le bilabiali fricative. Ah, scusa. Diciamo le semivocali, le faringali occlusive, le retroflesse e chi più ne ha più ne metta. Una vita governata dalla legge di Verner e da quella di Grimm. Vedi il gergo come lo conosco? E adesso mi toccherà imparare il gergo di un tecnico del tek, immagino. Ma non credo proprio che se lo porterà anche a letto, il tek.» 

«Un tempo sostenevi» disse Edwin lentamente «che esiste un solo genere d'infedeltà. Non voler stare insieme alla persona che si dovrebbe amare. Affermavi che non c'è niente di peggio.» 

«Oh, be', capita anche di cambiare idea» disse Sheila. «Comunque in sostanza ci credo ancora. Ma che si può fare quando una persona smette d'essere una persona? Non credo francamente di avere alcun obbligo affettivo verso un cumulo di fonemi o come cavolo si chiamano. Un ammasso di bilabiali fricative non è altro che una cosa, vero? Come si fa a voler bene a una cosa?» 

«Forse hai ragione tu» disse Edwin. «È strano, ma ieri ero io che avevo quasi deciso di lasciare te. Perché ero convinto che mi avessi abbandonato. Perché quel maledetto trauma fisico m'aveva fatto credere che di me non te ne fregava niente. Per un certo verso me lo merito, suppongo. Ma ho deciso di cambiare, o almeno di provarci. In questi ultimi giorni ho perso contatto con le parole in quanto tali. Mentre, a quanto pare, entrare in contatto con la vita mi ha trasformato in un bugiardo, un ladro, un frequentatore di prostitute, un truffatore, un uomo in fuga. Se però, come dici, questi giorni hanno avuto luogo esclusivamente nella mia immaginazione, allora sono rimasto quello di prima. Dunque il cerchio si chiude ed eccoci daccapo. In questi ultimi giorni, tuttavia, ti ho cercata di continuo, ti ho cercata dappertutto. Quindi che importanza ha se sia stato sogno o realtà? Anche se ti ho cercata solo in sogno l'ho fatto comunque per amore, non credi? E ti amo, ti amo davvero, stanne certa come io ne sono certo. E ti assicuro che potrei cambiare.» 

Sheila scosse mestamente il capo bruno. «Non credo che cambiare ti farebbe bene. Sei una specie di macchina, e il mondo ha bisogno di macchine. Sei come un apparecchio a raggi X, o uno di quegli elettrocefalocosi che ogni tanto evocavi gemendo. Una qualche utilità ce l'hai anche tu. Io però non so che farmene di una macchina. Per viverci insieme e andarci a letto non mi serve di sicuro, in ogni caso.» 

«A questo mondo tutti quanti dobbiamo far qualcosa» disse Edwin. «Dobbiamo tutti guadagnarci da vivere. Chi ti ha comprato i soprammobili di giada e le bottiglie di gin? Le mie bilabiali fricative e le mie coppie minime.» Proseguì, sempre gentilmente. «È successo, purtroppo, che ho trovato come guadagnarmi da vivere in un modo di mio piacimento. Evidentemente è un sacrilegio, per un uomo sposato, trovare troppa soddisfazione nel proprio lavoro. È un peccato che non commetterò più.» 

«E l'unico peccato che hai mai commesso» disse Sheila, anche lei cortese. «Ma si dà il caso che, per quanto mi riguarda, sia un peccato imperdonabile.» 

«Non accadrà più» disse Edwin. Poi, dopo una pausa: «Adesso quindi avrai la possibilità di essere fedele fino in fondo. Niente più sofismi sulla divisione del matrimonio fra ambito fisico e sfera spirituale senza che i due approcci possano mai conciliarsi. Forse questo Fairlove sarà comunque meno tollerante di me. Forse non gradirà che tu ti conceda di tanto in tanto scappatelle con altri uomini. Se essendo sposata con me fornicavi con gente come Fairlove, con chi fornicherai quando sarai sposata con Fairlove?» 

«Tu Jeff in realtà non lo conosci granché, vero?» ribatté Sheila. «È un uomo d'indole gelosa, lui, il che non mi dispiace affatto, anzi.» 

«Oh, donna, donna» disse Edwin. «Come credi che accoglierebbe una mia lettera amichevole, la missiva di un marito amareggiato ma indulgente convinto che sia suo precipuo dovere mettere in guardia il proprio successore circa le intemperanze carnali della consorte mentre egli, lo sposo, giaceva, o sarebbe dovuto giacere, costretto a letto da grave infermità?» 

«Che vorresti dire, esattamente?» 

«Che lo sposo suddetto ha colto sua moglie in flagrante adulterio con uno sconosciuto. Subendone un trauma tale che ha rischiato di morirne.» 

«Questa» disse Sheila «è un'assoluta stupidaggine. Sarebbe nient'altro che una menzogna e una cattiveria. Sarebbe ridicolo.» 

«Tranquilla» disse Edwin. «Non me lo sogno nemmeno di farlo. Non ho tempo da perdere. Devo dedicarmi di buzzo buono a quell'articolo sulla bilabiale fricativa nell'inglese del proletariato londinese del diciannovesimo secolo. Comunque continuo a chiedermi se questi ultimi giorni me li sono davvero immaginati.» 

«Torno a trovarti presto» disse Sheila, alzandosi e lisciandosi la gonna. «Ci sono parecchie cose da sistemare. I tuoi libri, i tuoi abiti e l'altra roba rimasta a Moulmein. Uno dei motivi per cui posso tornar là. Loro sono disposti a pagare un biglietto aereo per la Birmania appunto per definire la questione sul posto. C'è anche l'auto, e la servitù. Torno… diciamo domani? Sì, domani. Mi fa piacere vedere che stai meglio.» 

«Forse» disse Edwin «da qui a domani sera avrai cambiato idea. Perché potrei, se per te è tanto importante, diventare un altro. Più uomo e meno cosa.» 

«Non credo» disse Sheila. «Non credo proprio. E comunque in Inghilterra fa tanto di quel freddo, vero? Ti invidio, sai, tutto rincantucciato in quel bel letto caldo. Mentre a me mi tocca uscire a sfidare la fredda, freddissima notte autunnale.» Rabbrividì in maniera grottesca e lasciò il reparto. Edwin udì i suoi tacchi sulla scala di pietra, rapidi e nervosi. Poi si addentrarono in una zona silenziosa, la moquette dell'atrio, e di Sheila non rimase più nulla. Anzi, no, aveva lasciato la borsetta sul comodino. Edwin fu sul punto di richiamarla, ma era troppo tardi. Tentò di far cenno a un'infermiera, ma l'infermiera fece finta di niente. Oh, be', pazienza. Poteva riprenderla l'indomani. Poteva anche tornare a riprenderla quella sera stessa. Edwin si domandò se fosse il caso di aprirla per dare un'occhiata alla sua corrispondenza personale, aspirando i deboli rimasugli di profumo e cipria che gli avrebbero regalato una nostalgica traccia vaporosa della sua presenza evanescente. Ma, sganciato il fermaglio e infilata la punta del naso nell'imboccatura, si accontentò di constatare che il senso dell'olfatto gli era tornato normale; non voleva più maneggiar nulla che le appartenesse, decise. Il padiglione continuava a brusire del chiacchiericcio sommesso di pazienti e visitatori. Cedendo alla sonnolenza Edwin si girò su un fianco, smorzò pensieri e sensazioni - luci e fuochi della sua dimora solitaria - e cercò il sonno. Venne in men che non si dica. Si ritrasse più lentamente. 

«Ho dimenticato la borsa» disse Sheila. «Spero di non averti disturbato. È presto per dormire, no? C'è ancora gente in visita. Ascolta, un uomo mi ha affidato un messaggio per te, un uomo con delle foglie di vite intorno alla testa. Vuole che tu vada a trovarlo appena puoi. Sei capace di tenerlo a mente? Mi spiace che il messaggio sia così vago, ma lui ha detto che anche i suoi programmi per l'avvenire sono un po' vaghi, questo è il problema. Il nome non me lo ricordo, ma portava dei pampini attorno al capo. Bene, dormi pure se vuoi. Il mio dovere l'ho fatto. Adesso puoi sognarti le tue dilette bilabiali fricative. Brrrr, fuori fa tanto freddo…» 

32 

Edwin si destò con meccanica subitaneità, senza traccia di demarcazione fra sonno e veglia. Si sentiva in forma, riposato, guarito, schifato al pensiero di tanta ronfante infermità circostante. L'infermiera di notte era intenta alla lettura entro la sua improvvisata tenda di paraventi; il raggio sottile d'una lampada le gettava sulla pagina una volubile ghinea d'oro. La consunta mezza corona d'argento sospesa in cielo rifulgeva sopra una città più ricca del sole. La città e il territorio e il mondo intero erano là in attesa, colmi di frutti maturi pronti per esser colti. Non avrebbe indugiato nemmeno un minuto. Si tastò mento e guance, trovandoli sufficientemente levigati. Peccato per il turbante, peraltro ovviabile. Stavolta si sarebbe organizzato in ben altro modo. 

Scivolò giù dal letto tanto silenziosamente e lentamente con la delicatezza della lingua fluidamente trascorrente da una zona articolatoria all'altra - che, nonostante la finezza d'orecchio, l'infermiera nulla udì. Girò pagina e trovò ad attenderla la ghinea d'oro, una moneta che giammai sarebbe stata spesa. Edwin sgattaiolò quatto quatto in fondo al padiglione, ad appena due letti di distanza dal suo. Che tuttavia non era più il suo letto, bensì un letto che non avrebbe più rivisto. Apprestandosi egli a rimettersi in cerca del Gran Letto delle Mercanzie del mondo, un letto effervescente di piedi digiteggianti e pulci saltellanti. 

Giunto che fu al bagno trasse un respiro profondo e si concesse un istante di sosta. La luna illuminava nitidamente gli armadietti d'acciaio. Dove fossero i suoi abiti - fatta salva la possibilità che li avessero asportati e occultati - non lo sapeva, né aveva tempo d'indagare. Carpì quindi quanto v'era di più a portata di mano e maggiormente confacente alla bisogna. Il lieve cigolio delle ante degli stipetti venne abbondantemente obliterato - e ogni cosa quella notte cospirava a suo favore - dal baccano di un autocarro di passaggio, cui fece seguito un'autovettura di grossa cilindrata, tallonata a sua volta da una motocicletta. Optato per un buon completo che sembrava all'incirca della sua taglia, Edwin scelse quindi un paio di calze senza buchi, biancheria pulita, camicia, cravatta, un panciotto fantasia, scarpe le cui suole dichiararono chiaramente al chiar di luna un quarantadue ch'era precisamente il suo numero, un cappello floscio di feltro che, con sua gran soddisfazione, dimostrò anch'esso di attagliarglisi a meraviglia. Soldi da sgraffignare a quanto pare non ve n'erano. Pazienza. Non ci avrebbero messo molto ad affluire. Finalmente gli venne in mente che avrebbe dovuto fare per un bel pezzo i conti coll'inglese algore, ragion per cui asportò un soprabito Melton di medio pregio, azzurro tenue. 

Chiusosi in bagno si vestì con comodo. Quand'ebbe finito appurò di avere un bell'aspetto. Sotto il cappello le bende si scorgevano appena. La camicia era di lusso, satinata, con un colletto che gli andava a pennello. Quei malparlanti artigiani in padiglione avevano gusto e quattrini, pensò Edwin. Fazzoletti; aveva dimenticato i fazzoletti. Ne prese dagli armadietti a casaccio una dozzina - sei per soffiarsi, sei da sfoggiarsi - e, postremo latrocinio a carico dei suoi anonimi colleghi di reparto, aggiunse un tocco signorile al proprio corredo prelevando un bastone da passeggio, articolo del quale, in quel luogo di vecchietti vacillanti, esisteva un eccellente assortimento. Poi bardato da capo a piedi, al calduccio, elegante, silenziosamente raggiunse il caposcala e discese a viso aperto i gradini portandosi nell'atrio. Il nuovo reparto era più vicino al mondo esterno di quello di R. Dickie e compagni. Il portiere di notte sonnecchiava alla sua posta. Non era quello che Edwin rammentava. Destatosi costui di soprassalto, rimase sbigottito alla visione d'un gentiluomo dal portamento eretto che mulinando il bastone raffrontava l'orologio da polso con quello alla parete e constatato quest'ultimo cinque minuti indietro sospirava, essendo appena smontato di servizio. 

«Chiedo venia, signore» l'interpellò l'usciere. «Sono nuovo di qui. Le spiacerebbe favorirmi il suo nome?» 

«Dottor Edwin Spindrift» disse il dottor Edwin Spindrift. 

«La ringrazio, signore. La mi scusi, signore. Le apro subito, signore. Buonanotte, signore, o buondì, per meglio dir, signore.» Dischiuso il massiccio portone affidò Edwin all'odorosa d'autunno e olio motore e fuochi lontani libertà della notte londinesca. O del dì, per meglio dir. In direzione della grande sfolgorante oltre la piazza e le traverse londinese arteria s'incamminò dunque di buon passo Edwin. In busca del signor Thanatos che poteva, naturalmente, imboscars'inognidove. Niente prescia, si capisce. Anzi, tempo in abbondanza per avvincenti avventure a profusione. Dopodiché il signor Thanatos, inghirlandato di pampini. 

Lungo il tragitto per la via maestra gran copia di gatti intoppò Edwin, ma un uomo solo. Nella persona d'Ippo reclamizzante fronteretro DA JOE SALSICCIOTTE TUTTANOTTE. «Allora l'hai riavuto '1 tu' riologio» Ippo disse ravvisando senz'ombra di sorpresa Edwin. «Stramaledetto lavoro che l'è questo qua. De notte, ve', mo me tocca faticà. Quest'è il plusultra, il colmo, sì, la misura è colma qui.» 

Hove, Sussex, 1959.