domenica 27 settembre 2020

UN REIETTO DELLE ISOLE Joseph Conrad



UN REIETTO DELLE ISOLE 

 Joseph Conrad 

NOTA DELL'AUTORE 

 

  Un reietto delle isole è il mio secondo romanzo in ogni senso della parola; secondo per concezione, secondo per esecuzione, secondo, come fosse, nella sua essenza. Non vi furono tra esso e La follia di Almayer tentennamenti, progetti abbozzati, vaghe idee o anche la minima fantasticheria. L'unico mio dubbio, dopo la pubblicazione di La follia di Almayer, fu se avrei mai scritto un altro rigo per la stampa. In quei giorni, divenuti ormai così indistinti, vi furono dei momenti intensi. Non avevo allora rinunciato al mare né con la mente né col cuore. A dire il vero vi rimanevo disperatamente attaccato, e tanto più disperatamente perché non potevo fare a meno di sentire che, contro la mia volontà, qualcosa nel mio rapporto con esso era cambiato. La follia di Almayer era stato ultimato e messo da parte. Lo stato d'animo era svanito. Ma aveva lasciato il ricordo di un'esperienza che, nei pensieri come nelle emozioni, non aveva nulla a che fare con il mare, e suppongo che quella parte del mio essere morale che è radicata nella coerenza era seriamente scossa. Ero in balìa di forze contrapposte, e il risultato era uno stato di immobilità. Mi lasciai andare all'indolenza. Visto che era impossibile per me andare in due direzioni diverse decisi di non andare da nessuna parte. La scoperta di nuovi valori nella vita è un'esperienza caotica davvero; vi è una quantità tremenda di sconvolgimenti e confusione e la sensazione momentanea di trovarsi al buio. Lasciai che il mio spirito si lasciasse dondolare indolentemente su quel caos. 

  A dire il vero, una frase di Edward Garnett è responsabile di questo libro. Il primo tra gli amici che mi sono procurato con la penna, era solo naturale che in quel periodo egli fosse il depositario delle mie confidenze. Una sera, dopo aver cenato assieme e dopo aver ascoltato la storia delle mie perplessità (temo che dovesse cominciare ad averne abbastanza), suggerì che non vi era alcun bisogno di decidere il mio futuro per sempre. Poi aggiunse: «Hai lo stile, hai il temperamento; perché non scriverne un altro?» . Credo che, nella misura in cui qualcuno possa voler influenzare la vita di un altro, Edward Garnett desiderava fortemente che io continuassi a scrivere. All'epoca, e devo dire anche in seguito, è stato sempre molto paziente e gentile con me. Ciò che più mi colpisce, tuttavia, nella frase riportata più sopra, che mi venne rivolta con un tono distaccato, non è la sua gentilezza, ma la sua efficace sagacia. Se avesse detto: «Perché non continuare a scrivere» , è molto probabile che mi avrebbe fatto rifuggire per sempre la penna e l'inchiostro; ma non vi era nulla che potesse o impaurirmi o ridestare il mio antagonismo nel puro e semplice suggerimento di «scriverne un altro» . Fu con l'insidia, quindi, che venne superato un punto morto nella rivoluzione delle mie vicende personali. Fu l'effetto delle parole «un altro» . Intorno alle undici di una piacevole serata londinese, io ed Edward passeggiavamo lungo interminabili strade parlando di molte cose e ricordo che una volta a casa mi sedetti e scrissi circa mezza pagina di Un reietto delle isole prima di andare a dormire. Questo significava impegnarsi in modo definitivo, non dico in una nuova vita, ma in un nuovo libro. Evidentemente, vi è qualcosa nel mio carattere che, nel bene o nel male, non mi permette di abbandonare un lavoro una volta iniziato. Ho messo da parte molti libri appena iniziati. Li ho messi da parte con pena, con disgusto, con rabbia, con malinconia e anche con disprezzo verso me stesso; ma anche nel peggiore dei casi mi inquietava la consapevolezza che non avrei potuto non ritornarvi. 

  Un reietto delle isole fa parte di quei miei romanzi che non furono mai messi da parte; e per quanto mi abbia portato l'etichetta di «scrittore esotico»  non credo affatto che quell'accusa fosse giustificata. Parola mia, non credo che vi sia il minimo spirito esotico nella concezione o stile di quel romanzo. È certamente il più tropicale dei miei racconti orientali. Il paesaggio stesso mi prese la mano mentre scrivevo, forse perché (tanto vale che lo confessi) la storia in sé non è mai stata molto vicina al mio cuore. Aveva fatto presa più sulla mia immaginazione che sul mio affetto. Per quanto riguarda il mio sentimento verso Willems non era nient'altro che quella considerazione che non si può fare a meno di avere per una propria creazione. Ovviamente, non potevo essere indifferente verso un uomo sul cui capo avevo attirato tante sventure, solo per averlo immaginato quale appare nel romanzo - e per di più su un esilissimo fondamento.  L'uomo che mi ispirò Willems non era in sé particolarmente interessante. La mia curiosità fu stimolata dalla sua posizione di dipendenza, la strana, dubbia, condizione di un europeo guardato con sospetto, detestato, logoro, che viveva tollerato a malapena in quel villaggio nascosto nel cuore di quella terra coperta di foreste, su per quell'oscuro fiume che la nostra nave di bianchi era l'unica a risalire. Con le sue guance sbarbate e incavate, un paio di grossi baffi grigi e occhi privi di qualsiasi espressione, con indosso sempre un pigiama immacolato ornato di alamari sul davanti che gli lasciava completamente scoperto il collo magro, e con i piedi nudi in un paio di pantofole di paglia, vagava silenziosamente tra le case durante il giorno, muto come un animale e apparentemente molto più esposto alle intemperie. Non so cosa ne fosse di lui la notte. Doveva avere un posto, una capanna, un riparo di foglie di palma, una qualche stamberga dove teneva il rasoio e il pigiama di ricambio. Un'aria di vacuo mistero lo circondava, qualcosa di non esattamente oscuro ma certamente spregevole. L'unica affermazione esplicita che riuscii a cavare da qualcuno fu che era stato lui a «portare gli arabi su per il fiume» . Doveva essere successo molti anni prima. Ma come aveva fatto a portarli su per il fiume? Non credo li avesse portati in braccio come tanti micetti. Sapevo che Almayer basava la cronologia di tutte le sue sventure sulla data di quel fatidico avvento; eppure, sin dalla prima volta che cenammo con Almayer Willems era seduto a tavola con noi, alla maniera dello scheletro al banchetto, ostentatamente ignorato da tutti; nessuno gli rivolse mai la parola, ma Almayer, quale unico riconoscimento della sua esistenza, gli lanciava di tanto in tanto uno sguardo carico di veleno che notai con grande sorpresa. Nel corso di tutta la serata fece un'unica osservazione che non afferrai, perché non pronunciava bene le parole, quasi che non sapesse più parlare. Io ero l'unica persona che sembrava essersi accorta di quel suono. Willems tacque. Di lì a poco si ritirò, apertamente ignorato - chissà, nella foresta? La sua immensità era lì, a cento metri dalla veranda, pronta ad inghiottire qualsiasi cosa. Almayer, che stava conversando con il mio capitano, non smise di parlare, mentre lanciava uno sguardo rabbioso verso la schiena che si allontanava. Non aveva forse quel tipo portato gli arabi su per il fiume? Ciononostante, Willems si presentò il mattino dopo sulla veranda di Almayer. Dal ponte del vaporetto potevo vedere chiaramente quei due fare colazione insieme, tête à tête e, suppongo, nel silenzio più assoluto, uno con l'aria di aver perso ogni interesse nel mondo e l'altro alzando di tanto in tanto gli occhi con intenso disgusto. 

  Era chiaro che a quei tempi Willems viveva della carità di Almayer. Eppure, quando tornai a Sambir due mesi dopo, sentii che era partito per una spedizione su per il fiume al comando di una lancia a vapore degli arabi, per fare una qualche scoperta. A causa della strana riluttanza che tutti mostravano a parlare di Willems mi fu impossibile scoprire la verità di quella transazione. Inoltre, ero l'ultimo arrivato, il più giovane della compagnia e, sospetto, non ero giudicato ancora adatto per una confidenza piena. Quella esclusione non mi preoccupava più di tanto. Quel tocco di complotto e di mistero che avevano tutte le questioni che riguardavano Almayer mi divertiva enormemente. Almayer era molto scosso. Credo che sentisse molto la mancanza di Willems. Aveva un'aria sinistra, preoccupata, e confabulava in gran segreto con il mio capitano. Potevo afferrare solo pezzi di frasi borbottate. Poi un mattino, mentre arrivavo lungo il ponte di coperta per prendere posto a tavola per la colazione, Almayer interruppe il discorso che stava facendo a bassa voce. Il viso del mio capitano era assolutamente impenetrabile. Vi fu un momento di profondo silenzio e poi, quasi fosse incapace di contenersi, Almayer proruppe ad alta voce, con ferocia: 

  «Una cosa è certa: se trova qualcosa minimamente di valore lo avveleneranno come un cane» . 

  Per quanto scollegata, come materia di riflessione quella frase valeva chiaramente la pena di essere udita. Lasciammo il fiume tre giorni dopo e non sono mai tornato a Sambir; ma qualsiasi cosa sia successa al protagonista, nessuno può negare che del mio Willems ho tramandato ai posteri un destino meno squallido. 

  J.C. 

 

1919 

 

PARTE PRIMA 

 

 

 

CAPITOLO PRIMO 

 

 

  Nell'abbandonare il diritto e angusto sentiero del suo particolare tipo di onestà, egli si era riproposto, con irremovibile decisione interiore, di rientrare nel monotono ma sicuro cammino della virtù appena la sua piccola escursione nei pantani al lato del sentiero non avesse portato i frutti sperati. Sarebbe stato un breve episodio - una frase tra parentesi - nel fluire del racconto della sua vita: una cosuccia senza importanza, che andava fatta in modo accurato, seppur controvoglia, per poi essere dimenticata alla svelta. S'immaginava di poter continuare a rimirare la luce del sole, godersi l'ombra, respirare il profumo dei fiori nel piccolo giardino davanti a casa sua. Si era fatto l'idea che nulla sarebbe cambiato, che avrebbe potuto, come prima, tiranneggiare bonariamente la moglie meticcia, gettare un'occhiata di tenero disprezzo al figlio color giallo pallido, trattare altezzosamente il cognato dalla pelle scura che andava pazzo per le cravatte rosa, calzava sempre dei piccoli stivaletti di cuoio lucidi ed era così pieno d'umiltà davanti al marito bianco della fortunata sorella. Per lui erano questi i piaceri della vita, e non poteva neanche immaginare che il valore morale di un qualche suo atto potesse interferire con la natura stessa delle cose, potesse attenuare la luce del sole, eliminare il profumo dei fiori, la sottomissione di sua moglie, il sorriso del bambino, il rispetto misto a timore di Leonard da Souza e di tutta la famiglia Da Souza. L'ammirazione di quella famiglia era il più grande lusso della sua vita. Per il modo in cui circondava e coronava la sua esistenza, rappresentava una perpetua conferma della sua indiscutibile superiorità. Quanto gli piaceva sentire il profumo dell'incenso scadente con cui facevano offerte davanti all'altarino dell'uomo bianco baciato dal successo; l'uomo che aveva fatto loro l'onore di sposare la figlia, la sorella, la cugina; l'uomo in ascesa che sarebbe sicuramente arrivato molto in alto; l'impiegato di fiducia della Hudig & Co. Erano una folla numerosa e sudicia che viveva in fatiscenti case di bambù circondate da recinti cadenti ai margini della città di Macassar. Li teneva a debita distanza, anzi un passo più in là, perché non si faceva illusioni su chi fossero veramente. Erano un'accozzaglia di meticci sfaticati e li vedeva così com'erano: ometti di tutte le età, cenciosi, esili e sporchi, che si trascinavano di qua e di là in pantofole; vecchie immobili che assomigliavano a mostruosi sacchi di calicò rosa pieni di informi masse di grasso, buttate di sbieco su delle decrepite sedie di malacca negli angoli bui di verande polverose; giovani donne, esili e gialle, dai grandi occhi e dai capelli lunghi, che si muovevano languidamente tra la sporcizia e i rifiuti delle loro abitazioni, come se ogni loro passo fosse anche l'ultimo. Sentiva le loro urla stridule quando litigavano, gli strilli dei loro bambini, i grugniti dei loro maiali; era investito dall'odore dei mucchi di immondizia nei loro cortili: e ne era enormemente disgustato. Però nutriva e vestiva quella moltitudine di pezzenti; quei discendenti degeneri dei conquistatori portoghesi; egli era la loro provvidenza e loro cantavano in continuazione le sue lodi, in mezzo alla loro pigrizia, la loro sporcizia, il loro immenso squallore senza rimedio; e ne era enormemente gratificato. Avevano bisogno di tantissime cose, ma poteva dar loro qualunque cosa di cui avessero bisogno senza rovinarsi; e in cambio aveva la loro tacita paura, il loro amore loquace, la loro venerazione rumorosa. È bello essere una provvidenza, e sentirselo dire tutti i giorni della propria vita. Dà un senso di infinita superiorità, e Willems ne godeva. Non perdeva tempo ad analizzare il proprio stato d'animo, ma probabilmente il suo piacere più grande era la convinzione, inconfessata ma intima, che se avesse chiuso la mano tutti quegli esseri umani pieni di ammirazione sarebbero morti di fame. La sua munificenza li aveva corrotti. Non che ci volesse molto. Da quando era disceso tra loro e aveva sposato Joanna avevano perso quel po' di energia e di predisposizione per il lavoro che avrebbero potuto tirar fuori se spinti dall'estrema necessità. Ora vivevano per grazia sua. Questo era potere. A Willems piaceva tantissimo. 

  Su un altro piano, forse meno elevato, le sue giornate non erano prive di piaceri meno complessi ma più evidenti. Amava i semplici giochi di destrezza, come il biliardo; ma anche giochi non così semplici, che richiedevano un altro tipo di destrezza, come il poker. Era stato l'allievo più dotato di un americano impassibile e sentenzioso che, dagli spazi aperti del Pacifico, era stato misteriosamente portato a Macassar dalla deriva e, dopo esser stato per un po' sballottato dai vortici della vita cittadina, era stato enigmaticamente risospinto dalla deriva verso la solitudine assolata dell'Oceano Indiano. Il ricordo dello straniero californiano si era perpetuato nel gioco del poker - che da quel momento divenne molto popolare nella capitale di Celebes - e in un fortissimo cocktail la cui ricetta ancora oggi è tramandata - nel dialetto del Kwangtung - da un capo cameriere all'altro, tra gli inservienti cinesi del Sunda Hotel. Willems era un intenditore di quel drink e molto abile in quel gioco; ed era discretamente fiero di questi talenti. Della fiducia che riponeva in lui Hudig - il padrone - era fiero in modo borioso e invadente. Questo per via della sua grande benevolenza e per un esagerato senso del dovere verso se stesso e verso il mondo intero. Egli sentiva quell'irrefrenabile impulso ad impartire informazioni che è inseparabile dall'ignoranza più crassa. Vi è sempre una qualche cosa che la persona ignorante sa, e questa cosa riempie il suo universo, diventando l'unica che valga la pena sapere. Willems sapeva tutto di se stesso. Dal giorno in cui, pur tra mille dubbi, era scappato, nella rada di Semarang; da una nave olandese diretta in Oriente, aveva cominciato quell'esame di sé, di come era fatto, delle sue capacità, di quelle qualità che, sfidando il destino, lo avevano portato alla lucrosa posizione che ora occupava. Essendo per natura modesto e diffidente, il suo successo lo stupiva, quasi lo spaventava e - una volta ripresosi dalle continue sorprese - finì per renderlo terribilmente presuntuoso. Credeva nel suo genio e nella sua conoscenza del mondo. Anche gli altri dovevano essere illuminati; per il loro bene e a sua maggior gloria. Tutti quegli uomini cordiali che lo accoglievano rumorosamente con pacche sulle spalle meritavano di beneficiare del suo esempio. Era per questo che doveva parlare, e lo faceva in modo coscienzioso. Il pomeriggio, seduto ad uno dei tavolini, illustrava la sua teoria su come avere successo, immergendo, di tanto in tanto, i baffi nel ghiaccio tritato dei cocktail; la sera, spesso, con la stecca in mano, arringava un giovane ascoltatore dall'altro lato di un biliardo. Le palle del biliardo restavano immobili, come fossero anch'esse in ascolto sotto la luce vivida delle lampade a petrolio schermate, sospese basse sopra il panno verde; intanto, lontano, nelle ombre della grande stanza, il marcatore cinese se ne stava appoggiato stancamente contro il muro, e la maschera priva d'espressione del suo viso si stagliava pallida sotto il segnapunti di mogano; le sue palpebre si chiudevano per la stanchezza e per il sonno dell'ora tarda, e per il bisbiglio monotono del fiume di parole incomprensibili sciorinate dall'uomo bianco. Poi la conversazione cessava improvvisamente e il gioco ricominciava con un colpo secco e continuava per un po' accompagnato dal soffice fruscio continuo e dai colpi sordi smorzati, mentre le palle rotolavano zigzagando verso l'inevitabile carambola andata a segno. Attraverso le ampie finestre e le porte aperte entrava l'umidità salmastra del mare e il vago profumo di terra e di fiori del giardino dell'albergo che si mescolava con l'odore delle lampade, sempre più pesante col passare delle ore. Quando i giocatori si piegavano per il colpo, le loro teste si tuffavano nella luce per poi rientrare di scatto nella penombra verdolina creata dai grandi paralumi; l'orologio ticchettava metodico; il cinese, impassibile, ripeteva senza soste il punteggio con voce inanimata, come una grande bambola parlante - e Willems finiva sempre per vincere la partita. Dicendo che si era fatto tardi per un uomo sposato, dava la buona notte con un'aria di superiorità e usciva per la strada lunga e vuota. A quell'ora la polvere bianca della via era abbacinante come un raggio di luna, per cui l'occhio cercava sollievo nella luce più tenue dei rari lampioni a petrolio. Willems camminava verso casa seguendo la fila di mura di cinta sovrastate dalla vegetazione lussureggiante dei giardini. Le case, a destra e a sinistra, erano nascoste dietro le masse nere degli arbusti fioriti. Willems, che aveva tutta la strada per sé, camminava al centro, e la sua ombra gli strisciava davanti ossequiosamente. Abbassò lo sguardo verso di essa, con aria compiaciuta. L'ombra di un uomo di successo! Gli girava leggermente la testa per i cocktail e per l'ebbrezza che gli dava la propria gloria. Come ripeteva spesso alla gente, era venuto in Oriente quattordici anni fa - un mozzo. Un ragazzino. A quel tempo doveva essere molto piccola, la sua ombra; con un sorriso pensò che allora non era cosciente di avere alcunché - nemmeno un'ombra - che potesse dire sua. E ora aveva davanti a sé l'ombra dell'impiegato di fiducia della Hudig & Co. che tornava a casa. Magnifico! Come è bella la vita per i vincitori! Aveva vinto al gioco della vita, e al gioco del biliardo. Accelerò il passo, facendo tintinnare i soldi della vincita e pensando ai giorni fausti che, come pietre miliari, avevano tracciato il sentiero della sua vita. Pensò al suo viaggio a Lombock in cerca di pony - la prima transazione di rilievo affidatagli da Hudig; riandò quindi col pensiero agli affari più importanti che aveva trattato: il traffico segreto di oppio, il commercio illegale di polvere da sparo, il grosso affare fatto con le armi di contrabbando, il difficile negoziato con il rajah di Goak. Se era riuscito a condurre in porto quest'ultimo affare era stato solo grazie alla sua audacia; aveva sfidato quel vecchio selvaggio del sovrano nella sua sala del consiglio; lo aveva comprato con una carrozza di vetro con rifiniture dorate che, a quanto si diceva, veniva ora usata per tenerci le galline; lo aveva forzato a cambiare idea, e infine l'aveva battuto su tutti i fronti. È così che si fa. Non approvava la disonestà spicciola di chi ruba dalla cassa di nascosto, ma la legge si poteva anche aggirare e i princìpi del commercio potevano essere spinti fino alle loro estreme conseguenze. C'era chi chiamava questo imbrogliare, ma erano gli sciocchi, i deboli, persone spregevoli. I saggi, i forti, quelli che si fanno rispettare, non hanno scrupoli. Dove vi sono scrupoli non ci può essere potere. Spesso predicava su questo tema ai giovani. Era la sua dottrina, e lui stesso era un fulgido esempio di quanto fosse vera. 

  Notte dopo notte tornava a casa in questo modo, dopo una giornata di lavoro e di piacere, reso ebbro dal suono della propria voce che celebrava la sua prosperità. Era così che tornava a casa la sera del suo trentesimo compleanno. Aveva passato in buona compagnia una piacevole, chiassosa serata e, nel percorrere la via deserta, la sensazione di quanto fosse importante divenne sempre più forte, fino a sollevarlo al di sopra della polvere bianca della strada e riempirlo di esultanza e di rimpianti. Non si era reso giustizia laggiù nell'hotel, non aveva parlato abbastanza di se stesso, non aveva fatto abbastanza effetto su quelli che stavano ad ascoltarlo. Non importa. La prossima volta. Ora sarebbe andato a casa e avrebbe costretto la moglie ad alzarsi e starlo a sentire. Perché non avrebbe dovuto alzarsi? - e preparargli un cocktail - e ascoltarlo pazientemente. Proprio così. Doveva farlo. Se avesse voluto avrebbe potuto costringere l'intera famiglia Da Souza ad alzarsi. Bastava una sua parola e sarebbero venuti tutti, vestiti da notte, e si sarebbero seduti silenziosi sulla terra dura e fredda del cortile ad ascoltare, fin quando lui avesse avuto voglia di spiegare loro, dalla cima delle scale, quanto era grande e buono. Lo avrebbero fatto. Comunque, lo avrebbe fatto sua moglie - stanotte. 

  Sua moglie! Dentro di sé provò un moto di ripulsa. Una donna squallida con occhi spaventati e una smorfia di dolore stampata sulla bocca, che lo avrebbe ascoltato con sofferto stupore, immobile e muta. Ormai era abituata a quei discorsi notturni. Una volta si era ribellata - all'inizio. Solo una volta. Ora, mentre lui se ne stava sdraiato scompostamente su una comoda poltrona a bere e parlare, lei se ne stava in piedi dall'altro lato del tavolo con le mani posate sul bordo, gli occhi pieni di terrore fissi sulle labbra di lui, senza un suono, un gesto, quasi senza respirare, fino a quando non la congedava con uno sprezzante «Va' a letto, scema» . Lei allora si trascinava fuori dalla stanza, con un sospiro di sollievo ma impassibile. Nulla riusciva a smuoverla, a farla gridare o a farla piangere. Non si lamentava, non si ribellava. Quella prima lite fu decisiva. Troppo decisiva, pensò Willems, scontento. A quanto pare l'aveva spaventata a morte. Che donna squallida! Proprio una brutta faccenda! Come diavolo gli era venuto in mente di andarsi ad accollare... Eh! Be'! voleva una casa, e l'unione sembrava avere l'approvazione di Hudig, e Hudig gli aveva regalato il bungalow, la casa circondata di fiori verso cui si stava dirigendo nella luce fredda della luna. Aveva inoltre l'adorazione della tribù dei Da Souza. Un uomo del suo stampo poteva affrontare qualsiasi cosa, fare qualsiasi cosa, aspirare a 

qualsiasi cosa. Altri cinque anni e quei bianchi che andavano a giocare a carte la domenica dal Governatore l'avrebbero accettato - con tutto che era sposato ad una meticcia! Urrà! Vide la propria ombra fare un balzo in avanti e agitare un cappello grande come un barile di rum, all'estremità di un braccio lungo diversi metri... Chi aveva gridato urrà?... Sorrise tra sé e sé vergognandosi un po' e, cacciandosi le mani in tasca accelerò il passo con un'espressione improvvisamente seria sul viso. 

  Dietro di lui - a sinistra - la punta di un sigaro ardeva all'ingresso del cortile di fronte alla casa del signor Vinck. Appoggiato ad uno dei pilastri di mattoni, il signor Vinck, cassiere della Hudig & Co., fumava l'ultimo sigaro della serata. Tra le ombre dei cespugli ben tenuti, la signora Vinck percorreva lentamente, con passi misurati, il sentiero circolare davanti alla casa, facendo scricchiolare la ghiaia. 

  «Ecco lì Willems che torna a casa a piedi - e mi sembra che sia pure ubriaco» , disse il signor Vinck girando la testa. «L'ho visto saltare e agitare il cappello» . 

  Lo scricchiolio della ghiaia cessò. 

  «Che uomo orribile» , disse la signora Vinck con molta calma. «Ho sentito dire che picchia la moglie» .  «Ma no, cara, no» , borbottò il signor Vinck distrattamente, con un gesto vago. L'idea di Willems che picchia la moglie non gli sembrava affatto interessante. Come si sbagliano nel giudicare le donne! Se Willems voleva torturare sua moglie poteva ricorrere a metodi meno primitivi. Il signor Vinck conosceva Willems bene e lo considerava molto abile, molto furbo - seppur in modo discutibile. Mentre dava le ultime, rapide tirate al mozzicone di sigaro, il signor Vinck rifletté sul fatto che, viste le circostanze, la fiducia accordata da Hudig a Willems era suscettibile di una critica leale da parte del cassiere di Hudig. 

  «Sta diventando pericoloso; sa troppe cose. Bisognerà sbarazzarsene» , disse il signor Vinck ad alta voce. Ma la signora Vinck era già rientrata e, dopo aver scosso la testa, il cassiere gettò via il sigaro e la seguì lentamente.  Willems continuò a camminare verso casa, tessendo la splendida tela del suo futuro. La strada verso la grandezza si distendeva chiaramente davanti ai suoi occhi, diritta e luminosa, senza alcun ostacolo visibile. Aveva abbandonato il sentiero dell'onestà, quale lui l'intendeva, ma l'avrebbe ben presto riguadagnato per non lasciarlo mai più! Era una questione veramente minima. In breve tempo avrebbe aggiustato tutto. Per ora era suo dovere non farsi scoprire, e aveva fiducia nella sua abilità, nella sua fortuna, nella sua solida reputazione che avrebbe scoraggiato qualsiasi sospetto, se qualcuno avesse osato sospettare. Nessuno però avrebbe osato. Certo, era cosciente che un leggero deterioramento c'era stato. Aveva temporaneamente sottratto del denaro a Hudig. Una deplorevole necessità. Ma giudicava se stesso con la comprensione che dovrebbe essere concessa alle debolezze dei geni. Avrebbe fatto ammenda e tutto sarebbe tornato come prima; nessuno ci avrebbe rimesso, e avrebbe proseguito senza ostacoli verso il brillante obiettivo della sua ambizione. 

  Socio di Hudig! 

  Prima di salire gli scalini di casa rimase per un po' a contemplare, con le gambe ben aperte e il mento in mano, l'immagine mentale del futuro socio di Hudig. Una splendida occupazione. Lo vedeva sicuro; solido come una montagna; profondo - profondo come un abisso; discreto come una tomba. 

   

   

   

   

   

CAPITOLO SECONDO 

 

 

  Il mare, forse perché è salato, indurisce l'esterno dell'anima dei suoi servitori ma ne conserva dolce l'interno. Il vecchio mare; il mare di tanti anni fa, i cui servitori erano schiavi devoti che passavano dalla giovinezza alla vecchiaia, o ad un'improvvisa tomba, senza dover aprire il libro della vita, perché l'eternità la potevano vedere riflessa sull'elemento che dava la vita ed elargiva la morte. Come una donna bella e senza scrupoli, il mare di una volta quando sorrideva era magnifico, quando infuriato irresistibile, capriccioso, seducente, illogico, irresponsabile; una cosa da amare, una cosa da temere. Gettava un incantesimo, dava gioia e, cullando dolcemente, dava un senso sconfinato di fiducia; poi, con furia improvvisa e immotivata, uccideva. La sua crudeltà, però, era riscattata dal fascino del suo imperscrutabile mistero, dall'immensità delle sue promesse, dalla suprema chimera dei suoi possibili favori. Uomini forti con cuori da bambini gli erano fedeli, erano felici di vivere per grazia sua - di morire per sua volontà. Così era il mare prima che il cervello francese mettesse in moto i muscoli egiziani, creando un fossato squallido ma lucroso. Allora un immenso drappo di fumo emesso da innumerevoli navi a vapore si distese sull'agitato specchio dell'Infinito. La mano dell'ingegnere strappò il velo della terribile bellezza perché dei terraioli avidi e miscredenti potessero intascare dei dividendi. Il mistero fu distrutto. Come tutti i misteri, esso viveva solo nei cuori dei suoi fedeli. Cambiarono i cuori; cambiarono gli uomini. Quei servitori, un tempo affettuosi e devoti, salparono armati di ferro e fuoco e, vincendo la paura nei propri cuori, divennero una massa calcolatrice di padroni freddi ed esigenti. Il mare di una volta era una signora di incomparabile bellezza, con un viso inscrutabile, con occhi crudeli pieni di promesse. Il mare di oggi è una serva sfiancata, rugosa e sfigurata dalle scie smosse da eliche brutali, defraudata del fascino incantevole della sua vastità, spogliata della sua bellezza, del suo mistero e delle sue promesse. 

  Tom Lingard era padrone, amante e servitore del mare. Il mare lo aveva preso quand'era ancora giovane e aveva modellato il suo corpo e la sua anima, dandogli un aspetto indomito, una voce stentorea, occhi intrepidi e uno sciocco ingenuo cuore. A piene mani, gli diede una assurda fiducia in se stesso, un amore universale per tutto il creato, una grande generosità, una severità sprezzante e una schietta semplicità di motivi e onestà di scopi. Avendo fatto di lui ciò che era, come una donna il mare lo aveva servito con umiltà, lasciando che si crogiolasse incolume al sole del suo favore pericolosamente incerto. Sul mare, e grazie al mare, Tom Lingard era divenuto ricco. Egli lo amava con l'affetto ardente di un amante, lo prendeva alla leggera con la sicumera del controllo assoluto, lo temeva con la saggia paura dell'uomo coraggioso, e si prendeva delle libertà con esso come un bambino viziato farebbe con un orco buono e paterno. Gli era grato, con la gratitudine di un cuore sincero. Il suo più grande orgoglio stava nella profonda convinzione della sua fedeltà - nel senso profondo della infallibile conoscenza dei suoi tradimenti. 

  Lo strumento della fortuna di Lingard era stato il piccolo brigantino Flash. Erano saliti verso settentrione insieme, giovani entrambi, da un porto australiano e in capo a pochissimi anni non vi era un singolo uomo bianco nelle isole, da Palembang a Ternate, da Ombawa a Palawan, che non conoscesse il capitano Tom e il suo fortunato veliero. Era amato per la sua incauta munificenza, per la sua incrollabile onestà, e all'inizio era un poco temuto, per via del suo temperamento violento. Ma impararono ben presto a conoscerlo e si sparse la voce che la furia del capitano Tom era meno pericolosa del sorriso di tanta gente. Divenne molto ricco. Dopo il suo primo - e vittorioso - scontro con i predoni del mare, quando salvò, si raccontava, lo yacht di un pezzo grosso inglese da qualche parte verso Karimata, cominciò la sua grande popolarità, che col passare degli anni crebbe rapidamente. Sempre alla scoperta di posti fuori mano in quell'angolo del mondo, sempre alla ricerca di nuovi mercati per le sue mercanzie - non tanto per il profitto quanto per il piacere di scoprirli - divenne ben presto noto anche tra i malesi, e grazie alla sua fortunata temerarietà in diversi scontri con i pirati, il suo nome cominciò ad incutere terrore. Quei bianchi con cui era in rapporto d'affari, e che naturalmente erano sempre attenti a cogliere ogni suo punto debole, non ci misero molto ad accorgersi che per lusingarlo oltre misura bastava rivolgersi a lui con il suo titolo malese. Così, quando c'era da guadagnarci qualcosa, e a volte per pura e disinteressata bontà d'animo, lasciavano cadere il cerimonioso «Capitano Lingard»  e lo chiamavano, tra il serio e il faceto, rajah laut - il Re del Mare. 

  Portò con valore il peso di quel nome sulle larghe spalle. E lo portava già da molti anni quando il ragazzo Willems, correndo a piedi nudi sul ponte della nave Kosmopoliet IV nella rada di Semarang, guardò con occhi innocenti la costa sconosciuta stramaledicendo ciò che gli stava intorno con labbra blasfeme, mentre il suo giovane cervello rimuginava l'eroico proposito di disertare. Alle prime luci del mattino Lingard, dal casseretto di poppa del Flash, vide la nave olandese mettersi laboriosamente in navigazione, diretta verso i porti più ad est. Nella tarda sera di quello stesso giorno, se ne stava sulla banchina del canale d'imbarco, pronto a far ritorno sul brigantino. Era una notte limpida e stellata: la casupola della dogana era chiusa e quando vide la carrozza che lo aveva portato fin laggiù scomparire in fondo al lungo viale di alberi polverosi che portava in città, Lingard credette di essere solo sul molo. Svegliò l'equipaggio addormentato della sua lancia e aspettava che fossero pronti quando si sentì tirare per la giacca e udì una voce esile dire, in modo chiaro: 

  «Capitano inglese» . 

 Lingard si voltò di scatto, e quello che a prima vista gli sembrò un ragazzo magrissimo saltò indietro con ammirevole agilità. 

  «Chi sei? Da dove spunti fuori?» , chiese Lingard, riprendendosi dalla sorpresa. 

  Tenendosi a una certa distanza, il ragazzo indicò una chiatta da carico ormeggiata al molo. 

  «Eri nascosto lì, vero?» , disse Lingard. «Be', cosa vuoi? Di' qualcosa, che diavolo. Non sarai venuto qui a spaventarmi a morte tanto per divertirti?» . 

  Il ragazzo cercò di spiegare nel suo inglese stentato, ma Lingard lo interruppe. 

 «Ho capito» , esclamò, «sei fuggito a nuoto da quella grossa nave che è partita stamattina. Perché non vai dai tuoi compatrioti di qui?»  

  «Nave andata poco lontano - a Surabaya. Fanno tornare me sulla nave» , spiegò il ragazzo. 

  «Sarebbe la cosa migliore» , disse Lingard convinto. 

  «No» , rispose il ragazzo, «me volere restare qui; non volere andare a casa. Fare soldi qui; casa no buono» .  «Questa le batte tutte» , commentò Lingard esterrefatto. «Sono i soldi che vuoi? Bene! bene! E non hai avuto paura di disertare, sacco di ossa che non sei altro!» . 

  Il ragazzo fece capire che non aveva paura di niente, salvo che di essere rispedito sulla nave. Lingard lo osservò in silenzio, pensoso. 

 «Avvicinati» , gli disse infine. Prese il ragazzo per il mento e alzandogli il viso lo squadrò con uno sguardo indagatore. «Quanti anni hai?»  

  «Diciassette» . 

  «Per un diciassettenne sei un po' piccolino. Hai fame?»  

  «Un po'» . 

  «Vuoi venire con me su quel brigantino laggiù?» . 

  Il ragazzo senza una parola si diresse verso la lancia e si accoccolò a prua. 

  «Conosce il suo posto» , disse tra sé e sé Lingard, calandosi pesantemente nella poppetta e prendendo in mano la barra del timone. «Forza con i remi» . 

  I rematori malesi si piegarono tutti insieme, dando un colpo di remi e la iole si staccò dalla banchina, diretta verso i fanali di fonda del brigantino. 

  Fu così che cominciò la carriera di Willems. 

  In mezz'ora Lingard sapeva già tutto della banale storia di Willems. Il padre procacciatore di clienti per un agente di navigazione a Rotterdam; la madre morta. Il ragazzo svelto nell'apprendere, ma svogliato a scuola. Le ristrettezze economiche nella casa piena di fratelli e sorelle più piccoli, vestiti e nutriti a sufficienza, ma per il resto lasciati a loro stessi, mentre il vedovo sconsolato, con un cappotto liso e scarponi malridotti, girava tutto il giorno per le banchine fangose e la sera, esausto, pilotava i capitani stranieri mezzi ubriachi tra i luoghi di delizie a buon mercato, rincasando tardi, nauseato per aver fumato e bevuto troppo - per dovere d'ospitalità - insieme a gente che dava per scontato che attenzioni di questo genere facessero parte del suo lavoro. Poi l'offerta del buon capitano del Kosmopoliet IV, contento di poter fare qualcosa per quel tipo paziente e ossequioso; la grande gioia del giovane Willems e la ancor più grande delusione per il mare, che da lontano sembrava così affascinante, ma a conoscerlo da vicino si rivelò così duro ed esigente - e quindi la diserzione, dettata da un impulso improvviso. Non c'era modo che il ragazzo entrasse in sintonia con lo spirito del mare. Aveva un disprezzo istintivo per l'onesta semplicità di quel lavoro che non portava a nessuna delle cose che per lui avevano importanza. Lingard se ne accorse subito. Gli offrì di tornare a casa su una nave inglese, ma il ragazzo lo supplicò perché lo lasciasse restare. Aveva una bellissima calligrafia, imparò ben presto a parlare inglese in modo impeccabile ed era svelto a fare i conti, e Lingard mise a frutto queste qualità. Col passare degli anni il suo istinto commerciale si sviluppò in modo straordinario e Lingard spesso lo lasciava in qualche isola a commerciare, mentre lui, nel frattempo, partiva verso qualche luogo sperduto. Quando Willems glielo chiese, Lingard lasciò che entrasse a servizio di Hudig. Un poco gli dispiacque di essere abbandonato, perché in un certo senso si era affezionato al suo protetto. Era comunque fiero di lui e ne parlava sempre bene, con grande lealtà. Al principio diceva di lui: «Ragazzo sveglio, quello - ma non se ne caverà mai un marinaio» . Quando poi Willems cominciò ad aiutarlo nel commercio lo chiamava «quel giovanotto sveglio» . Più tardi, quando Willems divenne l'impiegato di fiducia di Hudig, che lo usava per gli affari più delicati, il vecchio uomo di mare dal cuore semplice lo additava ammirato a chiunque gli capitasse sotto mano e bisbigliava: «Testa fine quella, un tipo dalla testa fine. Guardalo lì, l'impiegato di fiducia del vecchio Hudig. L'ho raccolto si può dire in un fossato, come un gatto affamato. Pelle e ossa. Parola mia è andata così. E ora ne sa più di me sul commercio tra le isole. Sul serio, non sto scherzando. Più di me» , ripeteva, convinto, con innocente orgoglio negli occhi onesti. 

  Dall'alto della sicurezza che gli davano i propri successi commerciali, Willems trattava Lingard con un'aria di superiorità. Provava simpatia per il suo benefattore, unita però ad un certo disprezzo per la rozza franchezza del suo modo di fare. Vi erano, tuttavia, degli aspetti del carattere di Lingard verso i quali provava quasi rispetto. Su certe questioni molto interessanti per Willems il loquace marinaio sapeva tenere la bocca chiusa. Inoltre, Lingard era ricco e questo di per sé era abbastanza per suscitare la riluttante ammirazione di Willems. Nelle chiacchierate a quattr'occhi con Hudig, Willems in genere alludeva al benevolo inglese come al «vecchio babbeo nato con la camicia» , con un tono di evidente irritazione; Hudig esprimeva borbottando il suo pieno assenso e i due si guardavano con le pupille improvvisamente immobili, fissate in uno sguardo attraversato da un pensiero inespresso. 

  «Dite Willems, non è che riuscireste a farvi dire dove prende tutto quel caucciù?» , chiedeva infine Hudig, chinandosi sulle carte sparse sulla scrivania. 

  «No, signor Hudig, non ancora, ma ci sto provando» , era l'immancabile risposta di Willems, in cui si poteva cogliere un fondo di rammarico. 

  «Provare! Sempre provare! Potete provarci! Forse vi credete furbo» , borbottava Hudig, senza alzare gli occhi. 

«Faccio affari con lui da venti - trent'anni ormai. Quel vecchio volpone. E ci ho provato. Mah!» . 

  A quel punto allungava la gamba corta e tozza e contemplava l'arco del piede scalzo e la pantofola di paglia sospesa alle dita. «Non riuscireste a farlo ubriacare?» , aggiungeva, dopo una pausa in cui ansimava rumorosamente. 

  «No, signor Hudig, non posso, veramente» , protestava Willems, accalorandosi. 

  «Be', non provateci. Lo conosco bene. Non provateci» , consigliava il padrone e, tornando a chinarsi sulla scrivania, con gli occhi arrossati fissi a pochi centimetri dal foglio, riprendeva a tracciare faticosamente con le sue dita grassocce le esili lettere tremolanti della sua corrispondenza, mentre Willems aspettava rispettosamente, in attesa di ulteriori disposizioni, prima di chiedere, con grande deferenza: 

  «Qualche altro ordine, signor Hudig?»  

  «Hmm, sì. Andate voi stesso da Bun-Hin a controllare che i dollari per quel pagamento siano contati e impacchettati, e fateli portare a bordo del postale per Ternate che dovrebbe arrivare questo pomeriggio» . 

  «Sì, signor Hudig» . 

  «State bene a sentire. Se il postale ritarda, lasciate la cassa nel deposito di Bun-Hin fino a domani. Mettete dei sigilli. Otto come al solito. Non portatela via fino a quando non è arrivato il postale» . 

  «No, signor Hudig» . 

  «E non scordatevi quelle casse di oppio. È per stanotte. Usate i miei barcaioli. Trasbordatele dalla Caroline sul brigantino arabo» , continuò il padrone con voce sommessa e rauca. «E non venitemi a raccontare di nuovo la storia che una cassa è caduta in mare, come l'ultima volta» , aggiunse con inaspettata ferocia, guardando fisso negli occhi il suo impiegato di fiducia. 

  «No, signor Hudig. Starò attento» . 

  «Non c'è altro. Uscendo, dite a quel maiale che se non fa andare un po' più forte il punkah gli spezzo tutte le ossa una ad una» , concluse Hudig, asciugandosi il viso paonazzo con un fazzoletto di seta rosso grande come un copriletto. 

  Senza fare rumore, Willems uscì dalla stanza, richiudendo con cura dietro le spalle la porticina verde che portava al magazzino. Hudig, con la penna in mano, lo sentì strapazzare l'addetto al punkah con violente imprecazioni scaturite dal suo sconfinato zelo per il benessere del padrone. Poi tornò alle sue lettere, tra il frusciare dei fogli che fluttuavano al vento creato dal punkah che ondeggiava con movimenti ampi sopra la sua testa. 

  Willems, con familiarità, era solito fare un cenno di saluto all'indirizzo del signor Vinck, la cui scrivania era vicino alla porticina dell'ufficio privato, e attraversava il magazzino con un'aria di importanza. Il signor Vinck - che da ogni ruga del suo aspetto distinto sprizzava un'acuta antipatia - seguiva con gli occhi la figura bianca volteggiare nell'oscurità tra le cataste di balle e casse, finché non passava attraverso la grande arcata svanendo nel riflesso accecante della strada. 

 

CAPITOLO TERZO 

 

 

  L'occasione e la tentazione erano state troppo forti per Willems e, sotto la spinta di un'improvvisa necessità, aveva abusato della fiducia che era il suo orgoglio, il segno imperituro della sua astuzia, e un carico per lui troppo gravoso. Un susseguirsi di sfortunate partite a carte, il fallimento di una piccola speculazione intrapresa per conto proprio, una inaspettata richiesta di soldi da parte di uno dei membri della famiglia Da Souza - e quasi senza rendersene conto aveva lasciato il sentiero della sua particolare onestà. Era una pista scarsamente visibile e mal definita e gli ci volle del tempo per scoprire quanto in profondità si fosse addentrato tra i rovi della pericolosa landa ignota che aveva costeggiato per così tanti anni, senza altra guida se non il proprio tornaconto e quella dottrina del successo che aveva trovato per se stesso nel libro della vita - in quegli interessanti capitoli che è stato concesso al Diavolo di scrivere, per mettere alla prova l'acutezza della vista degli uomini e la saldezza dei loro cuori. Per un breve, oscuro e solitario attimo si sentì smarrito, ma aveva quel coraggio che se non fa scalare una vetta fa però arrancare tenacemente nel fango - se non vi è altra strada. Si applicò al compito di restituire i soldi, dedicandosi al dovere di non farsi scoprire. Il giorno del suo trentesimo compleanno era quasi riuscito a portare a termine il compito - e il dovere era stato compiuto con dedizione e destrezza. Si sentiva al sicuro. Poteva di nuovo guardare con speranza al traguardo delle sue legittime ambizioni. Nessuno avrebbe osato sospettare di lui e tra pochi giorni non vi sarebbe stato nulla da sospettare. Era euforico. Non sapeva che la sua prosperità aveva toccato il suo apice e stava già cominciando a tramontare.  Lo seppe due giorni dopo. Il signor Vinck, sentendo il rumore della maniglia della porta, saltò su dalla scrivania - dove, tremante, era stato ad ascoltare le voci alterate nell'ufficio privato - e seppellì la testa nella grande cassaforte con nervosa alacrità. Per l'ultima volta Willems passò attraverso la porticina verde che portava nel santuario di Hudig, che nell'ultima mezz'ora - per via degli orribili suoni che si udivano provenire da dentro - poteva essere scambiato per l'antro di una bestia selvatica. Uscendo dal luogo della sua umiliazione, gli occhi sgomenti di Willems abbracciarono con un solo sguardo uomini e cose. Vide l'espressione spaventata dell'addetto al punkah; i cassieri cinesi accovacciati sui calcagni con i visi impassibili levati verso di lui con uno sguardo spento, le mani ferme a mezz'aria sopra i mucchi di scintillanti fiorini olandesi disposti sul pavimento; le scapole del signor Vinck e più sopra i margini carnosi di due orecchie rosse. Vide il lungo sentiero formato dalle casse di gin che si distendeva dal punto in cui si trovava fino alla porta ad arco oltre la quale, forse, sarebbe riuscito a respirare. Sul suo cammino c'era l'estremità di una corda sottile; poteva vederla chiaramente, eppure vi incespicò pesantemente, quasi fosse una sbarra di ferro. Poi, finalmente, si ritrovò in strada, ma non riuscì a trovare abbastanza aria per riempire i polmoni. Annaspando, si diresse verso casa. 

  Col passare dei minuti il suono degli insulti di Hudig che gli echeggiava nelle orecchie si andò affievolendo e il sentimento di vergogna cedette lentamente il posto ad un impeto di rabbia contro se stesso e ancora di più contro lo stupido insieme di circostanze che lo aveva condotto a compiere quell'avventata idiozia. Avventata idiozia: così definì a se stesso la propria colpa. Cosa poteva esserci di più grave dal punto di vista della sua indiscussa intelligenza? Quale fatale aberrazione di una mente fine! Non riusciva a riconoscersi. Doveva essere stato fuori di sé. Proprio così. Un improvviso accesso di follia. E ora, l'opera di anni e anni completamente distrutta. Cosa ne sarebbe stato di lui?  Prima di aver tempo di rispondere a questa domanda si ritrovò nel giardino davanti a casa sua, il dono di nozze di Hudig. La guardò, quasi stupito di trovarla lì. Il passato era così irrimediabilmente perduto che la dimora che ne aveva fatto parte gli sembrava fuori luogo ancora là, intatta, pulita e allegra, sotto il caldo sole del meriggio. Era una graziosa, piccola costruzione tutta porte e finestre, circondata da una spaziosa veranda sorretta da colonne slanciate coperte dal verde fogliame dei rampicanti, che contornavano anche le grondaie sporgenti del tetto a punta. Willems salì lentamente la dozzina di gradini che conducevano alla veranda. Ad ogni passo indugiava. Doveva dirlo a sua moglie. L'idea lo spaventava e questo timore lo lasciò sbigottito: paura di affrontarla! Nulla meglio di questo poteva dargli la misura di quanto grande fosse il cambiamento intorno a sé e dentro di sé. Un altro uomo - e un'altra vita, senza più la fiducia in se stesso. Non doveva valere granché, se aveva paura di affrontare quella donna. 

  Non osò entrare in casa attraverso la porta aperta sulla sala da pranzo, ma se ne stette indeciso vicino al piccolo tavolino da lavoro, dal quale pendeva un pezzo di calicò bianco in cui era conficcato un ago, come se il lavoro fosse stato abbandonato di colpo. Come apparve, il cacatua dal ciuffo rosa cominciò ad agitarsi goffamente, arrampicandosi a fatica su e giù per il trespolo gridando confusamente «Joanna»  con uno stridio persistente che prolungava l'ultima sillaba del nome quasi fosse uno scroscio di risate folli. La brezza mosse leggermente la tenda sulla porta una o due volte, facendo trasalire Willems, il quale ogni volta pensava che fosse la moglie. Ma non alzò gli occhi, per quanto tendesse gli orecchi aspettandosi di sentire il suono dei suoi passi. A poco a poco si perse nei propri pensieri, nelle infinite congetture su come avrebbe accolto la notizia - e gli ordini. Con questa preoccupazione quasi dimenticò la paura della sua presenza. Si sarebbe certamente messa a piangere, si sarebbe lamentata, sarebbe stata, come sempre, inerme, spaventata e passiva. Egli avrebbe dovuto trascinarsi dietro quel peso morto attraverso le tenebre di una vita rovinata. Orribile! Non poteva certo abbandonare lei e il bambino ad una sicura miseria e probabilmente alla fame. La moglie e il figlio di Willems. Willems, l'uomo di successo, il furbo; Willems, l'impiegato di fidu... Bah! E cos'era ora Willems? Willems il... Soffocò il pensiero che si stava formando e si schiarì la gola per trattenere un gemito. Ah! Quanto avranno da parlare stasera al biliardo - il suo mondo, dove era stato il numero uno - tutti quegli uomini che aveva trattato con arrogante superiorità. Quanto avranno da parlare, esterrefatti, ostentando rammarico e volti gravi e con l'aria di chi la sa lunga. Alcuni di loro gli dovevano dei soldi, ma lui non insisteva mai per farseli ridare. Non lui. Willems, il principe dei bravi compagnoni, lo chiamavano. E ora, senza dubbio, si sarebbero rallegrati per la sua rovina. Una congrega di imbecilli. Pur nella sua umiliazione era consapevole della propria superiorità rispetto a quella gente, che era soltanto onesta o semplicemente non si era ancora fatta cogliere con le mani nel sacco. Una congrega di imbecilli! Agitò il pugno verso l'immagine evocata dei suoi amici e il pappagallo, spaventato, sbatté le ali e lanciò un disperato urlo di terrore. 

  Alzando un istante gli occhi, Willems vide sua moglie svoltare l'angolo della casa. Abbassò subito le palpebre, aspettando in silenzio, finché lei si fermò in piedi dietro il tavolino. Non ce la faceva a guardarla in viso, ma poteva vedere la vestaglia rossa che conosceva così bene. Ella si era trascinata tutta la vita in quella vestaglia rossa con una fila di sudici fiocchi blu sul davanti, macchiata e agganciata per storto, con una balza strappata sull'orlo che la seguiva come un serpente mentre si aggirava languidamente, con i capelli tirati su in modo disordinato e una ciocca aggrovigliata che le cadeva in modo sciatto giù per la schiena. Lo sguardo di lui salì fiocco dopo fiocco notando quelli appesi ad un filo, ma non andò oltre il mento. Vide il collo magro, le clavicole sporgenti, visibili nella trasandatezza della parte superiore del suo abbigliamento. Vide il braccio magro e la mano ossuta che stringeva il bambino e sentì un immenso disgusto per quegli impacci della sua vita. Aspettò che fosse lei a dire qualcosa, ma sentendosi addosso i suoi occhi, nel silenzio assoluto, con un sospiro cominciò a parlare. 

  Fu un compito duro. Parlò lentamente, soffermandosi sui ricordi di quella prima parte della loro vita, perché era riluttante a confessare che ora era finita e stava iniziando una esistenza meno radiosa. Convinto come era di averle dato la felicità, appagando pienamente tutti i suoi bisogni materiali, mai, nemmeno per un istante, aveva dubitato che fosse pronta a stargli vicino, per quanto dura e accidentata fosse la strada. Non si sentiva sollevato da questa certezza: l'aveva sposata per compiacere Hudig e la grandezza di questo sacrificio avrebbe dovuto renderla felice senza nessun ulteriore sforzo da parte sua. In quanto moglie di Willems aveva conosciuto anni gloriosi, anni di agio, di leale sollecitudine e di tutta la tenerezza che meritava. L'aveva posta al riparo da qualsiasi pericolo fisico e non aveva la minima idea che potessero esistere altri generi di sofferenze. L'affermazione della superiorità di lui non era altro che uno dei tanti benefici che le erano stati conferiti. Tutto questo era un dato di fatto, ma volle ripeterlo per chiarirle in modo più vivido possibile quanto grande fosse la sua perdita. Era così ottusa che altrimenti non sarebbe riuscita a capire. Adesso tutto questo era finito. Dovevano andarsene. Lasciare quella casa, lasciare quell'isola, andare via dove nessuno lo conosceva. Magari nei possedimenti inglesi sullo Stretto. Lì avrebbe trovato modo di mettere a frutto le sue capacità - e uomini più giusti del vecchio Hudig con cui trattare. Rise amaramente. 

  «Joanna, hai i soldi che ho lasciato a casa stamattina?» , chiese. «Ci serviranno» . 

  Mentre pronunciava queste parole pensò: che brava persona che era in fondo. Non che fosse una novità. Eppure, in questo momento stava andando addirittura al di là delle sue aspettative. Che diamine, in fondo nella vita ci sono cose che sono sacre. Una di queste era il vincolo del matrimonio e lui non era tipo da romperlo. La saldezza dei suoi principi gli diede una grande soddisfazione, non che per questo ci tenesse a guardare sua moglie. Aspettò che fosse lei a parlare. Poi gli sarebbe toccato consolarla; dirle di non essere una stupida piagnucolosa; di prepararsi a partire. Per andare dove? Come? Quando? Scosse il capo. Dovevano partire sull'istante: era questa la cosa più importante. Sentì il bisogno improvviso di affrettare la partenza. 

  «Allora, Joanna» , disse, con un pizzico di impazienza, «non startene lì imbambolata. Mi senti? Dobbiamo...» .  Alzò lo sguardo verso la moglie, ma qualunque cosa stesse per aggiungere rimase non detta. Ella lo stava fissando con i grandi occhi a mandorla che sembravano due volte più grandi del normale. Il bambino, con il visino sporco appoggiato sulla spalla della madre, dormiva beatamente. Il profondo silenzio della casa non era rotto, ma piuttosto accentuato dal borbottio sommesso del pappagallo, immobile ora sul trespolo. Mentre Willems la fissava, Joanna tirò su da un lato il labbro superiore, dando al suo viso malinconico un'espressione maligna che non le aveva mai visto prima. Fece un passo indietro per la sorpresa. 

  «Oh! Il grand'uomo!» , disse distintamente, ma con una voce che era poco più di un bisbiglio. 

  Quelle parole, e ancor più il suo tono, lo fulminarono come se qualcuno gli avesse esploso un colpo di pistola vicino all'orecchio. La fissò attonito. 

  «Oh! Il grand'uomo!» , ripeté lentamente, lanciando sguardi a destra e a sinistra, come se meditasse una fuga improvvisa. «E tu credi che io sia pronta a morire di fame con te. Non sei più nessuno. Credi forse che mamma e Leonard mi lascerebbero andare? E con te! Con te» , ripeté sprezzante, alzando la voce e svegliando il bambino, che cominciò a piagnucolare debolmente. 

  «Joanna!» , esclamò Willems. 

  «Non mi parlare. Ho sentito quello che ho aspettato tutti questi anni. Vali meno del fango, tu che ti sei pulito i piedi su di me. Ho aspettato questo momento. Ora non ho più paura. Non ti voglio; non ti avvicinare. Ah-h!» , urlò con voce stridula, quando lui allungò il braccio con gesto implorante. «Ah! Stammi lontano! Stammi lontano! Lontano!» .  Indietreggiò, guardandolo con gli occhi pieni di rabbia e di paura. Willems la fissava immobile, ammutolito per lo stupore di fronte al mistero della rabbia e della rivolta nella testa della moglie. Perché? Cosa le aveva fatto? Oggi era proprio il giorno delle ingiustizie. Prima Hudig - e ora sua moglie. Provò un senso di terrore di fronte a questo odio che, furtivo, gli era vissuto accanto per anni. Tentò di parlare, ma ella si mise a strillare di nuovo ed era come se qualcuno gli trapassasse il cuore con uno spillone. Alzò di nuovo la mano. 

  «Aiuto!» , gridò la signora Willems, con voce lacerante. «Aiuto!»  

  «Stai zitta! Stupida!» , gridò Willems, cercando di coprire il rumore di sua moglie e del bambino con i propri toni rabbiosi e, per l'irritazione, sbatacchiando violentemente il tavolino di zinco. 

  Da sotto la casa, dove erano i bagni e uno stanzino per gli attrezzi, comparve Leonard, con in mano una spranga di ferro arrugginita. Dal fondo delle scale gridò con fare minaccioso. 

  «Non fatele del male, signor Willems. Siete un selvaggio. Voi non siete affatto come noi bianchi» .  «Anche tu!» , disse Willems sbalordito. «Non l'ho toccata. Cos'è, un manicomio?» . Fece un passo verso le scale e Leonard lasciò cadere la spranga con un suono metallico, scappando verso il cancello del recinto. Willems si voltò di nuovo verso la moglie. 

  «Così sapevi già tutto» , disse. «È un complotto. Chi è di là che singhiozza e si lamenta? Un altro membro della tua preziosa famiglia, eh?» . 

 Ella si era calmata, e posando frettolosamente nel seggiolone il bambino in lacrime andò verso di lui senza nessun timore. 

  «È mia madre» , disse, «mia madre che è venuta a difendermi da te - uomo venuto dal nulla, vagabondo!» . 

  «Non mi chiamavi vagabondo quando mi stavi appesa al collo - prima di sposarci» , disse Willems, sprezzante.  «Dopo il matrimonio hai fatto di tutto perché non ti stessi più appesa al collo» , rispose lei, stringendo i pugni e accostando il viso a quello di lui. «Ti vantavi, mentre io soffrivo in silenzio. Che ne è della tua grandezza, della grandezza di cui non facevi che parlare? Ora vivrò della carità del tuo padrone. Sì, è vero. Ha mandato Leonard a dirmelo. E tu andrai da qualche altra parte a vantarti, e a fare la fame. Ah, finalmente! Ora respiro! Questa casa è mia» .  «Basta!» , disse Willems, lentamente, con un gesto come per fermarla. 

  Ella fece un salto indietro, la paura di nuovo negli occhi, prese in braccio il piccolo, se lo strinse al petto e, lasciandosi cadere in una sedia, cominciò a battere freneticamente con i tacchi, facendo risuonare come un tamburo il pavimento della veranda. 

  «Me ne vado» , disse Willems, deciso. «Ti ringrazio. Per la prima volta in vita tua mi hai reso felice. Per me eri una pietra al collo, capisci. Non avrei mai voluto dirtelo, ma adesso mi ci hai costretto. Quando uscirò da quel cancello tu sarai già uscita dalla mia mente. Hai reso tutto più facile. Ti ringrazio» . 

  Si voltò e scese gli scalini senza degnarla di uno sguardo, mentre ella se ne stava seduta, diritta, silenziosa, gli occhi spalancati e in braccio il bambino piagnucolante. Giunto al cancello si imbatté in Leonard che, ciondolando lì fuori, non aveva fatto in tempo a scansarsi. 

  «Non siate brutale, signor Willems» , disse Leonard di un sol fiato. «Non sta bene, tra bianchi, con tutti questi indigeni che ci guardano» . Le gambe di Leonard tremavano vistosamente e la voce vacillava dai toni alti a quelli bassi senza che provasse a controllarla. «Trattenete la vostra disdicevole violenza» , continuò, balbettando di corsa. «Sono un uomo rispettabile di ottima famiglia, mentre voi... è increscioso... lo dicono tutti...» . 

  «Cosa?» , tuono Willems. Sentì un improvviso impeto di rabbia incontrollabile e prima di rendersi conto di ciò che era successo stava guardando Leonard da Souza rotolarsi nella polvere ai suoi piedi. Scavalcò il corpo disteso del cognato e si precipitò disperatamente giù per la strada, e tutti si scansarono al passaggio di quell'uomo bianco impazzito. 

  Tornò in sé che si era ormai lasciato dietro i sobborghi della città, incespicando sul terreno duro e crepato delle risaie prosciugate. Come aveva fatto ad arrivare fin lì? Era buio. Doveva tornare indietro. Mentre si dirigeva lentamente verso la città, riesaminò mentalmente gli avvenimenti della giornata e provò un amaro senso di solitudine. Sua moglie lo aveva cacciato da casa sua. Egli aveva assalito in modo brutale suo cognato, un membro della famiglia Da Souza - di quella accozzaglia di suoi adoratori. Era stato lui a farlo. Be', no. Era stato un altro. Una persona senza passato, senza un futuro, ma piena di dolore, vergogna e rabbia. Si fermò e si guardò attorno. Uno o due cani traversarono furtivamente la strada vuota e lo sfiorarono, ringhiando per la paura. Si trovava al centro del quartiere malese e le case di bambù, nascoste tra il verde dei giardini, erano buie e silenziose. Uomini, donne e bambini stavano dormendo lì dentro. Esseri umani. Sarebbe mai riuscito a dormire? E dove? Gli sembrava di essere il reietto di tutto il genere umano e, guardandosi intorno disperato prima di riprendere la sua marcia faticosa, gli sembrò che il mondo fosse più grande, la notte più vasta e più nera; ma continuò caparbiamente, a testa bassa, come se si stesse aprendo il cammino tra dei fitti rovi. Poi, d'un tratto sentì sotto i piedi delle assi di legno e, alzando gli occhi, vide la luce rossa alla fine del pontile. Arrivò fin proprio alla punta e si appoggiò contro la torretta, sotto il fanale, a guardare la rada, dove due navi alla fonda facevano ondeggiare il loro esile sartiame tra le stelle. La fine del pontile: qui sotto, fatto un passo, la fine della vita; la fine di tutto. Sarebbe stato meglio. Che altro poteva fare? Niente è più come prima. Lo vide con chiarezza. Il rispetto e l'ammirazione di tutti, le vecchie abitudini e i vecchi affetti finivano bruscamente nella chiara percezione della causa della sua rovina. Vide tutto questo e per un istante uscì fuori da se stesso, dal proprio egoismo - dall'ansia continua dei propri interessi e dei propri desideri - dal tempio eretto a se stesso e dal rimuginare di una mente rivolta sempre verso l'interno. 

  Ora i suoi pensieri riandavano alla casa della sua infanzia. In piedi, nell'immobilità tiepida di una notte tropicale piena di stelle, sentì il soffio del vento pungente dell'est, vide le facciate slanciate e strette delle case sotto la cappa scura di un cielo nuvoloso; e sulle banchine fangose vide la figura incurvata e male in arnese - il viso paziente, smunto, dell'uomo stanco che guadagnava il pane per i figli che lo aspettavano in una misera casetta. Era squallido, squallido. Ma non sarebbe tornato come prima. Cosa c'era in comune tra tutto quello e Willems il furbo, Willems l'uomo di successo. Aveva rotto i ponti con quella casa molti anni addietro. Meglio per lui allora. Meglio per lui adesso. Tutto questo non c'era più e non sarebbe più tornato; e tutt'a un tratto rabbrividì, vedendosi solo al cospetto di ignoti e terribili pericoli. 

  Per la prima volta in vita sua ebbe paura del futuro, perché aveva perso la fede, la fede nel proprio successo: e 

l'aveva distrutta stupidamente con le proprie mani! 

 

 

CAPITOLO QUARTO 

 

 

  Le sue meditazioni, simili ad un lento andare alla deriva verso il suicidio, furono interrotte da Lingard, il quale, posandogli con violenza una mano sulla spalla esclamò: «T'ho scovato finalmente!» . Questa volta era il vecchio marinaio che si scomodava per andare a raccogliere il fanciullo abbandonato di cui a nessuno importava niente - tutto ciò che rimaneva di quell'improvviso e sordido naufragio. Quella rude voce amica portò a Willems un sollievo fugace seguito da un più acuto spasimo di rimpianto e rabbia impotente. Quella voce lo riportava indietro, agli inizi di quella promettente carriera la cui fine ora era ben visibile dal pontile su cui stavano entrambi. Si divincolò dalla stretta amichevole, dicendo pieno di risentimento: 

  «È tutta colpa vostra. Datemi una spinta, ora, fatelo e buttatemi di sotto. Stavo qui, aspettando qualcuno che mi portasse aiuto. Voi - più di chiunque altro - siete la persona adatta per farlo. Voi mi avete aiutato all'inizio e adesso dovete prendere parte alla fine» . 

  «Ho qualcosa di meglio da farti fare che darti in pasto ai pesci» , disse Lingard facendosi serio e prendendo Willems per il braccio, sospingendolo gentilmente verso l'inizio del pontile. «È tutto il giorno che ronzo per la città come un moscone, cercandoti. Ho sentito molte cose sul tuo conto. Ti dico, Willems: non sei un santo, su questo non c'è dubbio. E non sei nemmeno stato molto avveduto. Non sto scagliando la prima pietra» , aggiunse in fretta, mentre Willems cercava di liberarsi, «ma voglio parlarti con franchezza. Sono fatto così, non posso fare altrimenti! Tu stai zitto finché non ho finito. Ci riesci?» . 

  Con un gesto di rassegnazione e trattenendo a stento un borbottio, Willems si piegò alla volontà più forte e i due cominciarono a passeggiare lentamente avanti e indietro facendo risuonare le assi sotto i loro piedi, mentre Lingard rivelava a Willems le esatte circostanze della sua caduta. Dopo il primo colpo, Willems cessò di stupirsi, man mano che la sua indignazione aumentava. Così erano stati Vinck e Leonard a giocarlo. Lo avevano tenuto sotto controllo, ricostruito le sue malefatte, per poi andare a riferirle a Hudig. Avevano messo insieme la storia delle sue irregolarità corrompendo sconosciuti cinesi, cavando confidenze da capitani ubriachi e rintracciando diversi barcaioli. La nefandezza di questo tenebroso intrigo lo riempì di orrore. Poteva capire Vinck. Tra di loro non c'era mai stato troppo affetto. Ma Leonard! Leonard! 

  «Capitano Lingard» , esclamò, «ma mi leccava gli stivali quel tipo» . 

  «Sì, sì, sì» , disse Lingard stizzito, «lo sanno tutti, e facevi del tuo meglio per ficcargli lo stivale bene in gola. 

Ragazzo mio, a nessuno farebbe piacere» . 

  «Non facevo che dare soldi a tutta quella moltitudine di morti di fame» , continuò Willems, accalorandosi. 

«Sempre con la mano nel portafoglio. Non avevano che da chiedere» . 

  «Proprio così. La tua generosità li ha spaventati. Si sono chiesti da dove venivano tutti quei soldi e hanno concluso che era più sicuro buttarti a mare. In fondo, Hudig è un uomo ben più importante di te, amico mio, e hanno dei diritti da accampare anche nei suoi confronti» . 

  «Cosa intendete dire, capitano Lingard?»  

  «Cosa intendo dire?» , ripeté Lingard, lentamente. «Andiamo, non vorrai farmi credere che non sapevi che tua moglie era la figlia di Hudig. Andiamo, su!» . 

  Willems si fermò di colpo, barcollando. 

  «Ah! Ora capisco» , disse con voce strozzata. «Non ne sapevo nulla... Negli ultimi tempi mi era sembrato che vi fosse... Ma no, non l'avevo mai capito» . 

  «Che sempliciotto» , disse Lingard, con tono compassionevole. «Parola mia» , disse tra sé e sé, «stai a vedere che non sapeva niente. Va bene, dai. Calmati adesso. Smettila. Che c'è di male. È una brava moglie» . 

  «Una moglie ottima» , disse Willems con voce cupa, guardando lontano, sull'acqua nera e lucente. 

  «Benissimo allora» , seguitò Lingard, sempre più cordiale. «Non c'è niente di male. Ma veramente pensavi che Hudig ti trovasse una moglie, ti comprasse una casa e non so che altro solo per amore tuo?»  

  «Gli avevo reso dei buoni servigi» , rispose Willems. «Quanto buoni lo sapete anche voi - nella buona e nella cattiva sorte. Qualunque fosse il lavoro e qualunque fosse il rischio, io ero sempre lì, sempre pronto» . 

  Con quale chiarezza riusciva a vedere la grandezza di ciò che aveva realizzato e l'enormità dell'ingiustizia con cui era stato ricompensato. Lei era la figlia di quell'uomo! Alla luce di questa rivelazione gli avvenimenti degli ultimi cinque anni della sua vita apparvero chiari in tutto il loro significato. La prima volta che aveva parlato con Joanna davanti al cancello della loro abitazione mentre egli si recava al lavoro nel fulgido rigoglio del primo mattino, quando anche all'occhio più ottenebrato le donne e i fiori sono affascinanti. I suoi vicini - due donne e un giovane - erano una famiglia oltremodo rispettabile. Nessuno veniva mai a fare visita alla loro casetta se non, di tanto in tanto, il prete, originario delle isole spagnole. Il giovane Leonard lo aveva conosciuto in città e aveva trovato gratificante l'enorme rispetto del piccolino per il grande Willems. Lasciava che portasse altre sedie, chiamasse il cameriere, gli ingessasse le stecche al biliardo, esprimesse la sua ammirazione con parole ricercate. Si degnava anche di ascoltare pazientemente le allusioni di Leonard al «nostro amato padre» , un uomo che aveva ricoperto incarichi ufficiali, un funzionario del governo a Koti, dove, ahimè, era morto di colera, vittima del dovere, da bravo cattolico e uomo buono. Sembrava molto rispettabile e Willems approvava questi commossi ricordi. Inoltre, amava vantarsi di non avere pregiudizi e antipatie razziali. Acconsentì un pomeriggio ad andare a bere del curaçao sulla veranda della casa della signora Da Souza. Ricordava Joanna, quel giorno, dondolarsi sull'amaca. Anche allora, ricordava, era trasandata e alla fine della visita fu questa l'unica impressione che gli era rimasta in mente. In quei giorni radiosi non aveva tempo per l'amore, nemmeno per un'infatuazione passeggera, ma poco alla volta divenne per lui un'abitudine far visita quasi ogni giorno in quella casetta dove veniva accolto dalla voce stridula della signora Da Souza che urlava a Joanna di venire ad intrattenere il signore della Hudig & Co. Poi vi fu l'improvvisa e inaspettata visita del prete. Ricordava il viso giallo e piatto dell'uomo, le gambe magre e il sorriso ingraziante, gli occhi neri che sfavillavano, i modi accattivanti, le allusioni velate che sul momento non aveva capito. Ricordava di essersi chiesto cosa volesse e di come se ne era sbarazzato senza tante cerimonie. La memoria poi gli riportò alla mente il ricordo vivido del mattino in cui incontrò di nuovo il prete che usciva dall'ufficio di Hudig, e quanto aveva trovato buffa la incongrua visita. E quella mattina con Hudig! Come dimenticarla? Come dimenticare la sua sorpresa quando il padrone, invece di mettersi immediatamente al lavoro, lo guardò pensieroso prima di tornare, con un sorriso sfuggente, alle carte sulla scrivania? Gli sembrava di sentirlo ancora, il naso incollato al foglio che aveva davanti, che lasciava cadere parole stupefacenti nelle pause del suo respiro affannoso. 

  «Ho sentito dire... siete andato spesso a far visita... delle signore rispettabilissime... conoscevo benissimo il padre... stimabilissimo... la cosa migliore per un giovanotto... sistemarsi... Personalmente, sono molto felice di sentire... la cosa è combinata... Giusto riconoscimento degli impagabili servigi... La cosa migliore - la cosa migliore da fare» .  Ci aveva creduto! Che ingenuità! Che somaro! Hudig aveva conosciuto il padre! Direi. Come probabilmente anche tutti gli altri; tutti tranne lui. Come era stato fiero del benevolo interessamento di Hudig per il suo futuro! Come era stato fiero di essere invitato da Hudig come amico nella sua piccola casa fuori città, dove aveva avuto modo di incontrare gente, gente con incarichi ufficiali. Vinck era diventato verde per l'invidia. Eh, sì. Aveva creduto che fosse la cosa migliore e la ragazza l'aveva presa come un dono della fortuna. Come si era vantato con Hudig di non avere pregiudizi razziali. Quanto doveva aver riso sotto i baffi quella vecchia canaglia a sentire quel fesso del suo impiegato di fiducia. Prese la ragazza, senza sospettare nulla. Come poteva? Tutti sapevano che c'era stato un padre. Altri lo avevano conosciuto, ne parlavano. Un uomo magro - di sangue irrimediabilmente misto, ma per il resto, a quanto sembrava, irreprensibile. Le parentele discutibili vennero fuori solo in seguito, ma, data la sua mancanza di pregiudizi, non aveva nulla da ridire, perché, con la loro umile dipendenza, non facevano che coronare il suo trionfo nella vita. Turlupinato! turlupinato! Hudig aveva trovato un mezzo comodissimo per provvedere a quella accozzaglia di mendicanti. Il peso delle sue marachelle giovanili l'aveva scaricato sulle spalle del suo impiegato di fiducia, e mentre lui lavorava per il padrone, il padrone lo aveva imbrogliato, gli aveva rubato l'anima. Era sposato. Apparteneva a quella donna, qualunque cosa ella facesse!... Aveva giurato... per tutta la vita... Si era buttato via... E proprio quella mattina quell'uomo aveva osato dargli del ladro! Maledizione! 

  «Lasciatemi andare, Lingard» , gridò, cercando con un improvviso strattone di liberarsi dal vigile vecchio marinaio. «Lasciatemi andare che l'ammazzo quel...»  

  «No, non lo farai!» , gridò ansimando Lingard, trattenendolo con tutta la forza. «Vuoi uccidere, eh? Pazzo. Ah, t'ho bloccato! Calmati, ti dico» . 

  Lottarono violentemente, mentre Lingard cercava di spingere Willems un po' alla volta contro il parapetto. Il rumore dei loro piedi sul pontile risuonava come un tamburo nella notte silenziosa. All'estremità verso la riva il sorvegliante indigeno del molo assisteva alla zuffa accoccolato al riparo dietro alcune grosse casse. Il giorno dopo informò i suoi amici con calma soddisfazione che due bianchi ubriachi si erano azzuffati sul pontile. Era stata una zuffa formidabile. Avevano lottato senza armi, come bestie selvatiche, al modo dei bianchi. No! non era morto nessuno, se no vi sarebbero state delle noie e un rapporto da fare. Come poteva sapere perché si azzuffavano. Gli uomini bianchi quando sono in quello stato non ragionano più. 

  Proprio quando cominciava a temere di non farcela più a contenere la furia dell'uomo più giovane, Lingard sentì i muscoli di Willems rilassarsi e ne approfittò per inchiodarlo, con un ultimo sforzo, contro il parapetto. 

Ansimavano entrambi pesantemente, in silenzio, i visi vicinissimi. 

 «Va bene» , disse infine Willems con un filo di voce. «Non spezzatemi la schiena contro questo infernale parapetto. Starò calmo» . 

  «Ora cominci a ragionare» , disse Lingard, molto sollevato. «Cos'è che t'ha fatto perdere così la testa?» , domandò, riaccompagnandolo verso l'estremità del pontile e, tenendolo ancora prudentemente con una mano, con l'altra cercò il fischietto ed emise un suono acuto e prolungato. Attraverso l'acqua calma della rada giunse come risposta, da una delle navi alla fonda, un debole grido. 

  «La mia lancia sarà qui tra poco» , disse Lingard. «Decidi tu cosa fare. Io salpo stanotte» . 

  «Cosa mi rimane da fare, se non un'unica cosa?» , disse Willems con voce tetra. 

  «Sta' a sentire» , disse Lingard. «Ti ho raccolto da ragazzo e mi considero in qualche modo responsabile nei tuoi confronti. Da molti anni sei diventato padrone della tua vita - eppure...» . 

 Si fermò, in ascolto, finché non sentì il cigolio regolare dei remi negli scalmi della lancia che si avvicinava, quindi proseguì. 

  «Ho sistemato tutto con Hudig. Non gli devi nulla ora. Torna da tua moglie. È una brava donna. Torna da lei» .  «Ma, capitano Lingard» , esclamò Willems, «lei...»  

  «È stato molto commovente» , continuò Lingard, senza badargli. «Sono andato a casa tua per cercarti e ho visto la sua disperazione. Davvero straziante. Ti invocava; mi ha pregato di venirti a cercare. Povera donna, parlava a vanvera, come se la colpa di tutto questo fosse solo sua» . 

  Willems ascoltava stupefatto. Povero vecchio idiota cieco! Non aveva proprio capito niente! Ma se fosse stato vero, se anche fosse stato vero, l'idea stessa di vederla gli riempiva l'animo di profondo disgusto. Non aveva spezzato lui il vincolo, ma non sarebbe tornato da lei. Che ricadesse su di lei la colpa di quella separazione, del sacro vincolo spezzato. Si beava per la grande purezza del proprio cuore, e non sarebbe tornato da lei. Che fosse lei a tornare da lui. Lo confortava la convinzione che non l'avrebbe mai più rivista, e questo solo per colpa di lei. Animato da tale certezza, giurò a se stesso solennemente che se ella fosse venuta egli l'avrebbe accolta con generosità, perdonandola, tanto encomiabile era la saldezza dei suoi principi. Era in dubbio, però, se rivelare o meno a Lingard fino a quali rivoltanti estremi era giunta la sua umiliazione. Scacciato dalla propria casa - e da sua moglie; da quella donna che fino a ieri a malapena osava respirare al suo cospetto. Rimase perplesso e silenzioso. No. Gli mancava il coraggio di raccontare quella vergognosa storia. 

 Quando improvvisamente sull'acqua nera vicino al pontile apparve la lancia del brigantino, Lingard ruppe l'imbarazzato silenzio. 

  «Ho sempre pensato» , disse mestamente, «ho sempre pensato che tu fossi in certo modo senza cuore, Willems, e pronto a lasciare andare alla deriva quelli che più tengono a te. Faccio appello alla parte migliore di te: non abbandonare quella donna» . 

  «Non l'ho abbandonata» , rispose Willems prontamente, sapendo di dire il vero. «Perché avrei dovuto? Come avete detto giustamente voi è stata una brava moglie. Una moglie molto brava, discreta, obbediente e affettuosa e io la amo quanto lei ama me. Fino in fondo. Ma quanto a tornare indietro ora, in quel posto dove io... Tornare a camminare tra quegli uomini che ieri erano pronti a strisciare ai miei piedi, solo per sentirmi bruciare sulla schiena i loro sorrisi di compassione o di soddisfazione - no! Non posso. Piuttosto mi vado a nascondere in fondo al mare» , continuò con risoluta energia. «Non credo, capitano Lingard» , aggiunse, più tranquillamente, «non credo che voi vi rendiate conto di quale fosse la mia posizione laggiù» . 

  Con un ampio movimento della mano abbracciò da nord a sud la riva addormentata, quasi per darle un addio fiero e minaccioso. Per un breve istante il ricordo dei suoi brillanti trionfi gli fece dimenticare la caduta. Tra gli uomini della sua stessa classe sociale e professione che dormivano in quelle case buie era veramente stato il primo.  «È dura» , mormorò Lingard pensieroso. «Ma di chi la colpa? Di chi la colpa?»  

  «Capitano Lingard!» , esclamò Willems, rispondendo all'impulso improvviso di una felice ispirazione, «se mi lasciate qui sul pontile - sarebbe un omicidio. Non tornerò mai in quel posto vivo, moglie o non moglie. Tanto vale tagliarmi la gola subito» . 

  Il vecchio marinaio trasalì. 

  «Non cercare di spaventarmi, Willems» , disse, con severità, e si arrestò. 

  Più forte dei toni sfacciatamente disperati di Willems sentiva, con crescente inquietudine, la voce sommessa della propria irragionevole coscienza. Rifletté un istante, come indeciso. 

  «Potrei dirti di annegarti pure e di andare all'inferno» , disse, cercando senza successo di mostrarsi brutale, «ma non lo farò. Siamo responsabili l'uno per l'altro - peggio per noi. Quasi mi vergogno di me stesso, ma posso capire il tuo sporco orgoglio. Lo capisco! Per...» . 

  Con un sonoro sospiro si interruppe e si diresse a passi rapidi verso la scaletta in fondo alla quale era ormeggiata la lancia, che si alzava e s'abbassava leggera, seguendo la lieve e invisibile onda lunga. 

  «Ehi, laggiù! Qualcuno nella barca ha una lampada? Allora, uno di voi, accendetela e portatemela. Forza, su!» .  Strappò una pagina dal suo taccuino, inumidì la matita con grande vigore e aspettò, battendo i piedi impaziente. 

 «Voglio andare in fondo a questa faccenda» , borbottò tra sé e sé. «E vediamo se non riesco a raddrizzarla e mettere tutto a posto; vedremo se non ci riesco! Me la porti questa lampada, figlio di una tartaruga zoppa? Sto aspettando» . 

  Il bagliore della luce sul foglio placò la sua ira professionale e scrisse rapidamente; il ghirigoro finale della sua firma accartocciò la carta con uno strappo triangolare. 

  «Portalo alla casa di questo tuan bianco. Manderò la lancia a prenderti tra mezz'ora» . 

  Il timoniere alzò la lampada lentamente verso il viso di Willems. 

  «Questo tuan? Tau! Lo conosco» . 

  «Svelto allora!» , disse Lingard, prendendogli la lampada, e l'uomo partì di corsa. 

  «Kassi mem! Personalmente alla signora» , gli gridò dietro. 

  Poi, una volta scomparso l'uomo, Lingard si voltò verso Willems. 

  «Ho scritto a tua moglie» , disse. «Se vuoi andartene per sempre non puoi tornare per un ultimo addio. Vieni via con quello che hai indosso. Non permetterò che quella povera donna venga tormentata. Ci penserò io a non farvi rimanere separati a lungo. Fidati di me!» . 

  Willems rabbrividì, quindi sorrise nell'oscurità. 

  «Non preoccupatevi» , mormorò, in modo enigmatico. «Mi fido ciecamente di voi, capitano Lingard» , aggiunse a voce più alta. 

  Lingard fece strada giù per la scaletta, facendo dondolare la lampada e voltando la testa per parlare. 

  «Questa è la seconda volta, Willems, che ti prendo per mano. Bada bene che è l'ultima. La seconda volta; e l'unica differenza tra adesso e allora è che al tempo eri scalzo e ora hai gli stivali. In quattordici anni. Con tutta la tua furbizia! Un misero risultato. Veramente misero come risultato» . 

  Si fermò un momento sulla piattaforma in fondo alla scaletta, con la luce della lampada che cadeva sul viso alzato del capovoga, il quale teneva accostata la frisata della lancia in attesa che il capitano salisse a bordo. 

  «Vedi» , aggiunse, polemicamente, armeggiando con il coperchio della lampada, «ti sei così impastoiato in mezzo a quegli scribacchini di terraferma che non potevi certo farcela a uscirne fuori pulito. Ecco cosa succede a fare certi discorsi e a vivere in quel modo. Un uomo vede talmente tante falsità che comincia anche lui a mentire. Bah!» , disse, disgustato. «Per un uomo onesto non c'è che un solo posto. Il mare, ragazzo mio, il mare! Ma tu no, non volevi; non c'era da diventare ricchi, pensavi; e ora - guarda!» . 

  Con un soffio spense la lampada e, salendo sulla lancia, allungò prontamente la mano verso Willems, con un gesto amichevole. Willems gli si sedette accanto in silenzio e la lancia si scostò, dirigendosi con un'ampia virata verso il brigantino. 

 «Tutta la vostra compassione è per mia moglie, capitano Lingard» , disse Willems, imbronciato. «Crede che io sia così felice?»  

 «No! No!» , disse Lingard calorosamente. «Non parliamone più. Visto che ti conosco, si può dire, da quando eri bambino, dovevo tirar fuori quello che avevo da dire, almeno una volta. Da adesso in poi farò finta di niente; tu, però, sei ancora giovane. La vita è lunga» , continuò, con una involontaria nota di tristezza, «che questa storia ti serva di lezione» . 

  Con un gesto affettuoso posò la mano sulla spalla di Willems e rimasero tutti e due in silenzio, finché la lancia non si accostò alla scaletta della nave. 

  Una volta a bordo, Lingard comunicò gli ordini al suo secondo ufficiale e, condotto Willems a poppa, si sedette sulla culatta di uno dei cannoni di ottone da sei libbre con cui era armata la nave. La lancia ripartì per andare a prendere il messaggero. Appena la si vide tornare, delle figure scure apparvero sull'alberatura del brigantino; le vele 

cominciarono a cadere a festoni facendo frusciare le loro pesanti pieghe e poi rimanendo immobili sotto i pennoni, nella calma perfetta della notte chiara e umida. Dalla prua giunse il rumore metallico del verricello e subito dopo il grido del primo ufficiale che informava Lingard che la catena era stata virata a picco. 

  «Ferma» , rispose Lingard, «dobbiamo aspettare la brezza di terra prima di levare l'ancora» . 

  Si avvicinò a Willems, il quale se ne stava seduto sull'osteriggio, il corpo piegato in avanti, la testa bassa e le mani tra le ginocchia, immobili. 

  «Ti porto a Sambir» , disse. «Non ne hai mai sentito parlare, vero? Be', è su quel mio fiume di cui la gente parla tanto senza saperne niente. Ho trovato un passaggio attraverso cui può entrare anche una nave del pescaggio del Flash. Come vedrai, non è facile. Ti mostrerò in che modo. Sei stato abbastanza in mare e dovrebbe interessarti... 

Peccato che non hai continuato. Comunque, io sto andando là, dove ho la mia stazione commerciale. Il mio socio è Almayer. Lo hai conosciuto quando lavorava da Hudig. Sta benissimo lì, come un re. Vedi, li ho tutti in tasca. Il rajah è un mio vecchio amico. La mia parola è legge e sono l'unico cui possono vendere. Prima di Almayer non c'era mai stato nessun altro bianco in quel villaggio. Te ne starai tranquillo lì per un poco, finché non ripasserò alla fine del mio prossimo giro verso ovest. Penseremo allora a trovarti qualcosa da fare. Non temere. Non ho alcun dubbio che il mio segreto sarà al sicuro con te. Tieni la bocca chiusa sul mio fiume quando torni di nuovo tra i mercanti. C'è gente che darebbe la mano destra per sapere dov'è. Ti dirò una cosa: è lì che prendo tutta la mia guttaperca e la malacca. È praticamente inesauribile, ragazzo mio» . 

  Mentre Lingard parlava, Willems alzò lo sguardo di scatto, ma la testa gli ricadde sul petto, sconsolato: sapeva che le informazioni così a lungo agognate da lui e Hudig erano arrivate troppo tardi. Rimase seduto con aria assente.  «Se ne avrai voglia, potrai aiutare Almayer con il commercio» , proseguì Lingard, «così, solo per ammazzare il tempo fino a quando non torno a riprenderti. Al più si tratterà di sei settimane» . 

  Alte sulle loro teste le vele umide sbatterono rumorosamente al primo, lieve alito della brezza; quindi, come l'aria rinfrescò, il brigantino si presentò al vento e le velature, prendendo a collo, tacquero silenziose. Dall'oscurità del ponte di casseretto si udì la voce bassa e distinta del secondo. 

  «Ecco la brezza. Quale rotta, capitano Lingard?» . 

  Lingard distolse gli occhi fissi in alto verso l'alberatura e guardò giù alla figura derelitta dell'uomo seduto sull'osteriggio. Per un istante sembrò esitare. 

  «Verso nord, verso nord» , rispose stizzito, come infastidito per il pensiero che gli aveva attraversato la mente, «e date una mano anche voi. Ogni soffio di vento vale denaro in questi mari» . 

  Rimase immobile, ascoltando lo stridere dei bozzelli e il cigolio delle trozze allorché furono bracciati i pennoni di prua. Rimase immobile, immerso nei suoi pensieri, mentre la nave veniva messa alla vela e il molinello fu azionato di nuovo. Si scosse solo quando un marinaio scalzo gli scivolò accanto silenzioso diretto verso il timone. 

  «Accosta a sinistra! Barra a sinistra!» , disse, con la sua aspra voce di mare, all'uomo il cui viso era emerso improvvisamente dall'oscurità, illuminato dal basso dal cerchio di luce proveniente dalle lampade della chiesuola.  Assicurata l'ancora e orientate le vele, il brigantino cominciò a uscire dalla rada. Il mare si risvegliò sotto la spinta del tagliamare acuminato e mormorò sommessamente allo scafo che gli scivolava sopra, con quel bisbigliare delicato e gorgogliante con cui a volte parla a coloro che ama e nutre. Lingard, in piedi accanto al coronamento, ascoltò con un sorriso compiaciuto fino a quando il Flash cominciò ad avvicinarsi all'unica altra nave alla fonda. 

  «Vieni, Willems» , disse, facendogli cenno di avvicinarsi, «hai visto quel brigantino a palo? È una nave araba. I bianchi per lo più hanno abbandonato la partita, ma quel tipo spesso cerca di seguirmi e vive nella speranza di prendere il mio posto in quel villaggio. Finché avrò vita non ci riuscirà, ci puoi giurare. Vedi, Willems, io ho portato la prosperità in quel posto. Ho risolto tutte le contese e li ho visti crescere sotto i miei occhi. Ora lì regna la pace e la felicità. Sono più padrone io laggiù di quanto lo sarà mai Sua Eccellenza olandese a Batavia, se mai un giorno una pigra nave da guerra dovesse incappare per caso in quel fiume. Intendo tenere fuori gli arabi, con le loro bugie e i loro intrighi. Terrò fuori quella razza velenosa, dovesse costarmi fino all'ultimo centesimo» . 

  Il Flash si portò a traverso del veliero ed era sul punto di lasciarlo indietro quando una figura bianca si levò in piedi sulla poppa dell'imbarcazione araba e una voce chiamò con forza: 

  «Saluti al Rajah Laut!»  

  «Saluti a voi!» , rispose Lingard, dopo un attimo di sorpresa. Si volse poi verso Willems con un sorriso sarcastico. «Era la voce di Abdullah» , disse. «Così, all'improvviso tutta questa cortesia, strano no? Chissà cosa significa. Tipico della sua sfacciataggine. Non importa. La sua cortesia o la sua sfacciataggine per me sono la stessa cosa. Lo so che salperà al mio inseguimento rapido come una freccia. Non me ne importa. Non mi può tenere dietro nessuno in questi mari» , aggiunse, posando affettuosamente uno sguardo pieno di orgoglio e di amore sull'alberatura alta e aggraziata del brigantino. 

   

   

   

   

   

CAPITOLO QUINTO 

 

 

  «Era scritto sulla sua fronte» , disse Babalatchi, aggiungendo un paio di legnetti al piccolo fuoco davanti a cui stava accovacciato senza guardare Lakamba, il quale stava sdraiato appoggiato su un gomito dall'altra parte della brace. «Quando nacque era scritto che avrebbe finito i suoi giorni nelle tenebre e ora è come un uomo che cammina in una notte nera - con gli occhi aperti, ma senza vedere. Lo conoscevo bene quando aveva schiavi e molte mogli e tanta mercanzia e praho mercantili e praho da guerra. Hai, hai! Era un grande guerriero prima che il Misericordioso spegnesse la luce nei suoi occhi. Era un pellegrino e aveva molte virtù: era valoroso, la sua mano era sempre aperta ed era un gran predone. Per molti anni ha guidato uomini assetati di sangue sui mari: il primo nella preghiera e il primo in combattimento! Non gli stavo forse dietro quando il suo viso era rivolto verso occidente? Non ho visto, al suo fianco, levarsi una fiamma diritta da navi dall'alta alberatura che bruciavano sulle acque calme? Non lo ho forse seguito nelle notti buie tra uomini addormentati che si svegliarono solo per morire? La sua spada era più rapida del fuoco dai cieli e colpiva prima di lampeggiare. Hai! Tuan! Che tempi erano quelli e che condottiero è stato, e anch'io ero più giovane; in quei giorni, poi, non vi erano così tante navi incendiarie con cannoni che mandano da lontano un fuoco mortale. Oltre la collina e oltre la foresta - Oh, tuan Lakamba! lanciarono sibilanti palle di fuoco fin dentro la piccola insenatura dove i nostri praho avevano trovato rifugio e dove essi non si azzardavano a inseguire uomini con le armi ancora in mano» .  Scosse il capo con un gesto di malinconico rimpianto e gettò un'altra manciata di combustibile sul fuoco. La vampata della fiamma chiara gli illuminò il viso largo, scuro e butterato, su cui le labbra carnose macchiate di succo di betel sembravano il taglio profondo e sanguinolento di una ferita aperta. Il riverbero del fuoco luccicava nel suo unico occhio, dando ad esso per un istante una animazione feroce che si spense con il rapido estinguersi della fiamma. Con rapidi gesti delle mani nude ammucchiò i tizzoni, poi si pulì dalla cenere tiepida sul perizoma - l'unico suo indumento - e intrecciando le dita si afferrò le gambe magre, poggiando il mento sulle ginocchia rannicchiate. Lakamba si mosse appena, senza cambiare posizione o distogliere gli occhi dai carboni ardenti che stava fissando immobile, come trasognato. 

  «Sì» , riprese Babalatchi, con un tono basso e monocorde, come se stesse completando ad alta voce un pensiero scaturito dalla contemplazione silenziosa della natura instabile della grandezza terrena, «sì. Un tempo è stato ricco e forte e oggi vive di elemosina: vecchio, debole, cieco e senza altra compagnia se non quella di sua figlia. Il rajah Patalolo gli dà del riso che gli cucina quella donna pallida - sua figlia - perché non ha nemmeno uno schiavo» .  «L'ho vista da lontano» , borbottò Lakamba con tono sprezzante. «Una cagna dai denti bianchi, come le donne degli orang-putih» . 

  «Giusto, giusto» , disse Babalatchi; «ma non l'hai vista da vicino. Sua madre era una donna che veniva dall'ovest, una donna di Baghdad col viso coperto da un velo. Ora va in giro scoperta, come le nostre donne, perché ella è povera e lui è cieco e nessuno si avvicina se non per chiedere un amuleto o una benedizione, per poi andarsene alla svelta per timore della furia di lui o della mano del rajah. Non sei mai stato su quel lato del fiume?» . 

  «No, da molto tempo. Se ci andassi...» . 

 «Vero, vero» , lo interruppe Babalatchi, per calmarlo; «ma io ci vado spesso da solo - per il tuo bene - e osservo - e ascolto. Quando verrà il momento; quando andremo insieme al campong del rajah sarà per entrarci - e rimanerci» . 

  Lakamba si tirò su a sedere e fissò Babalatchi accigliato. 

  «Queste sono belle parole, se dette una o due volte, ma a sentirle troppo spesso diventano sciocche, come il chiacchiericcio dei bambini» . 

 «Molte, moltissime volte ho visto il cielo coperto di nuvole e ho sentito il vento delle stagioni piovose» , disse Babalatchi solennemente. 

 «E dov'è la tua saggezza? Deve essere volata via con il vento e le nuvole delle passate stagioni, perché non la sento nelle tue parole» . 

  «Sono gli ingrati a parlare così» , esclamò Babalatchi, improvvisamente irritato. «È proprio vero: il nostro solo rifugio è con l'Unico, l'Onnipotente, il Consolatore degli...»  

  «Calma, calma» , brontolò Lakamba, sussultando. «Parlavo da amico» . 

  Babalatchi tornò all'atteggiamento di prima, borbottando qualcosa tra i denti. Dopo un po' riprese a voce più alta: 

  «Da quando il Rajah Laut ha lasciato un altro uomo bianco qui a Sambir, la figlia del cieco Omar el Badavi ha parlato ad altre orecchie che non le mie» . 

  «Un bianco porgerebbe orecchio alla figlia di un mendicante?» , disse Lakamba, dubbioso. 

  «Hai! ma io ho visto...»  

  «Cosa hai visto! Guercio!» , esclamò Lakamba sprezzante. 

  «Ho visto lo strano uomo bianco camminare lungo lo stretto sentiero prima che il sole asciugasse le gocce di rugiada sui cespugli e ho udito il bisbigliare della sua voce quando parlava attraverso il fumo del fuoco mattutino a quella donna dai grandi occhi e la pelle pallida. Corpo di donna, ma cuore di uomo! Non conosce né paura né vergogna. 

Ho udito anche la sua voce» . 

  Fece due volte cenno col capo a Lakamba con aria sagace e si lasciò andare a silenziose meditazioni, il suo unico occhio immobile e fisso sul muro diritto della foresta sulla sponda opposta. Lakamba rimase sdraiato in silenzio, con lo sguardo sperso nel vuoto. Sotto di loro il fiume di Lingard si increspava appena tra le palafitte che reggevano la piattaforma di bambù della piccola capanna di guardia davanti a cui erano sdraiati. Dietro la capanna, il terreno si alzava gradatamente fino a divenire una bassa collinetta spoglia di alberi, ma fittamente coperta di erba e cespugli, ora riarsi e avvizziti dalla lunga siccità della stagione secca. Questa vecchia risaia, ormai incolta da diversi anni, era incorniciata su tre lati dalla intricata e impenetrabile vegetazione della foresta vergine e sul quarto lato scendeva fino alla riva fangosa del fiume. Non vi era un alito di vento, né sulla terra né sul fiume, ma in alto, nel cielo trasparente, piccole nubi attraversavano veloci la luna, che ora appariva, con i suoi raggi soffusi, lucente come l'argento, ora si oscurava la faccia con il nero dell'ebano. In mezzo al fiume, in lontananza, un pesce di tanto in tanto saltava su, ricadendo con un breve tonfo, il cui rumore dava la misura di quanto profondo fosse il silenzio opprimente che inghiottiva di colpo quel suono penetrante. 

  Lakamba cadde in un sonno leggero e agitato, ma Babalatchi, ben sveglio, rimase seduto, profondamente immerso nei suoi pensieri, levando di tanto in tanto un sospiro e colpendosi di continuo il petto e la schiena nudi nel vano tentativo di scacciare una occasionale zanzara errabonda che, libratasi al di sopra degli sciami sulla riva del fiume fino ad arrivare alla piattaforma, si posava con un sibilo di trionfo sulla vittima inaspettata. La luna, seguendo il suo cammino taciturno e laborioso, toccò la sua elevazione massima e, scacciando l'ombra delle grondaie del tetto dal viso di Lakamba, sembrò restare sospesa sulle loro teste. Babalatchi ravvivò il fuoco e svegliò il suo compagno, che si alzò a sedere di pessimo umore sbadigliando e con un brivido di freddo. 

  Babalatchi riprese a parlare con una voce che era come il mormorio di un ruscello che scorre su delle pietre: bassa, monotona, persistente; irresistibile, perché può consumare e distruggere gli ostacoli più duri. Lakamba ascoltava, silenzioso ma interessato. Erano avventurieri malesi, uomini ambiziosi di quel tempo e di quel luogo: gli zingari della loro razza. Ai primi tempi dell'insediamento, prima che il signore locale, Patalolo, si fosse scrollato di dosso l'obbligo di fedeltà verso il sultano di Koti, Lakamba era apparso sul fiume con due piccoli mercantili. Fu deluso dallo scoprire che vi era già una certa sembianza di organizzazione tra i coloni di razze diverse che riconoscevano l'influenza discreta del vecchio Patalolo e non fu abbastanza accorto da mascherare la sua delusione. Dichiarò di essere un uomo venuto da oriente, da quei luoghi dove i bianchi non comandano, e che pur appartenendo ad una razza oppressa era di famiglia principesca. E in effetti aveva tutte le qualità di un principe in esilio: era scontento, ingrato, turbolento; una persona piena di invidia e sempre pronta ad ogni intrigo, sulle labbra sempre parole coraggiose e vuote promesse. Era ostinato, ma la sua volontà era fatta di brevi impulsi che non duravano mai abbastanza a lungo per coronare le sue ambizioni. Accolto con freddezza dal sospettoso Patalolo, insistette - con o senza il suo permesso - a disboscare uno spiazzo in un buon punto a quattordici miglia da Sambir, a valle del fiume, e lì costruì una casa, che poi fortificò con un'alta palizzata. Dal momento che aveva molti seguaci e aveva l'aria di essere molto temerario, l'anziano rajah pensò che non fosse prudente ricorrere alla forza. Una volta stabilitosi, cominciò a tessere intrighi. La disputa tra Patalolo e il sultano di Koti era stata fomentata da lui, ma non aveva portato agli effetti desiderati, perché il sultano non avrebbe potuto appoggiarlo in maniera efficace ad una così grande distanza. Una volta andata a vuoto quella macchinazione, si mise subito all'opera a fomentare una rivolta dei coloni bugi e cinse d'assedio il vecchio rajah nella sua palizzata, con valorosissimo schiamazzo e buone probabilità di successo; ma a quel punto apparve sulla scena Lingard col suo brigantino armato, e l'indice peloso del vecchio marinaio, scosso minacciosamente davanti alla sua faccia, spense il suo marziale ardore. Nessuno ci teneva a scontrarsi con il Rajah Laut e Lakamba, con momentanea rassegnazione, si acconciò a fare per metà il coltivatore, per metà il mercante, alimentando nella sua casa fortificata l'ira e l'ambizione, tenute in serbo per un'occasione più propizia. Sempre fedele al suo personaggio di pretendente al trono, non riconosceva le autorità costituite e al messaggero del rajah, inviato a riscuotere il tributo per le terre coltivate, rispondeva irritato che il rajah avrebbe fatto meglio a venire di persona a prenderlo. Dietro consiglio di Lingard, lo lasciarono in pace nonostante il suo temperamento ribelle; per lungo tempo visse indisturbato tra le sue mogli e i suoi seguaci, covando la tenace e infondata speranza di tempi migliori, che in tutto il mondo sembra essere appannaggio dei grandi in esilio. 

  Ma il passare dei giorni non portò alcun cambiamento. La speranza divenne sempre più tenue e la sua fremente ambizione si andava esaurendo, lasciando solo una debole scintilla sul punto di estinguersi in mezzo ad un mucchio di cenere spenta e tiepida di indolente acquiescenza verso i decreti del Fato, finché Babalatchi non la ravvivò fino a farne di nuovo una fiamma vivace. Babalatchi aveva scovato per caso il fiume mentre era in cerca di un rifugio sicuro per la sua testa malfamata. Era un vagabondo dei mari, un vero orang-laut che nei giorni prosperi viveva rapinando e saccheggiando le coste e le navi, e quando era colto dai giorni avversi si guadagnava il pane con lavori onesti e noiosi. Così, pur avendo a volte guidato i pirati di Sulu, aveva servito come serang a bordo di navi del posto e in questa veste aveva conosciuto i mari lontani, aveva ammirato le meraviglie di Bombay, la potenza del sultano di Mascate; aveva perfino lottato in una folla devota per il privilegio di toccare con le labbra la Pietra Sacra della Città Santa. Aveva accumulato esperienza e saggezza in molte terre, e dopo essersi unito a Omar el Badavi faceva sfoggio di grande devozione (come si confaceva ad un pellegrino), pur essendo incapace di leggere le parole ispirate del Profeta. Era intrepido, assetato di sangue e privo di sentimenti, e odiava i bianchi, che interferivano con attività virili quali il tagliar gole, rapire gente, fare tratta di schiavi e appiccare incendi, le uniche possibili occupazioni per un vero uomo di mare. Trovò favore agli occhi del suo capo, l'intrepido Omar el Badavi, il capo dei pirati del Brunei, che servì con fedeltà assoluta nel corso di anni di saccheggi portati a segno. E quando questa lunga carriera di omicidi, rapine e violenze subì il suo primo scacco per mano degli uomini bianchi, rimase fedelmente a fianco del suo capo; guardò senza batter ciglio le granate esplodere, rimase impavido di fronte alle fiamme della loro roccaforte che bruciava, alla morte dei suoi compagni, alle grida delle loro donne e al pianto dei loro bambini; alla improvvisa rovina e distruzione di tutto ciò che egli aveva considerato indispensabile per un'esistenza felice e gloriosa. La terra battuta tra una casa e l'altra era scivolosa per il sangue e nelle mangrovie buie dei meandri fangosi risuonavano i gemiti dei moribondi, abbattuti prima di riuscire a vedere in volto il nemico. Morivano senza scampo, perché nella foresta impenetrabile non si poteva fuggire e i loro agili praho, a bordo dei quali così spesso avevano battuto la costa e i mari, ora addossati l'uno all'altro nella stretta insenatura erano divorati dalle fiamme. Babalatchi, con la chiara percezione della fine ormai prossima, si dedicò a salvare almeno uno di loro. Riuscì a fare in tempo. Quando, con l'esplosione del deposito delle polveri, giunse la fine, era pronto a cercare il suo capo. Lo trovò mezzo morto e ormai del tutto cieco, con accanto a sé solo la figlia Aissa: i figli erano morti quel giorno, come si addiceva a uomini del loro coraggio. Con l'aiuto di quella ragazza dal cuore risoluto, Babalatchi portò Omar a bordo del leggero praho e riuscì a fuggire, ma solo con pochissimi compagni. Mentre tonneggiavano la loro imbarcazione nel dedalo di canali bui e silenziosi, potevano udire le grida di vittoria degli equipaggi delle lance della nave da guerra che si gettavano all'assalto del villaggio del pirata. Aissa, seduta sull'elevato ponte di poppa, con in grembo la testa annerita e insanguinata del padre, alzò gli occhi intrepidi verso Babalatchi. «Laggiù» , disse con voce cupa, «troveranno solo fumo e sangue, e uomini morti e donne folli di paura, ma nient'altro di vivo» . Babalatchi, premendosi con la mano destra il taglio profondo alla spalla, rispose triste: «Sono molto forti. 

Quando lottiamo contro di loro possiamo solo morire. Ma» , soggiunse minaccioso, «qualcuno di noi è ancora vivo! 

Qualcuno di noi è ancora vivo!» . 

  Per qualche tempo sognò di vendicarsi, ma il suo sogno fu infranto dalla fredda accoglienza del sultano di Sulu, dal quale in un primo momento cercarono rifugio e che concesse loro malvolentieri una sprezzante ospitalità. Mentre Omar, assistito da Aissa, guariva dalle sue ferite, Babalatchi si dedicò a servire l'augusta persona che aveva teso loro la mano protettrice. Con tutto ciò, quando Babalatchi sussurrò all'orecchio del sultano certi progetti circa una grande e lucrosa razzia che doveva spazzare tutte le isole da Ternate ad Achin, il sultano si adirò moltissimo. «Vi conosco, voi uomini dell'ovest» , esclamò, furibondo. «Le vostre parole sono veleno negli orecchi di un sovrano. Parlate di fuoco, di omicidio e di bottino - ma è sulla nostra testa che ricade la vendetta del sangue che bevete. Andatevene!» .  Non c'era niente da fare. I tempi erano cambiati. Cambiati al punto che, quando una fregata spagnola apparve davanti all'isola e fu inviata una richiesta al sultano perché consegnasse Omar e i suoi compagni, Babalatchi non si stupì di apprendere che essi sarebbero stati le vittime dell'opportunismo politico. Ma da un salutare apprezzamento del pericolo alla docile sottomissione il passo era molto lungo. Fu così che ebbe inizio la seconda fuga di Omar. Cominciò armi alla mano, perché quella notte sulla spiaggia la piccola banda dovette lottare per impossessarsi di alcune piccole piroghe su cui i sopravvissuti riuscirono infine a fuggire. La storia di quella fuga vive ancora oggi nel cuore degli uomini coraggiosi. Raccontano di Babalatchi e della donna forte che, con il padre cieco sulle spalle, attraversò la risacca sotto il fuoco della nave da guerra venuta dal nord. I compagni di quell'Enea pirata e senza figli oggi sono morti, ma i loro fantasmi di notte vagano sulle acque e sulle isole - alla maniera dei fantasmi - e si aggirano intorno ai fuochi presso i quali siedono uomini armati, come è giusto che sia per gli spiriti di prodi guerrieri morti in battaglia. E lì, dalle labbra dei vivi, possono ascoltare la storia delle loro imprese, del loro coraggio, di come soffrirono e morirono. Questa storia è narrata in molti luoghi. Sulle fresche stuoie delle verande ventilate delle case dei rajah, impassibili statisti vi alludono sdegnosi, ma tra gli uomini armati che affollano i cortili è un racconto che fa tacere il bisbigliare delle voci e il tintinnare delle cavigliere; fa arrestare il passarsi del siri e fa sì che gli occhi si fissino in uno sguardo assorto. Narrano del combattimento, della donna valorosa, dell'uomo saggio; della lunga sofferenza, della sete sul mare, a bordo di piroghe che facevano acqua; di quelli che morirono... Furono in molti a morire. In pochi sopravvissero. Il capo, la donna, e un altro, che divenne un grande. 

  Non vi era alcun segno di incipiente grandezza nell'arrivo poco vistoso di Babalatchi a Sambir. Arrivò con Omar e Aissa su un piccolo praho carico di noci di cocco verdi, sostenendo di essere il proprietario sia 

dell'imbarcazione che del carico. Come fosse stato che Babalatchi, fuggendo per salvarsi la vita su una piccola piroga, riuscisse a concludere un viaggio così pericoloso con un'imbarcazione carica di una preziosa mercanzia è uno di quei segreti del mare che resistono all'indagine più meticolosa. A dire il vero nessuno indagò particolarmente. Girarono delle storie su un praho mercantile di Manado dato per disperso, ma erano vaghe e rimasero avvolte nel mistero. Babalatchi raccontò una versione che - va detto per rendere giustizia alla conoscenza del mondo di Patalolo - non fu creduta. Quando il rajah si spinse al punto di esprimere i propri dubbi, Babalatchi gli chiese con un tono di pacato rimprovero se si potesse legittimamente supporre che due uomini attempati - con un solo occhio in due - e una ragazza potessero impossessarsi di alcunché con la violenza. La carità era una virtù raccomandata dal Profeta. Vi erano persone caritatevoli e le loro mani erano aperte per i meritevoli. Patalolo scrollò dubbioso la testa veneranda e Babalatchi si ritirò con aria offesa, andandosi immediatamente a porre sotto la protezione di Lakamba. I due uomini che completavano l'equipaggio del praho lo seguirono nel campong di quel magnate. Il cieco Omar e Aissa rimasero sotto la tutela del rajah, che confiscò il carico. Il praho fu tirato a secco su un banco di fango alla confluenza dei due rami del Pantai, marcì sotto la pioggia, fu deformato dal sole, cadde a pezzi e a poco a poco svanì nel fumo dei fuochi domestici del villaggio. Solo una tavola dimenticata e un paio di coste abbandonate, che per lungo tempo spuntarono fuori dalla melma inondata dal sole, servirono a ricordare a Babalatchi per molti mesi ancora che egli era uno straniero in quella terra. 

  Per il resto si trovava perfettamente a suo agio nella casa di Lakamba, dove la sua particolare influenza e posizione furono prontamente riconosciute e accettate anche dalle donne. Aveva quella flessibilità alle circostanze e adattabilità alle situazioni temporanee tipiche del vero vagabondo. Per la rapidità con cui aveva appreso dall'esperienza quel disprezzo verso i princìpi, così necessario al vero statista, eguagliava i politici di maggior successo di ogni tempo; e possedeva abbastanza capacità di persuasione e saldezza di intenti da esercitare un controllo assoluto sulla vacillante mente di Lakamba - in cui non vi era niente di stabile se non un'insoddisfazione cosmica. Alimentò 

quell'insoddisfazione, riattizzando l'ambizione quando era sul punto di spegnersi e moderò l'impazienza per nulla innaturale del povero esiliato di raggiungere un'alta e lucrosa posizione. Egli - l'uomo della violenza - deprecò l'uso della forza, perché aveva un'idea molto chiara della difficile situazione. Per la stessa ragione, lui - che odiava i bianchi - ammetteva, in certa misura, che in fondo vi potevano essere dei vantaggi nella protezione olandese. Nulla però andava fatto in fretta. Comunque la pensasse il suo signore Lakamba, egli sosteneva che non vi era ragione di avvelenare il vecchio Patalolo. Certo, era possibile farlo; ma poi? Finché l'influenza di Lingard fosse stata decisiva - finché Almayer, il rappresentante di Lingard, era l'unico grande mercante nell'insediamento - non valeva la pena per Lakamba, posto che fosse possibile, prendere il potere nel giovane stato. Uccidere Almayer e Lingard era così difficile e così rischioso che l'idea andava scartata in quanto irrealizzabile. Quello che ci voleva era un'alleanza; qualcuno da contrapporre all'influenza dei bianchi - e qualcuno che, pur essendo favorevole a Lakamba, contemporaneamente fosse in buoni rapporti con le autorità olandesi. Ci voleva un mercante ricco e stimato. Una persona del genere, una volta insediatasi a Sambir, li avrebbe aiutati a spodestare il vecchio rajah, a togliergli il potere, o la vita se non si poteva fare altrimenti. Solo allora sarebbe stato il momento giusto per richiedere agli orang blanda una bandiera, per un riconoscimento dei loro encomiabili servigi e per ottenere quella protezione che li avrebbe messi al sicuro per sempre! La parola di un ricco e leale mercante aveva il suo peso per il governatore, laggiù a Batavia. La prima cosa da fare era trovare un alleato di questo genere e indurlo a stabilirsi a Sambir. Un mercante bianco non andava bene. Un bianco non sarebbe andato d'accordo con le loro idee - non era fidato. L'uomo di cui avevano bisogno doveva essere ricco e privo di scrupoli, doveva avere molti uomini ed essere una personalità molto conosciuta nelle isole. Un uomo come questo si poteva trovare tra i mercanti arabi. La gelosia di Lingard, disse Babalatchi, teneva lontano dal fiume tutti i mercanti. Alcuni avevano paura, e altri non sapevano come arrivare fin lì; altri ancora ignoravano l'esistenza stessa di Sambir; secondo molti non valeva la pena rischiare di inimicarsi Lingard per il dubbio vantaggio di commerciare con un insediamento relativamente sconosciuto. Per la maggior parte erano indesiderabili o non erano degni di fiducia. E Babalatchi ricordò con nostalgia gli uomini che aveva conosciuto ai tempi della sua giovinezza: facoltosi, decisi, coraggiosi, temerari, pronti ad ogni impresa! Ma perché rimpiangere il passato e parlare dei defunti? C'è un uomo - vivo - grande - non lontano da qui... 

  Questa era la linea di condotta politica esposta da Babalatchi al suo ambizioso protettore. Lakamba acconsentì, obiettando unicamente che era un lavoro molto lento. A causa del suo estremo desiderio di arraffare dollari e potere, l'incolto esiliato era pronto a gettarsi tra le braccia del primo sicario randagio di cui potesse assicurarsi l'aiuto, e Babalatchi solo con grande difficoltà lo frenò da violenze sconsiderate. Non era il caso di far vedere che avevano un qualche ruolo nell'introduzione di un nuovo elemento nella vita politica e sociale di Sambir. C'era sempre l'eventualità che fallissero, e in quel caso la vendetta di Lingard sarebbe stata rapida e certa. Non si doveva correre alcun rischio. 

Dovevano aspettare. 

  Nel frattempo si intrufolava dappertutto nell'insediamento, andando tutti i giorni ad accoccolarsi presso diversi fuochi domestici, saggiando gli umori e le opinioni della gente - e sempre accennando alla sua imminente partenza. Di notte, prendeva spesso la più piccola tra le piroghe di Lakamba per fare delle misteriose visite al suo vecchio capo sulla riva opposta del fiume. Omar viveva in odore di santità sotto l'ala protettrice di Patalolo. Tra la palizzata di bambù che cingeva le case del rajah e la foresta inospitale vi era un bananeto, sul limite più lontano del quale si trovavano due casette costruite su dei bassi sostegni sotto alcuni dei preziosi alberi da frutto che crescevano sulle sponde di un limpido ruscello che, gorgogliando dietro la casa, correva per il suo breve e rapido corso fino al grande fiume. Lungo il ruscello, uno stretto sentiero conduceva, attraverso la fitta vegetazione cresciuta in una radura abbandonata, al bananeto e alle case in cui il rajah aveva dato alloggio ad Omar. Il rajah era rimasto molto colpito dalla ostentata devozione di Omar, dalla sua saggezza sibillina, dalle sue tante disavventure, e dalla solenne forza d'animo con cui sopportava la sua afflizione. Spesso, nelle ore calde del pomeriggio, l'anziano sovrano di Sambir andava a far visita in forma non ufficiale all'arabo cieco e lo stava a sentire con aria grave. Di notte, Babalatchi veniva ad interrompere il riposo di Omar, senza che questi lo rimproverasse. Aissa, in silenzio, appoggiata alla porta di una delle capanne, poteva vedere i due vecchi amici seduti immobili accanto al fuoco al centro dello spiazzo tra le due case, che bisbigliavano fino a notte fonda. Non poteva udire le loro parole, ma guardava incuriosita le due ombre indefinite. Alla fine, Babalatchi si alzava e, prendendo suo padre per il polso, lo riportava in casa, gli sistemava le stuoie e in silenzio usciva. Spesso, invece di andarsene, Babalatchi, incurante dello sguardo di Aissa, tornava a sedersi accanto al fuoco, assorto in una lunga e profonda meditazione. Aissa rispettava quell'uomo saggio e valoroso - per quanto indietro andasse con la memoria le sembrava di averlo sempre visto al fianco di suo padre - seduto da solo, immerso nei pensieri nella notte silenziosa presso il fuoco morente, il corpo immobile e la mente che vagava nella terra dei ricordi, o - chi può saperlo? - forse andava in cerca di una strada negli spazi desolati del futuro incerto. 

  Babalatchi registrò l'arrivò di Willems con preoccupazione, come un nuovo incremento della forza dei bianchi. In seguito cambiò idea. Incontrò Willems una notte sul sentiero che conduceva alla casa di Omar e più tardi si accorse, senza stupirsi più di tanto, che l'arabo cieco non sembrava essere consapevole delle visite del nuovo uomo bianco nelle vicinanze della sua dimora. Una volta, capitando inaspettatamente di giorno, a Babalatchi sembrò di aver visto balenare una giacca bianca nei cespugli sulla sponda opposta del ruscello. Quel giorno studiò Aissa pensieroso, mentre era indaffarata a preparare il riso per la cena; ma poco dopo scappò via di fretta prima del tramonto, declinando l'ospitale invito di Omar, fatto in nome di Allah, a dividere il loro pasto. Quella stessa sera lasciò di stucco Lakamba annunciandogli che finalmente era giunto il momento di fare la prima mossa nella partita a lungo rimandata. Lakamba, eccitato, chiese delle spiegazioni. Babalatchi scosse il capo e indicò le ombre delle donne che scorrevano leggere e le figure indistinte degli uomini seduti nel cortile intorno ai fuochi della sera. Dichiarò che lì non avrebbe detto una parola. Ma quando tutta la casa fu immersa nel sonno, Babalatchi e Lakamba, passando silenziosi in mezzo a gruppi di gente addormentata, giunsero alla riva del fiume e, presa una piroga, con un colpo di pagaia partirono furtivi in direzione della cadente capanna di guardia, nella radura della vecchia risaia. Lì erano al riparo da qualsiasi occhio e orecchio, e se ve ne fosse stato bisogno potevano spiegare la loro escursione con il desiderio di uccidere un cervo, visto che quel punto era noto perché lì andava ad abbeverarsi ogni genere di selvaggina. Protetti dal silenzio di quel luogo appartato, Babalatchi spiegò il suo piano all'attento Lakamba. La sua idea era di usare Willems per distruggere l'influenza di Lingard.  «Conosco i bianchi, tuan» , disse, per concludere. «In molte terre li ho visti; sempre schiavi dei loro desideri, sempre pronti a riporre la loro forza e la loro ragione nelle mani di una donna. Il destino dei credenti è scritto dalla mano dell'Onnipotente, ma coloro che adorano molti dèi sono gettati nel mondo con la fronte liscia, perché la mano di una donna vi segni sopra la loro rovina. Lasciate che sia un bianco a distruggerne un altro. La volontà dell'Altissimo è che siano degli sciocchi. Sanno mantenere la parola con i nemici, ma tra di loro conoscono solo l'inganno. Hai! Io ho visto! Ho visto!» . 

  Si distese davanti al fuoco e chiuse l'occhio in un sonno vero o simulato. Lakamba, non proprio convinto, rimase a lungo seduto con lo sguardo fisso sulla brace spenta. Con l'avanzare della notte, una leggera nebbiolina bianca si alzò dal fiume e la luna, tramontando, si chinò sulle cime degli alberi della foresta, quasi che cercasse riposo sulla terra, come un innamorato volubile ed errabondo che torna infine a posare il capo stanco e silenzioso sul petto dell'amata. 

   

   

   

   

   

CAPITOLO SESTO 

 

 

  «Prestami il tuo fucile, Almayer» , disse Willems, dall'altra parte di una tavola su cui erano visibili, sotto la luce rossastra di una lampada fumosa, i resti di un pasto appena concluso. «Mi sa che quando sorge la luna stanotte vado a caccia di cervi» . 

  Almayer, seduto di traverso, un gomito spinto in mezzo ai piatti sporchi, il mento sul petto, le gambe rigide, allungate e gli occhi fissi sulla punta delle sue pantofole di paglia, scoppiò improvvisamente a ridere. 

  «Potresti rispondere sì o no invece di fare quel rumore sgradevole» , osservò Willems, cercando di reprimere l'irritazione. 

  «Se credessi ad una sola parola di quello che dici, lo farei» , rispose Almayer, senza cambiare posizione e parlando lentamente, con delle pause come se lasciasse cadere le parole sul pavimento. «Visto come stanno le cose - a che serve? Lo sai dove sta il fucile; puoi prenderlo o lasciarlo dov'è. Fucile. Cervo. Balle! A caccia di cervi. Bah! È una... gazzella che stai inseguendo, mio illustre ospite. Per quella selvaggina lì ti servono cavigliere d'oro e sarong di seta - mio prode cacciatore. E per averli non ti basterà chiedere. Te lo prometto. Tutto il giorno tra gli indigeni. 

Bell'aiuto che mi dai» . 

  «Non dovresti bere così tanto, Almayer» , disse Willems, cadenzando le parole per mascherare la sua rabbia. 

«Non hai cervello. Non l'hai mai avuto, a quanto mi ricordo, nemmeno ai vecchi tempi a Macassar. Bevi troppo» . 

  «Bevo del mio» , rispose Almayer, alzando di scatto la testa e lanciando a Willems un'occhiata astiosa.  Quei due esemplari della razza superiore si squadrarono per un minuto con odio e quindi voltarono contemporaneamente la testa, come di comune accordo, e si alzarono entrambi. Almayer scalciò via le pantofole e si arrampicò sull'amaca appesa tra due colonne di legno della veranda in modo da catturare ogni raro soffio di vento della stagione asciutta e Willems, dopo essere rimasto per un po' indeciso accanto al tavolo, senza dire una parola scese i gradini che portavano alla casa e attraversò il cortile verso il piccolo pontile di legno, dove erano ormeggiate diverse piccole piroghe e un paio di grandi baleniere bianche che tiravano alle loro brevi cime e sbattevano l'una contro l'altra nella rapida corrente del fiume. Saltò nella piroga più piccola, cercando goffamente di trovare l'equilibrio, sciolse la cima di rattan e, senza che ve ne fosse bisogno, diede una violenta spinta che a momenti lo fece finire in acqua. Quando ritrovò l'equilibrio la piroga era già andata alla deriva per quasi cinquanta metri giù per il fiume. Si inginocchiò sul fondo della piccola imbarcazione e lottò contro la corrente con lunghi colpi di pagaia. Almayer si alzò a sedere sull'amaca, afferrandosi i piedi e scrutando il fiume con le labbra socchiuse, finché riuscì a riconoscere la figura indistinta dell'uomo e della piroga nel momento in cui si riportavano nuovamente all'altezza del pontile. 

  «Lo sapevo che saresti andato» , gridò. «Ehi? Non prendi il fucile?» , urlò, con quanta voce aveva in gola. Ricadde poi sull'amaca ridendo tra sé sempre più piano, finché non si addormentò. Sul fiume, Willems immergeva la pagaia a destra e a sinistra, lo sguardo attento fisso davanti a sé, senza badare alle parole che gli arrivavano smorzate.  Erano passati ormai tre mesi da quando Lingard aveva sbarcato Willems a Sambir ed era ripartito in tutta fretta, lasciandolo in custodia ad Almayer. I due bianchi non andavano d'accordo. Almayer, che si ricordava di quando erano entrambi impiegati di Hudig, e Willems, suo superiore, lo umiliava trattandolo con accondiscendenza, detestava terribilmente il suo ospite. Era, inoltre, geloso dei favori di Lingard. Almayer aveva sposato una ragazza malese che il vecchio uomo di mare aveva adottato in uno dei suoi accessi di incontrollata benevolenza e dal momento che, dal punto di vista domestico, il matrimonio non era felice, vedeva nella ricchezza di Lingard una ricompensa per la sua infelicità coniugale. L'arrivo di quell'uomo, che sembrava avere un qualche diritto su Lingard, lo aveva inquietato enormemente, tanto più perché il vecchio marinaio non aveva ritenuto di mettere il marito della sua figlia adottiva al corrente della storia di Willems, né di confidargli le proprie intenzioni circa la sorte futura di quell'individuo. Sospettoso sin dal primo momento, Almayer scoraggiò i tentativi di Willems di aiutarlo nel commercio e quando questi si tirò indietro egli, con la sua tipica protervia, cominciò a lagnarsi del suo disinteresse. Nei loro rapporti i due passarono da una fredda cortesia ad un rancore sordo e quindi ad una ostilità dichiarata, ed entrambi aspettavano ardentemente il ritorno di Lingard e la fine di una situazione che si faceva ogni giorno più intollerabile. Il tempo si trascinava lentamente. Willems guardava ogni nuovo sorgere del sole domandandosi sconsolatamente se prima della sera vi sarebbe stato qualche cambiamento nella noia mortale della sua vita. Gli mancava l'attività commerciale di quell'esistenza che gli sembrava lontana, irrimediabilmente perduta, nascosta sotto le rovine del suo passato successo - ormai impossibile da riguadagnare. Si aggirava sconsolato con aria trasognata per il cortile di Almayer, guardando da lontano con occhi indifferenti le piroghe provenienti dall'interno che scaricavano guttaperca o malacca e caricavano riso o prodotti europei sul piccolo molo della Lingard & Co. Per quanto esteso fosse il terreno di Almayer, Willems sentiva tuttavia che non vi era abbastanza spazio per lui entro quel recinto ordinato. L'uomo che in capo a tanti lunghi anni si era abituato a considerarsi indispensabile per gli altri provava una furia amara e implacabile verso la crudele consapevolezza di essere superfluo, inutile; verso l'ostilità fredda, evidente in ogni sguardo, dell'unico uomo bianco in quel barbaro angolo del mondo. Digrignava i denti al pensiero dei giorni perduti, della vita gettata nella riluttante compagnia di quello stupido, scontroso e sospettoso. Nei mormorii del fiume, nel bisbigliare incessante delle grandi foreste, udiva il rimprovero per il suo ozio. Intorno a lui tutto era in movimento, scosso, spazzato via di slancio; la terra sotto i suoi piedi e i cieli sopra la sua testa. Gli stessi selvaggi intorno a lui si affannavano, lottavano, combattevano, lavoravano - fosse solo per prolungare una miserabile esistenza; ma vivevano, vivevano! E lui soltanto sembrava essere stato lasciato fuori dallo schema del creato, in una immobilità disperata pervasa da una collera che lo tormentava e un rimpianto che non gli dava tregua. 

  Si diede a vagabondare per l'insediamento. Sambir, che sarebbe in seguito divenuta fiorente, era nata in una palude e aveva trascorso la sua giovinezza nel fango maleodorante. Le case si affollavano sulla sponda e, come per sfuggire la riva malsana, si immergevano arditamente nel fiume, protendendo al di sopra di esso una fitta schiera di piattaforme di bambù innalzate su delle alte palafitte, tra le quali la corrente sottostante sussurrava con un incessante dolce lamento di gorghi mormoranti. Vi era in tutto il villaggio un unico sentiero che correva dietro le case lungo una serie di chiazze nere rotonde che indicavano il luogo dei fuochi domestici. Sul lato opposto il sentiero era costeggiato dalla foresta vergine, che gli si avvicinava quasi per sfidare con impudenza i viandanti a risolvere il cupo enigma dei suoi recessi. Nessuno accettava la sfida insidiosa. Giusto qui e là vi erano dei tentativi poco convinti di aprire una radura, ma il terreno era basso e il fiume, ritirandosi dopo le piene annuali, lasciava su ciascuna di esse una pozza fangosa che si rimpiccioliva gradualmente e in cui i bufali importati dai coloni bugi sguazzavano allegramente durante la canicola del giorno. Quando Willems percorreva il sentiero, gli uomini indolenti sdraiati all'ombra delle case lo osservavano con placida curiosità e le donne, indaffarate a cucinare intorno al fuoco, gli lanciavano dei timidi sguardi stupiti, mentre i bambini, appena lo vedevano, scappavano gridando spaventati per l'orribile visione dell'uomo con la faccia bianca e rossa. Queste manifestazioni di disgusto e paura infantili ferivano Willems con un senso di assurda umiliazione; nelle sue passeggiate cercava la relativa solitudine delle rudimentali radure, ma anche i bufali alla sua vista sbuffavano allarmati, uscivano dal fango fresco inerpicandosi faticosamente e si stringevano in una mandria compatta che lo fissava con ferocia, mentre cercava di svicolare, senza farsi notare, lungo il bordo della foresta. Un giorno, a un suo qualche incauto movimento improvviso, l'intera mandria fuggì in disordine giù per il sentiero travolgendo i fuochi, facendo scappare le donne urlanti e lasciandosi dietro una scia di pentole fracassate, riso calpestato, bambini a gambe all'aria e una folla di uomini infuriati che, brandendo bastoni e gridando, si lanciarono al suo inseguimento. La causa innocente di quel disastro non accettò la sfida di quegli sguardi carichi d'odio e di quelle parole ostili e di corsa si andò a rifugiare nel campong di Almayer. Da allora lasciò in pace il villaggio. 

  Qualche giorno dopo, quando quella reclusione forzata divenne insopportabile, Willems prese una delle tante piroghe di Almayer e attraversò il ramo principale del Pantai in cerca di un punto solitario dove poter nascondere lo scoraggiamento e la noia. A bordo della sua piccola imbarcazione costeggiò il muro di intricata verzura, tenendosi nell'acqua ferma vicino alla riva, dove le frondose palme nipa dondolavano le loro foglie larghe sulla sua testa come per una sprezzante commiserazione del reietto vagabondo. Qui e là poteva scorgere l'inizio di sentieri aperti dall'uomo e, con l'idea fissa di sfuggire alla vista del fiume pieno di attività, sbarcava per seguire il sentiero stretto e tortuoso, solo per scoprire che non conduceva da alcuna parte, ma terminava di colpo con degli scoraggianti roveti spinosi. Tornava lentamente sui suoi passi, con un amaro senso di irragionevole tristezza e abbattimento; oppresso da un caldo odore di terra, umidità e marcio, in quella foresta che sembrava risospingerlo senza pietà verso l'accecante riverbero del fiume. E riprendeva allora a pagaiare con le braccia stanche per cercare un'altra apertura, per trovare un'altra delusione.  Vogando controcorrente fino al punto in cui la palizzata del rajah scendeva fino al fiume, si lasciò indietro le palme nipa e il rumore che le loro foglie facevano sull'acqua marrone e lungo la riva apparvero i grandi alberi, alti, forti e, nell'immensa solidità di chi vive per secoli e secoli, indifferenti a quella vita breve e fugace nel cuore di quell'uomo che strisciava faticosamente tra le loro ombre in cerca di un sollievo dall'incessante rimprovero dei suoi pensieri. Tra i loro tronchi lisci un limpido ruscello serpeggiava per un tratto attorcigliandosi su se stesso prima di decidersi a tuffarsi nel fiume tumultuoso dal ciglio della riva scoscesa. Anche lì vi era un sentiero e aveva l'aria di essere frequentato. Willems sbarcò e, seguendo la promessa capricciosa del sentiero, si trovò ben presto in uno spazio relativamente sgombro, dove l'intricato ordito dei raggi di sole filtrava dall'alto attraverso i rami e il fogliame, andandosi a posare sul torrente che, in una dolce curva, brillava come la lama scintillante di una spada gettata sull'erba alta e soffice. Il sentiero, poi, continuava, diventando di nuovo più stretto nel fitto sottobosco. Nel superare la prima svolta Willems vide un lampo di bianco e di colore, uno scintillio d'oro come di un raggio di sole sperso nella penombra e la percezione di una tenebra più fitta della più profonda oscurità della foresta. Si fermò, sorpreso, e gli sembrò di sentire dei passi leggeri - farsi più leggeri - arrestarsi. Si guardò attorno. L'erba sulla sponda del torrente tremava e un palpitante sentiero di vibranti fili d'erba grigi e argentei correva dall'acqua fino all'inizio del folto degli alberi. Eppure non vi era un alito di vento. Qualcuno era passato per di là. Guardò pensieroso mentre il tremore si placava con un rapido tremolio sotto i suoi occhi; e l'erba tornò alta, immobile, con le cime reclinate nell'aria afosa e statica. 

  Si affrettò, spinto dalla curiosità che gli si era risvegliata improvvisamente e si addentrò nello stretto passaggio tra i cespugli. Alla svolta successiva del sentiero intravide di nuovo davanti a sé il guizzo di una macchia di colore e i capelli neri di una donna. Allungò il passo e giunse a vedere chiaramente l'oggetto del suo inseguimento. La donna, che stava portando due recipienti di bambù pieni d'acqua, sentendo i suoi passi, si fermò e posò i recipienti, voltandosi appena per guardare indietro. Anche Willems per un istante rimase immobile, quindi riprese a camminare spedito con passo sicuro, mentre la donna si scansò da un lato per farlo passare. Egli teneva lo sguardo fisso davanti a sé, ma colse senza rendersene conto tutti i particolari di quella figura alta e aggraziata. Mentre le si avvicinava, la donna scosse la testa all'indietro e, con un agile movimento del braccio forte e tornito, raccolse la massa di capelli neri sciolti facendoli passare sulla spalla e sul viso fino all'altezza degli occhi. Un secondo più tardi egli le passò accanto, camminando rigido come un sonnambulo. La udiva ansimare e si sentì toccare da uno sguardo lanciato da quegli occhi socchiusi che lo raggiunse contemporaneamente al cervello e al cuore. Gli sembrò che fosse qualcosa di forte e stimolante come un grido, silenzioso e penetrante come un'ispirazione. Le passò oltre, sospinto dal suo stesso slancio, ma una forza invisibile, un misto di sorpresa, curiosità e desiderio, lo fece voltare appena l'ebbe superata. 

  Ella aveva già ripreso il suo fardello, con l'intenzione di proseguire il cammino. Fece in tempo a muovere un passo, ma il brusco movimento di lui la fece fermare e rimase vigile, diritta ed esile, pronta a balzar via, come era chiaro dalla sua immobilità lieve. In alto i rami degli alberi si congiungevano nel cristallino luccicore di un'ondeggiante nebbia verde, attraverso cui la pioggia di raggi dorati le scendeva sul capo inondando di riflessi la nera capigliatura, splendente sul suo viso del bagliore cangiante del metallo fuso, perdendosi in evanescenti scintille nelle oscure profondità dei suoi occhi che, ben aperti ormai, con le pupille dilatate, guardavano con fermezza l'uomo sul suo cammino. E Willems la fissava, ammaliato da una malìa che porta con sé un senso di irreparabile perdita, fremente per quella sensazione che comincia come una carezza e finisce con un pugno, con quell'improvviso dolore di un'emozione nuova che si fa largo in un cuore umano, con il brusco scuotimento di sentimenti addormentati che si risvegliano improvvisamente al sopraggiungere di nuove speranze, nuovi timori, nuovi desideri - e alla fuga della propria precedente individualità.  Ella fece un passo e si fermò di nuovo. Un soffio di vento che era penetrato tra gli alberi, ma che nella sua immaginazione sembrò a Willems essere sospinto dal movimento della sua persona, fluttuò come un'onda calda intorno al suo corpo e gli bruciò il viso con un tocco ardente. Egli l'aspirò con un respiro profondo, l'ultimo respiro profondo di un soldato prima di gettarsi in battaglia, di un amante prima di prendere tra le braccia la donna amata; quel respiro che dà il coraggio di affrontare la minaccia della morte o il turbine della passione. 

  Chi era costei? Da dove veniva? Stupito, egli distolse gli occhi dal suo viso per guardare attorno a sé gli alberi serrati della foresta che si ergevano diritti, grandi e immobili, come se stessero osservando i due con il fiato sospeso. Si era sentito confuso, respinto, quasi intimidito di fronte all'intensità di quella vita tropicale, cui manca la luce del sole ma agisce nell'oscurità; che sembra essere tutta grazia di colori e forme, tutto fulgore, tutto sorrisi, ma è solo il fiorire di ciò che è morto; il cui mistero promette gioia e bellezza, ma non contiene null'altro che veleno e marciume. Già in passato lo aveva spaventato una vaga sensazione di pericolo, ma ora, nel guardare di nuovo a quella vita, i suoi occhi sembrarono in grado di penetrare il fantastico velo di rampicanti e foglie, di guardare oltre i solidi tronchi, di vedere fin nell'inaccessibile l'oscurità - e il mistero fu svelato - incantevole, irresistibile, bellissimo. Guardò la donna. Vista nella luce screziata che li divideva ella gli apparve con l'impalpabile precisione di un sogno. Lo spirito stesso di quella terra di foreste misteriose, in piedi dinanzi a lui come un'apparizione dietro un velo trasparente: un velo intessuto di ombre e di raggi di sole. 

  Ella si era fatta ancora più vicina. Egli sentì dentro di sé una strana irrequietezza nel vederla avanzare. Pensieri confusi gli attraversavano la testa: disordinati, informi, assordanti. Poi udì la propria voce chiedere: 

  «Chi sei?»  

  «Sono la figlia del cieco Omar» , rispose lei, con un tono basso ma fermo. «E tu» , seguitò, con voce appena più alta, «tu sei il mercante bianco - il grand'uomo di questo posto» . 

  «Sì» , disse Willems, sostenendo a gran fatica il suo sguardo. «Sì, sono bianco» . Quindi aggiunse, con la sensazione di parlare di qualcun altro: «Ma io sono un reietto della mia gente» . 

  Ella lo ascoltò seria. Attraverso la rete di capelli scarmigliati il suo viso sembrava quello di una statua d'oro dagli occhi vivi. Le pesanti palpebre erano leggermente abbassate e da dietro le lunghe ciglia lanciò un'occhiata di traverso: dura, acuminata e precisa come lo scintillare di una lama tagliente. Le sue labbra erano immobili e composte in una curva piena di grazia, ma le narici dilatate, la testa voltata di tre quarti e verso l'alto, davano all'insieme della persona l'espressione di una sfida selvatica e risentita. 

  Un'ombra attraversò il viso di Willems. Si portò la mano sulle labbra per ricacciare indietro le parole che volevano uscire, spinte dall'impulso irresistibile che nasce da un pensiero dominante che dal cuore corre al cervello e deve essere espresso, nonostante i dubbi, i pericoli, la paura, la nostra stessa distruzione. 

  «Sei bellissima» , disse con un sospiro. 

  Ella lo guardò di nuovo con un'occhiata che con un unico lampo guizzante dei suoi occhi percorse i suoi tratti abbronzati, le sue spalle larghe, la sua alta figura diritta e immobile, per andare a fermarsi, infine, sul terreno ai suoi piedi. Quindi sorrise. Nella bellezza accigliata del suo viso quel sorriso fu come il primo raggio di luce che, in un'alba tempestosa, dardeggia pallido ed evanescente attraverso le nubi scure: foriero del tuono e del levarsi del sole. 

   

   

   

   

   

CAPITOLO SETTIMO 

 

 

  Vi sono nella vita di ognuno di noi dei brevi periodi di cui non rimane traccia nella memoria se non come ricordo di una sensazione. Non si conserva il ricordo dei gesti, delle azioni, delle manifestazioni esteriori della vita, che si perdono nella luminosità soprannaturale o nella soprannaturale oscurità di tali momenti. Siamo assorbiti dalla contemplazione di quel qualcosa, dentro di noi, che gioisce o soffre mentre il corpo seguita a respirare e, istintivamente, fugge o, non meno istintivamente, combatte - forse muore. Ma la morte in un momento come quello è privilegio dei fortunati, è un alto e raro favore, una grazia suprema. 

  Willems non ricordò mai come e quando si separò da Aissa. Si sorprese a bere l'acqua melmosa nel cavo della mano mentre la piroga, in balìa della corrente, stava andando alla deriva dopo essersi lasciata indietro le ultime case di Sambir. Appena si riprese lo assalì la paura di qualcosa di sconosciuto che si era impadronito del suo cuore, di qualcosa di inespresso e imperioso che non poteva parlare, ma cui si doveva obbedire. Il suo primo impulso fu di ribellarsi. Non sarebbe mai tornato in quel posto. Mai! Guardò attorno lentamente allo splendore delle cose sotto la luce implacabile del sole e impugnò la pagaia! Come tutto sembrava diverso! Il fiume era più ampio, il cielo era più alto. Come volava via veloce la piroga sotto i colpi della pagaia! Da quando in qua aveva acquistato la forza di due o più uomini? Guardò su e giù, lungo il tratto del fiume, le foreste sulla riva con un vago senso che con un solo gesto della mano avrebbe potuto far cadere in acqua tutti quegli alberi. Si sentiva bruciare il viso. Bevve di nuovo e rabbrividì per il piacere proibito del sapore limoso che l'acqua gli lasciava in bocca. 

  Quando arrivò a casa di Almayer era già tardi, ma attraversò con passi leggeri il cortile buio e accidentato, avvolto dalla luminosità di una luce sua propria invisibile ad altri occhi. Il malumore con cui il suo ospite lo accolse lo urtò come un'improvvisa caduta da una grande altezza. Si sedette a tavola di fronte ad Almayer e si sforzò di conversare allegramente con il suo tetro compagno, ma quando alla fine del pasto si sedettero a fumare in silenzio provò uno sconforto improvviso, un senso di spossatezza nelle braccia e nelle gambe, una immensa tristezza, come dopo una grande e irreparabile perdita. Le tenebre della notte penetrarono nel suo cuore, portandovi il dubbio e l'incertezza e una rabbia sorda contro se stesso e il mondo. Sentiva l'impulso di urlare delle orribili bestemmie, di litigare con Almayer, di fare qualcosa di violento. Senza assolutamente la minima provocazione pensò che aveva voglia di colpire quel miserabile animale immusonito. Lo fulminò con uno sguardo d'odio da sotto le sopracciglia. Almayer fumava pensoso, ignaro di tutto, probabilmente pianificando il lavoro del giorno dopo. La flemma di quell'uomo sembrava a Willems un insulto imperdonabile. Perché stasera non parlava quell'idiota, ora che ne aveva voglia lui?... come era pronto a blaterare le altre sere. E poi, che stucchevoli insulsaggini! Cercando con tutte le forze di reprimere la sua furia immotivata, Willems se ne stette a guardare fissamente, attraverso la densa nuvola di tabacco, la tovaglia sporca.  Si ritirarono presto, come sempre, ma in mezzo alla notte Willems saltò giù dall'amaca soffocando un'imprecazione e scese di corsa i gradini che portavano in cortile. I due guardiani notturni, seduti intorno ad un piccolo fuoco a parlare in tono sommesso e monotono, alzarono la testa quando attraversò il cerchio di luce creato dalla fiamma e guardarono meravigliati l'espressione stravolta dell'uomo bianco. Egli sparì nell'oscurità e poi tornò di nuovo indietro, sfiorandoli, ma senza dar segno di essersi accorto della loro presenza. Avanti e indietro passeggiò, mugugnando qualcosa tra sé, e i due malesi, dopo essersi brevemente consultati a bassa voce, si allontanarono dal fuoco, ritenendo che non fosse sicuro rimanere nelle vicinanze di un uomo bianco che si comportava in modo così strano. Si appartarono dietro l'angolo del godown, da dove tennero d'occhio incuriositi Willems per tutta la notte, finché la breve alba fu seguita dall'improvvisa luce abbagliante del sole nascente e la casa di Almayer si svegliò alla vita e al lavoro.  Appena poté filar via senza farsi notare nella confusione dell'attività sulla riva, Willems attraversò il fiume, diretto verso il luogo dove aveva incontrato Aissa. Si gettò sull'erba accanto al ruscello sperando di sentire il rumore dei suoi passi. La chiara luce del giorno filtrava attraverso le irregolari aperture dei rami superiori degli alberi e si diffondeva, attenuata, tra le ombre dei grossi tronchi. Qui e là un raggio sottile sfiorava la corteccia ruvida di un albero con un tocco di luce dorata, lampeggiava sull'acqua saltellante del ruscello o si posava su una foglia che spiccava, tremula e distinta, contro lo sfondo uniforme delle cupe tinte verdi. Lo spiraglio di azzurro chiaro sopra la sua testa era attraversato dal volo veloce di bianchi passeri delle risaie, le cui ali guizzavano alla luce del sole; attraverso quello spiraglio il calore si riversava dal cielo, stringeva in una morsa la terra arroventata, rotolava tra gli alberi e avvolgeva Willems nelle pieghe morbide e odorose dell'aria pregna del profumo leggero dei fiori e dell'odore acre della vita in putrefazione. E in quell'atmosfera da laboratorio della Natura, Willems si sentì confortato, cullandosi nell'oblio del suo passato e l'indifferenza verso il suo futuro. I ricordi dei trionfi, dei torti subiti e della sua ambizione si dissipavano in quel calore che sembrava fargli svanire dal cuore ogni rimpianto, ogni speranza, ogni rabbia, ogni forza. Rimase lì sdraiato, appagato e sognante nel rifugio tiepido e profumato, pensando agli occhi di Aissa; ripensando al suono della sua voce, al fremito delle sue labbra - ai suoi sguardi corrucciati e al suo sorriso. 

  Ella venne, naturalmente. Per lei egli era qualcosa di nuovo, ignoto e strano. Egli era più grande, più forte di qualsiasi uomo ella avesse mai visto e del tutto diverso da tutti quelli che conosceva. Apparteneva alla razza dei vincitori. Con ancora vivida nella memoria la grande catastrofe della sua vita, egli le apparve con tutto il fascino di una cosa grande e pericolosa; di un terrore vinto, superato e ridotto a un gingillo. Parlavano con una voce così profonda - questi uomini vincitori; guardavano i loro nemici con occhi azzurri così duri. Ed ella aveva costretto quella voce a parlarle con dolcezza, quegli occhi a guardarla in viso con tenerezza! Lui sì che era un uomo. Ella non poteva capire tutto ciò che le disse sulla propria vita, ma i frammenti che riuscì a comprendere divennero, nella sua testa, la storia di un uomo grande tra la sua gente, valoroso e sfortunato; un indomito fuggitivo che sognava di vendicarsi dei suoi nemici. Aveva tutto il fascino delle cose vaghe e sconosciute - dell'inaspettato e dell'improvviso; di un essere forte, pericoloso, vivo e umano, pronto ad essere ridotto in schiavitù. 

  Sentiva che lui era pronto. Lo sentiva con l'infallibile intuizione di una donna primitiva di fronte ad un impulso elementare. Giorno dopo giorno, quando si incontravano ed ella si teneva a una certa distanza ad ascoltare le sue parole, trattenendolo con lo sguardo, l'indefinibile terrore della nuova conquista si andò affievolendo, fino a svanire come il ricordo di un sogno e la sicurezza divenne chiara, convincente e visibile agli occhi come un oggetto concreto alla luce del sole. Era una profonda gioia, un grande orgoglio, una tangibile dolcezza, che sembrava lasciarle sulle labbra un sapore di miele. Egli stava disteso ai suoi piedi senza muoversi, perché sapeva per esperienza che in quei primi giorni del loro rapporto il minimo gesto poteva farla fuggire via spaventata. Stava disteso in silenzio, con tutto l'ardore del desiderio che gli risuonava nella voce e gli brillava negli occhi, mentre il corpo rimaneva immobile come la morte. E la contemplava, in piedi davanti a sé, con la testa perduta tra le ombre delle larghe foglie delicate che le sfioravano il viso; mentre le esili spighe delle orchidee verde pallido ricadevano tra le fronde fino ad intrecciarsi tra i neri capelli che le incorniciavano il volto, quasi che tutte quelle piante la reclamassero per sé - il fiore animato e brillante di tutta quella vita esuberante che, nata nelle tenebre, cerca di farsi strada incessantemente verso la luce del sole. 

  Ogni giorno ella si avvicinava un po' di più. Egli osservava il lento avvicinarsi di quella donna - quel suo farsi gradualmente più docile grazie alle sue parole d'amore. Era quel monotono canto fatto di adulazioni e desiderio che, sin dalla creazione, avvolge il mondo come un'atmosfera e finirà solo con la fine di tutto - quando non vi saranno labbra per cantare né orecchie per sentire. Le disse che era bella e desiderabile, e lo ripeté ancora e ancora; perché una volta detto questo le aveva detto tutto ciò che aveva dentro: aveva espresso il suo solo pensiero, la sua sola emozione. Vide così, col passare dei giorni, svanirle dal viso lo sguardo allarmato, incredulo e diffidente, vide gli occhi addolcirsi, il sorriso indugiare sempre più a lungo sulle sue labbra; un sorriso come di qualcuno incantato da un sogno delizioso; con annidata nella sua nascente tenerezza la lieve esaltazione dell'inebriante trionfo. 

  E quando ella gli era vicina non c'era altro al mondo - per quell'uomo che non aveva nulla da fare - se non lo sguardo e il sorriso di lei. Nulla nel passato, nulla nel futuro; e nel presente solo la luminosa realtà della sua esistenza. Ma nel buio improvviso che calava quando ella andava via egli si ritrovava debole e indifeso, come se fosse stato spogliato violentemente di tutto se stesso. Egli, che per tutta la vita aveva vissuto senza altra preoccupazione se non la propria carriera, indifferente e sprezzante verso ogni influsso femminile, pieno di scherno per gli uomini che ne fossero stati anche minimamente vittime; egli, così forte, così superiore anche negli errori, comprese finalmente che la propria individualità gli era stata strappata dalla mano di una donna. Dove era quell'astuzia di cui era così fiero e che gli dava tanta sicurezza; la fede nel successo, la rabbia per aver fallito, il desiderio di riconquistare la fortuna, la certezza di poter ancora farcela? Svanito. Era tutto svanito. Tutto ciò che aveva fatto di lui un uomo era svanito e gli restava solo il travaglio del cuore - quel cuore che era divenuto qualcosa di spregevole; che palpitava per uno sguardo o un sorriso, tormentato da una parola, confortato da una promessa. 

  Quando infine arrivò il giorno a lungo atteso, in cui ella si lasciò cadere sull'erba accanto a lui e con un gesto rapido gli prese la mano tra le sue, egli si alzò a sedere di scatto con il movimento e l'aspetto di un uomo svegliato dallo schianto prodotto dal crollo della propria casa. Tutto il suo sangue, tutti i suoi sensi, tutta la sua vita sembravano confluire in quella mano, lasciandolo senza forze, tremante dal freddo, con quella sensazione improvvisa di un liquido appiccicoso e di perdere le forze di chi è stato ferito a morte con una fucilata. Scostò brutalmente la sua mano, come se scottasse, e rimase a sedere, immobile, la testa in avanti, gli occhi fissi sul terreno, respirando affannosamente. Questo gesto di paura e di visibile orrore non sembrò turbarla affatto. Il suo viso era solenne e i suoi occhi lo scrutavano con un'espressione seria. Con le dita gli toccò i capelli sulla tempia, gli sfiorò con una leggera carezza la guancia e arricciò gentilmente la punta dei suoi lunghi baffi; e lasciandolo tremante per quel contatto corse via con sorprendente agilità e sparì con uno scroscio di risa argentine, un lieve tremito dell'erba, il piegarsi dei ramoscelli che crescevano lungo il sentiero; lasciandosi dietro appena un'evanescente scia di suono e movimento. 

  Egli si rialzò lentamente in piedi a fatica, come un uomo con un fardello sulle spalle, e si diresse verso la riva del fiume. Al petto stringeva il ricordo della propria paura e del proprio piacere, ma continuò a ripetersi convinto che quell'avventura doveva finire lì. Dopo aver sospinto la piroga in mezzo alla corrente alzò gli occhi verso la riva e la contemplò fissamente e a lungo, quasi stesse dando un'ultima occhiata ad un luogo di incantevoli memorie. Si diresse verso la casa di Almayer con lo sguardo intento e il passo risoluto di un uomo che ha appena preso una decisione molto importante. Il viso era teso e contratto, i gesti e i movimenti cauti e lenti. Si stava controllando. Controllando in modo durissimo. Gli veniva alla mente l'immagine vivida - così vivida da sembrare quasi reale - di avere in custodia un prigioniero sempre sul punto di sgusciar via. Rimase seduto di fronte ad Almayer per tutta quella cena - che fu il loro ultimo pasto insieme - con un'espressione imperturbabile, sentendo dentro di sé un terrore sempre maggiore di sfuggire al proprio sé. Di tanto in tanto si afferrava al bordo del tavolo e stringeva forte i denti per un'improvvisa ondata di disperazione acuta, come un uomo che, scivolando lungo un liscio e ripido declivio che finisce in un precipizio, affondi le unghie nella superficie cedevole e si senta trascinare impotente verso una morte inevitabile. 

  Poi, ad un tratto i suoi muscoli si rilassarono: la sua volontà aveva ceduto. Qualcosa sembrò essersi spezzato nella sua testa e quel desiderio, quell'idea repressa per tutte quelle ore gli sfrecciò nel cervello con il calore e lo schianto di una deflagrazione. Doveva vederla! Vederla subito! Andare, ora! Stanotte! Provava un rimpianto furioso per l'ora perduta, per ogni attimo che passava. Ora non pensava più a resistere. Eppure, con la paura istintiva dell'irrevocabile, con la innata falsità del cuore umano, voleva tenersi aperta la via della ritirata. Non si era mai assentato di notte. Cosa sapeva Almayer? Cosa avrebbe pensato Almayer? Meglio chiedergli il fucile. Una notte di luna... a caccia di cervi... Un pretesto plausibile. Avrebbe mentito ad Almayer. Che importava! Mentiva a se stesso ogni minuto della sua vita. E per che cosa? Per una donna. Come quella... 

  La risposta di Almayer gli fece capire che l'inganno era inutile. Si viene a sapere tutto, anche in questo posto. Be' non gli importava. Gli importava solo dei secondi perduti. E se fosse morta improvvisamente. Se moriva prima che potesse vederla. Prima che potesse... 

  Mentre, con il suono della risata di Almayer negli orecchi, spingeva la piroga lungo il suo corso obliquo attraverso la rapida corrente, cercò di dire a se stesso che poteva tornare indietro quando voleva. Sarebbe solo andato a vedere il luogo dove si incontravano, l'albero sotto al quale era sdraiato quando lei gli aveva preso la mano, il punto dove gli si era seduta accanto. Sarebbe solo andato lì e poi sarebbe tornato indietro - nient'altro; ma quando il piccolo skiff toccò la riva, saltò a terra dimenticando la fune d'ormeggio e la piroga rimase per un istante impigliata tra i cespugli e quindi scivolò via perdendosi alla vista prima che egli avesse il tempo di gettarsi nell'acqua per fissarla. Sul momento rimase sbigottito. Ora non poteva più tornare indietro, se non chiedendo alla gente del rajah di dargli una barca con dei rematori - e la strada che portava al campong di Patalolo passava accanto alla casa di Aissa! 

  Risalì il sentiero con gli occhi attenti e i passi riluttanti di un uomo che insegue un fantasma e, quando arrivò ad un punto in cui un viottolo stretto si dipartiva a sinistra verso la radura di Omar, si fermò, con un'espressione accorta carica di tensione sul viso, come se stesse ascoltando una voce lontana - la voce del proprio destino. Era un suono indistinto, ma ricco di significato; e nell'udirlo si sentì strappare e dilaniare dentro il petto. Si torse le dita fino a far scricchiolare le giunture delle mani e delle braccia. Delle piccole gocce di sudore gli imperlarono la fronte. Si guardò intorno sconvolto. Al di sopra dell'oscurità informe del sottobosco della foresta si levavano le cime degli alberi con le loro alte fronde e le foglie che si stagliavano nere contro il cielo pallido - come frammenti di notte che si libravano sui raggi della luna. Da sotto i suoi piedi un vapore caldo si alzava dalla terra arroventata. Tutt'intorno vi era un grande silenzio. 

  Si guardò in giro in cerca d'aiuto. Quel silenzio, quell'immobilità che lo circondavano gli sembrarono un freddo rimprovero, un severo rifiuto, una crudele indifferenza. Non vi era scampo alcuno fuori di se stesso - e dentro di sé non vi era rifugio; vi era solo l'immagine di quella donna. Ebbe un improvviso attimo di lucidità - di quella crudele lucidità che una volta nella vita hanno anche i più ottenebrati. Gli sembrò di vedere cosa stesse accadendo dentro di lui, e quella strana visione lo inorridì. Lui, un uomo bianco la cui peggior colpa fino a quel momento era stata una piccola mancanza di giudizio e troppa fiducia nella rettitudine della propria specie! Quella donna era una completa selvaggia e... Cercò di persuadersi che la cosa non aveva importanza. Fu uno sforzo vano. Il suo coraggio non resse alla novità di sensazioni che non aveva mai assolutamente provato prima, ma che, per sentito dire, aveva disprezzato dalla sua posizione sicura di un uomo civilizzato. Era deluso da se stesso. Sembrava che stesse cedendo ad una creatura selvatica la immacolata purezza della sua vita, della sua razza, della sua civiltà. Ebbe la sensazione di essere perduto tra cose informi che erano pericolose e spaventose. Cercò di opporsi alla sensazione di una sicura sconfitta - perse la presa - ricadde nelle tenebre. Con un debole grido e alzando le braccia si arrese come si arrende un nuotatore esausto: perché non ha più sotto i piedi la barca ormai colata a picco; perché la notte è buia e la costa lontana - perché è meglio morire che lottare. 

 

PARTE SECONDA 

 

 

 

CAPITOLO PRIMO 

 

 

  La luce e il calore piombavano sull'insediamento, le radure e il fiume, come scagliati giù da una mano adirata. La terra si stendeva silente, immobile e luminosa sotto la cascata di raggi ustionanti che aveva distrutto ogni suono e movimento, sepolto tutte le ombre e soffocato ogni respiro. Nessun essere vivente osava affrontare la serenità di questo cielo sgombro di nubi od osava ribellarsi all'oppressione della luce radiosa e crudele di quel sole. La forza e la risolutezza, come il corpo e la mente, erano impotenti e tentavano di fuggire di fronte all'impeto del fuoco del cielo. 

Solo le fragili farfalle, le intrepide figlie del sole capricciose tiranne dei fiori, svolazzavano audaci all'aperto e le loro minuscole ombre volteggiavano al di sopra dei fiori prostrati, correvano leggere sull'erba secca, o scivolavano sulla terra riarsa solcata da crepe. Non una voce si udiva in quel torrido mezzodì, se non il mormorio sommesso del fiume che scorreva rapido tra gorghi e mulinelli e delle ondine scintillanti che si inseguivano nel loro corso gioioso verso gli abissi dove avrebbero trovato riparo nel fresco rifugio del mare. 

  Almayer aveva congedato i suoi aiutanti per il riposo pomeridiano e con la figlioletta sulle spalle attraversò di corsa il cortile, diretto verso l'ombra della veranda della sua casa. Adagiò la bambina addormentata sulla grande sedia a dondolo, su un cuscino che aveva preso dalla sua amaca, e rimase per un po' a guardarla con occhi teneri e pensierosi. La bambina, stanca e accaldata, ebbe un gesto di inquietudine, sospirò e alzò gli occhi guardandolo con uno sguardo velato dalla spossatezza e dal sonno. Egli raccolse dal pavimento un ventaglio rotto di foglie di palma e cominciò a sventolarlo delicatamente davanti al visino arrossato. Ella batté le palpebre e Almayer sorrise. Ella rispose con un sorriso che le illuminò per un attimo gli occhi pesanti, interrompendo con una fossetta il profilo morbido della guancia; poi le palpebre tornarono di colpo a richiudersi, ella tirò un profondo respiro socchiudendo le labbra - e prima che il fugace sorriso potesse svanirle dal volto cadde addormentata. 

  Almayer si allontanò in punta di piedi, prese una delle poltrone di legno e, sistemandola vicino alla balaustra della veranda, si sedette con un sospiro di sollievo. Allargò i gomiti sopra la ringhiera e reggendosi il mento con le mani intrecciate guardò sovrappensiero il fiume e la danza della luce del sole sull'acqua impetuosa. A poco a poco la foresta sulla riva opposta divenne più piccola, come se stesse affondando sotto il livello del fiume. I contorni vacillarono, si affievolirono, si dissolsero nell'aria. Davanti ai suoi occhi vi era ora solo un tremolante spazio azzurro - un cielo grande e vuoto che a volte diveniva più scuro... Dove era la luce del sole?... Si sentì rassicurato e felice, come se una mano delicata e invisibile avesse liberato la sua anima dal peso del corpo. Un secondo dopo gli sembrava di fluttuare in una fresca luminosità dove non esistevano né memoria né dolore. Che delizia. I suoi occhi si chiusero - si aprirono - si chiusero di nuovo. 

  «Almayer!» . 

 Sobbalzando di scatto con tutto il corpo si alzò a sedere afferrando la ringhiera con tutte e due le mani e batté le palpebre come istupidito. 

  «Cos'è? Cosa c'è?» , bofonchiò guardandosi intorno con aria spersa. 

  «Qui, Almayer, qui giù» . 

 Alzandosi a metà dalla sedia, Almayer guardò oltre la ringhiera ai piedi della veranda e ricadde indietro con un debole fischio di stupore. 

  «Cielo, un fantasma!» , esclamò piano tra sé. 

  «Mi vuoi ascoltare?» , continuò la voce rauca dal cortile. «Posso venire su, Almayer?» . 

  Almayer si alzò in piedi e si sporse dalla ringhiera. 

  «Non ci provare» , disse, con voce sommessa ma chiara. «Non ci provare! C'è la bambina che dorme. E non voglio starti a sentire - e neanche parlarti» . 

  «Mi devi ascoltare. È una cosa importante» . 

  «Non per me, certamente» . 

  «Sì! Per te. Importantissima» . 

  «Sei sempre stato un buffone» , disse Almayer con tono indulgente, dopo un breve silenzio. «Sempre! Mi ricordo i vecchi tempi. C'era gente che diceva che quanto a furbizia non ti batteva nessuno - ma non mi hai mai incantato. Per niente. Io non ho mai creduto in te, signor Willems» . 

  «Riconosco la tua intelligenza superiore» , rispose da sotto Willems, con impazienza sprezzante. «Ne daresti un'ulteriore prova ascoltandomi. Se non lo farai te ne pentirai» . 

  «Oh, che tipo buffo!» , disse Almayer, prendendolo in giro. «Be', vieni su. Non fare chiasso, ma vieni su. Ti prenderai un'insolazione laggiù e finirai per morirmi sulla soglia di casa. Non voglio tragedie qui. Vieni!» .  Non aveva fatto in tempo a dirlo che all'altezza del pavimento apparve la testa di Willems, seguita poi gradualmente dalle spalle, finché egli non fu in piedi dinanzi ad Almayer - uno spettro in maschera di quello che un tempo era stato l'impiegato di gran fiducia del mercante più ricco delle isole. La giacca era sudicia e strappata; dalla vita in giù era avvolto in un sarong logoro e stinto. Gettò via il cappello, scoprendo i lunghi capelli. Erano scomposti e incollati a ciocche alla fronte sudata e gli cadevano disordinatamente sugli occhi, che scintillavano in fondo alle orbite come gli ultimi guizzi delle fiamme tra i carboni neri di un fuoco spento. Una barba incolta gli spuntava dalle cavità delle guance cotte dal sole. La mano che tese verso Almayer era terribilmente malferma. La bocca, un tempo decisa, aveva una piega rivelatrice di sofferenze mentali e spossatezza fisica. Era a piedi nudi. Almayer lo squadrò con comodo, senza fretta. 

  «Bene!» , disse infine, senza stringere la mano che gli veniva tesa e che ricadde lentamente lungo il corpo di Willems. 

  «Sono venuto» , cominciò Willems. 

  «Posso ben vederlo» , interruppe Almayer. «Potevi risparmiarmi questo piacere senza darmi alcun dolore. Sei stato via cinque settimane, se non vado errato. Me la sono cavata benissimo senza di te - e ora che sei qui non sei uno spettacolo piacevole» . 

  «Fammi parlare, insomma!» , esclamò Willems. 

«Non gridare così. Credi di essere nella foresta con i tuoi... i tuoi amici? Questa è la casa di un uomo civile. Di un bianco. Hai capito?»  

  «Sono venuto» , cominciò di nuovo Willems; «sono venuto per il bene tuo e mio» . 

  «Sembrerebbe che tu sia venuto per riempirti la pancia» , intervenne l'incontenibile Almayer, e Willems fece un gesto sconsolato con la mano. «Non ti danno abbastanza da mangiare» , proseguì Almayer, punzecchiandolo, «quei - come devo chiamarli - quei tuoi nuovi parenti? Quel vecchio furfante cieco deve essere felicissimo della tua compagnia. Lo sai che era il più grande predone e assassino di questi mari. Di'! vi scambiate confidenze? Raccontami, Willems, hai ucciso qualcuno a Macassar, o hai soltanto rubato qualcosa?»  

  «Non è vero!» , esclamò Willems, accalorandosi. «Ho solo preso in prestito... Hanno mentito tutti! Io...»    «Shhhh!» , sibilò Almayer, indicando con gli occhi la bambina addormentata. «Così hai rubato» , continuò con malcelata esultanza. «Ero sicuro che doveva trattarsi di qualcosa del genere. E ora, qui, hai rubato un'altra volta» . 

  Willems per la prima volta alzò gli occhi e guardò in viso Almayer. 

  «No, non dico a me. Non mi manca nulla» , si affrettò a dire Almayer beffardo. «Ma quella ragazza. Eh! L'hai rubata. Non l'hai pagato il vecchio. Non vale più niente per lui, sai?»  

  «Finiscila, Almayer!» . 

  Qualcosa nel tono di Willems indusse Almayer a tacere. Guardò attentamente l'uomo che gli stava davanti e non poté fare a meno di essere impressionato dal suo aspetto. 

  «Almayer» , proseguì Willems, «stammi a sentire. Se sei un essere umano non potrai non farlo. Soffro terribilmente - e per colpa tua» . 

  Almayer alzò le sopracciglia. «Davvero! E come? Ma tu vaneggi» , aggiunse con indifferenza. 

 «Ah! ma tu non lo sai» , bisbigliò Willems. «Lei se n'è andata. Andata» , ripeté, con la voce rotta dalle lacrime, «se n'è andata due giorni fa» . 

  «No!» , esclamò Almayer stupito. «Se n'è andata! Non mi era ancora giunta questa notizia» . Scoppiò in una risata contenuta. «Che buffo! Ne aveva già abbastanza di te? Sai, non è molto gratificante per te, il mio connazionale così superiore» . 

  Willems - come se non lo stesse a sentire - si appoggiò a una delle colonne del tetto e guardò verso il fiume. «All'inizio» , mormorò trasognato, «la mia vita era come una visione del paradiso - o dell'inferno. Non sapevo quale. Da quando lei se n'è andata so cosa significa la perdizione; cosa siano le tenebre. So cosa significa essere scuoiati vivi. È questo che sto provando» . 

  «Puoi tornare a vivere da me» , disse Almayer, con freddezza. «In fondo Lingard - che chiamo mio padre e rispetto come tale - ti ha lasciato sotto la mia tutela. Hai fatto il comodo tuo andandotene. Benissimo. Ora vuoi tornare. 

Va bene. Io non sono tuo amico. Agisco per conto del capitano Lingard» . 

  «Tornare?» , ripeté Willems, con passione. «Tornare qui e abbandonare lei? Mi prendi per pazzo? Senza di lei? Almayer! ma di cosa sei fatto? Sapere che ella si muove, vive, respira fuori dalla mia vista. Sono geloso del vento che la sfiora, dell'aria che respira, della terra che riceve la carezza dei suoi piedi, del sole che la sta guardando, ora, mentre io... sono due giorni che non la vedo - due giorni» . 

  L'intensità del sentimento di Willems un poco turbò Almayer, il quale però finse di sbadigliare vistosamente.  «Quanto mi annoi» , borbottò. «Perché non vai a cercarla invece di venire qui?»  

  «Già, perché no?»  

  «Non sai dove si trova? Non può essere molto lontana. Nessuna imbarcazione indigena ha lasciato questo fiume nelle ultime due settimane» . 

 «No! non è molto lontana - e ti dirò dove si trova. È nel campong di Lakamba» . E Willems scrutò fisso in volto Almayer. 

  «Ah! Patalolo non me l'ha mandato a dire. Strano» , disse Almayer, pensieroso. «Hai paura di quella gente?» , soggiunse, dopo una breve pausa. 

  «Io - paura!» . 

  «Allora è per riguardo verso la tua dignità che non la segui lì, mio nobile amico?» , chiese Almayer con beffarda premura. «Che nobiltà d'animo!» . 

  Seguì un breve silenzio; poi, calmo, Willems disse: «Sei uno sciocco. Avrei voglia di prenderti a calci» .  «Non c'è pericolo» , rispose Almayer senza prenderlo sul serio; «sei troppo debole per farlo. Sembri affamato» 

  «Saranno due giorni, credo, che non tocco cibo; forse anche di più - non ricordo. Non fa nulla. Sono pieno di tizzoni ardenti» , disse Willems con aria cupa. «Guarda!»  e si scoprì un braccio coperto di cicatrici recenti. «Mi sono morso perché il dolore mi facesse dimenticare il fuoco che mi brucia qui!» . Si percosse il petto violentemente con il pugno, ma il colpo lo fece vacillare, cadde su una sedia lì vicino e lentamente chiuse gli occhi. 

  «Che esibizione disgustosa» , disse Almayer, con aria di superiorità. «Cosa ci avrà trovato in te mio padre? 

Non vali più di un mucchio di immondizia» . 

 «E sei tu a parlare così! Tu che ti sei venduto l'anima per pochi fiorini» , mormorò Willems a fatica senza aprire gli occhi. 

  «Non così pochi» , disse Almayer istintivamente, con prontezza, e si fermò un attimo, confuso. Si riprese alla svelta, però, e proseguì: «Ma tu - tu la tua l'hai buttata via per niente; l'hai gettata ai piedi di una maledetta selvaggia che ti ha già ridotto in questo stato e ben presto, in un modo o nell'altro, ti ucciderà col suo amore o con il suo odio. Appena adesso hai parlato di fiorini. Intendevi il denaro di Lingard, suppongo. Bene, qualsiasi cosa abbia venduto, e per qualsiasi prezzo, non ho intenzione di farmi rovinare gli affari da te - da te più di qualsiasi altro. Mi sento abbastanza tranquillo, comunque. Anche mio padre, anche il capitano Lingard non ti toccherebbe ora nemmeno con le molle; nemmeno con una pertica di tre metri...» . 

  Parlava animatamente, tutto d'un fiato, e arrestandosi di colpo fulminò Willems con gli occhi, sbuffando con violenza, stizzito e risentito. Willems lo stette a fissare per un momento, poi si alzò. 

  «Almayer» , disse risoluto, «voglio diventare un mercante qui» . 

  Almayer scrollò le spalle. 

  «Sì. E tu mi darai una mano per cominciare. Mi serve una casa e dei beni - forse un po' di denaro. È questo che ti chiedo» . 

  «Nient'altro? Vuoi forse questa giacca?» , e Almayer fece per sbottonarsela, «o la mia casa - o i miei stivali?» .  «In fondo è naturale» , proseguì Willems, senza badare minimamente ad Almayer, «è naturale che ella si aspetti i vantaggi che... e poi potrei rinchiudere quel vecchio miserabile e poi...» . 

  Fece una pausa, con il viso illuminato dalla soffice luce dell'entusiasta sognatore e levò gli occhi in alto. Con la sua figura macilenta e l'aspetto decrepito sembrava un asceta che si è rifugiato nel deserto per trovare un compenso alla sua vita di privazioni in una abbagliante visione di gloria. Continuò con un appassionato mormorio: 

  «E allora la avrei tutta per me lontano dalla sua gente - tutta per me - sotto la mia influenza - per modellare - per plasmare - per adorare - per ammorbidire - per... Oh! Gioia! E poi - poi andare via in un luogo remoto dove, lontano da tutto ciò che ha conosciuto, sarei per lei il mondo intero! Il mondo intero!» . 

  Il suo volto tutt'a un tratto cambiò espressione. Gli occhi vagarono per un po' e poi improvvisamente tornarono a fissarsi. 

  «Ti ripagherei fino all'ultimo centesimo, naturalmente» , disse con un tono spiccio in cui vi era traccia dell'antica sicurezza, dell'antica fiducia in se stesso. «Fino all'ultimo centesimo. Non avrò bisogno di interferire con i tuoi affari. Farò fuori i piccoli mercanti locali. Ho dei progetti - ma lasciamo perdere per il momento. E il capitano 

Lingard approverebbe, ne sono sicuro. In fondo si tratta di un prestito, e sarò qui nei paraggi. Per te è una cosa sicura» .  «Ah! Il capitano Lingard approverebbe. App...» . Almayer si sentì soffocare. L'idea che Lingard facesse qualcosa per Willems lo mandava su tutte le furie. Il suo viso era diventato paonazzo. Farfugliò degli insulti. Willems lo guardò con distacco. 

  «Ti assicuro, Almayer» , disse con gentilezza, «che ho degli ottimi motivi per la mia richiesta» . 

  «Che dannata impudenza!» . 

  «Credimi, Almayer, la tua posizione qui non è sicura come potresti credere. Nel giro di un anno un rivale privo di scrupoli potrebbe distruggere il tuo commercio. Sarebbe una rovina. Ora l'assenza prolungata di Lingard dà coraggio a certi individui. Sai? - Ho sentito diverse cose negli ultimi tempi. Mi hanno fatto delle proposte. Sei molto isolato qui. 

Anche Patalolo...»  

  «All'inferno Patalolo! Sono io il padrone in questo posto» . 

  «Ma, Almayer, non vedi...»  

  «Sì, vedo. Vedo uno stupido che fa il misterioso» , lo interruppe Almayer, furibondo. «Cosa significano le tue velate minacce? Non credi che sappia qualcosa anch'io. Sono anni che fanno i loro intrighi - e non è successo niente. Sono anni che gli arabi gironzolano all'imboccatura del fiume - e io sono ancora l'unico mercante qui; il padrone qui. Mi stai portando una dichiarazione di guerra? In quel caso viene solo da te. Tutti gli altri nemici li conosco. Dovrei colpirti in testa. Però non vali nemmeno la polvere e la pallottola. Bisognerebbe ammazzarti con un bastone - come un serpente» . 

  La voce di Almayer svegliò la bambina, che con uno strepito si alzò a sedere sul cuscino. Si precipitò verso la sedia, prese in braccio la bambina, tornò indietro cieco di rabbia, incespicò nel cappello di Willems posato a terra e con un calcio furioso lo fece volare giù per le scale. 

  «Fuori di qui! Fuori!» , urlò. 

  Willems tentò di parlare, ma Almayer urlava più forte. 

  «Sparisci! Non vedi che spaventi la bambina - spaventapasseri! No, cara, no» , continuò, rivolto alla figlioletta con voce dolce, mentre Willems scendeva lentamente i gradini. «No. Non piangere. Vedi! L'uomo cattivo sta andando via. Guarda! Ha paura del tuo papà. Uomo brutto, cattivo. Non tornare più. Andrà a vivere nei boschi e non si avvicinerà mai più alla mia piccola bambina. Se viene, papà lo ammazza - così!» . Colpì con il pugno la ringhiera della balaustra per mostrarle come avrebbe ucciso Willems e, sistemata la bambina - ormai calma - sulla spalla, la tenne con una mano, mentre col dito indicava la figura del visitatore che si allontanava. 

  «Guarda come scappa, piccola mia» , disse, facendole le moine. «È buffo, vero? Gridagli dietro «porco» , amore mio. Gridagli dietro» . 

  La serietà del viso di lei svanì con due fossette. Sotto le lunghe ciglia, luccicanti per le lacrime di poco prima, gli occhioni le sfavillavano, danzando per il divertimento. Si afferrò saldamente con una mano ai capelli di Almayer, mentre agitava l'altra allegramente e gridò con tutta la forza, con una nota limpida, morbida e chiara come il pigolio di un uccellino: 

  «Porco! Porco! Porco!» . 

   

   

 

   

   

CAPITOLO SECONDO 

 

 

  Un sospiro di sotto l'azzurro acceso, un brivido del mare addormentato, un soffio fresco come se si fosse spalancata una porta sugli spazi gelati dell'universo e, con uno stormire di foglie, un inchinarsi delle fronde e il tremolio di esili ramoscelli, la brezza marina investì la costa, si lanciò su per il fiume seguendo le curve degli ampi tratti e continuò il suo cammino con un leggero incresparsi delle acque sempre più scure, un bisbigliare dei rami e un fruscio delle foglie delle foreste ridestate. Nel campong di Lakamba essa ravvivò la tenue luce rossastra della brace quasi spenta, trasformandola in una pallida luminosità; sotto la sua carezza le sottili spirali di fumo verticali che si levavano da ciascun cumulo incandescente oscillarono ondeggiando e, formando mulinelli vorticosi, si abbassarono fino a riempire la penombra dei boschetti di alberi ombrosi con la fragranza aromatica del legno che brucia. Gli uomini, che durante le ore calde del pomeriggio si erano appisolati all'ombra, si svegliarono e il silenzio del grande cortile fu rotto dall'esitante brusio delle voci ancora insonnolite, dai colpi di tosse e dagli sbadigli, e di quando in quando da uno scoppio di risa, un saluto ad alta voce, un nome o una battuta detta con una cadenza dolce e strascicata. Erano accovacciati a piccoli gruppi intorno ai fuochi e il monotono tono sommesso del suono dei loro discorsi riempì il recinto; quel modo di parlare dei barbari, persistente, continuo, che si ripete nelle dolci sillabe, nei toni musicali dei discorsi senza fine di quegli uomini delle foreste e del mare che possono parlare per tutto il giorno e tutta la notte; che non esauriscono mai un argomento, mai sembrano capaci di sviscerare fino in fondo una questione; per i quali discorrere è poesia, pittura e musica, tutta l'arte e tutta la storia; il loro unico talento, la loro unica superiorità, il loro unico svago. I discorsi dei fuochi da campo, in cui si racconta del coraggio e dell'astuzia, di avvenimenti strani e di paesi lontani, delle notizie di ieri e delle notizie di domani. I discorsi sui vivi e sui morti - su coloro che lottarono e su coloro che amarono. 

  Lakamba uscì sulla piattaforma davanti alla sua casa e si sedette - sudato, insonnolito e di pessimo umore - su una poltrona di legno all'ombra delle gronde sporgenti. Dall'oscurità dell'uscio poteva udire il dolce cinguettio delle donne di casa, affaccendate intorno ai telai dove stavano intessendo i motivi a scacchi dei suoi sarong da cerimonia. Alla sua destra e alla sua sinistra, sul pavimento flessibile di bambù, coloro tra i suoi uomini cui era stato riconosciuto, per nascita, per lunga devozione o perché lo avevano servito fedelmente, il privilegio di usare la casa del capo, dormivano sulle stuoie o si alzavano allora a sedersi, stropicciandosi gli occhi: quelli già più svegli avevano trovato abbastanza energie per disegnare con l'argilla rossa su una stuoia sottile una scacchiera e stavano ora meditando in silenzio le loro mosse. Sopra le forme dei giocatori, sdraiati a faccia in giù poggiando sui gomiti e dondolando di qua e di là con fare indeciso le piante dei piedi nella assorta meditazione del gioco, si ergeva qui e là la figura diritta di uno spettatore attento che guardava in basso con interesse spassionato ma profondo. Sul bordo della piattaforma stava una fila di sandali di cuoio con i tacchi alti ordinatamente allineati e contro il parapetto di legno grezzo erano appoggiate le aste sottili delle lance che appartenevano a questi signori, con le larghe lame di acciaio brunito che sembravano nerissime nella luce che si andava tingendo di rosso con l'approssimarsi del tramonto. 

  Un ragazzino di circa dodici anni - il servitore personale di Lakamba - si accovacciò ai piedi del suo signore, porgendogli una scatola d'argento per il siri. Lakamba prese lentamente la scatola, la aprì e strappando un pezzo di foglia verde vi depositò sopra una pizzico di calce, un pezzetto di gambir, un po' di noce di betel e con mossa esperta avvoltolò il tutto. Si fermò, con il boccone in mano, come se gli mancasse qualcosa, girò la testa da una parte all'altra, lentamente, come un uomo col torcicollo, e proruppe in una voce di basso piena di malumore: 

  «Babalatchi!» . 

  I giocatori alzarono subito gli occhi, per riabbassarli poi immediatamente. Gli uomini in piedi si agitarono inquieti, come scossi dal suono della voce del loro capo. Quello più vicino a Lakamba, dopo un po', ripeté il richiamo oltre il parapetto verso il cortile. Laggiù tra i falò vi fu un movimento di volti che guardavano in su e il grido si disperse per tutto il recinto come una cantilena. Il battere dei pestelli di legno che mondavano il riso per la cena cessò per un istante e il nome di Babalatchi risuonò di nuovo in diverse tonalità sulle labbra delle donne. Una voce lontana gridò qualcosa - un'altra più vicina lo ripeté; vi fu un po' di confusione che finì di colpo. Quello che aveva gridato per primo si volse verso Lakamba dicendo, con voce indolente: 

  «È dal cieco Omar» . 

  Le labbra di Lakamba si mossero impercettibilmente. L'uomo che aveva appena parlato era di nuovo profondamente assorto nel gioco che si stava svolgendo ai suoi piedi; il capo - come se se ne fosse già dimenticato - rimase seduto impassibile in volto tra i suoi silenziosi seguaci, sprofondato nella poltrona con le mani sui braccioli, le ginocchia divaricate, le palpebre dei grandi occhi iniettati di sangue che battevano solennemente quasi che fosse abbagliato dalla nobile vacuità dei suoi pensieri. 

  Babalatchi era andato a trovare il vecchio Omar nel pomeriggio. La delicata manipolazione della suscettibilità dell'antico pirata, l'abile controllo degli impulsi violenti di Aissa lo assorbivano a scapito di tutti gli altri affari - interferivano con il regolare servizio per il suo capo e protettore - gli avevano perfino disturbato il sonno durante le ultime tre notti. Quando quel giorno aveva lasciato la sua capanna di bambù - che insieme a tante altre si trovava nel campong di Lakamba - il suo cuore era oppresso da preoccupazioni e dubbi sul successo del suo intrigo. Camminava lentamente, con la sua abituale aria di distacco da ciò che lo circondava, come se non si accorgesse dei molti occhi assonnati che scrutavano da ogni angolo del cortile il suo tragitto fino al cancelletto posto sul lato più lontano. Quel cancello dava accesso ad un recinto separato in cui una casa piuttosto grande, costruita con delle tavole, era stata approntata, per ordine di Lakamba, per ricevere Omar e Aissa. Era un'abitazione più grande delle altre, che Lakamba aveva predisposto come dimora per il suo consigliere principale - la cui abilità, a suo giudizio, era degna di un simile onore. Ma dopo la consultazione nella radura deserta - quando Babalatchi gli aveva rivelato il suo piano - entrambi avevano concordato che per ora la nuova casa doveva essere usata per accogliere Omar e Aissa dopo che erano stati persuasi a lasciare il posto datogli dal rajah, o dopo che erano stati rapiti - a seconda dei casi. A Babalatchi non dispiaceva affatto di dover rimandare il proprio trasferimento nella casa costruita in suo onore, perché essa presentava diversi vantaggi per una sicura riuscita dei suoi piani. Era abbastanza isolata, avendo un recinto tutto suo, e quel recinto era anche comunicante con il cortile privato di Lakamba alle spalle della sua casa - un luogo riservato alle donne della famiglia del capo. L'unica comunicazione con il fiume era attraverso il grande cortile sul davanti, sempre pieno di uomini armati e occhi vigili. E alle spalle dell'intero gruppo di costruzioni si apriva il terreno pianeggiante delle risaie, che a loro volta erano cinte dalla muraglia delle foreste incontaminate, la cui boscaglia era così fitta e intricata che solo una pallottola - sparata per giunta da molto vicino - poteva penetrarvi più di tanto. 

  Babalatchi si infilò silenziosamente nel cancelletto e, dopo averlo richiuso, annodò attentamente il fissaggio di corda. Davanti alla casa vi era uno spazio quadrato di terra che era stata battuta fino a renderla piana e levigata come l'asfalto. Un grande albero sostenuto da un contrafforte, un gigante lasciato lì apposta durante il lavoro di disboscamento, copriva come un tetto lo spazio all'aperto con un alto baldacchino di fronde nodose e grosse foglie scure. Sulla destra - a breve distanza dalla grande casa - una capannuccia di canne, coperta di stuoie, era stata costruita appositamente per Omar, il quale, essendo cieco e malato, aveva una certa difficoltà a salire lungo la tavola che portava alla abitazione più solida, costruita su dei corti pilastri e fornita di una veranda scoperta. Vicino al tronco dell'albero, di fronte all'ingresso della capanna, il fuoco che serviva per cucinare ardeva in un pugno di tizzoni al centro di un ampio cerchio di cenere bianca. Una vecchia donna - una parente povera di una delle mogli di Lakamba, cui era stato ordinato di servire Aissa - era accovacciata davanti al fuoco e alzò gli occhi velati per guardare con indifferenza Babalatchi, il quale stava attraversando velocemente il cortile. 

  Babalatchi osservò il cortile con lo sguardo acuto del suo solitario occhio e senza abbassare lo sguardo verso la vecchia sussurrò una domanda. In silenzio, la donna allungò un braccio tremolante ed emaciato in direzione della capanna. Babalatchi fece qualche passo verso la porta ma si fermò fuori, alla luce del sole. 

  «Oh! Tuan Omar, Omar besar! Sono io - Babalatchi!» . 

  Dalla capanna giunse un debole gemito, un attacco di tosse e un mormorio indistinto, incrinato come un lamento confuso. Evidentemente incoraggiato da quei segni di vita derelitta all'interno, Babalatchi entrò nella capanna, da cui riemerse poco dopo conducendo con austera sollecitudine il cieco Omar, che lo seguiva tenendo ambo le mani sulle spalle della sua guida. All'ombra dell'albero vi era un rozzo sedile e lì Babalatchi condusse il suo vecchio capo, che si sedette con un sospiro di sollievo e si appoggiò prostrato contro il tronco rugoso. I raggi del sole al tramonto, dardeggiando sotto la chioma frondosa, si andavano a posare sulla figura vestita di bianco seduta con la testa buttata indietro con rigida dignità, sulle mani ossute che si muovevano imbarazzate e sul volto impassibile con le palpebre abbassate sulle pupille devastate; un volto fissato nell'immobilità di un modello in gesso ingiallito dagli anni.  «Il sole è vicino a tramontare?» , chiese Omar con voce spenta. 

  «Molto vicino» , rispose Babalatchi. 

  «Dove sono? Perché sono stato portato via dal luogo che conoscevo - dove io, cieco, potevo muovermi senza timore? È come notte fonda per coloro che vedono. E il sole è prossimo a tramontare - e da stamattina non ho udito il suono dei passi di lei! Per due volte oggi una mano estranea mi ha porto il cibo. Perché? Perché? Dov'è lei?»    «Ella è vicino» , disse Babalatchi. 

  «E lui?» , continuò Omar, con improvvisa impazienza, abbassando la voce. «Lui dov'è? Qui no. Non qui!» , ripeté, voltando la testa da una parte e dall'altra, come se tentasse di vedere. 

  «No! Non è qui in questo momento» , disse Babalatchi cercando di tranquillizzarlo. Poi, un attimo dopo, aggiunse a bassissima voce, «ma presto tornerà» . 

  «Tornerà! O uomo astuto! Tornerà? L'ho maledetto tre volte» , esclamò Omar con furia impotente. 

  «Egli - senza dubbio - è maledetto» , assentì Babalatchi, con modi concilianti, «eppure sarà qui tra non molto - Lo so!» . 

  «Sei astuto e infido. Io ti ho reso grande. Non eri che polvere sotto i miei piedi - meno che polvere» , disse Omar, con tremolante vigore. 

  «Ho lottato al vostro fianco molte volte» , disse Babalatchi imperturbabile. 

  «Perché è venuto?» , riprese Omar. «Lo hai mandato tu? Perché è venuto a infestare l'aria che respiro - a prendersi gioco del mio destino - ad avvelenare la sua mente e rubare il suo corpo? Il cuore di lei si è indurito nei miei confronti. Duro, spietato e traditore come le rocce che sotto il mare calmo dilaniano la vita di una nave» . Respirò profondamente, lottò contro la sua stessa rabbia, poi all'improvviso crollò. «Ho avuto fame» , continuò, con voce piagnucolante, «ho avuto spesso fame - e freddo - e sono stato trascurato - e nessuno mi era vicino. Ella mi ha dimenticato - e i miei figli sono morti, e quell'uomo è un infedele e un cane. Perché è venuto? Sei tu che gli hai mostrato la via?»  

«L'ha trovata da sé, o condottiero dei valorosi» , disse Babalatchi mestamente. «Io ho solo visto una strada per 

la loro distruzione e la nostra grandezza. E se ho visto giusto, allora voi non patirete mai più la fame. Vi sarà per noi pace e gloria e ricchezze» . 

  «E io domani sarò morto» , mormorò Omar, con amarezza. 

  «Chi può saperlo? Queste cose sono scritte sin dall'inizio del mondo» , bisbigliò Babalatchi, pensieroso. 

  «Non lasciare che torni» , esclamò Omar. 

  «Neanche lui può sfuggire al suo destino» , proseguì Babalatchi. «Egli tornerà e il potere di uomini che abbiamo odiato da sempre, voi e io, si sbriciolerà come polvere nelle nostre mani» . Poi aggiunse con entusiasmo: «Essi lotteranno tra di loro e periranno entrambi» . 

  «E tu vedrai tutto questo, mentre io...»  

  «È vero!» , mormorò Babalatchi, con rimpianto. «La vita per voi è tenebra» . 

  «No! Fiamma!» , esclamò il vecchio arabo, provando ad alzarsi ma ricadendo a sedere sul sedile. «La fiamma di quell'ultimo giorno! La vedo ancora - l'ultima cosa che abbia visto! E odo il rumore della terra straziata - quando morirono tutti. E io vivo ancora solo per essere un giocattolo nelle mani di uno troppo astuto» , soggiunse, irritato e irragionevole. 

  «Voi siete ancora il mio padrone» , disse con umiltà Babalatchi. «Siete molto saggio - e nella vostra saggezza parlerete a Syed Abdullah quando verrà qui - gli parlerete nel modo in cui vi ho suggerito, io, il vostro servitore, l'uomo che ha combattuto alla vostra destra per molti anni. Un messaggero mi ha riferito che Syed Abdullah viene stanotte, forse molto tardi, perché queste cose vanno fatte in segreto, altrimenti l'uomo bianco, il mercante che vive a monte del fiume, le scoprirebbe. Ma ci sarà. Un messaggio è stato consegnato a Lakamba. In esso, Syed Abdullah dice che lascerà la nave, ancorata fuori del fiume, all'ora di mezzogiorno di oggi. Se Allah vuole, sarà qui prima che si faccia giorno» .  Parlò con l'occhio fisso in terra e non si accorse della presenza di Aissa finché non alzò la testa dopo aver smesso di parlare. Si era avvicinata così silenziosamente che perfino Omar non aveva udito i suoi passi, e ora era in piedi che li guardava con occhi inquieti e labbra aperte, come se stesse per parlare; ma di fronte al gesto supplichevole di Babalatchi tacque. Omar sedeva assorto nei suoi pensieri. 

  «Ay wa! E sia!» , disse infine, con voce fioca. «Devo dirgli ciò che detta la tua saggezza, o Babalatchi! Dirgli di fidarsi dell'uomo bianco! Non capisco. Sono vecchio e cieco e debole. Non capisco. Sento tanto freddo» , continuò, a voce più bassa, muovendo le spalle con disagio. Si fermò, poi riprese a parlare a ruota libera con un flebile bisbiglio. «Sono figli di streghe e il loro padre è Satana l'ubriaco. Figli di streghe. Figli di streghe» . Dopo un attimo di silenzio, chiese a bruciapelo, con voce più ferma: «Quanti uomini bianchi ci sono qui, o astuto?»  

  «Qui ve ne sono due. Due uomini bianchi che lotteranno uno contro l'altro» , rispose prontamente Babalatchi. 

  «E quanti ne rimarrebbero ancora? Quanti? Dimmi, tu che sei saggio» . 

  «La rovina di un nemico è la consolazione dello sfortunato» , disse Babalatchi, con aria saccente. «Essi sono su tutti i mari; solo il sapere dell'Altissimo conosce il loro numero - ma tu saprai che alcuni di essi soffrono» . 

  «Dimmi, Babalatchi, moriranno? Moriranno entrambi?» , chiese Omar, tutt'a un tratto agitato. 

  Aissa fece una mossa. Babalatchi alzò una mano per metterla in guardia. 

  «Essi morranno sicuramente» , disse con voce ferma, fissando la ragazza con occhio risoluto. 

  «Ay wa! Ma che muoiano presto! Così potrò passare la mano sul loro viso quando Allah li avrà irrigiditi» . 

  «Se tale è il loro destino e il vostro» , rispose Babalatchi, senza esitare. «Dio è grande!» . 

  Un violento attacco di tosse fece piegare in due Omar che si dondolò avanti e indietro annaspando e gemendo mentre Babalatchi e la ragazza lo fissavano in silenzio. Poi si appoggiò di nuovo all'albero, sfinito. 

  «Sono solo, sono solo» , si lamentò con un filo di voce, brancolando con mani tremanti. «Non c'è nessuno con me? Non c'è nessuno? Ho paura di questo strano posto» . 

 «Ci sono io al vostro fianco, o condottiero dei valorosi» , disse Babalatchi, toccandogli leggermente la spalla. «Sempre al vostro fianco come nei giorni in cui entrambi eravamo giovani: come ai tempi in cui avevamo le armi in pugno» . 

  «È veramente esistito quel tempo, Babalatchi?» , disse Omar furibondo. «Non ricordo più. E ora quando morrò non vi sarà nessun uomo, nessun uomo intrepido che racconterà del valore di suo padre. C'era una donna! Una donna! Ed ella mi ha abbandonato per un cane infedele. La mano del Misericordioso è pesante sulla mia testa! Oh, che sventura! Oh, che vergogna!» . 

  Dopo un po' si tranquillizzò e chiese, calmo: 

  «È tramontato il sole, Babalatchi?»  

  «Ora tocca l'albero più alto che possa vedere da qui» , rispose Babalatchi. 

  «È l'ora della preghiera» , disse Omar, cercando di tirarsi su. 

  Babalatchi aiutò rispettosamente il suo vecchio capo ad alzarsi e insieme si incamminarono lentamente verso la capanna. Omar aspettò fuori, mentre Babalatchi entrò per poi uscire subito, trascinandosi dietro il vecchio tappeto arabo da preghiera. Da una brocca di bronzo versò dell'acqua per le abluzioni sulle mani protese di Omar e lo aiutò con premura ad inginocchiarsi, giacché il venerabile predone era troppo infermo per poter restare in piedi. Poi, quando Omar intonò le prime parole e fece il primo inchino verso la Città Santa, Babalatchi, senza il minimo rumore, si avviò verso Aissa, che per tutto il tempo non si era mossa. 

  Aissa guardò con fermezza il saggio guercio, che le si avvicinava lentamente facendo sfoggio di grande deferenza. Per un attimo rimasero in silenzio l'uno di fronte all'altra. Babalatchi sembrava imbarazzato. Di colpo ella lo afferrò per il braccio con una mossa rapida mentre con l'altra mano indicò il disco rosso che tramontava risplendendo senza raggi nella foschia fluttuante della sera. 

  «Il terzo tramonto! L'ultimo! Ed egli non è qui» , sussurrò; «che cosa hai fatto, uomo senza fede? che cosa hai fatto?»  

  «Non ho fatto altro che mantenere la mia parola» , disse sottovoce Babalatchi, con fare grave. «Stamattina Bulangi è andato con una piroga a cercarlo. È un uomo strano, ma nostro amico, e gli starà dietro, tenendolo d'occhio senza farsi accorgere. E alla terza ora del giorno ho mandato un'altra piroga con quattro vogatori. Veramente, l'uomo che desideri, o figlia di Omar! può venire quando vuole» . 

  «Ma egli non è qui! L'ho atteso ieri. Oggi! Domani andrò io» . 

  «Non da viva!» , borbottò fra sé Babalatchi. «Dubiti forse dei tuoi poteri» , continuò a voce più alta - «tu che per lui sei più bella di una uri del settimo cielo? Egli è il tuo schiavo» . 

  «Uno schiavo può anche scappare, a volte» , ella disse, cupamente, «e allora il padrone deve andare a cercarlo» 

  «E vuoi vivere e morire da mendicante?» , chiese Babalatchi, perdendo la pazienza. 

  «Non mi importa» , ella esclamò, torcendosi le mani; e le nere pupille dei suoi occhi sgranati guizzarono furiosamente di qua e di là, come procellarie prima della tempesta. 

  «Shh! Shh!» , sibilò Babalatchi, lanciando un'occhiata verso Omar. «Credi forse, ragazza, che egli vivrebbe come un mendicante, anche insieme a te?»  

  «Egli è grande» , disse lei con ardore. «Vi disprezza tutti! Vi disprezza tutti! Lui sì che è un uomo!» .  «Tu puoi saperlo meglio di chiunque altro» , borbottò Babalatchi, accennando un sorriso, «ma ricordati, donna dal cuore forte, che per tenerlo ora devi essere come il grande mare per un assetato - incessante tormento e pazzia» .  Tacque e rimasero in silenzio, entrambi con lo sguardo a terra, e per qualche minuto non si udì altro rumore al di sopra del crepitio del fuoco se non il salmodiare di Omar che glorificava Dio - il suo Dio, e la Fede - la sua Fede. Quindi, Babalatchi piegò la testa da un lato, ascoltando attentamente il brusio di voci nel cortile grande. Il rumore sordo crebbe fino a diventare delle grida distinte, quindi un gran tumulto di voci che si affievoliva, ricominciava, si faceva più forte, cessava bruscamente; e nelle brevi pause il vocìo stridulo delle donne si lanciava, come liberato, verso il cielo silenzioso. Aissa e Babalatchi fecero per muoversi, ma questi afferrò a sua volta la ragazza per un braccio e la bloccò con una presa possente. 

  «Aspetta» , le disse sottovoce. 

  La porticina della pesante palizzata che separava il terreno privato di Lakamba dal recinto di Omar si aprì violentemente e il nobile esiliato apparve con l'aria turbata e in mano una corta spada sguainata. Il suo turbante era per metà srotolato e l'estremità strisciava per terra dietro di lui. La giacca era sbottonata. Respirò affannosamente per un po' prima di parlare. 

  «È arrivato con la barca di Bulangi» , disse, «e camminava tranquillamente finché non è giunto in mia presenza, quando la furia irragionevole degli uomini bianchi lo ha spinto a saltarmi addosso. Ho corso un grave pericolo» , continuò l'ambizioso aristocratico con tono afflitto. «Hai capito, Babalatchi? Quel mangiatore di carne di maiale mi ha tirato un pugno in faccia con la sua mano immonda. Ha cercato di scagliarsi contro la mia famiglia. Sei uomini lo stanno tenendo» . 

  Un nuovo scoppio di grida interruppe il discorso di Lakamba. Voci infuriate gridarono: «Tenetelo. Buttatelo giù. Colpitelo alla testa» . Poi il clamore cessò di colpo e del tutto, come se fosse stato strangolato da una mano possente, e dopo un secondo di sorprendente silenzio si sentì solo la voce di Willems, che urlava imprecazioni in malese, olandese e inglese. 

  «Ascolta» , disse Lakamba, parlando con labbra tremanti, «sta bestemmiando contro il suo Dio. Grida come un cane rabbioso. Non possiamo tenerlo bloccato per sempre. Deve essere ucciso!» . 

  «Idiota!» , borbottò Babalatchi, guardando Aissa, che se ne stava a denti stretti, con gli occhi sfavillanti e le narici dilatate, obbedendo però al tocco della mano che la tratteneva. «È il terzo giorno, e ho mantenuto la promessa» , le disse, parlando con voce molto bassa. «Ricordati» , la avvertì, «come il mare per l'assetato! E ora» , le disse a voce alta, lasciandole il braccio e facendo un passo indietro, «va', figlia temeraria, va'!» . 

  Rapida e silenziosa come una saetta, ella si precipitò giù per lo spiazzo, scomparendo attraverso il cancello del cortile. Lakamba e Babalatchi la seguirono con lo sguardo. Udirono il rinnovato tumulto, la voce chiara della ragazza che gridava: «Lasciatelo!» . Poi, dopo una pausa nel frastuono che non durò più a lungo di un respiro umano, il nome di Aissa risuonò in un alto grido, stridente e penetrante, che li fece inconsciamente rabbrividire. Il vecchio Omar crollò sul tappeto gemendo flebilmente; Lakamba fissò uno sguardo di cupo disprezzo in direzione del suono disumano; ma Babalatchi, forzandosi a sorridere, sospinse il suo illustre protettore attraverso l'angusto cancello della palizzata e lo seguì, dopo averlo richiuso rapidamente. 

  La vecchia, che se ne era stata inginocchiata tutto il tempo accanto al fuoco, ora si alzò, si guardò intorno timorosa e si rannicchiò, nascondendosi dietro l'albero. Il cancello del cortile grande si spalancò, sbattendo per effetto di un calcio tremendo, e Willems entrò di corsa con Aissa in braccio. Si precipitò attraverso il recinto come un uragano, stringendosi al petto la ragazza che, con le braccia strette intorno al suo collo, teneva la testa appoggiata indietro sul suo braccio, gli occhi chiusi e i lunghi capelli che quasi toccavano in terra. Per un attimo apparirono nel bagliore del fuoco, poi, con immense falcate, egli si precipitò su per le tavole e sparì con il suo fardello attraverso la porta della grande casa. 

Dentro e fuori il recinto si era fatto silenzio. Omar si sollevò sul gomito, e il viso terrorizzato con gli occhi chiusi gli conferiva l'aspetto di un uomo perseguitato da un incubo. 

  «Che cos'è? Aiuto! Aiutatemi ad alzarmi!» , chiamò con un filo di voce. 

  La vecchia megera, ancora rannicchiata nell'ombra, fissò con gli occhi velati la porta della grande casa senza prestare ascolto alle sue invocazioni. Egli rimase per un po' in attesa, poi il suo braccio cedette e, con un profondo sospiro, scoraggiato, si lasciò cadere sul tappeto. 

  Le fronde dell'albero si piegavano e tremavano nelle correnti incerte del vento leggero. Una foglia cadde fluttuando lentamente da uno dei rami superiori e si posò sul terreno, immobile, come se riposasse per sempre al bagliore del fuoco; ma ben presto si mosse, quindi si levò tutt'a un tratto e volò via, avvitandosi e rigirandosi davanti al soffio della brezza profumata, sospinta senza poter opporre resistenza nella notte buia che aveva avvolto la terra. 

    

CAPITOLO TERZO 

Dopo che Lingard se ne fu andato la solitudine e il silenzio si strinsero attorno a Willems: la crudele solitudine di chi è stato abbandonato dagli uomini; quel silenzio carico di rimprovero che circonda il reietto scacciato dalla propria specie, quel silenzio mai rotto dal più tenue mormorio di speranza; un immenso e impenetrabile silenzio che inghiotte senza eco il borbottio dei rimpianti e il grido di rivolta. La quiete amara delle radure abbandonate penetrò nel suo cuore, in cui ora non poteva vivere altro che il ricordo e l'odio del suo passato. Non il rimorso. Non poteva esservi posto per un sentimento come il rimorso nel petto di un uomo posseduto dalla prepotente coscienza della propria individualità con tutti i suoi desideri e i suoi diritti; dall'incrollabile convinzione della propria importanza, di un'importanza così indiscutibile e definitiva da rivestire della dignità di un destino inevitabile tutte le speranze, le imprese, gli errori.  Passarono i giorni. Passarono inavvertiti, inosservati, nel rapido splendore delle fulgide albe, nel breve bagliore dei tramonti delicati, nel peso opprimente dei mezzodì sgombri di nubi. Quanti giorni? Due - tre - o più? Non lo sapeva. Per lui, da quando Lingard se ne era andato, il tempo pareva scorrere in una tenebra profonda. Tutto era notte dentro di lui. Tutto era scomparso alla sua vista. Si aggirava ciecamente nei cortili abbandonati, tra le case deserte che, appollaiate in alto sulle loro palafitte, guardavano giù verso di lui, un forestiero bianco, un uomo di altre terre; sembravano fissarlo ostili e mute con tutti i ricordi della vita di chi vi aveva vissuto trattenuti tra i loro muri fatiscenti. I suoi piedi errabondi inciampavano nei tizzoni anneriti di falò ormai spenti, sollevando una leggera polvere nera di ceneri fredde che volavano via in nubi alla deriva per posarsi sottovento sull'erba fresca che spuntava dalla dura terra tra gli alberi ombrosi. Camminava, camminava; senza posa, instancabile, in cerchi sempre più larghi, in sentieri a zig zag che non portavano da nessuna parte; procedeva a fatica con un viso teso, stravolto, dietro cui, nel cervello esausto, ribollivano i suoi pensieri: inquieti, torvi, aggrovigliati, agghiaccianti, orribili e velenosi come un nido di serpi.  Da lontano, gli occhi velati della vecchia serva e lo sguardo cupo di Aissa seguivano la figura macilenta e barcollante nel suo incessante aggirarsi lungo la recinzione, tra le case, in mezzo al selvaggio rigoglio dei boschetti lungo la riva. Quei tre esseri umani abbandonati da tutti erano come naufraghi lasciati dal ritirarsi delle acque di un mare infuriato nel pieno di una tempesta... di disperazione su uno scoglio malsicuro e scivoloso dove si ode il suo lontano muggito, vivendo nell'angosciosa attesa che ritorni e nel disperato orrore per la propria solitudine. La forza dell'uragano aveva gettato lì due di essi, privati di tutto: anche della rassegnazione. La terza, la decrepita testimone della loro lotta e del loro tormento, accettava la propria sfocata visione delle cose; del vigore e della gioventù perduti; della propria vecchiaia inutile; dell'ultima servitù; dell'essere stata gettata via dal suo capo, dai suoi cari, per sprecare quel poco che era rimasto della sua vita prossima a spegnersi tra quei due reietti torvi e incomprensibili: la raggrinzita, impassibile, inerte compagna della loro rovina. 

  Verso il fiume Willems volgeva gli occhi come un prigioniero che guarda fissamente la porta della cella. Se una qualche speranza c'era al mondo sarebbe venuta dal fiume, con il fiume. Per ore e ore se ne stava sotto il sole mentre la brezza marina, spazzando i tratti deserti, sferzava i suoi vestiti logori; la fresca brezza salmastra che, di quando in quando, lo faceva rabbrividire nel flusso di calore intenso. Scrutava la solitudine marrone e scintillante dell'acqua fluente, dell'acqua che scorreva incessante e libera con un leggero, fresco mormorio di increspature ai suoi piedi. Il mondo sembrava finire lì. Le foreste sull'altra riva sembravano irraggiungibili, enigmatiche, oltre la sua portata per sempre come le stelle del cielo - e altrettanto indifferenti. A monte e a valle, le foreste sul proprio lato del fiume arrivavano fino all'acqua in una compatta moltitudine di immensi e alti alberi svettanti, con una grande distesa di rami intrecciati al di sopra del fitto sottobosco; alberi grandi, solidi, con un'aria scura, severa, e malignamente 

imperturbabile, come una gigantesca folla di nemici spietati che si stringevano attorno a lui in silenzio per assistere alla sua lenta agonia. Era solo, piccolo, schiacciato. Pensava alla fuga - a cosa poter fare. Che cosa? Una zattera! Vide se stesso lavorarci febbrilmente, disperatamente; abbattere alberi, legare insieme i tronchi e poi andare giù per il fiume portato dalla corrente, giù verso il mare fino agli stretti. Vi erano navi laggiù - navi, aiuto, uomini bianchi. Uomini come lui. Uomini buoni che lo avrebbero salvato, portato via, portato lontano dove c'erano traffici, case, altri uomini che lo avrebbero capito veramente, avrebbero apprezzato le sue capacità; dove c'era cibo decente e denaro; dove c'erano letti, coltelli, forchette, carrozze, bande musicali, bibite fresche, chiese con dentro gente ben vestita che pregava. Anche lui avrebbe pregato. La terra superiore di delizie sopraffine dove poteva sedersi su una sedia, pranzare con una tovaglia bianca, salutare col capo le persone - brave persone; sarebbe stato popolare; lo era sempre stato - dove poteva essere virtuoso, corretto, condurre affari, ricevere uno stipendio, fumare sigari, comprare cose nei negozi - avere degli stivali... essere felice, libero, diventare ricco. O Dio! Cosa ci voleva! Abbattere qualche albero. No! Uno sarebbe bastato. Aveva sentito che un tempo si facevano le piroghe svuotando col fuoco il tronco di un albero. Sì! Uno sarebbe bastato. Un albero da abbattere... Si precipitò in avanti e si bloccò di colpo, come inchiodato per terra. Aveva solo un temperino.  E si gettava per terra sul greto del fiume. Era stanco, sfinito; come se quella zattera fosse stata costruita, il viaggio concluso, la fortuna raggiunta. Uno sguardo vitreo velò gli occhi sbarrati, quegli occhi che fissavano senza speranza il fiume che andava ingrossandosi, dove, al centro della corrente, dei grandi tronchi e degli alberi sradicati andavano alla deriva nel riverbero: una lunga processione di punti neri e ispidi. Poteva raggiungere il centro del fiume a nuoto e lasciarsi trascinare su uno di quegli alberi. Qualsiasi cosa pur di fuggire! Qualsiasi cosa! Qualsiasi rischio! Poteva aggrapparsi tra i rami secchi. Era dilaniato dal desiderio, dalla paura; il suo cuore era straziato dal vacillare del suo coraggio. Si girò mettendosi a faccia in giù, la testa sulle braccia. Ebbe una terribile visione di orizzonti senza ombre dove il cielo azzurro e il mare azzurro si incontravano; oppure di un vuoto circolare e accecante dove un albero morto e un uomo morto andavano insieme alla deriva, per sempre, su e giù, sul brillante ondeggiare del mare degli stretti. Non vi erano navi, lì. Solo la morte. Ed era il fiume a portarvici. 

  Si alzò a sedere con un gemito profondo. 

  Sì, la morte. Perché doveva morire? No! Meglio la solitudine, meglio l'attesa senza speranza, da solo. Da solo. No! non era solo, vedeva la morte fissarlo da ogni dove; dai cespugli, dalle nuvole - la sentiva che gli parlava nel mormorio del fiume, riempiendo lo spazio, toccandogli con una mano gelida il cuore, il cervello. Non riusciva a vedere e pensare a nient'altro. La vedeva - la morte sicura - dappertutto. La vedeva così vicina che era sempre sul punto di tendere le braccia per tenerla lontana. Avvelenava tutto ciò che vedeva, tutto ciò che faceva; il cibo miserabile che mangiava, l'acqua fangosa che beveva; dava un aspetto spaventevole alle albe e ai tramonti, alla luminosità del soffocante mezzodì, alle ombre rinfrescanti delle sere. Vedeva quella figura orribile tra i grandi alberi, nella rete di rampicanti, nei fantastici contorni delle foglie, delle grandi foglie frastagliate che sembravano altrettante enormi mani dalle grandi, larghe palme, con dita rigide protese per afferrarlo; mani che fremevano dolcemente, o mani trattenute in una terrificante immobilità, in una quiete vigile, aspettando l'occasione per prenderlo, avvilupparlo, strangolarlo e stringerlo fino a farlo morire; mani che lo avrebbero tenuto stretto una volta morto, che non l'avrebbero mai lasciato andare, che sarebbero rimaste avvinghiate al suo corpo per sempre, finché non si fosse disfatto - scomparso nella loro spasmodica morsa tenace. 

  Eppure il mondo era pieno di vita. Tutte le cose, tutti gli uomini che conosceva, esistevano, si muovevano, respiravano; e li vedeva in lontananza, distanti, rimpiccioliti, netti, desiderabili, irraggiungibili, preziosi... perduti per sempre. Intorno a lui il folle tumultuare della vita tropicale procedeva incessantemente, senza un suono. Tutto questo sarebbe rimasto anche dopo la sua morte! Aveva voglia di afferrare, abbracciare cose solide; aveva un'immensa brama di sensazioni; di toccare, stringere, vedere, maneggiare, trattenere tutte queste cose. Tutto questo sarebbe rimasto - sarebbe rimasto per anni, per secoli, per sempre. Dopo che lui fosse morto miseramente in quel posto, tutto questo sarebbe rimasto, avrebbe vissuto, sarebbe esistito nella festosa luce del sole, avrebbe respirato nella freschezza delle notti serene. A che scopo, allora? Lui ormai sarebbe stato morto. Sarebbe stato disteso sull'umidità calda del terreno, senza sentire nulla, udire nulla, sapere nulla; sarebbe stato adagiato inerte, decomponendosi lentamente; mentre sopra di lui, sotto di lui, attraverso di lui - incontrastate, indaffarate, precipitose - le infinite e minuscole schiere di insetti, piccoli mostri lucidi dalle forme ripugnanti, con antenne, con zampette, con pinze, sarebbero sciamate a fiumi, a ondate, lottando accanitamente per il suo corpo; sarebbero sciamate innumerevoli, tenaci, feroci e avide - finché non fosse rimasto nient'altro che il riflesso bianco delle ossa calcinate nell'erba alta; tra quegli alti fili d'erba che avrebbero sospinto le loro esili punte attraverso le sue costole nude e lisce. Solo quello sarebbe rimasto di lui; nessuno avrebbe sentito la sua mancanza; nessuno si sarebbe ricordato di lui. 

  Sciocchezze! Non poteva essere. C'era il modo di cavarsela. Qualcuno doveva arrivare. Sarebbero venuti degli esseri umani. Avrebbe parlato, implorato - avrebbe usato la forza per estorcere il loro aiuto. Si sentiva forte; era fortissimo. Avrebbe... Lo sconforto, la convinzione della futilità delle sue speranze gli ritornava con un'acuta sensazione di dolore nel cuore. Ricominciava a vagare senza meta. Marciava fino ad essere sul punto di crollare, senza riuscire a lenire con la fatica fisica il travaglio dell'animo. Non vi era né riposo né pace entro quella radura che era la sua prigione. Non vi era altro sollievo che la nera liberazione del sonno, del sonno senza ricordi e senza sogni; del sonno che giungeva brutale e pesante, come il piombo che uccide. Dimenticare nel sonno che annulla; precipitare a testa in giù, come tramortito, dalla luce del sole nella notte dell'oblio era per lui l'unica, rara tregua da questa esistenza che non trovava il coraggio di sopportare - o soffocare. 

  Viveva, lottava contro il muto delirio dei suoi pensieri sotto gli occhi della taciturna Aissa. Ella partecipava al tormento di lui con il suo intenso stupore, il suo vivo desiderio, la sua disperata impossibilità a capire la ragione della sua collera e delle sue ripulse; l'odio dei suoi sguardi; il mistero del suo silenzio; la minaccia delle sue rare parole - di quelle parole nella lingua dei bianchi che le venivano scagliate contro con furia, con disprezzo, con l'evidente desiderio di ferirla; ferire lei che aveva dato se stessa, la propria vita - tutto ciò che aveva da dare - a quell'uomo bianco; ferire lei che aveva voluto mostrargli la via della vera grandezza, che aveva cercato di aiutarlo, nel suo sogno femminile di un affetto costante, duraturo e immutabile. Aveva conservato, dal breve contatto con i bianchi nel rovinoso crollo della sua vita precedente, un'immagine grandiosa di potenza irresistibile e forza spietata. Aveva trovato un uomo della loro razza - e con tutti i loro attributi. Tutti i bianchi sono uguali. Il cuore di quest'uomo, però, era pieno di rabbia contro la sua gente, pieno di una rabbia che viveva fianco a fianco con il desiderio di lei. E per lei aveva rappresentato un'inebriante speranza di grandi cose nata dalla orgogliosa e tenera consapevolezza del proprio ascendente. Di fronte alle sue esitazioni, alle sue resistenze e ai suoi compromessi aveva udito il fugace sussurro dello stupore e della paura; eppure, con la sua fede di donna nella durevole costanza dei cuori e nell'irresistibile fascino della propria persona, lo aveva incalzato, confidando ciecamente, fiduciosa nel futuro; sicura di ottenere, al suo fianco, ciò che aveva desiderato ardentemente dalla vita, se solo fosse riuscita a spingerlo fino a un punto senza ritorno. Ella non sapeva nulla, né poteva avere un'idea, dei suoi - così elevati - ideali. Ella credeva che quell'uomo fosse un guerriero e un capo, pronto a combattere, a usare la violenza, a tradire la sua gente - per lei. Cosa c'era di più naturale? Non era egli un uomo grande, forte? I due, circondati ciascuno dal muro impenetrabile delle loro aspirazioni, erano disperatamente soli, incapaci di vedersi, di sentirsi; ciascuno al centro di orizzonti dissimili e distanti; ciascuno su una terra diversa, sotto un diverso cielo. Ella riandava con la memoria alle sue parole, ai suoi occhi, alle sue labbra tremanti, le mani protese; ricordava la grande, immensa dolcezza della propria resa, l'inizio del proprio potere che sarebbe durato fino alla morte. Egli rivedeva i moli e i magazzini; l'eccitazione di una vita vissuta in un vortice di monete d'argento, la magnifica incertezza della caccia al denaro; i numerosi successi, le possibilità che aveva perduto di diventare ricco, insieme alla conseguente gloria. Ella, una donna, era vittima del proprio cuore, della certezza delle donne che al mondo non vi sia altro che l'amore - la cosa eterna. Egli era vittima dei propri strani principi, della propria continenza, della fede cieca in se stesso, della propria venerazione solenne per la voce della sua sconfinata ignoranza. 

  In un momento di indolenza, di incertezza e di sconforto, era venuta - quella creatura - e con un tocco della sua mano aveva distrutto il suo futuro, la sua dignità di uomo civile e intelligente; aveva ridestato nel suo petto quella cosa turpe che lo aveva spinto a ciò che aveva fatto, e a finire miseramente in quel luogo selvaggio, a essere dimenticato, oppure ricordato con odio o disprezzo. Non osava guardarla, perché adesso ogni volta che la guardava gli sembrava che il suo pensiero, come una mano protesa, toccasse il crimine stesso. Ella poteva solo guardarlo - e nient'altro. Cos'altro c'era? Lo seguiva con uno sguardo timoroso, con uno sguardo eternamente in attesa, paziente e implorante. E nei suoi occhi c'era lo stupore e la desolazione di un animale che conosce solo la sofferenza, dell'anima incompleta che conosce il dolore ma non conosce la speranza; che non può trovare alcun riparo dai fatti della vita nell'illusoria convinzione della propria dignità, di un destino glorioso nell'aldilà; nella consolazione celeste di una fede nell'origine memorabile del suo odio. 

  Per i primi tre giorni, dopo che Lingard se ne era andato, egli non le rivolse nemmeno la parola. Ella preferiva il silenzio di lui al suono di quelle odiose parole incomprensibili che ultimamente le rivolgeva con una violenza sfrenata che di colpo si trasformava in apatia completa. E durante quei tre giorni egli non si allontanò quasi mai dal fiume, come se presso quella riva fangosa si fosse sentito più vicino alla libertà. Rimaneva fino a tardi; rimaneva fino al tramonto; guardava il bagliore dorato sparire tra le nuvole scure con un'esplosione di rosso vivo, come un fiotto di sangue caldo. Gli sembrava infausto e spettrale, come se il presagio di una morte violenta gli facesse cenno da ogni dove - anche dal cielo. 

  Una sera rimase presso la riva del fiume molto dopo il tramonto, incurante della foschia notturna che era scesa tutt'attorno, avvolgendolo e aderendogli addosso come un sudario bagnato. Un leggero brivido lo riportò in sé e si incamminò su per il cortile verso la casa. Aissa si alzò davanti al fuoco che baluginava rossastro attraverso il fumo che si addensava, sospeso sotto le fronde del grande albero. Ella gli si avvicinò di lato mentre stava per giungere al tavolato che portava alla casa. Egli la vide fermarsi per farlo passare avanti. Nell'oscurità la figura di lei era come l'ombra di una donna con le mani giunte, protese, imploranti. Egli si fermò - non poté fare a meno di lanciarle uno sguardo. In tutta la malinconica grazia della diritta figura di lei le sue membra, i lineamenti - tutto era confuso e vago nella pallida luce delle stelle, eccetto lo sfavillio degli occhi. Egli volse la testa dall'altra parte e proseguì. Poteva udire i passi di lei dietro di sé sulle tavole cedevoli, ma camminò fino in cima senza girare la testa. Sapeva che cosa voleva. Voleva entrare. Rabbrividì al pensiero di che cosa sarebbe potuto accadere nell'impenetrabile oscurità di quella casa se si fossero trovati soli - anche solo per un istante. Si fermò sulla soglia della porta e la sentì dire: 

  «Lasciami entrare. Perché questa rabbia? Perché questo silenzio?... Lascia che io vegli... al tuo fianco... Non ho forse io vegliato fedelmente? Ti è forse mai successo qualcosa quando hai chiuso gli occhi mentre io ti stavo vicino?... Ho atteso... Ho atteso il tuo sorriso, le tue parole... non posso attendere oltre... Guardami... parlami. C'è uno spirito malvagio dentro di te? Uno spirito malvagio che ha divorato il tuo coraggio e il tuo amore? Lascia che ti tocchi. Dimentica tutto... Tutto. Dimentica i cuori perfidi, le facce adirate... e ricorda soltanto il giorno in cui venni da te... da te! O cuore mio! O vita mia!» . 

  L'implorante tristezza della supplica riempì lo spazio con il tremolio dei suoi toni bassi, che portavano lacrime e tenerezza nella grande pace del mondo assopito. Attorno ad essi le foreste, le radure, il fiume, coperti dal velo silente della notte, sembrarono svegliarsi e ascoltare quella voce con una calma attenta. Dopo che il suono delle sue parole si fu spento in un sospiro soffocato, sembrava che stessero ancora in ascolto; e nulla si muoveva tra le ombre informi se non le innumerevoli lucciole che risplendevano in sciami cangianti, in coppie volteggianti, in puntini errabondi e solitari - come il luccichio di una polvere di stelle diffusa per l'aria. 

  Willems si voltò lentamente, riluttante, come se costretto con la forza. Ella aveva il volto nascosto tra le mani, ed egli guardò oltre il suo capo chino, verso lo splendore fosco della notte. Era una di quelle notti che danno un'impressione di enorme vastità, quando il cielo sembra più alto, quando i soffi passeggeri di tiepide brezze sembrano portare con sé deboli sussurri da oltre le stelle. L'aria era carica di un profumo dolce, di un profumo conturbante, penetrante e violento come l'impulso ad amare. Fissò gli occhi su quel grande luogo buio che odorava del soffio della vita, del mistero dell'esistenza, rigenerato, fecondo, indistruttibile; e provò paura per la propria solitudine, per la solitudine del proprio corpo, della propria anima, al cospetto di questa lotta incosciente e appassionata, di questa altezzosa noncuranza, di questo disegno spietato e misterioso, che perpetuava conflitti e morte lungo il corso dei secoli. Per la seconda volta nella sua vita, per un'improvvisa percezione del senso della sua esistenza, sentì il bisogno di lanciare un grido d'aiuto verso quella terra selvaggia, e per la seconda volta si rese conto di quanto vano fosse sperare di scalfire la sua indifferenza. Poteva invocare aiuto in qualsiasi direzione - e nessuno avrebbe risposto. Poteva tendere le mani, poteva chiedere aiuto, conforto, solidarietà, sollievo - e nessuno sarebbe venuto. Nessuno. Non c'era nessuno lì - al di fuori di quella donna. 

  Il suo cuore si commosse, mosso a compassione per il proprio abbandono. La rabbia contro di lei, contro di lei che era la causa di tutte le sue sventure, svanì dinanzi al suo estremo bisogno di una qualunque consolazione. Forse - se doveva rassegnarsi al proprio destino - ella avrebbe potuto aiutarlo a dimenticare. Dimenticare! Per un momento, in un impeto di disperazione così profondo che sembrò l'inizio della pace, progettò di discendere volontariamente dal suo piedistallo, gettar via la sua superiorità, tutte le speranze, le ambizioni di una volta, l'ingrata civiltà. Per un momento, l'oblio nelle braccia di lei sembrò possibile; e, attratto da quella possibilità, l'apparenza di un novello desiderio si impadronì del suo petto con un'esplosione di temerario spregio per tutto ciò che era al di fuori di sé - con un selvaggio disdegno per il cielo e la terra. Disse a se stesso che non si sarebbe pentito. La punizione per il suo unico peccato era troppo pesante. Non vi era pietà sotto il cielo. Né la voleva. Disperato, si disse che se avesse potuto ritrovare con lei la follia del passato, quello strano delirio che lo aveva trasformato, che era stata la causa della sua rovina, sarebbe stato pronto a pagarla con la dannazione eterna. Era inebriato dai sottili profumi della notte; era travolto dal provocante movimento della tiepida brezza; si fece prendere dall'esaltazione della solitudine, del silenzio, dei suoi ricordi davanti a quella figura che si offriva con devozione paziente e sottomessa; che veniva da lui in nome del passato, in nome di quei giorni in cui non poteva veder nulla, pensare a nulla, desiderare nulla - se non essere tra le sue braccia. 

  Improvvisamente la prese tra le braccia ed ella, stupita, gli si gettò al collo con un grido soffocato di gioia. Egli la prese tra le braccia e attese l'estasi, la follia, le sensazioni ricordate e perdute; e mentre ella singhiozzava teneramente sul suo petto egli la strinse e si sentì freddo, nauseato, stanco, esasperato per il suo fallimento - e finì per maledirsi. Ella si aggrappava a lui tremante con l'intensità della sua gioia e del suo amore. Egli la udì sussurrare - il viso nascosto sulla sua spalla - di passati dispiaceri, della felicità ventura che sarebbe durata in eterno; della sua fede incrollabile nell'amore di lui. Ella ci aveva sempre creduto. Sempre! Anche quando il volto di lui era girato dall'altra parte, nei giorni bui, quando la sua mente vagava nella sua terra, tra la sua gente. Ma ora che era tornata, la sua mente non si sarebbe più allontanata da lei. Egli avrebbe dimenticato le facce fredde e i cuori malvagi di quella gente crudele. Cosa c'era da ricordare? Nulla? Non era così?... 

  Egli ascoltò disperato il mormorio indistinto. Era rimasto rigido e immobile, stringendosela al petto con gesto meccanico mentre pensava che non vi era più niente per lui al mondo. Era stato depredato di tutto; depredato della passione, della libertà, dell'oblio, della consolazione. Ella, fuori di sé dalla gioia, continuava a parlare in fretta e a bassa voce d'amore, di luce, di pace, di lunghi anni... Egli guardava desolato al di sopra della testa di lei nella tenebra del cortile che si era fatta più fitta. E, d'un tratto, gli sembrò di fissare una cavità buia, un profondo buco nero pieno di putredine e di ossa bianche; una immensa e ineludibile tomba piena di marciume dove prima o poi, inevitabilmente, sarebbe dovuto cadere. 

  Al mattino uscì presto e per un po' rimase sulla porta ad ascoltare il respiro leggero dietro di lui - all'interno della casa. Ella dormiva. Egli non aveva chiuso occhio per tutta la notte. Cominciò a barcollare - e si appoggiò allo stipite della porta. Era esausto, sfinito; gli sembrava di essere a malapena vivo. Mentre guardava il mare compatto di nebbia ai suoi piedi, provò verso se stesso un orribile disgusto, che si tramutò ben presto in apatica indifferenza. Era come un'improvvisa e definitiva decrepitezza dei propri sensi, del proprio corpo, dei propri pensieri. In piedi, sulla piattaforma elevata, volse lo sguardo verso l'intera distesa di bassa nebbiolina notturna da cui spuntavano qui e là le esili punte di alte macchie di bambù e le chiome tondeggianti di alberi isolati, somiglianti a piccoli isolotti che emergevano neri e solidi da un mare spettrale e impalpabile. Sullo sfondo del debole chiarore del cielo a levante, la linea scura delle grandi foreste delimitava quel mare piatto di vapori bianchi che agli occhi appariva come una costa fantastica e irraggiungibile. 

  Guardò senza vedere nulla - pensando a sé. Davanti ai suoi occhi la luce del sole all'improvviso divampò, al di sopra della foresta, come un'esplosione. Non vide nulla. Poi, dopo un po', sussurrò con convinzione - parlando a se stesso a mezza voce, stordito da un pensiero inquietante: 

  «Sono un uomo perduto» . 

  Alzò la mano sopra la testa, con un gesto incurante e tragico, poi discese nella nebbia che gli si richiuse intorno, ondeggiando luccicante sotto il primo soffio della brezza mattutina. 

   

   

   

   

   

CAPITOLO QUARTO 

 

 

  Willems si incamminò pigramente verso il fiume, poi tornò sui suoi passi e, giunto all'albero, si lasciò cadere sul sedile all'ombra. Poteva udire, dall'altra parte dell'immenso tronco, muoversi la vecchia che, sospirando rumorosamente e borbottando tra sé, stava spezzando dei rami secchi mentre soffiava sul fuoco. Dopo un po' uno sbuffo di fumo fu sospinto fino al punto in cui era seduto. Gli fece venire fame, e quella sensazione fu come un nuovo oltraggio che si aggiungeva a un carico intollerabile di umiliazioni. Gli venne voglia di piangere. Si sentiva molto debole. Alzò il braccio magrissimo davanti agli occhi e rimase per un po' a guardare come tremava. Pelle e ossa, perdio! Quant'era magro!... Aveva avuto la febbre molto alta e ora si affliggeva piagnucolando perché Lingard, pur avendogli mandato del cibo - e che cibo, buon Dio: un po' di riso e pesce secco; certo non adatto per un bianco - non aveva mandato alcuna medicina. Pensava forse quel vecchio selvaggio che lui era come le bestie selvatiche che non si ammalano mai? Aveva bisogno di chinino. 

  Appoggiò la testa contro l'albero e chiuse gli occhi. Pensò confusamente che se avesse potuto mettere le mani su Lingard gli sarebbe piaciuto scuoiarlo vivo; ma era solo un pensiero vago, breve e fugace. Alla sua immaginazione, sfinita dalle ripetute prefigurazioni del suo destino, non era rimasta abbastanza forza per afferrare l'idea della vendetta. Non era indignato o ribelle. Era intimorito. Intimorito dall'immenso cataclisma della sua rovina. Come la maggior parte degli uomini, aveva portato solennemente dentro il suo petto l'universo intero, e la fine di tutte le cose, ormai vicina nella distruzione della propria personalità, lo riempiva di un terrore paralizzante. Tutto stava crollando. Batté convulsamente le palpebre, e gli sembrò che nella sua luminosità la luce stessa del mattino rivelasse l'idea di un qualche sinistro significato nascosto. Nella sua paura irragionevole cercò di nascondersi dentro se stesso. Tirò su i piedi, la testa incassata tra le spalle, le braccia strette intorno ai fianchi. Sotto l'enorme e alto albero, che svettava superbo al di sopra della foschia con un vigoroso aprirsi di alte fronde, con un impetuoso e irrequieto stormire delle sue innumerevoli foglie nella luce vivida del sole, egli se ne stava raggomitolato sul sedile senza muoversi: immobile, atterrito. 

  Lo sguardo di Willems spaziò per il terreno e si appuntò, poi, con fissità ebete, su una dozzina di grosse formiche che si infilavano intrepide in un ciuffo d'erba alta che, ai loro occhi, doveva apparire come una giungla buia e pericolosa. All'improvviso pensò: Deve esserci qualcosa di morto lì dentro. Un qualche insetto morto. Morte dappertutto! Chiuse di nuovo gli occhi in un accesso di dolore tremebondo. Morte dappertutto - ovunque uno guardasse. Non voleva vedere le formiche. Non voleva vedere niente e nessuno. Sedette nel buio in cui egli stesso si era immerso, pensando amaramente che per lui non vi era pace. Ora udiva delle voci... Illusione! Infelicità! Tormento! Chi sarebbe venuto? Chi gli avrebbe parlato? Che diritto aveva lui di sentire delle voci?... Eppure le udiva, deboli, dal fiume. Deboli, come se dette a grande distanza, giunsero le parole «Torniamo subito» ... Delirio e beffa! Chi sarebbe tornato! Nessuno mai ritorna! Solo la febbre ritorna. L'aveva addosso stamattina. Ecco cos'era... Udì, inaspettatamente, vicino a sé la vecchia che bofonchiava qualcosa. Era venuta dal suo stesso lato dell'albero. Egli aprì gli occhi e la vide dinanzi a sé, piegata all'indietro. In piedi, riparandosi gli occhi dal sole con la mano, guardava verso l'approdo. Poi scivolò via. Aveva visto - e si rimetteva a cucinare; una donna senza curiosità; che non si aspettava nulla; senza paure e senza speranze. 

  Era tornata dietro all'albero e ora Willems poteva vedere una figura umana sul sentiero che conduceva all'approdo. Gli sembrò che fosse una donna, vestita con una gonna rossa, con in braccio un pesante fardello; era un'apparizione inaspettata, familiare e allo stesso tempo strana. Imprecò tra i denti... Ci mancava solo questo! Vedere cose del genere in pieno giorno! Stava male - molto male... Si spaventò terribilmente per questo sintomo del suo disperato stato di salute. 

  Lo spavento durò un attimo e l'istante successivo gli fu chiaro che quella donna era reale; che stava venendo verso di lui; che era sua moglie! Mise i piedi per terra alla svelta, senza fare, però, alcun altro movimento. Spalancò gli occhi. Era così stupefatto che per un istante si dimenticò completamente di esistere. In testa aveva un'unica idea: Per quale ragione al mondo è venuta qui? 

  Joanna veniva su per il cortile con passi precipitosi e affrettati. In braccio portava il bambino, avvolto in una delle coperte bianche di Almayer che aveva strappato dal letto all'ultimo momento, prima di lasciare la casa. Sembrava stordita dal sole che la accecava; confusa da quei luoghi sconosciuti. Avanzava lanciando a destra e a sinistra occhiate veloci, aspettandosi di vedere da un momento all'altro il marito. Poi, giunta vicino all'albero, scorse all'improvviso una specie di cadavere giallo e rinsecchito, seduto rigidissimo su una panchina all'ombra, che la fissava con grandi occhi, quelli sì, vivi. Era suo marito. 

  Si fermò di colpo. Si fissarono l'un l'altra nel silenzio più assoluto, con occhi strabiliati, con occhi resi folli dai ricordi di cose lontane che sembravano perdute col passare del tempo. I loro sguardi si incrociarono, passarono oltre, e sembrarono scagliarsi contro di loro attraverso distanze fantastiche, quasi arrivassero diritte dall'Incredibile. 

  Guardandolo fisso ella si avvicinò e posò la coperta con il bambino sulla panchina. Il piccolo Louis, dopo aver urlato di terrore nelle tenebre del fiume quasi tutta la notte, dormiva ora profondamente e non si svegliò. Gli occhi di Willems seguirono sua moglie, girando lentamente la testa per seguirla. Egli accettò la sua presenza lì con una stanca acquiescenza verso la sua stupefacente improbabilità. Tutto era possibile. Perché era venuta? Ella faceva parte dello schema generale della sua sventura. Si aspettava quasi che gli si scagliasse contro, strappandogli i capelli e graffiandolo in faccia. Perché no? Poteva accadere di tutto! Con un senso esagerato della sua grande debolezza fisica, quasi quasi si preoccupò di un possibile attacco. In ogni caso, ella gli avrebbe gridato contro. Se la ricordava bene. Sapeva strillare. 

Credeva di essersene liberato per sempre. Forse, era venuta adesso per vedere la fine... 

 All'improvviso ella si girò e abbracciandolo si lasciò scivolare lentamente a terra. Egli rimase di stucco. Con la fronte contro le sue ginocchia ella singhiozzava in silenzio. Pieno di tristezza, guardò la testa di lei. Cosa stava facendo? Non aveva la forza di muoversi - di andarsene. La udì sussurrare qualcosa, e si chinò per sentire. Colse la parola «Perdonami» . 

  Era per questo che era venuta! Fino a lì! Sono strane le donne. Perdonare. No, lui no!... Ad un tratto gli balenò per il cervello un pensiero: Come è venuta? Con una barca. Barca! barca! 

  Gridò «Barca!»  e balzò in piedi, facendola cadere. Prima che ella avesse tempo di rialzarsi le si gettò sopra e cominciò a sollevarla per le spalle. Non aveva fatto in tempo a rimettersi in piedi che ella già lo stringeva stretto intorno al collo, coprendogli il viso, gli occhi, la bocca, il naso con baci disperati. Egli scansava la testa, scuotendole le braccia, cercando di tenerla lontana, di parlarle, di chiederle... Era venuta con una barca, barca, barca!... Lottarono, divincolandosi e girando in tondo. «Lasciami. Ascolta» , sbottò lui, cercando di staccarsi di dosso le sue mani. Questo incontro di legittimo amore e gioia sincera somigliava molto ad una colluttazione. Louis Willems dormiva placidamente sotto la coperta. 

  Willems riuscì finalmente a liberarsi e ad allontanarla, reggendola per le braccia. La guardò. Aveva un mezzo sospetto che fosse un sogno. Le tremavano le labbra; i suoi occhi roteavano, tornando sempre a fissarlo. La vide come era sempre stata, alla sua presenza. Sembrava stravolta, tremante, sul punto di piangere. Non gli dava fiducia. Egli gridò: 

  «Come sei venuta?» . 

  Ella rispose con parole precipitose, guardandolo intensamente: 

 «Con una grande piroga insieme a tre uomini. So tutto. Lingard non c'è. Sono venuta a salvarti. So... me l'ha detto Almayer» . 

 «Piroga! - Almayer - Menzogne. Ti ha detto - A te!» , balbettò Willems fuori di sé. «Perché a te? - Ti ha detto che cosa?» . 

  Non trovava le parole. Fissò la moglie, pensando impaurito che ella - stupida donna - era stata usata come strumento in un qualche tranello... in qualche complotto mortale. 

  Ella cominciò a piangere: 

 «Non guardarmi così, Peter. Che ho fatto? Sono venuta a implorare - a implorare - perdono... Salvarti - Lingard - pericolo» . 

 Egli cominciò a tremare per l'insofferenza, la speranza, la paura. Ella lo guardò e tra i singhiozzi disse, con un nuovo scoppio di dolore: 

  «Oh! Peter. Cosa c'è? - Sei malato?... Oh! sembri così malato...» . 

  Con uno scrollone violento la fece tacere, impaurita e meravigliata. 

  «Come osi! - Sto bene - benissimo... Dov'è questa barca? Mi vuoi finalmente dire dov'è questa barca? La barca, ti dico...» . 

  «Mi fai male» , disse ella con un gemito. 

  La lasciò andare e, controllando il proprio terrore, ella rimase tremante davanti a lui, fissandolo con strana intensità. Poi fece il gesto di venire avanti, ma egli alzò un dito e lei si trattenne con un lungo sospiro. Egli si calmò di colpo e la esaminò con distacco critico, con lo stesso sguardo di quando, ai vecchi tempi, aveva a che ridire sulle spese domestiche. Ella trovò una specie di timoroso piacere in questo repentino ritorno al passato, all'antica sottomissione.  Ora, apparentemente, egli sembrava padrone di sé e ascoltò la sua storia sconclusionata. Le sue parole parevano cadergli attorno con il fastidioso strepito di una grandinata assordante. Qui e là afferrava il senso; poi si perdeva immediatamente facendo un terribile sforzo per cavarne fuori una qualche comprensibile successione di eventi. C'era una barca. Una barca. Una grossa barca che all'occorrenza poteva portarlo fino al mare. Questo almeno era chiaro. L'aveva portata lei. Perché Almayer le aveva mentito a quel modo? Era un piano per attirarlo in un'imboscata? Meglio quello che una solitudine senza speranze. Ella aveva del denaro. Gli uomini erano pronti ad andare in qualsiasi posto... diceva. 

  La interruppe: 

  «Dove sono adesso?»  

 «Tra poco arrivano» , rispose lei, tra le lacrime. «Tra poco. Vi sono dei pali per le reti da queste parti - hanno detto. Verranno subito» . 

  Stava di nuovo parlando e singhiozzando allo stesso tempo. Voleva essere perdonata. Perdonata? Per che cosa? Ah! Quella scenata a Macassar. Come se avesse tempo per pensare a quello! Cosa poteva importargli di quello che ella aveva fatto mesi fa? Sembrava che egli si stesse dibattendo tra le insidie di sogni complicati in cui tutto era impossibile, ma naturale, in cui il passato assumeva l'aspetto del futuro e il presente gravava sul cuore - sembrava stringerlo per il collo come la mano di un nemico. E mentre ella implorava, supplicava, gli baciava le mani, gli piangeva sulla spalla, lo scongiurava in nome di Dio di perdonare, di dimenticare, di pronunziare la parola che bramava, di guardare il ragazzino, di credere alla sua pena e alla sua devozione - gli occhi di lui, con l'immobilità affascinata delle pupille sfavillanti, guardarono lontano, ben oltre di lei, oltre il fiume, oltre quella terra, attraverso i giorni, le settimane, i mesi; guardarono alla libertà, al futuro, al suo trionfo... alla grande possibilità di una strabiliante vendetta. 

  Provò un desiderio improvviso di danzare e gridare. Gridò: 

  «Dopo tutto, ci rivedremo ancora, capitano Lingard» . 

  «Oh, no! No!» , gridò ella a mani giunte. 

  La guardò meravigliato. Si era dimenticato che ella fosse lì, finché il prorompere del grido nei toni monotoni della sua implorazione, dal glorioso tumulto dei sogni lo riportò in quel cortile. 

  Faceva uno strano effetto vederla lì - vicino a lui. Egli provò quasi dell'affetto per lei. Dopo tutto, era arrivata appena in tempo. Poi pensò: Quell'altra. Devo andarmene senza scenate. Non si può mai sapere; potrebbe essere pericolosa!... E di colpo sentì di odiare Aissa con un odio immenso che sembrò soffocarlo. Disse alla moglie: 

  «Aspetta un momento» . 

  Ella, obbediente, sembrò inghiottire delle parole che volevano uscire. Egli mormorò: «Resta qui» , e scomparve dietro l'albero. 

  L'acqua nella pentola di ferro sul fuoco bolliva furiosamente, vomitando fiotti di vapore bianco che si mescolavano all'esile filo nero di fumo. La vecchia gli apparve come in una nebbia, accovacciata sui calcagni, impassibile e inverosimile. 

  Willems le si avvicinò e chiese: «Dov'è lei?» . La donna non alzò nemmeno la testa, ma rispose immmediatamente, quasi che si fosse aspettata da lungo tempo quella domanda. 

  «Mentre eri addormentato sotto l'albero, prima che arrivasse la piroga con quegli sconosciuti, ella ha lasciato la casa. L'ho vista guardarti e proseguire con una grande luce negli occhi. Una grande luce. Ed è andata verso il luogo dove il nostro capo Lakamba aveva i suoi alberi da frutto. Quando eravamo in molti qui. Molti, molti. Uomini con le armi al fianco. Molti... uomini. E discorsi... e canzoni...» . 

  Continuò a lungo in questo modo, farneticando a bassa voce tra sé e sé, anche dopo che Willems l'aveva lasciata. 

  Willems tornò da sua moglie. Le giunse molto vicino e scoprì che non aveva nulla da dire. Adesso tutte le sue facoltà erano concentrate sul desiderio di evitare Aissa. Ella poteva restare in quel boschetto tutta la mattina. Perché se ne erano andati quei furfanti di barcaioli? Provava una ripugnanza fisica all'idea di vederla. E da qualche parte, in fondo al cuore, vi era la paura di lei. Perché? Cosa poteva fare? Nulla al mondo poteva fermarlo adesso. Si sentiva forte, intrepido, spietato, e superiore a qualsiasi cosa. Voleva preservare davanti alla moglie la nobile purezza del suo carattere. Pensò: Ella non sa. Almayer non ha detto niente di Aissa. Ma se lo scopre, sono perduto. Se non fosse stato per il bambino avrei... libero da tutte e due... L'idea gli balenò per il cervello. Non lui! Sposato... Aveva giurato solennemente. No... il sacro vincolo... Guardando sua moglie, provò per la prima volta in vita sua qualcosa di simile al rimorso. Rimorso, che nasceva dall'idea che aveva di quale cosa enorme fosse un giuramento davanti all'altare... Ella non doveva scoprirlo... Ah, avere quella barca! Doveva correre dentro e prender la sua rivoltella. Non poteva pensare di affidarsi disarmato a quei bajow. Prenderla ora mentre ella non c'è. Ah, avere quella barca!... Non osava andare al fiume e chiamare ad alta voce. Pensò: Ella potrebbe udirmi... Vado a prendere... delle cartucce... poi sarà tutto pronto... nient'altro. No. 

  E mentre era immerso in profonde meditazioni, prima di riuscire a decidersi a correre verso la casa, Joanna lo implorò, aggrappata al suo braccio - implorò disperatamente, straziata dal dolore, perdendo ogni speranza allorché guardava il suo viso, che ai suoi occhi incarnava la rettitudine inesorabile, la severità virtuosa, la giustizia spietata. E implorava umilmente - piena d'imbarazzo dinanzi a lui, dinanzi all'aspetto impassibile dell'uomo che ella aveva offeso sfidando ogni legge umana e divina. Egli non udì nemmeno una parola di ciò che ella diceva, finché ella non alzò la voce per un'implorazione finale: 

  «...Non vedi che ti ho sempre amato? Mi hanno detto cose orribili sul tuo conto... La mia stessa madre! Mi hanno detto - che tu mi sei stato - che tu mi sei stato infedele, e io...»  

 «È una dannata menzogna!» , urlò Willems, rientrando per un momento in sé e ritrovando la sua legittima indignazione. 

  «Lo so! Lo so - Abbi pietà. - Pensa a quanto sono 

  stata infelice da quando te ne sei andato - Oh! Mi sarei strappata la lingua... Non crederò mai più a nessuno - guarda il bambino - Abbi pietà! - Non mi sono mai data pace finché non ho scoperto... Di' - una parola - una parola...» .  «Che diavolo vuoi?» , esclamò Willems, guardando verso il fiume. «Dov'è quella maledetta barca? Perché li hai lasciati andar via? Stupida!» . 

  «Oh, Peter! Io so che in cuor tuo mi hai perdonato - Sei così generoso - Voglio sentirtelo dire... Dimmelo - è così?»  

  «Sì! sì!» , disse Willems, con impazienza. «Ti perdono. Non fare la sciocca» . 

  «Non te ne andare. Non lasciarmi qui da sola. Dov'è il pericolo? Ho così paura... Sei solo qui? Sicuro?... 

Andiamo via!» . 

  «Ora ragioni» , disse Willems, che continuava a guardare ansiosamente verso il fiume.  Ella singhiozzò sottovoce, appoggiata al suo braccio. 

  «Lasciami andare» , disse lui. 

  Aveva visto le teste di tre uomini scorrere scivolando al di sopra del bordo della riva scoscesa. Poi, dove la riva digradava verso l'approdo, apparve una grossa piroga che lentamente si diresse verso terra. 

«Eccoli» , continuò bruscamente. «Devo prendere la rivoltella» . 

  Cominciò a correre verso la casa, ma gli sembrò di vedere qualcosa e girò su se stesso, tornando dalla moglie. Ella lo fissò, allarmata dall'improvvisa trasformazione sul suo viso. Sembrava sconvolto. Quando cominciò a parlare, balbettava un poco. 

  «Prendi il bambino. Vai alla barca e di' loro di nasconderla subito dove non è visibile, dietro i cespugli. Hai sentito? Presto! Io sarò lì in un momento. Sbrigati!» . 

  «Peter! Cosa c'è? Non ti lascio. C'è qualche pericolo in questo posto orribile» . 

  «Vuoi fare quello che ti dico?» , disse Willems, con un sussurro irritato. 

  «No! no! no! Non ti lascio. Non ti perderò di nuovo. Dimmi, cosa c'è?» . 

  Da dietro la casa si udì una voce fioca cantare. Willems scosse la moglie per le spalle. 

  «Fai come ti ho detto! Vai, subito!» . 

  Ella gli afferrò il braccio e vi si aggrappò disperatamente. Egli alzò gli occhi al cielo, come per chiamarlo a testimone dell'infernale stupidità di quella donna. La canzone si fece più forte, poi si arrestò di colpo, e Aissa apparve alla vista, camminando lentamente, con le mani piene di fiori. 

  Aveva svoltato l'angolo della casa, uscendo alla luce piena del sole, e la luce sembrò investirla con un torrente luminoso, tenero e carezzevole, quasi fosse attratto dalla radiosa felicità del suo viso. Si era vestita per un giorno di festa, per il giorno memorabile in cui egli era tornato da lei, in cui era tornato ad amarla con un amore che sarebbe durato per sempre. I raggi del sole del mattino erano riflessi dalla fibbia ovale della cintura ricamata che le stringeva il sarong di seta attorno alla vita. La bianca stoffa smagliante del corpetto era attraversata in diagonale dalla striscia gialla e argentea del suo scialle, e tra i neri capelli raccolti alti sulla piccola testa risplendevano le rotonde capocchie di spille d'oro in mezzo ai boccioli rossi e ai fiori bianchi a forma di stelle con i quali si era incoronata per stregare i suoi occhi; quegli occhi che da allora in poi non avrebbero dovuto veder null'altro al mondo che la sua immagine splendente. Si muoveva lentamente, chinando il viso sulla massa di bianco immacolato delle champakas e dei gelsomini che stringeva al seno, inebriandosi, trasognata, di dolci profumi e speranze ancora più dolci. 

  Apparentemente non si accorse di nulla, si fermò un momento ai piedi del tavolato che conduceva alla casa, poi, lasciando lì i suoi sandali di legno con i tacchi alti, salì il tavolato correndo agilmente; diritta, aggraziata, sinuosa e silenziosa, come se si fosse innalzata fino alla porta su delle ali invisibili. Willems spinse rudemente la moglie dietro l'albero, e prese rapidamente la decisione di correre verso la casa, afferrare la rivoltella e... Pensieri, dubbi, espedienti, sembravano ribollire nel suo cervello. In una visione fulminea si vide tramortire con un colpo tremendo quella donna adornata di fiori e legarla nella casa buia - una visione di cose fatte rapidamente con una fretta furiosa - per salvare il proprio prestigio, la propria superiorità - una cosa di un'importanza immensa... Non fece in tempo a muovere più di un passo che Joanna gli si lanciò dietro, gli afferrò il dorso della giacca sbrindellata, ne strappò un grosso pezzo, e immediatamente si avvinghiò con ambo le mani al colletto, riuscendo quasi a tirarlo giù a terra da dietro. Per quanto preso alla sprovvista, riuscì a tenersi in piedi. Da dietro, ella gli disse nell'orecchio, ansimando: 

  «Quella donna! Chi è quella donna? Ah! ecco di cosa stavano parlando quei barcaioli. Li sentivo... li sentivo... 

sentivo... nella notte. Parlavano di una donna. Non osavo capire. Non volevo chiedere... ascoltare... credere! Come potevo? Allora è vero. No. Di' di no... Chi è quella donna?» . 

  Egli barcollò, trascinandosi in avanti. Ella tirava dall'altra parte, finché il bottone non cedette ed egli si sfilò a metà la giacca e, girandosi su se stesso, rimase stranamente immobile. Il cuore sembrava battergli in gola. Si soffocò - cercò di parlare - non riuscì a trovare le parole. Pensò con furia: Le ucciderò tutte e due. 

  Per un secondo, nella grande limpidezza vivida del giorno, nel cortile non si mosse nulla. Soltanto giù, verso l'approdo, un albero waringan, fiammeggiante di grappoli di bacche rosse, era scosso dallo svolazzare di uccellini che riempivano l'intrico dei rami sovraccarichi con il febbrile battere delle loro penne. Di colpo lo stormo variegato si levò turbinando con un leggero frullare di ali e si disperse, fendendo la foschia illuminata dal sole con il profilo tagliente delle ali irrigidite. Apparvero Mahmat e uno dei suoi fratelli, con le lance in mano, provenienti dall'approdo per cercare i loro passeggeri. 

  Aissa, uscendo in quel momento con le mani libere dalla casa, scorse i due uomini armati. Per la sorpresa emise un piccolo grido, sparì dentro la casa e ricomparve in un baleno sulla porta con in mano la rivoltella di Willems. Per lei la presenza in quel posto di un qualsiasi uomo armato poteva avere solo un significato sinistro. Non vi era niente nel mondo esterno se non nemici. Ella e l'uomo che amava erano soli, con nulla attorno se non pericoli minacciosi. A lei non importava, perché se fosse venuta la morte, da qualsiasi mano, sarebbero morti insieme. 

  Volgendo intorno lo sguardo i suoi fieri occhi abbracciarono tutto il cortile. Ella notò che i due estranei avevano cessato di avanzare ed erano ora in piedi vicini l'uno all'altro appoggiati alle aste lucide delle loro armi. Il momento successivo vide Willems che, dandole le spalle, sembrava lottare con qualcuno sotto l'albero. Ella non riusciva a distinguere chiaramente e, senza esitare, corse giù per il tavolato gridando: «Arrivo!» . 

  Egli udì il suo grido e, con un inaspettato spintone ributtò la moglie sul sedile. Ella vi ricadde sopra e lui si liberò del tutto della giacca. Lei si coprì il volto con quello straccio sporco e lui le accostò le labbra al viso e chiese: 

  «Per l'ultima volta, vuoi prendere il bambino e andare?» . 

  Da dietro la sudicia rovina della parte superiore del suo indumento venne un gemito. Ella aveva mormorato qualcosa. Egli si piegò di più per sentire. Stava dicendo: 

  «Non vado. Ordina a quella donna di andarsene. Non posso guardarla in viso!» . 

  «Stupida!» . 

Sembrò avergliele sputate contro quelle parole, poi, decidendosi, si voltò di scatto fino a trovarsi di fronte Aissa. Ella stava venendo verso di loro lentamente, con uno sguardo di sconfinato stupore sul viso. Poi si fermò e fissò lui - che stava lì torvo, a torso nudo, senza cappello. 

  A pochi passi di distanza, Mahmat e suo fratello si scambiarono con calma, a bassa voce, brevi frasi concise... Questa era la forte figlia del sant'uomo che era morto. Il bianco è molto alto. Ci sarebbero tre donne e il bambino da prendere sulla barca, a parte quel bianco che ha il denaro... Il fratello tornò alla barca e Mahmat rimase a guardare. 

Stava come di guardia, con la lama a forma di foglia che scintillava sopra la sua testa. 

  Willems all'improvviso cominciò a parlare. 

  «Dammela» , disse, allungando la mano verso la rivoltella. 

  Aissa fece un passo indietro. Le sue labbra tremarono. Ella disse pianissimo: «La tua gente?» . 

  Egli fece un lieve cenno col capo. Ella scosse la testa pensosa, e alcuni delicati petali dei fiori che stavano appassendo tra i suoi capelli caddero come grosse gocce di cremisi e di bianco ai suoi piedi. 

  «Lo sapevi?» , sussurrò. 

  «No!» , disse Willems. «Hanno mandato a cercarmi» . 

  «Di' loro di andarsene. Sono maledetti. Cosa c'è tra loro e te - e te che nel tuo cuore porti la mia vita!» .  Willems non disse nulla. Se ne stava lì con gli occhi a terra ripetendo a se stesso: devo portarle via quella rivoltella, subito, subito. Non posso pensare di fidarmi di quegli uomini senza un'arma. Devo averla.  Dopo aver fissato in silenzio Joanna, che stava singhiozzando sommessamente, ella chiese: 

  «Chi è quella?»  

  «Mia moglie» , rispose Willems, senza alzare gli occhi. «Mia moglie, secondo la legge dei bianchi, che viene da Dio!» . 

  «La tua legge! Il tuo Dio!» , mormorò Aissa, sprezzante. 

  «Dammi quella rivoltella» , disse Willems, in tono perentorio. Egli non se la sentiva di affrontarla, di togliergliela con la forza. 

  Ella non gli diede retta e proseguì: 

  «La tua legge... o le tue menzogne? Cosa devo credere? Sono venuta - sono accorsa a difenderti quando ho visto quegli sconosciuti. Mi hai mentito con le labbra, con gli occhi. Cuore bugiardo!... Ah!» , ella aggiunse, dopo una pausa improvvisa. «Ella è la prima! Dovrò allora essere una schiava?»  

  «Puoi essere quello che vuoi» , disse Willems, brutalmente. «Me ne sto andando» . 

  Lo sguardo di lei si era appuntato sulla coperta, sotto cui aveva visto un leggero movimento. Vi si diresse con un lungo passo. Willems si volse a metà. Gli sembrava di avere le gambe di piombo. Si sentiva fiacco e così debole che, per un attimo, la paura di morire lì sul posto, prima di poter fuggire dal peccato e dal disastro, gli attraversò la mente in un'ondata di disperazione. 

  Ella sollevò un angolo della coperta e, quando vide il bambino addormentato fu scossa da un improvviso e rapido tremito, quasi che avesse visto qualcosa di indicibilmente orribile. Ella guardò Louis Willems con gli occhi sbarrati, con uno sguardo incredulo e terrorizzato. Poi, le dita si aprirono lentamente e un'ombra sembrò posarsi sul suo viso come se qualcosa di oscuro e fatale si fosse frapposto tra lei e la luce del sole. Rimase immobile guardando giù, come se avesse visto sul fondo di un abisso tenebroso la processione luttuosa dei suoi pensieri. 

  Willems non si era mosso. Tutte le sue facoltà erano concentrate sull'idea della propria liberazione. E fu solo allora che la certezza di essa lo investì con tale forza che gli parve di udire una voce fortissima gridargli nei cieli che era tutto finito, che tra cinque, dieci minuti, sarebbe entrato in un'altra esistenza; che tutto questo, la donna, la follia, il peccato, i rimpianti, tutto sarebbe scomparso, inghiottito dal passato, volatilizzato, dissolto in polvere, come fumo, come nubi passeggere - un nulla! Sì! Tutto sarebbe svanito nell'implacabile passato che avrebbe inghiottito tutto - anche il ricordo stesso della sua tentazione e della sua caduta. Nulla importava. Non gli importava di niente. Aveva dimenticato Aissa, sua moglie, Lingard, Hudig - tutti, nella fulminea visione del suo futuro pieno di speranze. 

  Dopo un po' udì Aissa dire: 

  «Un bambino! Un bambino! Cosa ho fatto per dover mandar giù questa sofferenza e questo dolore? E, pur essendoci un tuo figlio maschio e sua madre, tu mi hai detto che non vi era niente per te da ricordare nella terra da cui sei venuto! E io ho pensato che tu potessi essere mio. Ho pensato che sarei...» . 

  La sua voce finì in un mormorio rotto, e con essa, nel suo cuore, sembrò morire la più grande e più preziosa speranza della sua nuova vita. Ella aveva sperato che in futuro le fragili braccia di un bambino avrebbero unito le loro vite in un vincolo che nulla al mondo avrebbe potuto spezzare, un vincolo di affetto, di gratitudine, di tenero rispetto. Lei la prima - l'unica! Ma nell'istante in cui vide il figlio di quell'altra donna si sentì sospinta nel freddo, nelle tenebre, nel silenzio di una solitudine impenetrabile e immensa - lontanissima da lui, al di là della possibilità di qualsiasi speranza, in un infinito di torti senza riparazioni. 

  Ella si avvicinò di più a Joanna. Provava verso quella donna rabbia, invidia, gelosia. Dinanzi a lei si sentiva umiliata e infuriata. Afferrò la manica penzoloni della giacca in cui Joanna stava nascondendo il viso e la strappò dalle sue mani, esclamando ad alta voce: 

  «Fammi vedere il viso di colei al cui cospetto sono solo una serva e una schiava. Ya - wa! Ti vedo!» .  Il suo grido inatteso sembrò riempire lo spazio soleggiato delle radure, innalzarsi e disperdersi sulla terra al di sopra delle immobili cime degli alberi della foresta. Tacque di colpo, guardando Joanna con stupore e disprezzo.  «Una donna sirani!» , ella disse, lentamente, con un tono di meraviglia. 

Joanna si precipitò verso Willems - si strinse a lui strillando: «Difendimi, Peter! Difendimi da quella donna!» . 

  «Stai tranquilla. Non vi è alcun pericolo» , sussurrò Willems con voce aspra. 

  Aissa li guardò con disprezzo. «Dio è grande! Sono seduta nella polvere ai tuoi piedi» , ella esclamò beffarda, unendo le mani sopra la testa in un gesto di finta umiltà. «Davanti a te io non sono nulla» . Si voltò verso Willems furiosa, aprendo le braccia. «Come mi hai ridotta?» , gridò, «figlio bugiardo di una madre dannata! Come mi hai ridotta? La schiava di una schiava. Non parlare! Le tue parole sono peggio del veleno dei serpenti. Una donna sirani. Una donna di un popolo disprezzato da tutti» . 

  Indicò col dito Joanna e scoppiò a ridere. 

  «Falla smettere, Peter!» , gridò Joanna. «Quella selvaggia. Selvaggia! Selvaggia! Picchiala, Peter» . 

  Willems adocchiò la rivoltella che Aissa aveva poggiato sul sedile vicino al bambino. Si rivolse alla moglie in olandese senza muovere la testa. 

  «Afferra il bambino - e la mia rivoltella, lì. Vedi. Corri verso la barca. Io la terrò indietro. Ora è il momento» .  Aissa si avvicinò. Ella fissava Joanna, mentre, tra brevi scoppi di risa alterate, farneticava cercando di sganciare, fuori di sé, la fibbia della cintura. 

  «A lei! A lei - la madre di colui che parlerà della tua saggezza, del tuo coraggio. Tutto quanto a lei. Io non ho nulla. Nulla. Prendi, prendi» . 

  Si strappò di dosso la cintura e la gettò ai piedi di Joanna. Scagliò a terra violentemente i bracciali, le spille d'oro, i fiori; e i lunghi capelli, lasciati liberi, ricaddero sparsi sulle sue spalle, incorniciando entro il loro nero l'eccitazione selvaggia del suo volto. 

  «Scacciala, Peter. Scaccia quella selvaggia pagana» , insisteva Joanna. Ella sembrava aver perso completamente la testa. Batté i piedi, tenendo stretto il braccio di Willems con entrambe le mani. 

  «Guarda» , disse Aissa. «Guarda la madre di tuo figlio! Ha paura. Perché non sparisce dalla mia vista? 

Guardala. È brutta» . 

  Joanna sembrò capire il tono sprezzante di quelle parole. Mentre Aissa indietreggiava di nuovo verso l'albero, ella lasciò andare il braccio di suo marito, le si lanciò contro furiosamente, la schiaffeggiò, poi, girando su se stessa, balzò verso il figlio che, senza che nessuno se ne accorgesse, da un po' stava piagnucolando e, afferratolo, si precipitò verso la riva, alzando un grido dopo l'altro in un accesso di terrore folle. 

  Willems si gettò sulla rivoltella. Aissa lo precedette fulminea, dandogli una spinta inaspettata che lo mandò a finire contro l'albero. Ella afferrò l'arma, la nascose dietro la schiena e gridò: 

  «Non l'avrai. Vai con lei. Vai incontro al pericolo... Vai incontro alla morte... Vai disarmato... Vai con mani vuote e parole dolci... come sei venuto da me... Vai indifeso a mentire alle foreste, al mare... alla morte che ti aspetta...» 

  Tacque, come soffocata. Vide davanti a lei, nell'orrore dei secondi che passavano, l'uomo seminudo, stralunato; udì il debole suono stridulo delle urla impazzite di Joanna da qualche parte vicino alla riva. La luce del sole si riversava su di lei e su di lui, sulla terra muta, sul fiume sussurrante - il delicato splendore di una mattina radiosa che, per lei, sembrava attraversata da sinistri lampi di incerte tenebre. L'odio riempiva il mondo, riempiva lo spazio tra loro due - l'odio di razza, l'odio della diversità senza speranze, l'odio del sangue; l'odio contro l'uomo nato nella terra delle menzogne e del male da cui null'altro che sventure vengono a quelli che non sono bianchi. E mentre ella stava lì furiosa udì un sussurrio vicino a lei, il sussurrio della voce del defunto Omar che le diceva all'orecchio: «Uccidi! Uccidi!» . 

  Ella gridò, vedendo che egli si muoveva: 

  «Non t'avvicinare... o morirai! Vattene, finché mi ricordo ancora... ricordo...» . 

  Willems si preparò ad affrontarla. Non osava andare disarmato. Fece un lungo passo e la vide alzare la rivoltella. Notò che non aveva alzato il cane e disse a se stesso che se anche avesse sparato l'avrebbe sicuramente mancato. Troppo in alto; era un grilletto molto duro. Fece un altro passo - vide la lunga canna muoversi malcerta alla fine del braccio disteso. Pensò: Questo è il momento buono... Piegò appena le ginocchia, gettandosi in avanti col corpo, e partì con un lungo balzo per gettarlesi sopra. 

  Vide una fiammata rossa esplodergli davanti agli occhi e fu assordato da una detonazione che gli sembrò più forte di un rombo di tuono. Qualcosa lo fermò di colpo e rimase in piedi, aspirando nelle narici l'odore acre del fumo azzurro che gli passava davanti agli occhi come un'immensa nube... Mancato, perdio!... Lo dicevo!... E vide lei, molto lontana, che alzava le braccia, mentre la rivoltella, piccolissima, era per terra tra loro due... Mancato!... Ora sarebbe andato a raccoglierla. Mai, come in quell'attimo, si era reso conto della gioia, della trionfante delizia della luce del sole e della vita. Aveva la bocca piena di qualcosa di salato e caldo. Cercò di tossire; sputò... Chi strilla: In nome del Signore, muore! - muore! - Chi muore? - Devo raccoglierla - Notte! - Cosa?... Già notte... 

   

  * * * * * 

   

  Molti anni dopo Almayer stava raccontando a un visitatore capitato per caso dall'Europa la storia della grande rivoluzione a Sambir. Era un romeno, metà naturalista e metà in cerca di orchidee per fini commerciali, il quale era solito dichiarare a tutti, nei primi cinque minuti di conoscenza, la sua intenzione di scrivere un libro scientifico sui paesi tropicali. Sulla via verso l'interno si era fermato da Almayer. Era un uomo di una certa educazione, ma il suo gin lo beveva liscio, o al più nell'alcool puro poteva strizzare il succo di un mezzo limone. Diceva che faceva bene alla salute e, con davanti a sé quella medicina, descriveva allo stupefatto Almayer le meraviglie delle capitali europee; mentre Almayer, in cambio, lo annoiava illustrandogli con compiacimento l'opinione negativa che aveva della vita sociale e politica di Sambir. Parlavano fino a notte fonda, intorno al tavolo d'abete sulla veranda, mentre tutt'attorno dei piccoli insetti molli, dalle ali trasparenti, insoddisfatti del chiarore della luna, accorrevano a morire a migliaia intorno alla luce fumosa della lampada maleodorante. 

  Almayer, rubizzo in volto, stava dicendo: 

  «Ovviamente io non l'ho visto. Vi ho detto che ero incagliato in quel canale a causa dell'umore suscettibile di mio padre - del capitano Lingard. Sono sicuro di averlo fatto con le migliori intenzioni quando ho cercato di facilitare la fuga di quel tizio; ma il capitano Lingard era una di quelle persone - sapete - con cui non si poteva discutere. Poco prima del tramonto l'acqua era abbastanza alta e uscimmo dal canale. Arrivammo alla radura di Lakamba quando era già buio. Era tutto molto tranquillo; ovviamente pensavo che fossero andati via, e ne ero molto contento. Attraversammo il cortile - proprio al centro vedemmo un grosso mucchio di qualcosa. Da questo mucchio si alzò lei e ci si scagliò contro. Perdio... Sapete quelle storie di cani fedeli che fanno la guardia alle salme dei padroni... non lasciano che nessuno si avvicini... bisogna picchiarli per scacciarli - e cose di quel genere... Ebbene, parola mia, dovemmo picchiarla per scacciarla. Fummo costretti! Era una furia. Non voleva che lo toccassimo. Morto - naturalmente. Lo credo bene. Trapassato il polmone, sul lato sinistro, verso l'alto, e pure da molto vicino, perché i due fori erano piccoli. La pallottola era uscita attraverso la scapola. Dopo che l'avemmo sopraffatta - non potete immaginare quanto fosse forte quella donna; ce ne vollero tre di noi - portammo il corpo sulla barca e andammo via. Credevamo che fosse svenuta, ma si tirò su e si gettò nell'acqua per inseguirci. Insomma, l'ho fatta salire. Cos'altro potevo fare? Il fiume è pieno di alligatori. Finché vivrò non dimenticherò mai quella traversata notturna risalendo la corrente. Lei se ne stava seduta sul fondo della barca, con la testa di lui in grembo, e di tanto in tanto gli puliva il viso con i propri capelli. Intorno alla bocca e al mento c'era tantissimo sangue essiccato. E per tutte e sei le ore di quel viaggio continuò a bisbigliare teneramente a quel cadavere!... Avevo con me il secondo ufficiale della goletta. In seguito disse che non l'avrebbe rifatto - nemmeno per una manciata di diamanti. E io gli credo - eccome. Mi fa venire i brividi. Voi pensate che sentisse? No! Voglio dire qualcuno - qualcosa - sentiva?...» . 

  «Io sono un materialista» , dichiarò l'uomo di scienza, inclinando con mano tremante la bottiglia sul bicchiere svuotato. 

  Almayer scosse la testa e continuò: 

  «Nessuno ha visto come è successo veramente se non quell'uomo, Mahmat. Ha sempre detto che non era distante da loro più di due volte la lunghezza della sua lancia. Pare che le due donne lottarono tra di loro con quel Willems in mezzo. Poi, Mahmat dice che quando Joanna la colpì e corse via, gli altri due sembrarono essere improvvisamente impazziti. Correvano di qua e di là. Mahmat dice - queste sono le sue parole: «L'ho vista tenere la pistola che fa fuoco molte volte e puntarla per tutto il campong. Avevo paura che mi sparasse e saltai da una parte. Poi ho visto l'uomo bianco gettarlesi addosso fulmineo. Si gettò come nostra signora la tigre quando sbuca dalla giungla e si getta addosso alle lance impugnate dagli uomini. Non prese la mira. La canna dell'arma andava così - da una parte all'altra, ma nei suoi occhi d'un tratto vidi una grande paura. Vi fu un solo colpo. Ella diede un urlo mentre l'uomo bianco stava diritto in piedi sbattendo le palpebre, quanto ci vuole per contare lentamente uno, due, tre; poi tossì e cadde col viso in terra. La figlia di Omar urlò senza riprendere fiato finché egli non cadde. Io allora andai via e dietro di me lasciai il silenzio. Queste cose non mi riguardavano e nella mia barca vi era quell'altra donna che mi aveva promesso del denaro. Ci allontanammo immediatamente, senza dar retta alle sua grida. Non siamo altro che povera gente - e non abbiamo avuto altro che una modesta ricompensa per la nostra fatica!» . Questo è quello che disse Mahmat. Ha sempre ripetuto la stessa storia. Chiedeteglielo voi stesso. È l'uomo da cui avete affittato le barche per il vostro viaggio su per il fiume» . 

  «Il ladrone più rapace che abbia mai incontrato!» , esclamò il viaggiatore, con voce impastata. 

  «Ah! È un uomo rispettabile. I suoi due fratelli si sono fatti uccidere a colpi di lancia - gli sta bene. Si sono messi a depredare le tombe dei Daiachi. Ci sono monili d'oro, sapete. Gli sta bene. Ma lui si è mantenuto rispettabile e gli è andata bene. Eh già! A tutti è andata bene - tranne che a me. E tutto per colpa di quella canaglia che ha portato qui gli arabi» . 

  «De mortuis nil ni... num» , borbottò l'ospite di Almayer. 

  «Preferirei che parlaste inglese invece di farfugliare nella vostra lingua, che nessuno capisce» , disse Almayer, risentito. 

  «Non arrabbiatevi» , disse l'altro con un singhiozzo. «È latino, ed è saggio. Significa: Non sprecate il fiato ad ingiuriare le ombre. Senza offesa. Mi piacete. Avete un conto in sospeso con la Provvidenza - e anch'io. Avrei dovuto essere un professore, e invece - guardate» . 

  Scosse la testa. Se ne stava seduto tenendo stretto il bicchiere. Almayer camminò avanti e indietro, poi di colpo si fermò. 

  «Sì, è andata bene a tutti tranne che a me. Perché? Io sono migliore di tutti loro. Lakamba si fa chiamare sultano, e quando vado a parlargli per affari manda quel demonio guercio - Babalatchi - a dirmi che il sovrano sta dormendo; e dormirà a lungo. E quel Babalatchi! È lo shahbandar dello Stato - figuratevi. Mio Dio! Shahbandar! Quel maiale! Un vagabondo che quando venne qui la prima volta non ho fatto nemmeno entrare in casa... Guardate Abdullah adesso. Vive qui perché - dice - qui è lontano dagli uomini bianchi. Ma ha soldi a palate. Ha una casa a Pinang. Navi. Cosa non ha guadagnato portandomi via il commercio! Si è messo tutto in tasca; ha mandato tutto all'aria qui; ha spinto mio padre a diventare cercatore d'oro - poi in Europa, dove è scomparso. Immaginatevi un uomo come il capitano Lingard scomparire come se fosse un coolie qualunque. Dei miei amici hanno scritto a Londra per chiedere di lui. Nessuno ne ha mai sentito parlare laggiù! Vi immaginate! Mai sentito parlare del capitano Lingard!» . 

  Il dotto raccoglitore di orchidee sollevò il capo. 

  «Era un vecchio bu-caniere sen-sentimen-tale» , balbettò. «Mi sta simpatico. Anch'io sono sent-tale» . 

  Strizzò lentamente l'occhio ad Almayer, che rise. 

 «Sì! Vi ho detto della lapide. Sì! Altri centoventi dollari buttati. Vorrei averli adesso. La volle fare. E l'iscrizione. Ha! ha! ha! «Peter Willems, Liberato dal suo Nemico dalla Pietà di Dio» . Quale nemico - se non il medesimo capitano Lingard? E poi non significa niente. Era un grand'uomo - mio padre - ma strano per molte cose... Non l'avete vista la tomba? In cima a quella collina, laggiù, sull'altra riva del fiume. Bisogna che ve la mostri. Ci andremo» . 

  «Non io!» , disse l'altro. «Non mi interessa - il sole - troppo faticoso... A meno che non mi ci portiate voi» .  In effetti, ci fu portato qualche mese dopo, e la sua fu la seconda tomba di un bianco a Sambir; ma al momento era vivo, anche se alquanto ubriaco. All'improvviso chiese: 

  «E la donna?»  

  «Oh! Lingard, naturalmente, sistemò lei e quel bruttissimo bambino a Macassar. Imperdonabile spreco di denaro - quello! Lo sa il diavolo che ne è stato di loro da quando mio padre è tornato a casa. Io avevo mia figlia a cui pensare. Avrò un messaggio da farvi portare alla signora Vinck a Singapore quando tornate indietro. Lì vedrete la mia 

Nina. Uomo fortunato. È bellissima, e mi dicono bene educata, quindi...»  

  «Ho già sentito venti... cento volte di vostra figlia. Che co-cosa ne è stato di-di-quell'altra, Ai-ssa?»    «Lei! Oh! l'abbiamo tenuta qui. Per lungo tempo è stata fuori di senno ma tranquilla. Mio padre si è preso molta cura di lei. Le ha dato una casa in cui vivere, nel mio campong. Vagava di qua e di là, senza parlare a nessuno, tranne che quando le capitava di vedere Abdullah, nel qual caso le veniva un accesso di rabbia e cominciava a strillare e inveire come non so che cosa. Spessissimo spariva - e allora dovevamo andare tutti a cercarla, perché mio padre stava in pena finché non la riportavamo indietro. La trovavamo nei posti più disparati. Una volta nel campong abbandonato di Lakamba. A volte semplicemente che vagava nella boscaglia. Aveva un punto preferito dove andavamo sempre come prima cosa. Dieci a uno la trovavamo lì - una specie di radura erbosa sulle sponde di un piccolo ruscello. Perché prediligesse quel posto, non riesco a immaginarlo! E che fatica portarla via di là. Bisognava trascinarla via a viva forza. Poi, col passare del tempo, divenne più tranquilla e più, diciamo, posata. Ma ancora, tutta la mia gente ne aveva molta paura. È stata la mia Nina che l'ha resa docile. Vedete, la bambina era per natura priva di paura e abituata ad averla vinta, così andava da lei, la tirava per il sarong e le dava ordini di ogni genere, come faceva con tutti. In verità, credo che abbia finito col voler bene alla bambina. Niente poteva opporsi a quella piccola - sapete. Divenne una bambinaia bravissima. Una volta quando la piccola diavola mi sfuggì di mano e cadde nel fiume dal pontile, fu lei a saltare in acqua e a tirarla fuori in men che non si dica. Io stavo per morire dallo spavento. Ovviamente adesso vive con le mie serve, ma fa quello che vuole. Fin quando in magazzino avrò un pugno di riso e un pezzo di cotone, non le mancherà nulla. L'avete vista. Ha portato la cena con Alì» . 

  «Cosa! Quella vecchia megera piegata in due?»  

  «Ah!» , disse Almayer. «Invecchiano in fretta qui. E lunghe notti nebbiose passate nella boscaglia spezzano ben presto anche le schiene più forti - come scoprirete ben presto anche voi» . 

  «Dis... disgustoso» , brontolò il viaggiatore. 

  Cadde appisolato. Almayer rimase in piedi presso la balaustra guardando lo splendore azzurrino della notte illuminata dalla luna. Le foreste, immutate e tetre, sembravano sospese sull'acqua ad ascoltare l'incessante mormorio del grande fiume; e al di sopra della muraglia scura si ergeva la collina su cui Lingard aveva sepolto il corpo del suo ex prigioniero, in una massa nera, arrotondata, contro il pallore argenteo del cielo. Almayer per un po' stette a guardare il profilo netto della sommità, come se cercasse di distinguere attraverso l'oscurità e la distanza la forma della costosa lapide. Quando infine si voltò vide il suo ospite addormentato, la testa sul tavolo, tra le braccia. 

  «Dico, sentite un po'!» , gridò, sbattendo la palma della mano sul tavolo. 

  Il naturalista si svegliò e, afflosciato sulla sedia, lo fissò. 

  «Sentite!» , continuò Almayer, parlando ad alta voce e sbattendo il pugno sul tavolo, «voglio sapere. Voi, che dite di aver letto tutti i libri, ditemi... perché sono permesse delle cose così infernali. Eccomi qui! Non ho fatto del male a nessuno, conducevo una vita onesta...e un furfante come quello nasce a Rotterdam o da qualche altra parte in qualche altro posto all'altro capo del mondo, viaggia fin qui, ruba al suo principale, abbandona la moglie e rovina me e la mia Nina - mi ha rovinato, vi dico - e infine si fa uccidere da una povera miserabile selvaggia che in fondo non sa niente di lui. Dov'è il senso di tutto questo? Dov'è questa vostra Provvidenza? Cosa ne viene di buono a qualcuno in tutto ciò? Il mondo è una truffa! Una truffa! Perché devo soffrire? Cosa ho fatto per essere trattato così?» . 

  Scagliò gridando la sua sfilza di domande e tacque di colpo. L'uomo che avrebbe dovuto essere un professore fece uno sforzo tremendo per pronunciare in modo comprensibile: 

  «Mio caro amico, non-non vedete che il sem-semplice fat- il fatto stesso della vostra esistenza è of-offensivo... 

Mi- Mi piacete-piacete...» . 

  Ricadde in avanti sul tavolo, e finì le sue osservazioni con un inaspettato e prolungato russare. 

  Almayer scrollò le spalle e tornò verso la balaustra. Beveva solo di rado il gin che vendeva, ma, quando lo faceva, una quantità risibile di quella roba bastava per indurlo ad assumere un atteggiamento ribelle verso lo schema dell'universo. E ora, sporgendosi col corpo oltre la ringhiera, gridò con impudenza nella notte, volgendo il viso verso quella lontana e invisibile lastra di granito importato su cui Lingard aveva ritenuto appropriato ricordare la pietà del Signore e la fuga di Willems. 

  «Mio padre aveva torto - torto!» , urlò. «Voglio che tu ne soffra. Devi soffrire per tutto questo! Dove sei, Willems? Eh?... Eh?... Dove non vi è alcuna pietà per te - spero!» . 

  «Spero» , ripeterono sbigottiti con il mormorio di un'eco le foreste, il fiume e le colline; e Almayer, che aspettava in piedi, con un sorriso di ebbra concentrazione sulle labbra, non udì altra risposta. 

   

   

   

  FINE