martedì 24 novembre 2020

FINITUDINE Telmo Pievani



Centre Hospitalier, Fontainebleau, 10 gennaio 1960 Il biologo dell’Istituto Pasteur, Jacques Monod, è accorso in ospedale per far visita all’amico scrittore Albert Camus, gravemente ferito in un incidente stradale. Camus, immobile ma lucido, fasciato in testa, dalla penombra gli aveva fatto cenno di esser pronto. Jacques Monod cominciò a leggere. 

Bozza del prologo

La Terra è vecchia 

Così dunque anche intorno, le mura del vasto mondo, espugnate, finiranno in rovina e in corrotte macerie. Bisogna infatti che il cibo reintegri e rinnovi, che il cibo ristori, che il cibo alimenti ogni cosa, ma invano, poiché le vene non sopportano più quanto basta e la natura non somministra quanto serve. Così è ormai fiaccata la nostra era e la terra stremata stenta a creare piccoli animali, lei che ha creato ogni specie e partorito fiere dai corpi smisurati. LUCREZIO, De rerum natura, libro II, 1144-1152 

Crollerà la macchina del mondo. Per tanti anni sorretta, in tutta la sua mole crollerà. I mari, le terre e il cielo andranno in rovina in un sol giorno, un sol giorno non così lontano da non poter essere prefigurato. Tra immani cataclismi, altri occhi vedranno in breve tempo sfracellarsi ogni cosa. Ecco la visione poetica di Lucrezio. Chiediamoci dunque: che ne sa la scienza al riguardo, duemila anni dopo? Sa che la Terra è vecchia. Avendola noi ammirata pochi mesi fa nelle prime immagini satellitari dell’Explorer 6, corrugata di vortici bianchi, il profilo curvilineo stagliato sul nulla, risplendente di colori che possiamo solo immaginare, non si direbbe proprio che una tale solitaria meraviglia sia così anziana. Tuttavia, per lei si sta arrossando il tramonto, nel calendario dei pianeti. Da qui dentro, dalla bolla delle nostre illusioni di eternità, racchiusa tra due confini letali, tra un’atmosfera di poche decine di chilometri sopra di noi e un oceano di magma infuocato pochi chilometri sotto di noi, non ci viene facile pensarlo. Siamo troppo immersi nelle miserie e nelle grandezze della nostra storia. Eppure, basta far di conto. Il Sole, un astro di medie dimensioni perduto tra i 200 miliardi di stelle della nostra galassia, brilla da circa 5 miliardi di anni ed è a metà della sua parabola esistenziale prefissata. Si trova nel pieno della sequenza principale, ossia la fase matura e stabile, e sta bruciando il suo combustibile, l’idrogeno, al ritmo di 600 milioni di tonnellate al secondo. La fornace di fusioni nucleari all’interno continuerà a lavorare per altri 6,5 miliardi di anni, poi l’idrogeno tramutato in elio si esaurirà, il nucleo collasserà, gli strati esterni si espanderanno e la nostra stella diverrà una gigante rossa. L’evoluzione successiva porterà ad altre fasi drammatiche durante le quali saranno sintetizzati berillio, poi carbonio, ossigeno e così via, altri elementi più pesanti. Ma noi non ammireremo il pirotecnico spettacolo alla periferia della Via Lattea, perché già non ci saremo più. Nel suo gonfiarsi da gigante rossa, il Sole avrà infatti già travolto Mercurio e Venere, e arrostito la Terra. Si compiranno così la decadenza e la caduta di un pianeta che fu vivo. Si piegheranno le ginocchia di Atlante e la Terra esploderà in un grande sconquasso. Lucrezio ha ragione. In realtà, le nostre preoccupazioni di esseri organici saranno cominciate ben prima. Durante la sequenza principale, la luminosità del Sole aumenta gradualmente. Oggi brilla il 30% in più rispetto all’inizio. I dinosauri erano baciati da una stella più fredda. Tra un miliardo di anni brillerà il 10% in più rispetto a ora. A quel punto, il flusso di energia proveniente dal Sole aumenterà quel che basta per far evaporare più rapidamente gli oceani. Ingenti masse di vapore acqueo entreranno in atmosfera, intensificando l’effetto serra e innalzando le temperature globali. Da allora in poi il circolo vizioso sarà inarrestabile: temperature più alte favoriranno l’ulteriore evaporazione degli oceani. Una coltre opprimente graverà su una Terra sempre più calda, soffocando ogni forma di vita complessa. Noi mammiferi di grossa taglia non avremo scampo. Se già ora vogliamo farci un’idea di quel che accadrà, basta osservare un asfissiato vicino di casa apparentemente sterile, Venere, dove un processo simile è già avvenuto, data la sua sventurata prossimità al Sole. Dunque, abbiamo ancora un miliardo di anni da giocarci, non di più. Un miliardo. La vita sul nostro pianeta dipende da un delicato e improbabile equilibrio tra una pletora di fattori interagenti, alcuni favorevoli alla vita, altri ostili. Sarebbe bastato un niente, in innumerevoli occasioni, per far saltare tutto. Quasi ovunque, là fuori, fa troppo freddo o troppo caldo per viverci. Nell’universo, i grumi di materia sono un’eccezione; la norma è il vuoto. Le condizioni fisiche della Terra devono la loro stabilità al fortunato ambiente cosmico che la circonda, un intorno locale di per sé terribilmente avverso a ogni forma di vita. Affinché un evento inatteso interrompa la noia mortifera, devono darsi contemporaneamente più condizioni: una stella con la massa, l’età e la luminosità giuste; un pianeta con la composizione giusta che vi orbiti intorno alla distanza giusta (nel nostro caso si suppone che siano 149 milioni di chilometri); un’atmosfera che faccia l’effetto serra al grado giusto, né troppo né troppo poco; e acqua allo stato liquido, possibilmente con una spruzzata di elementi pesanti (di preferenza un po’ di carbonio, ossigeno e ferro). Ecco, questa fune sulla quale cammina la nostra vita da equilibristi, su questa biglia che ruota nel vuoto a 30 chilometri al secondo, si spezzerà tra un miliardo di anni e non potremo farci nulla. Sarà una fine lenta e ineluttabile, uno spettacolare crollo al rallentatore scritto nelle leggi della fisica. Si noti che il calcolo è perfino ottimistico, perché non contempla la probabile eventualità che noi, molto prima dello scoccare del fatale miliardo di anni, ci saremo già fatti male da soli, erodendo e degradando lo scoglio cui siamo aggrappati al punto tale da renderlo inabitabile per noi e per tutti gli altri. In tal senso, oggi, grazie al brusco allenamento di due recenti guerre mondiali, gli strumenti di autodistruzione non ci mancano: dalla guerra nucleare alla devastazione ambientale, passando sempre per la miope ingordigia umana. Ammettiamo dunque, per un assurdo ottimismo, che tra un miliardo di anni avremo resistito alla tentazione nichilistica del suicidio collettivo e che, grazie al nostro spirito di conservazione, qualche nostro discendente sarà ancora nei paraggi. Non è lecito, in ogni caso, rilassarsi, perché altre dinamiche planetarie potrebbero andare storte ben prima della scadenza. L’orbita terrestre, per esempio, potrebbe deragliare fuori controllo. I modelli fisici a disposizione non sanno infatti predire l’andamento delle traiettorie planetarie da qui a 50 milioni di anni. La docile teoria di pianeti orbitanti intorno al Sole, all’apparenza così affidabile, è in realtà un sistema fisico caotico, soggetto alle perturbazioni e alle mutue interazioni di tutti i corpi che lo compongono. I pianeti sia interni sia esterni sono già migrati più volte in passato e un giorno potrebbe capitare anche a noi, che siamo lì sballottati nel mezzo. L’orbita terrestre potrebbe così avvicinarsi o allontanarsi troppo dal Sole, uscendo dalla zona abitabile, e intonando l’addio alla vita. E se anche ammettessimo di riuscire a rimanere stabili al nostro posto, lì tra Venere e Marte, per 50 milioni di anni, resta il fatto statistico, appurato di recente da alcuni paleontologi, secondo cui, mediamente, ogni qualche milione di anni la Terra è colpita da meteoriti o comete di dimensioni tali da mettere a repentaglio la vita di gran parte delle specie animali e vegetali, soprattutto quelle, come la nostra, che soffrono particolarmente all’idea di essere travolte da tsunami giganteschi, di finire accerchiate da incendi smisurati e di passare decenni al gelo dell’inverno glaciale che deriverebbe dall’offuscamento dell’atmosfera. Veniamo, dunque, al calcolo sorprendente che ci porta ad affermare che la Terra è vecchia. Decidiamo di essere irrazionalmente fiduciosi. Supponiamo di essere così bravi da perpetuare la nostra stirpe per milioni di anni, imparando a controllare i nostri istinti tribali, a rispettare l’ambiente e a deviare gli asteroidi assassini prima della catastrofe. Il Sole, però, non possiamo regolarlo a nostro piacimento. Se ne sta lì, con la sua biografia prestabilita dalla fisica. Quando tra un miliardo di anni sarà diventato più caldo del 10%, per noi sarà il fine corsa. Sarà un viaggio al termine della Terra così come la conosciamo. Ma quanto sarà durato, quel viaggio? Se consideriamo che la vita sulla Terra cominciò all’incirca 3,5 miliardi di anni fa, età presunta dei più antichi fossili, significa che il lasso di tempo complessivo concesso per la vita terrestre sarà di 4 miliardi e mezzo di anni: i tre e mezzo trascorsi sin qui, più il miliardo che ci resta prima che il Sole faccia le bizze. Si tratta di una buona porzione della vita dell’intero universo: non male dopotutto, anche se, per i cinque sesti di tutto questo tempo evolutivo, gli unici esseri viventi ad aggirarsi indisturbati sulla Terra furono batteri e virus. Solo verso la fine, 600 milioni di anni fa, arrivarono gli organismi pluricellulari, e solo ieri l’altro su scala cosmologica, due o trecento millenni fa, fu la volta di Homo sapiens. Ne deduciamo una prima constatazione, positiva: un bel pezzo del tempo totale concesso fin qui all’universo ha visto almeno un esperimento di vita di successo, cioè i resistentissimi microbi terrestri e poi, marginalmente, alcuni mammiferi bipedi e vocianti. Seconda constatazione, meno piacevole: siamo entrati nella vecchiaia della vita sulla Terra. Se, infatti, compariamo tutto quanto è successo sin qui sulla Terra all’arco di vita medio di un uomo – diciamo, per eccesso, 72 anni –, scopriamo che adesso, agli inizi degli anni Sessanta del XX secolo, abbiamo compiuto 56 anni. La vita sulla Terra ha già consumato 56 anni su un totale di 72 a disposizione. Forse non ancora decrepita e stremata come la immaginava Lucrezio, ma la Terra è già vecchia! Stiamo per andare in pensione. Ci restano soltanto sedici anni da vivere, cioè, fuor di metafora, un miliardo di anni su 4,5 totali. E a questa veneranda età abbiamo ancora problemi di rifornimento energetico, non abbiamo ancora messo il naso fuori dall’atmosfera, non abbiamo colonizzato nemmeno il nostro satellite né i pianeti più vicini, facciamo esplodere bombe nucleari sempre più potenti e alteriamo il mondo naturale a nostro pieno discapito. Meglio darsi da fare se non vogliamo essere ricordati come arzilli vecchietti un po’ rimbambiti che si sono messi a disfare il pianeta poco prima del gran botto finale. Quindi, se non ci estingueremo prima da soli, abbiamo ancora un miliardo di anni. La Terra è vecchia. Ora guardiamo la stessa faccenda da un’altra angolazione. Il genetista, tra noi due scriventi, calcola che, dagli inizi dell’evoluzione di Homo sapiens, dovrebbero essere vissuti circa 100 miliardi di esseri umani in carne e ossa. Quindi noi, adesso, nel 1960, siamo i 3 miliardi di umani che vivono l’età della vita sulla Terra corrispondente a 56 anni su 72. Sono esistiti finora soltanto 100 miliardi di storie individuali, di fili tessuti dalle Parche e poi recisi, di sguardi umani aperti sul mondo e poi chiusi per sempre, di esperienze uniche, di pensieri segreti mai condivisi con altri, di sogni e di fugaci sentimenti. Cento miliardi di esseri umani che sono nati, hanno amato, avuto figli, compiuto imprese, e sono morti: è così semplice. Qualcosa è rimasto – le invenzioni di cui non possiamo più fare a meno, le idee importanti, gli scritti più significativi, le gesta e le opere di pochi, le rovine –, ma i contenuti di quelle vite si sono per lo più persi per sempre, come baci nel vento, senza un segno che li ricordi. Cento miliardi sembra una cifra enorme, ma è pur sempre un numero finito, una quantità trattabile e recintabile, una gran massa di persone assembrate a perdita d’occhio in una prateria. Tutta l’umanità è su quel prato. Tutto ciò che è stato di noi. Potremmo catalogare 100 miliardi di esseri umani anche dentro un grande archivio, un’enorme biblioteca antropologica: 100 miliardi di cartellini divisi per sale, in livelli sempre più profondi, con i dati anagrafici essenziali e qualche storia, schedati a supremo omaggio della coscienza storica. Il bibliotecario di tutti i nomi che ci sono stati, di tutte le esistenze, non potrà che essere la morte. Se ora volgiamo lo sguardo al futuro, capiremo che non ci saranno infiniti umani; soltanto un altro po’. Qualche milione di generazioni fino al termine del nostro miliardo di anni, non di più. Il loro cicaleccio resterà impresso per qualche tempo ancora nella frenesia universale; una parte di esso viaggerà nello spazio con le onde radio, ma prima o poi tutte le parole svaniranno nel nulla. Non ci saranno infiniti altri fili di Parche, infinite altre esperienze uniche; soltanto un altro po’. Non ci sarà per sempre un’altra storia, dopo l’ultima storia. Del resto, la posterità è una ridicola eternità. I posteri saranno indifferenti a noi, essendo gli umani notoriamente privi di memoria duratura. Se tutte le glorie sono effimere e i cimiteri, prima o poi, sono disertati, le nostre opere migliori, tra qualche millennio, saranno polvere, dimenticate. Forse gli archeologi ci rintracceranno sotto qualche frana, ma se così non fosse apprezzeremo ancora di più la profonda nobiltà di questa indifferenza della posterità. Non c’è una storia infinita da sobbarcarsi. Il futuro è più leggero del previsto e ci lascia liberi. Crollerà, dunque, la macchina del mondo. La Terra è già vecchia. Quanto al resto, grazie alle capacità di previsione della scienza cosmologica, possiamo andare oltre l’orizzonte della nostra particolare finitezza e accorgerci, non senza iniziale sgomento, che anche il mondo, prima o poi, scomparirà. Tutto finisce. La galassia di Andromeda ci sta venendo addosso alla velocità di 110 chilometri al secondo; sarà qui tra 6 miliardi di anni e si fonderà con la Via Lattea. Noi non siederemo in platea per questa danza di stelle, peccato. Intanto l’universo continuerà la sua espansione, distanziando sempre più le galassie: il cosmo, visto da qui, diventerà più buio e più freddo. Non esistendo più, eviteremo l’esperienza di sentirci ancora più soli. Forse l’universo continuerà la sua corsa espansiva fino alla morte termica, fino al Grande Freddo, al lentissimo esaurimento di tutto il combustibile stellare, tra migliaia di miliardi di anni. Questo sì, un numero quasi inimmaginabile. O forse, in un istante benedetto di sospensione cosmica da lasciare senza fiato, si fermerà e tornerà indietro, collassando di nuovo fino a un punto di inizio infinitesimale. O un punto di fine. C’è dell’incanto, in questa finitudine di tutte le cose. Centre Hospitalier, Fontainebleau, 10 gennaio 1960 Monod ripose i fogli sulla sedia accanto. Dal giardino saliva il chiacchiericcio festoso dei parenti dei malati in visita domenicale. “Se scrivi ancora una volta che il culmine dell’assurdità è morire in un incidente stradale, Albert, ti strozzo”, gli disse, fingendosi serio. “Sei diventato superstizioso Jacques?”, rispose piano Camus, senza girarsi nel letto. “No, ma la prossima volta che ti invitano per una conferenza a New York potresti dire che l’estrema, involontaria coerenza di chi crede nella condizione assurda dell’uomo è precipitare con l’aereo.” “Buona idea, sarebbe in effetti il copione perfetto dell’assurdo, un agguato di sorte beffarda, un colpo di teatro dell’insensatezza. Sempre meglio che dieci giorni di nave.” “Albert, che ti pare di questo prologo?”, chiese Monod riassettando i fogli. “Non male, lo si potrebbe asciugare ancora un po’. Il calcolo che hai fatto è impressionante, non si pensa mai che la Terra possa essere già vecchia. Te l’immagini che esista da sempre, il nostro pianeta, e che sempre esisterà dopo di noi. Mi piace quest’idea che la storia, perfino la nostra altisonante storia di specie, abbia un termine. Non c’è un tempo infinito da addomesticare a nostro piacimento: l’avvenire è un imbroglio.”

“Già, a proposito di imbrogli, ti ha detto Francine che la polizia ha aperto un fascicolo sull’incidente perché c’è il sospetto che possa trattarsi di un sabotaggio?” “Mi ha accennato qualcosa. Lo trovo ridicolo. Michel è uno che corre, lo sanno tutti. Dall’inizio del viaggio gli avevamo chiesto di andare piano, e ha obbedito, poi non ricordo più niente. Come sta?” “Lo operano domani a Parigi. Ha perso molto sangue, il torace è sfondato e la milza spappolata. Janine ha raccontato che tu e Michel, poco prima che l’auto iniziasse a sbandare, stavate parlando di imbalsamazione e di una polizza sulla vita. Ridevate all’idea che nessuno la stipulerebbe a due tubercolotici come voi. Peraltro, due tubercolotici fumatori accaniti di Gauloises.” “Me ne farei volentieri una, ma qui non si può… Poi che cosa ricorda Janine?” “Che sul rettilineo della Nazionale 5, verso Petit Villeblevin, una ventina di chilometri dopo Sens, la Facel Vega di Michel ha sbandato più volte. Janine ha sentito cedere qualcosa sul lato sinistro, dove sedeva. Una spinta improvvisa vi ha fatto attraversare la corsia centrale di sorpasso e vi siete schiantati contro un platano sul lato sinistro. Poi siete rimbalzati di nuovo verso la carreggiata e vi siete fermati contro un altro platano, a destra. Tremendo. Pare che abbiate fatto tutto da soli. Dovevate andare parecchio forte, perché l’auto era accartocciata e spezzata in due intorno al tronco; la parte anteriore sbriciolata, quella posteriore ancora integra. Per qualche strana carambola, la tua testa e il tuo collo hanno in qualche modo resistito a una serie di urti terribili.” “Sì, ma da quando mi sono risvegliato i dolori sono fortissimi e non mi hanno detto per quanto dovrò stare immobilizzato. Non voglio nemmeno che mi diano troppa morfina. Ci sarà un sacco di tempo, dopo morti, per essere incoscienti. Anne sta bene vero?” Camus pensò alla cena di festa per il diciottesimo compleanno di Anne che avevano organizzato la sera del 3 gennaio nel rinomato Le Chapon Fin, sulla strada del ritorno. Un po’ sul serio un po’ per scherzo, Camus aveva cercato di convincere Michel a far recitare la figlia nelle sue opere teatrali a Parigi. “Ancora più miracolata di te, la ragazza. I rottami erano sparsi per centinaia di metri. Janine l’hanno trovata vicino a Michel, seduta e stordita, solo una vertebra cervicale incrinata. Anne era pressoché illesa, nonostante sia stata scagliata a venti metri in un campo. Il suo cane scomparso e mai più ritrovato.” “Quindi eravamo a meno di cento chilometri da Parigi. Dovevo rientrare per cena, avevo preso appuntamento con Maria. Ho il buio totale nella memoria dopo il pranzo a Sens, ho l’immagine del Beaujolais che abbiamo bevuto e della salsiccia di sanguinaccio con le mele renette dell’Hotel de Paris et de la Poste. Si è capito cosa è successo?” “Presumo che Francine non sappia che avevi fretta di andare a cena con Maria.” Monod fece quella sua smorfia sorniona che si allargava fin sotto gli zigomi alti. “Tu non preoccuparti. Francine sta male indipendentemente da questo, e mi addolora non poter far nulla.” “La stradale dice che il traffico era scarso. Eravate su un rettilineo con asfalto asciutto, in buone condizioni di luce e di tempo. Un guidatore che stava dietro sostiene che lo avevate sorpassato poco prima a 145 chilometri orari, ma nessun’altra vettura pare coinvolta nell’impatto. Potrebbe essere stato un colpo di sonno di Gallimard, favorito dal Beaujolais, ma Janine dice che Michel ha urlato ‘Merde!’, quindi era ben cosciente che stava perdendo il controllo del mezzo. Dai rilievi risulta una striscia nera di 150 metri sull’asfalto, lasciata da una parte meccanica dell’auto. L’ipotesi più probabile è il cedimento di un semiasse oppure il blocco di una ruota. Considerando lo zig-zag che avete fatto sulle tre corsie, sbandando di colpo a sinistra, potrebbe essere scoppiato uno pneumatico su quel lato.” “Stai facendo lo scienziato. Perché non affidano a te le indagini, anziché perder tempo aprendo un fascicolo per sospetto sabotaggio?” “Questa è una scienza indiziaria. Un gendarme ha notato che la gomma della ruota anteriore sinistra era squarciata dall’interno.” “Ho capito, Jacques, ma quello schianto doppio contro gli alberi che mi hai descritto è stato così devastante che mi pare difficile stabilire se quella rottura sia l’esito di una manomissione precedente o dell’impatto. Non trovi?” “Infatti. Ma sai che immaginare complotti è una radicata propensione cognitiva umana, un lenitivo potente per le nostre ansie. Appena qualcosa non torna, neghiamo la semplice e lineare crudeltà dell’esistenza e ci consoliamo nella paranoia di trovare un senso purchessia, un senso coerente con le nostre presupposizioni.” “Qui, però, proprio non sta in piedi. Non c’è nemmeno l’indizio. E chi sarebbe l’agente nascosto nella mia fattispecie?” “Ma naturalmente il KGB! Sono così bravi a far fuori gli oppositori simulando perfettamente gli incidenti e le morti più naturali!”, rispose Monod, prorompendo in una risata. “Ma che la smettano, non sono Trockij, non sono così pericoloso, spero che gli agenti del KGB abbiano qualcosa di meglio di cui occuparsi, altrimenti avrei forti dubbi sulla serietà delle ambizioni criminali del comunismo sovietico.” “Continui a sminuirti Albert. Quando ti hanno dato il Nobel, la prima cosa che hai detto è che in Francia lo avrebbe meritato un altro, cioè Malraux, ma ti sembra il caso? Sei uno degli intellettuali più letti al mondo. Dopo i fatti d’Ungheria non gliene hai fatta passare una: per gli scrittori dissidenti ungheresi sei un punto di riferimento, infiammi gli studenti di mezzo mondo contro il socialismo dei patiboli, hai firmato appelli e tre anni fa hai avuto l’ardire di attaccare frontalmente il ministro degli Esteri russo Dmitrij Šepilov. Gli hai dato del massacratore, del propagandista, del grigio burocrate, parlando di genocidio della nazione ungherese e di macelleria sovietica sotto gli occhi di noi occidentali ignavi, vergognosi e impotenti dinanzi alla carneficina. Hai sparato ad alzo zero, giustamente, contro l’illegale e ignobile esecuzione di Imre Nagy. Come se non bastasse, hai appoggiato la candidatura al Nobel di Boris Pasternak e intrattieni scambi epistolari con lui. Ce n’è abbastanza per farli infuriare sul serio, i compagni. Io non scarterei a priori l’ipotesi.” “Se così fosse, il KGB e i suoi sicari dovrebbero fare una strage di scrittori e di liberi pensatori in tutto il mondo. E avrebbero il dovere di venire a prendere anche te Jacques, che hai tradito la loro chiesa già nel 1945. Quanti inutili appelli abbiamo firmato tu e io finora? E poi, scusa, Šepilov è caduto in disgrazia poco dopo il mio discorso contro di lui. Lo hanno destituito e spedito come ambasciatore in Mongolia perché sospettato di aver ideato un colpo di stato in Unione Sovietica. In pratica, lo hanno graziato. Ce lo vedi mentre da Ulan Bator organizza un sofisticato sabotaggio della Facel Vega HK500 del nipote del famoso editore francese Gaston Gallimard, sulla quale io ero salito per puro caso due giorni prima?” “Lo so, non ha molto senso. Certo che essere un premio Nobel attira le più irrazionali attenzioni. Qualcuno, sui giornali, sta dicendo che il tuo è stato un tentativo inconscio di suicidio, perché sapevi che Michel Gallimard guida come un pazzo sconsiderato e non hai voluto prendere il treno di rientro da Avignone insieme alla tua famiglia anche se avevi già comprato il biglietto.” “Queste interpretazioni psicoanalitiche sono demenziali. Io non sono depresso nemmeno imbottito di farmaci in questo letto di ospedale.” “Depresso no, inquieto sì. Stavo pensando che tra te e me messi insieme, se qualcuno organizzasse un attentato, sarebbe ben difficile per gli inquirenti scoprire chi è stato. Abbiamo una tale quantità di nemici, a destra e a manca, che dovrebbero setacciare mezza Francia.” “Hai ragione Jacques!”, Camus si illuminò all’improvviso. “Proviamo a elencare i nostri potenziali odiatori e i mandanti degli assassini.” “Be’, di stalinisti e comunisti più o meno ortodossi abbiamo già detto. Non ci perdoneranno mai il pensiero non intruppato e la sfrontatezza di non voler mai essere allineati. Anche l’intellighenzia impegnata del tuo vecchio amico Jean-Paul Sartre ci osserva sdegnata dalla Rive Gauche e non sopporta certa coerenza. Ti trattano come un parvenu, come il ragazzo venuto d’oltremare, e invece sono loro i più conformisti di tutti. Però, secondo me, ci vuole fegato per un’operazione del genere e loro non ce l’hanno, almeno non a Parigi. Sull’altro fronte, stiamo sulle scatole a tutti i reazionari di Francia, per la militanza nella sinistra libertaria e per tutto quanto abbiamo scritto durante e dopo la Resistenza. Nemmeno la borghesia illuminata ci arruolerebbe tra le sue fila, per via delle nostre critiche alle storture della società capitalistica che fa della produzione industriale il suo dio e la sua promessa perpetua, proprio come il nemico sovietico. Nel tuo caso, aggiungerei i nazionalisti francesi contrari all’indipendenza dell’Algeria e, quindi, ostili a tutti i tuoi discorsi di libertà e di tutela delle popolazioni locali. Ma anche i terroristi e gli estremisti arabi indipendentisti ce l’hanno con te, perché, troppo moderato o perfino traditore, difendi i francesi piedi-neri d’Algeria con le pezze sui pantaloni come le avevi tu e rifiuti l’ideologia violenta di chi vede in ogni francese un nemico in quanto tale o un ricco possidente assetato di sangue. Vorresti due popoli solidali sotto lo stesso Stato, uno Stato che difendesse i diseredati dell’uno e dell’altro. Quindi te li sei inimicati entrambi e quattro anni fa, quando andasti avventatamente in Algeria, qualche minaccia di morte l’hai anche ricevuta, in effetti. Quella tua frase che tra la giustizia astratta e tua madre sceglieresti tua madre sta facendo ancora il giro del mondo.” “Quella frase è stata riportata male dai giornali. Io ho risposto allo studente che se giustizia significa mettere bombe sui tram e uccidere innocenti, tra i quali ad Algeri potrebbe esserci mia madre, allora scelgo mia madre.” “Il senso è chiaro. Poi ci metterei anche i fiancheggiatori del franchismo in Spagna, che hai condannato e denunciato senza sosta, al punto da proporre di non far entrare la Spagna nell’UNESCO finché ci saranno i colonnelli. In sostanza, quelli di destra ci considerano pericolosi radicali, quelli di sinistra eretici o troppo indipendenti.” “Che splendida lista, Jacques. Siamo due esuli in patria. In pratica, sono in troppi quelli che avrebbero voluto sabotare la macchina di Gallimard. Fine delle indagini per eccesso di imputati potenziali!” “Volendo citare Camus, direi che siamo stranieri in ogni dove, stranieri a tutti, anche a noi stessi. Ma ritrovandoci fra stranieri, non siamo soli, perché condividiamo una condizione comune di estraneità alle dottrine e ai conformismi.” “Non siamo soli, ma siamo pochi. André Malraux mi ha mandato un messaggio di buona ripresa in cui dice che sono la voce della coscienza dei francesi; che, grazie a me, la Francia è nel cuore dell’umanità. Esagerato come sempre, si vede che è diventato gollista. E poi non sono mica morto.” “Tienilo buono il ministro Malraux, che vuole affidarti un grosso teatro parigino. Chi ha mandato questi fiori? Maria? Catherine? La giovane Mi?” “Piantala, vengono dagli scrittori ungheresi in esilio.” Percependo uno sbuffo di nervosismo, a Monod venne un dubbio: “Ti stanno tornando i ricordi di prima dell’incidente?”. “Molto sfocati ancora. So che ero a Lourmarin da novembre a scrivere Il primo uomo. Per le vacanze di Natale ero arrivato a 144 pagine, sono ancora nella borsa. Cominciavo finalmente a farmi trasportare dalla storia, ma mi sto dannando con un romanzo enorme: è ancora lungo da scrivere. Mi ha raggiunto Francine con i ragazzi e poi, per la fine dell’anno, sono arrivati in Provenza anche i Gallimard e René Char, il mio amico poeta.” “Certo, me lo ricordo bene, era anche lui nella Resistenza.” “Siamo stati bene, in quella luce invernale del Sud, così tersa e cruda. Ricordo di aver scritto una lettera a mia madre ad Algeri. Il 2 di gennaio abbiamo pranzato tutti insieme all’Hotel Ollier nella piazzetta di Lourmarin, poi ho portato i miei e René alla stazione di Avignone e ho assecondato la proposta gioiosa di Michel di tornare in auto per borghi e ristoranti. Difficile dirgli di no. Doveva venire anche René, ma eravamo troppo stretti. Il 3 ricordo di aver lasciato le chiavi, come sempre, alla signora Ginoux, dicendole che sarei ridisceso nel Midi dopo una settimana o, al massimo, prima della fine del mese per continuare a scrivere. Ho firmato una copia dello Straniero per il benzinaio a Lourmarin, gliel’avevo promessa già due volte. Il percorso ci era familiare: la Nazionale 7 da Avignone a Lione; poi la Nazionale 6 attraverso la Borgogna; e quindi la 5 da Sens, via Fontainebleau, per Parigi. In due giorni, per non arrivare spossati. Il 3 gennaio abbiamo pranzato a Orange e dormito a Thoissey. Ho impresse in testa le immagini della gloriosa cena stellata a Le Chapon Fin per Anne, l’allegria e le risate. Il 4 mattina abbiamo tirato per 250 chilometri fino a Sens e pranzato all’Hotel de Paris et de la Poste. Poi più niente.” “Non importa, hai rimosso, è una difesa legittima e salutare del tuo cervello. Non insistere nel richiamare altro alla memoria. Stai leggendo Nietzsche?” “Vorrei, ma ancora non riesco”, rispose Camus girando lo sguardo stanco verso la copia della Gaia scienza sul comodino. “L’hanno recuperata dalla macchina distrutta.” Nietzsche fece venire in mente a Monod che avrebbero dovuto proseguire nella lettura delle bozze. “Adesso ti lascio riposare Albert. La prossima volta ti leggo il primo capitolo, quello sulla finitudine di tutte le cose e sul perché non dovremmo comunque consegnarci al nichilismo e al pessimismo cosmico.” Monod cercò di nascondere la sua preoccupazione per l’amico e lo salutò. In corsia aveva incrociato un medico che gli aveva sussurrato come Camus non fosse ancora fuori pericolo e come fosse troppo fragile per un trasferimento a Parigi. Gli era sembrato un rimprovero implicito, ma si ripromise di tornare la domenica seguente.
 

venerdì 20 novembre 2020

UN ANGELO ALLA MIA TAVOLA Janet Frame

 


Janet Frame, la scrittrice che sa "il punto di vista degli angeli" - Pangea

    Di   Paola Tonussi

Pangea ha citato qualche tempo fa The Piano di Jane Campion: un film che anch’io ho amato molto come, sempre della Campion, An Angel at my Table.

Questo secondo film ottenne il Premio speciale della Giuria a Venezia nel 1990, il titolo tratto dal secondo Libro dell’autobiografia della neozelandese Janet FrameUn angelo alla mia tavola. Divisa in tre parti, l’autobiografia della Frame (la prima è To the Is-LandL’isola del presente, la terza The Envoy from Mirror CityL’inviato dalla città degli specchi) è il racconto di una vita difficile, il cammino di una bambina dalla strana discordanza con il mondo e i propri simili verso la ‘normalità’, la salvezza e infine la scrittura.

Rileggere la Frame è risalire la corrente dei significati a ritroso e ritrovare – spigolando dal passato al presente brandelli di senso, frammenti di contenuti – la folgore originaria del mito. Lei stessa afferma, con la voce pacata di chi ha attraversato la sofferenza e raggiunto un punto al sole: “Scrivere un’autobiografia può voler dire non solo guardare indietro, ma anche al di là o attraverso. (…) Il tempo passato non è tempo scomparso, è tempo accumulato”.

Forse proprio questo “attraverso” è il talismano dell’empatia in ogni vita d’artista. Quel che ci apre le porte della sua vita segreta, lo spiraglio da dischiudere per avvicinarsi a quel fuoco.

Figlia di una donna che, come l’impareggiabile Sido madre di Colette, possedeva le chiavi dell’estasi terrestre – “poteva caricare ogni insetto, ogni filo d’erba, ogni fiore, degli aspetti pericolosi e maestosi del tempo e delle stagioni, di un’importanza memorabile unita a una sorta di umiltà e incertezza che c’induceva a meditare e a cercare di arrivare al cuore delle cose” – e insieme esperta esploratrice degli strapiombi dell’anima – “Solo i poeti sanno, solo i poeti sanno”… “Che meraviglia, bambini, Charles Dickens, nato povero, diventato un grande scrittore…” –, Janet cresce a Oamaru, “città di pietra bianca con il “costante ruggito del mare sulla spiaggia”.

La famiglia è povera ma la bambina è “affamata di parole”, le colleziona, trasforma tutto alla vampa dell’immaginazione, pensa ai romanzi come a mitologie private da godere in solitudine, in cui mettere in gioco “il punto di vista degli angeli”. Ferry Street diventa per lei Fairy Street, la via delle fate, poi Eden Street si carica di altri ordini, altri significati: il reale va scovato dietro le apparenze ed è l’io che scrive a renderlo veramente tale, a scoprire o meglio a mettere in luce segni, formule, disegni.

“Le parole detenevano le chiavi del regno”: sognante convinzione che conterrà tutta la sua poetica futura. “La mia vita da anni subiva il potere delle parole. Adesso ero spinta dalla ricerca continua e dal bisogno di quella che era una parola unica: fantasia.” Ecco la sua ribellione: contro la povertà, la diversità, l’isolamento sociale ed emotivo. Ecco la sua salvezza.

Con voce lucida la Frame racconta la passione per la lettura e la scrittura che ne farà un’autrice, la capacità d’identificarsi totalmente, perdutamente nei libri che legge, nelle vite degli scrittori e nell’alone incantato che circonfonde quelle vite: “Imparammo a conoscere e ad amare la storia delle sorelle Brontë: il malinconico scenario delle brughiere dello Yorkshire, la parrocchia paterna, il cimitero. Ci sentivamo vicini a quella famiglia autosufficiente (…): le Brontë con le loro brughiere, noi con la nostra collina e il nostro canale e le pinete. La loro famiglia aveva conosciuto la morte, al pari della nostra, e la loro vita era tanto più tragica della nostra, e malgrado tutto prevalentemente gioiosa, che potevamo attribuire loro, con cuore grato, i tristi sentimenti dai quali eravamo talvolta sopraffatte…”.

Stabilisce precoci corrispondenze anche con altre presenze: inviati, angeli, intermediari tra lei e gli scrittori e i poeti. E sempre presente è il grande amore per la terra ampia in cui vive. Proprio come le bambine Brontë la piccola Janet vagabonda con passione per le colline intorno a casa, i fratelli con lei in molta libertà, quasi piccoli selvaggi alla scoperta di un continente: “guardavamo in cielo a quelle che parevano essere le uniche altre creature viventi al mondo: i falchi roteanti in picchiata e le allodole”.

Insieme, i bambini imparano poesie dai sussidiari scolastici: “stavamo distesi nell’alta erba estiva, guardando le nuvole, recitando la poesia, consapevoli del fatto che ognuno di noi provava lo stesso desiderio e la stessa nostalgia per il cielo”.

“Nostalgia per il cielo” e facoltà visionaria di vedere dietro – o attraverso – la realtà a un’altra dimensione che travalichi quella comune.

Janet in particolare compie letture precoci, vi si cala furiosamente: “potevo vivere un’avventura leggendo un libro”, perché “«Imparare» qualcosa era il sogno della nostra vita”. Il silenzio della lettura caricato di rumori interiori, fantasia e realtà si confondono: “Le favole di Grimm erano la storia di ciascuno di noi vista in modo speciale …”.

A farle da veri compagni di gioco sono il mare, la sua is-land, sonora-terra-che-c’è, e soprattutto i poeti: più avanti, all’università, saranno Shakespeare, Keats, Shelley, Dylan Thomas, Eliot, Auden. Altri. Janet impara presto, “facendo a modo mio”: i protagonisti dei libri, spesso sfortunati, emarginati e vittime sono forse “angeli travestiti”. Il tema sarà una stella polare della sua scrittura, una specie di Leitmotif sempre ritornante: le presenze ‘angeliche’ o scintille di un mondo ‘altro’, che scorteranno o assisteranno la sua parabola umana e letteraria: “ero una bambina apprensiva piena di tic che se ne stava sola nell’ora di ricreazione con indosso ogni giorno la stessa gonna scozzese, un bene ereditario … perché non avevo altro…”.

Nel doloroso apprendistato di una dickinsoniana “differenza” iniziano le intuizioni di una poetica per la futura scrittrice. A scuola è “già corrotta di letteratura” e se nelle giornate inizia a scorgere un “vuoto”, è su questo vuoto che i poeti le sembrano scrivere la sua storia personale, individuale: “Quanto era meraviglioso l’intuito dei poeti che permetteva loro di leggere nella mia vita”.

Tra gli altri ci sono sempre le sorelle Brontë, Shakespeare: “Sentivo che la vita era diventata molto seria. Mi accadeva talvolta di pensare, con curiosità e preoccupazione, alla condizione che veniva chiamata «futuro»”.  Janet cerca, famelica e disperata, una luce della fantasia che illumini i fatti di tutti i giorni e non la costringa, sempre e con crudeltà, a “vivere «altrove»”. Il tentativo di far combaciare i lembi fallirà: “il mio unico rifugio era in me stessa, il «mio posto»”, lontana dai giudizi altrui che iniziano a volgersi in tragedia: ero davvero una sognatrice, perché la realtà mi appariva sordida e dissipatrice, ed esponeva i sogni, un anno dopo l’altro, a una ineluttabile dissoluzione”.

La grande scoperta degli anni scolastici è “Il desiderio di essere me stessa”, di non seguire i dettami di chi la circondava, il che va di pari passo con il fatto che “la poesia si trovava dove pochi la cercavano”.

La sua “eccentricità” è già colpa. Divario, abisso, voragine: “È strano pensare alla mia vita vissuta come vivevo allora la mia vita «reale», così introversa e influenzata dalla letteratura…, con la scoperta di un paragrafo o di una poesia e i miei stessi tentativi letterari come avventure quotidiane. Non si trattava di una fuga come tentativo di dimenticare l’infelicità che provavo a casa (…) o il sentimento di vivere a mezz’aria perché non avevo abiti normali da indossare per dimostrare che ero un essere umano (…); non c’era alcun tentativo di trasferire me stessa e la mia vita in un altro mondo, c’era semplicemente l’ingresso di quell’altro mondo nel mio con la letteratura che via affluiva (…). Era l’arrivo, come di vicini o parenti, (…) dei poeti e prosatori e delle loro opere al 56 di Eden Street, Oamaru, «il regno sul mare», portando con sé orde di parole e personaggi e il loro modo speciale di vedere le cose”.

Sovrapposizione perfetta tra giorni e sogni, quotidiano e occhio visionario: l’“intimità, l’armonia, e non la separazione fra letteratura (una semplice storia, dopo tutto!) e vita”. Lo pseudonimo con cui firma le prime storie e dietro a cui si cela come ‘personaggio’ è, all’epoca, ‘Amera’. Non desidera far apparire subito il proprio nome, la poesia è però da subito stigma, coincidenza con il destino: “Non ero Becky Sharp, ero Emma. Ma ero anche Tess e Marty South, come ero stata una volta Anna di Green Gables, e Charlotte Brontë (Isabel era Emily, e June Anne). Ero Maggie Tulliver e Jane Eyre e Cathy. E quando non trovavo un’eroina in cui identificarmi, mi limitavo ad adorare gli eroi: Giuda l’Oscuro, Raskòlnikov, Bruto, non Marco Antonio, che piaceva “a tutti”. E c’erano anche gli eroi del cinema: Robert Donat, Laurence Olivier, Clark Gable. I miei ultimi eroi, naturalmente, erano i poeti, francesi e inglesi: Daudet, Victor Huo, Keats, Shelley, Wordsworth, Rupert Brooke, Yeats (…): E poi i prosatori: Dostoevskij, Hardy, le Brontës, George Eliot, Washington Irving. E. B. Lucas, Sir Thomas Browne. E Shakespeare”.

Con il trasferimento a Dunedin, dove frequenta l’università, gli orizzonti si allargano e tuttavia non si risolve l’antinomia tra “l’euforia d’integrazione” e “il mio innato senso d’isolamento”, anzi: “mi aggrappavo alle opere letterarie come un bambino si aggrappa alla madre”.

Persino la sorella Isabel, colei che nei loro giochi infantili “era stata Emily” si stacca da lei. “Le mie sole oasi di pace erano le lezioni d’inglese all’università”.

Completamente isolata, Janet scrive poesia, scrive in prosa, scrive ogni momento libero: “ricordo la mia felicità e la riconosco come uno dei premi della frequentazione di qualsiasi grande opera d’arte, come se la gente comune fosse chiamata all’improvviso a guardare dal punto di vista degli angeli”.

 “il punto di vista degli angeli” sembra inabissarsi nella tragedia: arriva la diagnosi di schizofrenia, la madre firma, Janet è ricoverata in un istituto per malattie mentali, dove resta 8 anni. Sono 200 gli elettroshock per lei. Eppure continua – con la disperazione e il furore con cui leggeva da bambina, continua a scrivere – “scrivevo le mie poesie, senza mostrarle a nessuno”. Scriverà poi anche del baratro, del buio in clinica: Faces in the Water e Owls do cry raccontano questo spaccato terrificante. I suoi scritti però sono notati.

Saranno proprio i poeti – quelli in carne e ossa – a riconsegnarle la vita e la capacità di scrivere.

Janet Frame è già destinata alla lobotomia, i medici non hanno dubbi: considerata un caso senza speranza, impossibile da curare, la salverà in extremis il suo libro The Lagoon and other stories, che vince il premio Hubert Church per la prosa. È la fine del suo personale voyage à l’enfer.

Da questo momento in poi, con l’uscita dalla casa di cura per malattie mentali e il ritorno al mondo esterno, le parole “scrivere” e “futuro” assumono altri pesi e significati per lei: “scrivere doveva essere la mia salvezza. (…) Perfino Prospero (…) aveva conosciuto il naufragio della nave e di se stesso, la sua isola non era raggiungibile se non attraverso la tempesta”.

Lo scrittore Frank Sargent le offre asilo in casa sua: in una stanza parca con un letto, una coperta, una lampada e una macchia da scrivere, Janet inizia a ri-vivere, a coltivare la sua unica libertà, quella che porta dentro di sé, il suo linguaggio e i suoi pensieri – la maggior parte nascosti all’esterno –: “Avevo così tutto quello che desideravo con il rimpianto di aver impiegato tanti anni a trovarlo.”

Nella “baracca dell’esercito” dove ospita la giovane, Sargent la tratta da pari a pari. La invita a fargli leggere quanto ha scritto, la sprona a leggere – “uno scrittore rilegge i classici, spazzando via le banalità attuali, rinnovando l’ispirazione” –, e la sera ne parlano insieme, la proietta in una nuova fase: “Dall’agnizione della grandezza in letteratura nasce una particolare libertà, come se si cedesse qualcosa che si desiderava tenere, e cedendola, si liberasse un nuovo spazio per la crescita, l’esplodere di una nuova stagione sotto un sole segreto. Riconoscere qualsiasi grande opera d’arte è come essere innamorati, non si cammina si vola (…), è come innamorarsi dell’immortalità, una liberazione, un volo in paradiso”.

Una borsa di studio le permetterà di uscire dalla Nuova Zelanda e vedere altri paesi, l’Europa, paesaggi fino ad allora solo sognati, solo immaginati. Fondamentale l’arrivo nella città più importante e rincorsa nell’immaginazione: la “città degli specchi” popolata dall’Inviato, esito di fantasia e sguardo visionario, echi mitici e scenari futuribili. Città che significa anche riscatto, redenzione finale.

Londra diventa, come per moltissimi prima e dopo di lei, immenso omphalos dove trovare libertà, riparo, anonimato: “uomini e donne (…) vivevano la loro vita quotidiana a Londra. E scrivevano le loro poesie. (…) non lo sapevano ma erano una compagnia per me, il loro stesso respiro mi riscaldava e disperdeva il mio dolore”.

In cerca di letture s’iscrive alla biblioteca locale di Clapham, “accettando avidamente la regola: “quanti libri si vogliono”. Clapham sarà legato per sempre al vergognoso trattamento di Oscar Wilde, che aspettava di essere tradotto al carcere di Reading ma per Jane, scampata a un altro carcere, ogni particolare è grande e nuovo e rilascia meraviglia. “Siamo i sognatori di sogni” aveva scritto in una delle prime liriche: “E le parole di Londra mi affascinavano: le pile di giornali, le riviste, gli annunci nelle vetrine dei tabaccai e dei giornalai, i nomi degli autobus, le insegne stradali, le insegne pubblicitarie illuminate, i menù scritti con il gesso sulle lavagne davanti alle umili osterie per i camionisti, (…); i manifesti nella stazione della Sotterranea e i graffiti nei gabinetti pubblici e nei sottopassaggi, le numerose librerie e biblioteche. Non avevo mai avuto tante opportunità di leggere”.

Il capitolo Keats e i cantastorie di Battersea, è il racconto del pellegrinaggio a Hampstead Heath, alla casa e ai luoghi dov’era vissuto Keats: “un sogno lungamente accarezzato”: “un giorno presi l’autobus per Hampstead Heath dove proseguii a piedi fino allo stagno. Il cielo era grigio, sulla città sottostante aleggiava la nebbia, stormi di uccelli attraversavano in fretta il cielo in formazioni serrate come in un corridoio, dirigendosi da qualche parte verso la luce; e le foglie tremavano e davano strattoni sugli alberi d’oro”.

S’impiegata quindi come “cameriera e inserviente” all’Ostello dell’Istituto Tecnico di Battersea. La fantasia materializza subito l’enorme tavolo rovesciato a gambe all’aria della Battersea Power Station, immortalato dai Pink Floyd in Animals. All’ombra di Battersea, Janet si ritrova “inaspettatamente a vivere come durante i giorni della Seconda guerra mondiale”, perché una volta terminati i rispettivi compiti gli altri inservienti, quasi tutti londinesi, rievocano per lei “quel mondo di ombre”. Intuiscono in quella ragazza particolare una fiducia, da non tradire, le affidano le loro memorie. Diventano così “i cantastorie di Battersea”: “Ogni giorno parlavano della guerra, rivivendo orrori di cui non avevano mai parlato e che solo adesso potevano descrivere mentre io, rabbrividendo alla sensazione di un capovolgimento del tempo che troppo spesso noi crediamo possa scorrere ordinatamente dal passato al presente al futuro, sedevo in silenzio ad ascoltare, provando un crescente rispetto per l’ineluttabilità di un’esperienza che come un corteggiatore deciso, perseverante, che stringe la sua amata in un eterno abbraccio, alla fine si assicurerà la propria unione con la parola, anche se ciò, come in questo caso, richiede quindici anni (…) di decantazione, di lavaggio e asciugatura delle lacrime, un mutamento di punti di vista e contenuti (…), un sottostare alla morte e alla rinascita. (…) In quei giorni iniziai a vivere la guerra come l’avevano conosciuta i londinesi. (…) Il mio interesse per i cantastorie di Battersea mi rendeva più sopportabile (…) i miei compiti ingrati…”.

A Londra tutto sembra iniziare a prendere un senso, anche il dolore passato, la sua storia di emarginazione e povertà, la “diversità” e l’amore per la poesia, “come se ogni evento racchiudesse un significato che si svelava attraverso l’immaginazione e le sue varie lingue; come se, al pari delle ombre nella caverna di Paltone, le nostre vite e il mondo contenessero città di specchi rivelateci solo dalla nostra immaginazione, l’Inviato”.

Londra le restituisce cittadinanza nel mondo, “il mio posto”, e possibilità di riprendere a vivere, scrivere. La sua scrittura sempre più si appoggia dalla parte dell’“angelico”, le incursioni nel mondo degli Specchi, altrettante metafore per la lente d’ingrandimento sui millenni, del poeta di ogni tempo: “scrivere un romanzo non è soltanto andare a fare acquisti oltre frontiera in una terra irreale: sono ore e anni passati nelle fabbriche, nelle strade, nelle cattedrali dell’immaginazione, apprendendo il funzionamento unico della Città degli Specchi, i suoi cieli e il suo spazio, il suo sistema planetario…”.

Seppure tardi, Londra le restituisce la propria identità interiore.

Entrando io stessa, anni fa, al St. George’s Hospital di Londra, ricordavo bene: lì Janet Frame era stata completamente liberata dalla diagnosi che l’aveva rinchiusa otto anni tra i malati mentali. La sua schizofrenia non c’era più: ossia, non era mai esistita. Lei non ne era mai stata malata.

Nelle pagine finali dell’autobiografia, la Frame scrive: “avevo dimenticato che il mondo era un posto crudele”. Per concludere, facendo ritorno al “punto di partenza”, “il mito”: “Tutti gli scrittori sono in realtà esiliati, dovunque vivano, e il loro lavoro è un diuturno viaggio verso la terra perduta…”.

Candidata due volte al Nobel per la letteratura, Janet Frame è scomparsa nel 2004.

Paola Tonussi

*In copertina: una immagine tratta da “Un angelo alla mia tavola”, il film di Jane Campion del 1990

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martedì 17 novembre 2020

UN ASCENSORE da LA FINE DEL MONDO E IL PAESE DELLE MERAVIGLIE Murakami Haruki



UN ASCENSORE 
Estratto da "La fine del mondo e il paese delle meraviglie"
Murakami Haruki
L'ascensore saliva con estrema lentezza. Presumo che salisse, cioè. Ma non ne sono affatto sicuro. Era tanto lento da farmi perdere il senso della direzione. Chissà, forse scendeva, o non si muoveva neanche. Nelle circostanze in cui mi trovavo era logico immaginare che stesse salendo. Era solo una supposizione, però. Del tutto priva di fondamento. Magari ero salito di tredici piani e poi sceso di tre, o avevo fatto il giro del mondo ed ero tornato al punto di partenza. Chi poteva dirlo?Quell'ascensore non aveva nulla in comune col rudimentale arnese installato nel mio condominio, una semplice variante di un secchio da pozzo. I due congegni erano talmente diversi che mi era difficile pensare che fossero stati concepiti per lo stesso fine, che avessero la stessa funzione e venissero chiamati con lo stesso nome. Nella loro categoria, erano praticamente agli antipodi.
Prima di tutto per la grandezza. L'ascensore in cui mi tro
vavo avrebbe potuto fungere da ufficio, tanto era ampio. C'era posto per una scrivania, degli schedari, un armadio, magari un angolo cottura, e sarebbe ancora avanzato dello spazio. Volendo ci si potevano far entrare pure tre cammelli e una palma di media grandezza. Per non parlare della pulizia! Era lustro come una cassa da morto nuova. Sulle pareti e sul soffitto, in lucente acciaio inossidabile, non una macchia, non un'ombra, e il pavimento era coperto da una folta moquette verde muschio. Inoltre era incredibilmente silenzioso. Quando vi ero entrato le porte si erano richiuse adagio senza far rumore - alla lettera, senza il minimo fruscio - dopodiché non avevo udito più nulla. Al punto che non capivo nemmeno se la cabina si stesse muovendo o no. I fiumi profondi sono lenti e placidi.
Altra cosa, mancava la maggior parte dei dispositivi di cui normalmente sono provvisti gli ascensori. Tanto per cominciare, non vedevo il pannello dei comandi. Introvabili i pulsanti per scegliere il piano, aprire e chiudere le porte, azionare l'arresto d'emergenza. Insomma non c'era niente. Il che mi metteva estremamente a disagio. Perché oltre ai pulsanti mancavano anche gli indicatori di posizione, la targa con il limite di carico, le norme di sicurezza e il nome del fabbricante. L'uscita d'emergenza non si capiva dove fosse. Un vero e proprio sarcofago. Assurdo che un ascensore del genere avesse ottenuto il certificato di conformità dai vigili del fuoco. Anche gli ascensori, come ogni cosa, devono sottostare a dei precisi criteri.
Osservando quelle mute pareti in acciaio inossidabile, mi tornarono in mente le leggendarie imprese del mago Houdini, che avevo visto da bambino in un film. Legato con parecchi giri di corda, si faceva mettere in un grosso baule stretto da altri giri di robusta catena e buttare giù dalle cascate del Niagara. Oppure calare con tutto l'armamentario nei ghiacci del Mare Artico. Feci un profondo sospiro, e paragonai con calma la situazione in cui mi trovavo a quella di Houdini. Non ero legato, e questo era un punto a mio favore, però ero svantaggiato dal fatto di non conoscere il trucco.
E poi altro che trucco, non sapevo nemmeno se l'ascensore si muovesse o no! Provai a schiarirmi la gola. Ne venne fuori uno strano rumore, molto diverso da quello solito. Un suono attutito, come quando si tira una zolla di terra contro un muro di cemento. Non riuscivo a credere di averlo prodotto io. Per scrupolo riprovai: stesso risultato. Rinunciai a fare altri tentativi.
Rimasi per parecchio tempo in attesa, fermo nella posizione in cui mi trovavo. Niente, le porte non si aprivano. Silenzio e immobilità, la scena sembrava una natura morta dal titolo L'uomo e l'ascensore. Cominciavo ad avere paura.
Poteva darsi che l'ascensore fosse guasto, oppure che il manovratore - supponendo che una persona con un tale incarico esistesse - si fosse completamente dimenticato che in quella cabina c'ero io. Mi era già successo altre volte che qualcuno si dimenticasse della mia esistenza. In entrambi i casi il risultato era uguale, ero chiuso in quella prigione di acciaio inossidabile. Mi concentrai e tesi l'udito: non il minimo suono. Appoggiai l'orecchio a piatto sulla parete ma non sentii nulla, tutto quel che ottenni fu di lasciare un alone bianco sul metallo. Probabilmente quella scatola era stata costruita in una lega speciale in grado di assorbire ogni suono. Allora provai a fischiettare Danny Boy, ma riuscii a emettere soltanto un rantolo che pareva quello di un cane consunto dall'asma.
Rassegnato, mi appoggiai alla parete, e tanto per ammazzare il tempo presi a contare gli spiccioli che avevo in tasca. Per una persona che esercita la mia professione, allenarsi a far passare il tempo è importante quanto per un pugile tenere in esercizio le mani stringendo delle palle di gomma. Non si tratta di un diversivo nel puro senso del termine. Le attività ripetitive sono il solo modo di riequilibrare le tendenze maldistribuite.
Comunque sia, cerco di avere sempre parecchie monete nelle tasche dei pantaloni. Nella destra metto quelle da 100 e da 500, nella sinistra quelle da 50 e da 10. Le monete da 5 e da 1 yen le lascio invece nel taschino posteriore, perché di regola non le uso. Infilai le mani in tasca e con la destra presi a contare le monete da 100 e da 500, mentre con la sinistra contavo quelle da 50 e da 10.
Chi non ha mai provato a fare quest'operazione non può nemmeno immaginare che razza di fatica sia. L'emisfero cerebrale destro e il sinistro fanno due lavori distinti, che bisogna poi mettere insieme come le due parti di un'anguria spaccata. Impossibile riuscirci senza il dovuto allenamento.
A essere sincero, non sono del tutto sicuro che i due emisferi cerebrali funzionino separatamente. Forse uno specialista in neurofisiologia darebbe un'altra spiegazione. Ma io non ho tale qualifica, e quando mi cimento in questo tipo di calcolo ho la netta impressione di usare in maniera disgiunta le due parti del mio cervello. Anche il senso di spossatezza che mi prende alla fine di questi allenamenti è qualitativamente molto diverso dalla normale stanchezza che provo dopo aver fatto dei calcoli. Così ne traggo la ragionevole conclusione che l'emisfero destro si occupa della tasca destra, quello sinistro della tasca sinistra.
Non è facile pronunciare un giudizio su se stessi, ma credo di essere propenso a dare ai fenomeni, agli eventi e agli esseri esistenti al mondo il significato che più mi conviene. Non perché sia un opportunista - d'accordo, ammetto di avere in una certa misura anche questo difetto - ma perché al mondo si verificano spesso circostanze in cui, più che trovare una soluzione giusta, interpretare le cose nella maniera più conveniente aiuta a capire la loro natura.
Supponiamo per un momento che la Terra non sia una sfera ma un gigantesco tavolino da tè: a livello di vita quotidiana quali svantaggi ne deriverebbero? Evidentemente l'esempio è paradossale, non è che si possa prendere una cosa qualunque e ricostruirla come pare e piace. Se però adottassimo la teoria del tavolino da tè, tanti problemi triviali derivanti dal fatto che la Terra è una sfera - la gravità dei corpi, il meridiano che segna il cambiamento di data, la linea dell'equatore e altre cose che non saranno mai utili a nessuno - sparirebbero, spazzati via per incanto. Quante volte le persone che hanno un'esistenza normale hanno a che fare con la linea dell'orizzonte, in vita loro?
Di conseguenza mi sforzo, nella misura del possibile, di considerare le cose dal punto di vista della convenienza. Sono persuaso che il mondo contenga moltissime possibilità. Anzi, possibilità illimitate. E la scelta fra l'una o l'altra in una certa misura spetta alle singole persone. Il mondo è un tavolino da tè formatosi per condensazione di una possibilità fra mille.
Ma torniamo al discorso di prima. Fare contemporaneamente due calcoli diversi a destra e a sinistra è un'impresa tutt'altro che semplice. Mi ci è voluto un sacco di tempo per padroneggiare la tecnica. Ma una volta che si è presa la mano - che si è capito il sistema, cioè - non la si perde più. È come andare in bicicletta, o nuotare. Però è anche necessario allenarsi. Più ci si allena, più si migliora e ci si perfeziona. È per questo che ho sempre molte monete in tasca e appena ho un po' di tempo libero mi esercito a farne la somma.
Quella volta avevo in tasca tre monete da 500 yen, diciotto da 100, sette da 50 e sedici da 10. Totale: 3810 yen. Non ebbi nessuna difficoltà a calcolarlo. Come contare le dita delle mani. Soddisfatto, mi appoggiai alla parete in acciaio inossidabile e guardai di nuovo le porte. Non accennavano ad aprirsi.
Non capivo per quale motivo restassero chiuse per tanto tempo. Dopo averci riflettuto su, ne conclusi che potevo scartare le spiegazioni banali - un guasto o una dimenticanza da parte del manovratore. Non erano realistiche. Non perché tali incidenti non possano accadere nella realtà. Al contrario, succedono in continuazione. Ma in quella realtà particolare, cioè in quello stupido e liscio ascensore, paradossalmente conveniva considerare la mancanza di contrassegni come una caratteristica. Un ascensore tanto eccentrico e perfezionato poteva dipendere da una persona distratta al punto di trascurare la manutenzione del meccanismo o far salire i visitatori e dimenticarseli dentro?
La risposta ovviamente era no.
Una tale possibilità non esisteva.
Fino a un momento prima «loro» erano stati estremamente scrupolosi e attenti, addirittura pignoli. Avevano curato i minimi dettagli, procedendo tappa dopo tappa e valutando la progressione. Quando ero entrato nel palazzo, due uomini di guardia mi avevano fermato, mi avevano chiesto da chi mi stessi recando, avevano controllato la lista delle visite in programma e la mia patente, verificato la mia identità sul computer centrale, poi mi avevano perquisito con un rivelatore elettronico e infine spinto dentro a quell'ascensore. Nemmeno alla Zecca di Stato mi avrebbero sottoposto a controlli tanto minuziosi. Era inconcepibile che a quel punto le precauzioni venissero improvvisamente meno.
Restava solo una possibilità: la situazione in cui mi trovano era voluta. Non desideravano che io mi rendessi conto dei movimenti dell'ascensore. Lo manovravano così lentamente perché io non capissi se stavo salendo o scendendo. Da qualche parte doveva essere installata una telecamera a circuito chiuso. Nella portineria, all'ingresso, avevo visto una fila di schermi televisivi, molto probabilmente uno di quelli mostrava l'interno della cabina.
Per vincere la noia, pensai di scoprire dove fosse l'occhio della telecamera, poi mi dissi che non mi sarebbe stato di alcun vantaggio. Li avrei solo messi in allarme, il che forse li avrebbe indotti a manovrare l'ascensore ancora più adagio. Ne facevo volentieri a meno. Sarei solo arrivato tardi al mio appuntamento.
In conclusione decisi di restarmene tranquillo dov'ero e aspettare. Non avevo nulla da temere, né avevo ragione di sentirmi teso.
Appoggiato alla parete, le mani in tasca, ripresi a contare le monete. 3750 yen. Elementare. Ci avevo messo meno di niente.
Come, tremilasettecentocinquanta yen?
No, mi sbagliavo.
A un certo punto dovevo aver commesso un errore.
Sentii i palmi delle mani imperlarsi di sudore. Negli ultimi tre anni non mi era mai successo di sbagliarmi a contare le monete che avevo in tasca. Nemmeno una volta. Brutto segno, mi piacesse o no. Dovevo recuperare subito il terreno perduto, prima che quell'infausto presagio si concretizzasse in un palese disastro.
Chiusi gli occhi e feci il vuoto nei miei due emisferi cerebrali, come se pulissi le lenti degli occhiali. Poi estrassi le mani dalle tasche, le aprii e mi asciugai i palmi sudati. Gesti ben misurati, come Henry Fonda in Ultima notte a Warlock, quando si prepara alla sparatoria. Non c'entra niente, lo so, ma vado pazzo per quel film.
Dopo essermi assicurato che le mie mani fossero ben asciutte, le infilai di nuovo in tasca. Iniziai a calcolare per la terza volta. Se la somma fosse stata uguale a una delle due precedenti tutto era a posto. Chiunque può fare uno sbaglio. La situazione particolare in cui mi trovavo mi rendeva nervoso, inoltre - devo ammetterlo - forse avevo sopravvalutato la mia memoria. E questo era stato il mio primo errore. Bastava che rifacessi il calcolo esatto e avrei risolto tutto. Ma non ne ebbi il tempo, le porte dell'ascensore si aprirono. Di colpo scivolarono ai due lati, senza preavviso, senza rumore.
Concentrato com'ero sulle monete che avevo in tasca, non me ne accorsi subito. O per la precisione, vidi che le porte si aprivano, ma per qualche secondo non afferrai il significato concreto dell'evento. Cioè che grazie all'apertura di quelle porte due spazi fino ad allora separati diventavano comunicanti. E al tempo stesso che l'ascensore su cui mi trovavo era arrivato a destinazione.
Smisi di muovere le dita dentro le tasche e guardai al di là della soglia. Vidi un corridoio, e nel corridoio una donna. Era giovane, piuttosto grassa, indossava un tailleur rosa e calzava delle scarpe rosa con il tacco alto. Il tailleur era di buona fattura, in un tessuto serico, e altrettanto serico era il viso di lei. La donna mi guardò in faccia per assicurarsi che fossi io, poi fece un cenno di assenso. Sembrava volermi dire «da questa parte». Lasciai perdere la faccenda delle monete, tirai fuori le mani di tasca e uscii dall'ascensore. Immediatamente, come se non avessero atteso altro, le porte si richiusero alle mie spalle.
Una volta nel corridoio, gettai un'occhiata in giro, ma non vidi assolutamente nulla che potesse in qualche modo indicarmi dove fossi, non il minimo indizio. Tutto quello che sapevo era che mi trovavo in una sorta di passaggio interno del palazzo, l'avrebbe capito anche un bambino.
L'edificio era incredibilmente silenzioso e ben rifinito. Come l'ascensore, era stato costruito con materiali della migliore qualità, ma nell'insieme era del tutto anonimo. Il pavimento in marmo, tirato a lucido, splendeva, e le pareti color crema avevano la stessa sfumatura delle brioche che mangio ogni mattina a colazione. Sui due lati del corridoio si susseguivano solide porte in legno, ognuna con la sua targa in metallo recante il numero della stanza, ma senza alcun ordine logico: dopo il 936 veniva il 1213, seguito dal 26. Inconcepibile, numerare le cose in quel modo assurdo. C'era qualcosa che non quadrava.
La giovane donna non parlò, si voltò verso di me per dirmi «prego, da questa parte», ma senza emettere alcun suono, soltanto le sue labbra formarono le parole. La capii perché prima di iniziare quel lavoro avevo seguito per due mesi un corso di lettura sulle labbra. Per un attimo mi domandai se non fossero le mie orecchie a farmi degli scherzi. L'ascensore non l'avevo sentito muoversi, quando mi ero schiarito la gola e avevo provato a fischiare avevo emesso suoni strani, la mia capacità di percepire i rumori doveva essersi indebolita.
Per togliermi il dubbio mi schiarii di nuovo la gola. Ne venne fuori un suono sempre attutito, ma più forte di prima, quando mi trovavo nell'ascensore. Con un senso di sollievo ritrovai fiducia nelle mie facoltà uditive. Potevo stare tranquillo, le mie orecchie non avevano nulla che non andasse. Era la ragazza che aveva qualche problema con la voce.
Avanzai dietro di lei. Il ticchettio dei suoi tacchi a spillo riecheggiava nel corridoio vuoto, come in una cava di pietra nel primo pomeriggio. I suoi polpacci inguainati nelle calze di nylon si riflettevano nel marmo.
Aveva parecchi chili di troppo. Era giovane e bella, ma grassa. Non so perché, il fatto che quella bella ragazza fosse grassa mi turbava. Camminando dietro di lei osservavo il suo collo, le sue braccia, le sue gambe. La carne le stava attaccata al corpo come neve caduta abbondante e silenziosa durante la notte.
Quando sono in compagnia di una donna giovane, bella e grassa, mi trovo sempre in uno stato confusionale. Per quale motivo non lo so neanch'io. O forse è perché ogni volta mi viene naturale figurarmi le sue abitudini alimentari. Guardandola, automaticamente me la immagino mentre mastica le foglie d'insalata messe a guarnire il piatto o raccoglie col pane la salsa alla panna, fino all'ultima goccia. Non posso impedirmelo. E quando incomincio, è come un acido che corrode il metallo: scene di lei che mangia invadono la mia testa mettendo fuori uso tutte le altre funzioni mentali.
Nel caso di una qualunque donna grassa, non ho problemi. Una cicciona ordinaria è come una nuvola che vaga nel cielo. La sua presenza non mi tocca in alcun modo. Ma se la donna oltre a essere grassa è anche giovane e bella, è tutto un altro paio di maniche. Mi sento obbligato ad assumere un atteggiamento nei suoi confronti. Perché potremmo anche finire a letto insieme, non si sa mai. Credo sia questo che crea confusione nella mia testa. E fare l'amore con una donna quando la mente non è lucida non è una cosa semplice.
Il che non vuol dire che abbia qualcosa contro le donne grasse. Provare un senso di confusione non significa detestare. Fino a oggi sono andato a letto con un certo numero di donne giovani, belle e grasse, e nel complesso non posso certo dire che siano state esperienze sgradevoli. Se uno riesce a convogliare la confusione nella direzione giusta, può arrivare a risultati magnifici, molto più brillanti del solito. È ovvio che può accadere anche il contrario: il sesso è qualcosa di estremamente delicato, non è come andare ai grandi magazzini la domenica per comprare un thermos. Inoltre due donne ugualmente belle, giovani e grasse hanno la ciccia distribuita in modo diverso; c'è un tipo di adiposità che mi spedisce nella direzione giusta, un altro che mi getta in un temporaneo smarrimento.
In questo senso, per me fare l'amore con una donna grassa è sempre una sorta di sfida. Perché ci sono tanti modi di essere grassi, come ci sono tanti modi di morire.
Questi erano i miei pensieri mentre percorrevo il corridoio dietro quella bella cicciottella. Sotto il colletto del suo elegante tailleur rosa all'ultima moda portava una sciarpa bianca. Ai lobi paffuti e graziosi delle orecchie le pendevano degli orecchini d'oro, che a ogni suo passo dondolavano in cadenza e brillavano come segnali luminosi. Considerata la sua mole, nel complesso la ragazza aveva un'andatura piuttosto leggera. E una vita relativamente sottile, graziosa, che mi piaceva molto, pur mettendo in conto la possibilità che per fare bella figura si fosse stretta in un busto o in qualche indumento del genere. Insomma, era proprio il mio tipo di grassa.
Non è per giustificarmi, ma non sono molte le donne che mi attirano. Anzi, sono piuttosto il genere d'uomo che non si lascia sedurre facilmente. Così, quando sono attratto da una donna, mi viene da chiedermi il perché. Cerco di capire se mi piaccia veramente, e in tal caso come funzioni questa attrazione, da cosa nasca e così via.
Ad ogni modo mi portai accanto a lei e mi scusai per essere otto o nove minuti in ritardo all'appuntamento.
-Non sapevo che le formalità all'ingresso sarebbero state tanto lunghe, - mi giustificai. - E poi l'ascensore era così lento... per la verità ero arrivato con dieci minuti di anticipo.
Lei annuì leggermente come per dire che capiva. Dalla sua nuca mi arrivò un sentore di acqua di colonia. Un odore che mi dava l'illusione di trovarmi in un campo di meloni in una mattina d'estate. E mi procurava una sensazione strana. Una sorta di bizzarra, assurda nostalgia, come se due ricordi diversi si sovrapponessero, in un luogo a me ignoto. A volte mi succede di provare stati d'animo di questo genere. Ma non riesco a spiegarmi il perché.
-Davvero lungo, questo corridoio, - dissi alla ragazza per avviare la conversazione. Senza smettere di camminare, lei si voltò a guardarmi. Doveva avere una ventina d'anni. Tratti regolari, la fronte ampia, una bella pelle,
-Proust, - fece fissandomi in viso. O meglio, non lo disse veramente, semplicemente le sue labbra mi dettero l'impressione di formare quella parola. Ma come prima non udii alcun suono. Neanche il rumore del suo respiro. Sembrava che mi parlasse dall'altra parte di una vetrata.
Proust?
-Marcel Proust? - le chiesi.
Lei mi guardò con espressione stupita. Poi ripeté: - Proust -. Rassegnato, tornai a mettermi dietro di lei e ripresi a seguirla, mentre cercavo tutte le parole che potevano adattarsi al movimento delle sue labbra. «Fusto», provai a dire sottovoce, «posto», «mosto» e altri vocaboli privi di nesso, l'uno dopo l'altro, senza trovarne uno convincente. Pareva che lei avesse detto proprio «Proust». Ma che nesso poteva mai esserci tra Marcel Proust e quel lungo corridoio?
Che avesse tirato fuori Proust come metafora della lunghezza? In tal caso, che modo singolare e irriverente di esprimersi! Avrei ancora capito se avesse portato a esempio il corridoio per rappresentare la lunghezza dell'opera di Proust. Fare il contrario, però, era davvero strano.
Un corridoio lungo come Marcel Proust?
Ad ogni buon conto, la seguii docilmente per quell'interminabile labirinto. Che non finiva mai, formava svolte, saliva e scendeva con brevi scale di pochi gradini. Percorremmo cinque o sei volte la lunghezza di un normale palazzo. Mi chiesi se non stessimo girando in tondo, come in un quadro di Escher. Potevamo camminare quanto volevamo, tanto la scenografia non variava. Pavimento di marmo, pareti color uovo sbattuto, porte di legno numerate a casaccio, pomi d'acciaio. Nessuna finestra. I tacchi a spillo della ragazza ticchettavano nel corridoio con lo stesso ritmo regolare, io la seguivo con le mie scarpe da ginnastica che facevano uno schiocco molle di gomma fusa. Molto più forte del solito, tanto che mi venne il dubbio che la suola stesse davvero fondendo. Era la prima volta in vita mia che camminavo sul marmo con delle scarpe da ginnastica, come potevo sapere se era il rumore normale o meno? Forse lo era per metà e per l'altra metà no, mi dissi. Perché a quel punto avevo l'impressione che ogni cosa mi venisse propinata in quella proporzione.
Quando la ragazza improvvisamente si fermò, ero talmente concentrato sul rumore delle mie scarpe che non vi feci caso e andai a sbattere col petto contro la sua schiena. Una schiena gradevolmente morbida, come una nuvola carica di pioggia. Dalla sua nuca mi arrivò l'odore d'acqua di colonia al melone di prima. A causa dell'urto lei stava per cadere in avanti, ma io fui svelto a trattenerla per le spalle.
- Mi scusi, - dissi. - Ero immerso nei miei pensieri.
La ragazza arrossi leggermente e mi guardò. Non ci avrei messo la mano sul fuoco, ma non mi parve in collera. - Tasselli, - rispose con un accenno di sorriso. Poi si raddrizzò e aggiunse: - Sela -. È chiaro che non pronunciò davvero quelle parole, le formò soltanto con le labbra.
-Tasselu? - provai a dire sottovoce fra me e me. - Sela?
-Sela, - ripeté allora lei con aria più convinta.
Poteva essere turco. Peccato che io il turco non l'avessi mai sentito in vita mia. Di conseguenza forse era un'altra cosa. A poco a poco nella mia testa la confusione cresceva, così decisi di lasciar perdere. Fine della conversazione. La mia capacità di leggere sulle labbra era ancora insufficiente. È un'operazione delicata leggere sulle labbra, mica una tecnica che si riesce a padroneggiare perfettamente in due mesi di lezioni al Centro Comunale.
La ragazza tirò fuori dalla tasca della giacca una chiave elettronica ovale e la introdusse per metà nel pomo della porta numero 728. Si sentì uno scatto e la serratura si aprì. Mirabile congegno. Ferma sulla soglia lei spinse il battente con la mano. Poi rivolta a me fece: - Somuto, sela.

Ovviamente annuii ed entrai.

lunedì 9 novembre 2020

SULLA PAZZIA Lev Tolstoj


 NOI VIVIAMO UNA VITA FOLLE ...“Noi viviamo una vita folle, contraria ai più semplici ed elementari dettati del buon senso, ma poiché questa vita viene vissuta da tutti o dalla stragrande maggioranza, noi non vediamo più la differenza fra follia e ragione e consideriamo ragionevole la nostra folle vita.
Nel sonno per salvarci dall’orrore di ciò che ci accade e sopratutto di ciò che noi stiamo facendo, dobbiamo tornare alla coscienza, capire che quello è sonno allora svegliarci; anche per salvarci dall’orrore nel quale viviamo e al quale partecipiamo, dobbiamo rientrare in noi stessi a risvegliare in noi quel senso ed impegno morale che è proprio degli esseri ragionevoli, cioè dell’uomo.” Lev Tolstoj "Sulla pazzia”

domenica 8 novembre 2020



 IL FRATELLO

Jo Nesbø

Prologo 

Era il giorno in cui morí Dog. Io avevo sedici anni, Carl quindici. Qualche giorno prima papà ci aveva mostrato il coltello da caccia con cui poi lo avrei ucciso. La lama larga brillava al sole e aveva una serie di solchi lungo i lati. Papà aveva spiegato che i solchi servivano a far defluire il sangue quando si squartava la preda. Già a quelle parole Carl era impallidito e papà gli aveva chiesto se avesse intenzione di farsi venire di nuovo il mal d’auto. Credo fosse questo il motivo per cui Carl giurò che avrebbe sparato a un animale, uno a caso in effetti, e lo avrebbe squartato, fatto a pezzettini, se era questo che ci voleva, cazzo. –E poi lo cucinerò e lo mangeremo, –disse mentre stavamo davanti al fienile, io con la testa sprofondata nel motore della Cadillac de Ville di papà. –Lui, mamma, tu e io. D’accordo? –D’accordo, –risposi manovrando lo spinterogeno alla ricerca del punto in cui scoccava la scintilla. –E anche Dog, –aggiunse. –Ce ne sarà per tutti. –Certo, –dissi. Papà sosteneva di aver chiamato Dog cosí perché sul momento non gli era venuto in mente nient’altro. Ma secondo me quel nome gli piaceva proprio tanto. Era come lui. Non diceva piú del minimo indispensabile ed era talmente americano che doveva essere norvegese. E adorava quell’animale. Ho il sospetto che apprezzasse di piú la sua compagnia di quella di qualsiasi essere umano. Il nostro podere montano non sarà granché, ma ha un bel panorama e distese di campi incolti, quanto basta perché papà lo chiamasse il suo regno. E dalla mia posizione fissa curva sopra la Cadillac, giorno dopo giorno vedevo Carl avviarsi strascicando i piedi con il cane di papà, il fucile di papà e il coltello di papà. Li vedevo ridursi a due puntini sulla montagna brulla. Ma non udivo mai uno sparo. E quando rientravano al podere, Carl diceva sempre che non aveva visto nessun uccello, e io tenevo la bocca chiusa anche se invece avevo avvistato uno stormo di pernici dopo l’altro levarsi in volo dal fianco della montagna rivelando pressappoco il punto dove si trovavano Carl e Dog. Poi venne il giorno in cui finalmente si udí il fragore. Trasalii tanto che sbattei la testa contro l’interno del cofano. Mi tolsi l’olio dalle dita e guardai verso il pendio ammantato di erica mentre il boato riecheggiava, come un tuono, sopra il paese giú in riva al lago di Budal. Dieci minuti dopo Carl arrivò correndo verso il podere, e rallentò nel rendersi conto che mamma o papà avrebbero potuto vederlo dall’abitazione. Dog non era con lui. E non aveva neanche il fucile. A quel punto intuii cosa era accaduto e gli andai incontro. Appena mi vide girò sui tacchi e si riavviò a passo lento nella direzione da cui era venuto. Quando lo raggiunsi notai che aveva le guance bagnate di lacrime. –Ci ho provato, –singhiozzò. –Si sono alzati in volo davanti a noi, erano tantissimi e ho preso la mira, ma poi non ce l’ho proprio fatta. E allora volevo farvi sentire che almeno ci avevo provato, e ho abbassato il fucile e ho fatto partire un colpo. E appena gli uccelli si sono allontanati e ho guardato giú, ho visto Dog disteso in terra. –Morto? –domandai. –No, –rispose Carl cedendo a un pianto disperato. –Però…sta morendo. Gli esce il sangue dalla bocca e ha gli occhi distrutti. È lí a terra che geme e trema. –Corri, –dissi. Ci mettemmo a correre e qualche minuto dopo notai un movimento tra l’erica. Era una coda. La coda di Dog, aveva fiutato il nostro arrivo. Ci fermammo accanto a lui. I suoi occhi sembravano due tuorli d’uovo spappolati. –È spacciato, –dissi. Non perché sia un veterinario esperto come hanno l’aria di essere tutti i cowboy dei film western, bensí perché se per miracolo Dog ce l’avesse fatta, una vita da cane da caccia cieco non era degna di essere vissuta. –Gli devi sparare. –Io? –sbottò Carl, quasi non si capacitasse che avessi anche solo potuto suggerire che lui, Carl, dovesse uccidere un essere vivente. Lo guardai. Il mio fratellino. –Dammi il coltello, –gli dissi. Mi porse il coltello da caccia di papà. Posai una mano sulla testa di Dog e lui mi leccò l’avambraccio. Lo afferrai per la collottola e con l’altra mano gli tagliai la gola. Ma ero stato troppo delicato, non accadde nulla, Dog si limitò a sussultare. Solo al terzo tentativo riuscii ad affondare la lama, e fu come quando fai un buco troppo in basso nel brick del succo di frutta: il sangue uscí con un fiotto, come se non avesse aspettato altro. –Ecco fatto, –dissi lasciando cadere il coltello sull’erica. Vidi il sangue nelle scanalature e mi chiesi se mi fosse spruzzato in faccia, perché mi sentivo colare un liquido caldo lungo la guancia. –Stai piangendo, –disse Carl. –Non dirlo a papà. –Che hai pianto? –Che non ce l’hai fatta a sopprimere…a sopprimerlo. Gli diciamo che io ho deciso che bisognava farlo, ma che ci hai pensato tu. Okay? Carl annuí: –Okay. Mi caricai la carcassa di cane sulla spalla. Era piú pesante di quanto avessi immaginato e scivolava avanti e indietro. Carl si offrí di portarlo, ma quando rifiutai vidi il sollievo nel suo sguardo. Posai Dog davanti alla rampa del fienile, entrai in casa e chiamai papà. Mentre tornavo insieme a lui gli diedi la spiegazione concordata. Papà non aprí bocca, si limitò ad accovacciarsi accanto al suo cane e annuí, come se in qualche modo lo avesse previsto, come se quasi fosse colpa sua. Poi si alzò, prese il fucile dalle mani di Carl e si infilò la carcassa di Dog sotto il braccio. –Venite, –disse salendo la rampa del fienile. Adagiò Dog su un giaciglio di fieno e questa volta si inginocchiò, chinò il capo e mormorò delle parole che sembravano i versi di uno degli inni americani che conosceva. Guardai mio padre, un uomo che avevo visto per tutta la mia breve vita, ma mai in quello stato. A pezzi. Quando si voltò verso di noi era ancora pallido, ma non gli tremavano piú le labbra e i suoi occhi avevano ritrovato l’espressione di calma risoluta. –Ed eccoci qua, –disse. E la cosa si chiuse lí. Anche se papà non aveva mai picchiato nessuno di noi due, Carl parve accucciarsi accanto a me. Papà lisciò la canna del fucile. –Chi di voi due ha…–cercò le parole mentre lisciava ininterrottamente la canna, –sgozzato il mio cane? Carl batté le palpebre all’infinito come se fosse terrorizzato. Aprí la bocca. –Carl, –risposi. –Ma sono stato io a dire che bisognava farlo, e che doveva farlo lui da solo. –Ah sí? –Papà vagò con lo sguardo da me a Carl per poi riportarlo indietro. –Sapete, il mio cuore piange. Piange, e ho un’unica consolazione. E sapete qual è? Restammo in silenzio, perché quando papà faceva quel genere di domande non dovevamo rispondere. –Il fatto di avere due figli che oggi hanno dimostrato di essere uomini. Che si sono assunti una responsabilità e hanno preso delle decisioni. Il tormento della scelta, sapete cos’è? È quando a soffocarti è l’atto di dover scegliere, e non la scelta in sé. Quando sai che qualunque sarà la tua scelta passerai le notti sveglio a tormentarti chiedendoti se sia stata quella giusta. Avreste potuto sottrarvi a questa decisione, ma avete sfidato la scelta sbagliata. Tra lasciare Dog vivere e soffrire, oppure farlo morire diventando il suo assassino. Ci vuole coraggio per non sottrarsi quando all’improvviso si viene messi davanti a una scelta simile –. Tese le sue grosse mani, una davanti a sé che posò sulla mia spalla, l’altra un po’piú in alto, su quella di Carl. E nella sua voce si insinuò un vibrato degno del predicatore Armand quando riprese: –Allora è la capacità di non scegliere la via della resistenza minore, ma quella della moralità piú alta, a distinguere gli uomini dagli animali –. Gli vennero di nuovo le lacrime agli occhi. –Ora come ora sono un uomo distrutto, però sono molto, molto fiero di voi due, ragazzi. Non solo era la dichiarazione piú vigorosa, ma probabilmente anche la piú lunga e coerente che avessi mai udito pronunciare da mio padre. Carl scoppiò a piangere e, quanto a me, cazzo, avevo un enorme groppo in gola. –E adesso andiamo a dirlo alla mamma. Eravamo preoccupati. Ogni volta che papà doveva macellare una capra, mamma andava sempre a fare una lunga passeggiata e tornava con gli occhi rossi. Mentre ci avviavamo verso casa papà mi trattenne in modo che Carl ci distanziasse. –Prima che lei ascolti questa versione, è il caso che ti lavi meglio le mani, –mi disse. Levai lo sguardo, preparato ad affrontare il seguito. Ma nel suo viso lessi solo mitezza e una rassegnazione stanca. E poi lui mi carezzò la nuca. A quanto ricordassi non lo aveva mai fatto prima. Né lo fece in seguito. –Tu e io siamo uguali, Roy. Siamo piú duri dei tipi come mamma e Carl. E perciò dobbiamo proteggerli. Sempre. Mi hai capito? –Sí. –Siamo una famiglia. E dobbiamo restare uniti perché non abbiamo nessun altro. Amici, fidanzate, vicini, compaesani, lo Stato. Non sono che un’illusione e non valgono un cazzo il giorno in cui ti ritrovi veramente nel bisogno. Allora saremo noi contro loro, Roy. Noi contro tutti quanti gli altri. Okay? –Okay. Parte prima 1. Lo udii prima di vederlo. Carl era tornato. Non so perché mi venne in mente Dog, erano passati quasi vent’anni, ma forse avevo il sospetto che quel ritorno improvviso fosse dettato dallo stesso motivo di allora. Di sempre. Dal fatto che aveva bisogno del fratello maggiore. Mi trovavo fuori nell’aia, guardai l’ora. Le due e mezzo. Mi aveva mandato un messaggio, e nient’altro, avvisandomi che sarebbero arrivati entro le due. Ma il mio fratellino è sempre stato un ottimista, ha sempre promesso un po’piú di quanto fosse in grado di mantenere. Guardai il paesaggio. Quel poco che spuntava dalle nuvole giú in basso. Il fianco della collina sul versante opposto della valle sembrava galleggiare su un mare grigio. Quassú in alto la vegetazione cominciava già a essere spruzzata di rosso dall’autunno. Sopra di me il cielo era azzurro e limpido come lo sguardo innocente di una ragazzina. L’aria era buona e fredda e pungeva i polmoni se la inspiravo troppo forte. Avevo la sensazione di essere completamente solo, di avere tutto il mondo per me. E va bene, forse non tutto il mondo, ma solo un monte Ararat con un podere sulla cima. A volte dei turisti risalivano la strada tortuosa dal paese per guardare il panorama, e allora prima o poi finivano qui, in quest’aia. E spesso mi chiedevano se portassi ancora avanti la piccola azienda agricola. Probabilmente quegli idioti la definivano piccola perché erano convinti che un podere degno di questo nome dovesse essere come quelli nel bassopiano, con terreni estesi, fienili fuori misura e abitazioni enormi e sfarzose. Non avevano visto che cosa una tempesta in montagna era capace di fare a un tetto un po’troppo grande, né avevano provato ad accendere il riscaldamento in una stanza un po’troppo grande quando un vento forte trapassava i muri con meno trenta. Non conoscevano la differenza tra campi interni e campi esterni, cioè tra campi coltivati e incolti, non sapevano che un podere di montagna è un pascolo per il bestiame e può essere un regno desolato ma molto, molto piú grande del presuntuoso paesaggio culturale giallo grano del contadino del bassopiano. Da quindici anni abitavo qui da solo, ma d’ora in poi non sarebbe piú stato cosí. Da qualche parte sotto la coltre di nubi un V8 ruggiva e ringhiava. Dall’intensità sembrava abbastanza vicino da aver superato la curva del Giappone a metà della salita. Il guidatore accelerò, rilasciò il pedale, percorse uno dei tornanti, accelerò di nuovo. Sempre piú vicino. Si sentiva che aveva già affrontato quelle curve. E adesso che riuscivo a distinguere le sfumature del ronzio del motore, i profondi sospiri di quando cambiava marcia, il profondo basso che solo le Cadillac in prima o seconda hanno, capii che era una de Ville. Lo stesso pesante veicolo che aveva avuto papà. Ovvio. Ed ecco che le aggressive fauci della griglia della de Ville sbucarono dalla curva delle Capre. Nera. Ma un modello piú recente, su per giú dell’85, tirai a indovinare. Però l’accompagnamento era lo stesso. L’auto mi affiancò e il finestrino dalla parte della guida fu abbassato. Speravo che non si vedesse, ma il mio cuore batteva come un pistone. Quante lettere, quanti sms e quante mail e telefonate ci eravamo scambiati in tutti quegli anni? Ben pochi. Eppure, era trascorso un solo giorno senza che avessi pensato a Carl? Difficile. Però era meglio sentire la sua mancanza che dovermi occupare dei suoi guai. Per prima cosa notai che era invecchiato. –Mi scusi, gentile signore, siamo davvero arrivati al podere dei famosi fratelli Opgard? E poi mi sorrise a tutti denti. Mi rivolse quel caldo, affabile, irresistibile sorriso, e fu come se il tempo venisse cancellato sia dalla sua faccia sia dal calendario, secondo il quale erano trascorsi quindici anni dall’ultima volta che ci eravamo visti. Ma nel suo sguardo c’era anche un che di indagatore, come se controllasse la temperatura dell’acqua prima di immergersi. Non avevo voglia di ridere. Non ancora. Ma non riuscii a trattenermi. La portiera si aprí. Lui spalancò le braccia e io mi lasciai stringere. Qualcosa mi dice che avrebbe dovuto essere il contrario. Che avrei dovuto essere io –il fratello maggiore –ad abbracciare lui che tornava a casa. Ma a un certo punto la distribuzione dei ruoli fra me e Carl si era fatta un po’confusa. Lui era diventato piú grande di me, sia fisicamente sia come persona e –almeno quando eravamo in compagnia di altri –era lui a dare il La. Chiusi gli occhi, rabbrividii e feci un respiro tremolante, inspirando l’odore d’autunno, di Cadillac e del mio fratellino. Usava un imprecisato profumo da uomo, come li chiamano. Lo sportello del passeggero si era aperto. Carl sciolse l’abbraccio e mi fece fare il giro dell’imponente muso dell’auto fino alla donna, che si era voltata verso la valle. –È veramente bello qui, –disse lei. La corporatura era minuta ed esile, ma la voce profonda. Parlava con un forte accento e aveva sbagliato la cadenza, però era senza dubbio in norvegese. Mi chiesi se fosse una frase su cui si era esercitata strada facendo, una cosa che avesse deciso di dire comunque, convinta o meno. Un’osservazione che mi inducesse a rendermela simpatica, volente o nolente. Poi si girò verso di me e sorrise. La prima cosa che vidi fu il viso bianco. Non pallido, ma bianco come la neve che riflette la luce, quasi impedendomi di distinguerne i contorni. La seconda fu una palpebra calata a mezz’asta, come una tenda avvolgibile, come se metà di lei avesse un gran sonno. L’altra metà, invece, sembrava sveglia. Un vivace occhio bruno che mi guardava da sotto una corta frangia rosso fiamma. Indossava un sobrio cappotto nero di taglio dritto, e neanche sotto si intuiva qualche forma, solo un dolcevita nero spuntava dallo scollo. In effetti, la prima impressione fu di un ragazzino esilissimo fotografato in bianco e nero, ma i cui capelli erano stati colorati dopo lo scatto. Carl aveva sempre attirato le donne, perciò, in tutta sincerità, ero un po’sorpreso. Non che non fosse carina, anzi, immagino, ma non aveva niente a che vedere con un pezzo di figa, come dicono da queste parti. Lei continuò a sorridere e, siccome i denti quasi si confondevano con la carnagione, capii che erano bianchi pure quelli. Anche Carl aveva i denti bianchi, li aveva sempre avuti, al contrario di me. Scherzando diceva che i suoi venivano sbiancati dalla luce del sole perché sorrideva molto piú di me. Forse era stato proprio questo ad averli fatti innamorare l’uno dell’altra: i denti bianchi. L’immagine riflessa. Perché anche se Carl era alto e robusto, biondo e con gli occhi azzurri, scorsi subito l’affinità. Un che di brioso, come si dice. Un che di ottimistico pronto a vedere il lato migliore nelle persone. In sé stessi e negli altri. Sí, certo, ancora non conoscevo la ragazza. –Ti presento…–esordí Carl. –Shannon Alleyne, –lo interruppe lei con la sua voce di contralto, tendendo una mano cosí piccola che ebbi l’impressione di stringere la zampa di una gallina. –…Opgard, –aggiunse Carl fiero. –Scombussolati dal jet lag? –domandai pentendomene subito, sentendomi un idiota per averlo chiesto. Non perché non avessi idea di che cosa fosse il jet lag, bensí perché Carl sapeva che non avevo attraversato neanche un fuso orario e quindi la risposta avrebbe avuto comunque un significato limitato per me. Carl scosse il capo: –Siamo atterrati due giorni fa. Abbiamo dovuto aspettare la macchina, che è arrivata via nave. Annuii, guardai la targa. MC. Monaco. Esotica, ma non abbastanza per chiedere se la potevo avere nel caso si fosse dovuta rifare l’immatricolazione. Nell’ufficio della stazione di servizio tenevo appese targhe scadute dell’Africa equatoriale francese, della Birmania, del Basutoland, dell’Honduras britannico e del sultanato di Johor. Una collezione di tutto rispetto. Shannon vagò con lo sguardo da Carl a me e poi lo riportò indietro. Sorrise. Non so perché, forse era semplicemente contenta di vedere Carl e il fratello maggiore –il suo unico familiare –ridere insieme. E di vedere allentarsi la lieve tensione che c’era stata. Che lui –che loro –erano i benvenuti. –Mostri la casa a Shannon mentre io porto dentro le valigie? –mi domandò Carl aprendo il trunk, come lo chiamava papà. –Dovremmo impiegarci piú o meno lo stesso tempo, –mormorai a Shannon, che mi seguí. Facemmo il giro della casa fino al lato nord, dove c’è la porta principale. A essere sincero, non so perché papà non l’avesse installata direttamente sull’aia e sulla strada. Forse perché ogni giorno quando usciva gli piaceva vedere tutti i nostri possedimenti. O perché era piú importante che il sole scaldasse la cucina invece dell’ingresso. Varcammo la soglia e aprii una delle tre porte del corridoio. –La cucina, –dissi notando l’odore di grasso rancido. C’era sempre stato? –Che bella, –mentí lei. Certo, avevo riordinato e fatto le pulizie, ma bella non lo era di certo. Con gli occhi sgranati –e forse una punta di preoccupazione –lei seguí il tubo che dalla stufa a legna passava per un buco segato nel solaio. Piú largo, in modo da evitare che il legno prendesse fuoco, e cosí perfettamente circolare che papà lo chiamava un’opera di alta falegnameria. In tal caso –insieme ai due buchi altrettanto tondi del gabinetto esterno –era l’unica del genere al podere. Feci scattare l’interruttore per mostrarle che almeno l’energia elettrica ce l’avevamo. –Caffè? –le domandai aprendo il rubinetto. –Grazie, magari piú tardi. Se non altro, aveva imparato le frasi di circostanza. –Carl lo prende, –dissi aprendo l’armadietto. Rovistai rumorosamente finché trovai la caffettiera. Avevo addirittura comprato del caffè buono dopo…tanto tempo. Da parecchio mi arrangiavo con quello liofilizzato. E nel momento in cui misi la caffettiera sotto il rubinetto mi accorsi che per forza d’abitudine avevo aperto l’acqua calda. Mi resi conto che anche la temperatura delle mie orecchie era aumentata un po’. Ma chi lo ha stabilito che il caffè istantaneo nell’acqua calda del rubinetto debba per forza essere triste? Il caffè è caffè, e l’acqua è acqua. Sistemai il bollitore sulla piastra, l’accesi e feci i due passi che mi separavano dalla porta che dava su una delle due stanze ai lati della cucina. La sala da pranzo, esposta a ovest, d’inverno era chiusa perché fungeva da respingente contro il maltempo che proveniva da quella direzione, e mangiavamo sempre in cucina. Sul lato est c’era il soggiorno con le librerie, la tv e un’altra stufa a legna. Sul lato sud papà aveva concesso l’unica eccentricità della casa, una veranda a vetri che lui chiamava il porch e mamma «il giardino d’inverno», anche se ovviamente in quella stagione era barricata con cura dietro tavole di legno. Ma d’estate papà andava a sedersi lí a succhiare il suo snus della Berry e a bere una Budweiser o due –pure queste delle eccentricità. Doveva andare fino in città per procurarsi la pallida birra americana, mentre le scatole argentate di snus porzionato se le faceva mandare da oltreoceano da un parente. Papà mi aveva spiegato molto presto che, a differenza della porcheria svedese, lo snus americano subisce un processo di lievitazione, che si sente dal sapore. «Come il bourbon», era solito dire, sostenendo che i norvegesi consumavano la porcheria svedese solo perché ne ignoravano l’esistenza. Ebbene, io non ne ignoravo l’esistenza, e quando cominciai a fare uso di snus, scelsi il Berry. Carl e io contavamo sempre le bottiglie vuote che papà sistemava sul davanzale. Sapevamo che se ne beveva piú di quattro c’era la possibilità che si mettesse a piangere, e nessuno vuole veder piangere il proprio padre. E, ripensandoci, forse è per questo che di rado bevevo piú di una birra o due. Non volevo piangere. Carl aveva sempre la sbronza allegra, perciò probabilmente sentiva meno il bisogno di porsi limiti del genere. Insomma, tutte queste cose le pensai, ma non aprii bocca mentre salivamo le scale e mostravo a Shannon la camera da letto piú grande, che papà chiamava the master bedroom, la camera da letto padronale. –Stupenda, –commentò lei. Le feci vedere il bagno nuovo, che ormai non era piú nuovo, ma comunque la stanza piú nuova della casa. Con tutta probabilità non mi avrebbe creduto se le avessi detto che eravamo cresciuti senza. Che ci lavavamo giú in cucina, con l’acqua scaldata sulla stufa. Che il bagno era stato installato dopo l’uscita di strada. Se era vero quello che mi aveva scritto Carl, che era originaria di Barbados e veniva da una famiglia che si era potuta permettere di mandarla a studiare in un college in Canada, ovviamente aveva difficoltà a immaginare di dover condividere con tuo fratello l’acqua sporca quando, d’inverno, vi piegavate infreddoliti sopra il catino. Mentre, fatto paradossale, papà teneva una Cadillac de Ville parcheggiata fuori nell’aia, perché una macchina decente dovevamo averla, questo era poco ma sicuro. Evidentemente la porta della nostra cameretta si era storta, perciò dovetti scuotere la maniglia per riuscire ad aprirla. Una zaffata di aria stantia e di ricordi ci avvolse, come uscendo da un armadio pieno di vecchi indumenti che avevi dimenticato di possedere. Addossata a una parete longitudinale c’era una scrivania con due sedie vicine. All’altra un letto a castello di misura standard. Ai suoi piedi, dal buco nel pavimento, saliva il tubo della stufa della cucina. –Qui dormivamo io e Carl, –dissi. Shannon indicò il letto a castello con un cenno del capo: –Chi dormiva sopra? –Io, –risposi. –Il grande –. Passai un dito sullo strato di polvere che copriva la spalliera di una sedia. –Da oggi mi trasferisco qui. E voi prendete la camera padronale. Lei mi guardò spaventata: –Ma Roy caro, non vogliamo…Mi concentrai per puntare lo sguardo  sul suo occhio aperto. Non è un po’ strano avere gli occhi bruni se sei rossa di capelli e di carnagione bianca come la neve? –Voi siete in due, io uno e none non c’è problema. Okay? Lei abbracciò di nuovo la cameretta con lo sguardo. –Grazie, –disse. La precedetti nella stanza di mamma e papà. Avevo arieggiato a fondo. Anche se profuma, non mi piace sentire l’odore della gente. Eccezion fatta per Carl. Carl sa –se non di buono –di giusto. Sa di me. Di noi. D’inverno, quando Carl si ammalava –e capitava spesso –scendevo e mi infilavo nel letto con lui. E il suo odore era come doveva essere, anche se aveva la pelle coperta dal sudore rappreso della febbre o l’alito puzzolente di vomito. Inspiravo Carl e tremante di freddo mi stringevo al suo corpo arroventato, sfruttavo il calore che lui perdeva per scaldare le mie ossa. La febbre di uno, la stufa dell’altro. A vivere quassú si acquista senso pratico. Shannon raggiunse la finestra e guardò fuori. Aveva tenuto il cappotto abbottonato. Sicuramente per lei la casa era fredda. In settembre. Non prometteva bene per l’inverno. Udii Carl rumoreggiare con le valigie sulle scale strette. –Carl mi ha detto che non siete ricchi, –disse lei. –Ma che tutto quello che si vede da qui appartiene a voi due. –Esatto. Ma non sono che campi esterni, tutti quanti. –Campi esterni? –Campi incolti, –spiegò Carl che si era fermato nel vano della porta, affannato e sorridente. –Pascoli per pecore e capre. Non si può coltivare granché in un podere di montagna. Come vedi, scarseggiano perfino gli alberi. Ma modificheremo questa skyline. Eh, Roy? Annuii lentamente. Lentamente come avevo visto fare ai contadini adulti quando ero ragazzino, convinto che dietro quelle fronti aggrottate fervesse un’attività cosí intensa e complessa che ci sarebbe voluto troppo tempo e forse sarebbe stato impossibile esprimere tutto quanto nel nostro scarno dialetto di paese. E poi sembravano comprendersi a vicenda tacitamente, quegli uomini adulti che annuivano: al lento cenno del capo di uno rispondeva spesso quello dell’altro. E ormai avevo preso anch’io l’abitudine di annuire lentamente. Senza però capirci molto di piú rispetto ad allora. Certo, avrei potuto chiederlo a Carl, ma con tutta probabilità non mi avrebbe dato la risposta. Risposte, sí, tante, ma non la risposta. E forse non ne avevo neanche bisogno, ero solo contento che fosse tornato e non intendevo tormentarlo con quella domanda adesso. Perché diamine era tornato? –Roy è stato gentilissimo, –disse Shannon. –Ci ha ceduto questa stanza. –Ho pensato che non saresti tornato per dormire nella cameretta, –dissi. Carl annuí. Lentamente. –Allora questo non è granché come contraccambio, –disse porgendomi un cartone pesante. Capii subito cos’era. Berry. –Cazzo, che bello rivederti, fratello, –proseguí Carl con la voce velata. Mi raggiunse e mi abbracciò di nuovo. Stringendomi forte, questa volta. Gli restituii la stretta. Notai che il suo corpo era diventato piú morbido, aveva messo su ciccia. Con la pelle della mascella contro la mia, un po’piú flaccida, sentii il pizzicore della barba anche se era rasato di fresco. La lana della giacca era piacevole al tatto, la trama fitta. E la camicia…prima non le portava mai. Aveva perfino cambiato modo di esprimersi, parlava quel dialetto della capitale che di tanto in tanto avevamo usato per imitare mamma. Ma fu piacevole. Aveva lo stesso odore di sempre. Aveva l’odore di Carl. Mi allontanò da sé, mi guardò. I suoi occhi effeminati erano pieni di lacrime. Cazzo, sicuramente anche i miei erano lucidi. –Il caffè bolle, –dissi con una voce solo un po’incrinata e mi avviai verso le scale. Quella sera, quando mi coricai, rimasi disteso ad ascoltare i rumori. Per sentire se la casa avesse un suono diverso adesso che era di nuovo popolata. No, non l’aveva. Scricchiolava, gemeva e fischiava come al solito. Tesi l’orecchio cercando di cogliere i rumori provenienti dalla camera padronale. Si sente tutto, e anche se fra le due stanze c’è il bagno, riuscivo a udire le loro voci indistinte. Stavano parlando di me? Shannon chiedeva a Carl se suo fratello fosse stato sempre cosí taciturno? Se secondo lui gli era piaciuto il chili con carne che lei aveva preparato? Se a quel fratello taciturno fosse piaciuto davvero il regalo che gli aveva portato e si era data tanto da fare per procurare tramite dei parenti, una targa usata di Barbados? Era forse antipatica al fratello? E Carl le rispondeva che Roy era cosí con chiunque, che doveva solo dargli tempo. E lei diceva che forse Roy era geloso, sicuramente pensava che gli avesse portato via il fratello, che dopo tutto non aveva nessun altro al mondo. E Carl scoppiava a ridere, le carezzava una guancia dicendole di non farsi tanti problemi già il primo giorno, che le cose si sarebbero aggiustate. E adagiando la testa nell’incavo della sua spalla, Shannon gli diceva che senza dubbio aveva ragione, ma a ogni modo era contenta che lui non fosse come il fratello. Che era strano che in un paese quasi privo di delinquenza la gente andasse in giro con lo sguardo torvo come se avesse costantemente paura di essere ripulita. O magari stavano trombando. Nel letto di mamma e papà. «Chi stava sopra?» avrei chiesto a colazione l’indomani mattina. «Il grande?» e avrei guardato le loro facce perplesse. Uscire nell’aria pungente del mattino, montare in macchina, rilasciare il freno a mano, sentire il bloccasterzo, vedere avvicinarsi la curva delle Capre. Fuori risuonò una nota lunga, bellissima e triste. Piviere dorato. L’uccello solitario della montagna, esile e serio. Un uccello che ti segue quando vai a fare una camminata, ti protegge, ma sempre a distanza di sicurezza. Quasi abbia troppa paura di farsi un amico, eppure ha bisogno di qualcuno che lo ascolti quando canta la sua solitudine. 2. Arrivai alla stazione di servizio alle cinque e mezzo, mezz’ora prima del solito per un lunedí. Egil, dietro il banco, aveva l’aria stanca. –’Giorno, capo, –disse con voce atona. Egil era come il piviere, aveva un’unica nota. –Buongiorno. Notte movimentata? –No, –rispose lui con l’aria di non aver capito che la mia era una domanda retorica, come si dice. Che sapevo che la domenica sera non c’era mai molto da fare dopo che il traffico del rientro in città dalle baite era finito, che chiedevo perché non avesse fatto ordine e lavato nell’area pompe. Nelle altre stazioni aperte h24 in cui una sola persona copre il turno di notte vige la regola che questa non lasci l’edificio, ma io odio il disordine, e grazie alla banda dei verri che usa la stazione come una combinazione di chiosco dei würstel, zona fumatori e luogo di cova, ci sono molte cartacce, cicche e addirittura qualche preservativo usato. Ma considerato che tanto i würstel quanto le sigarette e i gommini vengono acquistati alla stazione di servizio non ho intenzione di cacciare i miei clienti verri, li lascio rimanere seduti nelle loro macchine a guardare il mondo passare. Invece, ho dato ordine a chi fa il turno di notte di pulire non appena si presenta l’occasione. Avevo affisso un cartello nel gabinetto del personale in modo che ce lo avessero proprio davanti al muso quando erano seduti sulla tavoletta: «Fa’quel che va fatto. Tutto dipende te. Fallo subito». Anche se probabilmente Egil credeva che il messaggio volesse dire che doveva sbrigarsi a cacare, avevo accennato un numero sufficiente di volte alle pulizie e al prendersi la responsabilità: si sarebbe pensato che avesse colto la battuta sulla notte movimentata. Ma Egil non era solo stanco, era anche un ragazzo semplice di vent’anni che era stato ingannato cosí spesso nella vita che non gliene importava piú niente. Ed è chiaro che se vuoi faticare il meno possibile non è una tattica scema fingere di capire un po’meno di quello che capisci. Quindi, forse Egil non era tanto scemo. –Sei in anticipo, capo. Un po’troppo in anticipo per darti il tempo di ripulire l’area pompe e farmi credere che sia stata in perfetto ordine tutta la notte, pensai. –Non riuscivo a dormire, –risposi. Andai alla cassa e pigiai «cassa + shift + menu». Era la chiusura delle ventiquattro ore e udii la stampante di là in ufficio cominciare a macinare. –Va’a casa e fatti una dormita. –Grazie. Andai nell’ufficio e lessi il conteggio incassi mentre la carta continuava a uscire. Niente male. Un’altra domenica movimentata. La nostra statale non sarà la piú trafficata del Paese, ma con trentacinque chilometri alla stazione successiva in entrambe le direzioni, eravamo diventati un’oasi per automobilisti, soprattutto per le famiglie con bambini sulla via del rientro dalla baita. Avevo sistemato dei tavoli e della panche giú vicino alle betulle con vista sul lago di Budal, dove consumavano hamburger, panini e bibite in quantità industriali, come si dice. Il giorno prima avevamo venduto quasi trecento panini. Avevo meno sensi di colpa per le emissioni di Co2 che per l’intolleranza al grano che infliggevo al mondo. Feci correre lo sguardo lungo il foglio e mi accorsi che Egil ci aveva dato dentro con i würstel. Benissimo, ma erano –come al solito –un po’troppi in confronto a quelli venduti. Lui si era cambiato e si stava dirigendo verso la porta. –Egil? Si irrigidí e si bloccò: –Sí? –A quanto pare qualcuno si è divertito a spargere salviette asciugamani intorno alla due. –Ci penso io, capo –. Mi sorrise e uscí. Feci un sospiro. È difficile trovare mano d’opera qualificata in un paesino cosí piccolo. Gli intelligenti se ne vanno a Oslo o a Bergen per studiare, e gli intraprendenti a Notodden, a Skien o a Kongsberg per guadagnare. E per quelli che restano, come Egil, non ci sono molti posti di lavoro tra cui scegliere. Se lo avessi licenziato sarebbe finito dritto dritto a carico dei servizi sociali. E non per questo avrebbe mangiato meno würstel: si sarebbe semplicemente ritrovato dalla parte opposta del banco e li avrebbe pagati. Dicono che l’obesità sia soprattutto un problema delle zone rurali. Ed è facile consolarti con il cibo se lavori in una stazione di servizio e vedi che i clienti di passaggio sono diretti in altri posti, migliori nella tua immaginazione, a bordo di auto che non ti potrai mai permettere, in compagnia di ragazze alle quali non avresti neanche il coraggio di rivolgere la parola, a meno che non fosse al ballo del paese e tu non fossi ubriaco fradicio. Però dovevo decidermi a fare quattro chiacchiere con Egil. Alla sede centrale non si curavano dei tipi come lui, ma dell’utile netto. Nulla da eccepire. Nel 1969, in Norvegia c’erano settecentomila automobili e oltre quattromila stazioni di servizio. Quarantacinque anni dopo il numero delle auto era quasi quadruplicato, mentre quello delle stazioni di servizio era piú che dimezzato. Era dura per loro e per noi. E io, che leggevo le statistiche del settore, vedevo che in Svezia e in Danimarca oltre la metà delle stazioni sopravvissute erano già automatizzate e senza personale addetto alle pompe. Se in Norvegia siamo giunti a questo punto è per via della bassa densità di popolazione, ma è chiaro che anche qui gli addetti sono una razza in via di estinzione. Be’, tutto sommato, siamo già estinti: quando è stata l’ultima volta che avete visto uno di noi mettere benzina? Siamo troppo occupati a spacciare würstel, coca, palloni da spiaggia, carbone per grill, detergenti per parabrezza e acqua in bottiglia che non è migliore di quella del rubinetto, ma arriva via aereo e costa piú dei video che abbiamo in offerta. Non mi lamento. Quando la catena di stazioni di servizio aveva manifestato il suo interesse per l’officina che avevo rilevato a vent’anni, il motivo non erano le due pompe che avevo fuori né che fosse ben avviata, bensí l’ubicazione. Si dissero colpiti dal fatto che avessi resistito cosí a lungo, dato che ormai le autofficine locali non esistevano piú da parecchio, e mi offrirono un posto di direttore dellastazione e pochi spiccioli per l’edificio. Probabilmente avrei potuto ottenere qualcosa in piú, ma noi Opgard non mercanteggiamo. Non avevo ancora compiuto trent’anni e già mi sentivo collocato a riposo. Spesi gli spiccioli per installare un bagno nel podere e potermici trasferire dall’alloggio da scapolo che avevo ricavato nell’officina. Il terreno circostante era abbastanza grande, e la catena installò una stazione di servizio accanto all’officina, che lasciò in piedi, e trasformò il vecchio autolavaggio a mano in uno moderno self-service. La porta sbatté dietro a Egil e mi ricordai che la sede centrale aveva accettato la mia richiesta di far montare delle porte scorrevoli automatiche. Arrivarono una settimana dopo. La sede centrale comunicò di essere soddisfatta di noi. Il direttore vendite che passava ogni quindici giorni era tutto sorrisi e battute infelici, e di quando in quando mi posava una mano sulla spalla dicendo, quasi fosse una confidenza, che erano soddisfatti. Erano soddisfatti, sí. Guardavano all’utile netto. E alla coraggiosa e proficua battaglia che combattevano contro l’estinzione. Anche se non sempre l’area pompe durante i turni di Egil era linda e pinta. Le sei meno un quarto. Spennellai i panini che avevano riposato e lievitato durante la notte, e mi ritornarono in mente i begli anni in cui me ne stavo nella fossa di ispezione a ingrassare motori. Vidi un trattore avvicinarsi al lavaggio. Sapevo che appena il contadino avesse finito di lavare e sciacquare il veicolo con il tubo, sarebbe arrivato il mio turno di lavare e sciacquare con il tubo il pavimento. Nella mia veste di direttore ero responsabile delle assunzioni, della contabilità, dei colloqui con i dipendenti, della sicurezza e compagnia bella, ma indovinate a cosa dedica piú tempo un bravo direttore di una stazione di servizio? A lavare. E la cottura dei panini si piazza a pieno diritto al secondo posto. Ascoltai il silenzio. O meglio, non c’è mai silenzio, bensí una regolare, fissa sinfonia di suoni che cessa solo alla fine del weekend, quando i forestieri delle baite sono tornati a casa e riprendiamo a chiudere il negozio di notte. Sono le macchine del caffè, le griglie meccaniche dei würstel, i frigoriferi delle bibite, i congelatori. Fanno tutti rumori diversi, ma quello che si contraddistingue è lo scaldapane in cui mettiamo i panini degli hamburger. Gracchia con una nota piú calda, quasi come un motore ben ingrassato, se chiudi gli occhi e torni indietro nel tempo con la fantasia. L’ultima volta che è passato, il direttore vendite ha suggerito di mettere della musica a basso volume nel negozio. Come ha detto, studi hanno dimostrato che le melodie giuste stimolano sia l’inclinazione a fare acquisti sia la fame. Per tutta risposta ho annuito lentamente. Preferisco che il locale rimanga silenzioso. Di lí a poco la porta si sarebbe aperta. Probabilmente un artigiano, di solito sono loro che devono fare benzina o prendere un caffè prima delle sette. Vidi che il contadino stava mettendo al trattore il gasolio per camion, quello senza accise. Sapevo che un goccio sarebbe finito nel serbatoio della sua auto privata non appena fosse tornato a casa, ma la questione non mi interessava, se la sarebbe dovuta sbrogliare con la polizia. Vagai con lo sguardo oltre le pompe, dall’altra parte della via, della ciclabile e del sentiero pedonale, fino a una delle case in legno tipiche del paese, tre piani costruiti nel dopoguerra, una veranda affacciata sul lago, le finestre sporche di polvere della strada, un grande manifesto fissato al muro che pubblicizzava tagli di capelli e solarium, dando probabilmente l’impressione ai passanti che il taglio di capelli e la seduta nel lettino solare avessero luogo in contemporanea, come si dice. Eseguiti nelle stanze degli abitanti della casa. Avevo sempre visto solo gente del posto entrare da quella porta, e in paese tutti sapevano dove stava Grete, quindi non è ben chiaro quale fosse lo scopo del manifesto. A quel punto scorsi Grete in piedi sul ciglio della strada che, infreddolita in Crocs e t-shirt, si guardava attentamente a destra e a sinistra prima di attraversare per venire da noi. Erano trascorsi appena sei mesi da quando un autista di Oslo che sosteneva di non aver visto il limite di cinquanta aveva falciato la nostra insegnante di norvegese in un punto piú giú lungo la strada. Una stazione di servizio in un centro abitato ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. I vantaggi sono che gli abitanti del paese vengono a comprare beni di consumo e che il limite di velocità ai cinquanta permette agli automobilisti forestieri di fermarsi spontaneamente nella stazione di servizio. Quando avevo l’officina contribuivamo anche alla vita economica locale perché i clienti che venivano da fuori e avevano bisogno di riparazioni piú impegnative a volte si fermavano a mangiare al ristorantino e pernottavano in uno dei bungalow del campeggio in riva al lago. Lo svantaggio è che è solo questione di tempo e perderai il traffico. Gli automobilisti vogliono rettilinei con limiti di novanta all’ora invece di dover procedere a rilento attraverso ogni maledetto centro abitato per arrivare a destinazione. I progetti di una nuova statale che passasse al di fuori di Os erano pronti da parecchio tempo, ma finora la geografia ci aveva salvati: scavare tunnel attraverso le nostre montagne era troppo costoso per gli enti preposti alla viabilità. Ma il tunnel sarà realizzato. È certo come il fatto che il sole manderà in frantumi il nostro sistema solare tra due miliardi di anni, e impiegherà molto meno tempo. Finire in un impasse del genere ovviamente comporterebbe la chiusura immediata per tutti noi che viviamo del traffico di passaggio, e anche per il resto del paese le ripercussioni risulterebbero simili a quelle del sole che si ritira. I contadini continuerebbero a mungere le loro vacche e a coltivare quel poco che cresce quassú, ma gli altri che cosa farebbero senza la statale? Si taglierebbero i capelli a vicenda e farebbero la lampada fino ad abbrustolirsi? La porta si aprí. Quando eravamo ragazzi, Grete era di un pallore grigiognolo e aveva capelli dritti e smorti. Adesso era di un pallore grigiognolo e aveva una permanente che le conferiva un’aria decisamente sinistra, se lo chiedete a me. Certo, la bellezza non è un diritto dell’umanità, ma il Creatore era stato davvero meschino nei suoi riguardi. La schiena, il collo, le ginocchia, ogni sua parte era come ricurva, perfino l’enorme naso adunco sembrava un corpo estraneo, un elemento inserito a viva forza nel viso affilato. Ma se il Creatore aveva scialato con il naso, di converso era stato avaro con il resto. Le sopracciglia, le ciglia, il seno, i fianchi, le guance, il mento: in effetti, Grete non aveva niente di tutto questo. Le sue labbra erano sottili e parevano due lombrichi. Da giovane aveva coperto i lombrichi color carne con uno spesso strato di rossetto vermiglio, che in effetti le donava. Ma poi di colpo aveva smesso di truccarsi, doveva essere stato pressappoco quando Carl aveva lasciato il paese. Okay, forse gli altri non vedevano Grete come la vedevo io, forse a suo modo era attraente, e il mio giudizio sul suo aspetto esteriore era influenzato dall’opinione che avevo del suo essere interiore. E con questo non intendo sostenere che Grete Smitt fosse cattiva, sono sicuro che esista una qualche diagnosi psichiatrica piú lusinghiera, come si dice. –Pizzica, oggi, –disse Grete. Immagino alludesse al vento del Nord, che quando spazzava la valle portava sempre con sé l’odore di ghiacciaio e il memento della fugacità dell’estate. Grete era cresciuta in paese, ma forse quel modo di esprimersi lo aveva preso dai genitori: erano arrivati qui dalla Norvegia settentrionale e avevano gestito il campeggio fino a quando era andato fallito e avevano cominciato a percepire il sussidio sociale dopo aver ricevuto entrambi la diagnosi di una rara forma di neuropatia periferica provocata dal diabete che, a quanto pare, dà la sensazione di camminare sui vetri. La vicina di Grete mi aveva detto che questa neuropatia non è affatto contagiosa, che doveva trattarsi di un miracolo statistico. Ma i miracoli statistici accadono in continuazione, e ora i genitori vivevano al secondo piano, proprio sopra il cartello di «Parrucchiera e solarium Grete» e si facevano vedere di rado. –E cosí, Carl è tornato? –Sí, –risposi, anche se sapevo che la sua non era una domanda che richiedeva un monosillabo per risposta. Era un’affermazione accompagnata da un punto interrogativo che incoraggiava all’approfondimento. Io non ne avevo nessuna intenzione. Grete aveva unrapporto malsano con Carl. –Che cosa vuoi? –Credevo che se la passasse benissimo in Canada. –Capita che alla gente venga voglia di tornare a casa, nonostante se la passi bene. –A quanto pare là il mercato immobiliare è imprevedibile. –Già, o si sale molto in fretta oppure si sale un po’piú piano. Caffè? Una girella alla crema? –Chissà che cosa spinge un pezzo da novanta di Toronto a tornare al nostro paesello. –La gente, –dissi. Grete scrutò la mia espressione impassibile. –Può darsi, –disse lei. –Però, a quanto a sentito, si è portato appresso una cubana? Sarebbe stato facile compatire Grete. I genitori invalidi civili, un naso che sembrava un meteorite, senza clienti, senza ciglia, senza un marito, senza Carl e apparentemente senza il desiderio di trovarsi qualcun altro. Ma poi c’era quello scoglio sommerso di cattiveria di cui ti accorgevi solo dopo aver visto altri ritrovarsi con la chiglia sfondata. Forse era per quella legge di Newton secondo la quale a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, se tutta la sofferenza che le era stata inflitta doveva infliggerla agli altri. Se Carl da ragazzo non se la fosse fatta in preda a una sbronza contro un albero durante una festa di paese, forse non sarebbe diventata cosí. O forse lo sarebbe diventata lo stesso. –Una cubana, –dissi pulendo il banco. –Sembra quasi un sigaro. –Già, vero? –disse lei sporgendosi sopra il banco come se condividessimo delle idee politiche vietate. –Bruna, grandi succhiate e…e…Facilmente infiammabile, mi venne mio malgrado in soccorso il cervello, anche se avevo piú che altro voglia di ficcarle una girella alla crema in bocca per porre fine alle porcherie. –…puzzolente, –se ne uscí infine. Le labbra a lombrico sorrisero, sembrava soddisfatta dell’analogia, o come si chiama. –Solo che non è originaria di Cuba, –precisai, –ma di Barbados. –Sí, sí, –disse Grete. –Thailandese, russa, sicuramente è sottomessa. Avevo perso, non riuscivo piú a nascondere che mi sentivo provocato. –Cosa hai detto? –Che sicuramente è una gran bellezza, –ridacchiò Grete. Spostai il peso del corpo da una gamba all’altra. –Cosa vuoi, Grete? Grete scrutò il ripiano alle mie spalle. –Mia madre ha bisogno di batterie nuove per il telecomando. Non le credetti perché la madre era passata a comprare le batterie due giorni prima, scalpitando con i piedi doloranti sul pavimento quasi fosse lava incandescente. Porsi le batterie a Grete e registrai l’importo. –Shannon, –disse Grete perdendo tempo a infilare la carta nel pos. –Ho visto delle foto su Instagram. Ha qualcosa che non va? –Non che io abbia notato, –risposi. –E dài, non puoi essere cosí bianca se sei originaria di Barbados. E all’occhio, cos’ha? –Adesso il telecomando andrà come una scheggia. Grete estrasse la carta e la rimise nel portafogli. –Ci vediamo, Roy. Annuii lentamente. Certo che ci sarebbe capitato di vederci, vale per tutto e tutti in questo paesino. Però lei cercava di dirmi qualcos’altro, perciò annuii come se avessi capito, nella speranza che cosí facendo avrei evitato di sentire il resto. La porta sbatté alle sue spalle, ma non si richiuse bene anche se avevo stretto le molle. Era proprio ora di sostituirla con una nuova automatica a due battenti. Alle nove aveva preso servizio un altro dipendente e io ebbi il tempo di andare fuori a pulire la sporcizia lasciata dal trattore. Come avevo immaginato, sul pavimento trovai delle grosse zolle di terra e di argilla. Avevo del detergente professionale Fritz già miscelato che toglie il peggio, sciacquai con il tubo di gomma ripensando ai tempi in cui eravamo ragazzi e credevamo che la nostra vita potesse essere capovolta ogni singolo giorno, e veniva davvero capovolta ogni singolo giorno, quando sentii un formicolio tra le scapole. Come il calore di uno di quei puntini rossi di quando l’unità Swat ti ha centrato nel mirino. Perciò trasalii udendo un sommesso raschio alle mie spalle. Mi voltai. –C’è stato un incontro di mud wrestling? –domandò il poliziotto locale con la sigaretta che faceva su e giú fra le labbra sottili. –Un trattore, –risposi. Lui annuí. –E cosí, tuo fratello è tornato? L’agente rurale Kurt Olsen era magro, aveva le guance scavate e i baffi da camionista, jeans stretti, stivali di pelle di serpente che un tempo portava il padre. Nell’insieme, Kurt somigliava sempre di piú a Sigmund Olsen, il suo predecessore, che a sua volta aveva i capelli biondi e lunghi e mi ricordava Dennis Hopper in Easy Rider. Kurt Olsen aveva le gambe arcuate come un certo tipo di calciatori. Aveva due anni meno di me e in passato era stato capitano della squadra locale di quarta divisione. Una tecnica solida, una mente tattica, era capace di correre senza pause per novanta minuti anche se fumava come due ciminiere. Tutti dicevano che Kurt Olsen meritava di giocare in una divisione piú alta. Ma in questo caso avrebbe dovuto trasferirsi in una città piú grande rischiando di finire in panchina. Perché scambiare il suo status di eroe locale con quella prospettiva? –Carl è arrivato ieri, –confermai. –Come lo hai saputo? –Da questo, –rispose srotolando una locandina e mostrandomela. Chiusi l’acqua. Partecipa anche tu alla grande avventura! era il titolo. E, sotto: «Hotel-spa d’alta quota Os». Continuai a leggere. L’agente rurale non mi mise fretta. Avevamo pressappoco la stessa età e forse sapeva che ero, stando alla definizione dell’insegnante di riferimento, «leggermente dislessico». Dopo che l’insegnante di riferimento della mia classe aveva informato i miei genitori e si era lasciata sfuggire che la dislessia era molto spesso ereditaria, mio padre si era inalberato chiedendole se stesse insinuando che il ragazzino fosse un bastardo. Ma poi mamma gli aveva rammentato che Olav, un cugino di papà di Oslo, era dislessico e se l’era cavata piuttosto male. Appena aveva saputo del colloquio, Carl si era offerto di farmi da «allenatore di lettura», come lo chiamò. E so che parlava sul serio, che avrebbe dedicato con piacere tempo e lavoro al progetto. Ma io rifiutai. Chi vuole avere per maestro il proprio fratello minore? La locandina era un invito a partecipare a un’assemblea di investitori nel centro civico di Årtun. Tutti erano i benvenuti, c’era scritto. La presenza non comportava nessun impegno, e sarebbero stati offerti caffè e cialde. Prima ancora di arrivare al nome e alla firma in fondo alla locandina capii. Eccolo, il motivo per cui Carl era tornato a casa. Il nome, Carl Abel Opgard, era seguito dal titolo. Master of Business. Nientepopodimeno. Non sapevo bene cosa pensare di quella storia, solo che già puzzava di guai. –Sono affisse copie a tutte le fermate della corriera e ai pali dei lampioni lungo la statale, –mi spiegò l’agente rurale. Evidentemente anche Carl si era alzato presto. Il poliziotto riavvolse la locandina. –E senza aver chiesto l’autorizzazione si contravviene al paragrafo 33 del codice della strada. Gli potresti dire di togliere le locandine? –Perché non lo fai tu? –Non ho il suo numero di telefono e…–si ficcò la locandina sotto il braccio, i pollici nella cintura dei Levi’s stretti, e indicò verso nord con un cenno del capo. –Mi risparmio volentieri quel tragitto in macchina. Ci pensi tu? Annuii lentamente mentre levavo lo sguardo verso il luogo che l’agente rurale avrebbe fatto volentieri a meno di raggiungere. Dalla stazione di servizio Opgard non si vedeva, si coglieva solo uno scorcio della curva delle Capre e di un tratto grigio in cima al precipizio. L’edificio, situato piú in alto e all’interno, dove diventava pianeggiante, era nascosto. Quel giorno, però, vi scorsi qualcosa. Qualcosa di rosso. E poi capii di che si trattava. Una bandiera norvegese. Per la miseria, Carl aveva issato la bandiera in un normalissimo lunedí. Non era cosí che faceva il re al castello per far sapere che era in casa? Mi venne da ridere, cazzo. –Può chiedere l’autorizzazione, –dissel’agente rurale guardando l’ora. –E vediamo che cosa si può fare. –Sí, certo. –Certo –. L’agente si portò due dita al cappello da cowboy che non portava. Sapevamo entrambi che sarebbe trascorso un giorno prima che le locandine fossero tirate giú, e allora avrebbero già assolto al loro compito. Chi non aveva visto l’invito ne sarebbe stato informato. Mi voltai. Riaprii l’acqua. Ma era ancora lí. Il senso di calore tra le scapole. Come c’era sempre stato in tutti quegli anni. Il sospetto di Kurt Olsen che lentamente, ma inesorabilmente, penetrava come una fiamma i vestiti, la pelle, la carne. Ma poi si fermava contro le ossa dure. Contro la volontà e la tenacia. Contro la mancanza di prove e di fatti. –Cos’è? –risuonò la voce di Kurt Olsen. Mi girai, finsi di essere sorpreso di trovarlo ancora lí. Con un cenno del capo indicò la griglia di metallo nel pavimento in cui defluiva l’acqua. Sui pezzetti che non si erano dissolti e giacevano lí. –Mah, –risposi. L’agente rurale si accovacciò. –Sanguinano, –disse. –È carne. –Sicuramente. Levò lo sguardo verso di me. La sigaretta era ridotta a un mozzicone rovente. –Alce, –aggiunsi. –Investito. Si attacca alla mascherina. Poi vengono qui per lavar via la porcheria. –Sbaglio, o avevi detto che era un trattore, Roy? –Immagino che l’abbia lasciata una macchina stanotte, –risposi. –Posso chiedere a Egil, se vuoi…–l’agente rurale fece un balzo indietro quando puntai il getto d’acqua sul pezzetto di carne, che si staccò dalla griglia e avanzò sulla pavimentazione di cemento, –indagare. Gli occhi di Kurt Olsen scoccarono scintille mentre si passava le mani sul davanti dei pantaloni anche se era asciutto. Non so se ci stesse pensando, che all’epoca aveva usato proprio quella parola. Indagare. Che bisognava indagare sulla questione. Non che Kurt Olsen non mi piacesse, immagino fosse un tipo simpatico che faceva solo il suo lavoro. Ma decisamente non mi era piaciuta la sua indagine. E non so se si sarebbe presentato con quelle locandine se al posto di Opgard ci fosse stato scritto un altro nome. Quando rientrai nella stazione di servizio ci trovai due ragazzine. Una era Julie, che aveva dato il cambio a Egil dietro il banco. L’altra, la cliente, mi dava le spalle. Teneva il capo chino, in attesa, e non accennò a girarsi nonostante la porta si fosse aperta. Però mi parve di riconoscere la piccola Moe, la figlia dell’idraulico. Natalie. Di tanto in tanto la vedevo fuori insieme alla banda dei verri. Mentre Julie era un tipo socievole, chiassoso e schietto, come si dice, Natalie Moe aveva un viso sensibile ma chiuso, vacuo, come se qualunque sentimento avesse espresso fosse destinato a venir calpestato o messo in ridicolo. Era l’età. Però, ormai doveva frequentare le superiori, o no? Comunque, avevo colto la situazione, notato la vergogna, e ne ricevetti conferma da Julie che mentre mi salutava con la mano indicò con un cenno del capo il ripiano con la pillola dei cinque giorni dopo. Il fatto era che siccome aveva soltanto diciassette anni Julie non poteva vendere né tabacchi né farmaci. Passai dietro il banco deciso a ridurre al minimo il tormento della piccola Moe. –EllaOne? –domandai e le misi davanti la scatolina bianca. –Eh? –fece Natalie Moe. –La tua pillola dei cinque giorni dopo, –disse Julie spietata. Registrai l’acquisto con la mia carta per far risultare che fosse stata una persona adulta e presumibilmente responsabile ad aver effettuato la vendita. La piccola Moe si precipitò fuori. –Va a letto con Trond Bertil, –disse Julie facendo schioccare la gomma americana. –Ha piú di trent’anni, e tanto di moglie e figli. –Troppo giovane, –commentai. –Troppo giovane, in che senso? –Julie mi guardò. Strano, non era grande di statura, ma era come se ogni sua parte lo fosse. La chioma riccia, le mani, i seni pesanti sotto le spalle larghe. La bocca quasi volgare. E gli occhi, due enormi palle azzurre, che fissavano impavidi i miei: –Per andare a letto con uno che ne ha piú di trenta? –Troppo giovane per prendere sempre decisioni sagge, –risposi. –Forse imparerà. Julie sbuffò. –La pillola dei cinque giorni dopo non ti dà nessuna lezione. E il fatto che una ragazza sia giovane non significa che non sappia cosa vuole. –Forse non hai tutti i torti. –Ma quando facciamo la faccetta innocente come quella lí, voialtri uomini pensate, povera ragazzina. Esattamente quello che vogliamo –. Rise. –Quanto siete ingenui. Mi infilai i guanti di gomma e cominciai a ungere le baguette. –Avete una società segreta? –le domandai. –Eh? –Voi donne che pensate di sapere come sono tutte le donne. Vi raccontate a vicenda come siete fatte, in modo da avere, per cosí dire, il pieno controllo interno? Perché, per quanto riguarda gli uomini, io so soltanto che non so un cazzo. Che c’è di tutto. Che al massimo è vero il quaranta per cento di quello che credo di sapere su un uomo –. Misi salame e fettine di uovo, che ci venivano consegnati a domicilio già tagliati. –E quindi noi dovremmo essere degli ingenui. Perciò non mi resta che congratularmi con voi che avete centrato al cento per cento l’altra metà del genere umano. Julie non rispose. La vidi deglutire. Doveva essere colpa della carenza di sonno della notte se usavo degli argomenti cosí pesanti contro un’adolescente che aveva abbandonato la scuola. Il tipo di ragazzina che prova troppo presto le cose sbagliate e ancora non prova quelle giuste. Ma bisognava darle tempo. Aveva un’attitude, come diceva papà, era strafottente, però aveva comunque piú bisogno di essere incoraggiata che contraddetta. L’una e l’altra cosa, certo, ma di piú la prima. –Stai diventando brava a cambiare le gomme, –le dissi. Nonostante fosse settembre, su alle baite in cima alla montagna il weekend prima era nevicato. E anche se non vendevamo pneumatici né offrivamo il servizio di cambio gomme, capitava che gente di città arrivasse con i Suv implorandoci di farlo. Uomini e donne. Non hanno la piú pallida idea di come sbrigare le attività pratiche piú semplici. Moriranno entro una settimana il giorno in cui una tempesta solare metterà fuori gioco tutti gli apparecchi che vanno a elettricità. Julie sorrise. Aveva quasi un’aria troppo contenta. Il tempo era variabile, là dentro. –Secondo quei cittadini adesso il fondo stradale è scivoloso, –disse Julie. –Figurati quando arriverà il freddo vero: meno venti, trenta. –Allora sarà meno scivoloso. Lei mi guardò con aria interrogativa. –Il ghiaccio è piú scivoloso quando è vicino al punto di fusione, –spiegai. –Piú scivoloso in assoluto quando la sua temperatura è di meno sette gradi. Per questo si cerca di mantenerlo a questa temperatura nei campi di hockey. E il fondo su cui slittiamo non è uno strato sottile e invisibile di acqua, a causa della pressione e della frizione, come si credeva un tempo, bensí un gas che si forma da molecole libere a quelle temperature. Lei mi rivolse uno sguardo di immotivata ammirazione: –Come fai a sapere tutte queste cose, Roy? Ovviamente, quella domanda mi fece sentire come uno di quegli idioti che io stesso non posso soffrire, che fanno sfoggio di nozioni acquisite per caso e in modo superficiale. –C’è scritto in quello che vendiamo, –risposi indicando i ripiani delle riviste, dove «La scienza illustrata» aveva trovato posto accanto a periodici di automobili, barche, caccia e pesca, a «True Crime» e, su pressione del direttore vendite, un paio di riviste di moda. Ma Julie non mi permise di saltare giú dal piedistallo tanto facilmente. –Trenta non sono poi cosí tanti, secondo me. Sempre meglio di certi ventenni infantili che si credono adulti perché hanno la patente. –Io ho piú di trent’anni, Julie. –Davvero? E allora, quanti ne ha tuo fratello? –Trentacinque. –Ieri ha fatto benzina qui, –disse lei. –Tu non eri di turno. –Ero qua fuori con delle amiche nella macchina di Knerten. È stato lui a dire che era tuo fratello. E sai che cosa hanno detto le mie amiche? Hanno detto che tuo fratello è un Dilf. Non commentai. –Ma sai cosa? Secondo me tu sei ancora piú Dilf di lui, ecco. Le lanciai un’occhiata d’avvertimento. Lei si limitò a sogghignare. Si raddrizzò quasi impercettibilmente e spinse indietro le spalle larghe. –Dilf significa…–Grazie, Julie, ma credo di sapere cosa significa. Vai ad accogliere la Asko? Un camion con merce da consegnare si era fermato davanti alla stazione. Acqua minerale e prodotti dolciari. Julie mi lanciò l’occhiata «mi annoio a morte», che ormai padroneggiava alla perfezione. Con la gomma soffiò un palloncino, che scoppiò. Dondolò la testa e uscí.