UN ASCENSORE
Estratto da "La fine del mondo e il paese delle meraviglie"
Murakami Haruki
L'ascensore saliva con estrema lentezza. Presumo che salisse, cioè. Ma non ne sono affatto sicuro. Era tanto lento da farmi perdere il senso della direzione. Chissà, forse scendeva, o non si muoveva neanche. Nelle circostanze in cui mi trovavo era logico immaginare che stesse salendo. Era solo una supposizione, però. Del tutto priva di fondamento. Magari ero salito di tredici piani e poi sceso di tre, o avevo fatto il giro del mondo ed ero tornato al punto di partenza. Chi poteva dirlo?Quell'ascensore non aveva nulla in comune col rudimentale arnese installato nel mio condominio, una semplice variante di un secchio da pozzo. I due congegni erano talmente diversi che mi era difficile pensare che fossero stati concepiti per lo stesso fine, che avessero la stessa funzione e venissero chiamati con lo stesso nome. Nella loro categoria, erano praticamente agli antipodi.
Prima di tutto per la grandezza. L'ascensore in cui mi tro
vavo avrebbe potuto fungere da ufficio, tanto era ampio. C'era posto per una scrivania, degli schedari, un armadio, magari un angolo cottura, e sarebbe ancora avanzato dello spazio. Volendo ci si potevano far entrare pure tre cammelli e una palma di media grandezza. Per non parlare della pulizia! Era lustro come una cassa da morto nuova. Sulle pareti e sul soffitto, in lucente acciaio inossidabile, non una macchia, non un'ombra, e il pavimento era coperto da una folta moquette verde muschio. Inoltre era incredibilmente silenzioso. Quando vi ero entrato le porte si erano richiuse adagio senza far rumore - alla lettera, senza il minimo fruscio - dopodiché non avevo udito più nulla. Al punto che non capivo nemmeno se la cabina si stesse muovendo o no. I fiumi profondi sono lenti e placidi.
Altra cosa, mancava la maggior parte dei dispositivi di cui normalmente sono provvisti gli ascensori. Tanto per cominciare, non vedevo il pannello dei comandi. Introvabili i pulsanti per scegliere il piano, aprire e chiudere le porte, azionare l'arresto d'emergenza. Insomma non c'era niente. Il che mi metteva estremamente a disagio. Perché oltre ai pulsanti mancavano anche gli indicatori di posizione, la targa con il limite di carico, le norme di sicurezza e il nome del fabbricante. L'uscita d'emergenza non si capiva dove fosse. Un vero e proprio sarcofago. Assurdo che un ascensore del genere avesse ottenuto il certificato di conformità dai vigili del fuoco. Anche gli ascensori, come ogni cosa, devono sottostare a dei precisi criteri.
Osservando quelle mute pareti in acciaio inossidabile, mi tornarono in mente le leggendarie imprese del mago Houdini, che avevo visto da bambino in un film. Legato con parecchi giri di corda, si faceva mettere in un grosso baule stretto da altri giri di robusta catena e buttare giù dalle cascate del Niagara. Oppure calare con tutto l'armamentario nei ghiacci del Mare Artico. Feci un profondo sospiro, e paragonai con calma la situazione in cui mi trovavo a quella di Houdini. Non ero legato, e questo era un punto a mio favore, però ero svantaggiato dal fatto di non conoscere il trucco.
E poi altro che trucco, non sapevo nemmeno se l'ascensore si muovesse o no! Provai a schiarirmi la gola. Ne venne fuori uno strano rumore, molto diverso da quello solito. Un suono attutito, come quando si tira una zolla di terra contro un muro di cemento. Non riuscivo a credere di averlo prodotto io. Per scrupolo riprovai: stesso risultato. Rinunciai a fare altri tentativi.
Rimasi per parecchio tempo in attesa, fermo nella posizione in cui mi trovavo. Niente, le porte non si aprivano. Silenzio e immobilità, la scena sembrava una natura morta dal titolo L'uomo e l'ascensore. Cominciavo ad avere paura.
Poteva darsi che l'ascensore fosse guasto, oppure che il manovratore - supponendo che una persona con un tale incarico esistesse - si fosse completamente dimenticato che in quella cabina c'ero io. Mi era già successo altre volte che qualcuno si dimenticasse della mia esistenza. In entrambi i casi il risultato era uguale, ero chiuso in quella prigione di acciaio inossidabile. Mi concentrai e tesi l'udito: non il minimo suono. Appoggiai l'orecchio a piatto sulla parete ma non sentii nulla, tutto quel che ottenni fu di lasciare un alone bianco sul metallo. Probabilmente quella scatola era stata costruita in una lega speciale in grado di assorbire ogni suono. Allora provai a fischiettare Danny Boy, ma riuscii a emettere soltanto un rantolo che pareva quello di un cane consunto dall'asma.
Rassegnato, mi appoggiai alla parete, e tanto per ammazzare il tempo presi a contare gli spiccioli che avevo in tasca. Per una persona che esercita la mia professione, allenarsi a far passare il tempo è importante quanto per un pugile tenere in esercizio le mani stringendo delle palle di gomma. Non si tratta di un diversivo nel puro senso del termine. Le attività ripetitive sono il solo modo di riequilibrare le tendenze maldistribuite.
Comunque sia, cerco di avere sempre parecchie monete nelle tasche dei pantaloni. Nella destra metto quelle da 100 e da 500, nella sinistra quelle da 50 e da 10. Le monete da 5 e da 1 yen le lascio invece nel taschino posteriore, perché di regola non le uso. Infilai le mani in tasca e con la destra presi a contare le monete da 100 e da 500, mentre con la sinistra contavo quelle da 50 e da 10.
Chi non ha mai provato a fare quest'operazione non può nemmeno immaginare che razza di fatica sia. L'emisfero cerebrale destro e il sinistro fanno due lavori distinti, che bisogna poi mettere insieme come le due parti di un'anguria spaccata. Impossibile riuscirci senza il dovuto allenamento.
A essere sincero, non sono del tutto sicuro che i due emisferi cerebrali funzionino separatamente. Forse uno specialista in neurofisiologia darebbe un'altra spiegazione. Ma io non ho tale qualifica, e quando mi cimento in questo tipo di calcolo ho la netta impressione di usare in maniera disgiunta le due parti del mio cervello. Anche il senso di spossatezza che mi prende alla fine di questi allenamenti è qualitativamente molto diverso dalla normale stanchezza che provo dopo aver fatto dei calcoli. Così ne traggo la ragionevole conclusione che l'emisfero destro si occupa della tasca destra, quello sinistro della tasca sinistra.
Non è facile pronunciare un giudizio su se stessi, ma credo di essere propenso a dare ai fenomeni, agli eventi e agli esseri esistenti al mondo il significato che più mi conviene. Non perché sia un opportunista - d'accordo, ammetto di avere in una certa misura anche questo difetto - ma perché al mondo si verificano spesso circostanze in cui, più che trovare una soluzione giusta, interpretare le cose nella maniera più conveniente aiuta a capire la loro natura.
Supponiamo per un momento che la Terra non sia una sfera ma un gigantesco tavolino da tè: a livello di vita quotidiana quali svantaggi ne deriverebbero? Evidentemente l'esempio è paradossale, non è che si possa prendere una cosa qualunque e ricostruirla come pare e piace. Se però adottassimo la teoria del tavolino da tè, tanti problemi triviali derivanti dal fatto che la Terra è una sfera - la gravità dei corpi, il meridiano che segna il cambiamento di data, la linea dell'equatore e altre cose che non saranno mai utili a nessuno - sparirebbero, spazzati via per incanto. Quante volte le persone che hanno un'esistenza normale hanno a che fare con la linea dell'orizzonte, in vita loro?
Di conseguenza mi sforzo, nella misura del possibile, di considerare le cose dal punto di vista della convenienza. Sono persuaso che il mondo contenga moltissime possibilità. Anzi, possibilità illimitate. E la scelta fra l'una o l'altra in una certa misura spetta alle singole persone. Il mondo è un tavolino da tè formatosi per condensazione di una possibilità fra mille.
Ma torniamo al discorso di prima. Fare contemporaneamente due calcoli diversi a destra e a sinistra è un'impresa tutt'altro che semplice. Mi ci è voluto un sacco di tempo per padroneggiare la tecnica. Ma una volta che si è presa la mano - che si è capito il sistema, cioè - non la si perde più. È come andare in bicicletta, o nuotare. Però è anche necessario allenarsi. Più ci si allena, più si migliora e ci si perfeziona. È per questo che ho sempre molte monete in tasca e appena ho un po' di tempo libero mi esercito a farne la somma.
Quella volta avevo in tasca tre monete da 500 yen, diciotto da 100, sette da 50 e sedici da 10. Totale: 3810 yen. Non ebbi nessuna difficoltà a calcolarlo. Come contare le dita delle mani. Soddisfatto, mi appoggiai alla parete in acciaio inossidabile e guardai di nuovo le porte. Non accennavano ad aprirsi.
Non capivo per quale motivo restassero chiuse per tanto tempo. Dopo averci riflettuto su, ne conclusi che potevo scartare le spiegazioni banali - un guasto o una dimenticanza da parte del manovratore. Non erano realistiche. Non perché tali incidenti non possano accadere nella realtà. Al contrario, succedono in continuazione. Ma in quella realtà particolare, cioè in quello stupido e liscio ascensore, paradossalmente conveniva considerare la mancanza di contrassegni come una caratteristica. Un ascensore tanto eccentrico e perfezionato poteva dipendere da una persona distratta al punto di trascurare la manutenzione del meccanismo o far salire i visitatori e dimenticarseli dentro?
La risposta ovviamente era no.
Una tale possibilità non esisteva.
Fino a un momento prima «loro» erano stati estremamente scrupolosi e attenti, addirittura pignoli. Avevano curato i minimi dettagli, procedendo tappa dopo tappa e valutando la progressione. Quando ero entrato nel palazzo, due uomini di guardia mi avevano fermato, mi avevano chiesto da chi mi stessi recando, avevano controllato la lista delle visite in programma e la mia patente, verificato la mia identità sul computer centrale, poi mi avevano perquisito con un rivelatore elettronico e infine spinto dentro a quell'ascensore. Nemmeno alla Zecca di Stato mi avrebbero sottoposto a controlli tanto minuziosi. Era inconcepibile che a quel punto le precauzioni venissero improvvisamente meno.
Restava solo una possibilità: la situazione in cui mi trovano era voluta. Non desideravano che io mi rendessi conto dei movimenti dell'ascensore. Lo manovravano così lentamente perché io non capissi se stavo salendo o scendendo. Da qualche parte doveva essere installata una telecamera a circuito chiuso. Nella portineria, all'ingresso, avevo visto una fila di schermi televisivi, molto probabilmente uno di quelli mostrava l'interno della cabina.
Per vincere la noia, pensai di scoprire dove fosse l'occhio della telecamera, poi mi dissi che non mi sarebbe stato di alcun vantaggio. Li avrei solo messi in allarme, il che forse li avrebbe indotti a manovrare l'ascensore ancora più adagio. Ne facevo volentieri a meno. Sarei solo arrivato tardi al mio appuntamento.
In conclusione decisi di restarmene tranquillo dov'ero e aspettare. Non avevo nulla da temere, né avevo ragione di sentirmi teso.
Appoggiato alla parete, le mani in tasca, ripresi a contare le monete. 3750 yen. Elementare. Ci avevo messo meno di niente.
Come, tremilasettecentocinquanta yen?
No, mi sbagliavo.
A un certo punto dovevo aver commesso un errore.
Sentii i palmi delle mani imperlarsi di sudore. Negli ultimi tre anni non mi era mai successo di sbagliarmi a contare le monete che avevo in tasca. Nemmeno una volta. Brutto segno, mi piacesse o no. Dovevo recuperare subito il terreno perduto, prima che quell'infausto presagio si concretizzasse in un palese disastro.
Chiusi gli occhi e feci il vuoto nei miei due emisferi cerebrali, come se pulissi le lenti degli occhiali. Poi estrassi le mani dalle tasche, le aprii e mi asciugai i palmi sudati. Gesti ben misurati, come Henry Fonda in Ultima notte a Warlock, quando si prepara alla sparatoria. Non c'entra niente, lo so, ma vado pazzo per quel film.
Dopo essermi assicurato che le mie mani fossero ben asciutte, le infilai di nuovo in tasca. Iniziai a calcolare per la terza volta. Se la somma fosse stata uguale a una delle due precedenti tutto era a posto. Chiunque può fare uno sbaglio. La situazione particolare in cui mi trovavo mi rendeva nervoso, inoltre - devo ammetterlo - forse avevo sopravvalutato la mia memoria. E questo era stato il mio primo errore. Bastava che rifacessi il calcolo esatto e avrei risolto tutto. Ma non ne ebbi il tempo, le porte dell'ascensore si aprirono. Di colpo scivolarono ai due lati, senza preavviso, senza rumore.
Concentrato com'ero sulle monete che avevo in tasca, non me ne accorsi subito. O per la precisione, vidi che le porte si aprivano, ma per qualche secondo non afferrai il significato concreto dell'evento. Cioè che grazie all'apertura di quelle porte due spazi fino ad allora separati diventavano comunicanti. E al tempo stesso che l'ascensore su cui mi trovavo era arrivato a destinazione.
Smisi di muovere le dita dentro le tasche e guardai al di là della soglia. Vidi un corridoio, e nel corridoio una donna. Era giovane, piuttosto grassa, indossava un tailleur rosa e calzava delle scarpe rosa con il tacco alto. Il tailleur era di buona fattura, in un tessuto serico, e altrettanto serico era il viso di lei. La donna mi guardò in faccia per assicurarsi che fossi io, poi fece un cenno di assenso. Sembrava volermi dire «da questa parte». Lasciai perdere la faccenda delle monete, tirai fuori le mani di tasca e uscii dall'ascensore. Immediatamente, come se non avessero atteso altro, le porte si richiusero alle mie spalle.
Una volta nel corridoio, gettai un'occhiata in giro, ma non vidi assolutamente nulla che potesse in qualche modo indicarmi dove fossi, non il minimo indizio. Tutto quello che sapevo era che mi trovavo in una sorta di passaggio interno del palazzo, l'avrebbe capito anche un bambino.
L'edificio era incredibilmente silenzioso e ben rifinito. Come l'ascensore, era stato costruito con materiali della migliore qualità, ma nell'insieme era del tutto anonimo. Il pavimento in marmo, tirato a lucido, splendeva, e le pareti color crema avevano la stessa sfumatura delle brioche che mangio ogni mattina a colazione. Sui due lati del corridoio si susseguivano solide porte in legno, ognuna con la sua targa in metallo recante il numero della stanza, ma senza alcun ordine logico: dopo il 936 veniva il 1213, seguito dal 26. Inconcepibile, numerare le cose in quel modo assurdo. C'era qualcosa che non quadrava.
La giovane donna non parlò, si voltò verso di me per dirmi «prego, da questa parte», ma senza emettere alcun suono, soltanto le sue labbra formarono le parole. La capii perché prima di iniziare quel lavoro avevo seguito per due mesi un corso di lettura sulle labbra. Per un attimo mi domandai se non fossero le mie orecchie a farmi degli scherzi. L'ascensore non l'avevo sentito muoversi, quando mi ero schiarito la gola e avevo provato a fischiare avevo emesso suoni strani, la mia capacità di percepire i rumori doveva essersi indebolita.
Per togliermi il dubbio mi schiarii di nuovo la gola. Ne venne fuori un suono sempre attutito, ma più forte di prima, quando mi trovavo nell'ascensore. Con un senso di sollievo ritrovai fiducia nelle mie facoltà uditive. Potevo stare tranquillo, le mie orecchie non avevano nulla che non andasse. Era la ragazza che aveva qualche problema con la voce.
Avanzai dietro di lei. Il ticchettio dei suoi tacchi a spillo riecheggiava nel corridoio vuoto, come in una cava di pietra nel primo pomeriggio. I suoi polpacci inguainati nelle calze di nylon si riflettevano nel marmo.
Aveva parecchi chili di troppo. Era giovane e bella, ma grassa. Non so perché, il fatto che quella bella ragazza fosse grassa mi turbava. Camminando dietro di lei osservavo il suo collo, le sue braccia, le sue gambe. La carne le stava attaccata al corpo come neve caduta abbondante e silenziosa durante la notte.
Quando sono in compagnia di una donna giovane, bella e grassa, mi trovo sempre in uno stato confusionale. Per quale motivo non lo so neanch'io. O forse è perché ogni volta mi viene naturale figurarmi le sue abitudini alimentari. Guardandola, automaticamente me la immagino mentre mastica le foglie d'insalata messe a guarnire il piatto o raccoglie col pane la salsa alla panna, fino all'ultima goccia. Non posso impedirmelo. E quando incomincio, è come un acido che corrode il metallo: scene di lei che mangia invadono la mia testa mettendo fuori uso tutte le altre funzioni mentali.
Nel caso di una qualunque donna grassa, non ho problemi. Una cicciona ordinaria è come una nuvola che vaga nel cielo. La sua presenza non mi tocca in alcun modo. Ma se la donna oltre a essere grassa è anche giovane e bella, è tutto un altro paio di maniche. Mi sento obbligato ad assumere un atteggiamento nei suoi confronti. Perché potremmo anche finire a letto insieme, non si sa mai. Credo sia questo che crea confusione nella mia testa. E fare l'amore con una donna quando la mente non è lucida non è una cosa semplice.
Il che non vuol dire che abbia qualcosa contro le donne grasse. Provare un senso di confusione non significa detestare. Fino a oggi sono andato a letto con un certo numero di donne giovani, belle e grasse, e nel complesso non posso certo dire che siano state esperienze sgradevoli. Se uno riesce a convogliare la confusione nella direzione giusta, può arrivare a risultati magnifici, molto più brillanti del solito. È ovvio che può accadere anche il contrario: il sesso è qualcosa di estremamente delicato, non è come andare ai grandi magazzini la domenica per comprare un thermos. Inoltre due donne ugualmente belle, giovani e grasse hanno la ciccia distribuita in modo diverso; c'è un tipo di adiposità che mi spedisce nella direzione giusta, un altro che mi getta in un temporaneo smarrimento.
In questo senso, per me fare l'amore con una donna grassa è sempre una sorta di sfida. Perché ci sono tanti modi di essere grassi, come ci sono tanti modi di morire.
Questi erano i miei pensieri mentre percorrevo il corridoio dietro quella bella cicciottella. Sotto il colletto del suo elegante tailleur rosa all'ultima moda portava una sciarpa bianca. Ai lobi paffuti e graziosi delle orecchie le pendevano degli orecchini d'oro, che a ogni suo passo dondolavano in cadenza e brillavano come segnali luminosi. Considerata la sua mole, nel complesso la ragazza aveva un'andatura piuttosto leggera. E una vita relativamente sottile, graziosa, che mi piaceva molto, pur mettendo in conto la possibilità che per fare bella figura si fosse stretta in un busto o in qualche indumento del genere. Insomma, era proprio il mio tipo di grassa.
Non è per giustificarmi, ma non sono molte le donne che mi attirano. Anzi, sono piuttosto il genere d'uomo che non si lascia sedurre facilmente. Così, quando sono attratto da una donna, mi viene da chiedermi il perché. Cerco di capire se mi piaccia veramente, e in tal caso come funzioni questa attrazione, da cosa nasca e così via.
Ad ogni modo mi portai accanto a lei e mi scusai per essere otto o nove minuti in ritardo all'appuntamento.
-Non sapevo che le formalità all'ingresso sarebbero state tanto lunghe, - mi giustificai. - E poi l'ascensore era così lento... per la verità ero arrivato con dieci minuti di anticipo.
Lei annuì leggermente come per dire che capiva. Dalla sua nuca mi arrivò un sentore di acqua di colonia. Un odore che mi dava l'illusione di trovarmi in un campo di meloni in una mattina d'estate. E mi procurava una sensazione strana. Una sorta di bizzarra, assurda nostalgia, come se due ricordi diversi si sovrapponessero, in un luogo a me ignoto. A volte mi succede di provare stati d'animo di questo genere. Ma non riesco a spiegarmi il perché.
-Davvero lungo, questo corridoio, - dissi alla ragazza per avviare la conversazione. Senza smettere di camminare, lei si voltò a guardarmi. Doveva avere una ventina d'anni. Tratti regolari, la fronte ampia, una bella pelle,
-Proust, - fece fissandomi in viso. O meglio, non lo disse veramente, semplicemente le sue labbra mi dettero l'impressione di formare quella parola. Ma come prima non udii alcun suono. Neanche il rumore del suo respiro. Sembrava che mi parlasse dall'altra parte di una vetrata.
Proust?
-Marcel Proust? - le chiesi.
Lei mi guardò con espressione stupita. Poi ripeté: - Proust -. Rassegnato, tornai a mettermi dietro di lei e ripresi a seguirla, mentre cercavo tutte le parole che potevano adattarsi al movimento delle sue labbra. «Fusto», provai a dire sottovoce, «posto», «mosto» e altri vocaboli privi di nesso, l'uno dopo l'altro, senza trovarne uno convincente. Pareva che lei avesse detto proprio «Proust». Ma che nesso poteva mai esserci tra Marcel Proust e quel lungo corridoio?
Che avesse tirato fuori Proust come metafora della lunghezza? In tal caso, che modo singolare e irriverente di esprimersi! Avrei ancora capito se avesse portato a esempio il corridoio per rappresentare la lunghezza dell'opera di Proust. Fare il contrario, però, era davvero strano.
Un corridoio lungo come Marcel Proust?
Ad ogni buon conto, la seguii docilmente per quell'interminabile labirinto. Che non finiva mai, formava svolte, saliva e scendeva con brevi scale di pochi gradini. Percorremmo cinque o sei volte la lunghezza di un normale palazzo. Mi chiesi se non stessimo girando in tondo, come in un quadro di Escher. Potevamo camminare quanto volevamo, tanto la scenografia non variava. Pavimento di marmo, pareti color uovo sbattuto, porte di legno numerate a casaccio, pomi d'acciaio. Nessuna finestra. I tacchi a spillo della ragazza ticchettavano nel corridoio con lo stesso ritmo regolare, io la seguivo con le mie scarpe da ginnastica che facevano uno schiocco molle di gomma fusa. Molto più forte del solito, tanto che mi venne il dubbio che la suola stesse davvero fondendo. Era la prima volta in vita mia che camminavo sul marmo con delle scarpe da ginnastica, come potevo sapere se era il rumore normale o meno? Forse lo era per metà e per l'altra metà no, mi dissi. Perché a quel punto avevo l'impressione che ogni cosa mi venisse propinata in quella proporzione.
Quando la ragazza improvvisamente si fermò, ero talmente concentrato sul rumore delle mie scarpe che non vi feci caso e andai a sbattere col petto contro la sua schiena. Una schiena gradevolmente morbida, come una nuvola carica di pioggia. Dalla sua nuca mi arrivò l'odore d'acqua di colonia al melone di prima. A causa dell'urto lei stava per cadere in avanti, ma io fui svelto a trattenerla per le spalle.
- Mi scusi, - dissi. - Ero immerso nei miei pensieri.
La ragazza arrossi leggermente e mi guardò. Non ci avrei messo la mano sul fuoco, ma non mi parve in collera. - Tasselli, - rispose con un accenno di sorriso. Poi si raddrizzò e aggiunse: - Sela -. È chiaro che non pronunciò davvero quelle parole, le formò soltanto con le labbra.
-Tasselu? - provai a dire sottovoce fra me e me. - Sela?
-Sela, - ripeté allora lei con aria più convinta.
Poteva essere turco. Peccato che io il turco non l'avessi mai sentito in vita mia. Di conseguenza forse era un'altra cosa. A poco a poco nella mia testa la confusione cresceva, così decisi di lasciar perdere. Fine della conversazione. La mia capacità di leggere sulle labbra era ancora insufficiente. È un'operazione delicata leggere sulle labbra, mica una tecnica che si riesce a padroneggiare perfettamente in due mesi di lezioni al Centro Comunale.
La ragazza tirò fuori dalla tasca della giacca una chiave elettronica ovale e la introdusse per metà nel pomo della porta numero 728. Si sentì uno scatto e la serratura si aprì. Mirabile congegno. Ferma sulla soglia lei spinse il battente con la mano. Poi rivolta a me fece: - Somuto, sela.
Ovviamente annuii ed entrai.