ABDALLAH MOHAMED BEN OLMAN
Estratto da "Il Consiglio d'Egitto" di Leonardo Sciascia
Il benedettino passò un mazzetto di penne variopinte sul taglio del libro, dal faccione tondo soffiò come il dio dei venti delle carte nautiche a disperdere la nera polvere, lo aprì con un ribrezzo che nella circostanza apparve delicatezza, trepidazione. Per la luce che cadeva obliqua dall'alta finestra, sul foglio color sabbia i caratteri presero rilievo: un grottesco drappello di formiche nere spiaccicato, secco. Sua eccellenza Abdallah Mohamed ben Olman si chinò su quei segni, il suo occhio abitualmente languido, stracco, annoiato era diventato vivo ed acuto. Si rialzò un momento dopo, a frugarsi con la destra sotto la giamberga: tirò fuori una lente montata, oro e pietre verdi, a fingerla fiore o frutto su esile tralcio.
"Ruscello congelato" disse mostrandola. Sorrideva: che aveva citato Ibn Hamdis, poeta siciliano, per omaggio agli ospiti. Ma, tranne don Giuseppe Velia, nessuno sapeva di arabo: e don Giuseppe non era in grado di cogliere il gentile significato che sua eccellenza aveva voluto dare alla citazione, né di capire che si trattava di una citazione. Tradusse perciò, invece che le parole, il gesto. "La lente, ha bisogno della lente"; il che monsignor Airoldi, che con emozione aspettava il responso di sua eccellenza su quel codice, aveva capito da sé.
Sua eccellenza era di nuovo chino sul libro, muoveva la lente come a disegnare esitanti ellissi. Don Giuseppe vedeva i segni balzare dentro la lente e, prima che avesse il tempo di coglierne uno solo, sfrangiati ricadere sulla pagina tarlata.
Sua eccellenza voltò il foglio, ancora si attardò nell'esame. Mormorò qualcosa. Voltò altri fogli velocemente scorrendoli con la lente, sull'ultimo che guizzava di piccoli vermi d'argento si soffermò.
Si sollevò, voltò le spalle al codice: lo sguardo gli si era di nuovo spento. "Una vita del profeta - disse - niente di siciliano: una vita del profeta, ce ne sono tante".
Don Giuseppe Velia si voltò con faccia radiosa verso monsignor Airoldi. "Sua eccellenza dice che si tratta di un prezioso codice: non ne esistono di simili nemmeno nei suoi paesi. Vi si racconta la conquista della Sicilia, i fatti della dominazione...".
Monsignor Airoldi si imporporò di gioia, balbettando di emozione. "Domandate - disse - a sua eccellenza... Ecco: domandategli se, nella forma, è simile alla cronica di Cambridge o, che so?, al de rebus siculis...".
Il fracappellano Velia non era uomo da scoraggiarsi per cosi vaga domanda, era preparato a ben altro. Si volse a sua eccellenza. "Monsignore è deluso che questo codice non tratti di cose siciliane. Ma desidera sapere se vite del profeta, come questa, si trovino a Cambridge o in altri luoghi d'Europa".
"Nelle nostre biblioteche, molte: non so se a Cambridge o in altre città d'Europa se ne trovino... Mi dispiace di aver dato una delusione a monsignore: ma le cose sono come sono".
"Eh no, le cose non sono come sono!", pensò don Giuseppe; e a monsignore disse "Sua eccellenza non conosce il de rebus siculis, naturalmente...". "Naturalmente, già..." disse, un po' confuso, monsignore.
"Ma sa della cronica di Cambridge... Questo codice è, dice, qualcosa di diverso: si tratta di una raccolta di lettere, di relazioni... Cose di governo, insomma".
L'idea di armare l'imbroglio al fracappellano Velia era venuta appena monsignor Airoldi aveva proposto la gita al monastero di San Martino: dove, si era ricordato monsignore, c'era un codice arabo che a Palermo aveva portato, un secolo prima, don Martino La Farina, bibliotecario dell'Escuriale. E non c'era occasione migliore, per sapere cosa contenesse quel codice: un arabo che s'intendeva di lettere e di storia, un interprete come il Velia...
Abdallah Mohamed ben Olman, ambasciatore del Marocco alla corte di Napoli, si trovava a Palermo, in quel dicembre del 1782, per causa di un fortunale che aveva spinto il vascello, sul quale verso il Marocco navigava, a sfasciarsi sulle coste siciliane. Il viceré Caracciolo, che sapeva quanto il governo di Napoli tenesse a mantenere rapporti col piratesco mondo arabo, persino operando in tal senso con velata soggezione, appena saputo del disastro aveva mandato portantine e carrozze, con buona scorta, a rilevare l'ambasciatore che derelitto se ne stava sulla spiaggia tra i suoi bagagli. Ma appena l'ambasciatore arrivò a palazzo, il viceré si accorse che era impossibile comunicare con lui: non conosceva il francese, non conosceva nemmeno il napoletano. Provvidenzialmente, qualcuno gli suggerì di chiamare quel cappellano maltese che andava vagando per la città sempre solo, sempre ingrugnato: non si sapeva da quale sorte balestrato nella felice città di Palermo.
I volanti mandati in traccia del Velia, affannosamente lo cercarono per tutta la città: che in casa della nipote, che disagiatamente lo ospitava, lo si poteva trovare la notte e nelle ore dei pasti; per il resto se ne stava sempre fuori, occupato nella duplice professione di fracappellano dell'Ordine di Malta e di numerista del lotto. Da quest'ultima attività ricavava il superfluo, come dalla prima il necessario: e non la passava poi tanto male; solo che ancora non era in condizione di liberarsi dell'ospitalità di sua nipote; spinosissima ospitalità, con mezza dozzina di bambini che parevano sortiti dalla bocca dell'inferno e un capo di casa, marito della nipote e padre di quei bambini, ozioso e ubriacone.
Uno dei volanti riusci finalmente a trovarlo. Stava nella bottega di un carnezziere, all'Albergaria: ed era impegnato a smorfiargli un sogno piuttosto confuso. Perché più che un numerista il fracappellano era uno smorfìatore di sogni, dai sogni che gli raccontavano trasceglieva gli elementi che potevano assumere una certa coerenza di racconto, e le immagini che nel racconto prendevano risalto egli traduceva in numeri: e non era impresa facile ridurre a cinque numeri i sogni della gente dell'Albergaria e del Capo (che erano i due quartieri cui limitava la sua attività); sogni che non finivano mai, come le storie dei Reali di Francia; che si scomponevano in un caos di immagini, che si sperdevano in mille rivoli oscuri. In quello che il carnezziere stava raccontandogli, all'arrivo del volante, nientemeno c'entravano un porco che rideva, il viceré, una vicina di casa, una mangiata di cuscus e... Questi erano gli elementi che il fracappellano era riuscito ad estrarre da quel formidabile sogno.