Pangea ha citato qualche tempo fa The Piano di Jane Campion: un film che anch’io ho amato molto come, sempre della Campion, An Angel at my Table.
Questo secondo film ottenne il Premio speciale della Giuria a Venezia nel 1990, il titolo tratto dal secondo Libro dell’autobiografia della neozelandese Janet Frame, Un angelo alla mia tavola. Divisa in tre parti, l’autobiografia della Frame (la prima è To the Is-Land, L’isola del presente, la terza The Envoy from Mirror City, L’inviato dalla città degli specchi) è il racconto di una vita difficile, il cammino di una bambina dalla strana discordanza con il mondo e i propri simili verso la ‘normalità’, la salvezza e infine la scrittura.
Rileggere la Frame è risalire la corrente dei significati a ritroso e ritrovare – spigolando dal passato al presente brandelli di senso, frammenti di contenuti – la folgore originaria del mito. Lei stessa afferma, con la voce pacata di chi ha attraversato la sofferenza e raggiunto un punto al sole: “Scrivere un’autobiografia può voler dire non solo guardare indietro, ma anche al di là o attraverso. (…) Il tempo passato non è tempo scomparso, è tempo accumulato”.
Forse proprio questo “attraverso” è il talismano dell’empatia in ogni vita d’artista. Quel che ci apre le porte della sua vita segreta, lo spiraglio da dischiudere per avvicinarsi a quel fuoco.
Figlia di una donna che, come l’impareggiabile Sido madre di Colette, possedeva le chiavi dell’estasi terrestre – “poteva caricare ogni insetto, ogni filo d’erba, ogni fiore, degli aspetti pericolosi e maestosi del tempo e delle stagioni, di un’importanza memorabile unita a una sorta di umiltà e incertezza che c’induceva a meditare e a cercare di arrivare al cuore delle cose” – e insieme esperta esploratrice degli strapiombi dell’anima – “Solo i poeti sanno, solo i poeti sanno”… “Che meraviglia, bambini, Charles Dickens, nato povero, diventato un grande scrittore…” –, Janet cresce a Oamaru, “città di pietra bianca con il “costante ruggito del mare sulla spiaggia”.
La famiglia è povera ma la bambina è “affamata di parole”, le colleziona, trasforma tutto alla vampa dell’immaginazione, pensa ai romanzi come a mitologie private da godere in solitudine, in cui mettere in gioco “il punto di vista degli angeli”. Ferry Street diventa per lei Fairy Street, la via delle fate, poi Eden Street si carica di altri ordini, altri significati: il reale va scovato dietro le apparenze ed è l’io che scrive a renderlo veramente tale, a scoprire o meglio a mettere in luce segni, formule, disegni.
“Le parole detenevano le chiavi del regno”: sognante convinzione che conterrà tutta la sua poetica futura. “La mia vita da anni subiva il potere delle parole. Adesso ero spinta dalla ricerca continua e dal bisogno di quella che era una parola unica: fantasia.” Ecco la sua ribellione: contro la povertà, la diversità, l’isolamento sociale ed emotivo. Ecco la sua salvezza.
Con voce lucida la Frame racconta la passione per la lettura e la scrittura che ne farà un’autrice, la capacità d’identificarsi totalmente, perdutamente nei libri che legge, nelle vite degli scrittori e nell’alone incantato che circonfonde quelle vite: “Imparammo a conoscere e ad amare la storia delle sorelle Brontë: il malinconico scenario delle brughiere dello Yorkshire, la parrocchia paterna, il cimitero. Ci sentivamo vicini a quella famiglia autosufficiente (…): le Brontë con le loro brughiere, noi con la nostra collina e il nostro canale e le pinete. La loro famiglia aveva conosciuto la morte, al pari della nostra, e la loro vita era tanto più tragica della nostra, e malgrado tutto prevalentemente gioiosa, che potevamo attribuire loro, con cuore grato, i tristi sentimenti dai quali eravamo talvolta sopraffatte…”.
Stabilisce precoci corrispondenze anche con altre presenze: inviati, angeli, intermediari tra lei e gli scrittori e i poeti. E sempre presente è il grande amore per la terra ampia in cui vive. Proprio come le bambine Brontë la piccola Janet vagabonda con passione per le colline intorno a casa, i fratelli con lei in molta libertà, quasi piccoli selvaggi alla scoperta di un continente: “guardavamo in cielo a quelle che parevano essere le uniche altre creature viventi al mondo: i falchi roteanti in picchiata e le allodole”.
Insieme, i bambini imparano poesie dai sussidiari scolastici: “stavamo distesi nell’alta erba estiva, guardando le nuvole, recitando la poesia, consapevoli del fatto che ognuno di noi provava lo stesso desiderio e la stessa nostalgia per il cielo”.
“Nostalgia per il cielo” e facoltà visionaria di vedere dietro – o attraverso – la realtà a un’altra dimensione che travalichi quella comune.
Janet in particolare compie letture precoci, vi si cala furiosamente: “potevo vivere un’avventura leggendo un libro”, perché “«Imparare» qualcosa era il sogno della nostra vita”. Il silenzio della lettura caricato di rumori interiori, fantasia e realtà si confondono: “Le favole di Grimm erano la storia di ciascuno di noi vista in modo speciale …”.
A farle da veri compagni di gioco sono il mare, la sua is-land, sonora-terra-che-c’è, e soprattutto i poeti: più avanti, all’università, saranno Shakespeare, Keats, Shelley, Dylan Thomas, Eliot, Auden. Altri. Janet impara presto, “facendo a modo mio”: i protagonisti dei libri, spesso sfortunati, emarginati e vittime sono forse “angeli travestiti”. Il tema sarà una stella polare della sua scrittura, una specie di Leitmotif sempre ritornante: le presenze ‘angeliche’ o scintille di un mondo ‘altro’, che scorteranno o assisteranno la sua parabola umana e letteraria: “ero una bambina apprensiva piena di tic che se ne stava sola nell’ora di ricreazione con indosso ogni giorno la stessa gonna scozzese, un bene ereditario … perché non avevo altro…”.
Nel doloroso apprendistato di una dickinsoniana “differenza” iniziano le intuizioni di una poetica per la futura scrittrice. A scuola è “già corrotta di letteratura” e se nelle giornate inizia a scorgere un “vuoto”, è su questo vuoto che i poeti le sembrano scrivere la sua storia personale, individuale: “Quanto era meraviglioso l’intuito dei poeti che permetteva loro di leggere nella mia vita”.
Tra gli altri ci sono sempre le sorelle Brontë, Shakespeare: “Sentivo che la vita era diventata molto seria. Mi accadeva talvolta di pensare, con curiosità e preoccupazione, alla condizione che veniva chiamata «futuro»”. Janet cerca, famelica e disperata, una luce della fantasia che illumini i fatti di tutti i giorni e non la costringa, sempre e con crudeltà, a “vivere «altrove»”. Il tentativo di far combaciare i lembi fallirà: “il mio unico rifugio era in me stessa, il «mio posto»”, lontana dai giudizi altrui che iniziano a volgersi in tragedia: “ero davvero una sognatrice, perché la realtà mi appariva sordida e dissipatrice, ed esponeva i sogni, un anno dopo l’altro, a una ineluttabile dissoluzione”.
La grande scoperta degli anni scolastici è “Il desiderio di essere me stessa”, di non seguire i dettami di chi la circondava, il che va di pari passo con il fatto che “la poesia si trovava dove pochi la cercavano”.
La sua “eccentricità” è già colpa. Divario, abisso, voragine: “È strano pensare alla mia vita vissuta come vivevo allora la mia vita «reale», così introversa e influenzata dalla letteratura…, con la scoperta di un paragrafo o di una poesia e i miei stessi tentativi letterari come avventure quotidiane. Non si trattava di una fuga come tentativo di dimenticare l’infelicità che provavo a casa (…) o il sentimento di vivere a mezz’aria perché non avevo abiti normali da indossare per dimostrare che ero un essere umano (…); non c’era alcun tentativo di trasferire me stessa e la mia vita in un altro mondo, c’era semplicemente l’ingresso di quell’altro mondo nel mio con la letteratura che via affluiva (…). Era l’arrivo, come di vicini o parenti, (…) dei poeti e prosatori e delle loro opere al 56 di Eden Street, Oamaru, «il regno sul mare», portando con sé orde di parole e personaggi e il loro modo speciale di vedere le cose”.
Sovrapposizione perfetta tra giorni e sogni, quotidiano e occhio visionario: l’“intimità, l’armonia, e non la separazione fra letteratura (una semplice storia, dopo tutto!) e vita”. Lo pseudonimo con cui firma le prime storie e dietro a cui si cela come ‘personaggio’ è, all’epoca, ‘Amera’. Non desidera far apparire subito il proprio nome, la poesia è però da subito stigma, coincidenza con il destino: “Non ero Becky Sharp, ero Emma. Ma ero anche Tess e Marty South, come ero stata una volta Anna di Green Gables, e Charlotte Brontë (Isabel era Emily, e June Anne). Ero Maggie Tulliver e Jane Eyre e Cathy. E quando non trovavo un’eroina in cui identificarmi, mi limitavo ad adorare gli eroi: Giuda l’Oscuro, Raskòlnikov, Bruto, non Marco Antonio, che piaceva “a tutti”. E c’erano anche gli eroi del cinema: Robert Donat, Laurence Olivier, Clark Gable. I miei ultimi eroi, naturalmente, erano i poeti, francesi e inglesi: Daudet, Victor Huo, Keats, Shelley, Wordsworth, Rupert Brooke, Yeats (…): E poi i prosatori: Dostoevskij, Hardy, le Brontës, George Eliot, Washington Irving. E. B. Lucas, Sir Thomas Browne. E Shakespeare”.
Con il trasferimento a Dunedin, dove frequenta l’università, gli orizzonti si allargano e tuttavia non si risolve l’antinomia tra “l’euforia d’integrazione” e “il mio innato senso d’isolamento”, anzi: “mi aggrappavo alle opere letterarie come un bambino si aggrappa alla madre”.
Persino la sorella Isabel, colei che nei loro giochi infantili “era stata Emily” si stacca da lei. “Le mie sole oasi di pace erano le lezioni d’inglese all’università”.
Completamente isolata, Janet scrive poesia, scrive in prosa, scrive ogni momento libero: “ricordo la mia felicità e la riconosco come uno dei premi della frequentazione di qualsiasi grande opera d’arte, come se la gente comune fosse chiamata all’improvviso a guardare dal punto di vista degli angeli”.
“il punto di vista degli angeli” sembra inabissarsi nella tragedia: arriva la diagnosi di schizofrenia, la madre firma, Janet è ricoverata in un istituto per malattie mentali, dove resta 8 anni. Sono 200 gli elettroshock per lei. Eppure continua – con la disperazione e il furore con cui leggeva da bambina, continua a scrivere – “scrivevo le mie poesie, senza mostrarle a nessuno”. Scriverà poi anche del baratro, del buio in clinica: Faces in the Water e Owls do cry raccontano questo spaccato terrificante. I suoi scritti però sono notati.
Saranno proprio i poeti – quelli in carne e ossa – a riconsegnarle la vita e la capacità di scrivere.
Janet Frame è già destinata alla lobotomia, i medici non hanno dubbi: considerata un caso senza speranza, impossibile da curare, la salverà in extremis il suo libro The Lagoon and other stories, che vince il premio Hubert Church per la prosa. È la fine del suo personale voyage à l’enfer.
Da questo momento in poi, con l’uscita dalla casa di cura per malattie mentali e il ritorno al mondo esterno, le parole “scrivere” e “futuro” assumono altri pesi e significati per lei: “scrivere doveva essere la mia salvezza. (…) Perfino Prospero (…) aveva conosciuto il naufragio della nave e di se stesso, la sua isola non era raggiungibile se non attraverso la tempesta”.
Lo scrittore Frank Sargent le offre asilo in casa sua: in una stanza parca con un letto, una coperta, una lampada e una macchia da scrivere, Janet inizia a ri-vivere, a coltivare la sua unica libertà, quella che porta dentro di sé, il suo linguaggio e i suoi pensieri – la maggior parte nascosti all’esterno –: “Avevo così tutto quello che desideravo con il rimpianto di aver impiegato tanti anni a trovarlo.”
Nella “baracca dell’esercito” dove ospita la giovane, Sargent la tratta da pari a pari. La invita a fargli leggere quanto ha scritto, la sprona a leggere – “uno scrittore rilegge i classici, spazzando via le banalità attuali, rinnovando l’ispirazione” –, e la sera ne parlano insieme, la proietta in una nuova fase: “Dall’agnizione della grandezza in letteratura nasce una particolare libertà, come se si cedesse qualcosa che si desiderava tenere, e cedendola, si liberasse un nuovo spazio per la crescita, l’esplodere di una nuova stagione sotto un sole segreto. Riconoscere qualsiasi grande opera d’arte è come essere innamorati, non si cammina si vola (…), è come innamorarsi dell’immortalità, una liberazione, un volo in paradiso”.
Una borsa di studio le permetterà di uscire dalla Nuova Zelanda e vedere altri paesi, l’Europa, paesaggi fino ad allora solo sognati, solo immaginati. Fondamentale l’arrivo nella città più importante e rincorsa nell’immaginazione: la “città degli specchi” popolata dall’Inviato, esito di fantasia e sguardo visionario, echi mitici e scenari futuribili. Città che significa anche riscatto, redenzione finale.
Londra diventa, come per moltissimi prima e dopo di lei, immenso omphalos dove trovare libertà, riparo, anonimato: “uomini e donne (…) vivevano la loro vita quotidiana a Londra. E scrivevano le loro poesie. (…) non lo sapevano ma erano una compagnia per me, il loro stesso respiro mi riscaldava e disperdeva il mio dolore”.
In cerca di letture s’iscrive alla biblioteca locale di Clapham, “accettando avidamente la regola: “quanti libri si vogliono”. Clapham sarà legato per sempre al vergognoso trattamento di Oscar Wilde, che aspettava di essere tradotto al carcere di Reading ma per Jane, scampata a un altro carcere, ogni particolare è grande e nuovo e rilascia meraviglia. “Siamo i sognatori di sogni” aveva scritto in una delle prime liriche: “E le parole di Londra mi affascinavano: le pile di giornali, le riviste, gli annunci nelle vetrine dei tabaccai e dei giornalai, i nomi degli autobus, le insegne stradali, le insegne pubblicitarie illuminate, i menù scritti con il gesso sulle lavagne davanti alle umili osterie per i camionisti, (…); i manifesti nella stazione della Sotterranea e i graffiti nei gabinetti pubblici e nei sottopassaggi, le numerose librerie e biblioteche. Non avevo mai avuto tante opportunità di leggere”.
Il capitolo Keats e i cantastorie di Battersea, è il racconto del pellegrinaggio a Hampstead Heath, alla casa e ai luoghi dov’era vissuto Keats: “un sogno lungamente accarezzato”: “un giorno presi l’autobus per Hampstead Heath dove proseguii a piedi fino allo stagno. Il cielo era grigio, sulla città sottostante aleggiava la nebbia, stormi di uccelli attraversavano in fretta il cielo in formazioni serrate come in un corridoio, dirigendosi da qualche parte verso la luce; e le foglie tremavano e davano strattoni sugli alberi d’oro”.
S’impiegata quindi come “cameriera e inserviente” all’Ostello dell’Istituto Tecnico di Battersea. La fantasia materializza subito l’enorme tavolo rovesciato a gambe all’aria della Battersea Power Station, immortalato dai Pink Floyd in Animals. All’ombra di Battersea, Janet si ritrova “inaspettatamente a vivere come durante i giorni della Seconda guerra mondiale”, perché una volta terminati i rispettivi compiti gli altri inservienti, quasi tutti londinesi, rievocano per lei “quel mondo di ombre”. Intuiscono in quella ragazza particolare una fiducia, da non tradire, le affidano le loro memorie. Diventano così “i cantastorie di Battersea”: “Ogni giorno parlavano della guerra, rivivendo orrori di cui non avevano mai parlato e che solo adesso potevano descrivere mentre io, rabbrividendo alla sensazione di un capovolgimento del tempo che troppo spesso noi crediamo possa scorrere ordinatamente dal passato al presente al futuro, sedevo in silenzio ad ascoltare, provando un crescente rispetto per l’ineluttabilità di un’esperienza che come un corteggiatore deciso, perseverante, che stringe la sua amata in un eterno abbraccio, alla fine si assicurerà la propria unione con la parola, anche se ciò, come in questo caso, richiede quindici anni (…) di decantazione, di lavaggio e asciugatura delle lacrime, un mutamento di punti di vista e contenuti (…), un sottostare alla morte e alla rinascita. (…) In quei giorni iniziai a vivere la guerra come l’avevano conosciuta i londinesi. (…) Il mio interesse per i cantastorie di Battersea mi rendeva più sopportabile (…) i miei compiti ingrati…”.
A Londra tutto sembra iniziare a prendere un senso, anche il dolore passato, la sua storia di emarginazione e povertà, la “diversità” e l’amore per la poesia, “come se ogni evento racchiudesse un significato che si svelava attraverso l’immaginazione e le sue varie lingue; come se, al pari delle ombre nella caverna di Paltone, le nostre vite e il mondo contenessero città di specchi rivelateci solo dalla nostra immaginazione, l’Inviato”.
Londra le restituisce cittadinanza nel mondo, “il mio posto”, e possibilità di riprendere a vivere, scrivere. La sua scrittura sempre più si appoggia dalla parte dell’“angelico”, le incursioni nel mondo degli Specchi, altrettante metafore per la lente d’ingrandimento sui millenni, del poeta di ogni tempo: “scrivere un romanzo non è soltanto andare a fare acquisti oltre frontiera in una terra irreale: sono ore e anni passati nelle fabbriche, nelle strade, nelle cattedrali dell’immaginazione, apprendendo il funzionamento unico della Città degli Specchi, i suoi cieli e il suo spazio, il suo sistema planetario…”.
Seppure tardi, Londra le restituisce la propria identità interiore.
Entrando io stessa, anni fa, al St. George’s Hospital di Londra, ricordavo bene: lì Janet Frame era stata completamente liberata dalla diagnosi che l’aveva rinchiusa otto anni tra i malati mentali. La sua schizofrenia non c’era più: ossia, non era mai esistita. Lei non ne era mai stata malata.
Nelle pagine finali dell’autobiografia, la Frame scrive: “avevo dimenticato che il mondo era un posto crudele”. Per concludere, facendo ritorno al “punto di partenza”, “il mito”: “Tutti gli scrittori sono in realtà esiliati, dovunque vivano, e il loro lavoro è un diuturno viaggio verso la terra perduta…”.
Candidata due volte al Nobel per la letteratura, Janet Frame è scomparsa nel 2004.
Paola Tonussi
*In copertina: una immagine tratta da “Un angelo alla mia tavola”, il film di Jane Campion del 1990