martedì 24 novembre 2020

FINITUDINE Telmo Pievani



Centre Hospitalier, Fontainebleau, 10 gennaio 1960 Il biologo dell’Istituto Pasteur, Jacques Monod, è accorso in ospedale per far visita all’amico scrittore Albert Camus, gravemente ferito in un incidente stradale. Camus, immobile ma lucido, fasciato in testa, dalla penombra gli aveva fatto cenno di esser pronto. Jacques Monod cominciò a leggere. 

Bozza del prologo

La Terra è vecchia 

Così dunque anche intorno, le mura del vasto mondo, espugnate, finiranno in rovina e in corrotte macerie. Bisogna infatti che il cibo reintegri e rinnovi, che il cibo ristori, che il cibo alimenti ogni cosa, ma invano, poiché le vene non sopportano più quanto basta e la natura non somministra quanto serve. Così è ormai fiaccata la nostra era e la terra stremata stenta a creare piccoli animali, lei che ha creato ogni specie e partorito fiere dai corpi smisurati. LUCREZIO, De rerum natura, libro II, 1144-1152 

Crollerà la macchina del mondo. Per tanti anni sorretta, in tutta la sua mole crollerà. I mari, le terre e il cielo andranno in rovina in un sol giorno, un sol giorno non così lontano da non poter essere prefigurato. Tra immani cataclismi, altri occhi vedranno in breve tempo sfracellarsi ogni cosa. Ecco la visione poetica di Lucrezio. Chiediamoci dunque: che ne sa la scienza al riguardo, duemila anni dopo? Sa che la Terra è vecchia. Avendola noi ammirata pochi mesi fa nelle prime immagini satellitari dell’Explorer 6, corrugata di vortici bianchi, il profilo curvilineo stagliato sul nulla, risplendente di colori che possiamo solo immaginare, non si direbbe proprio che una tale solitaria meraviglia sia così anziana. Tuttavia, per lei si sta arrossando il tramonto, nel calendario dei pianeti. Da qui dentro, dalla bolla delle nostre illusioni di eternità, racchiusa tra due confini letali, tra un’atmosfera di poche decine di chilometri sopra di noi e un oceano di magma infuocato pochi chilometri sotto di noi, non ci viene facile pensarlo. Siamo troppo immersi nelle miserie e nelle grandezze della nostra storia. Eppure, basta far di conto. Il Sole, un astro di medie dimensioni perduto tra i 200 miliardi di stelle della nostra galassia, brilla da circa 5 miliardi di anni ed è a metà della sua parabola esistenziale prefissata. Si trova nel pieno della sequenza principale, ossia la fase matura e stabile, e sta bruciando il suo combustibile, l’idrogeno, al ritmo di 600 milioni di tonnellate al secondo. La fornace di fusioni nucleari all’interno continuerà a lavorare per altri 6,5 miliardi di anni, poi l’idrogeno tramutato in elio si esaurirà, il nucleo collasserà, gli strati esterni si espanderanno e la nostra stella diverrà una gigante rossa. L’evoluzione successiva porterà ad altre fasi drammatiche durante le quali saranno sintetizzati berillio, poi carbonio, ossigeno e così via, altri elementi più pesanti. Ma noi non ammireremo il pirotecnico spettacolo alla periferia della Via Lattea, perché già non ci saremo più. Nel suo gonfiarsi da gigante rossa, il Sole avrà infatti già travolto Mercurio e Venere, e arrostito la Terra. Si compiranno così la decadenza e la caduta di un pianeta che fu vivo. Si piegheranno le ginocchia di Atlante e la Terra esploderà in un grande sconquasso. Lucrezio ha ragione. In realtà, le nostre preoccupazioni di esseri organici saranno cominciate ben prima. Durante la sequenza principale, la luminosità del Sole aumenta gradualmente. Oggi brilla il 30% in più rispetto all’inizio. I dinosauri erano baciati da una stella più fredda. Tra un miliardo di anni brillerà il 10% in più rispetto a ora. A quel punto, il flusso di energia proveniente dal Sole aumenterà quel che basta per far evaporare più rapidamente gli oceani. Ingenti masse di vapore acqueo entreranno in atmosfera, intensificando l’effetto serra e innalzando le temperature globali. Da allora in poi il circolo vizioso sarà inarrestabile: temperature più alte favoriranno l’ulteriore evaporazione degli oceani. Una coltre opprimente graverà su una Terra sempre più calda, soffocando ogni forma di vita complessa. Noi mammiferi di grossa taglia non avremo scampo. Se già ora vogliamo farci un’idea di quel che accadrà, basta osservare un asfissiato vicino di casa apparentemente sterile, Venere, dove un processo simile è già avvenuto, data la sua sventurata prossimità al Sole. Dunque, abbiamo ancora un miliardo di anni da giocarci, non di più. Un miliardo. La vita sul nostro pianeta dipende da un delicato e improbabile equilibrio tra una pletora di fattori interagenti, alcuni favorevoli alla vita, altri ostili. Sarebbe bastato un niente, in innumerevoli occasioni, per far saltare tutto. Quasi ovunque, là fuori, fa troppo freddo o troppo caldo per viverci. Nell’universo, i grumi di materia sono un’eccezione; la norma è il vuoto. Le condizioni fisiche della Terra devono la loro stabilità al fortunato ambiente cosmico che la circonda, un intorno locale di per sé terribilmente avverso a ogni forma di vita. Affinché un evento inatteso interrompa la noia mortifera, devono darsi contemporaneamente più condizioni: una stella con la massa, l’età e la luminosità giuste; un pianeta con la composizione giusta che vi orbiti intorno alla distanza giusta (nel nostro caso si suppone che siano 149 milioni di chilometri); un’atmosfera che faccia l’effetto serra al grado giusto, né troppo né troppo poco; e acqua allo stato liquido, possibilmente con una spruzzata di elementi pesanti (di preferenza un po’ di carbonio, ossigeno e ferro). Ecco, questa fune sulla quale cammina la nostra vita da equilibristi, su questa biglia che ruota nel vuoto a 30 chilometri al secondo, si spezzerà tra un miliardo di anni e non potremo farci nulla. Sarà una fine lenta e ineluttabile, uno spettacolare crollo al rallentatore scritto nelle leggi della fisica. Si noti che il calcolo è perfino ottimistico, perché non contempla la probabile eventualità che noi, molto prima dello scoccare del fatale miliardo di anni, ci saremo già fatti male da soli, erodendo e degradando lo scoglio cui siamo aggrappati al punto tale da renderlo inabitabile per noi e per tutti gli altri. In tal senso, oggi, grazie al brusco allenamento di due recenti guerre mondiali, gli strumenti di autodistruzione non ci mancano: dalla guerra nucleare alla devastazione ambientale, passando sempre per la miope ingordigia umana. Ammettiamo dunque, per un assurdo ottimismo, che tra un miliardo di anni avremo resistito alla tentazione nichilistica del suicidio collettivo e che, grazie al nostro spirito di conservazione, qualche nostro discendente sarà ancora nei paraggi. Non è lecito, in ogni caso, rilassarsi, perché altre dinamiche planetarie potrebbero andare storte ben prima della scadenza. L’orbita terrestre, per esempio, potrebbe deragliare fuori controllo. I modelli fisici a disposizione non sanno infatti predire l’andamento delle traiettorie planetarie da qui a 50 milioni di anni. La docile teoria di pianeti orbitanti intorno al Sole, all’apparenza così affidabile, è in realtà un sistema fisico caotico, soggetto alle perturbazioni e alle mutue interazioni di tutti i corpi che lo compongono. I pianeti sia interni sia esterni sono già migrati più volte in passato e un giorno potrebbe capitare anche a noi, che siamo lì sballottati nel mezzo. L’orbita terrestre potrebbe così avvicinarsi o allontanarsi troppo dal Sole, uscendo dalla zona abitabile, e intonando l’addio alla vita. E se anche ammettessimo di riuscire a rimanere stabili al nostro posto, lì tra Venere e Marte, per 50 milioni di anni, resta il fatto statistico, appurato di recente da alcuni paleontologi, secondo cui, mediamente, ogni qualche milione di anni la Terra è colpita da meteoriti o comete di dimensioni tali da mettere a repentaglio la vita di gran parte delle specie animali e vegetali, soprattutto quelle, come la nostra, che soffrono particolarmente all’idea di essere travolte da tsunami giganteschi, di finire accerchiate da incendi smisurati e di passare decenni al gelo dell’inverno glaciale che deriverebbe dall’offuscamento dell’atmosfera. Veniamo, dunque, al calcolo sorprendente che ci porta ad affermare che la Terra è vecchia. Decidiamo di essere irrazionalmente fiduciosi. Supponiamo di essere così bravi da perpetuare la nostra stirpe per milioni di anni, imparando a controllare i nostri istinti tribali, a rispettare l’ambiente e a deviare gli asteroidi assassini prima della catastrofe. Il Sole, però, non possiamo regolarlo a nostro piacimento. Se ne sta lì, con la sua biografia prestabilita dalla fisica. Quando tra un miliardo di anni sarà diventato più caldo del 10%, per noi sarà il fine corsa. Sarà un viaggio al termine della Terra così come la conosciamo. Ma quanto sarà durato, quel viaggio? Se consideriamo che la vita sulla Terra cominciò all’incirca 3,5 miliardi di anni fa, età presunta dei più antichi fossili, significa che il lasso di tempo complessivo concesso per la vita terrestre sarà di 4 miliardi e mezzo di anni: i tre e mezzo trascorsi sin qui, più il miliardo che ci resta prima che il Sole faccia le bizze. Si tratta di una buona porzione della vita dell’intero universo: non male dopotutto, anche se, per i cinque sesti di tutto questo tempo evolutivo, gli unici esseri viventi ad aggirarsi indisturbati sulla Terra furono batteri e virus. Solo verso la fine, 600 milioni di anni fa, arrivarono gli organismi pluricellulari, e solo ieri l’altro su scala cosmologica, due o trecento millenni fa, fu la volta di Homo sapiens. Ne deduciamo una prima constatazione, positiva: un bel pezzo del tempo totale concesso fin qui all’universo ha visto almeno un esperimento di vita di successo, cioè i resistentissimi microbi terrestri e poi, marginalmente, alcuni mammiferi bipedi e vocianti. Seconda constatazione, meno piacevole: siamo entrati nella vecchiaia della vita sulla Terra. Se, infatti, compariamo tutto quanto è successo sin qui sulla Terra all’arco di vita medio di un uomo – diciamo, per eccesso, 72 anni –, scopriamo che adesso, agli inizi degli anni Sessanta del XX secolo, abbiamo compiuto 56 anni. La vita sulla Terra ha già consumato 56 anni su un totale di 72 a disposizione. Forse non ancora decrepita e stremata come la immaginava Lucrezio, ma la Terra è già vecchia! Stiamo per andare in pensione. Ci restano soltanto sedici anni da vivere, cioè, fuor di metafora, un miliardo di anni su 4,5 totali. E a questa veneranda età abbiamo ancora problemi di rifornimento energetico, non abbiamo ancora messo il naso fuori dall’atmosfera, non abbiamo colonizzato nemmeno il nostro satellite né i pianeti più vicini, facciamo esplodere bombe nucleari sempre più potenti e alteriamo il mondo naturale a nostro pieno discapito. Meglio darsi da fare se non vogliamo essere ricordati come arzilli vecchietti un po’ rimbambiti che si sono messi a disfare il pianeta poco prima del gran botto finale. Quindi, se non ci estingueremo prima da soli, abbiamo ancora un miliardo di anni. La Terra è vecchia. Ora guardiamo la stessa faccenda da un’altra angolazione. Il genetista, tra noi due scriventi, calcola che, dagli inizi dell’evoluzione di Homo sapiens, dovrebbero essere vissuti circa 100 miliardi di esseri umani in carne e ossa. Quindi noi, adesso, nel 1960, siamo i 3 miliardi di umani che vivono l’età della vita sulla Terra corrispondente a 56 anni su 72. Sono esistiti finora soltanto 100 miliardi di storie individuali, di fili tessuti dalle Parche e poi recisi, di sguardi umani aperti sul mondo e poi chiusi per sempre, di esperienze uniche, di pensieri segreti mai condivisi con altri, di sogni e di fugaci sentimenti. Cento miliardi di esseri umani che sono nati, hanno amato, avuto figli, compiuto imprese, e sono morti: è così semplice. Qualcosa è rimasto – le invenzioni di cui non possiamo più fare a meno, le idee importanti, gli scritti più significativi, le gesta e le opere di pochi, le rovine –, ma i contenuti di quelle vite si sono per lo più persi per sempre, come baci nel vento, senza un segno che li ricordi. Cento miliardi sembra una cifra enorme, ma è pur sempre un numero finito, una quantità trattabile e recintabile, una gran massa di persone assembrate a perdita d’occhio in una prateria. Tutta l’umanità è su quel prato. Tutto ciò che è stato di noi. Potremmo catalogare 100 miliardi di esseri umani anche dentro un grande archivio, un’enorme biblioteca antropologica: 100 miliardi di cartellini divisi per sale, in livelli sempre più profondi, con i dati anagrafici essenziali e qualche storia, schedati a supremo omaggio della coscienza storica. Il bibliotecario di tutti i nomi che ci sono stati, di tutte le esistenze, non potrà che essere la morte. Se ora volgiamo lo sguardo al futuro, capiremo che non ci saranno infiniti umani; soltanto un altro po’. Qualche milione di generazioni fino al termine del nostro miliardo di anni, non di più. Il loro cicaleccio resterà impresso per qualche tempo ancora nella frenesia universale; una parte di esso viaggerà nello spazio con le onde radio, ma prima o poi tutte le parole svaniranno nel nulla. Non ci saranno infiniti altri fili di Parche, infinite altre esperienze uniche; soltanto un altro po’. Non ci sarà per sempre un’altra storia, dopo l’ultima storia. Del resto, la posterità è una ridicola eternità. I posteri saranno indifferenti a noi, essendo gli umani notoriamente privi di memoria duratura. Se tutte le glorie sono effimere e i cimiteri, prima o poi, sono disertati, le nostre opere migliori, tra qualche millennio, saranno polvere, dimenticate. Forse gli archeologi ci rintracceranno sotto qualche frana, ma se così non fosse apprezzeremo ancora di più la profonda nobiltà di questa indifferenza della posterità. Non c’è una storia infinita da sobbarcarsi. Il futuro è più leggero del previsto e ci lascia liberi. Crollerà, dunque, la macchina del mondo. La Terra è già vecchia. Quanto al resto, grazie alle capacità di previsione della scienza cosmologica, possiamo andare oltre l’orizzonte della nostra particolare finitezza e accorgerci, non senza iniziale sgomento, che anche il mondo, prima o poi, scomparirà. Tutto finisce. La galassia di Andromeda ci sta venendo addosso alla velocità di 110 chilometri al secondo; sarà qui tra 6 miliardi di anni e si fonderà con la Via Lattea. Noi non siederemo in platea per questa danza di stelle, peccato. Intanto l’universo continuerà la sua espansione, distanziando sempre più le galassie: il cosmo, visto da qui, diventerà più buio e più freddo. Non esistendo più, eviteremo l’esperienza di sentirci ancora più soli. Forse l’universo continuerà la sua corsa espansiva fino alla morte termica, fino al Grande Freddo, al lentissimo esaurimento di tutto il combustibile stellare, tra migliaia di miliardi di anni. Questo sì, un numero quasi inimmaginabile. O forse, in un istante benedetto di sospensione cosmica da lasciare senza fiato, si fermerà e tornerà indietro, collassando di nuovo fino a un punto di inizio infinitesimale. O un punto di fine. C’è dell’incanto, in questa finitudine di tutte le cose. Centre Hospitalier, Fontainebleau, 10 gennaio 1960 Monod ripose i fogli sulla sedia accanto. Dal giardino saliva il chiacchiericcio festoso dei parenti dei malati in visita domenicale. “Se scrivi ancora una volta che il culmine dell’assurdità è morire in un incidente stradale, Albert, ti strozzo”, gli disse, fingendosi serio. “Sei diventato superstizioso Jacques?”, rispose piano Camus, senza girarsi nel letto. “No, ma la prossima volta che ti invitano per una conferenza a New York potresti dire che l’estrema, involontaria coerenza di chi crede nella condizione assurda dell’uomo è precipitare con l’aereo.” “Buona idea, sarebbe in effetti il copione perfetto dell’assurdo, un agguato di sorte beffarda, un colpo di teatro dell’insensatezza. Sempre meglio che dieci giorni di nave.” “Albert, che ti pare di questo prologo?”, chiese Monod riassettando i fogli. “Non male, lo si potrebbe asciugare ancora un po’. Il calcolo che hai fatto è impressionante, non si pensa mai che la Terra possa essere già vecchia. Te l’immagini che esista da sempre, il nostro pianeta, e che sempre esisterà dopo di noi. Mi piace quest’idea che la storia, perfino la nostra altisonante storia di specie, abbia un termine. Non c’è un tempo infinito da addomesticare a nostro piacimento: l’avvenire è un imbroglio.”

“Già, a proposito di imbrogli, ti ha detto Francine che la polizia ha aperto un fascicolo sull’incidente perché c’è il sospetto che possa trattarsi di un sabotaggio?” “Mi ha accennato qualcosa. Lo trovo ridicolo. Michel è uno che corre, lo sanno tutti. Dall’inizio del viaggio gli avevamo chiesto di andare piano, e ha obbedito, poi non ricordo più niente. Come sta?” “Lo operano domani a Parigi. Ha perso molto sangue, il torace è sfondato e la milza spappolata. Janine ha raccontato che tu e Michel, poco prima che l’auto iniziasse a sbandare, stavate parlando di imbalsamazione e di una polizza sulla vita. Ridevate all’idea che nessuno la stipulerebbe a due tubercolotici come voi. Peraltro, due tubercolotici fumatori accaniti di Gauloises.” “Me ne farei volentieri una, ma qui non si può… Poi che cosa ricorda Janine?” “Che sul rettilineo della Nazionale 5, verso Petit Villeblevin, una ventina di chilometri dopo Sens, la Facel Vega di Michel ha sbandato più volte. Janine ha sentito cedere qualcosa sul lato sinistro, dove sedeva. Una spinta improvvisa vi ha fatto attraversare la corsia centrale di sorpasso e vi siete schiantati contro un platano sul lato sinistro. Poi siete rimbalzati di nuovo verso la carreggiata e vi siete fermati contro un altro platano, a destra. Tremendo. Pare che abbiate fatto tutto da soli. Dovevate andare parecchio forte, perché l’auto era accartocciata e spezzata in due intorno al tronco; la parte anteriore sbriciolata, quella posteriore ancora integra. Per qualche strana carambola, la tua testa e il tuo collo hanno in qualche modo resistito a una serie di urti terribili.” “Sì, ma da quando mi sono risvegliato i dolori sono fortissimi e non mi hanno detto per quanto dovrò stare immobilizzato. Non voglio nemmeno che mi diano troppa morfina. Ci sarà un sacco di tempo, dopo morti, per essere incoscienti. Anne sta bene vero?” Camus pensò alla cena di festa per il diciottesimo compleanno di Anne che avevano organizzato la sera del 3 gennaio nel rinomato Le Chapon Fin, sulla strada del ritorno. Un po’ sul serio un po’ per scherzo, Camus aveva cercato di convincere Michel a far recitare la figlia nelle sue opere teatrali a Parigi. “Ancora più miracolata di te, la ragazza. I rottami erano sparsi per centinaia di metri. Janine l’hanno trovata vicino a Michel, seduta e stordita, solo una vertebra cervicale incrinata. Anne era pressoché illesa, nonostante sia stata scagliata a venti metri in un campo. Il suo cane scomparso e mai più ritrovato.” “Quindi eravamo a meno di cento chilometri da Parigi. Dovevo rientrare per cena, avevo preso appuntamento con Maria. Ho il buio totale nella memoria dopo il pranzo a Sens, ho l’immagine del Beaujolais che abbiamo bevuto e della salsiccia di sanguinaccio con le mele renette dell’Hotel de Paris et de la Poste. Si è capito cosa è successo?” “Presumo che Francine non sappia che avevi fretta di andare a cena con Maria.” Monod fece quella sua smorfia sorniona che si allargava fin sotto gli zigomi alti. “Tu non preoccuparti. Francine sta male indipendentemente da questo, e mi addolora non poter far nulla.” “La stradale dice che il traffico era scarso. Eravate su un rettilineo con asfalto asciutto, in buone condizioni di luce e di tempo. Un guidatore che stava dietro sostiene che lo avevate sorpassato poco prima a 145 chilometri orari, ma nessun’altra vettura pare coinvolta nell’impatto. Potrebbe essere stato un colpo di sonno di Gallimard, favorito dal Beaujolais, ma Janine dice che Michel ha urlato ‘Merde!’, quindi era ben cosciente che stava perdendo il controllo del mezzo. Dai rilievi risulta una striscia nera di 150 metri sull’asfalto, lasciata da una parte meccanica dell’auto. L’ipotesi più probabile è il cedimento di un semiasse oppure il blocco di una ruota. Considerando lo zig-zag che avete fatto sulle tre corsie, sbandando di colpo a sinistra, potrebbe essere scoppiato uno pneumatico su quel lato.” “Stai facendo lo scienziato. Perché non affidano a te le indagini, anziché perder tempo aprendo un fascicolo per sospetto sabotaggio?” “Questa è una scienza indiziaria. Un gendarme ha notato che la gomma della ruota anteriore sinistra era squarciata dall’interno.” “Ho capito, Jacques, ma quello schianto doppio contro gli alberi che mi hai descritto è stato così devastante che mi pare difficile stabilire se quella rottura sia l’esito di una manomissione precedente o dell’impatto. Non trovi?” “Infatti. Ma sai che immaginare complotti è una radicata propensione cognitiva umana, un lenitivo potente per le nostre ansie. Appena qualcosa non torna, neghiamo la semplice e lineare crudeltà dell’esistenza e ci consoliamo nella paranoia di trovare un senso purchessia, un senso coerente con le nostre presupposizioni.” “Qui, però, proprio non sta in piedi. Non c’è nemmeno l’indizio. E chi sarebbe l’agente nascosto nella mia fattispecie?” “Ma naturalmente il KGB! Sono così bravi a far fuori gli oppositori simulando perfettamente gli incidenti e le morti più naturali!”, rispose Monod, prorompendo in una risata. “Ma che la smettano, non sono Trockij, non sono così pericoloso, spero che gli agenti del KGB abbiano qualcosa di meglio di cui occuparsi, altrimenti avrei forti dubbi sulla serietà delle ambizioni criminali del comunismo sovietico.” “Continui a sminuirti Albert. Quando ti hanno dato il Nobel, la prima cosa che hai detto è che in Francia lo avrebbe meritato un altro, cioè Malraux, ma ti sembra il caso? Sei uno degli intellettuali più letti al mondo. Dopo i fatti d’Ungheria non gliene hai fatta passare una: per gli scrittori dissidenti ungheresi sei un punto di riferimento, infiammi gli studenti di mezzo mondo contro il socialismo dei patiboli, hai firmato appelli e tre anni fa hai avuto l’ardire di attaccare frontalmente il ministro degli Esteri russo Dmitrij Šepilov. Gli hai dato del massacratore, del propagandista, del grigio burocrate, parlando di genocidio della nazione ungherese e di macelleria sovietica sotto gli occhi di noi occidentali ignavi, vergognosi e impotenti dinanzi alla carneficina. Hai sparato ad alzo zero, giustamente, contro l’illegale e ignobile esecuzione di Imre Nagy. Come se non bastasse, hai appoggiato la candidatura al Nobel di Boris Pasternak e intrattieni scambi epistolari con lui. Ce n’è abbastanza per farli infuriare sul serio, i compagni. Io non scarterei a priori l’ipotesi.” “Se così fosse, il KGB e i suoi sicari dovrebbero fare una strage di scrittori e di liberi pensatori in tutto il mondo. E avrebbero il dovere di venire a prendere anche te Jacques, che hai tradito la loro chiesa già nel 1945. Quanti inutili appelli abbiamo firmato tu e io finora? E poi, scusa, Šepilov è caduto in disgrazia poco dopo il mio discorso contro di lui. Lo hanno destituito e spedito come ambasciatore in Mongolia perché sospettato di aver ideato un colpo di stato in Unione Sovietica. In pratica, lo hanno graziato. Ce lo vedi mentre da Ulan Bator organizza un sofisticato sabotaggio della Facel Vega HK500 del nipote del famoso editore francese Gaston Gallimard, sulla quale io ero salito per puro caso due giorni prima?” “Lo so, non ha molto senso. Certo che essere un premio Nobel attira le più irrazionali attenzioni. Qualcuno, sui giornali, sta dicendo che il tuo è stato un tentativo inconscio di suicidio, perché sapevi che Michel Gallimard guida come un pazzo sconsiderato e non hai voluto prendere il treno di rientro da Avignone insieme alla tua famiglia anche se avevi già comprato il biglietto.” “Queste interpretazioni psicoanalitiche sono demenziali. Io non sono depresso nemmeno imbottito di farmaci in questo letto di ospedale.” “Depresso no, inquieto sì. Stavo pensando che tra te e me messi insieme, se qualcuno organizzasse un attentato, sarebbe ben difficile per gli inquirenti scoprire chi è stato. Abbiamo una tale quantità di nemici, a destra e a manca, che dovrebbero setacciare mezza Francia.” “Hai ragione Jacques!”, Camus si illuminò all’improvviso. “Proviamo a elencare i nostri potenziali odiatori e i mandanti degli assassini.” “Be’, di stalinisti e comunisti più o meno ortodossi abbiamo già detto. Non ci perdoneranno mai il pensiero non intruppato e la sfrontatezza di non voler mai essere allineati. Anche l’intellighenzia impegnata del tuo vecchio amico Jean-Paul Sartre ci osserva sdegnata dalla Rive Gauche e non sopporta certa coerenza. Ti trattano come un parvenu, come il ragazzo venuto d’oltremare, e invece sono loro i più conformisti di tutti. Però, secondo me, ci vuole fegato per un’operazione del genere e loro non ce l’hanno, almeno non a Parigi. Sull’altro fronte, stiamo sulle scatole a tutti i reazionari di Francia, per la militanza nella sinistra libertaria e per tutto quanto abbiamo scritto durante e dopo la Resistenza. Nemmeno la borghesia illuminata ci arruolerebbe tra le sue fila, per via delle nostre critiche alle storture della società capitalistica che fa della produzione industriale il suo dio e la sua promessa perpetua, proprio come il nemico sovietico. Nel tuo caso, aggiungerei i nazionalisti francesi contrari all’indipendenza dell’Algeria e, quindi, ostili a tutti i tuoi discorsi di libertà e di tutela delle popolazioni locali. Ma anche i terroristi e gli estremisti arabi indipendentisti ce l’hanno con te, perché, troppo moderato o perfino traditore, difendi i francesi piedi-neri d’Algeria con le pezze sui pantaloni come le avevi tu e rifiuti l’ideologia violenta di chi vede in ogni francese un nemico in quanto tale o un ricco possidente assetato di sangue. Vorresti due popoli solidali sotto lo stesso Stato, uno Stato che difendesse i diseredati dell’uno e dell’altro. Quindi te li sei inimicati entrambi e quattro anni fa, quando andasti avventatamente in Algeria, qualche minaccia di morte l’hai anche ricevuta, in effetti. Quella tua frase che tra la giustizia astratta e tua madre sceglieresti tua madre sta facendo ancora il giro del mondo.” “Quella frase è stata riportata male dai giornali. Io ho risposto allo studente che se giustizia significa mettere bombe sui tram e uccidere innocenti, tra i quali ad Algeri potrebbe esserci mia madre, allora scelgo mia madre.” “Il senso è chiaro. Poi ci metterei anche i fiancheggiatori del franchismo in Spagna, che hai condannato e denunciato senza sosta, al punto da proporre di non far entrare la Spagna nell’UNESCO finché ci saranno i colonnelli. In sostanza, quelli di destra ci considerano pericolosi radicali, quelli di sinistra eretici o troppo indipendenti.” “Che splendida lista, Jacques. Siamo due esuli in patria. In pratica, sono in troppi quelli che avrebbero voluto sabotare la macchina di Gallimard. Fine delle indagini per eccesso di imputati potenziali!” “Volendo citare Camus, direi che siamo stranieri in ogni dove, stranieri a tutti, anche a noi stessi. Ma ritrovandoci fra stranieri, non siamo soli, perché condividiamo una condizione comune di estraneità alle dottrine e ai conformismi.” “Non siamo soli, ma siamo pochi. André Malraux mi ha mandato un messaggio di buona ripresa in cui dice che sono la voce della coscienza dei francesi; che, grazie a me, la Francia è nel cuore dell’umanità. Esagerato come sempre, si vede che è diventato gollista. E poi non sono mica morto.” “Tienilo buono il ministro Malraux, che vuole affidarti un grosso teatro parigino. Chi ha mandato questi fiori? Maria? Catherine? La giovane Mi?” “Piantala, vengono dagli scrittori ungheresi in esilio.” Percependo uno sbuffo di nervosismo, a Monod venne un dubbio: “Ti stanno tornando i ricordi di prima dell’incidente?”. “Molto sfocati ancora. So che ero a Lourmarin da novembre a scrivere Il primo uomo. Per le vacanze di Natale ero arrivato a 144 pagine, sono ancora nella borsa. Cominciavo finalmente a farmi trasportare dalla storia, ma mi sto dannando con un romanzo enorme: è ancora lungo da scrivere. Mi ha raggiunto Francine con i ragazzi e poi, per la fine dell’anno, sono arrivati in Provenza anche i Gallimard e René Char, il mio amico poeta.” “Certo, me lo ricordo bene, era anche lui nella Resistenza.” “Siamo stati bene, in quella luce invernale del Sud, così tersa e cruda. Ricordo di aver scritto una lettera a mia madre ad Algeri. Il 2 di gennaio abbiamo pranzato tutti insieme all’Hotel Ollier nella piazzetta di Lourmarin, poi ho portato i miei e René alla stazione di Avignone e ho assecondato la proposta gioiosa di Michel di tornare in auto per borghi e ristoranti. Difficile dirgli di no. Doveva venire anche René, ma eravamo troppo stretti. Il 3 ricordo di aver lasciato le chiavi, come sempre, alla signora Ginoux, dicendole che sarei ridisceso nel Midi dopo una settimana o, al massimo, prima della fine del mese per continuare a scrivere. Ho firmato una copia dello Straniero per il benzinaio a Lourmarin, gliel’avevo promessa già due volte. Il percorso ci era familiare: la Nazionale 7 da Avignone a Lione; poi la Nazionale 6 attraverso la Borgogna; e quindi la 5 da Sens, via Fontainebleau, per Parigi. In due giorni, per non arrivare spossati. Il 3 gennaio abbiamo pranzato a Orange e dormito a Thoissey. Ho impresse in testa le immagini della gloriosa cena stellata a Le Chapon Fin per Anne, l’allegria e le risate. Il 4 mattina abbiamo tirato per 250 chilometri fino a Sens e pranzato all’Hotel de Paris et de la Poste. Poi più niente.” “Non importa, hai rimosso, è una difesa legittima e salutare del tuo cervello. Non insistere nel richiamare altro alla memoria. Stai leggendo Nietzsche?” “Vorrei, ma ancora non riesco”, rispose Camus girando lo sguardo stanco verso la copia della Gaia scienza sul comodino. “L’hanno recuperata dalla macchina distrutta.” Nietzsche fece venire in mente a Monod che avrebbero dovuto proseguire nella lettura delle bozze. “Adesso ti lascio riposare Albert. La prossima volta ti leggo il primo capitolo, quello sulla finitudine di tutte le cose e sul perché non dovremmo comunque consegnarci al nichilismo e al pessimismo cosmico.” Monod cercò di nascondere la sua preoccupazione per l’amico e lo salutò. In corsia aveva incrociato un medico che gli aveva sussurrato come Camus non fosse ancora fuori pericolo e come fosse troppo fragile per un trasferimento a Parigi. Gli era sembrato un rimprovero implicito, ma si ripromise di tornare la domenica seguente.