«Giacché è così: l’immeschinirsi e il livellarsi dell’uomo europeo nasconde il nostro massimo pericolo, data la stanchezza che ci infonde questo spettacolo . . . Oggi nulla vediamo che voglia divenire più grande, abbiamo il presentimento che tutto continui a sprofondare, a sprofondare, divenendo più sottile, più buono, più prudente, più agevole, più mediocre, più indifferente, più cinese, più cristiano – l’uomo, non v’è alcun dubbio – si fa sempre “migliore” . . . Appunto qui sta la fatalità dell’Europa – col timore per l’uomo abbiamo anche perduto l’amore verso di lui, la venerazione dinanzi a lui, la speranza in lui, anzi la volontà stessa tesa a lui. La vista dell’uomo rende ormai stanchi – che cos’altro è oggi nichilismo, se non è questo? . . . Noi siamo stanchi dell’uomo . . .»
GENEALOGIA DELLA. MORALE
Opera filosofica scritta e pubblicata nel 1887. Scritta con l'intenzione di accentuare la portata di "Di là dal bene e dal male" è composta di tre saggi, intitolati: "Buono e malvagio, buono e cattivo", "Colpa, cattiva coscienza e affini", "Che cosa significano gli ideali scettici?". Nel primo N. tratta dell'essenza e dell'origine del Cristianesimo; nel secondo la coscienza è riconosciuta non come la voce di Dio nell'uomo, ma come l'istinto della crudeltà che si ripiega su se stesso dopo che non ha potuto sfogarsi esteriormente. Nel terzo N. trova la spiegazione della potenza, da lui considerata negativamente, dell'ideale ascetico-religioso nel fatto che questa forma di disciplina era l'unica, "fino a Zarathustra", che fosse proposta agli uomini.
PREFAZIONE
1
Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi – come potrebbe mai accadere che ci si possa, un bel giorno, trovare? Non a torto è stato detto: «Dove è il vostro tesoro, là è anche il vostro cuore»;1 il nostro tesoro è là dove sono gli alveari della nostra conoscenza. A questo scopo siamo sempre in cammino, come animali alati per costituzione, come raccoglitori di miele dello spirito, e soltanto un’unica cosa ci sta veramente a cuore – «portare a casa» qualcosa. Del resto, per quanto riguarda la vita, le cosiddette «esperienze» – chi di noi ha anche soltanto una sufficiente serietà per queste cose? O abbastanza tempo? A questo proposito temo che non si sia mai stati veramente «dentro la faccenda»: appunto non abbiamo là il nostro cuore – e neppure il nostro orecchio! A somiglianza, invece, di un uomo divinamente distratto o sprofondato in se stesso, cui la campana, con i suoi dodici rintocchi di mezzodì ha or ora a più non posso rintronato le orecchie, il quale si risveglia di soprassalto e si chiede: «Che razza mai di rintocchi son questi?», anche noi talvolta ci stropicciamo, troppo tardi, le orecchie e ci chiediamo, estremamente stupiti e perplessi: «Che cosa abbiamo allora veramente vissuto?» o più ancora: «Chi siamo noi in realtà?» e ci mettiamo a contare, troppo tardi – come si è detto – tutti i dodici vibranti rintocchi di campana della nostra esperienza, della nostra vita, del nostro essere – ahimè! e sbagliamo il conto... Restiamo appunto necessariamente estranei a noi stessi, non ci comprendiamo, non possiamo fare a meno di confonderci con altri, per noi vale in eterno la frase: «Ognuno è a se stesso il più lontano»2 – non siamo, per noi, «uomini della conoscenza»...
2
– I miei pensieri sull’origine dei nostri pregiudizi morali – giacché si tratta di essi in questo scritto polemico – hanno ricevuto la loro prima sobria e provvisoria espressione in quella raccolta di aforismi che porta il titolo «Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi», la cui stesura fu iniziata a Sorrento durante un inverno che mi consentì di far sosta, come fa sosta un viandante, e di abbracciare con lo sguardo la vasta e pericolosa regione che il mio spirito aveva percorso fino a quel momento. Questo accadde nell’inverno 1876-1877; i pensieri in se stessi sono più antichi. Erano, nell’essenziale, proprio i medesimi pensieri che riprendo nei presenti saggi – con la speranza che il lungo tempo intercorso abbia giovato loro, che siano divenuti più maturi, più chiari, più vigorosi, più compiuti. Il fatto però che ancor oggi io resti attaccato a quelli, che nel frattempo si siano essi stessi sempre più saldamente cementati insieme, arrivando persino a crescere e a concrescere gli uni negli altri, ciò rafforza in me la lieta certezza che fin da principio potrebbero essere nati in me non isolatamente, ad arbitrio e in maniera sporadica, bensì scaturendo da una comune radice, da una fondamentale volontà della conoscenza, dominante nelle profondità, esprimentesi in guisa sempre più determinata, e anelante a qualcosa di sempre più determinato. Questo soltanto, infatti, si conviene a un filosofo. Non abbiamo alcun diritto di essere, in una qualche cosa, isolati: non possiamo né sbagliare singolarmente né cogliere singolarmente la verità. Con la necessità, invece, con cui un albero produce i suoi frutti, crescono da noi i nostri pensieri, i nostri valori, i nostri sì e i nostri no, e i se e i forse – in un rapporto di affinità e di reciproca integrale corrispondenza, testimonianze, tutti, di un’unica volontà, di un’unica salute, di un unico regno terrestre, di un unico sole. – Forse che a voi piacciono questi nostri frutti? – Ma che importa di ciò agli alberi! Che importa di ciò a noi, a noi filosofi!...
3
Con una scrupolosità che confesso malvolentieri – come vedremo, essa si riferisce alla morale, a tutto quanto è stato fino a oggi celebrato sulla terra come morale –, una scrupolosità che entrò così presto nella mia vita, così non richiesta, così irresistibile, così in contraddizione con l’ambiente, l’età, l’esempio, la nascita, che avrei quasi il diritto di chiamarla il mio «a priori» – la mia curiosità, allo stesso modo del mio sospetto, dovettero fermarsi per tempo alla questione, quale origine abbia propriamente il nostro bene e il nostro male. In realtà il problema dell’origine del male già mi correva dietro quando avevo tredici anni: a esso dedicai, in un’età in cui si ha «diviso il cuore tra Dio e fanciulleschi giuochi»,3 il mio primo giuoco d’infanzia letterario, il mio primo esercizio calligrafico di filosofia – e per quanto concerne la mia «soluzione» del problema, a quel tempo, ebbene, com’è logico, resi l’onore a Dio e feci di lui il padre del male. Era forse proprio questo che voleva il mio «a priori» da me? quel nuovo «a priori» immorale, o per lo meno immoralistico, e quell’«imperativo categorico» che da esso parlava, ahimè, in modo così antikantiano, così enigmatico, al quale frattanto andavo prestando sempre più ascolto e non soltanto ascolto?... Fortunatamente appresi per tempo a distinguere il pregiudizio teologico da quello morale e non cercai più l’origine del male dietro il mondo. Un po’ di addottrinamento storico e filologico, con l’aggiunta di un’innata delicatezza di sensibilità per i problemi psicologici in generale, trasformò ben presto il mio problema nell’altro: in quali condizioni l’uomo è andato inventando quei giudizi di valore: buono e cattivo? e quale valore hanno in se stessi? Fino a oggi hanno essi intralciato o promosso il felice sviluppo umano? Sono un segno di angustia estrema, d’impoverimento, di degenerazione vitale? Oppure, viceversa, si rivela in essi la pienezza, la forza, la volontà della vita, il suo coraggio, la sua sicurezza, il suo avvenire? – A tutte queste domande trovai, e osai, in me molte diverse risposte, differenziai epoche, popoli, gradi gerarchici d’individui, specificai il mio problema; dalle risposte nacquero nuove domande, indagini, supposizioni, probabilità: arrivai infine ad avere una mia propria regione, un mio proprio terreno, un mio mondo tutto taciturno che cresce e fiorisce a somiglianza di quei segreti giardini, dei quali a nessuno è concesso avere un qualche presagio... Oh come siamo felici, noi uomini della conoscenza, posto che si sappia almeno tacere abbastanza a lungo!...
4
Il mio primo impulso a manifestare qualcuna delle mie ipotesi sulla genesi della morale mi venne da un libriccino chiaro, pulito e accorto, pure saputello, in cui mi si fece innanzi, per la prima volta, una specie opposta e perversa d’ipotesi genealogiche, la specie propriamente inglese, ed esso mi attrasse con quella forza di seduzione che ha ogni realtà antitetica e antipodica. Il titolo del volumetto era: «Origine dei sentimenti morali»; il suo autore, dottor Paul Rée, anno di pubblicazione, 1877. Forse non ho mai letto nulla, cui dentro di me avessi detto a tal punto no, frase per frase, conclusione per conclusione, come a questo libro: tuttavia, senza il minimo fastidio e impazienza. Nell’opera suaccennata, alla quale lavoravo in quel tempo, feci riferimento, se ne presentasse o no l’occasione, alle tesi di quel libro, non già confutandole – cosa ho mai a che fare io con le confutazioni! – bensì, come si addice a uno spirito positivo, ponendo al posto dell’improbabile qualcosa di più probabile, e talvolta, al posto di un errore, un altro errore. A quel tempo, come ho detto, misi per la prima volta in luce quelle ipotesi genetiche a cui sono dedicati questi saggi; in maniera, però, poco abile, che mi piacerebbe in definitiva nascondere a me stesso, ancora non libera, ancora senza un mio proprio linguaggio per questi specifici temi e con ricadute e tentennamenti di vario genere. Si confronti in particolare quel che dico in «Umano, troppo umano», p. 51, sulla doppia preistoria di bene e male (cioè secondo la sfera dei nobili e quella degli schiavi); e similmente (pp. 119 sgg.) sul valore e sull’origine della morale ascetica; come pure, pp. 78, 82; II, 35, sulla «eticità del costume», quella specie molto più antica e originaria di morale che si discosta toto cœlo dalla maniera altruistica di valutazione (in cui il dottor Rée, al pari di tutti i genealogisti inglesi della morale, vede il modo della valutazione morale in sé); si veda pure p. 74, in «Viandante», p. 29, in «Aurora», p. 99, quel che scrissi sull’origine della giustizia come compromesso tra potenti pressappoco uguali (equilibrio come presupposto di tutti i patti e conseguentemente di ogni diritto), e inoltre sull’origine della pena in «Viandante», pp. 25, 34, per la quale lo scopo intimidatorio non è né essenziale né originario (come crede il dottor Rée – esso invece è stato soltanto inserito in determinate circostanze e sempre come elemento accessorio, come qualcosa di aggiunto).
5
In fondo, proprio in quel tempo avevo in animo qualcosa di molto più importante che una congerie di ipotesi mie o altrui sull’origine della morale (o, più esattamente, questa seconda cosa soltanto in vista di un fine per il quale essa rappresenta un mezzo tra molti). Per me era in questione il valore della morale – e a questo riguardo dovevo fare i conti quasi unicamente con il mio grande maestro Schopenhauer, a cui si rivolge quel libro, la passione e la segreta opposizione di quel libro, come a un contemporaneo (– anche quel libro, infatti, era uno «scritto polemico»). Si trattava, in special modo, del valore del «non egoistico», degli istinti di compassione, di autonegazione e di autosacrificio, che proprio Schopenhauer aveva così lungamente rivestiti d’oro, divinizzati e trasposti nella trascendenza, finché gli restarono, in conclusione, come quei «valori in sé», sulla base dei quali disse di no alla vita e anche a se stesso. Ma precisamente contro questi istinti parlava in me un sospetto sempre più radicato, uno scetticismo intento a scavare sempre più a fondo! Precisamente qui vedevo il grande pericolo dell’umanità, la sua più sublime tentazione e seduzione – verso che cosa poi? verso il nulla? – precisamente qui vedevo il principio della fine, il momento dell’arresto, la stanchezza che volge indietro lo sguardo, la volontà che si rivolta contro la vita, l’ultima malattia che dolcemente e melanconicamente si annuncia: vidi nella morale della compassione, che si andava estendendo sempre di più, che aggranfiava e ammaliava persino i filosofi, il sintomo più inquietante della nostra cultura europea, divenuta inquietante, forse il suo tortuoso cammino verso un nuovo buddhismo? verso un buddhismo europeo? verso il – nichilismo?... Questa moderna filosofica predilezione e sopravvalutazione della compassione è infatti qualcosa di nuovo: proprio sulla mancanza di valore della compassione sino a oggi i filosofi si erano trovati d’accordo. Mi limito a citare Platone, Spinoza, Larochefoucauld e Kant, quattro spiriti quanto più è possibile diversi tra loro, ma in una cosa identici: nel disprezzare la compassione. –
6
Questo problema del valore della compassione e della morale della compassione (– io sono un avversario dello scandaloso infrollimento moderno dei sentimenti) sembra innanzitutto soltanto un fatto isolato, un interrogativo a sé; ma a chi su questo punto resta inchiodato, a chi su questo punto impara a interrogare, accadrà quel che è accaduto a me – gli si spalancherà dinanzi una prospettiva nuova, immensa, una possibilità lo afferrerà come una vertigine, ogni specie di diffidenza, di sospetto, di paura farà un balzo in fuori, vacillerà la fede nella morale, in ogni morale – finalmente si renderà avvertibile una nuova esigenza. Enunciamola questa nuova esigenza: abbiamo bisogno di una critica dei valori morali, di cominciare a porre una buona volta in questione il valore stesso di questi valori – e a tale scopo è necessaria una conoscenza delle condizioni e delle circostanze in cui sono attecchiti, poste le quali si sono andati sviluppando e modificando (morale come conseguenza, come sintomo, come maschera, come tartuferia, come malattia, come fraintendimento; ma anche morale come causa, come terapia, come stimulans, come inibizione, come veleno), non essendo esistita fino a oggi una tale conoscenza e non essendo stata neppure soltanto desiderata. Si è preso il valore di questi «valori» come dato, come risultante di fatto, come trascendente ogni messa in questione; fino a oggi non si è neppure avuto il minimo dubbio o la minima esitazione nello stabilire «il buono» come superiore, in valore, al «malvagio», superiore in valore nel senso di un avanzamento, di una utilità, di una prosperità in rapporto all’uomo in generale (compreso l’avvenire dell’uomo). Come? e se la verità fosse il contrario? Come? e se nel bene fosse insito anche un sintomo di regresso, come pure un pericolo, una seduzione, un veleno, un narcoticum, attraverso il quale a un certo punto il presente vivesse a spese dell’avvenire? Con maggior agio, forse, e con minor pericolo, ma anche con uno stile inferiore, più volgare?... Così che precisamente la morale sarebbe responsabile del fatto che una in sé possibile suprema possanza e magnificenza del tipo uomo non è mai stata raggiunta? Così che proprio la morale sarebbe il pericolo dei pericoli?...
7
Insomma, dopo essermi aperta questa prospettiva, ho avuto io stesso le mie buone ragioni per guardarmi attorno in cerca di compagni dotti, arditi e laboriosi (è quel che faccio ancor oggi). Si tratta di percorrere, semplicemente con nuovi interrogativi e, per così dire, con nuovi occhi l’immensa, lontana e così nascosta regione della morale – della morale realmente esistita, realmente vissuta –: e non significa questo qualcosa come scoprire per la prima volta questa regione?... Se a questo proposito ho pensato, tra gli altri, anche al sovracitato dottor Rée, è stato perché non avevo alcun dubbio che egli sarebbe stato incalzato dalla natura stessa dei suoi interrogativi a un metodo più esatto per potere arrivare a delle risposte. Mi sono ingannato in questo? Era comunque mio desiderio dare a uno sguardo così acuto ed equanime una direzione migliore, la direzione verso l’effettiva storia della morale e a metterlo in guardia, ancora in tempo utile, da codesta congerie d’ipotesi inglesi costruita sulle nuvole. È anzi del tutto evidente quale colore debba essere per un genealogista della morale cento volte più importante del bianco delle nuvole; intendo dire il grigio, il documentato, l’effettivamente verificabile, l’effettivamente esistito, insomma tutta la lunga, difficilmente decifrabile, scrittura geroglifica del passato morale dell’uomo! – Questo era sconosciuto al dottor Rée, ma egli aveva letto Darwin – e così, nelle sue ipotesi, la bestia darwiniana e la modernissima modesta creaturina morale che «non morde più» si dànno garbatamente la mano, in un modo che è quanto meno divertente; quest’ultima atteggiando il volto a una certa quale bonaria e raffinata indolenza, in cui è persino frammisto un granello di pessimismo e di estenuazione: come se, propriamente, non valesse affatto la pena prendere sul serio tutte queste cose – i problemi della morale –. Ora a me pare, viceversa, che non vi siano cose che più di queste ripaghino d’esser prese sul serio; in tale tornaconto è per esempio compreso il fatto che si riceva forse un giorno il permesso di poterle prendere con giocondità. Infatti la giocondità o, per dirla nel mio linguaggio, la gaia scienza – è un premio: un premio per una lunga, coraggiosa, laboriosa e sotterranea serietà che indubbiamente non è cosa di tutti. Ma il giorno in cui diremo con pienezza di cuore «avanti! anche la nostra vecchia morale fa parte della commedia!» avremo scoperto per il dramma dionisiaco del «destino dell’anima» un nuovo intreccio e una nuova possibilità –: si può scommettere che saprà farne tesoro il grande, antico, eterno commediografo della nostra esistenza!...
8
– Se questo scritto sarà per qualcuno incomprensibile e urtante all’orecchio, non credo che si debba necessariamente imputarne a me la colpa. Esso è abbastanza chiaro presupponendo, come io presuppongo, che si siano prima letti i miei scritti precedenti, non senza lesinare qualche sforzo: a dire il vero, non sono facilmente accessibili. Per quanto riguarda, a esempio, il mio «Zarathustra», non può considerarsi suo conoscitore chi non sia stato di volta in volta ora ferito a fondo ora estasiato a fondo da ognuna delle sue parole: solo in questo caso, infatti, potrà godere il privilegio di sentirsi riverentemente partecipe dell’elemento alcionio da cui è scaturita quest’opera, della sua solare chiarità, della sua lontananza, vastità e sicurezza. In altri casi presenta difficoltà la forma aforistica: ciò è dovuto al fatto che oggigiorno non si dà sufficientemente importanza a questa forma. Un aforisma, modellato e fuso con vigore, per il fatto che viene letto non è ancora «decifrato»; deve invece prendere inizio, a questo punto, la sua interpretazione, per cui occorre un’arte dell’interpretazione. Nel terzo saggio di questo libro ho presentato un modello di quel che in un caso del genere intendo per «interpretazione» – a questo saggio è fatto precedere un aforisma ed esso stesso ne rappresenta il commento. Indubbiamente, per esercitare in tal modo la lettura come arte, è necessaria soprattutto una cosa, che oggidì è stata disimparata proprio nel modo più assoluto – ed è per questo che per giungere alla «leggibilità» dei miei libri occorre ancora del tempo – una cosa per cui si deve essere quasi vacche e in ogni caso non «uomini moderni»: il ruminare...
Sils-Maria, Alta Engadina, luglio 1887.
PRIMA DISSERTAZIONE
«BUONO E MALVAGIO»
«BUONO E CATTIVO»
1
Questi psicologi inglesi, ai quali si devono pure gli unici tentativi, sino a oggi compiuti, di dar vita a una storia delle origini della morale – ci impongono un non piccolo enigma nei loro riguardi: devo ammettere che, in quanto enigmi viventi, costoro hanno come vantaggio sui loro libri qualcosa d’essenziale – già come persone essi sono interessanti! Che cosa vogliono, in fondo, questi psicologi inglesi? Li troviamo, volontariamente o involontariamente che sia, sempre impegnati alla stessa opera, a spingere cioè in primo piano la partie honteuse del nostro mondo interiore e a cercare quanto è particolarmente efficace, normativo, risolutivo per lo sviluppo, proprio laddove l’orgoglio intellettuale dell’uomo meno che mai desidererebbe trovarlo (ad esempio, nella vis inertiæ dell’abitudine o nella smemoratezza o in una cieca e casuale concatenazione e meccanica di idee, o in qualche cosa di puramente passivo, automatico, condizionato a riflessi, molecolare e radicalmente stupido) – che cosa spinge questi psicologi sempre precisamente in questa direzione? Un segreto, perfido, basso istinto, forse inconfessato a se stesso, di immeschinimento dell’uomo? Oppure qualcosa come un pessimistico sospetto, una diffidenza di idealisti delusi, aggrondati, divenuti velenosi e biliosi? O una piccola, sotterranea, astiosa ostilità contro il cristianesimo (e Platone), che forse non è neppure pervenuta oltre la soglia della coscienza? O addirittura un libidinoso gusto dell’eteroclito, del dolorosamente paradossale, di quanto è problematico e assurdo nell’esistenza? O infine – un po’ di tutto questo: un pizzico di volgarità, un pizzico di tetraggine, un pizzico d’anticristianesimo, un tantino di solleticante bisogno di pepe?... Ma mi dicono che siano semplicemente vecchi, freddi, noiosi ranocchi che strisciano e saltellano intorno all’uomo, dentro l’uomo, come se qui si trovassero proprio nel loro elemento, cioè in un pantano. Sono cose che ascolto con riluttanza e, più ancora, senza credervi affatto; e se è lecito desiderare, quando non è possibile sapere, mi auguro di cuore che le cose possano stare per loro in tutt’altro modo – che questi indagatori e microscopisti dell’anima siano in fondo coraggiosi, magnanimi e superbi animali, capaci di tenere a freno il loro cuore al pari del loro dolore ed educati a sacrificare ogni idealità alla verità, a ogni verità, perfino alla semplice, aspra, brutta, ripugnante, non cristiana, amorale verità... Poiché siffatte verità esistono. –
2
Tutto il nostro rispetto per i buoni demoni che possono dominare in questi storici della morale! Tuttavia è certo, purtroppo, che fa a essi difetto proprio il demone storico, che sono stati piantati in asso proprio da tutti i buoni demoni della storia! Tutti quanti costoro, com’è ormai antico costume dei filosofi, pensano in maniera essenzialmente antistorica; di questo non v’è dubbio. Fin da principio risulta subito chiara la grossolana faciloneria della loro genealogia della morale, là dove si tratta di determinare l’origine del concetto e del giudizio di «buono». «Originariamente – decretano costoro – si sono lodate, e chiamate buone, azioni non egoistiche da parte di quelli nei cui riguardi venivano compiute, dunque ai quali esse tornavano utili: più tardi questa origine della lode è andata in oblio e le azioni non egoistiche, per il semplice fatto che venivano sempre lodate come buone in conformità alla consuetudine, sono state sentite come buone, come se in se stesse fosse qualcosa di buono». Si nota immediatamente che questa prima deduzione racchiude già tutti i tipici tratti della idiosincrasia degli psicologi inglesi – abbiamo «l’utilità», «l’oblio», «l’abitudine» e infine «l’errore»; tutto messo a base di una valutazione, di cui l’uomo superiore è andato fino a oggi superbo, come di una specie di privilegio dell’uomo in generale. Questa superbia deve essere umiliata, questa valutazione deve essere destituita di valore: siamo arrivati a questo? Orbene, per me è in primo luogo un fatto palmare che da parte di questa teoria viene ricercato e collocato in una sede errata il fulcro nativo del concetto di «buono»: il giudizio di «buono» non procede da coloro ai quali viene data prova di «bontà»! Sono stati invece gli stessi «buoni», vale a dire i nobili, i potenti, gli uomini di condizione superiore e di elevato sentire ad avere avvertito e determinato se stessi e le loro azioni come buoni, cioè di prim’ordine, e in contrasto a tutto quanto è ignobile e d’ignobile sentire, volgare e plebeo. Prendendo le mosse da questo pathos della distanza si sono per primi arrogati il diritto di foggiare valori, di coniare le designazioni dei valori: che cosa importava loro l’utilità! Proprio in rapporto a una siffatta calda scaturigine di supreme valutazioni che ordinano e rilevano la gerarchia, il punto di vista dell’utilità è quanto di più estraneo e incompatibile vi possa essere: qui il sentimento è appunto pervenuto a un’antitesi con quel basso grado di calore che è il presupposto di ogni calcolatrice prudenza, di ogni computo utilitario – e non per una volta soltanto, per un momento eccezionale, sibbene durevolmente. Il pathos della nobiltà e della distanza, come ho già detto, il perdurante e dominante sentimento fondamentale e totale di una superiore schiatta egemonica in rapporto a una schiatta inferiore, a un «sotto» – è questa l’origine dell’opposizione tra «buono» e «cattivo». (Il diritto signorile di imporre nomi si estende così lontano che ci si potrebbe permettere di concepire l’origine stessa del linguaggio come un’estrinsecazione di potenza da parte di coloro che esercitano il dominio: costoro dicono «questo è questo e questo», costoro impongono con una parola il suggello definitivo a ogni cosa e a ogni evento e in tal modo, per così dire, se ne appropriano). A quest’origine è dovuto il fatto che la parola «buono» non si ricollega affatto necessariamente, aprioristicamente, ad azioni «non egoistiche»: come vuole la superstizione di codesti genealogisti della morale. Accade invece che soltanto con il declinare degli apprezzamenti aristocratici di valore si sia imposta sempre di più, nella coscienza umana, questa totale opposizione di «egoistico» e «non egoistico», – si tratta, per usare il mio linguaggio, dell’istinto d’armento che con essa acquista infine parola (e anche parole). E anche dopo di ciò ci vorrà ancora molto tempo perché questo istinto diventi padrone in maniera tale che l’apprezzamento morale dei valori resti addirittura agganciato e inchiodato a questo contrasto (come è, a esempio, il caso nell’Europa attuale: oggidì domina il pregiudizio che assume come concetti equivalenti quelli di «morale», di «non egoistico», di «désintéressé» già con la prepotenza di un’«idea fissa» e di una malattia mentale).
3
Ma in secondo luogo, prescindendo del tutto dalla insostenibilità storica di codesta ipotesi intorno all’origine del giudizio di valore «buono», essa è vittima, in se stessa, di un controsenso psicologico. L’utilità dell’azione non egoistica deve costituire l’origine della sua lode, e quest’origine deve essere caduta in oblio – com’è anche soltanto possibile quest’oblio? Forse che l’utilità di tali azioni è cessata chissà mai quando? Ma si tratta invece del contrario: questa utilità è stata piuttosto in ogni tempo l’esperienza quotidiana, qualche cosa, dunque, che venne sempre di nuovo continuamente sottolineata; perciò, invece di dileguarsi dalla coscienza, invece di diventare obliabile, dovette imprimersi con sempre maggior chiarezza nella coscienza. E quanto più razionale è quella opposta teoria (senza essere, per questo, più vera –) che è sostenuta, a esempio, da Herbert Spencer, il quale stabilisce la sostanziale analogia del concetto di «buono» con quello di «utile» e «conforme al fine», di modo che nei giudizi di «buono» e «cattivo» l’umanità avrebbe assommato e sancito precisamente le sue inobliate e inobliabili esperienze su quanto è utile e conforme al fine, dannoso e non conforme al fine. È buono, secondo questa teoria, quel che da tempo immemorabile si è dimostrato utile: con ciò esso può pretendere di valere come «pregevole al massimo grado», «pregevole in sé». Anche questa via di spiegazione è, come ho detto, erronea, ma se non altro la spiegazione stessa è in sé razionale e psicologicamente sostenibile.
4
– A offrirmi l’indicazione della via giusta fu il problema di quel che devono propriamente significare, sotto il riguardo etimologico, le designazioni di «buono» coniate dalle diverse lingue: trovai allora che esse si riconducono tutte a una identica metamorfosi concettuale – che ovunque «nobile», «aristocratico», nel senso di ceto sociale, costituiscono il concetto fondamentale da cui ha tratto necessariamente origine e sviluppo l’idea di «buono» nel senso di «spiritualmente nobile», e «aristocratico», nel senso di «spiritualmente bennato», «spiritualmente privilegiato»: uno sviluppo che corre sempre parallelo a quell’altro, il quale finisce per far trapassare il concetto di «volgare», «plebeo», «ignobile» in quello di «cattivo». L’esempio più eloquente di quest’ultima trasformazione è dato dalla stessa parola tedesca «schlecht» [cattivo] che è identica a «schlicht» [semplice] – si confronti «schlechtweg» [semplicemente], «schlechterdings» [assolutamente] – e designava originariamente l’uomo semplice, comune, ancora senza uno sguardo obliquo, gravido di sospetto, unicamente in antitesi all’uomo nobile. Pressappoco intorno all’epoca della Guerra dei trent’anni, abbastanza tardi, dunque, questo significato si modifica in quello oggi corrente. – Questa mi parve, in ordine alla genealogia della morale, una cognizione sostanziale; se essa è stata raggiunta soltanto tardivamente, lo si deve alla influenza rallentatrice che ha esercitato il pregiudizio democratico, all’interno del mondo moderno, relativamente a tutti i problemi delle origini. E questo fin nell’àmbito, in apparenza il più oggettivo, della scienza naturale e della psicologia, come risulterà dal semplice accenno che dovremo fare a questo punto. Ma del marasma che questo pregiudizio, una volta che si sia disfrenato fino all’odio, possa arrecare particolarmente alla morale e alla storia, è una testimonianza il famigerato caso di Buckle;4 il plebeismo dello spirito moderno, che è di origine inglese, irruppe ancora una volta nel suo terreno natale con la violenza d’un vulcano di melma e con quella eccessivamente sapida, sgangherata, triviale eloquenza con cui hanno sino a oggi parlato tutti i vulcani. –
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Riguardo al nostro problema, che può essere chiamato, a buon diritto, un problema silenzioso, e che si rivolge, esigente com’è nella scelta, soltanto a poche orecchie, è di non scarso interesse stabilire come in quelle parole e in quelle radici, che hanno il significato di «buono», traluca ancora, in guisa multiforme, la sfumatura principale riguardo alla quale i nobili si sono sentiti appunto uomini di rango superiore. Per la verità, nella maggior parte dei casi, essi si attribuiscono nomi forse semplicemente sulla base della loro superiorità di potenza (come «i potenti», «gli eroi», «i condottieri») o sulla base del più evidente segno peculiare di questa superiorità, nomi, a esempio, come «i ricchi», «i possidenti» (tale è il significato di arya; e analogamente nell’iranico e nello slavo). Ma altresì sulla base di un tipico tratto distintivo: e questo è il caso che qui ci interessa. Chiamano se stessi, per esempio, «i veridici»; prima, nel tempo, l’aristocrazia greca, portavoce della quale fu il poeta megarese Teognide. La parola coniata in tal senso, ἐσϑλóς, significa, secondo la radice, qualcuno che è, che ha realtà, che è reale, che è vero; in seguito, con una trasposizione soggettiva, il vero in quanto veridico: in questa fase della metamorfosi concettuale essa diventa l’espressione caratteristica e il termine di riferimento dell’aristocrazia e travalica in tutto e per tutto nel significato di «aristocratico», per distinguerlo dall’uomo volgare, mentitore, come lo chiama e lo descrive Teognide, – sinché alla fine, dopo la caduta della nobiltà, la parola rimane per designare la noblesse dell’anima, e per così dire matura e si addolcisce. Nella parola ϰαϰóς come in δειλóς (il plebeo in contrapposizione all’ἀγαϑóς) è sottolineata la codardia: ciò che forse dà un avvertimento sulla direzione nella quale si deve cercare l’origine etimologica della parola ἀγαϑóς, soggetta a molteplici interpretazioni. In latino, malus (al quale metto accanto μέλας) potrebbe essere designato l’uomo volgare, in quanto individuo dal colore scuro, soprattutto nero di capelli («hic niger est– »), l’autoctono preariano del suolo italico, che per il colore della pelle si distaccava, con la massima evidenza, dalla bionda razza dominante, cioè quella ariana dei conquistatori: il gaelico mi ha quanto meno offerto il caso esattamente corrispondente -fin (per esempio nel nome Fin-Gal), il termine distintivo dell’aristocrazia e infine il buono, nobile, puro, originariamente la testa bionda in antitesi agli scuri abitanti primevi dai capelli neri. I Celti, sia detto incidentalmente, erano senz’altro una razza bionda; si cade in errore se si mette in relazione a una qualche origine celtica o a una qualche mescolanza di sangue – come fa ancora Virchow – quelle zone di una popolazione completamente nera di capelli che si possono osservare sulle più accurate carte etnografiche della Germania: è piuttosto la popolazione tedesca preariana a predominare in quei luoghi. (La stessa cosa vale all’incirca per l’intera Europa: in sostanza, la razza sottomessa ha finito per riprendere qui il sopravvento, con il suo colore, la forma larga del cranio e forse perfino con i suoi istinti intellettuali e sociali: chi ci garantisce che la moderna democrazia, l’ancor più moderno anarchismo, e specialmente quella tendenza alla «commune», alla forma più primitiva di società, che è oggi comune a tutti i socialisti d’Europa, non debba significare essenzialmente un enorme contraccolpo – e che la razza dei conquistatori e dei signori, quella degli ariani, non sia per soccombere anche fisiologicamente?...). Credo mi sia consentito interpretare il latino bonus come «il guerriero»: posto che a buon diritto riconduco bonus a un più antico duonus (confronta bellum = duellum = duen-lum, in cui mi sembra sia conservato quel duonus). Bonus, quindi, come uomo della disputa, della disunione (duo), come guerriero: si vede quel che nell’antica Roma costituiva in un uomo la sua «bontà». Anche il nostro tedesco «Gut» non doveva significare «il divino», l’uomo «di stirpe divina»? E identificarsi col nome del popolo (originariamente dell’aristocrazia) dei Goten? Esulano da quanto vado scrivendo i fondamenti di una siffatta congettura. –
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A questa regola, che l’idea di preminenza politica si risolve sempre in un’idea di preminenza spirituale, non fa innanzitutto ancora eccezione (benché possano darsi eccezioni) il fatto che la casta suprema sia al tempo stesso la casta sacerdotale; e preferisca quindi, per la sua complessiva connotazione, un predicato che ricordi la sua funzione sacerdotale. Ed ecco che si fa innanzi, per la prima volta, il termine di «puro» e «impuro», come segno distintivo delle classi: e anche in questo caso vengono a svilupparsi più tardi termini come «buono» e «cattivo» in un significato non più attinente al ceto. Si badi bene, del resto, a non assumere a prima vista questi concetti di «puro» e «impuro» in un significato troppo rigoroso, eccessivamente lato o addirittura simbolico: tutte le nozioni della più antica umanità sono state inizialmente intese in maniera grossolana, goffa, esteriore, ristretta, direttamente e specificamente non simbolica, in una misura a stento immaginabile. Il «puro» è, fin dall’inizio, semplicemente un uomo che si lava, che si proibisce certi cibi, i quali comportano malattie della pelle, che non si unisce carnalmente alle donne sordide del basso popolo, che ha orrore del sangue – e nulla più, non molto di più! D’altro canto, risulta indubbiamente chiara, dall’intero tipo di un’aristocrazia essenzialmente sacerdotale, la ragione per cui è precisamente qui che si poterono ben presto interiorizzare e acutizzare in maniera pericolosa i contrasti di valutazione; e in realtà, attraverso questi, si sono infine spalancati tra uomo e uomo abissi tali che neppure un Achille del libero pensiero potrebbe valicarli senza un brivido. In siffatte aristocrazie sacerdotali e nelle consuetudini quivi dominanti, ostili all’azione, in parte covate melanconicamente, in parte sentimentalmente esplosive, esiste sin da principio qualcosa di non sano, la cui conseguenza sembra essere quella labilità viscerale e quella nevrastenia che quasi inevitabilmente ineriscono ai preti d’ogni tempo; ma ciò che da questi stessi è stato escogitato contro codesta morbosa labilità – come si potrà fare a meno di dire che ha finito per dimostrarsi, nei suoi posteriori effetti, cento volte ancora più pericoloso della malattia da cui doveva liberare? La stessa umanità è ancora ammorbata dalle conseguenze di queste terapeutiche ingenuità pretesche! Pensiamo, per esempio, a certe particolarità dietetiche (astensione dalla carne), al digiuno, alla continenza sessuale, alla fuga «nel deserto» (isolamento alla Weir Mitchell,5 beninteso senza la successiva cura d’ingrasso e sovralimentazione, in cui sta il più efficace antidoto a ogni isterismo dell’ideale ascetico): metteteci per giunta l’intera metafisica dei preti, nemica dei sensi, atta a impoltronire e a scaltrire, la loro autoipnosi alla maniera dei fachiri e dei bramini – Brahman utilizzato come sfera di cristallo e idea fissa – e la conclusiva, anche troppo comprensibile, universale sazietà, con la sua radicale terapia, il nulla (ossia Dio – l’aspirazione a una unio mystica con Dio è l’aspirazione dei buddhisti al nulla, Nirvāna e niente più!). Presso i sacerdoti tutto diventa appunto più pericoloso, non soltanto mezzi di cura e arti mediche, ma anche superbia, vendetta, sagacia, dissolutezza, amore, sete di dominio, virtù, malattia – non senza una certa equità si potrebbe veramente anche aggiungere che soltanto sul terreno di questa umana forma d’esistenza, essenzialmente pericolosa, quella cioè dei preti, l’uomo è divenuto in generale un animale interessante, e che soltanto qui l’anima umana ha acquistato profondità in un superiore significato ed è divenuta malvagia – e sono anzi queste le due forme fondamentali della superiorità che ha avuto sino a oggi l’uomo sugli altri animali!...
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Si avrà già indovinato con quanta facilità la maniera sacerdotale di valutazione può distaccarsi da quella cavalleresco-aristocratica e svilupparsi ulteriormente fino a diventarne l’antitesi; alla quale cosa verrà dato un particolare impulso ogni qual volta la casta sacerdotale e quella guerriera entreranno per gelosia in contrasto tra loro e non vorranno reciprocamente accordarsi intorno all’estimazione. I giudizi di valore cavalleresco-aristocratici presuppongono una poderosa costituzione fisica, una salute fiorente, ricca, spumeggiante al punto da traboccare, e con essa quel che ne condiziona la conservazione, cioè guerra, avventura, caccia, danza, giostre, nonché, in generale, tutto quanto implica un agire forte, libero, gioioso. La maniera sacerdotalmente aristocratica di valutazione – l’abbiamo già visto – ha presupposti diversi: quando c’è di mezzo la guerra, le cose si mettono piuttosto male per essa! I sacerdoti, come è noto, sono i nemici più malvagi – e perché mai? Perché sono i più impotenti. È a causa dell’impotenza che l’odio cresce in loro fino ad assumere proporzioni mostruose e sinistre, le più intellettuali e venefiche. I massimi odiatori nella storia del mondo sono sempre stati i preti, e sono stati pure gli odiatori più geniali – in confronto alla genialità della vendetta sacerdotale, ogni altra genialità può a stento essere presa in considerazione. La storia umana sarebbe una cosa veramente troppo stupida senza lo spirito che da parte degli impotenti è venuto in essa – prendiamo subito il più grosso esempio. Tutto quanto è stato fatto sulla terra contro «i nobili», «i potenti», «i signori», «i depositari del potere» non merita una parola in confronto a ciò che contro costoro hanno fatto gli Ebrei; gli Ebrei, quel popolo sacerdotale che ha saputo infine prendersi soddisfazione dei propri nemici e dominatori unicamente attraverso una radicale trasvalutazione dei loro valori, dunque attraverso un atto improntato alla più spirituale vendetta. Questo soltanto si conveniva appunto a un popolo sacerdotale, a un popolo dalla più compressa avidità di vendetta sacerdotale. Sono stati gli Ebrei ad avere osato, con una terrificante consequenzialità, stringendolo ben saldo con i denti dell’odio più abissale (l’odio dell’impotenza), il rovesciamento dell’aristocratica equazione di valore (buono = nobile = potente = bello = felice = caro agli dèi), ovverossia «i miserabili soltanto sono i buoni; solo i poveri, gl’impotenti, gli umili sono i buoni, i sofferenti, gli indigenti, gli infermi, i deformi sono anche gli unici devoti, gli unici uomini pii, per i quali soli esiste una beatitudine – mentre invece voi, voi nobili e potenti, siete per l’eternità i malvagi, i crudeli, i lascivi, gl’insaziati, gli empi, e sarete anche eternamente gli sciagurati, i maledetti e i dannati!»... Sappiamo chi ha raccolto l’eredità di questa trasvalutazione giudaica... Riguardo alla mostruosa e smisuratamente funesta iniziativa che gli Ebrei hanno assunto con questa dichiarazione di guerra, la più radicale di tutte, ricordo quanto ebbi a scrivere ad altro proposito («Al di là del bene e del male», p. 118) – che ha inizio cioè con gli Ebrei la rivolta degli schiavi nella morale, quella rivolta che ha alle sue spalle una storia bimillenaria e che oggi non abbiamo più sotto gli occhi per il semplice fatto che – è stata vittoriosa...
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– Ma non lo comprendete? Non avete occhi per questa cosa alla quale sono stati necessari due millenni per giungere alla vittoria?... Non c’è motivo di stupirsene: tutte le cose lunghe sono difficili a vedere, ad abbracciare con lo sguardo. Ma questo è il fatto: sul tronco di codesto albero della vendetta e dell’odio, dell’odio giudaico – l’odio più profondo e più sublime, vale a dire creatore di ideali, trasmutatore di valori, di cui mai sulla terra è esistito l’eguale – germogliò qualcosa di altrettanto incomparabile, un amore nuovo, la specie d’amore più profonda e più sublime – e su quale altro tronco avrebbe mai potuto germogliare?... Ma non si pensi che esso si sia magari innalzato come la negazione autentica di quella sete di vendetta, come l’antitesi dell’odio ebraico! No, la verità è il contrario! L’amore germogliò da questo come la sua corona, come la corona del trionfo, dispiegantesi in sempre maggior ampiezza nella più limpida chiarità e pienezza solare; e, per così dire, con lo stesso impulso con cui le radici di quell’odio affondavano sempre più profondamente e con sempre maggior bramosia in tutto quanto era abissale e malvagio, quella corolla era sbocciata nel regno della luce e dell’altezza con le stesse mete di quell’odio, verso la vittoria, la preda, la seduzione. Questo Gesù di Nazareth, vangelo vivente dell’amore, questo «redentore», che portava la beatitudine e la vittoria ai poveri, agl’infermi, ai peccatori – non era esattamente la seduzione nella sua forma più inquietante e più inarrestabile, la seduzione e la via traversa appunto per quei valori e quelle innovazioni ebraiche dell’ideale? Non ha raggiunto Israele, proprio per la via traversa di questo «redentore», di questo apparente oppositore e dissolvitore d’Israele, la meta estrema della sua sublime avidità di vendetta? Non rientra nella occulta magia nera di una veramente grande politica della vendetta, di una vendetta lungimirante, sotterranea, che guadagna lentamente terreno ed è preveggente nei suoi calcoli, il fatto che Israele stesso ha dovuto negare e mettere in croce dinanzi a tutto il mondo, come una specie di nemico mortale, il vero strumento della sua vendetta, affinché «tutto il mondo», cioè tutti i nemici di Israele, potesse senza esitazione abboccare a quest’esca? E si saprebbe d’altra parte immaginare, prendendo le mosse da ogni raffinatezza dello spirito, un’altra esca più pericolosa? Qualcosa che potesse eguagliare per forza attrattiva, inebriante, stordente, corruttrice, quel simbolo della «santa croce», quello spaventoso paradosso di un «Dio in croce», quel mistero di un’inconcepibile, ultima, estrema crudeltà e autocrocefissione di Dio per la salvezza degli uomini?... È quanto meno certo che sub hoc signo Israele è tornata sempre a far trionfare sino a oggi su tutti gli altri ideali, su tutti gli ideali più nobili, la sua vendetta e la sua trasvalutazione di tutti i valori.
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– «Ma perché venirci ancora a parlare di ideali più nobili? Atteniamoci ai dati di fatto: il popolo ha vinto – ovvero “gli schiavi” o “la plebe” o “il gregge”, chiamateli come vi piace – e se questo è avvenuto per mezzo degli Ebrei, ebbene mai un popolo ha avuto una missione più grande nella storia del mondo. “I signori” sono liquidati, la morale dell’uomo comune ha vinto. Si può considerare, al tempo stesso, questa vittoria come un avvelenamento del sangue (ha mescolato tra loro le razze) – nulla da eccepire; indubbiamente però questa intossicazione ha avuto buon esito. La “redenzione” del genere umano (dai “signori”) è sulla migliore delle strade; tutto si giudaizza o si cristianizza o si plebeizza a vista d’occhio (che importano le parole!). Il progredire di questa intossicazione, attraverso l’intero corpo dell’umanità, sembra irresistibile, il suo andamento e il suo incremento possono perfino, a partire da questo istante, essere sempre più lenti, più sottili, più inavvertibili, più cauti – non è il tempo che manca... Compete ancor oggi alla Chiesa, sotto questo riguardo, un compito necessario, ha essa ancora, in generale, un diritto di esistere? Oppure se ne potrebbe fare a meno? Quæritur. Non sembra che essa intralci e raffreni quel progresso, invece di accelerarlo? Ebbene, potrebbe appunto essere questa la sua utilità... Senza dubbio essa risulta alla lunga qualcosa di grossolano e di zotico, che ripugna a un’intelligenza più delicata, a una sensibilità effettivamente moderna. Non dovrebbe almeno raffinarsi un poco?... Al dì d’oggi essa allontana più di quanto non abbia sedotto... Chi di noi vorrebbe essere un libero spirito se la Chiesa non esistesse? È la Chiesa a ripugnarci, non già il suo veleno... Prescindendo dalla Chiesa amiamo anche noi il veleno...». – Questa la chiusa di un «libero pensatore» al mio discorso, di un rispettabile animale, come ha dato largamente a vedere, per di più di un democratico; fino a quell’istante era tutt’orecchi e non ce la faceva più a sopportare il mio silenzio. Poiché per me, a questo punto, c’è molto da tacere. –
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– Nella morale la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori; il ressentiment di quei tali esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria. Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi, la morate degli schiavi dice fin dal principio no a un «di fuori», a un «altro», a un «non io»: e questo no è la sua azione creatrice. Questo rovesciamento del giudizio che stabilisce valori – questo necessario dirigersi all’esterno, anziché a ritroso verso se stessi – si conviene appunto al ressentiment: la morale degli schiavi ha bisogno, per la sua nascita, sempre e in primo luogo di un mondo opposto ed esteriore, ha bisogno, per esprimerci in termini psicologici, di stimoli esterni per potere in generale agire – la sua azione è fondamentalmente una reazione. Si ha il contrario nel caso di una maniera aristocratica di valutazione: questa agisce e cresce spontaneamente, cerca il suo opposto soltanto per dire sì a se stessa con ancor maggior gratitudine e gioia – il suo concetto negativo di «ignobile», «volgare», «cattivo» è soltanto una pallida postuma immagine antagonistica, in rapporto al suo positivo concetto fondamentale, tutto pervaso di vita e di passione, di «noi nobili, noi buoni, noi belli, noi felici!». Quando la maniera aristocratica di valutazione cade in errore e pecca contro la realtà, ciò accade in relazione alla sfera che non le è sufficientemente nota, anzi contro una reale conoscenza di questa essa si mette sdegnosamente sulle difese; disconosce talora la sfera da essa tenuta in dispregio, quella dell’uomo comune, del basso popolo; si consideri, d’altra parte, che in ogni caso il moto interiore del disprezzo, del guardare dall’alto in basso, del guardare con un senso di superiorità, posto che esso falsifichi l’immagine della persona disprezzata, resta di gran lunga al di sotto della falsificazione con cui l’odio arretrato, la vendetta dell’impotente, mette le mani addosso al suo avversario – naturalmente in effigie. In realtà è frammista al disprezzo troppa noncuranza, troppo scarsa considerazione, troppa disattenzione di sguardo e impazienza, e anche troppo compiacimento di sé, perché esso sia in grado di trasformare il suo oggetto in una vera e propria caricatura e in uno spauracchio. Non si trascurino le nuances di quasi benevolenza che per esempio l’aristocrazia greca infonde a tutte le parole con cui essa distingue da sé il basso popolo; si badi a come vi si mescoli e vi si aggiunga, per addolcirle, una specie di rammarico, di riguardo, d’indulgenza, al punto che quasi tutte le parole che si convengono all’uomo comune hanno finito per restare sinonimi di «infelice», «degno di compassione» (cfr. δειλóς, δείλαιος, πονηρóς, μοχϑηρóς, questi ultimi due designanti propriamente l’uomo comune in quanto schiavo da lavoro e bestia da soma) – e come d’altro canto parole quali «cattivo», «ignobile», «infelice» non hanno mai cessato di risuonare all’orecchio dell’uomo greco con un unico tono, con una coloritura d’accento in cui prevale «infelice»: tutto ciò in quanto eredità dell’antica, più eletta, maniera aristocratica di valutazione, che non si smentisce neppure nel disprezzo (– ricordino i filologi in che senso sono usate parole come οϊζυρóς, ἄνολβος, τλήμων, δυστυχεῖν, ξυμϕορά). I «bennati» si sentivano appunto come i «felici»; non avevano bisogno di costruire artificialmente la loro felicità unicamente rivolgendo lo sguardo ai loro nemici, né di imporsela talora per forza di persuasione, di menzogna (come sono soliti fare tutti gli uomini del ressentiment); e così pure, in quanto uomini completi, sovraccarichi di forza, e perciò necessariamente attivi, non sapevano separare dalla felicità l’agire – presso di loro l’essere operosi veniva necessariamente considerato una condizione felice (di qui prende origine εὖ πράττειν) – tutto ciò in notevole contrasto con la «felicità» al livello degli impotenti, degli oppressi, degli esulcerati da sentimenti velenosi e astiosi, nei quali essa appare essenzialmente come narcosi, stordimento, quiete, pace, «sabbath», distensione dell’animo e rilassamento del corpo, insomma in forma passiva. Mentre l’uomo nobile vive con fiducia e schiettezza davanti a se stesso (γενναῖος «nobile di nascita» sottolinea la nuance «schietto» e fors’anche «ingenuo»), l’uomo del ressentiment non è né schietto né ingenuo né onesto e franco con se stesso. La sua anima svillaneggia; il suo spirito ama cantucci nascosti, vie traverse, porte segrete, tutto quel che se ne sta occultato lo incanta quasi fosse quello il suo mondo, la sua sicurezza, il suo refrigerio; sa bene, lui, cosa sia il tacere, il non obliare, l’aspettare, il momentaneo farsi piccini, farsi umili. Una razza di siffatti uomini del ressentiment finirà necessariamente per essere più accorta di qualsiasi razza aristocratica, onorerà altresì l’accortezza in tutt’altra misura, vale a dire come un condizionamento esistenziale di prim’ordine, mentre negli uomini nobili l’accortezza ha facilmente in sé anche un sottile sapore di lusso e di raffinatezza – tra loro appunto di gran lunga essa non è così essenziale come la perfetta sicurezza funzionale degli inconsci istinti regolatori, o come addirittura una certa mancanza di accortezza, quale potrebbe essere il coraggioso gettarsi allo sbaraglio sia contro il pericolo, sia contro il nemico, o quella stravagante repentinità di collera, d’amore, di venerazione, di gratitudine e di vendetta, in cui in ogni tempo si sono riconosciute le anime nobili. Lo stesso ressentiment dell’uomo nobile, quando si fa presente in lui, si manifesta e si esaurisce infatti in una subitanea reazione, per la qual cosa non intossica: d’altro canto, in numerosi casi, non si presenta affatto, laddove in tutti i deboli e impotenti esso è inevitabile. Non poter prendere a lungo sul serio i propri nemici, le proprie sciagure, persino i propri misfatti – è il contrassegno di nature vigorose, complete, in cui esiste una sovrabbondanza di forza plastica, imitatrice, risanatrice e anche suscitatrice d’oblio (un buon esempio, a questo proposito, tratto dal mondo moderno, è Mirabeau, che non aveva memoria per gli insulti e le infamie commesse contro di lui e che non poteva perdonare per il semplice fatto che – dimenticava). Un tale uomo con un solo strattone si scuote di dosso appunto molti vermi che in altri invece fanno il loro covo; qui soltanto è altresì possibile, posto che sia in generale possibile sulla terra, – il vero «amore per i propri nemici». Certo, quanto rispetto per i suoi nemici ha un uomo nobile! – e un tale rispetto è già un ponte verso l’amore... Lo vuole anzi per sé il suo nemico, come un segno suo proprio di distinzione, non sopporta alcun altro nemico se non quello in cui non ci sia nulla da disprezzare e moltissimo invece da onorare! Immaginiamoci viceversa «il nemico», come lo concepisce l’uomo del ressentiment – e precisamente a questo punto troveremo la sua azione, la sua creazione: costui concepisce «il nemico malvagio», «il malvagio» proprio come idea di base, a partire dalla quale si fabbrica nell’immaginazione come sua contraffazione e sua antitesi altresì un «buono» – se stesso!...
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Proprio all’opposto, dunque, di quel che si verifica per l’uomo nobile, il quale concepisce in anticipo e spontaneamente l’idea fondamentale di «buono», prendendo le mosse, cioè, da se stesso, e soltanto su questa base si foggia una rappresentazione del «cattivo»! Questo «cattivo» di origine aristocratica e quel «malvagio» attinto al calderone dell’odio insaziabile – il primo, una creazione posteriore, un accessorio, un colore complementare, il secondo, invece, l’originale, il principio, l’atto vero e proprio nella concezione di una morale degli schiavi – come sono diverse queste due parole, «cattivo» e «malvagio», apparentemente contrapposte allo stesso concetto di «buono»! Ma non è lo stesso concetto di «buono»: domandiamoci piuttosto chi propriamente è «malvagio», nel senso della morale del ressentiment. Con una risposta rigorosa occorrerà dire: appunto il «buono» dell’altra morale, appunto il nobile, il potente, il dominatore, solo che è dipinto con altri colori, interpretato in guisa opposta, guardato di sbieco dall’occhio torvo del ressentiment. Su questo punto c’è una cosa che siamo ben lontani dal voler negare: chi ha conosciuto quei «buoni» soltanto come nemici, non conoscerà nient’altro che nemici malvagi, e quegli stessi uomini che sono così severamente tenuti nei limiti dal costume, dalla venerazione, dall’uso, dalla gratitudine e più ancora dalla reciproca vigilanza, dalla gelosia inter pares, e che d’altro canto, nei loro mutui rapporti, si dimostrano così perspicaci nel rispetto, nell’autodominio, nella delicatezza del sentire, nella fedeltà, nell’orgoglio e nell’amicizia – sono, per quanto riguarda l’esterno, là dove comincia il mondo estraneo, gli stranieri, non molto migliori di scatenate belve feroci. Assaporano allora la libertà da tutte le costrizioni sociali, si rifanno, nello stato selvaggio, della tensione dovuta a una lunga segregazione e allo star rinserrati nella pace della comunità, regrediscono nell’innocenza della coscienza propria di un animale da preda come giubilanti mostri che se ne escono forse da una orribile serie di delitti, incendi, infamie, torture con una tracotanza e un intimo equilibrio, come se si fosse trattato semplicemente d’una zuffa studentesca, convinti che i poeti avranno ormai per lungo tempo qualcosa di nuovo da cantare e celebrare. Al fondo di tutte queste razze aristocratiche occorre saper discernere la belva feroce, la magnifica divagante bionda bestia, avida di preda e di vittoria; di tanto in tanto è necessario uno sfogo per questo fondo nascosto, la belva deve di nuovo balzar fuori, deve di nuovo rinselvarsi – aristocrazia romana, araba, germanica, giapponese, eroi omerici, Vichinghi scandinavi – tutti sono eguali in questo bisogno. Sono le razze nobili ad aver lasciato su tutte le loro orme la nozione di «barbaro», ovunque siano esse passate; il loro superiore livello di cultura tradisce ancora una consapevolezza di questo fatto e persino un orgoglio a questo riguardo (per esempio, quando Pericle dice ai suoi Ateniesi, in quella sua famosa orazione funebre, «la nostra audacia s’è aperta una strada in ogni terra e in ogni mare, erigendo ovunque imperituri monumenti nel bene e nel male»).6 Questa «audacia» di nobili razze, folle, assurda, improvvisa, il modo in cui essa si estrinseca, l’imprevedibilità, la stessa inverosimiglianza delle loro imprese – Pericle mette segnatamente in rilievo la ῥαϑυμία degli Ateniesi –,7 la loro indifferenza e il loro disprezzo per la sicurezza, il corpo, la vita, gli agi, la loro terribile serenità e la profondità del godimento in ogni distruzione, in ogni voluttà di vittoria e di crudeltà – tutto ciò, per coloro che ne soffrono, si compendia nell’immagine dei «barbari», del «nemico malvagio», per esempio dei «Goti», dei «Vandali». La profonda, gelida diffidenza che anche oggi nuovamente suscita il tedesco, non appena instaura la sua potenza – è ancor sempre una ripercussione di quell’inestinguibile terrore con cui l’Europa, nel corso di secoli, ha riguardato la furia della bionda bestia germanica (sebbene tra gli antichi Germani e noi altri Tedeschi esista a malapena un’affinità concettuale e tanto meno una parentela di sangue). Ho richiamato un tempo l’attenzione sull’imbarazzo di Esiodo, allorché immaginò la successione delle ere della civiltà e cercò di esprimerle in termini come oro, argento e bronzo: non seppe liquidare la contraddizione che gli offriva il mondo di Omero, così splendido e insieme così terribile e brutale, in alcun altro modo che facendo di una sola epoca due distinte età, collocate ormai da lui una dopo l’altra – prima, quella degli eroi e dei semidei troiani e tebani, così come quel mondo era sopravvissuto nella memoria delle razze aristocratiche che vedevano in esso i propri avi; quindi, l’età del bronzo, così come quello stesso mondo era apparso ai discendenti dei soggiogati, dei depredati, degli oltraggiati, di quanti erano stati trascinati via e venduti: un’età bronzea, come si è detto, dura, fredda, crudele, senza sentimenti e senza coscienza, che tutto stritola e lorda di sangue. Posto che sia stato vero quel che oggi viene comunque ritenuto «verità», che cioè il senso di ogni civiltà sia appunto quello di disciplinare con l’educazione la bestia da preda «uomo» così da farne un animale mansuefatto e civilizzato, un animale domestico, si dovrebbe considerare senza il minimo dubbio tutti questi istinti di reazione e di ressentiment, per mezzo dei quali le razze aristocratiche sono state infine umiliate e sopraffatte unitamente ai loro ideali, come i peculiari strumenti della civiltà; con la quale cosa, invero, non si sarebbe ancora detto che i depositari di quelli rappresentassero al contempo essi stessi la civiltà. Il contrario piuttosto sarebbe non soltanto verosimile – ma che dico! esso è oggi evidente! Questi depositari degli istinti compressi e bramosi di compensazione, i discendenti di ogni schiavitù europea e non europea e di ogni popolazione preariana in particolare – costoro rappresentano la retrocessione dell’umanità. Questi «strumenti della civiltà» sono un obbrobrio per l’uomo e piuttosto un sospetto, un argomento contrario alla «civiltà» in generale! Si potrà anche avere tutto il diritto di non sbarazzarsi della paura per la bionda bestia che è nel fondo di tutte le razze aristocratiche e di stare in guardia: ma chi non preferirebbe cento volte temere, qualora al tempo stesso potesse ammirare, invece che non temere, senza intanto potersi più liberare dalla vista disgustosa dei malriusciti, dei meschini, degli intristiti e intossicati? E non è forse questa la nostra fatalità? Che cosa determina, oggi, la nostra ripugnanza per l’«uomo»? – poiché è dell’uomo che noi soffriamo, non v’è dubbio. – Non il timore, ma piuttosto il fatto che non c’è più nulla da temere nell’uomo; che il verminaio «uomo» è in primo piano e brulica; che l’«uomo mansuefatto», l’uomo inguaribilmente mediocre e fastidioso ha imparato a sentire se stesso come meta e culmine, come senso della storia, come «uomo superiore» – che costui ha per l’appunto un certo diritto di ritenersi tale, in quanto si sente distante dalla sovrabbondanza di esseri malriusciti, infermicci, estenuati, disfatti, da cui oggi l’Europa comincia a essere ammorbata, come qualche cosa quindi che per lo meno è relativamente ben riuscita, per lo meno è ancora capace di vivere, per lo meno dice alla vita il suo sì...
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A questo punto non riesco a reprimere un sospiro e un’ultima speranza. Che cos’è appunto, per me, l’assolutamente intollerabile? L’unica cosa di cui non vengo a capo, ciò che mi fa soffocare e venir meno? Aria cattiva! Aria cattiva! Che qualcosa di malriuscito si stia avvicinando a me, che io sia costretto a fiutare le interiora di un’anima malriuscita!... Che cosa del resto non si sopporta di tribolazioni, privazioni, intemperie, infermità, fatiche, solitudini? In fondo, si riesce a venire a capo di questo e altro, nati come siamo per un’esistenza sotterranea e di lotta; si torna ancor sempre alla luce, si torna ancor sempre a rivivere il nostro aureo momento di vittoria – ed ecco che allora si resta lì, come si è nati, indistruttibili, tesi, pronti al nuovo, al più difficile ancora, al più lontano ancora, come archi cui ogni angustia dà sempre soltanto una tensione ancor più forte. – Ma concedetemi di tanto in tanto – posto che esistano divine dispensatrici, al di là del bene e del male – uno sguardo, un solo sguardo concedetemi unicamente rivolto a qualche cosa di perfetto, di compiutamente riuscito, di beato, di possente, di trionfante, in cui ci sia ancora qualcosa che incuta timore. A un uomo che giustifichi l’uomo, a una fortunata, complementare e redentrice, ventura umana, in virtù della quale si possa mantenere la fede nell’uomo!... Giacché è così: l’immeschinirsi e il livellarsi dell’uomo europeo nasconde il nostro massimo pericolo, data la stanchezza che ci infonde questo spettacolo... Oggi nulla vediamo che voglia divenire più grande, abbiamo il presentimento che tutto continui a sprofondare, a sprofondare, divenendo più sottile, più buono, più prudente, più agevole, più mediocre, più indifferente, più cinese, più cristiano – l’uomo, non v’è alcun dubbio – si fa sempre «migliore»... Appunto qui sta la fatalità dell’Europa – col timore per l’uomo abbiamo perduto anche l’amore verso di lui, la venerazione dinanzi a lui, la speranza in lui, anzi la volontà tesa a lui. La vista dell’uomo rende ormai stanchi – che cos’altro è oggi nichilismo, se non è questo?... Noi siamo stanchi dell’uomo...
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– Ma torniamo indietro: il problema dell’altra origine del «buono», del buono come lo ha concepito l’uomo del ressentiment, esige la sua risoluzione. – Che gli agnelli nutrano avversione per i grandi uccelli rapaci, è un fatto che non sorprende: solo che non v’è in ciò alcun motivo per rimproverare ai grandi uccelli rapaci di impadronirsi degli agnellini. E se gli agnelli si vanno dicendo tra loro: «Questi rapaci sono malvagi; e chi è il meno possibile uccello rapace, anzi il suo opposto, un agnello – non dovrebbe forse essere buono?» su questa maniera di erigere un ideale non ci sarebbe nulla da ridire, salvo il fatto che gli uccelli rapaci guarderanno a tutto ciò con un certo scherno e si diranno forse: «Con loro non ce l’abbiamo affatto noi, con questi buoni agnelli; addirittura li amiamo: nulla è più saporito d’un tenero agnello». – Pretendere dalla forza che non si estrinsechi come forza, che non sia un voler sopraffare, un voler abbattere, un voler signoreggiare, una sete di nemici e di opposizioni e di trionfi, è precisamente così assurdo come pretendere dalla debolezza che essa si estrinsechi come forza. Un quantum di forza è esattamente un tale quantum di istinti, di volontà, d’attività – anzi esso non è precisamente null’altro che questi istinti, questa volontà, quest’attività stessa, e può apparire diversamente soltanto sotto la seduzione della lingua (e degli errori radicali, in essa pietrificatisi, della ragione), che intende e fraintende ogni agire come condizionato da un agente, da un «soggetto». Allo stesso modo, infatti, con cui il volgo separa il fulmine dal suo bagliore e ritiene quest’ultimo un fare, una produzione di un soggetto, che viene chiamato fulmine, così la morale del volgo tiene anche la forza distinta dalle estrinsecazioni della forza, come se dietro il forte esistesse un sostrato indifferente, al quale sarebbe consentito estrinsecare forza oppure no. Ma un tale sostrato non esiste: non esiste alcun «essere» al di sotto del fare, dell’agire, del divenire; «colui che fa» non è che fittiziamente aggiunto al fare – il fare è tutto. Il volgo, in fondo, duplica il fare; allorché vede il fulmine mandare un barbaglio, questo è un far-fare: pone lo stesso evento prima come causa, e poi ancora una volta come effetto di essa. I naturalisti non agiscono in modo migliore quando dicono: «La forza muove, la forza cagiona» e simili – la nostra intera scienza, a onta di tutta la sua freddezza, della sua estraneità a moti affettivi, sta ancora sotto la seduzione della lingua e non si è sbarazzata di questi falsi infanti supposti, i «soggetti» (l’atomo è, per esempio, un siffatto infante supposto, così come la kantiana «cosa in sé»): non c’è da stupirsi se le passioni rintuzzate, nascostamente covanti sotto la cenere, della vendetta e dell’odio sfruttino a proprio vantaggio questa credenza, giungendo in definitiva a non mantenere in piedi con maggior fervore alcun’altra persuasione salvo quella che il forte è padrone d’essere debole e l’uccello rapace d’essere agnello – in tal modo esse si acquisiscono per l’appunto il diritto di imputare all’uccello rapace il fatto di essere uccello rapace... Se gli oppressi, i conculcati, i soggiogati, mossi dall’astuzia, avida di vendetta, dell’impotenza, si inducono a dire: «Dobbiamo essere diversi dai malvagi, cioè buoni! E buono è chiunque non usa violenza, non reca danno a nessuno, non aggredisce, non fa rappresaglia, rimette a Dio la vendetta, si tiene, come noi, nascosto, fugge ogni malvagità e al pari di noi, gente paziente, umile e giusta, pretende poche cose dalla vita», tutto ciò, se lo si ascolta freddamente e senza prevenzioni, in verità non vuol dire altro che: «Noi deboli siamo decisamente deboli: è bene se non facciamo alcuna cosa per la quale non si è forti abbastanza»; ma questo crudo stato di fatto, questa prudenza d’infimo rango, che posseggono persino gl’insetti (i quali, in caso di grande pericolo, si fingono morti per non far nulla «di troppo»), grazie a quell’arte da falsari e a quella mendacità dinanzi a se stessi che è propria dell’impotenza, si dà il pomposo travestimento della virtù rinunciataria, silenziosa, aspettante, come se la debolezza stessa del debole – vale a dire la sua essenza, la sua produttività, la sua intera, unica, inevitabile, irredimibile realtà fosse un effetto arbitrario, qualcosa di voluto, di scelto, un’azione, un merito. Per un istinto di autoconservazione, di autoaffermazione, in cui ogni menzogna suole purificarsi, questa specie di uomini ha bisogno della credenza nell’indifferente libertà di scelta del «soggetto». Forse per questo il soggetto (o, per parlare in maniera più popolare, l’anima) è stato fino a ora sulla terra il migliore articolo di fede, perché ha reso possibile alla maggioranza dei mortali, ai deboli e agli oppressi di ogni sorta quel sublime inganno di sé che sta nell’interpretare la debolezza stessa come libertà, il suo essere-così-e-così come merito.
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Vuole forse qualcuno rivolgere un po’ lo sguardo giù in fondo al segreto di come si fabbricano ideali sulla terra? Chi ne ha il coraggio?... Suvvia! Ecco sgombra la vista su questa oscura officina. Ancora un momento d’attesa, signor Curiosone e Rompicollo: i Suoi occhi devono prima abituarsi a questa falsa luce cangiante... Così! Benone! Parli ora! Che cosa succede là sotto? Dica quel che vede, uomo dalla perigliosissima curiosità, – ora sono io ad ascoltare. –
– «Non vedo nulla, ma tanto meglio ascolto. È un bisbigliare e un sussurrare cauto, maligno, sommesso, da tutti gli angoli e cantucci. Si direbbe che si stiano biascicando menzogne; una mielata dolcezza è rappresa a ogni suono. La debolezza deve essere falsata in merito – non c’è dubbio – è dunque così come ha detto Lei».
– Avanti!
– «E l’impotenza che non si prende la rivalsa, deve essere falsata in “bontà”; la timorosa abiezione in “umiltà”; la sottomissione dinanzi a coloro che odiamo in “obbedienza” (obbedienza, cioè, a uno che dicono imponga questa sottomissione – lo chiamano Dio). L’inoffensività del debole, la stessa codardia di cui costui è ricco, il suo stare alla finestra, il suo inevitabile dover aspettare, acquista ora un buon nome, in quanto “pazienza”, e viene altresì a significare la virtù stessa; il non-potersi-vendicare è detto non-volersi-vendicare, forse addirittura perdonare (“giacché costoro non sanno quel che fanno8 – noi soltanto sappiamo quel che essi fanno!”). Si parla anche dell’“amore verso i propri nemici”9 – e intanto si suda.»
– Avanti!
– «Sono miserabili, non c’è dubbio, tutti questi bisbigliatori e rincantucciati falsari, sebbene se ne stiano tranquillamente accoccolati al calduccio l’uno accanto all’altro – e tuttavia mi dicono che la loro miseria sarebbe un’elezione e un segno di distinzione da parte di Dio, che si battono i cani che più ci son cari; forse questa miseria sarebbe altresì una preparazione, una prova, un ammaestramento, e forse ancora di più – qualcosa che un giorno verrà compensato e pagato con enormi interessi in oro, ma che dico! in felicità. Ed essi chiamano tutto ciò “beatitudine”».
– Avanti!
– «Ora costoro mi dànno a intendere che non soltanto sono migliori dei potenti, dei signori della terra, di cui devono leccare gli sputi (non per paura, assolutamente non per paura! ma perché Dio ha comandato di onorare ogni autorità)10 – che non soltanto sono migliori, ma che “stanno meglio”, o che comunque un giorno “staranno meglio”. Ma basta! Finiamola! Non ne posso più. Aria cattiva! Aria cattiva! Quest’officina dove si fabbricano ideali – mi sembra che esali unicamente fetore di menzogne».
– No! Ancora un istante! Non ha ancora detto nulla dei capolavori di questi negromanti che manipolano tutto quanto è nero per ricavarne bianchezza, latte e innocenza – non ha notato a che punto arriva la loro perfezione nel raffinare, il loro artistico tocco arditissimo, finissimo, genialissimo e mendacissimo? Faccia attenzione! Queste bestie del sottosuolo sature di vendetta e d’odio – che cosa fanno appunto di questa vendetta e di quest’odio? Ha mai sentito queste parole? Sempre che si fosse fidato delle loro parole, avrebbe mai potuto prevedere di ritrovarsi né più né meno che in mezzo a uomini del ressentiment?
– «Capisco e ancora una volta apro le orecchie (ahimè, ahimè, ahimè! e chiudo il naso). Odo soltanto ora quel che essi già tanto spesso dicevano: “Noi buoni – noi siamo i giusti” – a quel che pretendono non dànno il nome di rivalsa, bensì di “trionfo della giustizia”; quel che essi odiano non è il loro nemico, no! essi odiano l’“ingiustizia”, l’“empietà”; quel che credono e sperano, non è la speranza della vendetta, l’ebbrezza della dolce vendetta (“più dolce del miele” – già la chiamava Omero),11 bensì la vittoria di Dio, del Dio giusto sugli empi; quel che resta loro da amare sulla terra non sono i loro fratelli nell’odio, ma i loro “fratelli nell’amore”,12 come essi dicono, tutti i buoni e i giusti della terra».
– E come chiamano quel che serve loro di conforto contro tutte le sofferenze della vita – la loro fantasmagoria dell’anticipata futura beatitudine?
– «Come? Ho udito bene? Lo chiamano il “giudizio finale”, l’avvento del loro regno, del “regno d’Iddio” – ma nel frattempo vivono “nella fede”, “nell’amore”, “nella speranza”».
– Basta così! Basta così!
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Nella fede in che cosa? Nell’amore per che cosa? Nella speranza di che cosa? – Questi deboli – infatti, a un certo momento, anch’essi vogliono essere i forti, non v’è dubbio, a un certo momento deve venire anche il loro «regno» – presso di loro si chiama né più né meno che «regno d’Iddio», come si è detto: sono invero così umili in tutto! Soltanto per fare esperienza di questo si sente la necessità di vivere a lungo, oltre la morte – anzi si ha bisogno della vita eterna per poter altresì rifarsi eternamente, nel «regno d’Iddio», di questa vita terrena vissuta «nella fede, nell’amore, nella speranza». Rifarsi di che cosa? Rifarsi con che cosa?... Dante, a mio parere, ha commesso un grossolano errore nel porre con una ingenuità da far paura sulla porta del suo inferno quell’iscrizione «fecemi l’eterno amore»13 – sulla porta del paradiso cristiano e della sua «eterna beatitudine» potrebbe stare in ogni caso a maggior diritto l’iscrizione «fecemi l’eterno odio» – ammesso che una verità possa stare sulla porta di una menzogna! Che cos’è, infatti, la beatitudine di quel paradiso?... Forse potremmo già indovinarlo; ma è meglio che ce lo attesti espressamente una autorità indiscutibile in questa materia, Tommaso d’Aquino, il grande maestro e santo. «Beati in regno cœlesti – dice costui con la mitezza di un agnello – videbunt pœnas damnatorum, ut beatitudo illis magis complaceat». O se lo si vuol sentire in un tono più vigoroso, per esempio dalla bocca di un trionfante Padre della Chiesa, che sconsiglia ai suoi cristiani le crudeli voluttà degli spettacoli pubblici – e perché poi?: «La fede ci offre invero molto di più – dice costui, de Spectac., c. 29 sgg. – qualcosa di molto più intenso; grazie alla redenzione sono a nostra disposizione gioie del tutto diverse; al posto degli atleti abbiamo i nostri martiri; se vogliamo del sangue, ebbene, abbiamo il sangue di Cristo... Ma che cosa non ci attende nel giorno del suo ritorno, del suo trionfo!» – e così prosegue questo visionario in rapimento: «At enim supersunt alia spectacula, ille ultimus et perpetuus judicii dies, ille nationibus insperatus, ille derisus, cum tanta sæculi vetustas et tot ejus nativitates uno igne haurientur. Quæ tunc spectaculi latitudo! Quid admirer! Quid rideam! Ubi gaudeam! Ubi exultem, spectans tot et tantos reges, qui in cælum recepti nuntiabantur, cum ipso Jove et ipsis suis testibus in imis tenebris congemescentes! Item præsides (i governatori delle province) persecutores dominici nominis sævioribus quam ipsi flammis sævierunt insultantibus contra Christianos liquescentes! Quos præterea sapientes illos philosophos coram discipulis suis una conflagrantibus erubescentes, quibus nihil ad deum pertinere suadebant, quibus animas aut nullas aut non in pristina corpora redituras affirmabant! Etiam poëtas non ad Rhadamanti nec ad Minois, sed ad inopinati Christi tribunal palpitantes! Tunc magis tragœdi audiendi, magis scilicet vocales (meglio in voce, urlatori ancor più cattivi) in sua propria calamitate; tunc histriones cognoscendi, solutiores multo per ignem; tunc spectandus auriga in flammea rota totus rubens, tunc xystici contemplandi non in gymnasiis, sed in igne jaculati, nisi quod ne tunc quidem illos velim vivos, ut qui malim ad eos potius conspectum insatiabilem conferre, qui in dominum desævierunt. “Hic est ille, dicam, fabri aut quæstuariæ filius (come mostra tutto quel che segue e in particolare anche questa designazione, nota dal Talmud, della madre di Gesù, a partire da questo punto Tertulliano ha in mente gli Ebrei), sabbati destructor, Samarites et dæmonium habens. Hic est, quem a Juda redemistis, hic est ille arundine et colaphis diverberatus, sputamentis dedecoratus, felle et aceto potatus. Hic est, quem clam discentes subripuerunt, ut resurrexisse dicatur vel hortulanus detraxit, ne lactucæ suæ frequentia commeantium læderentur”. Ut talia spectes, ut talibus exultes, quis tibi prætor aut consul aut quæstor aut sacerdos de sua liberalitate præstabit? Et tamen hæc jam habemus quodammodo per fidem spiritu imaginante repræsentata. Ceterum qualia illa sunt, quæ nec oculus vidit nec auris audivit nec in cor hominis ascenderunt? (I Cor., 2, 9). Credo circo et utraque cavea (prima e quarta fila, o, secondo altri, scena comica e tragica) et omni stadio gratiora».14 – Per fidem: così sta scritto.
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Ci avviciniamo alla conclusione. I due valori antitetici «buono e cattivo», «buono e malvagio» hanno sostenuto sulla terra una terribile lotta durata millenni; e per quanto possa essere certo che da un pezzo il secondo valore è prevalso sul primo, ancor oggi non mancano luoghi in cui si continua con esito incerto a combattere questa battaglia. Si potrebbe persino dire che nel frattempo essa si è portata sempre più in alto e che appunto è divenuta sempre più profonda, sempre più spirituale: sicché oggi non esiste forse alcun segno più determinante della «natura superiore», della natura più spirituale, che essere scissi nel senso che si è detto ed essere ancora realmente un campo di battaglia per quelle antitesi. Il simbolo di questa lotta, espresso in caratteri che sono restati sino a oggi leggibili al di sopra di tutta la storia degli uomini, è «Roma contro Giudea, Giudea contro Roma»: – non c’è stato fino a oggi alcun avvenimento più grande di questa lotta, di questa posizione del problema; di questa contraddizione pervasa d’inimicizia mortale. Roma sentì nell’ebreo qualcosa come la contronatura stessa, per così dire il suo monstrum antipodico; in Roma si considerava l’ebreo «un provato colpevole di odio contro l’intero genere umano»:15 a buon diritto, in quanto si ha un diritto di ricollegare la salvezza e l’avvenire del genere umano all’assoluta supremazia dei valori aristocratici, dei valori romani. Che cosa hanno sentito invece contro Roma gli Ebrei? Lo si indovina da mille segni; ma è sufficiente richiamare ancora una volta alla memoria l’Apocalisse giovannea, la più caotica di tutte le invettive scritte, che la vendetta abbia sulla coscienza. (Non si sottovaluti del resto la estrema consequenzialità dell’istinto cristiano, allorché proprio sopra questo libro dell’odio scrisse il nome del discepolo dell’amore, quello stesso a cui attribuì il vangelo dell’amoroso entusiasmo: c’è qui nascosto un frammento di verità, a parte la falsificazione letteraria che possa essere stata necessaria a questo scopo). I Romani erano invero i forti e i nobili, come non sono mai esistiti sulla terra di più forti e più nobili, e nemmeno mai sono stati sognati: ogni loro reliquia, ogni iscrizione manda in estasi, ammesso che si riesca a indovinare che cosa scrive in quelle. Gli Ebrei viceversa erano quel popolo sacerdotale, del ressentiment par excellence, in cui era insita una genialità popolare-morale impareggiabile: si confrontino un po’ i popoli analogamente dotati, come i Cinesi o i Tedeschi, con gli Ebrei, per discernere che cos’è di primo e che cosa di quint’ordine. Quale di essi ha temporaneamente vinto, Roma o Giudea? Ma non c’è proprio il minimo dubbio: si consideri invero dinanzi a chi ci si inchini oggi, nella stessa Roma, come dinanzi alla sintesi di ogni supremo valore – e non soltanto a Roma, ma quasi su metà della terra, ovunque l’uomo è stato addomesticato o vuole diventarlo – dinanzi a tre ebrei, come è noto, e a una ebrea (dinanzi a Gesù di Nazareth, al pescatore Pietro, al tessitor di tappeti Paolo e alla madre del suddetto Gesù, chiamata Maria). È un fatto assai degno di nota: senza dubbio Roma ha dovuto soccombere. È vero che nel Rinascimento si ebbe un risveglio splendidamente inquietante dell’ideale classico, della maniera aristocratica di valutare tutte le cose: come chi è ridestato dalla catalessi, Roma stessa si muoveva sotto il peso della nuova Roma giudaizzata edificata sopra l’antica, la quale aveva tutto l’aspetto di una sinagoga ecumenica e veniva chiamata «Chiesa»; ma subito tornò a trionfare Giudea, grazie a quel movimento del ressentiment fondamentalmente plebeo (tedesco e inglese), cui si dà il nome di Riforma, con l’aggiunta di quel che doveva seguire a essa, la restaurazione della Chiesa – la restaurazione altresì dell’antica quiete sepolcrale della Roma classica. In un senso addirittura più decisivo e più profondo di allora, Giudea pervenne, con la rivoluzione francese, ancora una volta alla vittoria sull’ideale classico: l’ultima aristocrazia politica esistente in Europa, quella del XVII e XVIII secolo francese, crollò sotto gli istinti popolari del ressentiment – non si era mai sentito sulla terra un giubilo più grande, un più rumoroso entusiasmo! In mezzo a tutto questo accadde in realtà la cosa più enorme, più inaspettata: lo stesso antico ideale comparve in carne e ossa e con uno straordinario splendore dinanzi agli occhi e alla coscienza dell’umanità – e ancora una volta, di fronte all’antica, mendace parola d’ordine del ressentiment, espressa nel primato del maggior numero, di fronte alla volontà di scadimento, di abiezione, di livellamento, di abbassamento e di tramonto dell’uomo, risuonò più forte, più netta, più incisiva che mai l’opposta tremenda e fascinosa parola d’ordine, quella del primato dei pochi! Come un’ultima indicazione dell’altra via apparve Napoleone, quest’uomo singolarissimo, questo frutto estremamente tardivo come nessun altro mai, e con lui il problema incarnato dell’ideale aristocratico in sé – si consideri bene quale imponente problema esso sia – Napoleone, questa sintesi di disumano e di superumano...
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– È dunque passato tutto ciò? Quel contrasto di ideali, grandissimo tra tutti, sarebbe così messo ad acta per sempre? Oppure soltanto aggiornato, aggiornato a un’epoca lontana?... Potrà mai darsi che in qualche tempo avvenire torni a divampare l’antico incendio ancor più terribile, dopo una assai più lunga preparazione? E più ancora: non sarebbe proprio questo da desiderare con tutte le forze? e anche da volere? anche da promuovere?... Chi a questo punto comincia, al pari dei miei lettori, a meditare, ad approfondire i suoi pensieri, difficilmente potrà venirne presto a capo – una ragione sufficiente, per me, per venirne a capo lo stesso, essendo divenuto da un pezzo abbastanza chiaro quel che io voglio, quel che io voglio precisamente con quella pericolosa parola d’ordine che è espressamente scritta nel mio ultimo libro: «Al di là di bene e male»... Se non altro questo non significa: «Al di là di buono e cattivo»...
Nota. Colgo l’occasione offertami da questo saggio per esprimere pubblicamente e formalmente un voto che sino a oggi è stato da me esternato soltanto in occasionali conversazioni con dotte persone: che cioè una qualche facoltà di filosofia si rendesse benemerita, attraverso una serie di concorsi accademici, per l’avanzamento degli studi di storia della morale – forse questo libro servirà a dare un vigoroso impulso proprio in tale direzione. In ordine a una possibilità di questo genere si propone la questione seguente: essa merita tanto l’attenzione dei filologi e degli storici, quanto quella dei veri e propri cultori di filosofia per professione.
«Quali indicazioni ci fornisce la scienza linguistica, e segnatamente l’indagine etimologica, per la storia dell’evoluzione dei concetti morali?».
– D’altro canto è certo altrettanto necessario acquisire la partecipazione dei fisiologi e dei medici a questi problemi (sul valore delle valutazioni avutesi sino a oggi) – per cui potrà essere lasciata ai filosofi specialisti la possibilità di esercitare anche in questo caso il loro patrocinio e la loro mediazione, una volta che siano riusciti a trasformare del tutto il rapporto originariamente così sdegnoso e diffidente tra filosofia, fisiologia e medicina nel più amichevole e più fecondo degli scambi. In realtà, tutte le tavole di valore, tutti i «tu devi» noti alla storia e all’indagine etnologica, avrebbero bisogno innanzitutto della chiarificazione e interpretazione fisiologica, prima ancora, in ogni caso, di quella psicologica; tutte queste tavole di valore attendono similmente una critica da parte della scienza medica. La questione: che validità ha questa o quella tavola di valore, questa o quella «morale»? deve essere posta sotto le più svariate prospettive; specialmente la questione «valida a che scopo?» non sarà mai sviscerata abbastanza sottilmente. Qualcosa, per esempio, che rivelasse visibilmente un valore in ordine alla maggior possibilità di durata d’una razza (o al potenziamento delle sue capacità d’adattamento a un determinato clima o alla conservazione del più gran numero) non avrebbe assolutamente lo stesso valore quando si trattasse eventualmente di plasmare un tipo più forte. Il bene del maggior numero e il bene dei pochi sono antitetiche considerazioni di valore; ritenere che il primo di questi punti di vista abbia un valore superiore è qualcosa che vogliamo abbandonare all’ingenuità dei biologi inglesi... Tutte le scienze devono ormai elaborare in via preparatoria il compito futuro dei filosofi: intendendo questo compito nel senso che il filosofo deve risolvere il problema del valore, deve determinare la gerarchia dei valori. –
SECONDA DISSERTAZIONE
«COLPA», «CATTIVA COSCIENZA»
E SIMILI
1
Allevare un animale, cui sia consentito far delle promesse – non è forse precisamente questo il compito paradossale impostosi dalla natura per quanto riguarda l’uomo? non è questo il vero e proprio problema dell’uomo?... Il fatto che questo problema sia risolto fino a un alto grado dovrà apparire tanto più sorprendente a colui che sa pienamente apprezzare la forza agente in senso contrario, quella del dimenticare. Dimenticare non è una semplice vis inertiæ, come ritengono i superficiali, ma piuttosto una facoltà attiva, positiva nel senso più rigoroso, d’inibizione, cui è da ascriversi la circostanza che qualsiasi cosa venga da noi vissuta, sperimentata, assunta nella nostra intimità, entra tanto poco nella nostra coscienza nello stato di digestione (si potrebbe chiamarlo «appropriazione spirituale») quanto poco vi entra l’intero multiplo processo con cui si svolge il nostro nutrimento corporeo, la cosiddetta «assimilazione». Chiudere di tanto in tanto porte e finestre della coscienza; restare indisturbati dal rumore e dalla lotta con cui il mondo sottostante degli organi posti al nostro servizio svolge la sua collaborazione od opposizione; un po’ di silenzio, un po’ di tabula rasa della coscienza, affinché vi sia ancora posto per il nuovo, soprattutto per le funzioni e i funzionari più nobili, per governare, per prevedere, per predeterminare (il nostro organismo è infatti organizzato oligarchicamente) – è questo il vantaggio – come si è detto – della dimenticanza attiva, una guardiana, per così dire, una sorvegliante dell’ordine spirituale: per cui occorrerà subito considerare in che senso nessuna felicità, nessuna serenità, nessuna speranza, nessuna fierezza, nessun presente potrebbe esistere senza capacità di dimenticare. L’uomo in cui questo apparato d’inibizioni subisce danneggiamenti e funziona con intermittenza è paragonabile a un dispeptico (e non soltanto paragonabile) – non arriva «a capo di nulla»... Appunto questo animale necessariamente oblioso, nel quale il dimenticare rappresenta una forza, una forma di vigorosa salute, si è ora plasmato con l’educazione una facoltà antitetica, una memoria, mediante la quale in determinati casi l’oblio viene sospeso – in quei casi cioè in cui si tratta di fare una promessa: è quindi in giuoco non già una semplice impossibilità di liberarsi nuovamente dell’impressione una volta incisa, non già la semplice indigestione di una parola una volta ipotecata, di cui non si riesce a sbarazzarci, bensì un attivo non voler tornare a liberarsi, un continuare ancora a volere quel che si è voluto una volta, una vera e propria memoria della volontà: cosicché tra l’originario «io voglio», «io farò» e il caratteristico scaricarsi della volontà, il suo atto, può essere agevolmente interposto un mondo di nuove cose sconosciute, di circostanze e persino di atti volitivi, senza che questa lunga catena del volere abbia a incrinarsi. Ma che cosa non presuppone tutto ciò! Quanto deve aver prima imparato, l’uomo, per disporre anticipatamente del futuro in tal modo, quanto deve aver prima imparato a separare l’accadimento necessario da quello casuale, a pensare secondo causalità, a vedere e ad anticipare il lontano come presente, a saper stabilire con sicurezza e calcolare e valutare in generale quel che è scopo e quel che è mezzo in tal senso – quanto, a questo fine, deve prima essere divenuto, l’uomo stesso, calcolabile, regolare, necessario, facendo altresì di se stesso la sua propria rappresentazione, per potere alla fine rispondere di sé come avvenire, allo stesso modo di uno che fa promessa!
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Questa appunto è la lunga storia dell’origine della responsabilità. Quel compito di allevare un animale che possa fare promesse, implica in sé, come già ci siamo resi conto, quale condizione e preparazione, il più immediato compito di rendere dapprima l’uomo, sino a un certo grado, necessario, uniforme, uguale tra gli uguali, coerente alla regola e di conseguenza calcolabile. L’enorme lavoro di quella che è stata da me chiamata «eticità dei costumi» (cfr. «Aurora», pp. 7; 13; 16) – il peculiare lavoro dell’uomo su se stesso nel più lungo periodo di tempo della specie umana, tutto quanto il suo lavoro preistorico trova qui il suo significato, la sua grande giustificazione, indipendentemente da quanto sia insito in esso di durezza, tirannide, ottusità e idiotismo: grazie all’eticità dei costumi e alla sociale camicia di forza l’uomo venne reso effettivamente calcolabile. Mettiamoci invece al termine dell’immenso processo, là dove l’albero finalmente fa maturare i suoi frutti, dove la società e la sua eticità di costumi porta infine alla luce lo scopo per il quale essa fu unicamente il mezzo: troveremo il più maturo frutto del suo albero, l’individuo sovrano, l’individuo eguale soltanto a se stesso, nuovamente riscattato dalla eticità dei costumi, autonomo, sovramorale («autonomo» e «etico» si escludono), insomma l’uomo dalla propria, indipendente, durevole volontà, al quale è consentito promettere – e in lui una superba coscienza, palpitante in ogni muscolo, di quel che ora finalmente è stato conseguito e che è divenuto, in lui, carne e sangue, una vera consapevolezza di potenza e di libertà, un senso di compimento dell’uomo in generale. Questo essere divenuto libero, che realmente può promettere, questo signore del libero volere, questo sovrano – come non dovrebbe sapere quale superiorità abbia in tal modo a suo vantaggio su tutti coloro cui non è lecito promettere e che non possono farsi garanti per se stessi, quanta fiducia, quanto timore, quanta venerazione egli susciti – costui «merita» tutte e tre queste cose – e come gli venga rimessa, con questa signoria sovra di sé, anche la signoria sulle circostanze, sulla natura e su tutte le creature di volontà più labile e insicura? L’uomo «libero», il possessore di una durevole, incrollabile volontà, trova in questo possesso anche la sua misura di valore: volgendo sugli altri lo sguardo a partire da se stesso, onora o disprezza; e con la stessa necessità con cui onora i suoi pari, i forti e i fidi (ai quali è lecito far promesse), – dunque ognuno che prometta al pari di un sovrano, difficilmente, di rado, con lentezza, che sia avaro della sua fiducia, che, quando promette, segni una distinzione, e che dia la sua parola come qualcosa su cui si può fare affidamento, poiché si sa abbastanza forte da mantenerla persino contro casi avversi, persino «contro il destino» – con questa stessa necessità terrà pronte le sue pedate per gli esili levrieri che promettono senza averne la facoltà, e la sua verga per il mentitore che vien meno alla sua parola in quello stesso momento in cui l’ha sulle labbra. La superba cognizione dello straordinario privilegio della responsabililà, la consapevolezza di questa rara libertà, di questa potenza sovra se stesso e sul destino è discesa in lui sino al suo infimo fondo ed è divenuta istinto, istinto dominante – quale nome darà a questo istinto dominante, ammesso che senta in sé il bisogno di una parola per esso? Ma non v’è dubbio: questo uomo sovrano lo chiama la sua coscienza...
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La sua coscienza?... È possibile indovinare in anticipo che il concetto di coscienza, in cui ci imbattiamo qui nella sua configurazione più alta e quasi inquietante, ha già dietro di sé una lunga storia e metamorfosi di forme. Poter farsi mallevadori di se stessi e con orgoglio, dunque poter dire sì anche a se stessi – questo, come si è detto, è un frutto maturo, ma anche un frutto tardivo – quanto a lungo questo frutto dovette pendere aspro e acerbo dall’albero! E per un tempo ancora molto più lungo, non fu possibile vedere un bel nulla di un simile frutto – nessuno avrebbe potuto prometterlo, per quanto certamente tutto fosse preparato nell’albero e stesse crescendo appunto in vista di esso! – «Come si forma una memoria nell’animale-uomo? Come si imprime qualcosa in questo intelletto dell’attimo, in parte ottuso, in parte sventato, in questo vivente oblio, in guisa tale da restare presente?»... Questo antichissimo problema, come è facile immaginare, non è stato precisamente risolto con risposte e mezzi delicati: forse nell’intera preistoria dell’uomo addirittura nulla è più spaventoso e sinistro della sua mnemotecnica. «Si incide a fuoco qualcosa affinché resti nella memoria: soltanto quel che non cessa di dolorare resta nella memoria» – è questo un assioma della più antica (purtroppo anche più longeva) psicologia sulla terra. Si potrebbe anche dire che ovunque ancor oggi sulla terra esistano nella vita di un uomo e di un popolo solennità, gravità, mistero, tinte fosche, fa sentire il suo postumo effetto qualcosa della terribilità con cui una volta ovunque sulla terra si facevano promesse, si davano pegni, si tributavano lodi: il passato, il più lungo, profondo, spietato passato alita su di noi e zampilla dentro di noi, quando ci facciamo «gravi». Quando l’uomo ritenne necessario formarsi una memoria, ciò non avvenne mai senza sangue, martìri, sacrifici; i sacrifici e i pegni più spaventosi (in cui si ricomprendono i sacrifici dei primogeniti), le più ripugnanti mutilazioni (per esempio le castrazioni), le più crudeli forme rituali di tutti i culti religiosi (e tutte le religioni sono, nel loro ultimo fondo, sistemi di crudeltà) – tutto ciò ha la sua origine in quell’istinto che colse nel dolore il coadiuvante più potente della mnemonica. In un certo senso rientra in tutto questo l’intero ascetismo: un paio d’idee devono essere rese inestinguibili, onnipresenti, inobliabili, «fisse», ai fini della ipnotizzazione dell’intero sistema nervoso e intellettuale mediante queste «idee fisse» – e le procedure e forme di vita ascetiche sono mezzi per svincolare codeste idee dalla concorrenza con tutte le altre, per renderle «indimenticabili». Quanto peggio stava l’umanità «riguardo alla memoria», tanto più terrifico era l’aspetto dei suoi usi; la durezza delle leggi penali in particolare dà una misura di quanta sia stata la sua fatica nel raggiungere la vittoria contro l’oblio e nel mantenere presenti a questi schiavi istantanei degli affetti e delle brame un paio di primitive esigenze della convivenza sociale. Noi Tedeschi non ci consideriamo certo un popolo particolarmente crudele e duro di cuore, meno che mai sventato e contento di vivere alla giornata; ma basta far attenzione ai nostri antichi ordinamenti penali per accorgersi quale fatica ci vuole sulla terra per allevare un «popolo di pensatori» (voglio dire: il popolo d’Europa, in mezzo al quale ancor oggi si può trovare il maximum di fiducia, di serietà, di cattivo gusto e di obiettività e che con queste qualità ha un diritto ad allevare ogni specie di mandarini in Europa). Questi Tedeschi si sono fabbricati una memoria con mezzi terribili, allo scopo di padroneggiare i loro fondamentali istinti plebei e la loro brutale rozzezza: si pensi alle antiche pene tedesche, per esempio alla lapidazione (– già la saga fa cadere la macina da mulino sulla testa del reo), alla condanna della ruota (la più caratteristica invenzione e specialità del genio tedesco nell’àmbito delle pene!), all’impalare, al far lacerare o schiacciare da cavalli («squartamento»), alla bollitura del criminale in olio o vino (ancora nel XIV e nel XV secolo), al molto apprezzato scorticamento («scuoiamento»), alla resecazione della carne dal petto; e anche ai casi in cui il malfattore veniva spalmato di miele e abbandonato alle mosche sotto un sole bruciante. In virtù di siffatte immagini e procedimenti si finisce per conservare nella memoria cinque o sei «non voglio», in rapporto ai quali si è espressa la propria promessa allo scopo di vivere coi vantaggi della società – e veramente, grazie a questa specie di memoria, si giunse infine «alla ragione»! – Ah la ragione, la gravità, il dominio sugli affetti, tutta questa tetra faccenda che ha il nome di riflessione, tutti questi privilegi e pezzi da parata dell’uomo: come si sono fatti pagar cari! quanto sangue e orrore è nel fondo di tutte le «buone cose»!...
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Ma com’è venuta al mondo quell’altra «tetra faccenda», la coscienza della colpa, tutta quanta la «cattiva coscienza»? – E torniamo con ciò ai nostri genealogisti della morale. Sia detto ancora una volta – o non l’ho ancora detto affatto? – costoro non valgono un bel nulla. Un’esperienza propria, lunga cinque spanne, semplicemente «moderna»; nessun sapere, nessuna volontà di sapere sul passato; meno che mai un istinto storico, una «seconda vista» proprio a questo punto necessaria – e tuttavia si occupano di storia della morale: ovviamente tutto ciò deve concludersi in risultati, che si rapportano alla verità con una certa ritrosia anzichenò. Questi genealogisti della morale si sono mai, sino a oggi, anche solo lontanamente immaginati che, per esempio, quel basilare concetto morale di «colpa» ha preso origine dal concetto molto materiale di «debito»? O che la pena come compensazione si è sviluppata completamente a parte da ogni presupposto sulla libertà e non libertà del volere? – e questo sino al punto che c’è invece sempre innanzitutto bisogno di un alto grado di umanizzazione, perché l’animale «uomo» cominci a fare quelle molto più primitive distinzioni «intenzionale», «negligente», «casuale», «responsabile» e dei loro opposti, e a valutarle nell’attribuzione della pena. Quel pensiero oggi così a buon mercato e apparentemente così naturale, così inevitabile, il quale è sempre chiamato in causa per spiegare il modo con cui si è venuto determinando sulla terra il sentimento della giustizia, il pensiero che «il delinquente merita la pena poiché avrebbe potuto agire altrimenti», è effettivamente una forma assolutamente tardiva, anzi raffinata del giudicare e dell’inferire umano; chi lo trasferisce alle origini, commette un madornale errore sulla psicologia della più antica umanità. Per il più lungo tratto di tempo della storia umana non si sono assolutamente inflitti castighi perché si ritenesse l’autore del male responsabile della sua azione, dunque non con il presupposto che si debba punire unicamente il colpevole – si punisce, viceversa, allo stesso modo con cui ancor oggi i genitori castigano i loro figli, per ira di un danno sofferto, alla quale si dà sfogo sul danneggiante – una collera, tuttavia, mantenuta nei limiti e modificata dall’idea che ogni danno abbia in qualche modo il suo equivalente e realmente possa essere soddisfatto, sia pure mediante una sofferenza di chi lo ha provocato. Donde ha derivato il suo potere quest’idea antichissima, profondamente radicata, oggi forse non più estirpabile, l’idea di una equivalenza di danno e dolore? L’ho già rivelato: nel rapporto contrattuale tra creditore e debitore, che è tanto antico quanto l’esistenza di «soggetti di diritto», e rimanda ancora una volta, dal canto suo, alle forme fondamentali della compera, della vendita, dello scambio, del commercio.
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Senza dubbio, come è dato preliminarmente aspettarci da quanto si è in precedenza osservato, la raffigurazione di questi rapporti contrattuali risveglia contro la più antica umanità che li ha creati o permessi ogni genere di sospetti e d’opposizioni. Qui precisamente vengono fatte promesse; qui precisamente si tratta di fabbricare una memoria a colui che promette; qui precisamente, è lecito sospettarlo, si troverà una base per scoprire cose dure, crudeli, penose. Per infondere fiducia nella sua promessa di restituzione, per dare una garanzia della serietà e santità della sua promessa, per imporre, in se stesso, alla propria coscienza la restituzione come dovere e obbligazione, il debitore dà in pegno, in forza del contratto, al creditore, per il caso che non paghi, qualcosa d’altro che ancora «possiede», su cui ha ancora potere, per esempio il proprio corpo o la propria donna o la propria libertà o anche la propria vita (oppure, stando a determinati presupposti religiosi, persino la sua beatitudine, la salvezza della sua anima, e infine, forse, anche la pace nel sepolcro: così in Egitto, dove il cadavere del debitore non trovava pace dal creditore neppure nella tomba – e invero, proprio presso gli Egizi, questa pace rivestiva altresì una certa importanza). Ma specialmente sul corpo del debitore il creditore poteva infliggere ogni sorta d’ignominia e di tortura, tagliarne giù tanto quanto pareva commisurato alla entità del debito – e ben presto e ovunque si dettero, da questo punto di vista, precise valutazioni, in parte orribilmente estese al più piccolo dettaglio, valutazioni, legittimamente stabilite, delle singole membra e parti del corpo. Ritengo già un progresso, una prova di una concezione del diritto più libera, più lungimirante nel computo, più romana, il decreto contenuto nella legislazione romana delle Dodici Tavole: che dovesse considerarsi indifferente quanto di più o di meno i creditori tagliassero in un simile caso «si plus minusve secuerunt, ne fraude esto». Rendiamoci chiara la logica di tutta questa forma di compensazione: è abbastanza bizzarra. L’equivalenza è data dal fatto che al posto di un vantaggio in diretto equilibrio con il danno (al posto dunque di una compensazione in danaro, terra, possessi di qualsivoglia specie) viene concessa al creditore a titolo di rimborso e di compensazione una sorta di soddisfazione intima – la soddisfazione di poter scatenare senza alcuno scrupolo la propria potenza su un essere impotente, la voluttà «de faire le mal pour le plaisir de le faire»,16 il piacere di far violenza: piacere che come tale risulta apprezzato in misura tanto più alta quanto più bassa e umile è la condizione del creditore nell’ordinamento della società, e che può facilmente apparirgli come un boccone prelibato, anzi come pregustazione di un rango più alto. Mediante la «pena» del debitore, il creditore partecipa di un diritto signorile: raggiunge altresì finalmente il sentimento esaltante di poter disprezzare e maltrattare un individuo come un «suo inferiore» – o quanto meno, nel caso che la vera e propria potestà punitiva, l’applicazione di una pena sia già trapassata all’«autorità», di vederlo disprezzato e maltrattato. La compensazione consiste quindi in un mandato e in un diritto alla crudeltà. –
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In questa sfera, nel diritto dunque delle obbligazioni, il mondo dei concetti morali «colpa», «coscienza», «dovere», «sacralità del dovere» ha il suo focolare d’origine – i suoi inizi, come gli inizi di ogni grandezza terrena, sono stati a fondo e lungamente irrorati di sangue. E non si potrebbe aggiungere che in sostanza quel mondo non ha mai più interamente perduto un certo lezzo di sangue e di tortura? (perfino nel vecchio Kant: l’imperativo categorico puzza di crudeltà...). Egualmente qui è stata per la prima volta ribadita quella sinistra catena di idee, divenuta forse indissolubile, «colpa e sofferenza». Diciamolo ancora una volta: in che senso può essere la sofferenza una compensazione di «debiti»? In quanto far soffrire arrecava soddisfazione in sommo grado, in quanto il danneggiato barattava il danno, con l’aggiunta dello scontento per il danno, per uno straordinario contro-godimento: il far soffrire – una vera e propria festa, un qualcosa che, come ho detto, era tanto più tenuto in pregio quanto maggiore era il suo contrasto con il rango e la posizione sociale del creditore. Ciò è detto in via di supposizione: giacché è difficile scrutare nel fondo di tali cose sotterranee, prescindendo dal fatto che è penoso; e chi goffamente interpone a questo proposito il concetto di «vendetta», piuttosto che essersela resa più facile, si è ulteriormente velata e oscurata la penetrazione visiva (– la vendetta stessa rinvia per l’appunto allo stesso problema: «Come può essere il far soffrire una riparazione?»). Si oppone, mi sembra, alla delicatezza, e più ancora alla tartuferia di mansuefatti animali domestici (intendo dire uomini moderni, intendo dire noi), rappresentarsi nella maniera più vigorosa fino a quale grado la crudeltà costituisce la grande gioia festiva della più antica umanità, e sia anzi commista come ingrediente quasi a ognuna delle sue gioie; come ingenuo, d’altro canto, come innocente appare il suo bisogno di crudeltà, e in quale fondamentale misura viene stabilita da essa, come proprietà normale dell’uomo, appunto la «malvagità disinteressata» (o, per dirla con Spinoza, la sympathia malevolens) –: un qualcosa, quindi, al quale la coscienza dice sì di tutto cuore! Per uno sguardo più profondo ci sarebbe forse ancor oggi abbastanza da cogliere di questa antichissima e profondissima gioia festiva dell’uomo; in «Al di là del bene e del male», pp. 117 sgg. (già precedentemente in «Aurora», pp. 17, 68, 102) ho con cautela di tratto richiamato l’attenzione sulla ognora crescente spiritualizzazione e «divinizzazione» della crudeltà, che passa attraverso l’intera storia della civiltà superiore (e, assunta in una accezione significante, addirittura la costituisce). In ogni modo non è poi passato molto tempo da quando non si sapeva immaginare nozze principesche e feste popolari in grandissimo stile senza esecuzioni capitali, supplizi e fors’anche un autodafé, e neppure un aristocratico governo di casa senza individui sui quali si potesse senza alcuno scrupolo scatenare la propria malvagità e le proprie beffe crudeli (– si ricordi per esempio don Chisciotte alla corte della duchessa: leggiamo oggi l’intero Don Chisciotte con un gusto amaro in bocca, quasi torturandoci, e saremmo per questo quanto mai estranei, oscuri al suo autore e ai suoi contemporanei – costoro lo leggevano, con la più tranquilla coscienza di questo mondo, come il più giocoso dei libri e ne ridevano tanto da morirne). Veder soffrire fa bene, cagionare la sofferenza ancor meglio – è questa una dura sentenza, eppure un’antica, possente, umana – troppo umana sentenza fondamentale, che del resto forse anche le scimmie già sottoscriverebbero: si racconta, infatti, che nell’escogitare bizzarre crudeltà esse già preannunziano largamente l’uomo e ne sono, per così dire, un «preludio». Senza crudeltà non v’è festa: così insegna la più antica, la più lunga storia dell’uomo – e anche nella pena v’è tanta aria di festa!
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– Con questi pensieri, sia detto di sfuggita, non intendo in alcun modo aiutare i nostri pessimisti a tirare nuova acqua ai loro stridenti e cigolanti mulini del tedio vitale; al contrario dev’essere espressamente attestato che allorquando l’umanità non si vergognava ancora della sua crudeltà, la vita era sulla terra più serena di oggi che esistono pessimisti. L’offuscarsi del cielo al di sopra dell’uomo è andato aumentando in rapporto al fatto che è cresciuta la vergogna dell’uomo dinanzi all’uomo. Lo stanco sguardo pessimista, la sfiducia per l’enigma della vita, il gelido no della nausea per la vita – non sono questi i segni delle età più malvagie del genere umano: anzi, da quelle piante palustri che sono, affiorano alla luce del giorno soltanto quando esiste la palude alla quale appartengono – alludo all’infrollimento e alla demoralizzazione morbosi, a cagione dei quali la bestia «uomo» finisce per imparare a vergognarsi di tutti i suoi istinti. In cammino verso l’«angelo» (per non usare qui una parola più aspra) l’uomo si è venuto facendo quello stomaco guasto e quella lingua impastata a causa dei quali non soltanto la gioia e l’innocenza dell’animale hanno destato la sua ripugnanza, ma la vita stessa gli è divenuta insipida – cosicché talvolta si pianta davanti a se stesso tappandosi il naso e con papa Innocenzo III fa l’elenco, con aria di condanna, di tutte le sue avversioni («sozzo concepimento, nauseabonda nutrizione nel seno materno, tristizia della materia da cui l’uomo si è sviluppato, ributtante fetore, secrezione di sputo, urina ed escrementi»). Ora che la sofferenza deve sempre mettersi in mostra come il primo degli argomenti contro l’esistenza, come il suo peggior punto interrogativo, si farà bene a ricordarsi dei tempi in cui opposto era il nostro giudizio, poiché non si voleva fare a meno di suscitar dolore e si vedeva in ciò una magia di prim’ordine, una vera e propria esca di seduzione alla vita. Forse allora – sia detto a consolazione dei delicati – il dolore non faceva ancora così male come oggi; per lo meno potrà giungere a questa conclusione un medico il quale abbia curato negri (prendendo questi come rappresentanti dell’uomo preistorico –) in gravi casi di infiammazione interna, che portano alle soglie della disperazione anche l’europeo della miglior complessione organica – questo non succede nei negri. (La curva della tolleranza umana al dolore sembra scendere in realtà straordinariamente e quasi all’improvviso, non appena si abbia dietro di sé i primi diecimila o dieci milioni di individui di una civiltà superiore; e quanto a me non ho alcun dubbio che, a paragone di una notte di dolore di una sola isterica donnetta letterata, le sofferenze di tutti gli animali insieme, i quali sono stati fino a oggi interrogati col coltello ai fini di scientifiche risposte, non vanno semplicemente prese in considerazione). Forse è persino lecito ammettere la possibilità che anche quel piacere della crudeltà non debba essere propriamente estinto: esso avrebbe solo bisogno di una certa sublimazione e assottigliamento, in relazione al fatto che oggi il dolore fa più male; in particolare dovrebbe presentarsi tradotto nell’elemento immaginativo e mentale, e adornato di nomi così semplicemente innocui da non destare alcun sospetto anche nella più delicata coscienza di attore (la «compassione tragica» è uno di questi nomi; un altro è «les nostalgies de la croix»). Ciò che propriamente fa rivoltare contro la sofferenza non è la sofferenza in sé, bensì l’assurdità del soffrire: ma un tale assurdo soffrire non ci fu in generale né per il cristiano, che ha trasferito all’interno della sofferenza tutto un segreto macchinario di salvazione, né per l’uomo semplice di più antiche età, che sapeva spiegarsi ogni sofferenza in relazione a spettatori o a provocatori di sofferenza. Affinché il dolore occulto, non scoperto, privo di testimoni potesse essere tolto dal mondo e onestamente negato, si fu allora quasi costretti a inventare dèi ed esseri intermedi di ogni altezza e profondità, qualcosa, insomma, che va errando anche di nascosto, che anche nell’oscurità vede e non si lascia facilmente sfuggire un interessante spettacolo doloroso. Grazie a tali invenzioni, infatti, la vita si scaltrì nello stratagemma, in cui sempre è stata scaltra, di giustificare se stessa, di giustificare il suo «male»; oggi ci sarebbe forse bisogno, per questo, di altre invenzioni ausiliarie (per esempio vita come enigma, vita come problema della conoscenza). «È giustificato ogni male il cui spettacolo è edificante per un dio»: così suonava la primordiale logica del sentimento – e in realtà fu soltanto quella primordiale? Gli dèi pensati come amici di spettacoli crudeli – oh, fino a che punto anche questa antichissima concezione emerge ancora all’interno della nostra umanizzazione europea! ci si può eventualmente consigliare, al riguardo, con Calvino e Lutero. Comunque è certo che ancora i Greci non sapevano offrire ai loro dèi nessun altro più gradevole companatico alla loro beatitudine, se non le gioie della crudeltà. Con quali occhi credete voi che Omero faccia guardare dall’alto sui destini degli uomini i suoi dèi? Quale ultimo senso ebbero in fondo le guerre troiane e simili tragiche atrocità? Non si può avere al riguardo il minimo dubbio: erano concepite come spettacoli di festa per gli dèi: e in quanto il poeta è in questo, più degli altri uomini, di natura «divina», erano altresì spettacoli di festa per i poeti... In maniera non diversa, più tardi, i filosofi greci della morale pensavano guardassero gli occhi degli dèi ancora ai certami morali, all’eroismo e all’autotormentarsi dei virtuosi: l’«Eracle del dovere» era su una scena ed era anche consapevole di trovarvisi; la virtù senza testimoni era per questo popolo di attori qualcosa affatto impensabile. Quella così temeraria, così funesta invenzione dei filosofi, che venne allora per la prima volta operata in Europa, l’invenzione del «libero volere», dell’assoluta spontaneità dell’uomo nel bene e nel male, non dovette soprattutto essere realizzata allo scopo di crearsi un diritto all’idea che l’interesse degli dèi per l’uomo, per la virtù umana, non può esaurirsi mai? Su questa scena terrena non doveva mai mancare il realmente nuovo, tensioni, aggrovigliamenti, catastrofi: un mondo pensato in maniera assolutamente deterministica sarebbe stato per gli dèi indovinabile, e quindi in breve tempo anche fastidioso – motivo questo, a tali amici degli dèi, i filosofi, sufficiente, per non pretendere dagli dèi un siffatto mondo deterministico! L’intera umanità antica è piena di delicati riguardi per lo «spettatore», essendo un mondo essenzialmente pubblico, essenzialmente manifesto, che non sapeva immaginarsi la felicità senza spettatori e feste. – E, come già ho detto, anche nella grande punizione v’è tant’aria di festa!...
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Il sentimento della colpa, della nostra personale obbligazione, per riprendere il corso della nostra indagine, ha avuto, come abbiamo visto, la sua origine nel più antico e originario rapporto tra persone che esista, nel rapporto tra compratore e venditore, creditore e debitore: qui, per la prima volta, si fece innanzi persona a persona, qui per la prima volta si misurò persona a persona. Non si è ancora trovato un grado di civiltà tanto basso in cui non si lasciasse porre in evidenza già qualcosa di questo rapporto. Stabilire prezzi, misurare valori, escogitare equivalenti, barattare – ciò ha preoccupato il primissimo pensiero dell’uomo in una tale misura, che in un certo senso pensare è tutto questo: qui è stata coltivata la più antica sorta di perspicacia, qui si potrebbe supporre il primo avvio dell’umano orgoglio, del suo sentimento di primato rispetto agli altri animali. Forse la nostra parola «Mensch» (manas) esprime ancora qualcosa appunto di questo senso di sé: l’uomo si caratterizzava come la creatura che misura valori, detta valori e stabilisce misure in quanto «animale apprezzante in sé». Compera e vendita, unitamente ai loro accessori psicologici, sono più antiche degli stessi cominciamenti di qualsiasi forma d’organizzazione sociale e di qualsivoglia consociazione: il germogliante sentimento di scambio, contratto, debito, diritto, dovere, compensazione, si è invece in primo luogo trasferito dalla forma più rudimentale del diritto personale ai più grezzi e più primitivi complessi comunitari (nei loro rapporti con complessi simili), assieme alla consuetudine di confrontare potenza a potenza, di stabilirne la misura e farne il computo. L’occhio era ormai adattato a questa prospettiva: e con quella rozza consequenzialità che è caratteristica del pensiero della più antica umanità tardo a muoversi, ma poi spietato nel procedere in un’unica direzione, si giunse ben presto, con grossa generalizzazione, a «ogni cosa ha il suo prezzo; tutto può essere comprato» – al più antico e ingenuo canone morale della giustizia, al principio di ogni «bontà d’animo», di ogni «equità», di ogni «buona volontà», di ogni «obiettività» sulla terra. Giustizia è, in questo primo gradino, la buona volontà, tra uomini di potenza pressappoco eguale, di mettersi reciprocamente d’accordo, di nuovamente «intendersi» mediante un compromesso – e in ordine a uomini meno potenti, di costringere questi a un mutuo compromesso.
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Sempre misurata sul metro dei primordi (i quali primordi esistono del resto in ogni tempo o sono ancora una volta possibili) anche la comunità sta coi suoi membri in quell’importante, fondamentale rapporto che è proprio del creditore verso i suoi debitori. Si vive in una comunità, si godono i vantaggi di una comunità (oh quali vantaggi! talora oggi li sottovalutiamo), si abita protetti, ben trattati, in pace e fiducia, tranquilli relativamente a certi danneggiamenti e ostilità ai quali l’uomo al di fuori, il «proscritto», è esposto – un tedesco sa che cosa voglia significare originariamente «Elend» (ēlend) –, dal momento che proprio relativamente a questi danneggiamenti e ostilità ci si è impegnati e obbligati con la collettività. Che cosa si verificherà nell’altro caso? La comunità, il creditore truffato si farà pagare più profumatamente possibile, ci si può contare. È qui in questione per lo meno il danno immediato che il danneggiante ha cagionato: prescindendo da questo, il delinquente è soprattutto un «violatore», uno che ha trasgredito al contratto e alla parola nei confronti del tutto, per quanto riguarda tutti i beni e le comodità della vita comunitaria, di cui fino a quel momento ha partecipato. Il delinquente è un debitore che non soltanto non rifonde le utilità e gli anticipi a lui corrisposti, ma addirittura mette le mani addosso al suo creditore: perciò, a partire da quel momento, non solo resta privo di tutti questi beni e vantaggi – ma è altresì ammonito, a questo punto, sull’importanza che hanno questi beni. La collera del creditore danneggiato, della comunità, lo restituisce allo stato selvaggio ed eslege da cui fino a quel momento era stato preservato: lo espelle da sé – e ogni sorta d’ostilità può ora scatenarsi su di lui. La «pena» null’altro è, a questo grado di civilizzazione, se non la riproduzione, il mimus del comportamento normale contro l’odiato, reso inerme, soggiogato nemico, il quale ha perduto non solo ogni diritto e tutela, sibbene anche ogni possibilità di grazia; dunque il diritto di guerra e la festa di vittoria del Væ victis! in tutta la sua spietatezza e crudeltà – di qui si spiega come la guerra stessa (compreso il culto sacrificale dei guerrieri) ha fornito tutte le forme nelle quali la pena si presenta nella storia.
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Col crescere della potenza una comunità non prende più tanto sul serio le mancanze dei singoli, poiché essi non possono più essere considerati da questa, nella stessa misura di prima, pericolosi e eversori in ordine alla sussistenza del tutto: il malfattore non viene più «posto al bando» e scacciato, l’ira collettiva non può più scatenarsi in guisa così sfrenata come per l’innanzi – al contrario, da quel momento, il malfattore viene prudentemente difeso e tutelato da parte del tutto nei confronti di questa collera e particolarmente di quella dei direttamente danneggiati. Il compromesso con la collera di quanti sono stati principalmente colpiti dal misfatto; gli sforzi per circoscrivere il caso ed evitare una più larga o addirittura generale partecipazione e inquietudine; tentativi di trovare equivalenti e di comporre l’intera faccenda (la compositio); soprattutto la volontà, manifestantesi in forma sempre più determinata, di considerare ogni mancanza in qualche modo estinguibile, di isolare dunque, tra loro, almeno in una certa misura, il delinquente e la sua azione – sono questi i tratti che si sono sempre più chiaramente impressi nell’ulteriore sviluppo del diritto penale. Crescendo la potenza e l’autocoscienza di una comunità, anche il diritto penale va sempre mitigandosi; ogni indebolimento e più grave pericolo di quella porta nuovamente alla luce forme più dure di questo. Via via che è divenuto più ricco, il «creditore» si è fatto sempre più umano: alla fine l’entità dei danni che egli può sopportare senza soffrirne è persino la misura della sua ricchezza. Non sarebbe inconcepibile una consapevolezza di potenza della società, in cui essa potesse concedersi il più nobile lusso che per lei esista – lasciare impuniti i suoi offensori. «Che m’importa dei miei parassiti?» potrebbe dire allora. «Che vivano e prosperino: sono ancora abbastanza forte per permettermelo!»... La giustizia, che ebbe il suo inizio con «tutto è suscettibile di saldo, tutto deve essere saldato», finisce per perdonare e per lasciar andare l’insolvente – finisce, come ogni buona cosa sulla terra, per sopprimere se stessa. Questa autosoppressione della giustizia: è noto con quale bel nome essa viene chiamata – grazia; essa resta, come va da sé, la prerogativa del più potente, meglio ancora, il suo al di là del diritto.
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– Una parola di ripulsa, ora, contro tentativi recentemente apparsi di ricercare su un terreno completamente diverso l’origine della giustizia – quello, cioè, del ressentiment. Diciamolo prima all’orecchio degli psicologi, posto che abbiano davvero voglia di studiare una buona volta da vicino anche il ressentiment: questa pianta fiorisce ora quanto mai splendida tra anarchici e antisemiti, come del resto è sempre fiorita, nascostamente, simile alla viola, per quanto con altro profumo. E come da simile deve sempre necessariamente venir fuori simile, così non farà meraviglia veder nuovamente scaturire, proprio da siffatti ambienti, tentativi, come già spesso ce ne sono stati – cfr. sopra, p. 247 – di consacrare la vendetta sotto il nome di giustizia – come se la giustizia non fosse altro, in fondo, se non un ulteriore sviluppo del sentimento proprio di chi si sente offeso – e in seguito di rendere onore con la vendetta agli affetti di reazione, in generale e a tutti quanti. Su quest’ultima cosa sarei l’ultimo a scandalizzarmi: in ordine all’intero problema biologico (in rapporto al quale il valore di quegli affetti è stato fino a oggi sottovalutato) mi sembrerebbe persino un merito. Ciò su cui mi limito a richiamare l’attenzione è la circostanza che è lo stesso spirito del ressentiment ciò da cui si sviluppa questa nuova nuance di scientifica rettitudine (a favore dell’odio, dell’invidia, del livore, del sospetto, del rancore, della vendetta). Questa «scientifica rettitudine», infatti, fa subito una pausa e fa posto ad accenti di mortale inimicizia e di prevenzione, non appena si tratti di un altro gruppo di affetti che, secondo il mio modo di vedere, hanno un valore biologico molto più alto degli affetti di reazione e hanno quindi più che mai meritato di essere scientificamente apprezzati e tenuti in gran conto: vale a dire gli affetti propriamente attivi, come la brama di dominio, la brama di possesso e simili. (E. Dühring, «Valore della vita», «Corso di filosofia»; e in fondo dappertutto). Tanto va detto contro questa tendenza in generale: ma per quanto concerne il particolare principio di Dühring, che la terra natale della giustizia sia da ricercarsi sul terreno del sentimento di reazione, occorre contrapporgli, per amore di verità, con brusco rovesciamento, quest’altro principio: l’ultimo terreno a essere conquistato dallo spirito della giustizia è il terreno del sentimento di reazione! Se realmente accade che l’uomo giusto resti giusto persino verso il suo offensore (e non soltanto freddo, misurato, estraneo, indifferente: essere giusti è sempre un comportamento positivo), se persino sotto l’urto di una offesa, di un motteggio, di un sospetto personale, l’alta, chiara, tanto profonda quanto mite di sguardo, obiettività di un occhio imparziale, di un occhio giudicante non si turba, ebbene, è questo un saggio di perfezione e di suprema maestria sulla terra – un qualcosa, addirittura, che prudentemente qui non ci si deve aspettare, a cui in ogni caso non si deve credere troppo facilmente. Certo è, nella media dei casi, che persino nelle persone più rette basta già una piccola dose di carica aggressiva, di cattiveria, d’insinuazione, per cacciar loro il sangue negli occhi e l’imparzialità fuori dagli occhi. L’uomo attivo, aggressivo, prevaricante è pur sempre cento passi più vicino alla giustizia dell’uomo che reagisce; per lui, appunto, non è assolutamente necessario valutare falsamente e pregiudizialmente il suo oggetto, come invece fa l’uomo che reagisce. Effettivamente, per questa ragione, l’uomo aggressivo, in quanto più forte, più coraggioso, più nobile, ha avuto in ogni tempo a proprio vantaggio anche lo sguardo più libero, la migliore coscienza: al contrario, già s’indovina chi ha in genere sulla coscienza l’invenzione della «cattiva coscienza» – l’uomo del ressentiment! Ma infine guardiamo intorno a noi nella storia: in quale sfera si è reso sino a oggi familiare tutto quanto l’esercizio del diritto e altresì la vera e propria esigenza del diritto sulla terra? Forse nella sfera degli uomini che reagiscono? Per nulla affatto: sibbene in quella degli attivi, forti, spontanei, aggressivi. Da un punto di vista storico, il diritto rappresenta sulla terra – sia detto a dispetto del già menzionato agitatore (che ebbe a confessare una volta riguardo a se stesso: «La dottrina della vendetta è passata attraverso tutti i miei lavori e i miei travagli come il filo rosso della giustizia»)17 – appunto la lotta contro i sentimenti di reazione, la guerra con essi da parte di potenze attive e aggressive, che usavano in parte la loro forza nell’imporre freno e misura al disfrenarsi del pathos reattivo e nel costringere a un accordo. Ovunque viene esercitata giustizia e giustizia viene mantenuta, si vede una potenza più forte, in rapporto ai più deboli a essa sottostanti (siano essi gruppi o singoli individui), cercare mezzi per porre fine all’insensato infuriare, tra costoro, del ressentiment, in parte strappando alle mani della vendetta l’oggetto del ressentiment; in parte ponendo dal canto suo, al posto della vendetta, la lotta contro i nemici della pace e dell’ordine; in parte escogitando, proponendo, talora imponendo accordi; in parte innalzando a norma certe forme di compensazione del danno alle quali, da allora in poi, viene rimandato una volta per tutte il ressentiment. Ma l’elemento più decisivo, quel che la suprema potestà fa e attua contro la strapotenza dei sentimenti avversi e pervicaci – così fa sempre, non appena è in qualche modo abbastanza forte per questo –, è la statuizione della legge, la chiarificazione imperativa di quel che deve in generale valere ai suoi occhi come permesso e legittimo e di quel che invece deve valere come proibito e illegittimo: trattando, dopo la statuizione della legge, infrazioni e atti d’arbitrio di singoli o di interi gruppi come delitti contro la legge, come una rivolta contro la stessa suprema potestà, questa storna il sentimento dei suoi soggetti dal danno prossimo, cagionato da tali misfatti, e raggiunge in tal modo a lungo andare il contrario di ciò che ogni vendetta vuole, intenta com’è ad attenersi unicamente al punto di vista del danneggiato e a far valere soltanto quello –; d’ora innanzi, l’occhio si esercita a un apprezzamento sempre più impersonale dell’azione, perfino l’occhio dello stesso danneggiato (sebbene per ultimo, come già si è notato). – Conformemente a ciò, solo a partire dalla statuizione della legge esiste «diritto» e «torto» (e non, come vuole Dühring, a partire dall’atto lesivo). Parlare in sé di diritto e torto è cosa priva di ogni senso; in sé offendere, far violenza, sfruttare, annientare non può naturalmente essere nulla di «illegittimo», in quanto la vita si adempie essenzialmente, cioè nelle sue funzioni fondamentali, offendendo, facendo violenza, sfruttando, annientando e non può essere affatto pensata senza questo carattere. C’è persino qualcosa di più serio che dobbiamo ancora confessare a noi stessi: che dal supremo punto di vista biologico, stati di diritto possono essere sempre soltanto stati eccezionali, essendo parziali restrizioni della peculiare volontà di vivere che ha di mira la potenza, e subordinandosi in quanto strumenti particolari allo scopo complessivo di tale volontà: come strumenti cioè per creare più grandi unità di potenza. Un ordinamento giuridico pensato come sovrano e generale, non come strumento nella lotta di complessi di potenza, bensì come strumento contro ogni lotta in generale, pressappoco secondo il modello comunista di Dühring, che ogni volontà debba considerare eguale ogni volontà, sarebbe un principio ostile alla vita, un ordinamento distruttore e disgregatore dell’uomo, un attentato all’avvenire dell’uomo, un indice di stanchezza, una via traversa verso il nulla. –
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Ancora una parola, a questo punto, sull’origine e lo scopo della pena – due problemi che si dissociano o dovrebbero andar dissociati: purtroppo vengono spesso rifusi in un solo problema. Come hanno proceduto, in questo caso, i genealogisti della morale sino a oggi? Ingenuamente, come sempre hanno fatto –: scoprono nella pena un qualsivoglia «scopo», per esempio vendetta o intimidazione, e indi, ingenuamente, collocano questo scopo all’origine, come causa fiendi della pena, e – la cosa è fatta. Ma «il fine nel diritto» è tra tutti l’ultimo elemento utilizzabile per la storia genetica del diritto: anzi per ogni specie di storia non esiste alcun principio più importante di quello che a prezzo di tanta fatica è stato conquistato, e che altresì doveva essere conquistato – il principio, cioè, che la causa genetica di una cosa e la sua finale utilità, nonché la sua effettiva utilizzazione e inserimento in un sistema di fini, sono fatti toto cœlo disgiunti l’uno dall’altro; che qualche cosa d’esistente, venuta in qualche modo a realizzarsi, è sempre nuovamente interpretata da una potenza a essa superiore in vista di nuovi propositi, nuovamente sequestrata, rimanipolata e adattata a nuove utilità: che ogni accadimento nel mondo organico è un sormontare, un signoreggiare e che a sua volta ogni sormontare e signoreggiare è un reinterpretare, un riassettare, in cui necessariamente il «senso» e lo «scopo» esistiti sino a quel momento devono offuscarsi o del tutto estinguersi. Per bene che si sia compresa l’utilità di un qualsiasi organo fisiologico (o anche di una istituzione giuridica, di un costume sociale, di un uso politico, di una determinata forma nelle arti o nel culto religioso), non si è perciò stesso ancora compreso nulla relativamente alla sua origine: comunque ciò possa suonare molesto e sgradevole a orecchie più vecchie – da tempo immemorabile, infatti, si è creduto di comprendere nello scopo comprovabile, nell’utilità di una cosa, di una forma, di un’istituzione, anche il suo fondamento d’origine, e così l’occhio sarebbe stato fatto per vedere, la mano per afferrare. Così ci si è figurata la pena come fosse stata inventata per castigare. Ma tutti gli scopi, tutte le utilità sono unicamente indizi del fatto che una volontà di potenza ha imposto la sua signoria su qualcosa di meno potente e gli ha impresso, sulla base del proprio arbitrio, il senso di una funzione; e l’intera storia di una «cosa», di un organo, di un uso può essere in tal modo un’ininterrotta catena di segni che accenna a sempre nuove interpretazioni e riassestamenti, le cui cause non hanno neppur bisogno di essere in connessione tra loro, anzi talvolta si susseguono e si alternano in guisa meramente casuale. «Evoluzione» di una «cosa», di un uso, di un organo, quindi, è tutt’altro che il suo progressus verso una meta, e ancor meno un progressus logico e di brevissima durata, raggiunto con il minimo dispendio di forza e di beni – bensì il susseguirsi di processi d’assoggettamento svolgentisi in tale cosa, più o meno spinti in profondità, più o meno indipendenti l’uno dall’altro, con l’aggiunta delle resistenze che continuamente si muovono contro, delle tentate metamorfosi di forma a scopo di difesa e di reazione, nonché degli esiti di fortunate controazioni. La forma è fluida, ma il «senso» lo è ancor di più... Anche all’interno di ogni singolo organismo le cose non stanno diversamente: a ogni sostanziale sviluppo del tutto, si sposta anche il «senso» dei singoli organi – talora il loro parziale andare in rovina, la loro diminuzione numerica (per esempio attraverso l’annientamento delle parti intermedie) può essere un segno di crescente forza e perfezione. Volevo dire: anche il parziale divenire inutile, l’intristirsi e il degenerare, lo smarrirsi di senso e conformità al fine, la morte, insomma, rientrano nelle condizioni del progressus reale: il quale compare come tale sempre in figura di volontà e cammino inteso a una più grande potenza e sempre si attua a spese di innumerevoli potenze più piccole. La grandezza di un «progresso» si misura persino alla stregua di tutto ciò che ha dovuto essergli sacrificato; l’umanità, in quanto massa sacrificata al rigoglio di una singola più forte specie umana – questo sarebbe progresso... Questo capitale punto di vista della metodologia storica tanto più è da me messo in rilievo, in quanto contrasta fondamentalmente all’istinto e al gusto del tempo appunto dominanti, i quali preferirebbero patteggiare, anziché con la teoria di una volontà-potenza svolgentesi in ogni accadere, piuttosto con l’assoluta casualità e persino con la meccanicistica assurdità di ogni accadimento. L’idiosincrasia democratica verso tutto ciò che comanda e vuol comandare, il moderno «misarchismo» (per foggiare una brutta parola per una brutta cosa) si è poco alla volta a tal punto contraffatto e travestito in termini intellettuali, estremamente intellettuali, da insinuarsi, da potersi insinuare oggi, passo su passo, già nelle scienze più rigorose e apparentemente più oggettive: anzi mi sembra che abbia già in suo potere l’intera fisiologia e teoria della vita, a danno loro, come va da sé, avendo fatto sparire abilmente da esse una nozione fondamentale, quella dell’attività nel senso proprio. Sotto la pressione di codesta idiosincrasia si mette invece in primo piano l’«adattamento», vale a dire una attività di second’ordine, una semplice reattività, anzi si è definita la vita stessa come un intrinseco adattamento, sempre più finalistico, a circostanze esteriori (Herbert Spencer). Ma viene disconosciuta, in tal modo, l’essenza della vita, la sua volontà di potenza; ci si lascia sfuggire la priorità di principio che hanno le forze spontanee, aggressive, sormontanti, capaci di nuove interpretazioni, di nuove direzioni e plasmazioni, alla cui efficacia l’«adattamento» viene solo dietro; si nega così nell’organismo il ruolo egemonico esercitato dai più alti detentori delle sue funzioni, nei quali la volontà vitale si manifesta in guisa attiva e informante. Si rammenti quel che Huxley ha rimproverato a Spencer – il suo «nichilismo amministrativo»: ma si tratta di molto più che d’«amministrare»...
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– Per tornare all’argomento, vale a dire alla pena, occorre distinguere in essa due cose: da un lato, la sua relativa durevolezza, l’uso, l’atto, il «dramma», una certa rigorosa successione di procedure, dall’altro, la sua fluidità, il significato, lo scopo, l’attesa, che si connette all’esecuzione di tali procedure. A questo proposito è senz’altro presupposto, per analogiam, coerentemente al punto di vista principale, testé svolto, della metodologia storica, che la procedura stessa sarà qualcosa di più antico, di anteriore alla sua utilizzazione in rapporto alla pena; che quest’ultima è stata dapprima introdotta e interpretata all’interno della procedura (già da un pezzo esistente, ma usata in un altro senso); insomma che le cose non stanno così come le hanno fino a oggi ammesse i nostri ingenui genealogisti della morale e del diritto, che si immaginavano tutti quanti la procedura come fosse escogitata ai fini della pena, così come ci si immaginava, una volta, la mano escogitata allo scopo d’afferrare. Per quanto concerne quell’altro elemento della pena, quello fluido, il suo «significato», il concetto di «pena» non presenta più, in realtà, in uno stato molto tardo della civiltà (per esempio nell’Europa odierna), un unico significato, bensì un’intera sintesi di «significati», la precedente storia della pena in generale, la storia della sua utilizzazione ai fini più diversi finisce per cristallizzarsi in una sorta di unità, che è difficile a risolversi, difficile ad analizzarsi e, occorre sottolinearlo, del tutto impossibile a definirsi. (È oggi impossibile dire esattamente per quale ragione si addiviene alla pena: tutte le nozioni, in cui si condensa semioticamente un intero processo, si sottraggono alla definizione; definibile è soltanto ciò che non ha storia). In uno stadio anteriore codesta sintesi di «significati» appare invece più dissolubile, nonché più scomponibile; ci si può ancora rendere conto di come, per ogni singolo caso, gli elementi della sintesi modifichino la loro valenza e quindi il loro ordine, sicché ora questo, ora quell’elemento risalta e domina a spese degli altri, anzi talvolta un elemento (per esempio, lo scopo dell’intimidazione) sembra sopprimere tutti quanti gli elementi restanti. Per dare almeno un’idea di come sia incerto, suppletivo, accidentale il «significato» della pena e di quanto una sola e identica procedura possa essere utilizzata, interpretata, riassettata in vista di propositi radicalmente diversi: ecco qui lo schema che mi si è venuto determinando sulla base stessa di un materiale relativamente esiguo e casuale. Pena come neutralizzazione di pericolosità, come impedimento di un ulteriore danno. Pena come risarcimento del danno al danneggiato, in qualsivoglia forma (anche in quella di una compensazione d’affetti). Pena come isolamento di un’alterazione d’equilibrio, per prevenire un propagarsi di tale alterazione. Pena come instillazione di timore di fronte a coloro che determinano e dànno esecuzione alla pena. Pena come una sorta di compensazione per i vantaggi che il delinquente ha goduto fino a quel momento (per esempio, ove venga utilizzato come schiavo di miniera). Pena come segregazione di un elemento in via di degenerazione (talora di un intero ramo, come avviene secondo il diritto cinese:18 come mezzo, quindi, per conservare la purità della razza o rendere stabile un certo tipo sociale). Pena come festa, vale a dire come soverchiamento e derisione di un nemico finalmente abbattuto. Pena come uno scolpire nella memoria, sia per colui che subisce il castigo – il cosiddetto «miglioramento», sia per i testimoni dell’esecuzione. Pena come corresponsione di una retribuzione, riservatasi dalla potenza che tutela il malfattore dagli eccessi della vendetta. Pena come compromesso con lo stato di natura della vendetta, in quanto quest’ultimo viene ancora sostenuto da stirpi possenti e rivendicato come privilegio. Pena come dichiarazione di guerra e misura di guerra contro un nemico della pace, della legge, dell’ordine, dell’autorità, che viene combattuto con mezzi, quali appunto fornisce la guerra, in quanto pericoloso per la comunità, in quanto violatore di patti relativi ai presupposti di questa, in quanto ribelle, traditore e perturbatore della pace. –
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Certo questo elenco non è completo; evidentemente la pena è sovraccarica d’ogni specie di vantaggi. Tanto più agevolmente sarà consentito sottrarle una presunta utilità, che a dire il vero, nella coscienza popolare, è considerata come quella più essenziale – la fiducia nella pena, che oggi per molteplici ragioni vacilla, appunto in questa trova ancor sempre il suo più valido appoggio. Il valore della pena deve essere quello di destare nel colpevole il sentimento della colpa, in essa si cerca il caratteristico instrumentum di quella reazione psichica che prende il nome di «cattiva coscienza», «rimorso». Ma in tal modo, anche per quanto riguarda i nostri giorni, si continua a bistrattare la realtà e la psicologia: ancora di più, poi, se si considera la più lunga storia dell’uomo, la sua preistoria! L’autentico rimorso è qualcosa di estremamente raro proprio tra delinquenti e galeotti, le prigioni, i penitenziari non sono i luoghi d’incubazione in cui prospera di preferenza questa specie di vermi roditori – in ciò concordano tutti gli osservatori coscienziosi, che in molti casi esprimono assai a malincuore e contro i loro personalissimi desideri un giudizio del genere. Secondo una considerazione di massima, la pena indurisce e raggela; concentra; acuisce il senso di estraneità; rinsalda la forza di resistenza. Se avviene che essa frantumi l’energia e determini miserevole prostrazione e autoavvilimento, un siffatto risultato è sicuramente ancor meno confortante dell’effetto medio della pena, che è caratterizzato come tale da un’arida, tetra gravità. Ma se pensiamo a quei millenni anteriori alla storia dell’uomo, si potrà senza difficoltà esprimere l’opinione che precisamente dalla pena è stata bloccata, nella maniera più netta, l’evoluzione del sentimento di colpa – almeno per quanto riguarda le vittime su cui si scatenava la potestà punitiva. E non sottovalutiamo in quale misura, proprio per lo spettacolo delle stesse procedure giudiziarie ed esecutive, il criminale si trova nell’impossibilità di avvertire come riprovevole la sua azione, la specie del suo atto in sé: vede infatti esercitata al servizio della giustizia esattamente la stessa specie di atti, e quindi approvata, esercitata con tranquilla coscienza: così spionaggio, raggiri, corruzione, tranelli, l’intera arte capziosa e scaltra dei poliziotti e degli accusatori, e poi rapina, sopraffazione, oltraggio, prigionia, tortura, assassinio, sistematici e neppure scusati dalla passione, quali si stampano nei diversi tipi di pena – tutte azioni quindi in nessun modo riprovate e condannate in se stesse dai propri giudici, bensì soltanto sotto un certo riguardo e una utilizzazione pratica. La «cattiva coscienza», questa pianta estremamente inquietante e interessante della nostra vegetazione terrestre, non è allignata su codesto terreno – in realtà, nella coscienza di coloro che giudicano e puniscono non si è avuta mai, neppure per il più lungo decorso temporale, la minima avvertenza del fatto che si aveva a che fare con un «colpevole». Bensì con un cagionatore di danni, con un irresponsabile frammento di fatalità. E quello stesso su cui più tardi piombava la pena, ancora una volta come un frammento di fatalità, non ne risentiva alcuna «afflizione intima» diversa da quella che si prova nell’improvviso sopraggiungere di un qualcosa d’incalcolabile, di uno spaventoso evento naturale, di un macigno che precipita e stritola senza che vi sia più contro di esso possibilità di lotta.
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In guisa insidiosa accadde una volta qualcosa del genere alla coscienza di Spinoza (a dispetto dei suoi interpreti, che prodigano davvero tutti i loro sforzi per fraintenderlo su questo punto, come fa a esempio Kuno Fischer), allorché un pomeriggio, intoppando in chissà quale ricordo, si sprofondò nel problema di che cosa fosse propriamente sopravvissuto, per lui in particolare, del famoso morsus conscientiæ – per lui che aveva confinato bene e male tra le immaginazioni umane e aveva rabbiosamente difeso l’onore del suo «libero» Dio contro quei bestemmiatori giunti al punto d’affermare che Dio determina ogni effetto sub ratione boni («ma questo significherebbe sottomettere Dio al destino e sarebbe invero la massima tra tutte le assurdità» –).19 Il mondo, per Spinoza, era retrocesso nuovamente in quella innocenza, in cui si trovava prima che fosse escogitata la cattiva coscienza: che ne era stato allora del morsus conscientiæ? «L’opposto del gaudium – finì per dire a se stesso – una tristezza accompagnata dalla rappresentazione di un fatto trascorso che ha avuto un esito contrario a ogni aspettativa». Eth., III, propos. XVIII, schol. I, II. I rei di malefatte, raggiunti dalla pena, hanno per millenni avvertito il loro «fallo» in maniera non diversa da Spinoza: «Inaspettatamente, a questo punto, qualcosa è andato storto», non già: «Questo non avrei dovuto farlo» –; costoro si sono assoggettati alla pena come ci si assoggetta a una malattia o a una disgrazia o alla morte, con quell’impavido fatalismo senza ribellione grazie al quale, per esempio, ancor oggi i Russi sono in vantaggio su noi occidentali nel trattare la vita. Se mai vi fu allora una critica dell’azione, fu l’accortezza a esercitare una critica sull’azione: indubbiamente, dobbiamo cercare il caratteristico effetto della pena soprattutto in un aguzzarsi dell’accortezza, in un prolungarsi della memoria, in una volontà di mettersi d’ora innanzi all’opera con più cautela, con più diffidenza, con più segretezza, visto che per molte cose si è decisamente troppo deboli, in una specie di rettifica del proprio giudizio su se stessi. Ciò che con la pena può complessivamente essere raggiunto nell’uomo e nell’animale è l’aumento della paura, l’aguzzarsi dell’accortezza, il dominio dei desideri: in tal modo la pena ammansisce l’uomo, senza farlo tuttavia «migliore» – si potrebbe, a maggior diritto, affermare il contrario. («Chi guasta s’affina», dice il popolo: in quanto ci si affina, si diventa anche malvagi. Fortunatamente molto spesso si diventa stupidi).
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A questo punto non posso più esimermi dal fornire alla mia particolare ipotesi sull’origine della «cattiva coscienza» una prima provvisoria formulazione: tale ipotesi non si lascia facilmente ascoltare e vuole essere lungamente meditata, vigilata e ponderata. Considero la cattiva coscienza come quella grave malattia in balìa della quale doveva cadere l’uomo sotto la pressione della più radicale tra tutte le metamorfosi che egli abbia mai vissuto – quella metamorfosi in cui si venne a trovare definitivamente incapsulato nell’incantesimo della società e della pace. Non diversamente da quel che deve essere accaduto agli animali acquatici, allorché furono costretti a divenire animali terrestri oppure a perire, si compì la sorte di questi semianimali felicemente adattati allo stato selvaggio, alla guerra, al vagabondaggio, all’avventura – a un tratto tutti i loro istinti furono svalutati e «divelti». Dovettero ormai camminare sulle gambe e «portare se stessi», laddove fino a quel momento venivano portati dall’acqua: una spaventosa pesantezza gravava su di loro. Si sentivano inabili alle funzioni più semplici, per questo nuovo mondo sconosciuto non avevano più le loro antiche guide, gli istinti regolativi, inconsciamente infallibili – erano ridotti, questi infelici, a pensare, dedurre, calcolare, combinare cause ed effetti, alla loro «coscienza», al loro più miserevole organo, il più esposto a ogni errore! Credo che non ci sia mai stato sulla terra un tale senso di miseria, un tale plumbeo disagio – e intanto quegli antichi istinti non avevano cessato tutt’a un tratto di porre le loro esigenze! Solo che difficilmente e di rado era possibile dar loro soddisfacimento: in sostanza, essi dovettero cercarsi nuovi e per così dire sotterranei appagamenti. Tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno, si rivolgono all’interno – questo è quella che io chiamo interiorizzazione dell’uomo: in tal modo soltanto si sviluppa nell’uomo quella che più tardi verrà chiamata la sua «anima». L’intero mondo interiore, originariamente sottile come fosse teso tra due epidermidi, si è stemperato e dischiuso; ha acquistato profondità, latitudine, altezza a misura che è stato impedito lo sfogo dell’uomo all’esterno. Quei terribili bastioni con cui l’organizzazione statale si proteggeva contro gli antichi istinti della libertà – le pene appartengono soprattutto a questi bastioni – fecero sì che tutti codesti istinti dell’uomo selvaggio, libero, divagante si volgessero a ritroso, si rivolgessero contro l’uomo stesso. L’inimicizia, la crudeltà, il piacere della persecuzione, dell’aggressione, del mutamento, della distruzione – tutto quanto si volge contro i possessori di tali istinti: ecco l’origine della «cattiva coscienza». L’uomo che in mancanza di nemici esterni e di resistenze, rinserrato in una opprimente angustia e normalità di costumi, faceva impazientemente a brani se stesso, si perseguitava, si rodeva, si aizzava, si svillaneggiava, quest’animale che si vuole «ammansire» e dà di cozzo alle sbarre della sua cella fino a coprirsi di piaghe, questo essere che manca di qualcosa, che si strugge nella nostalgia del deserto e che deve far di se stesso un’avventura, una camera di supplizi, una selva insicura e perigliosa – questo giullare, questo desioso e disperato prigioniero divenne l’inventore della «cattiva coscienza». Con essa fu però introdotta la più grande e la più sinistra delle malattie, di cui fino a oggi l’umanità non è guarita, la sofferenza che l’uomo ha dell’uomo, di sé: conseguenza di una violenta separazione dal suo passato d’animale, di un salto e di una caduta, per così dire, in nuove situazioni e condizioni esistenziali, di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti, sui quali fino allora riposava la sua forza, il suo piacere e la sua terribilità. Aggiungiamo subito che, d’altro canto, col fatto di un’anima animale rivolta contro se stessa, intenta a prender partito contro se stessa, si era presentato sulla terra qualcosa di tanto nuovo, profondo, inaudito, enigmatico, colmo di contraddizioni e colmo d’avvenire, che l’aspetto della terra ne fu sostanzialmente trasformato. In realtà, ci sarebbero voluti spettatori divini per apprezzare lo spettacolo che in tal modo aveva avuto inizio e di cui non è ancora assolutamente prevedibile la fine – uno spettacolo troppo squisito, troppo meraviglioso, troppo paradossale perché potesse svolgersi assurdamente inosservato su un qualche ridicolo astro! Da allora l’uomo è annoverato tra le più inaspettate e stimolanti mosse azzeccate che gioca il «grande fanciullo» eracliteo,20 si chiami Zeus o caso – desta per sé un interesse, una tensione, una speranza, quasi una certezza, come se con lui qualcosa si annunziasse, qualcosa si preparasse, come se l’uomo non fosse una meta, ma soltanto una via, un episodio, un ponte, una grande promessa...
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Tra i presupposti di questa ipotesi sull’origine della cattiva coscienza rientra in primo luogo la circostanza che quella metamorfosi non è stata né graduale, né volontaria e non si è presentata come uno sviluppo organico all’interno di nuove condizioni, bensì come una frattura, un salto, una costrizione, un’inevitabile fatalità, contro la quale non era possibile lotta e neppure ressentiment. In secondo luogo, peraltro, il fatto che l’inserimento in una stabile forma, di una popolazione sino allora sfrenata e amorfa, allo stesso modo che aveva avuto inizio con un atto di violenza, così soltanto con manifesti atti di violenza venne condotto a termine – che, coerentemente a ciò, il più antico «Stato» apparve come una spaventevole tirannide, un meccanismo stritolatore e senza scrupoli, e proseguì questa sua opera finché una tale materia grezza di popolo e di semianimalità non soltanto venne finalmente bene impastata e resa cedevole, ma anche dotata di una forma. Ho usato la parola «Stato»: va da sé a quale intendo, con ciò, alludere: – un qualsiasi branco d’animali da preda, una razza di conquistatori e di padroni che, guerrescamente organizzata e con la forza di organizzare, pianta senza esitazione i suoi terribili artigli su una popolazione forse enormemente superiore di numero, ma ancora informe, ancora errabonda. In questo modo ha inizio sulla terra lo «Stato»: penso che sia liquidata quella fantasticheria che lo faceva cominciare con un «contratto». Colui che può comandare, che è naturalmente «signore», che si fa innanzi dispotico nell’opera e nell’atteggiamento – che cosa mai ha a che fare con contratti! Con tali esseri non si fanno calcoli, sopraggiungono come il destino, senza un motivo, una ragione, un riguardo, un pretesto, esistono come esiste il fulmine, troppo terribili, troppo repentini, troppo persuasivi, troppo «diversi» per essere anche soltanto odiati. L’opera loro è un’istintiva plasmazione di forme, espressione di forme, sono gli artisti più spontanei, più inconsapevoli che esistano – insomma esiste qualcosa di nuovo, dove essi appaiono, una concrezione di dominio che vive, nella quale parti e funzioni sono circoscritte e messe in connessione, nella quale non trova posto alcuna cosa in cui non sia prima immesso un «senso» in vista del tutto. Essi ignorano che cosa sia colpa, responsabilità, scrupolo, questi organizzatori nati; regna in loro quel terribile egoismo di artisti che ha uno sguardo bronzeo e nell’«opera» si sa giustificato in anticipo per tutta l’eternità, come la madre nel figlio. Non sono costoro quelli nei quali è allignata la «cattiva coscienza» – lo si comprende fin dal principio – tuttavia, senza di loro, non sarebbe cresciuta, questa brutta pianta, essa sarebbe assente se sotto il peso dei loro colpi di martello, della loro violenza di artisti non fosse stato eliminato dal mondo, o per lo meno dalla vista e, per così dire, reso latente un enorme quantum di libertà. Questo istinto della libertà reso latente a viva forza – lo abbiamo già capito – questo istinto della libertà represso, rintuzzato, incarcerato nell’intimo, che non trova infine altro oggetto su cui ancora scaricarsi e disfrenarsi se non se stesso: questo, soltanto questo è, nel suo cominciamento, la cattiva coscienza.
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Ci si guardi dal tributare una scarsa importanza a tutto questo fenomeno per il semplice fatto che esso è, fin dall’inizio, brutto e doloroso. In fondo, la stessa forza attiva che in codesti artisti della violenza, nonché organizzatori, si mostra più grandiosamente all’opera e edifica Stati è per l’appunto quella che qui, interiormente, più esigua, più limitata, volta a ritroso, nel «labirinto del cuore», per dirla con Goethe,21 si crea la cattiva coscienza e costruisce ideali negativi, è precisamente lo stesso istinto della libertà (per esprimermi nel mio linguaggio: la volontà di potenza): solo che la materia su cui si scatena la natura plasticamente formatrice e tirannica di questa forza, è qui appunto lo stesso uomo, il suo intero, animalesco, antico sé – e non, come in quell’altro fenomeno più grande e più appariscente, l’altro uomo, gli altri uomini. Questa segreta tirannide su se stessi, questa crudeltà di artisti, questo piacere di dare a se stessi, quasi greve, riluttante, sofferente materia, una forma, di marchiare a fuoco una volontà, una critica, una contraddizione, un disprezzo, un no, questo sinistro e orrendamente gioioso travaglio di un’anima docilmente scissa in se stessa, che si cagiona dolore per gusto di cagionare dolore, tutta questa «cattiva coscienza» attiva ha infine – già lo si indovina –, in quanto vero e proprio grembo materno di ideali e fantastici eventi, dato altresì alla luce una profusione di nuove sorprendenti bellezze e affermazioni e forse, per la prima volta, innanzitutto la bellezza... Che cosa, infatti, sarebbe «bello», se prima la contraddizione non fosse divenuta cosciente a se stessa, se prima il brutto non avesse detto a se stesso: «Io sono brutto»?... Per lo meno, dopo quest’accenno, sarà meno ambiguo l’enigma: fino a che punto, cioè, in concetti contraddittori come disinteresse, abnegazione, autosacrificio possa essere indicato un ideale, una bellezza; e una cosa d’ora innanzi sarà nota – non ne dubito – vale a dire di quale specie è il piacere che prova il disinteressato, il negatore di se stesso, l’immolatore di sé: questo piacere rientra nella crudeltà. – Tanto andava detto in via provvisoria sull’origine del «non egoistico» in quanto valore morale e sulla delimitazione del terreno da cui è germogliato questo valore: soltanto la cattiva coscienza, soltanto la volontà di svillaneggiare se stessi fornisce il presupposto per il valore del non egoistico. –
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È una malattia, la cattiva coscienza, non v’è dubbio, ma una malattia come è una malattia la gravidanza. Ricerchiamo le condizioni nelle quali questa malattia è pervenuta al suo apice più terribile e sublime – e vedremo che cosa propriamente ha fatto in tal modo il suo primo ingresso nel mondo. Ma a tal uopo occorre un vasto respiro – e dobbiamo tornare innanzitutto ancora una volta a un punto di vista anteriore. Il rapporto di diritto privato tra il debitore e il suo creditore, di cui già a lungo si è discorso, è stato ancora una volta interpretato, e per la verità in una maniera estremamente notevole e coscienziosa sotto il profilo storico, all’interno di un rapporto in cui esso risulta per noi moderni forse del tutto incomprensibile: del rapporto, cioè, intercorrente tra i contemporanei e i loro progenitori. Nell’àmbito dell’originaria comunità di stirpi – parliamo dei primordi – la generazione vivente riconosce ogni volta un’obbligazione giuridica nei confronti di quella più antica, fondatrice della stirpe (e in nessun modo un semplice vincolo sentimentale: non senza ragione si potrebbe perfino negare in generale quest’ultimo per il più lungo periodo della specie umana). Domina qui la persuasione che la specie unicamente sussiste grazie ai sacrifici e alle opere degli antenati – e che questi devono essere ripagati loro con sacrifici e opere: si riconosce, quindi, un debito che continua a crescere costantemente per il fatto che questi avi, perpetuando la loro esistenza come spiriti possenti, non cessano di assicurare alla specie nuovi vantaggi e prestiti da parte della loro forza. Gratuitamente forse? Ma non esiste alcun «gratuitamente» per quelle età rozze e «spiritualmente povere». Che cosa si può dar loro in contraccambio? Sacrifici (inizialmente per il nutrimento, nel senso più grossolano), feste, tempietti, atti di omaggio, soprattutto obbedienza – tutti gli usi infatti, in quanto opera dei progenitori, sono anche prescrizioni e comandi loro –: si dà mai abbastanza a essi? Tale sospetto permane e cresce: di tempo in tempo esso impone un grande riscatto in blocco, un qualche mostruoso indennizzo al «creditore» (il famigerato sacrificio del primogenito, per esempio, sangue, sangue umano in ogni caso). Il timore per l’antenato e per la sua potenza, la coscienza d’un debito verso di lui cresce di necessità, secondo questa specie di logica, nella stessa esatta misura in cui aumenta la potenza della stirpe medesima, nella misura in cui la stessa stirpe diventa sempre più vittoriosa, più autonoma, più onorata, più temuta. Non già, caso mai, l’opposto! Ogni passo verso il depotenziamento della stirpe, tutte le eventualità miserabili, tutti i segni di degenerazione, di dissoluzione imminente diminuiscono sempre, invece, anche il timore dinanzi allo spirito del proprio fondatore e determinano una rappresentazione sempre più esigua della sua accortezza, della sua previdenza e della presenza del suo potere. Se si immagina spinto all’estremo questo rozzo tipo di logica, i progenitori delle stirpi più possenti dovranno infine, grazie alla fantasia del crescente timore, assumere addirittura proporzioni gigantesche ed essere ricacciati nelle tenebre di una sinistra e irrappresentabile dimensione divina – il progenitore finisce per essere necessariamente trasfigurato in un dio. Forse sta proprio qui l’origine degli dèi, un’origine dunque dal timore!... E se a qualcuno dovesse sembrare necessario aggiungere: «Però anche dalla venerazione!» difficilmente potrebbe con ciò aver la ragione dalla sua, per codesto lunghissimo periodo della specie umana, la sua età primeva. Tanto più l’avrà indubbiamente per l’epoca di mezzo, nella quale si vanno foggiando le stirpi aristocratiche – le quali, in realtà, hanno restituito a usura ai loro fondatori, agli avi (eroi, dèi), tutte le qualità che intanto, in esse stesse, sono divenute manifeste: le qualità aristocratiche. Daremo ancora, più tardi, uno sguardo al nobilitarsi e all’ingentilirsi degli dèi (che certo non è nient’affatto la loro «consacrazione»): al momento limitiamoci a portare provvisoriamente a termine il corso di tutta quest’evoluzione della coscienza di colpa.
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La coscienza di essere in debito nei confronti della divinità non si estingue – come insegna la storia – neppure dopo il declino di quella forma d’organizzazione della «comunità» fondata sull’affinità di sangue: alla stessa guisa con cui ha ereditato le nozioni di «buono e cattivo» dalla nobiltà di stirpe (unitamente alla sua fondamentale tendenza psicologica a stabilire gerarchie), l’umanità ha ricevuto, insieme con l’eredità delle divinità della stirpe e della tribù, anche quella del peso di debiti non ancora soddisfatti e del desiderio di estinguerli. (Segnano il trapasso quelle vaste popolazioni di schiavi e di servi della gleba che, sia per costrizione, sia per sottomissione e mimicry, si sono adattati al culto divino dei loro padroni: da essi questa eredità si riversa in ogni direzione). Il senso di un debito nei confronti della divinità non ha cessato di crescere per parecchi millenni e per la verità sempre nella stessa proporzione con cui sono cresciuti e sono stati portati in alto sulla terra il concetto di dio e il senso della divinità. (L’intera storia delle lotte, delle vittorie, delle conciliazioni, delle fusioni etniche, tutto quanto precede il definitivo assetto gerarchico di tutti gli elementi popolari in ogni grande sintesi di razze, si rispecchia nel guazzabuglio genealogico dei loro dèi, nelle saghe delle loro battaglie, vittorie e pacificazioni: il progresso verso imperi universali è sempre altresì il progresso verso divinità universali, il dispotismo con la sua sopraffazione dell’aristocrazia autonoma apre sempre altresì la strada a una qualche specie di monoteismo). L’avvento del Dio cristiano, in quanto massimo dio che sia stato fino a oggi raggiunto, ha portato perciò in evidenza, sulla terra, anche il maximum del senso di debito. Ammesso che si sia entrati con l’andar del tempo nel movimento opposto, si potrebbe, con non poca verosimiglianza, derivare dall’inarrestabile declino della fede nel Dio cristiano il fatto che già oggi si sta determinando anche un considerevole declino della umana coscienza di colpa; anzi non si può respingere la prospettiva che la compiuta e definitiva vittoria dell’ateismo potrebbe affrancare l’umanità da tutto questo suo sentirsi in debito verso il proprio principio, la propria causa prima. Ateismo e una sorta di seconda innocenza sono intrinsecamente connessi. –
21
Questo è quanto provvisoriamente va detto, in breve e a grandi linee, sul nesso esistente tra le nozioni di «colpa», di «dovere» e i loro presupposti religiosi: di proposito, ho sinora lasciato in disparte la caratteristica moralizzazione di questi concetti (lo spostamento dei medesimi nella coscienza, o ancor più precisamente, l’invilupparsi della cattiva coscienza con l’idea di dio) e al termine del paragrafo precedente ho perfino parlato come se questa moralizzazione non ci fosse affatto, come se, di conseguenza, questi concetti fossero ormai sul punto di essere liquidati, essendo caduto il loro presupposto, la fede nel nostro «creditore», Dio. Da ciò si distanzia terribilmente il dato di fatto. Con la moralizzazione delle nozioni di colpa e di dovere, con il loro spostarsi indietro nella cattiva coscienza, si è fatto realmente il tentativo di rovesciare la direzione dello sviluppo testé descritto o per lo meno di arrestarne il movimento: ora deve essere pessimisticamente preclusa una volta per sempre proprio la prospettiva di un riscatto definitivo, ora lo sguardo deve sconsolatamente ottundersi e proiettarsi all’indietro di fronte a un’impossibilità ferrea, ora quei concetti di «colpa» e di «dovere» devono volgersi a ritroso – ma contro chi? È fuori di dubbio: in primo luogo contro il «debitore», in cui ormai la cattiva coscienza mette tali radici, si fa così intimamente corrosiva, si estende e cresce a tal punto, in lungo e in largo, a somiglianza di un polipo, che insieme alla inestinguibilità della colpa si finisce per concepire anche l’inestinguibilità dell’espiazione, il pensiero della irrisarcibilità di quella (della «pena eterna») –; e infine persino contro il «creditore», sia che si pensi alla causa prima dell’uomo, all’inizio del genere umano, al suo progenitore, il quale ormai è còlto da una maledizione («Adamo», «peccato originale», «non libertà del volere»), oppure alla natura dal cui grembo nasce l’uomo e in cui ormai è immesso il principio del male («natura resa diabolica»), o all’esistenza in generale che rimane come non valida in sé (nichilistica diversione da essa, desiderio del nulla o desiderio del suo «opposto», di un essere-altro, buddhismo e simili) – finché eccoci all’improvviso di fronte al paradossale e spaventoso espediente in cui la martoriata umanità ha trovato un momentaneo sollievo, quel tratto geniale del cristianesimo: Dio stesso che si sacrifica per la colpa dell’uomo, Dio stesso che si ripaga su se stesso, Dio come l’unico che può riscattare l’uomo da ciò che per l’uomo stesso è divenuto irriscattabile – il creditore che si sacrifica per il suo debitore, per amore (dobbiamo poi crederci? –), per amore verso il suo debitore!...
22
Si sarà già indovinato che cos’è realmente accaduto con tutto ciò e al di sotto di tutto ciò: quella volontà di straziarsi, quella rintuzzata crudeltà dell’animale-uomo interiorizzato, ricacciato in se stesso, dell’incarcerato nello «Stato» ai fini dell’ammansimento, il quale per cagionarsi dolore, essendo sbarrata la più naturale via di liberazione di questo voler-cagionar-dolore, ha escogitato la cattiva coscienza – quest’uomo della cattiva coscienza si è impadronito del presupposto religioso per spingere il proprio automartirio fino alla sua più orribile crudezza e sottigliezza. Un debito verso Dio: questo pensiero diventa per lui strumento di tortura. Afferra in Dio le antitesi estreme che riesce a trovare in rapporto ai suoi caratteristici e non riscattabili istinti animali, reinterpreta questi stessi istinti animali come una colpa verso Dio (come inimicizia, ricalcitramento, rivolta contro il «Signore», il «Padre», il progenitore e il principio del mondo), si tende nella contraddizione «Dio» e «diavolo», ogni no che dice a se stesso, alla natura, alla naturalità, alla realtà del suo essere, lo proietta fuori di sé come un sì, come qualcosa d’esistente, di corporeo, di reale, come Dio, come santità d’Iddio, come tribunale d’Iddio, come patibolo d’Iddio, come al di là, come eternità, come strazio senza fine, come inferno, come incommensurabilità di pena e colpa. Questo è una specie di delirio della volontà nella crudeltà psichica che non ha assolutamente eguali: la volontà dell’uomo di trovarsi colpevole e riprovevole fino all’impossibilità d’espiazione, la sua volontà di infettare e intossicare col problema della pena e della colpa le più profonde radici delle cose, la sua volontà di pensarsi castigato, senza che il castigo possa mai essere equivalente alla colpa, per tagliarsi una volta per tutte la via d’uscita da questo labirinto di «idee fisse», la sua volontà di erigere un ideale – quello del «Dio santo» –, e di acquistare una tangibile certezza della propria assoluta indegnità di fronte a lui. Oh dissennata triste bestia, l’uomo! Quali fantasie le vengono in mente, e non appena si vede un poco impedita di essere bestia dell’azione, quale contronatura erompe, quali parossismi di follia, quale bestialità dell’idea!... Tutto ciò è di uno smisurato interesse, ma anche di una tristezza nera, fosca, sfibrante; dobbiamo davvero impedirci a forza di scrutare troppo a lungo in questi abissi. Qui c’è malattia, non v’è dubbio, la più tremenda malattia che sia infuriata sino a oggi nell’uomo – e chi ancora riesce a udire (ma oggi non si hanno più orecchie per questo! –), come in questa notte di martirio e di assurdità ha echeggiato il grido amore, il grido del più struggente rapimento, della redenzione nell’amore, si volge altrove, còlto da un raccapriccio incoercibile... Nell’uomo v’è tanto di terribile!... Già troppo a lungo la terra fu un manicomio!...
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Basti questo, una volta per tutte, sull’origine del «Dio santo». – Che in sé la concezione degli dèi non debba necessariamente portare a questo abbrutimento della fantasia, dalla cui raffigurazione per un istante non abbiamo potuto dispensarci, che esistano modi più nobili di servirsi della poetica creazione di dèi mirando ad altro che a questa autocrocifissione e autodeturpazione dell’uomo, in cui hanno mostrato la loro eccellenza gli ultimi millenni d’Europa – è la conclusione che si può ancora, per fortuna, ricavare da ogni sguardo che sia rivolto agli dèi greci, questi rispecchiamenti di uomini nobili e signori di sé, nei quali la bestia, che è nell’uomo, si sentiva divinizzata e non lacerava se stessa, non infuriava contro se stessa! Per lunghissimo tempo questi Greci si sono serviti dei loro dèi proprio allo scopo di tenere a una certa distanza la «cattiva coscienza», di potersene restar contenti della loro libertà spirituale: dunque in un senso antitetico all’uso che il cristianesimo ha fatto del suo Dio. In ciò essi andarono molto lontano, queste splendide e leonine teste di fanciulli; e nientemeno un’autorità come quella dello stesso Zeus omerico fa loro intendere qua e là che essi se la prendono troppo alla leggera. «Curioso!» – ebbe a dire una volta – si trattava del caso di Egisto, un caso assai grave –
«È proprio curioso che i mortali si lamentino tanto contro gli dèi!
Soltanto da noi verrebbe il male, a sentir loro; ma sono essi stessi,
per dissennatezza, anche contro la sorte, a crearsi la sventura».22
Eppure a questo punto si ascolta e si vede a un tempo che anche questo spettatore e giudice olimpico è lontano dal nutrire avversione per loro e dal pensarne male: «Come sono sciocchi!» pensa costui di fronte ai misfatti dei mortali – e «stoltezza», «dissennatezza», un po’ di «confusione in testa», questo anche i Greci dell’età più vigorosa e più intrepida hanno riconosciuto in se stessi come radice di molti mali ed eventi funesti – stoltezza, e non già peccato! comprendete voi questo?... Ma anche questa confusione mentale era un problema – «già, come è mai possibile? donde può essere venuta in teste come le nostre, di noi uomini di nobile origine, fortunati, ben riusciti, della migliore società, ragguardevoli, virtuosi?» – così, per secoli, si chiedeva il greco aristocratico di fronte a ogni orrore ed empietà per lui incomprensibili, di cui si fosse macchiato qualcuno dei suoi simili. «Deve pur averlo accecato un dio», si diceva alla fine scuotendo il capo... Questa scappatoia è tipica per i Greci... In tal modo allora gli dèi servivano a giustificare, entro una certa misura, l’uomo anche nel male, servivano come cause del male – in quel tempo essi non si assumevano la pena, bensì, come è più nobile, la colpa...
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– Concludo con tre interrogativi, come ben si vede. «Propriamente si sta qui erigendo un ideale, oppure lo si sta abbattendo?» forse mi si chiederà... Ma vi siete mai chiesti abbastanza voi, a quanto caro prezzo si è fatto pagare l’innalzamento di ogni ideale sulla terra? Quanta realtà dovette sempre essere, a tale scopo, calunniata e disconosciuta, quanta menzogna santificata, quante coscienze sconvolte, quanta «divinità» sacrificata ogni volta? Affinché un santuario possa essere eretto, un santuario deve essere ridotto in frantumi: è questa la legge – mi si indichi il caso in cui non è adempiuta!... Noi uomini moderni, noi siamo gli eredi di una millenaria vivisezione della coscienza e di una tortura da bestie rivolta contro noi stessi: abbiamo in tutto ciò il nostro più lungo esercizio, forse la nostra vocazione da artisti, in ogni caso il nostro affinamento e pervertimento del gusto. Troppo a lungo l’uomo ha considerato le sue tendenze naturali con un «cattivo sguardo», cosicché queste hanno finito per congiungersi strettamente in lui con la «cattiva coscienza». Sarebbe in sé possibile un tentativo opposto – ma chi è abbastanza forte per questo? –, vale a dire quello di congiungere indissolubilmente con la cattiva coscienza le tendenze innaturali, tutte quelle aspirazioni al trascendente, all’anti-senso, all’anti-istinto, all’anti-natura, all’anti-animale, insomma gli ideali esistiti sino a oggi, che sono tutti quanti ideali ostili alla vita, ideali calunniatori del mondo. A chi rivolgersi oggi con tali speranze e rivendicazioni?... Avremmo contro di noi proprio gli uomini buoni; inoltre, come è ovvio, i pigri, i pacificati, i vanitosi, i sognatori, gli stanchi... Che cosa offende più a fondo, che cosa divide più radicalmente se non dare a conoscere un po’ di quel rigore e di quella sublimità con cui trattiamo noi stessi? E d’altro lato – con quanta compiacenza e amorevolezza ci viene incontro il mondo, non appena ci comportiamo come tutti e come tutti ci «lasciamo andare»!... Ci vorrebbe, per quella meta, una specie di spiriti diversa da quelli che sono proprio in quest’epoca verosimili: spiriti fortificati da guerre e vittorie, per i quali la conquista, l’avventura, il pericolo, il dolore sono diventati addirittura un bisogno; ci vorrebbe, per tutto questo, l’abitudine all’aria tagliente delle altitudini, alle peregrinazioni invernali, a ghiaccio e montagne in ogni senso, ci vorrebbe persino una specie di sublime malvagità, di quella suprema malignità della conoscenza, cosciente di se stessa, che appartiene alla grande salute, ci vorrebbe in breve, e la cosa è piuttosto seccante, appunto questa grande salute!... È questa, proprio oggi, anche soltanto possibile?... Ma in un qualche tempo, in un’età più forte di questo marcido, dubitoso presente, dovrà pur giungere a noi l’uomo redentore, l’uomo del grande amore e disprezzo, lo spirito creatore, che sempre la sua forza incalzante torna a spingere via da ogni eremo e da ogni trascendenza, colui la cui solitudine è fraintesa dal popolo, come se fosse una fuga dalla realtà – mentre è soltanto il suo sprofondare, il suo seppellirsi, il suo inabissarsi nella realtà, affinché un giorno, quando tornerà alla luce, porti fuori da essa a casa sua la redenzione di questa realtà: la sua redenzione dalla maledizione che ha posto su di essa l’ideale esistito sino a oggi. Quest’uomo dell’avvenire, che ci redimerà tanto dall’ideale perdurato sinora, quanto da ciò che dovette germogliare da esso, dal grande disgusto, dalla volontà del nulla, dal nichilismo, questo rintocco di campane del mezzodì e della grande decisione, il quale nuovamente affranca la volontà, restituisce alla terra la sua meta e all’uomo la sua speranza, questo anticristo e antinichilista, questo vincitore di Dio e del nulla – dovrà un giorno venire...
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– Ma che cosa sto dicendo ora? Basta! Basta! A questo punto una cosa sola a me si conviene, il silenzio: altrimenti mi arrogherei ciò che unicamente a chi è più giovane è consentito, a un «venturo», a uno più forte di quanto sia io – ciò che unicamente è consentito a Zarathustra, a Zarathustra il senza Dio...
TERZA DISSERTAZIONE
CHE SIGNIFICANO GLI IDEALI ASCETICI?
– Incuranti, beffardi, violenti – così ci vuole la saggezza: è una donna, ama sempre unicamente un guerriero.
Così parlò Zarathustra
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Che significano gli ideali ascetici? – Negli artisti, nulla oppure troppe cose diverse; nei filosofi e nei dotti, una specie di fiuto e d’istinto per le più favorevoli condizioni preliminari di una elevata spiritualità; nelle donne, nel migliore dei casi, un supplemento di grazia al loro fascino, un po’ di morbidezza sulle belle carni, l’angelicità di un leggiadro, rotondo animale; nei fisiologicamente malriusciti e alterati (cioè nella maggioranza dei mortali), un tentativo di trovarsi «troppo buoni» per questo mondo, una forma sacra di dissolutezza, il loro principale rimedio nella lotta contro il lento dolore e la noia; nei sacerdoti, la caratteristica fede sacerdotale, il loro miglior strumento di potenza, nonché la «suprema» legittimazione della potenza; nei santi, infine, un pretesto per il letargo, la loro novissima gloriæ cupido, la loro quiete nel nulla («Dio»), la loro forma di dissennatezza. Tuttavia nella circostanza che l’ideale ascetico ha avuto in generale un così grande significato per l’uomo, si esprime il fondamentale dato di fatto dell’umano volere, il suo horror vacui: quel volere ha bisogno di una meta – e preferisce volere il nulla, piuttosto che non volere. – Mi si intende?... Sono stato inteso?... «Assolutamente no, signore!». – Cominciamo dunque da capo.
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Che significano gli ideali ascetici? O per prendere un caso singolo, in ordine al quale sono stato abbastanza spesso consultato, che cosa significa, per esempio, che un artista come Richard Wagner abbia reso omaggio alla castità nei giorni della sua vecchiaia? Indubbiamente, in un certo senso, egli l’ha sempre fatto; ma solo all’ultimissimo momento in un senso ascetico. Che significa questo mutamento di «senso», questo radicale rovesciamento di senso? – giacché fu proprio così, e Wagner ribaltò in tal modo addirittura nel suo opposto. Che cosa significa che un artista ribalti nel suo opposto?... A questo punto, posto che ci si voglia soffermare un poco su questo problema, ci sovviene subito il ricordo del tempo più bello, più forte, più gioioso, più coraggioso, che sia forse mai esistito nella vita di Wagner: era l’epoca in cui il pensiero delle nozze di Lutero lo occupava intimamente e profondamente. Chissà a quali fortuite circostanze è dovuto propriamente il fatto che al posto di questa musica nuziale possediamo oggi quella dei Maestri Cantori? E quanto di quella continua forse ancora a risuonare in questa? Ma non v’è alcun dubbio che anche in queste «Nozze di Lutero» si sia trattato di un elogio della castità. A dire il vero anche di un elogio della sensualità – e proprio così tutto mi sembrerebbe in regola, proprio così tutto sarebbe stato altresì «wagneriano». Infatti fra castità e sensualità non esiste una necessaria antitesi; ogni buon matrimonio, ogni profondo legame sentimentale trascende questa antitesi. A mio avviso Wagner avrebbe fatto bene a ricondurre ancora una volta nell’animo dei suoi Tedeschi questa gradevole realtà, mediante una graziosa e ardita commedia su Lutero, giacché esistono e sono esistiti, fra i Tedeschi, sempre molti calunniatori della sensualità; e forse il merito di Lutero è più grande in questa che in qualsiasi altra cosa, nell’aver avuto cioè il coraggio della propria sensualità (– la si chiamava allora, con alquanta delicatezza, «libertà evangelica»...). Ma anche nel caso in cui realmente esista un contrasto tra castità e sensualità, non c’è ancora il benché minimo bisogno, fortunatamente, che sia un contrasto tragico. Questo dovrebbe valere se non altro per tutti i mortali maggiormente integri di corpo e di spirito, i quali sono lontani dall’annoverare senz’altro tra le ragioni contrarie all’esistenza il loro labile equilibrio tra «la bestia e l’angelo» – i più sottili e i più chiari, come Goethe, come Hafis, hanno veduto in questo addirittura un’attrattiva in più della vita. Proprio siffatte «contraddizioni» seducono all’esistenza... D’altra parte va da sé che se mai gli sciagurati porci vengono portati ad adorare la castità – e ce ne sono di porci simili! – vedranno e adoreranno, in essa, null’altro che il loro opposto, l’opposto dello sciagurato porco – oh, è facile immaginarsi con qual tragico grugnito e fervore! – quel meschino e superfluo opposto che, al termine della sua vita, Richard Wagner incontestabilmente ha voluto ancora mettere in musica e portare sulla scena. Ma a quale scopo? ci si può giustamente chiedere. Che cosa gli importavano, infatti, e che cosa importano a noi, i porci?...
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Certamente, con tutto ciò, non si può eludere quell’altra questione: che cosa gli importava propriamente quella virile (ah, così svirilizzata) «semplicità agreste», quel povero diavolo, quel selvatico giovanotto d’un Parsifal, che viene infine da lui cattolicizzato con mezzi così capziosi? – Come? questo Parsifal è stato inteso assolutamente sul serio? Poiché si potrebbe esser tentati di supporre il contrario e perfino di augurarci – che il Parsifal wagneriano sia stato inteso in senso giocoso, quasi come epilogo e come dramma satiresco con cui il Wagner tragico avrebbe voluto congedarsi da noi e anche da se stesso, ma soprattutto dalla tragedia, in una maniera dignitosa e appunto conveniente a lui, vale a dire con un eccesso di suprema e maliziosa parodia del tragico, di tutta la spaventosa serietà e desolazione terrena del passato, della finalmente superata più grossolana forma di contronatura dell’ideale ascetico. Così, come già ho detto, sarebbe stato precisamente questo degno di un grande tragico: il quale, come ogni artista, attinge il culmine estremo della sua grandezza soltanto quando sa vedere se stesso e la sua arte sotto di sé – quando sa ridere di sé. È il «Parsifal» di Wagner il suo segreto sorriso di superiorità su se stesso, il trionfo della sua conquistata, estrema, suprema libertà e trascendenza d’artista? Come già si è detto, ce lo vorremmo augurare: cosa sarebbe, infatti, il Parsifal inteso sul serio? È proprio necessario vedere in esso (come è stato detto contro di me) «il prodotto di un odio divenuto insensato contro la conoscenza, lo spirito e la sensualità»? Una maledizione dei sensi e dello spirito in un unico anelito d’odio? Un’apostasia e una conversione agli ideali cristianamente morbosi e oscurantistici? E infine anche una negazione e una liquidazione di se stesso da parte di un artista che fino a quel momento aveva avuto di mira, con tutte le forze della sua volontà, il contrario, cioè la suprema spiritualizzazione e sensualizzazione della sua arte? E non solo della sua arte: anche della sua vita. Si ricordi con quale entusiasmo, a suo tempo, Wagner seguì le orme del filosofo Feuerbach: le espressioni di Feuerbach sulla «sana sensualità» ebbero per il Wagner degli anni trenta e quaranta, come per molti Tedeschi (– si chiamavano i «giovani Tedeschi»), il suono stesso di una parola di redenzione. Ha infine imparato qualcosa di nuovo al riguardo? Poiché per lo meno sembra che abbia finito per voler insegnare qualcosa di nuovo in proposito... E non solo con le trombe del Parsifal dall’alto della scena – nella sua torbida, tanto impacciata quanto confusa attività letteraria degli ultimi anni ci sono cento passi nei quali si tradisce un segreto desiderio e volontà, una smarrita, insicura, inconfessabile volontà di predicare né più né meno che ritorno, conversione, negazione, cristianesimo, Medioevo, e di dire ai suoi discepoli «non è vero! cercate altrove la salvezza!». Una volta viene invocato persino il «sangue del Redentore»...
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In un caso siffatto, che è molto penoso – ed è un caso tipico – mi sia consentito esprimere la mia opinione: si agisce certamente nel modo migliore se si separa a tal punto l’artista dall’opera sua, da non prenderlo altrettanto sul serio quanto la sua opera. In fin dei conti costui altro non è che una condizione preliminare della sua opera, il grembo materno, il terreno, talora il concio e lo sterco sul quale e dal quale essa cresce e quindi, nella maggior parte dei casi, qualcosa che si deve dimenticare se si vuole prender diletto dell’opera in se stessa. L’indagine sull’origine di un’opera riguarda i fisiologi e i vivisettori dello spirito: mai e poi mai gli esteti, gli artisti! Allo stesso modo con cui non vengono risparmiate a una donna gravida le nausee e le stravaganze della gravidanza – cose che, come si è detto, devono essere dimenticate per allietarsi del figlio –, così al poeta e al plasmatore del Parsifal non fu risparmiato un profondo, radicale e persino tremendo rivivere e calarsi nei medievali contrasti dell’anima, un tenersi ostilmente in disparte da ogni elevatezza, da ogni rigore e disciplina dello spirito, una specie di perversità (mi si conceda il termine) intellettuale. Ci si deve guardare dalla confusione nella quale incappa troppo spesso l’artista, per contiguity psicologica, come direbbero gl’Inglesi: come se fosse lui stesso quel che egli può rappresentare, concepire, esprimere. Il fatto è che se egli fosse tutto questo, non potrebbe rappresentarlo, concepirlo, esprimerlo; se Omero fosse stato Achille e Goethe Faust, un Omero non avrebbe creato Achille e un Goethe non avrebbe creato Faust. Un perfetto e completo artista è staccato per l’eternità dal «reale», dall’effettuale; d’altra parte è comprensibile come possa sentirsi stanco, talvolta fino alla disperazione, di questa eterna «irrealtà» e fallacia del suo più intimo essere e che quindi compia il tentativo di sconfinare una qualche volta proprio in quello che gli è massimamente interdetto, nel reale, il tentativo di essere reale. Con quale risultato? È facilmente intuibile... È questa la tipica velleità dell’artista: la stessa velleità di cui fu vittima anche il vecchio Wagner e che dovette espiare a così caro prezzo e in maniera tanto funesta (– a causa di essa perse la parte più preziosa dei suoi amici). In definitiva, tuttavia, anche prescindendo interamente da questa velleità, chi non potrebbe desiderare soprattutto, proprio per amore di Wagner, che egli avesse preso diversamente congedo da noi e dalla sua arte, non con un Parsifal, bensì in un modo più vittorioso, più sicuro di sé, più wagneriano – un modo meno fallace, meno ambiguo rispetto al complesso della sua volontà, meno schopenhaueriano, meno nichilistico?...
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– Che significano dunque gli ideali ascetici? Nel caso dell’artista, ce ne rendiamo conto con l’andar del tempo: proprio un bel nulla!... O una tale quantità di cose diverse, che è lo stesso di nulla!... Eliminiamo innanzitutto gli artisti: essi sono troppo lontani dall’essere abbastanza indipendenti nel mondo e contro il mondo perché i loro apprezzamenti di valore e le loro trasformazioni meritino di per se stessi interesse! Essi furono in tutti i tempi valletti di una morale o di una filosofia o di una religione; astraendo, peraltro, interamente dal fatto che purtroppo sono stati abbastanza spesso troppo malleabili cortigiani dei loro ammiratori e mecenati, nonché adulatori dal fiuto sagace di potenze antiche o appunto di fresco affermatesi. Per lo meno, hanno sempre bisogno di una salvaguardia, di un appoggio, di una autorità già costituita: gli artisti non fanno mai parte per se stessi, l’isolamento è contrario al loro istinto più profondo. Così, per esempio, Richard Wagner, «quando fu giunto il tempo», prese a suo battistrada e come salvaguardia il filosofo Schopenhauer: chi potrebbe anche soltanto ritener concepibile che egli avesse avuto il coraggio di un ideale ascetico senza il sostegno che gli offriva la filosofia di Schopenhauer, senza l’autorità di Schopenhauer divenuta preminente negli anni settanta? (non considerando il fatto se nella nuova Germania sarebbe mai stato possibile un artista senza il latte di una disposizione d’animo devota, ligia all’impero). E con ciò siamo giunti alla questione più seria: quando un vero filosofo rende omaggio all’ideale ascetico, uno spirito realmente piantato su se stesso come Schopenhauer, un uomo e un cavaliere dallo sguardo bronzeo, che ha il coraggio di essere se stesso, che sa di essere solo e non se ne sta ad aspettare in primo luogo un battistrada e assensi superiori, che significa tutto questo? Consideriamo subito a questo punto la ragguardevole e, per un certo tipo di uomini, persino affascinante posizione di Schopenhauer di fronte all’arte: poiché evidentemente è stato soprattutto a cagione di essa che Richard Wagner si avvicinò a Schopenhauer (convinto in questo senso, com’è noto, da un poeta, Herwegh), in misura tale che tra la sua fede precedente e quella posteriore si spalancò un’assoluta contraddizione teorica – la prima espressa, per esempio, in «Opera e dramma», la seconda negli scritti che andò pubblicando a partire dal 1870. Quel che forse maggiormente ci sorprende è che da quel momento modificò senza riguardi il suo giudizio sul valore e sulla posizione della musica stessa: che cosa gliene importava di aver fatto di essa, sino ad allora, un mezzo, un medium, una «donna», la quale, per ben svilupparsi, aveva assolutamente bisogno di uno scopo, di un uomo – vale a dire del dramma –! Si rese improvvisamente conto che con la teoria e la innovazione schopenhaueriana c’era da fare qualcosa di più in majorem musicæ gloriam, – cioè con la sovranità della musica, come la intendeva Schopenhauer: la musica, con un suo posto a parte rispetto alle altre arti, l’arte indipendente in sé, che non già, come queste, offre riproduzioni della fenomenalità, ma piuttosto parla la lingua della volontà medesima, cavandola immediatamente dall’«abisso» come la sua più vera, più originaria e più diretta rivelazione. Con questo eccezionale potenziamento di valore della musica, quale sembrava scaturire dalla filosofia di Schopenhauer, anche il musicista crebbe enormemente di valore; diventò ormai un oracolo, un sacerdote, anzi più di un sacerdote, una specie di portavoce dell’«in sé» delle cose, un telefono dell’al di là – d’allora in poi non parlò soltanto di musica, questo ventriloquo d’Iddio – parlò di metafisica: c’è da stupirsi che finisse per parlare, un bel giorno, d’ideali ascetici?...
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Per quanto sia fuori dubbio che non abbia considerato il problema estetico con occhio kantiano, Schopenhauer si è tuttavia servito della concezione kantiana di tale problema. Kant pensava di rendere onore all’arte quando fra i predicati del bello preferì e pose in primo piano quelli che costituiscono l’onore della conoscenza: impersonalità e validità universale. Non è questa la sede per discutere se ciò sia stato, nella sostanza, un errore; voglio soltanto sottolineare il fatto che Kant, al pari di tutti i filosofi, invece di prender di mira il problema estetico partendo dalle esperienze dell’artista (del creatore), ha meditato sull’arte e sul bello unicamente dal punto di vista dello «spettatore», e con ciò ha inavvertitamente accolto lo «spettatore» stesso nel concetto di «bello»! Fosse stato almeno questo «spettatore» sufficientemente noto ai filosofi del bello – vale a dire come un grande dato di fatto e una esperienza personale, come una pienezza di particolarissime, incisive esperienze, bramosie, sorprese, estasi nella sfera del bello! Ma temo che si sia sempre verificato il caso opposto: e così sin dal principio riceviamo da costoro definizioni nelle quali, come in quella famosa definizione che Kant dà del bello, la mancanza di una più sottile esperienza personale si presenta con l’aspetto di un grosso verme, di un errore radicale. «Bello – ha detto Kant – è quel che piace in guisa disinteressata». Disinteressata! Si confronti questa definizione con quell’altra espressa da uno «spettatore» e artista vero – Stendhal, che chiama il bello une promesse de bonheur.23 Qui è comunque rifiutata e cancellata proprio quell’unica cosa che Kant mette in rilievo nella condizione estetica: le désintéressement. Chi ha ragione: Kant o Stendhal? – Se invero i nostri esteti non si stancano di gettare sulla bilancia, in favore di Kant, il fatto che sotto l’incantesimo della bellezza si può guardare «disinteressatamente» perfino statue ignude di donna, ci sarà pur consentito ridere un po’ alle loro spalle – le esperienze degli artisti, riguardo a questo punto scabroso, sono «più interessanti», e Pigmalione in ogni caso non era necessariamente un «uomo non estetico». Tanto meglio conviene giudicare dell’ingenuità dei nostri esteti, la quale si rispecchia in siffatti argomenti; si ascriva, per esempio, a tutto onore di Kant, quel che egli sa insegnare, con un candore degno di un parroco di campagna, intorno alle peculiarità del tatto! E torniamo ora a Schopenhauer, che in tutt’altra misura di Kant era vicino alle arti e non riuscì tuttavia a liberarsi dal sortilegio della definizione kantiana: come è avvenuto ciò? La circostanza è abbastanza curiosa: egli interpretò la parola «disinteressatamente» in una maniera personalissima quant’altre mai, procedendo da un’esperienza che deve essere stata per lui tra le più normali. Di poche cose Schopenhauer parla con tanta sicurezza come dell’effetto della contemplazione estetica: le attribuisce un influsso esattamente antitetico all’«interesse» sessuale, simile, dunque, a quello della luppolina e della canfora; egli non si è mai stancato di magnificare questa liberazione dalla «volontà» come la grande prerogativa e utilità della condizione estetica. Si potrebbe addirittura essere tentati di domandare se la concezione di fondo della sua «Volontà e rappresentazione», il pensiero che possa esistere una redenzione dalla «volontà» unicamente attraverso la «rappresentazione», abbia preso origine da una generalizzazione di codesta esperienza della sessualità. (In tutte le questioni riguardanti la filosofia schopenhaueriana, non si deve mai trascurare, sia detto incidentalmente, che questa è la concezione di un giovane di ventisei anni; cosicché non partecipa soltanto di quanto è specifico in Schopenhauer, bensì anche di quanto è specifico in quella stagione della sua vita). Poniamo ascolto, per esempio, a uno dei passi più significativi fra i numerosi da lui scritti in onore dello stato estetico («Mondo come volontà e rappresentazione», 1, p. 231), porgiamo bene l’orecchio all’accento, al dolore, alla felicità, alla gratitudine con cui sono state dette queste parole. «Tale è la condizione di aponia che Epicuro esaltava come il massimo bene e come stato divino; per quell’istante siamo affrancati dallo spregevole impulso della volontà, celebriamo il sabato del lavoro forzato del volere, immota sta la ruota d’Issione...». Quale veemenza di parole! Quali immagini di tormento e di lungo tedio! Quale quasi patologica contrapposizione temporale tra «quell’istante» e l’ulteriore «ruota d’Issione», il «lavoro forzato del volere», lo «spregevole impulso della volontà»! – Anche ammesso, tuttavia, che Schopenhauer avesse cento volte ragione in riferimento alla sua persona, che cosa si sarebbe fatto, con tutto ciò, per un approfondimento dell’essenza del bello? Schopenhauer ha descritto un unico effetto del bello, quello che quieta la volontà – ma è questo anche soltanto un effetto normale? Stendhal che, come già si è detto, era una natura non meno sensuale, ma più felicemente riuscita di Schopenhauer, mette in evidenza un altro effetto del bello: «Il bello promette la felicità»; a lui proprio l’eccitazione della volontà («dell’interesse») prodotta dal bello sembra il dato di fatto. E non si potrebbe infine obiettare allo stesso Schopenhauer, che assai a torto egli si crede kantiano su questo punto, che non ha in alcun modo inteso kantianamente la definizione kantiana del bello – che anche a lui il bello piace per un «interesse», addirittura per un interesse fortissimo, personalissimo quant’altri mai: quello del torturato che si sviticchia dalla sua tortura?... E per tornare alla nostra prima domanda, «che cosa significa l’omaggio tributato da un filosofo all’ideale ascetico?» – a questo punto abbiamo, se non altro, una prima indicazione: costui vuole sviticchiarsi da una tortura.
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Alla parola «tortura», guardiamoci dall’aggrondarci subito in viso: proprio in questo caso resta abbastanza da mettere nel conto opposto, abbastanza da detrarre – c’è anche di che ridere un po’. In particolar modo non si sottovaluti il fatto che Schopenhauer, il quale in realtà aveva trattato la sessualità come un nemico personale (compreso il suo strumento, la donna, questo instrumentum diaboli), aveva bisogno di nemici per conservare il suo buonumore; che costui amava le parole truci, biliose, verdi-nerastre; che egli si adirava per il gusto di adirarsi, per passione; che senza i suoi nemici, senza Hegel, la donna, la sensualità e tutta la volontà di esistere, di continuare a esistere, si sarebbe ammalato, sarebbe divenuto pessimista (– poiché tale non era, quantunque lo desiderasse). Altrimenti Schopenhauer non ci sarebbe restato, su questo si può scommettere, se la sarebbe svignata; ma i suoi nemici lo tenevano inchiodato, i suoi nemici lo seducevano sempre di nuovo a esistere, proprio come accadeva agli antichi Cinici, la sua collera era il suo balsamo, il suo ristoro, la sua ricompensa, il suo remedium contro la nausea, la sua felicità. Questo per quanto riguarda quel che v’è di più personale nel caso di Schopenhauer; d’altra parte c’è in lui altresì qualcosa di tipico – e soltanto a questo punto torniamo di nuovo sul nostro problema. Incontestabilmente, finché sulla terra ci saranno filosofi, ovunque siano esistiti filosofi (dall’India all’Inghilterra, per prendere gli opposti poli dell’attitudine alla filosofia), sussiste una particolare irritazione e astiosità filosofica contro la sensualità – Schopenhauer ne è soltanto il più eloquente sfogo, e se si ha orecchie per intendere, anche il più trascinante e affascinante –; similmente esiste una particolare prevenzione dei filosofi a favore dell’intero ideale ascetico, una loro predilezione, riguardo e contro la quale non c’è illusione possibile. Entrambi questi atteggiamenti appartengono, come s’è già detto, al tipo; se l’uno e l’altro mancano in un filosofo, si può essere certi che egli è solo «per modo di dire» tale. Che significa questo? Giacché si deve prima di tutto interpretare questo stato di fatto: esso se ne sta lì in sé, stupido per tutta l’eternità come ogni «cosa in sé». Ogni animale, e quindi anche la bête philosophe, tende istintivamente a un optimum di condizioni favorevoli, date le quali può scatenare completamente la sua forza attingendo il suo maximum nel sentimento di potenza. Altrettanto istintivamente, e con una finezza di fiuto che è «superiore a ogni ragione», qualsiasi animale ha in orrore ogni sorta di guastafeste e di impedimenti che gli intralcino o gli possano intralciare questo cammino verso l’optimum (– non è la sua via alla felicità, quella di cui sto parlando, ma la sua via alla potenza, all’azione, al più possente fare e invero, nel maggior numero dei casi, la sua via all’infelicità). Allo stesso modo il filosofo ha in orrore il matrimonio, unitamente a tutto quanto potrebbe persuaderlo a esso – il matrimonio come ostacolo e calamità sul suo cammino verso l’optimum. Quale grande filosofo è stato fino a oggi sposato? Eraclito, Platone, Cartesio, Spinoza, Leibniz, Kant e Schopenhauer non lo furono, e più ancora: non li possiamo neppure pensare sposati. Un filosofo sposato appartiene alla commedia, questa è la mia tesi: e quell’eccezione di Socrate – il malizioso Socrate sembra che si sia sposato ironice, proprio per dimostrare questa tesi. Ogni filosofo parlerebbe, come parlò una volta Buddha, quando gli fu annunziata la nascita di un figlio: «Mi è nato Râhula, fucinata mi è una catena»24 (Râhula significa qui «un piccolo demone»); per ogni «spirito libero» dovrebbe venire un’ora di riflessione, posto che ne abbia avuta prima una di spensieratezza, come venne una volta al medesimo Buddha – «sepolta in angustie – pensava tra sé – è la vita nella casa, albergo di impurità; libertà significa abbandonare la casa, e volgendo questo pensiero, abbandonò la casa».25 Nell’ideale ascetico sono indicati tanti ponti verso l’indipendenza, che un filosofo non può senza esultare e applaudire intimamente porgere orecchio alle storie di tutti quegli uomini risoluti, i quali un giorno dissero no a ogni privazione di libertà e s’incamminarono in un qualche deserto: anche supponendo che essi fossero nulla più che asini gagliardi o addirittura tutto l’opposto di un gagliardo spirito. Che significa, dunque, l’ideale ascetico in un filosofo? Come si sarà indovinato da un pezzo, – è questa la mia risposta: alla sua vista sorride il filosofo, come di fronte a un optimum delle condizioni di suprema e arditissima spiritualità – e con ciò non nega «l’esistenza», sibbene afferma in essa la sua esistenza e unicamente la sua esistenza, e questo forse sino al punto da non restargli lontano l’empio desiderio: pereat mundus, fiat philosophia, fiat philosophus, fiam!...
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È evidente che non sono testimoni e giudici irreprensibili del valore dell’ideale ascetico, questi filosofi! Costoro pensano a sé – che importa loro «il sacro»! Inoltre essi pensano a ciò che per loro è la cosa più indispensabile: libertà da costrizione, molestia, frastuono, da affari, doveri, cure; chiarezza in testa; danza, balzo e volo dei pensieri; un’aria buona, fine, limpida, sgombra, asciutta come lo è l’aria sulle cime, dove ogni essere animale diventa più spirituale e mette le ali; tranquillità in tutti i sotterranei; tutti i cani messi per benino a catena; nessun latrato di inimicizia e di villosa malevolenza; nessun verme roditore di ambizione ferita; viscere umili e sottomesse, diligenti come ruote di mulino, ma lontane; estraneo il cuore, in un altro mondo, di là da venire, postumo – in definitiva, nell’ideale ascetico, costoro pensano al sereno ascetismo di un animale divinizzato e divenuto alato, il quale, più che starsene quieto, volteggia al di sopra della vita. È noto quali siano le tre pompose parole dell’ideale ascetico: povertà, umiltà, castità; ebbene, si osservi da vicino la vita di tutti i grandi, fecondi, ingegnosi spiriti – vi si ritroveranno sempre tutte e tre fino a un certo punto. E niente affatto – cosa che va da sé – come se fossero, caso mai, le loro «virtù», – che cos’ha a che fare questa specie di uomini con le virtù! – sibbene come le condizioni più peculiari e più naturali della loro migliore esistenza, della loro più bella fecondità. Con ciò è senz’altro possibile che la loro spiritualità dominatrice avesse prima di tutto da porre le briglie a un’indomabile ed eccitabile superbia o a una proterva sensualità, o che con alquanta difficoltà riuscisse a sostenere la loro volontà di «deserto» forse contro una certa tendenza al lusso e all’estrema ricercatezza, come pure contro una certa dissipatrice liberalità del cuore e della mano. Ma quella spiritualità fece tutto questo appunto come istinto dominante, che afferma prepotentemente le sue esigenze su tutti gli altri istinti – e così seguita a fare; se non agisse in questo modo, non dominerebbe affatto. In ciò dunque non v’è affatto «virtù». Del resto il deserto, di cui appunto parlavo, in cui gli spiriti forti e indipendenti per natura si ritirano e si isolano – oh, come appare diverso dal deserto che s’immaginano i dotti nei loro sogni! – giacché talora sono essi stessi siffatto deserto, questi dotti. Ed è certo che tutti i commedianti dello spirito non resisterebbero assolutamente in esso – per costoro questo deserto non è di gran lunga abbastanza romantico e siriaco, è ben lontano dall’essere deserto-da-teatro. Veramente anche in questo non mancano cammelli: ma a ciò soltanto si limita tutta la somiglianza. Una volontaria oscurità forse; un fuggire da se stessi; una riluttanza a frastuono, venerazione, giornali, influenze; un piccolo impiego, un vivere alla giornata, qualcosa che invece di mettere in luce, nasconde; un intrattenersi, di tanto in tanto, con innocui e gioviali animali e uccelli la vista dei quali ristora; con la compagnia di una montagna, ma non già di una morta montagna, bensì di una che ha occhi (cioè laghi); a volte, persino una camera in un gremito albergo di tutti dove si è sicuri di venir confusi con altri e dove si può parlare impunemente con chiunque – questo, ecco, è «deserto»: oh, è abbastanza solitario, credetemi! Quando Eraclito si ritirò nei sacri recinti e sotto i colonnati dell’immenso tempio di Artemide, questo «deserto» era più decoroso, ne convengo: perché per noi non esistono templi simili? (– forse esistono: in questo momento mi rammento del mio studio più bello, quello di piazza di San Marco, posto che sia primavera, nonché mattina, nel tempo tra le dieci e le dodici). Ciò però da cui Eraclito rifuggiva è ancora la stessa cosa da cui rifuggiamo noi: il chiasso e il chiacchiericcio democratico degli Efesi, la loro politica, le loro novità sull’«impero» (la Persia, naturalmente), la loro mercantile cianfrusaglia d’«attualità» – poiché noi filosofi abbiamo soprattutto bisogno di un’unica quiete: quella lontana da ogni «attualità». Noi veneriamo il silenzio, la freddezza, la nobiltà, la lontananza, il passato, tutto quanto, in genere, alla vista del quale l’anima non è costretta a difendersi e a stringere i lacci – qualcosa con cui si può parlare, senza parlar ad alta voce. Si ascolti dunque, unicamente, il suono che ha uno spirito quando parla: ogni spirito ha il suo suono, ama il suo suono: quello là, per esempio, deve senz’altro essere un agitatore, voglio dire una testa vuota, una pentola vuota: quel che entra in essa, qualunque cosa, ne ritorna sorda e greve, appesantita dall’eco del grande vuoto. Di rado quel tale là parla con una voce che non sia rauca: ha forse pensato in modo arrochito? Sarebbe possibile – si interroghino i fisiologi –, ma chi pensa in parole, pensa come tribuno e non come pensatore (dà a vedere che in fondo non pensa cose, non pensa concretamente, ma soltanto in riferimento a cose, e che pensa propriamente se stesso e i suoi ascoltatori). Questo terzo parla con invadenza, si fa troppo appresso alla nostra persona, ci rifiata addosso il suo respiro – macchinalmente serriamo la bocca, sebbene sia un libro ciò attraverso cui ci parla: il suono del suo stile dice il motivo per il quale costui non ha tempo, per il quale costui crede malamente in se stesso, ed è in questo momento o mai più che arriva a formulare parole. Ma uno spirito che è sicuro di sé parla basso; cerca la riservatezza, si fa aspettare. Si riconosce un filosofo dal suo rifuggire tre cose abbaglianti e chiassose: la gloria, i principi e le donne: e con ciò non è detto che non siano queste a venire a lui. Teme ogni luce troppo intensa: perciò teme il suo tempo e il suo «giorno». Assomiglia in questo a un’ombra: quanto più cala il sole, tanto più grande diventa. Quanto poi alla sua «umiltà», sopporta, così come sopporta la tenebra, anche una certa dipendenza ed eclisse: più ancora paventa il turbamento causato dai lampi, arretra terrorizzato dinanzi alla condizione indifesa di un albero troppo isolato e lasciato in abbandono, sul quale ogni maltempo sfoga il suo cattivo umore e ogni cattivo umore il suo maltempo. Il suo istinto «materno», l’amore per ciò che va crescendo in lui lo rimanda a condizioni nelle quali viene esonerato dal dover pensare a sé; nello stesso senso in cui l’istinto della madre, nella donna, ha ribadito fino a oggi la posizione di dipendenza della donna in generale. Insomma le pretese di questi filosofi sono abbastanza modeste, la loro divisa è: «Chi possiede, è posseduto» –: non, come sono sempre di nuovo costretto a ripetere, sulla base di una virtù, di una encomiabile volontà di moderazione e di semplicità, ma perché questo esige da essi, e lo esige saggiamente e spietatamente, il supremo signore loro: al quale preme soltanto un’unica cosa e per essa soltanto raccoglie e risparmia tutto, tempo, forza, amore, interesse. A questa specie di uomini non piace essere turbati da inimicizie e neppure da amicizie: essi dimenticano e disprezzano facilmente. È per loro di cattivo gusto fare i martiri; «soffrire per la verità» – è una cosa che lasciano agli ambiziosi e agli eroi teatrali dello spirito e a quanti altri hanno tempo a sufficienza per questo (– quanto a loro stessi, i filosofi, hanno qualcosa da fare per la verità). Delle grandi parole fanno uso moderato; si dice che ripugni loro la stessa parola «verità»: avrebbe il suono di una smargiassata... Per quanto, infine, riguarda la «castità» dei filosofi, evidentemente questo modo di essere spirituale ha la sua fecondità in qualcos’altro che nei figli; e forse è altrove riposta anche la perpetuazione del loro nome, la loro piccola immortalità (ancora più immodestamente ci si esprimeva tra filosofi nell’antica India: «Che bisogno ha di una progenie colui, la cui anima è il mondo?»). – Non c’è qui nulla di una castità dovuta a un qualche ascetico scrupolo o odio per i sensi, come c’è ben poca castità quando un atleta o un fantino si astiene dalle donne: è invece il loro istinto dominante, almeno nei tempi della matura gravidanza, a esigere questo. Ogni artista sa come l’atto sessuale abbia, negli stati di grande tensione e preparazione spirituale, ripercussioni dannose; per i più potenti e per i più sicuri negli istinti, tra costoro, l’esperienza, la cattiva esperienza da sola non basta, – è invece proprio il loro istinto «materno» ciò che qui, a vantaggio dell’opera in gestazione, spregiudicatamente dispone di tutte le altre riserve e risorse di forza, di vigore della vita animale: la forza più grande utilizza allora quella più piccola. – Si adatti del resto a questa interpretazione il caso sovramenzionato di Schopenhauer: la vista del bello agiva manifestamente in lui come stimolo liberatore sulla forza primaria della sua natura (la forza della riflessione e della profondità di sguardo); sì che questa finiva per esplodere e per diventare d’un subito padrona della coscienza. Con ciò non deve assolutamente escludersi la possibilità che quella particolare dolcezza e pienezza, la quale è propria dello stato estetico, potesse avere la sua origine proprio nell’ingrediente della «sensualità» (la stessa fonte da cui scaturisce quell’«idealismo» tipico delle ragazze da marito) – e che quindi la sensualità non è tolta al subentrare dello stato estetico, come credeva Schopenhauer, ma soltanto si trasfigura e non entra più nella coscienza come stimolo sessuale. (Su questo punto di vista tornerò un’altra volta, in connessione con problemi ancor più delicati della fisiologia dell’estetica, sino a oggi tanto inviolata e non ancora rivelata).
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Un certo ascetismo, abbiamo visto, una dura e serena rinuncia spontaneamente voluta appartiene alle condizioni favorevoli di un’altissima spiritualità, come pure alle sue più naturali conseguenze: così fin dall’inizio non ci sarà da stupirsi se l’ideale ascetico non è mai stato trattato dai filosofi senza qualche prevenzione favorevole. In una seria verifica storica il nesso tra ideale ascetico e filosofia risulta persino ancor più stretto e rigoroso. Si potrebbe dire che unicamente tenendosi alle dande di questo ideale la filosofia ha imparato, in genere, a fare i suoi primi passi e passettini sulla terra – ahimè, ancora così maldestra, ahimè, con aria ancora così scontenta, ahimè, così pronta a fare un capitombolo e a starsene giù bocconi, questo piccolo timido esserucolo goffo e deboluccio dalle gambe storte! Sul principio è accaduto alla filosofia come a tutte le cose buone – per lungo tempo non ebbero il coraggio di essere se stesse, si sbirciavano sempre attorno, caso mai stesse per venire qualcuno in loro aiuto, e peggio ancora, avevano paura di tutti quelli che le stavano a guardare. Passiamo in rassegna i singoli impulsi e le singole virtù del filosofo – il suo impulso al dubbio, il suo impulso alla negazione, il suo impulso ad attendere («efectico»), il suo impulso analitico, il suo impulso all’indagine, alla ricerca, al rischio, il suo impulso a confrontare e a compensare, la sua volontà di neutralità e d’oggettività, la sua volontà di ogni «sine ira et studio» –: non si è già ben compreso che tutti insieme questi impulsi e queste virtù per lunghissimo tempo procedevano in senso opposto alle prime esigenze della morale e della coscienza? (per non parlare della ragione in generale, che ancora Lutero amava chiamare «Madama Saviezza, la savia puttana»). Che un filosofo, ove mai fosse pervenuto alla coscienza, avrebbe dovuto sentirsi addirittura come il «nitimur in vetitum» in carne e ossa – e si guardava quindi dal «sentirsi» tale, dal pervenire alla coscienza?... Come si è detto, non diversamente accade per tutte le buone cose di cui noi oggi andiamo superbi; anche se lo si commisura al metro degli antichi Greci, tutto il nostro essere moderno, in quanto non è fiacchezza, bensì potenza e coscienza di potenza, ha l’aspetto di mera hybris e miscredenza: infatti proprio le cose opposte a quelle che noi oggi veneriamo hanno avuto, per lunghissimo tempo, la coscienza dalla loro parte e Dio a loro custode. Hybris è oggi tutta la nostra posizione rispetto alla natura, la nostra violentazione della natura con l’aiuto delle macchine e della tanto spensierata inventiva dei tecnici e degli ingegneri; hybris è la nostra posizione di fronte a Dio, voglio dire di fronte a qualsivoglia presunto ragno etico-finalistico celato sotto il grande tessuto e reticolo della causalità, – potremmo, come Carlo il Temerario nella battaglia con Luigi XI, dire «je combats l’universelle araignée» –; hybris è la nostra posizione di fronte a noi stessi, giacché eseguiamo esperimenti su di noi, quali non ci permetteremmo su nessun animale, e soddisfatti e curiosi disserriamo l’anima tagliando nella viva carne: che cosa ci importa ancora la «salute» dell’anima! Dopo di ciò ci medichiamo da noi: essere malati è istruttivo, su questo non abbiamo dubbi, ancor più istruttivo che essere sani – i portatori di malattia ci sembrano oggi più necessari persino di qualsivoglia uomo di medicina e «salvatore». Noi oggi esercitiamo violenza su noi stessi, non v’è dubbio, noi schiaccianoci dell’anima, noi problematizzanti e problematici, come se la vita altro non fosse che schiacciar noci; in tal modo, appunto, non dobbiamo necessariamente diventare di giorno in giorno sempre più problematici, più degni di porre problemi, e proprio in tal modo forse anche più degni – di vivere?... Tutte le buone cose furono un tempo cose cattive; da ogni peccato ereditario è scaturita una ereditaria virtù. Il matrimonio, per esempio, parve a lungo un’offesa al diritto della comunità; una volta si pagava un risarcimento per essere così immodesti da pretendere una donna per sé (rientra in ciò lo jus primæ noctis, ancor oggi in Cambogia privilegio dei sacerdoti, questi conservatori di «antichi buoni costumi»). I miti, benevoli, indulgenti, compassionevoli sentimenti – di così elevato valore, alla fine, da essere quasi «i valori in sé» – ebbero per lunghissimo tempo, contro di loro, precisamente il disprezzo di sé: ci si vergognava della mansuetudine come oggi ci si vergogna della durezza (cfr. «Al di là del bene e del male», p. 232). La sottomissione al diritto: – oh, con quali mai contrarietà di coscienza le stirpi nobili hanno ovunque sulla terra fatto atto di rinuncia per parte loro alla vendetta e concesso al diritto un potere su di esse! Il «diritto» è stato a lungo un vetitum, un’empietà, un’innovazione, si fece innanzi con violenza, come violenza a cui ci si adattò unicamente con vergogna dinanzi a se stessi. Ogni più piccolo passo sulla terra è stato conquistato un giorno a prezzo di martìri dello spirito e della carne: questo intero punto di vista, «che non soltanto l’andare avanti, ma il camminare, il muoversi, il trasformarsi abbiano avuto bisogno dei loro innumerevoli martiri», ha per noi proprio oggi un accento così strano – l’ho messo in luce in «Aurora», pp. 17 sgg.
«Niente è stato pagato a più caro prezzo, si dice qui a p. 19, di quel poco di ragione umana e di senso della libertà che oggi costituisce la nostra fierezza. Ma è questa fierezza ciò per cui ora ci diventa quasi impossibile concordare nel sentimento con quegli immensi periodi di tempo dell’“eticità del costume”, i quali precedono la “storia universale”, in quanto reale e decisiva storia primaria che ha stabilito il carattere dell’umanità: quando il soffrire era stimato virtù, la crudeltà virtù, la dissimulazione virtù, la vendetta virtù, la negazione della ragione virtù; mentre invece il benessere era stimato pericolo, l’avidità di sapere pericolo, la pace pericolo, la compassione pericolo, l’essere compassionati oltraggio, il lavoro oltraggio, la follia divinità, il mutamento mancanza di eticità e realtà gravida di distruzione!»...
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Nello stesso libro, p. 39, è chiarito secondo quale apprezzamento, sotto quale pressione d’apprezzamento dovette vivere la più antica stirpe di uomini contemplativi – disprezzata precisamente nella stessa misura nella quale non era temuta! La contemplazione è apparsa per la prima volta sulla terra camuffata nella figura, ambigua nell’aspetto, con un malvagio cuore e spesso con una testa piena d’inquietudine: di ciò non v’è dubbio alcuno. Quel che v’è di inattivo, di arrovellantesi, di poco guerresco negli istinti di uomini contemplativi dispose a lungo intorno a loro un cerchio di profonda diffidenza: contro di ciò non restò alcun altro mezzo che suscitare risolutamente paura di sé. E in questo avevano non poca perizia, per esempio, gli antichi brahmani! I più antichi filosofi seppero dare alla loro esistenza e al loro apparire un senso, un sostegno e uno sfondo, a cagione del quale si apprese a temerli: e se si considera la cosa con maggior esattezza, essi fecero ciò sulla base di un bisogno ancor più fondamentale, vale a dire per ottenere il timore e la venerazione di fronte a se stessi. Poiché trovavano in se stessi tutti i giudizi di valore rivolti contro di sé, dovevano abbattere ogni specie di sospetto e di opposizione contro «il filosofo in sé». Così fecero, da uomini di età terribili, con mezzi terribili: la crudeltà verso se stessi, la ingegnosa automacerazione – fu il principale strumento di questi eremiti e riformatori del pensiero assetati di potenza, che sentivano la necessità di far prima violenza in se stessi agli dèi e alla tradizione per poter credere essi medesimi alla loro riforma. Ricordo la celebre storia del re Viçvamitra, che da millenarie martirizzazioni di sé acquistò un tale senso di potenza e una tale fiducia in se stesso da intraprendere la costruzione di un nuovo cielo: inquietante simbolo della più antica e della più giovane storia dei filosofi sulla terra – chiunque abbia mai una volta edificato un «nuovo cielo», trovò la potenza per questa impresa unicamente nel suo proprio inferno... Ricapitoliamo in brevi formole tutto questo stato di fatto: lo spirito filosofico ha sempre dovuto innanzitutto travestirsi e mascherarsi nei tipi anteriormente stabiliti dell’uomo contemplativo, come sacerdote, mago, indovino, come uomo religioso in generale, per essere in qualche misura anche soltanto possibile: per lungo tempo l’ideale ascetico è servito al filosofo come forma fenomenica, come presupposto esistenziale – costui dovette rappresentarlo, per poter essere filosofo, dovette credere in esso, per poterlo rappresentare. L’atteggiamento appartato dei filosofi, caratteristicamente negatore del mondo, ostile alla vita, incredulo nei sensi, desensualizzato, che è stato mantenuto fino ai nostri tempi e ha in tal modo acquistato validità quasi come atteggiamento filosofico in sé – è soprattutto una conseguenza dello stato di necessità proprio delle condizioni sotto le quali, in generale, la filosofia nacque e prese consistenza: stando cioè al fatto che per lunghissimo tempo la filosofia non sarebbe stata per nulla possibile sulla terra senza un involucro e un rivestimento ascetico, senza un ascetico autofraintendimento. Per esprimermi in maniera palpabile e immediatamente evidente: il prete ascetico ha costituito, fino ai nostri tempi, la ripugnante e cupa forma larvale sotto la quale soltanto la filosofia ebbe diritto di vivere e si mosse tortuosamente strisciando... Ma si sono realmente mutate le cose? Il variopinto, pericoloso, alato insetto, quello «spirito» che questa larva racchiudeva in sé, è stato realmente liberato infine dal suo involucro e fatto erompere alla luce, grazie a un mondo più solatio, più caldo, più luminoso? V’è oggi già abbastanza fierezza, audacia, valentia, certezza di se, volontà dello spirito, volontà di responsabilità, libertà del volere, perché realmente ormai, sulla terra, «il filosofo» – sia possibile?...
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Solo a questo punto, ora che il prete ascetico è già stato messo in luce, incalziamo seriamente da vicino il nostro problema: che cosa significa l’ideale ascetico? – ora soltanto esso diventa «una cosa seria»: siamo ormai faccia a faccia con il vero e proprio rappresentante della serietà in generale? «Che cosa significa ogni serietà?» – questa domanda ancor più fondamentale sta forse qui già sulle nostre labbra: una domanda per fisiologi, com’è giusto, davanti alla quale tuttavia per il momento passiamo oltre. Il prete asceta ripone in quell’ideale non soltanto la sua fede, bensì anche la sua volontà, la sua potenza, il suo interesse. Con quell’ideale si erige e cade il suo diritto all’esistenza: c’è da stupirsi se ci imbattiamo qui in un tremendo avversario, una volta ammesso che noi fossimo gli avversari di codesto ideale? un avversario che lotta per la sua esistenza contro i negatori di quell’ideale?... D’altro canto, non è a tutta prima verosimile che una posizione in tal modo interessata riguardo al nostro problema possa essere a questo particolarmente vantaggiosa; difficilmente il prete ascetico potrà da solo assumersi la parte di felicissimo difensore del proprio ideale, per la stessa ragione per la quale incappa di solito nell’insuccesso una donna allorché vuole prendere le difese della «donna in sé» – tanto meno poi potrà atteggiarsi a giudice e arbitro assolutamente obiettivo della controversia qui sollevata. Quindi dovremo ancora assisterlo – è ormai questo un fatto palmare – a difendersi bene contro di noi, piuttosto che aver noi da temere di essere troppo bene confutati da lui... Il pensiero intorno al quale qui si dà battaglia è la valutazione della nostra vita da parte dei preti ascetici: quest’ultima (unitamente a quanto rientra in essa, «natura», «mondo», l’intera sfera del divenire e della caducità) viene messa da costoro in relazione a un’esistenza di specie del tutto diversa, alla quale essa si rapporta in guisa antitetica ed esclusiva, salvo il caso che non si rivolga a un certo punto contro se stessa, neghi se stessa: in questa eventualità, l’eventualità di una vita ascetica, la vita ha il valore di un ponte per quell’altra esistenza. L’asceta tratta la vita come un cammino sbagliato, che si finisce per dover ripercorrere a ritroso fino al punto dove comincia; ovvero come un errore che si confuta – si deve confutare, mediante l’azione: giacché costui esige che si proceda insieme a lui, impone a forza, dove può, la sua valutazione dell’esistenza. Che significa questo? Una siffatta spaventosa modalità di valutazione non sta iscritta nella storia dell’uomo come eccezione e singolarità: essa è una delle realtà di fatto più estese e più durevoli che siano mai esistite. Letta da una lontana costellazione, forse la scrittura maiuscola della nostra esistenza terrestre indurrebbe a concludere che la terra sia la stella propriamente ascetica, un cantuccio di creature scontente presuntuose e ripugnanti, del tutto incapaci di liberarsi da un profondo tedio di sé, della terra, di ogni vita, e intente a fare a se stesse il maggior male possibile, per il piacere di far male – verosimilmente il loro unico piacere. Consideriamo pertanto come il prete ascetico faccia sentire regolarmente, universalmente, quasi in tutti i tempi, la sua presenza; non appartiene a una determinata razza; prospera ovunque; germina da tutti i ceti. Non che abbia coltivato e trapiantato forse la sua guisa di valutazione in via ereditaria: si tratta del caso opposto – un profondo istinto gli vieta invece, in via di massima, il prolificare. Deve essere una necessità di prim’ordine quella che fa sempre di nuovo crescere e prosperare questa specie ostile alla vita – deve pur essere un interesse della vita stessa, che non vada estinto un siffatto tipo di autocontraddizione. Una vita ascetica è infatti un’autocontraddizione: domina qui un ressentiment senza eguali, quello di un insaziato istinto e una volontà di potenza che vorrebbe signoreggiare non su qualcosa della vita, ma sulla vita stessa, sulle sue più profonde, più forti, più sotterranee condizioni; qui si consuma un tentativo di impiegare la forza per ostruire le sorgenti della forza; qui lo sguardo si rivolge, astioso e perfido, contro la stessa prosperità fisiologica, in particolare contro la sua espressione, la bellezza, la gioia; mentre si avverte e si ricerca un compiacimento dell’insuccesso, della marcescenza, del dolore, della sventura, del brutto, dell’espiazione volontaria, dell’autorinuncia, della flagellazione e dell’olocausto di se stessi. Tutto ciò è paradossale in sommo grado: ci troviamo qui di fronte a una disarmonicità che vuole se stessa disarmonica, che di se stessa gode in questa sofferenza, e nella misura in cui vien meno il suo proprio presupposto, la fisiologica attitudine vitale, diventa persino ognor più sicura di sé e più trionfante. «Il trionfo proprio nell’ultima agonia»: sotto questo segno superlativo ha combattuto da tempi immemorabili l’ideale ascetico; in questo enigma di seduzione, in questa immagine di estasi e di tormento ha riconosciuto la sua più chiara luce, la sua salute, la sua vittoria definitiva. Crux, nux, lux – in esso sono una cosa sola.
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Ammesso che una tale volontà vivente di contraddizione e di contronatura sia spinta a filosofare: su che cosa darà libero sfogo al suo più intimo arbitrio? Su quanto viene avvertito con la massima sicurezza come vero, come reale: essa cercherà l’errore proprio laddove il vero e proprio istinto vitale impianta la verità nel modo più incondizionato. Degraderà, per esempio, come fecero gli asceti della filosofia Vedanta, la corporeità a illusione, e similmente il dolore, la molteplicità, l’intera antitesi concettuale «soggetto» e «oggetto» – errori, null’altro che errori! Ricusare fede al proprio io, negare a se stessi la propria «realtà» – quale trionfo! – ormai non più semplicemente sui sensi, sull’evidenza; una sorta molto più elevata di trionfo, una violenza e una crudeltà esercitate sulla ragione: voluttà, questa, che giunge al suo culmine allorché l’ascetico autodisprezzo e autodileggio della ragione decreta: «Esiste un regno della verità e dell’essere, ma proprio la ragione ne è esclusa!»... (Sia detto di passaggio: persino nel concetto kantiano del «carattere intelligibile delle cose» sopravvive qualcosa di questa lasciva disarmonicità ascetica, che ama rivolgere ragione contro ragione: «carattere intelligibile» significa infatti in Kant una modalità costitutiva delle cose, di cui l’intelletto intende appunto solo che essa per l’intelletto – è assolutamente incomprensibile). – Proprio come uomini della conoscenza, non dobbiamo infine mancare di riconoscenza verso tali risoluti rovesciamenti delle prospettive e delle valutazioni consuete, con le quali troppo a lungo lo spirito ha in guisa apparentemente empia e senza alcun vantaggio imperversato contro se stesso: vedere a questo modo per una volta diversamente, voler vedere diversamente è una non piccola disciplina e propedeutica dell’intelletto alla sua futura «obiettività» – intesa quest’ultima non come «intuizione disinteressata» (che come tale è un non-concetto e un controsenso), bensì come la facoltà di avere in proprio potere, di scombinare e combinare il nostro pro e contro: cosicché si sa utilizzare, per la conoscenza, proprio la diversità delle prospettive e delle interpretazioni affettive. D’ora innanzi guardiamoci meglio infatti, signori filosofi, dal pericoloso, antico favoleggiamento concettuale, che ha impiantato un «puro, senza volontà, senza dolore, atemporale soggetto della conoscenza»; guardiamoci dalle prensili braccia di tali concetti contraddittori come «pura ragione», «assoluta spiritualità», «conoscenza in sé»; – qui si pretende sempre di pensare un occhio che non può affatto venir pensato, un occhio che non deve avere assolutamente direzione, in cui devono essere troncate, devono mancare le forze attive e interpretative, mediante le quali soltanto vedere diventa un vedere qualcosa; qui dunque viene sempre preteso un controsenso e un non-concetto di occhio. Esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un «conoscere» prospettico; e quanti più affetti lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro «concetto» di essa, la nostra «obiettività». Ma eliminare in genere la volontà, sospendere tutte quante le passioni, ammesso che di questo fossimo capaci: come? non significherebbe castrare l’intelletto?...
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Ma torniamo indietro. Una siffatta autocontraddizione, come sembra rappresentarsi nell’asceta, «vita contro vita», risulta – e questo è innanzitutto un fatto palmare – a un esame fisiologico e non più psicologico, semplicemente un non senso. Essa può essere solo apparente; dev’essere una specie di espressione provvisoria, una interpretazione, una formola, un riassetto, un fraintendimento psicologico di qualche cosa la cui specifica natura per lungo tempo non poté essere compresa, per lungo tempo non poté essere designata in se stessa – una parola e nulla più, inzeppata in un’antica lacuna della conoscenza umana. E per contrapporre in breve il dato di fatto: l’ideale ascetico scaturisce dall’istinto di protezione e di salute di una vita degenerante, che cerca con tutti i mezzi di conservarsi e lotta per la sua esistenza; esso indica una parziale inibizione ed estenuazione fisiologica, contro la quale combattono incessantemente, con nuovi mezzi e invenzioni, i più profondi istinti vitali rimasti intatti. L’ideale ascetico è un siffatto mezzo: le cose si presentano, dunque, precisamente all’opposto di quel che pensano i veneratori di questo ideale – la vita lotta in esso e attraverso di esso con la morte e contro la morte, l’ideale ascetico è uno stratagemma nella conservazione della vita. Che questo potesse signoreggiare e divenir possente sugli uomini nella misura in cui ce ne dà ammaestramento la storia, in particolare laddove venne attuata la civilizzazione e il rammansimento degli uomini, è l’espressione di un grande fatto: lo stato morboso nel tipo umano sino a oggi esistente, o quanto meno nel tipo dell’uomo reso mansueto, la lotta fisiologica dell’uomo con la morte (più esattamente: con il fastidio della vita, con l’estenuazione, con il desiderio della «fine»). Il prete asceta è il desiderio, fatto carne, di un essere-in-altro-modo, di un essere-in-altro-luogo, e invero il grado supremo di questo desiderio, il suo caratteristico ardore e la sua passione: ma appunto la potenza del suo desiderare è il ceppo che lo inchioda qui; appunto in tal modo egli diventa lo strumento costretto a lavorare per creare condizioni più favorevoli per essere-qui ed essere-uomo – appunto con questa potenza tiene ancorato all’esistenza l’intero gregge d’ogni genere di falliti, di malcontenti, di malriusciti, di sciagurati, di sofferenti di sé. Mi si comincia a capire: questo prete asceta, questo apparente nemico della vita, questo negatore – appartiene precisamente alle più grandi forze conservatrici e affermativamente creatrici della vita... Da che cosa dipende quello stato morboso? Poiché l’uomo è più malato, più insicuro, più mutevole, più indeterminato di qualsiasi altro animale, non v’è dubbio – è l’animale malato: come mai è così? Certo, più di tutti gli altri animali presi insieme, egli ha anche tentato, innovato, affrontato, sfidato il destino: questo grande sperimentatore di se stesso, questo inappagato, questo insaziato, che per l’ultima supremazia contende con animali, natura e deità, questo pur sempre indomabile, eternamente di là da venire, che per l’empito della sua stessa forza non trova più requie, sì che il suo futuro, come uno sprone, spietatamente gli va frugando nella carne d’ogni presente – come non dovrebbe essere, un tale ardito e ricco animale, anche il più esposto al pericolo, il più lungamente e profondamente malato tra tutti gli animali malati?... L’uomo è ristucco di tutto ciò, abbastanza spesso, esistono intere epidemie di questo stato di saturazione (– così intorno al 1348, al tempo della danza macabra): ma persino questa nausea, questa stanchezza, questo tedio di se stessi – tutto si manifesta in lui con tale potenza che torna subito a essere una nuova catena. Quel no che egli dice alla vita porta alla luce, come per magia, una moltitudine di più squisiti sì; proprio così, se si ferisce, questo maestro della distruzione, dell’autodistruzione – è poi la ferita stessa che lo costringe a vivere...
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Quanto più è normale lo stato d’infermità nell’uomo – e non possiamo contestare la normalità di questo fatto –, tanto più in onore si dovrebbero tenere i rari casi della possanza d’anima e di corpo, i casi fortunati di umanità, tanto più rigorosamente si dovrebbe preservare i benriusciti dalla pessima atmosfera, l’atmosfera dei malati. È così che si fa?... I malati sono il pericolo massimo per i sani; non dai più forti viene il danno per i forti, bensì dai più deboli. Sappiamo noi questo?... Con un calcolo in grande, non è affatto la paura dinanzi all’uomo ciò di cui sarebbe lecito desiderare l’attenuazione: questa paura infatti costringe i forti a essere forti, e talora terribili – essa mantiene in piedi il tipo umano benriuscito. Quel che è da temere, quel che ha effetti funesti come nessun’altra fatalità, non sarebbe la grande paura, sibbene la grande nausea di fronte all’uomo; e così pure la grande compassione per l’uomo. Supposto che un bel giorno l’una e l’altra s’accoppiassero, entrerebbe subito nel mondo, inevitabilmente, qualcosa di straordinariamente sinistro, l’«ultima volontà» dell’uomo, la sua volontà del nulla, il nichilismo. E in realtà, molto è a tutto ciò predisposto. Chi non ha soltanto un naso per fiutare, bensì anche occhi e orecchie, sente le tracce, quasi ovunque muova oggi anche soltanto un passo, di qualcosa come un’atmosfera da manicomio e da ospedale – parlo, ovviamente, delle aree culturali dell’uomo, di ogni specie d’«Europa» che con l’andar del tempo esista sulla terra. Gli infermicci sono il grande pericolo dell’uomo: non i malvagi, non «gli animali da preda». Gli sventurati sin dall’origine, i reietti, i fatti a pezzi – costoro, che sono i più deboli, sono quelli che più di chiunque altro minano la vita tra gli uomini, quelli che intossicano e mettono in questione nel modo più pericoloso la nostra fiducia nella vita, nell’uomo, in noi stessi. Dove ci si potrebbe mai sottrarre a quello sguardo vòlto a ritroso dello sgorbio di natura, sguardo nel quale si tradisce il dialogo di un tale uomo con se stesso – quello sguardo che è un sospiro! «Potessi essere un altro qualsiasi!» così sospirano questi occhi: «Ma non c’è speranza. Sono quello che sono: come potrei liberarmi da me stesso? Eppure – sono sazio di me!»... Su questo terreno di autodisprezzo, un vero e proprio pantano, cresce ogni malerba, ogni pianta velenosa e tutto è così piccolo, così nascosto, così disonesto, così dolciastro. Qui brulicano i vermi dei sentimenti di vendetta e di rancore; qui l’aria è fetida di cose segrete e inconfessabili; qui si va continuamente tessendo la rete della più maligna congiura – la congiura dei sofferenti contro i benriusciti e i vittoriosi, qui l’aspetto stesso del vittorioso viene odiato. E quante menzogne per non voler riconoscere quest’odio come odio! Che sfoggio di parole grosse e atteggiamenti, quale arte di «onesta» diffamazione! Questi malriusciti: che nobile eloquenza sgorga dalle loro labbra! Quale zuccherosa, vischiosa, umile devozione galleggia nei loro occhi! Che cosa vogliono propriamente? Per lo meno rappresentare la giustizia, l’amore, la saggezza, la superiorità – è questa l’ambizione di codesti «infimi», di codesti malati! E come rende abili una tale ambizione! Si ammiri, infatti, l’abilità da falsari con cui viene qui imitato il conio della virtù, persino il tintinnio, il dorato tintinnio della virtù. Ora hanno preso completamente in affitto la virtù, questi deboli e malati-incurabili, non v’è dubbio: «Noi soltanto siamo i buoni, i giusti – dicono costoro – noi soltanto siamo gli homines bonæ voluntatis». Si aggirano tra noi come rimproveri viventi, come ammonizioni dirette a noi – come se salute, corpo ben riuscito, forza, orgoglio, senso di potenza siano già in sé cose biasimevoli, per le quali si debba un giorno espiare, amaramente espiare: oh quanto sono pronti in fondo costoro a far espiare, quanta è la loro sete di diventare carnefici. Pullulano tra loro i bramosi di vendetta travestiti da giudici, che hanno sempre in bocca la parola «giustizia» come bava avvelenata, sempre con una smorfia sulle labbra, sempre pronti a sputare su tutto quanto non ha l’aria scontenta e va di buon animo per la sua strada. Fra costoro non manca neppure quella nauseabonda genia di vanitosi, aborti di menzogna, che mirano a far da «anime belle» e a esibire semmai sul mercato, avviluppata in versi e in altri pannolini, la loro malconcia sensualità come «purità del cuore»: la genia degli onanisti morali e di quelli che «soddisfanno se stessi». La volontà dei malati di rappresentare una qualsiasi forma di superiorità, il loro istinto per le vie traverse, che conducono a una tirannide sui sani – dove non è mai giunta questa volontà di potenza caratteristica proprio dei più deboli? Particolarmente la donna malata: nessuno la supera in raffinatezza di dominio, d’oppressione, di tirannide. A questo scopo la donna malata non risparmia niente di vivo, torna a dissotterrare le più sepolte cose (i Bogo dicono: «La donna è una iena»). Si getti uno sguardo nel retroscena di ogni famiglia, di ogni corporazione, di ogni comunità: ovunque la battaglia dei malati contro i sani – una battaglia silenziosa, per lo più con piccole polveri avvelenate, con punture d’aghi, con insidiosa mimica-da-martiri-rassegnati, e talora anche con quel fariseismo-da-malati dall’accentuato gestire, che ama moltissimo la commedia della «nobile indignazione». Sin entro i consacrati spazi della scienza vorrebbe farsi udire il roco latrato d’indignazione dei cani malati, la mordace mendacità e furia di tali «nobili» farisei (– ricordo ancora ai lettori che hanno orecchie l’apostolo della vendetta, Eugen Dühring, che nella Germania attuale fa il più indecoroso e ripugnante abuso del bum-bum morale: Dühring, il primo fanfarone della morale che oggi esista, persino tra i suoi simili, gli antisemiti). Sono tutti uomini del ressentiment, questi esseri fisiologicamente sciagurati e bacati, un’intera terrestre genia tremante di sotterranea vendetta, inesauribile, insaziabile nei suoi accessi contro i felici, come lo è nelle sue mascherate di vendetta, nei suoi pretesti di vendetta: quando potrebbero veramente giungere al loro ultimo più sottile e più sublime trionfo di vendetta? Indubbiamente, allorché riuscissero a trasferire la loro miseria, ogni miseria in generale, nella coscienza dei felici: così che questi cominciassero un giorno a vergognarsi della loro felicità e si dicessero forse tra loro «essere felici è un’infamia! esiste troppa miseria!»... Ma non potrebbe esserci fraintendimento più grande e più funesto di quello che si avrebbe ove mai i felici, i benriusciti, i più possenti nel corpo e nell’anima, principiassero in questo modo a dubitare del loro diritto alla gioia. Basta con questo «mondo alla rovescia»! Basta con questo ignominioso infrollirsi del sentimento! Che i malati non facciano ammalare i sani – tale sarebbe il significato di un siffatto infrollimento –, dovrebbe pur essere la suprema prospettiva sulla terra – ma prima di tutto è compreso in ciò il fatto che i sani restino separati dai malati, preservati persino dalla vista dei malati, che non vengano a confondersi coi malati. O sarebbe forse loro compito essere infermieri o medici?... Ma non potrebbero disconoscere e rinnegare il loro compito in un modo peggiore di questo – il superiore non deve degradarsi a strumento dell’inferiore, il pathos della distanza deve tener eternamente distinti anche i compiti! Il loro diritto di esistere, la priorità della campana dalla piena risonanza su quella dissonante, incrinata, è invero un diritto mille volte più grande: essi soli sono i mallevadori dell’avvenire, essi soli sono in obbligo per l’avvenire dell’umanità. Quel che essi possono, quel che essi devono, non è in facoltà di gente malata potere e dovere: ma affinché essi possano quel che essi soltanto devono, come potrebbero mai essere liberi di fare i medici, i consolatori, i «salvatori» dei malati?... Aria buona, perciò! Aria buona! E alla larga comunque da tutti i manicomi e gli ospedali della cultura! E perciò buona compagnia, la nostra compagnia! Oppure, se dev’essere, solitudine! Ma comunque alla larga dagli sgradevoli miasmi della putrescenza interiore e dalla occulta verminaia di gente malata!... Affinché almeno un poco ancora ci sia dato difendere noi stessi, amici, dalle due peggiori pestilenze che proprio a noi possono essere riservate – dalla grande nausea per l’uomo! dalla grande compassione per l’uomo!...
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Se si è compreso alla radice – ed esigo che proprio qui si scavi a fondo, si intenda a fondo – in che senso non possa essere assolutamente compito dei sani attendere ai malati, risanare malati, si sarà al tempo stesso compresa anche un’ulteriore necessità – la necessità di medici e infermieri, che siano essi stessi malati: e si terrà ormai ben stretto con ambo le mani il significato del prete asceta. Il prete asceta deve essere considerato da noi come il predestinato salvatore, pastore e difensore del gregge malato: solo così comprendiamo la sua enorme missione storica. Il dominio sui sofferenti è il suo regno, a esso lo rinvia il suo istinto, in esso possiede la sua vera arte, la sua maestria, la sua specie di felicità. Deve essere lui stesso malato, deve essere fondamentalmente affine ai malati e ai tarati per comprenderli – per intendersi con loro; ma deve anche essere forte, ancor più padrone di sé che di altri, particolarmente indenne nella sua volontà di potenza, per poter essere per costoro appoggio, resistenza, puntello, costrizione, correttore, tiranno, dio. Ha da difenderlo, questo suo gregge – ma contro chi? Contro i sani, non v’è dubbio, e anche contro l’invidia per i sani; deve essere il naturale avversario, nonché spregiatore, di ogni rude, tempestosa, sfrenata, aspra, brutalmente rapace salute e possanza. Il prete è la prima forma dell’animale più delicato, il quale disprezza molto più di quanto non odii. Non potrà fare a meno di muover guerra agli animali da preda, una guerra di astuzia (dello «spirito») più che di violenza, come va da sé – talora sarà per giunta costretto a foggiare in sé quasi un nuovo tipo di bestia predatrice, o per lo meno a significarlo – una nuova terribilità ferina, in cui l’orso polare, l’elastico, freddo gattopardo in agguato, e non in minor misura la volpe sembrano legati in una unità tanto fascinosa quanto terrifica. Posto che la necessità lo esiga, avanzerà quindi tra le stesse altre specie di animali rapaci, accigliato come un orso, maestoso, accorto, freddo, ingannevolmente superiore, come un araldo e un portavoce di misteriose potenze, deciso a seminare dove è possibile su questo terreno dolore, discordia, autocontraddizione, e, sicuro quant’altri mai della arte propria, a diventar signore in ogni momento dei sofferenti. Reca con sé unguenti e balsami, non v’è dubbio; ma ha prima bisogno di ferire per poter essere medico; quindi, mentre lenisce il dolore cagionato dalla ferita, avvelena al tempo stesso la ferita – giacché in ciò è soprattutto abile, questo incantatore e domatore di belve, intorno al quale tutto ciò che è sano diventa necessariamente malato e tutto ciò che è malato diventa necessariamente mansuefatto. In realtà costui difende abbastanza bene il suo gregge malato, questo singolare pastore – lo difende altresì contro se medesimo, contro quella scelleratezza, malignità, malevolenza che persino nel gregge covano sotto la cenere, e contro tutto quanto è proprio, del resto, di ogni tossicomane e di ogni malato nei confronti l’uno dell’altro; lotta accortamente, spietatamente e segretamente con l’anarchia e con l’autodissoluzione sempre prossime a generarsi all’interno del gregge, nel quale si va continuamente vieppiù accumulando quella pericolosa sostanza deflagratrice ed esplosiva, il ressentiment. Far esplodere questa sostanza deflagrante così che non mandi all’aria né il gregge né il suo pastore, questo è il suo caratteristico giuoco di destrezza e anche la sua massima utilità: se si volesse compendiare, in una stringatissima formola, il valore dell’esistenza sacerdotale, si dovrebbe senz’altro dire: il prete è il modificatore di direzione del ressentiment. Ogni sofferente, infatti, cerca istintivamente una causa del proprio dolore; più esattamente ancora, un autore, o per essere ancor più precisi, un autore responsabile, sensibile alla sofferenza – insomma un qualsivoglia essere vivente su cui, con un qualche pretesto, possa scaricare di fatto o in effigie le sue passioni; poiché lo sgravarsi delle passioni è il massimo tentativo di sollievo, cioè di stordimento da parte del sofferente, il suo narcotico involontariamente desiderato contro ogni sorta di tormento. Unicamente qui, secondo la mia supposizione, è da rinvenire la reale radice fisiologica del ressentiment, della vendetta e simili, in un desiderio dunque di ottundimento del dolore per via passionale – comunemente essa viene cercata, in guisa a mio parere erronea, nel contraccolpo difensivo, in una semplice misura protettiva della reazione, in un «moto riflesso», quale si determina nel caso di una qualche improvvisa lesione o pericolo, analogamente a quello che ancora va effettuando una rana decapitata, per sottrarsi a un acido corrosivo. La differenza è tuttavia fondamentale: in un caso si vuole impedire la ricezione di un danno ulteriore, nell’altro si vuole intorpidire un dolore tormentoso, segreto, progressivamente intollerabile, mediante una più intensa emozione di qualsivoglia specie e per il momento eliminarlo almeno dalla coscienza – a tal uopo occorre una passione, una passione possibilmente forsennata nonché, per stimolarla, il primo buon pretesto. «Qualcuno deve essere responsabile del fatto che mi sento male» – è caratteristica di tutti i malati questa specie di conclusione, e per la verità quanto più resta loro occulta la vera causa del loro sentirsi male (– può risiedere, per esempio, in una patologia del nervus sympathicus o in una abnorme secrezione biliare o in una deficienza di solfati e di fosfati nel sangue o in uno stato di ipertensione del basso ventre che arresta la circolazione sanguigna o in una degenerazione delle ovaie e simili). I sofferenti sono tutti spaventosamente solleciti e ingegnosi nel trovar pretesti per dolorose passioni; assaporano già il loro sospetto, il lambiccarsi su scelleratezze e apparenti nocumenti, grufolano nei visceri del loro passato e del loro presente alla ricerca di cupe problematiche storie, dove sono liberi di crogiolarsi in una tormentosa diffidenza e di inebriarsi del loro stesso veleno di malvagità – strappano le bende alle più antiche piaghe; da cicatrici risanate da lungo tempo spremono il sangue fino a morirne; dell’amico, della moglie, del figlio fanno dei malfattori e di chiunque altro sia tra i più intimi loro. «Io soffro: qualcuno deve averne la colpa» – così pensa ogni pecora malaticcia. Ma il suo pastore, il prete asceta, dice a essa: «Bene così, la mia pecora! qualcuno deve averne la colpa: ma sei tu stessa questo qualcuno, sei unicamente tu ad averne la colpa – sei unicamente tu ad aver colpa di te stessa!»... Questo è abbastanza temerario, abbastanza falso: ma se non altro una cosa in tal modo è raggiunta, in tal modo come si è detto la direzione del ressentiment... è mutata.
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Ormai si indovina che cosa per lo meno ha tentato, a mio avviso, l’artistico istinto risanatore della vita attraverso il prete ascetico e a che scopo si sia dovuto servire di una temporanea tirannide di nozioni paradossali e paralogiche come «colpa», «peccato», «peccaminosità», «pervertimento», «dannazione»: a rendere innocui sino a un certo punto i malati, a distruggere gl’inguaribili attraverso se stessi, a dare ai malati lievi una rigorosa direzione alla volta di sé, una direzione a ritroso del loro ressentiment («una cosa sola è necessaria» –)26 e a sfruttare in tal modo i cattivi istinti di tutti i sofferenti ai fini dell’autodisciplina, dell’autocontrollo, dell’autosuperamento. Va da sé che non può trattarsi assolutamente, con una «medicazione» di questa specie, una mera medicazione affettiva, di un reale risanamento dei malati, fisiologicamente inteso; non si potrebbe neppure affermare che qui l’istinto della vita abbia in qualche modo intenzionalmente mirato al risanamento. Una sorta di concentrazione e organizzazione dei malati, da un lato (– la designazione più popolare di ciò è la parola «Chiesa»), e dall’altro una sorta di provvisoria sistemazione di sicurezza per coloro che sono riusciti più sani, per coloro che sono fucinati in modo più compiuto, lo spalancarsi, quindi, di un abisso tra sano e malato – ciò è stato, per lungo tempo, tutto! Ed è stato molto! È stato moltissimo!... [Come si vede, in questa dissertazione procedo da un presupposto al quale, in considerazione dei lettori di cui ho bisogno, non mi è necessario dare una fondazione preventiva: essere cioè la «peccaminosità» dell’uomo non un dato di fatto, ma piuttosto unicamente l’interpretazione di un dato di fatto, vale a dire di una perturbazione fisiologica – intesa quest’ultima in una prospettiva morale-religiosa che non ha per noi più alcun valore vincolante. – Col fatto che qualcuno si sente «colpevole», «peccaminoso», non è ancora per nulla dimostrato che a ragione egli si senta tale; allo stesso modo con cui qualcuno non è sano semplicemente perché si sente sano. Ci si rammenti dei famosi processi alle streghe: in quel tempo i giudici più oculati e umanamente benevoli non dubitavano della presenza di una colpa a questo riguardo; persino le «streghe» non avevano su ciò alcun dubbio – e tuttavia la colpa mancava! – Per esprimere codesto presupposto in forma più estesa: lo stesso «dolore dell’anima» non ha per me alcun valore come dato di fatto, bensì soltanto come un’interpretazione (interpretazione causale) di dati di fatto sino a oggi non suscettibili di una esatta formulazione: come qualche cosa, quindi, che è ancora perfettamente campato in aria e scientificamente non vincolante – propriamente una parola obesa al posto di un segno interrogativo addirittura secco come un chiodo. Se uno non la fa finita con un «dolore dell’anima», questo non dipende, per dirla in maniera grossolana, dalla sua «anima», ma con alquanto maggior verosimiglianza dal suo ventre (per esprimerci in termini grossolani, come si è detto: con la qual cosa non è ancora in alcun modo espresso il desiderio di venire grossolanamente ascoltati e grossolanamente compresi...). Un uomo forte e ben riuscito digerisce le sue esperienze (incluse azioni e malefatte), come digerisce i suoi pasti, anche se deve ingollare amari bocconi. Se «non la fa finita» con una esperienza, questa specie di indigestione è altrettanto fisiologica quanto ogni altra – e in realtà spesso solo una conseguenza di codeste altre. – Con una tale concezione, diciamolo tra noi, si può pur sempre essere i più severi avversari di ogni materialismo...].
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Ma è propriamente un medico, questo prete asceta? – Abbiamo già capito in che senso è a malapena permesso chiamarlo un medico, per quanto egli senta volentieri se stesso come «salvatore» e come «salvatore» si faccia venerare. Solo la sofferenza in se stessa, lo scontento del sofferente viene da lui combattuto, non la loro causa – questo deve costituire la nostra massima obiezione di fondo contro il metodo curativo sacerdotale. Ma una volta posti in quella prospettiva che unicamente è nota e posseduta dal prete, difficilmente si cesserà di ammirare tutto quanto costui ha, sotto quella prospettiva, veduto, cercato e trovato. L’alleviamento della sofferenza, il «confortare» d’ogni specie – ciò si rivela come il suo genio stesso; con quanta ingegnosità ha egli compreso il suo compito di consolatore, con quanta spregiudicatezza e audacia ha scelto i mezzi per esso! Si potrebbe chiamare il cristianesimo, in special modo, una grande tesoreria di spiritualissimi mezzi di conforto, tanto v’è in esso di ristorante, d’alleviante, di narcotizzante, tanti sono i rischi e le temerarietà estreme osate a questo scopo, tanta è stata la sottigliezza, la raffinatezza, la meridionale raffinatezza con cui esso in particolare ha saputo intuire con quale sorta di passioni stimolatrici può essere almeno temporaneamente debellata la depressione profonda, la plumbea estenuazione, la nera tristezza dei fisiologicamente inibiti. Infatti, parlando in generale: presso tutte le grandi religioni si è trattato principalmente di combattere una certa stanchezza e pesantezza divenuta epidemica. Si può preliminarmente stabilire come verosimile il fatto che di quando in quando, in determinati luoghi della terra, deve quasi necessariamente impadronirsi di larghe masse un fisiologico senso d’inibizione, che tuttavia, per mancanza di sapere fisiologico, non si fa come tale strada nella coscienza, cosicché la sua «causa», il suo rimedio, può essere altresì cercato e tentato unicamente per via psicologico-morale (– questa, infatti, è la mia formola più generale per quanto viene comunemente chiamato «religione»). Un tale senso d’inibizione può avere la più diversa origine: in quanto conseguenza, per esempio, di un incrocio di razze troppo estranee (oppure di classi – classi esprimono sempre anche differenze di origine e di razza: l’europeo «dolore cosmico», il «pessimismo» del XIX secolo è essenzialmente il risultato di un’assurdamente improvvisa promiscuità delle classi); oppure è dovuto a una errata emigrazione – una razza incappata in un clima per il quale non basta la sua forza di adattamento (è il caso degli Indiani in India); oppure la ripercussione di una senescenza e di un’estenuazione della razza (il pessimismo parigino a partire dal 1850); oppure di una dieta erronea (alcolismo del Medioevo; l’assurdità dei vegetarians, che indubbiamente hanno dalla loro l’autorità del gentiluomo shakespeariano Cristoforo); o da una corruzione del sangue, malaria, sifilide e simili (la depressione tedesca dopo la Guerra dei trent’anni, che appestò mezza Germania di brutte malattie e preparò in tal modo il terreno per il servilismo tedesco, per la tedesca codardia). In un caso del genere si intraprende ogni volta il tentativo in grandissimo stile di una lotta contro il senso di scontento; informiamoci brevemente sulle sue pratiche e forme più importanti. (Trascuro qui del tutto, ovviamente, la caratteristica lotta dei filosofi contro il senso di scontento, la quale è di solito sempre simultanea – è una lotta abbastanza interessante, ma troppo assurda, troppo praticamente indifferente, troppo intessuta a ragnatela, troppo da fannulloni: per esempio, quando si vuol dimostrare l’erroneità della sofferenza, nell’ingenuo presupposto che la sofferenza debba sparire, non appena l’errore è in essa riconosciuto – ma vedi caso! si è ben guardata dallo sparire...). In primo luogo si combatte codesto dominante scontento attraverso mezzi che degradano al suo infimo livello il senso della vita in generale. Se possibile, più nessuna volontà, nessun desiderio; evitare tutto quanto crea passione, fa «sangue» (non mangiar sale: igiene del fachiro); non amare; non odiare; imperturbabilità; non vendicarsi; non arricchirsi; non lavorare; mendicare; possibilmente nessuna donna o meno donne possibile; sotto il riguardo intellettuale il principio pascaliano «il faut s’abêtir» –. Risultato, in termini psicologico-morali, «rifiuto di sé», «santificazione»; in termini fisiologici: ipnosi – il tentativo di raggiungere in via d’approssimazione per l’uomo, quello che per alcune specie animali è il letargo invernale, per molte piante dei climi torridi il letargo estivo, un minimum di consumo e di ricambio organico, in cui la vita appunto continua a sussistere, senza farsi propriamente ancora oggetto di coscienza. Si è spesa a questo fine una quantità sorprendente d’energia umana – inutilmente forse?... Che tali sportsmen della «santità», di cui abbondano tutte le età e quasi tutti i popoli, abbiano effettivamente trovato una liberazione reale da ciò che con un training tanto severo combattevano, è un fatto di cui non si può assolutamente dubitare – in innumerevoli casi, con l’aiuto del loro sistema di mezzi ipnotici, si sbarazzarono realmente di quella profonda depressione fisiologica: ragion per cui il loro metodo si annovera tra i più generali dati di fatto etnologici. Similmente non si è in alcun modo autorizzati a includere, già di per sé, tra i sintomi della follia una tale intenzione di ridurre alla fame la corporeità e le bramosie (come ama fare una balorda genia di «liberi spiriti», e di nobili Cristofori divoratori di roastbeef). Tanto più è sicuro che essa serve e può servire da strada verso ogni specie di perturbazioni intellettuali, verso le «luci interiori», per esempio, come negli «esicasti» del Monte Athos, verso allucinazioni acustiche e ottiche, voluttuosi straripamenti ed estasi della sensualità (storia di santa Teresa). L’interpretazione che di tali stati viene data da quanti ne sono affetti è stata sempre il più possibile fantasiosamente falsa, ciò va da sé: solo non si trascuri di fare attenzione al tono di convintissima riconoscenza, che appunto si fa sentire già nella volontà di una siffatta specie di interpretazione. Lo stato supremo, la liberazione stessa, quella ipnosi totale e quiete finalmente raggiunta vale sempre per costoro come mistero in sé, a esprimere il quale non bastano neppure i più alti simboli, come prendere albergo e rimpatriare nel fondo delle cose, come affrancarsi da ogni illusione, come «sapere», come «verità», come «essere», come sbarazzarsi da ogni meta, da ogni desiderio, da ogni fare, come un al di là anche del bene e del male. «Bene e male», dice il buddhista – «sono entrambi catene: dell’una e dell’altra s’impadronisce il Perfetto»; «Fatto e non fatto» – dice il credente del Vedanta, «non gli cagiona alcun dolore: siccome un saggio, scuote da sé il bene e il male; il suo regno non soffre più a causa di veruna azione; oltre bene e male, oltre l’una e l’altra cosa procede costui»: – una concezione totalmente indiana, dunque, tanto brahmanica quanto buddhista. (Né nel modo di pensare indiano, né in quello cristiano quella «redenzione» è considerata attingibile mediante virtù, miglioramento morale, per quanto in alto sia collocato da essi il valore ipnotico della virtù: si tenga ciò per stabilito – del resto corrisponde né più né meno che allo stato delle cose. Esser rimasti veraci su questo punto può forse essere considerato come la prova migliore di realismo nelle tre più grandi religioni, del resto così radicalmente moralizzate. «Per il sapiente non esistono doveri»... «Con l’aggiunta di virtù non si attua redenzione; essa infatti consiste nell’essere una cosa sola con il Brahman, incapace di qualsivoglia aumento di perfezione; e similmente non si attua col deporre gli errori; infatti il Brahman, essere una cosa sola col quale è ciò che costituisce redenzione, è eternamente puro» – passi del commentario di Çankara, citati dal primo vero conoscitore della filosofia indiana in Europa, il mio amico Paul Deussen).27 Teniamo dunque in onore la «redenzione» nelle grandi religioni; ci riesce invece un po’ difficile restarcene seri di fronte all’apprezzamento di cui viene fatto oggetto il profondo sonno da parte di questi stanchi della vita, divenuti troppo stanchi anche per il sognare – quel profondo sonno, cioè, inteso già come un internarsi nel Brahman, come una raggiunta unio mystica con Dio. «Una volta che egli si sia del tutto addormentato» – si dice a questo riguardo nella più antica e venerabile «scrittura» – «e sia pervenuto pienamente alla quiete così da non vedere più alcuna immagine di sogno, allora, o caro, è unito con l’ente, è internato in se stesso – avvinghiato dal sé di natura conoscitiva non ha più alcuna coscienza di ciò che è esterno o interno. Questo ponte non lo oltrepassano né giorno né notte, né vecchiaia, né dolore, né opera buona, né opera cattiva». «Nel profondo sonno» – dicono similmente i fedeli di questa profondissima tra le tre grandi religioni – «l’anima si solleva uscendo da questo corpo, entra nell’altissima luce e attraverso di essa si fa innanzi nella sua propria figura: ed ecco che essa è lo stesso supremo spirito che s’aggira scherzando e giocando e dilettandosi, con donne o con carrozze o con amici, ed ecco che il suo pensiero non si volge più indietro a questa appendice corporea alla quale è attaccato il prâna (respiro vitale) come al carro un animale da tiro». Ciò nonostante anche qui, come nel caso della «redenzione», intendiamo tener presente che in fondo, per quanto sempre nella magnificenza dell’esagerazione orientale, è espressa semplicemente una valutazione identica a quella del chiaro, freddo, ellenicamente freddo, ma sofferente Epicuro: l’ipnotico senso del nulla, la quiete del sonno profondissimo, insomma l’assenza di dolore – questo può considerarsi per i sofferenti e per i radicalmente scontenti già come bene supremo, come valore dei valori, questo deve essere stimato da costoro come positivo, deve essere avvertito come il positivo stesso. (Secondo la stessa logica del sentimento, il nulla, in tutte le religioni pessimistiche, è chiamato Dio).
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Molto più frequentemente di un siffatto ipnotico smorzamento totale della sensibilità e della capacità di soffrire, il quale già presuppone forze più rare, soprattutto coraggio, disprezzo dell’opinione, «stoicismo intellettuale», viene tentato contro stati depressivi un diverso training, che in ogni caso è più leggero: l’attività macchinale. Che con essa un’esistenza sofferente si senta alleviata in misura non irrilevante, sta fuori di ogni dubbio: oggi questo fatto viene chiamato, un po’ disonestamente, «la benedizione del lavoro». L’alleviamento consiste in ciò: che l’interesse del sofferente viene fondamentalmente stornato dalla sofferenza –, che un fare e di nuovo soltanto un fare entra costantemente nella coscienza e resta quindi poco posto in essa per il soffrire: infatti è angusta, questa stanza della coscienza umana! L’attività macchinale e quel che compete a essa – come l’assoluta regolarità, la puntuale, irriflessa obbedienza, l’acquisizione una volta per tutte di un determinato modo di vivere, il riempimento del tempo, una certa autorizzazione, anzi una certa costrizione educativa alla «impersonalità», all’oblio di sé, alla «incuria sui» –: con quanto radicalismo e sottigliezza il prete asceta ha saputo utilizzare tutto ciò nella lotta contro il dolore! Proprio quando aveva a che fare con sofferenti delle classi inferiori, con schiavi da lavoro o carcerati (o con donne: che sono invero, nella maggior parte dei casi, queste due cose insieme, schiavi da lavoro e carcerati), poco più d’una piccola arte nel mutare i nomi e nel ribattezzare gli era necessaria per far veder loro, da quel momento in poi, nelle cose detestate un beneficio, una relativa felicità – il malcontento dello schiavo per la sua sorte non è stato comunque escogitato dai preti. – Un mezzo ancor più apprezzato nella lotta contro la depressione è la prescrizione di una piccola gioia, che può essere facilmente accessibile e divenire regola; ci si serve di questo medicamento spesso in connessione con quello ora menzionato. La forma più frequente, in cui la gioia viene in questa guisa prescritta come mezzo di cura, è la gioia del procurare gioia (come beneficare, far doni, alleviare, aiutare, persuadere, consolare, lodare, trattare con distinzione); prescrivendo «amore per il prossimo», il prete asceta prescrive in fondo un’eccitazione dell’istinto più forte e maggiormente affermatore di vita, anche se dosato con la massima cautela – la volontà di potenza. La gioia della «più piccola superiorità», implicita in ogni beneficare, avvantaggiare, trattare con distinzione, è il più abbondante mezzo di conforto di cui sono soliti servirsi i fisiologicamente inibiti, posto che siano ben consigliati: in caso diverso si fanno reciprocamente del male, obbedendo naturalmente allo stesso istinto fondamentale. Se si cercano le origini del cristianesimo nel mondo romano, si trovano confraternite di mutuo soccorso, comunità assistenziali per indigenti e infermi, corporazioni funerarie, allignate sull’infimo strato della società di allora, nelle quali veniva coscienziosamente praticato codesto rimedio principe contro la depressione, la piccola gioia, quella del vicendevole beneficio – forse significò questo, in quel tempo, qualcosa di nuovo, una vera e propria scoperta? Con una tale evocazione di «volontà di reciprocità», di educazione del gregge, di «comunità», di «cenacolo», codesta volontà di potenza, così stimolata, sia pure in grado minimo, deve d’altro canto prorompere in maniera nuova e molto più completa: l’educazione del gregge costituisce un passo e una vittoria sostanziali nella lotta contro la depressione. Nello svilupparsi della comunità si consolida, anche per il singolo, un nuovo interesse che abbastanza spesso lo solleva al di là dell’elemento più personale del suo malcontento, del suo aborrimento di sé (la «despectio sui» di Geulincx). Per il desiderio di scuotersi di dosso il sordo scontento e il senso di spossatezza, tutti i malati e malaticci tendono istintivamente a una organizzazione da armento: il prete asceta coglie questo istinto e lo promuove; dove esistono armenti, è l’istinto della debolezza ad aver voluto l’armento e l’accortezza del prete ad averlo organizzato. Non si trascuri infatti questa circostanza: per necessità di natura i forti tendono tanto a dissociarsi, quanto i deboli ad associarsi; se i primi si collegano, questo accade unicamente in vista di una comune azione aggressiva e di un comune appagamento della loro volontà di potenza, non senza molta resistenza della coscienza individuale; i secondi invece si congregano tra loro, compiacendosi proprio di questa colleganza – il loro istinto è in questo altrettanto appagato quanto l’istinto dei «signori» per nascita (vale a dire della solitaria specie predatrice d’uomo) è fondamentalmente irritato e inquietato dall’organizzazione. Sotto ogni oligarchia – la storia tutta ce lo insegna – sta sempre annidata la libidine di tirannide; ogni oligarchia trema costantemente a causa della tensione di cui ogni individuo compreso in essa ha bisogno per padroneggiare questa sua libidine. (È questo, per esempio, un modo d’essere dei Greci: Platone ne dà testimonianza in cento passi, Platone che conosceva i suoi simili – nonché se stesso...).
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I mezzi del prete asceta che abbiamo sinora conosciuto – il totale ottundimento del senso della vita, l’attività macchinale, la piccola gioia, soprattutto quella dell’«amor del prossimo», l’organizzazione ad armento, il risveglio del sentimento di potenza della comunità, in conseguenza del quale il tedio di sé da parte del singolo viene soffocato dal suo piacere per una prosperante comunità – questi, commisurati a un metro moderno, sono i suoi mezzi innocenti nella lotta contro lo scontento: rivolgiamoci ora a quelli più interessanti, a quelli «colpevoli». Si tratta qui sempre di questa sola cosa: di una certa aberrazione del sentimento – utilizzata come il più efficace mezzo di stordimento contro la sorda paralizzante persistente condizione di sofferenza; per cui l’inventività sacerdotale è stata addirittura inesauribile nel meditare a fondo quest’unico problema: «Con quale mezzo si ottiene un’aberrazione del sentimento?»... Duro è il suono di queste parole: è evidente che avrebbero un suono più gradevole e giungerebbero meglio all’orecchio se dicessi magari che «il prete asceta ha sempre tratto vantaggio dall’esaltazione insita in tutte le forti passioni». Ma a che scopo accarezzare ancora le infrollite orecchie dei nostri moderni effeminati? A che scopo cedere da parte nostra, anche soltanto di un passo, alla tartuferia delle parole? In questo vi sarebbe già, per noi psicologi, una tartuferia dell’azione, senza contare la nausea che ce ne verrebbe. Infatti oggi uno psicologo ripone il suo buon gusto (– altri preferirebbero dire: la sua onestà), se mai lo ripone in qualche cosa, nell’avversare quel modo scandalosamente moralizzato di discorrere, che è viscosamente rappreso addirittura a ogni giudizio moderno sugli uomini e sulle cose. Poiché non ci si deve ingannare a questo proposito: ciò che costituisce la più caratteristica nota dominante delle anime moderne, dei libri moderni, non è la menzogna, sibbene l’innocenza incarnata nella bugiarderia moralistica. Dover mettere ovunque a nudo questa «innocenza» – ciò costituisce forse la parte più ripugnante del nostro lavoro, di tutto quel lavoro, in sé non irrilevante, a cui deve oggi sottoporsi uno psicologo; è una parte del nostro grande pericolo – è una via che conduce forse proprio noi alla grande nausea... Non dubito a che cosa unicamente servirebbero, potrebbero servire i libri moderni (ammesso che abbiano durata, la qual cosa certo non è da temere, e parimenti ammesso che esista un giorno una posterità con un gusto più severo, più duro, più sano) – a che cosa servirebbe e potrebbe servire per questa posterità tutto ciò che è moderno: potrebbe servire come emetico – e ciò in virtù del suo indolcimento e della falsità morale, del suo profondamente radicato femminismo, che si fa chiamare volentieri «idealismo» e tale comunque si crede. I nostri dotti di oggi, i nostri «buoni» non mentono – è vero; ma ciò non torna a loro onore! La vera menzogna, la genuina risoluta «onesta» menzogna (sul cui valore si ascolti Platone)28 sarebbe per essi qualcosa di gran lunga troppo severo, qualcosa di troppo forte; pretenderebbe quel che da essi non è lecito pretendere, che spalancassero gli occhi su se stessi, che sapessero distinguere, in se stessi, tra «vero» e «falso». A costoro si addice soltanto la menzogna disonesta; tutti quelli che oggi si sentono «uomini buoni» sono assolutamente incapaci di porsi di fronte a qualsivoglia cosa in un rapporto che non sia disonestamente-mendace, abissalmente-mendace, e tuttavia innocentemente-mendace, candidamente-mendace, con-occhi-azzurri-mendace, virtuosamente-mendace. Questi «uomini buoni» – sono tutti quanti ora fin nell’infima radice moralizzati e quanto all’onestà guasti e sfigurati in eterno: chi di essi sopporterebbe ancora una verità «intorno all’uomo»!... Ovvero, per rendere più concreta la domanda: chi di essi tollererebbe una biografia vera!... Un paio di indizi: Lord Byron aveva annotato qualcosa di molto personale sul proprio conto, ma Thomas Moore era «troppo buono» per una cosa del genere: dètte alle fiamme le carte del suo amico. La stessa cosa deve aver fatto il dr. Gwinner, l’esecutore testamentario di Schopenhauer:29 giacché anche Schopenhauer aveva annotato qualcosa su di sé e forse anche contro di sé («εἰς ἑαυτόν»). Il bravo americano Thayer,30 biografo di Beethoven, interruppe tutt’a un tratto il suo lavoro: arrivato a un certo punto di quella rispettabile e candida vita, non riuscì più a sopportarla... Morale: quale uomo avveduto scriverebbe ancora oggi una parola onesta su di sé? – dovrebbe in tal caso già appartenere all’ordine della santa temerità. Ci viene promessa un’autobiografia di Richard Wagner:31 chi dubita che sarà un’autobiografia avveduta?... Rammentiamo ancora il terrore comico che ebbe a suscitare in Germania il prete cattolico Janssen32 con la sua rappresentazione, riuscita incredibilmente rozza e ingenua, del movimento tedesco della Riforma; che cosa non succederebbe, se qualcuno ci narrasse in maniera diversa questo movimento, se un reale psicologo venisse a raccontarci un reale Lutero, non più con il moralistico semplicismo di un parroco di campagna, non più con la dolciastra e riguardosa verecondia degli storici protestanti, ma semmai con un’impavidità alla Taine, prendendo le mosse da una gagliardia dell’anima e non da un’avveduta indulgenza verso la forza?... (I Tedeschi, sia detto per inciso, sono riusciti a produrre infine abbastanza bene il tipo classico di tale indulgenza – possono già annoverarselo, annoverarlo a loro gloria: nel loro Leopold Ranke, cioè, questo classico advocatus di ogni causa fortior sin dalla nascita, questo avvedutissimo tra tutti gli avveduti «uomini positivi»).
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Ma mi si sarà già inteso – e non è questa, tutto sommato, evidentemente una ragione bastante perché noi psicologi non ci si liberi oggidì di una certa diffidenza verso noi stessi?... Verosimilmente anche noi siamo ancora «troppo buoni» per il nostro mestiere, verosimilmente anche noi siamo ancora le vittime, la preda, i malati di questo moralizzato gusto del tempo, per quanto ci si senta anche i suoi spregiatori – verosimilmente esso infetta ancora noi pure. Riguardo a che cosa metteva sull’avviso quel diplomatico, allorché parlava ai suoi simili? «Diffidiamo soprattutto, signori miei, dei nostri primi impulsi! – diceva – Sono quasi sempre buoni»... Così dovrebbe parlare ai suoi simili anche ogni psicologo... E con ciò torniamo al nostro problema, che in realtà esige da noi un certo rigore, e in particolare una certa diffidenza verso i «primi impulsi». L’ideale ascetico al servizio di una preordinata aberrazione del sentimento – chi ricorda la precedente dissertazione, anticiperà già nella sostanza, condensato in queste poche parole, il contenuto di quanto ormai resta da esporre. Sciogliere l’anima umana da tutte le sue commettiture, immergerla in terrori, gelidità, ardori e rapimenti in guisa tale che essa si affranchi, come per un colpo di fulmine, da ogni piccolezza e meschinità dello scontento, della tetraggine, del malumore: quali strade portano a questa meta? E quali di esse con la massima sicurezza?... In fondo, tutte le grandi passioni ne sono capaci, posto che trovino sfogo all’improvviso, ira, paura, voluttà, vendetta, speranza, trionfo, disperazione, crudeltà; e in realtà il prete asceta ha preso spregiudicatamente al suo servizio l’intera muta di cani selvaggi che sono nell’uomo e ha scatenato ora questo, ora quello, sempre allo stesso scopo di risvegliare l’uomo dalla lenta tristezza, di mettere almeno temporaneamente in fuga il suo cupo dolore, la sua esitante miseria, e sempre altresì nell’àmbito di una interpretazione e «giustificazione» religiosa. Ogni siffatta aberrazione del sentimento si fa poi pagare, questo va da sé – rende il malato più malato –: e perciò questa specie di rimedi del dolore, commisurata a un criterio moderno, è una specie «colpevole». Si deve tuttavia, poiché così vuole l’equità, tanto più insistere sul fatto che essa è stata praticata con tranquilla coscienza, che il prete asceta l’ha prescritta con una fede quanto mai profonda nella sua utilità, anzi indispensabilità – e assai spesso quasi sinanche restando spezzato dalla disperazione da lui creata; e similmente che i veementi contraccolpi fisiologici di tali eccessi, e perfino forse gli sconvolgimenti intellettuali, non contraddicono in fondo l’intero significato di questa specie di terapia: in quanto questa, come precedentemente è stato indicato, non è venuta fuori per guarire malattie, ma per combattere lo scontento della depressione, per mitigarlo, per stordirlo. Anche così questo scopo risultò raggiunto. Il tocco maestro che si è permesso il prete asceta, per far risuonare nell’anima umana ogni sorta di straziante ed estasiata musica, è stato ottenuto – ognuno lo sa – con l’utilizzare il senso di colpa. La precedente dissertazione ha sommariamente accennato all’origine di quest’ultimo – in quanto frammento della psicologia animale e nulla più: ivi il senso di colpa ci venne incontro per così dire nel suo stato grezzo. Solo sotto le mani del prete, vero e proprio artista in sentimenti di colpa, esso ha preso figura – oh quale mai figura! Il «peccato» –giacché suona così la reinterpretazione sacerdotale della «cattiva coscienza» animale (della crudeltà volta all’indietro) – è stato sino a oggi l’avvenimento più grande nella storia dell’anima malata: in esso noi abbiamo lo stratagemma più pericoloso e più funesto dell’interpretazione religiosa. L’uomo che in qualche modo, in ogni caso fisiologicamente, pressappoco come una bestia che sia chiusa in gabbia, soffre di se stesso, senza sapere perché, a che pro, desideroso di ragioni – ragioni dànno sollievo –, desideroso altresì di rimedi e di narcosi, finisce per consigliarsi con qualcuno che sa anche le cose occulte – ed ecco, riceve un avvertimento, riceve dal suo mago, il prete asceta, il primo avvertimento sulla «cagione» del suo soffrire: deve cercarla in se stesso, in una colpa, in un frammento di passato, deve comprendere la sua stessa sofferenza come una condizione di castigo... Ha udito, ha compreso, lo sventurato: ora succede a lui come alla gallina intorno alla quale sia tracciata una linea. Da questo cerchio non riesce più a uscire: il malato è divenuto «il peccatore»... Ebbene, dall’aspetto di questo nuovo malato, del «peccatore», non ci si libera per un paio di millenni – potremo liberarcene mai? –, ovunque si guardi, c’è sempre lo sguardo ipnotico del peccatore, che si muove sempre in una sola direzione (nella direzione della «colpa», in quanto unica causalità del soffrire): in ogni dove la cattiva coscienza, questa «esecrabile bestia», per dirla con Lutero; in ogni dove il passato rimasticato, l’azione distorta, l’«occhio bilioso» per ogni agire; in ogni dove il voler fraintendere la sofferenza divenuto contenuto di vita, la reinterpretazione di quella come sentimento di colpa, timore e castigo; in ogni dove la sferza, il cilicio, il corpo disfatto dall’inedia, la contrizione; in ogni dove il peccatore che mette se stesso alla ruota, alla ruota crudele di una coscienza senza pace, morbosamente libidinosa; in ogni dove il muto tormento, l’estremo terrore, l’agonia del cuore martirizzato, gli spasimi di una felicità ignota, il grido invocante «redenzione». In realtà, con questo sistema di procedimenti l’antica depressione, pesantezza e stanchezza vennero radicalmente superate, la vita divenne nuovamente molto interessante: desto, eternamente desto, insonne, rovente, carbonizzato, esausto e tuttavia non stanco – così si presentava l’uomo, «il peccatore», che a questi misteri era stato iniziato. Questo antico grande mago in lotta con lo scontento, il prete asceta – costui aveva manifestamente vinto, era venuto il suo regno: ormai non ci si lamentava più contro il dolore, si era sitibondi di dolore; «più dolore! più dolore!» andava gridando per secoli il desiderio dei suoi discepoli e iniziati. Ogni aberrazione del sentimento che provocasse dolore, tutto quanto mandava in frantumi, sconvolgeva, sbriciolava, strascinava via, estasiava, il mistero dei luoghi di tortura, l’ingegnosità dello stesso inferno – tutto era ormai scoperto, divinato, sfruttato, tutto stava a disposizione del mago, tutto da quel momento serviva alla vittoria del suo ideale, l’ideale ascetico... «Il mio regno non è di questo mondo»33 – costui diceva prima e dopo: – aveva realmente ancora il diritto di parlare così?... Goethe ha affermato che esistono soltanto trentasei situazioni tragiche:34 ove mai lo si ignorasse, si indovinerebbe da queste parole che Goethe non fu un prete asceta. Questi – ne conosce di più...
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Relativamente a tutta questa specie di terapia sacerdotale, la specie «colpevole», ogni parola di critica è pleonastica. Che una siffatta aberrazione del sentimento, come suole in questo caso prescrivere il prete asceta ai suoi malati (sotto i nomi più sacri, questo va da sé, nonché tutto compreso dalla santità del suo scopo), abbia realmente giovato a un qualche malato, chi mai se la sentirebbe di sostenere un’affermazione del genere? Ci si dovrebbe quanto meno intendere sulla parola «giovare». Se con essa si vuol esprimere che un tale sistema di trattamento avrebbe migliorato l’uomo, non ho nulla da obiettare: soltanto aggiungo quel che per me significa «migliorato» – lo stesso che «addomesticato», «indebolito», «avvilito», «raffinato», «infrollito», «svirilizzato» (quasi lo stesso, dunque, che danneggiato...). Ma se si tratta principalmente di malati, di malcontenti, di depressi, un tale sistema rende comunque il malato, anche posto che lo faccia «migliore», più malato; si chieda un po’ agli psichiatri quali sono le costanti conseguenze di una applicazione metodica di tormenti espiatori, contrizioni e spasimi di redenzione. Si interroghi parimenti la storia: ogni volta che il prete asceta ha attuato questo trattamento sui malati, sempre lo stato morboso è cresciuto con sinistra prontezza in profondità e in estensione. Quale è sempre stato l’«esito»? Un sistema nervoso sconquassato, in aggiunta a ciò che già prima era malato; e questo nel più grande come nel più piccolo, nei singoli come nelle masse. In seguito al training di penitenza e di redenzione abbiamo enormi epidemie epilettiche, le massime che la storia conosca, come quelle dei trescanti medievali di san Vito e di san Giovanni; un’altra forma dei suoi effetti la troviamo nelle orride paralisi e depressioni croniche, con le quali in certe circostanze il temperamento di un popolo o di una città (Ginevra, Basilea) si capovolge, una volta per tutte, nel suo opposto; – rientra in tutto questo anche l’isterismo delle streghe, qualcosa di simile al sonnambulismo (otto grandi crisi epidemiche di questo isterismo solo tra il 1564 e il 1605) –; analoghe conseguenze di codesto training le troviamo in quei deliri collettivi smaniosi di morte, il cui atroce grido «evviva la morte!» venne udito per tutta Europa, interrotto da idiosincrasie ora voluttuose, ora furibonde di distruzione: ed egualmente le stesse alterne vicende di affetti, con le stesse intermittenze e repentini mutamenti, vengono ancor oggi osservate ovunque, in ogni caso laddove la dottrina ascetica dei peccati ottiene ancora una volta un rilevante successo. (La nevrosi religiosa si manifesta come una forma del «mal caduco»: su questo non v’è dubbio. Quel che essa è? Quæritur). Secondo una considerazione di massima l’ideale ascetico e il suo culto sublimamente morale, questa genialissima, spregiudicatissima e pericolosissima sistematizzazione di ogni mezzo d’aberrazione del sentimento, sotto la salvaguardia di santi propositi, si è inscritto in guisa tremenda e inobliabile nell’intera storia dell’uomo; e purtroppo non soltanto nella sua storia... Non saprei mettere in campo nessun’altra cosa che al pari di questo ideale abbia sacrificato in siffatta misura distruttiva la salute e la gagliardia di razza segnatamente degli Europei; senza la minima esagerazione esso può venir definito la vera fatalità nella storia sanitaria dell’uomo europeo. Alla sua influenza potrebbe al massimo essere paragonata quella specificamente germanica: mi riferisco all’intossicazione alcoolica d’Europa, che fino a oggi ha rigorosamente proceduto di pari passo con la preponderanza politica e razziale dei Germani (– dove essi inocularono il loro sangue, inocularono anche il loro vizio). – Al terzo posto nella serie sarebbe da nominare la sifilide – magno sed proxima intervallo.
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Il prete asceta ha guastato la salute dell’anima, dovunque sia pervenuto al dominio, ha conseguentemente pervertito altresì il gusto in artibus et litteris – e continua tuttora a pervertirlo. «Conseguentemente?» – Spero che questo «conseguentemente» mi venga concesso senza difficoltà; per lo meno non voglio darne la dimostrazione in questo momento. Un unico accenno: si riferisce al libro fondamentale della letteratura cristiana, al suo vero e proprio modello, al suo «libro in sé». Ancora in pieno splendore greco-romano, che era anche uno splendore di libri, di fronte a un antico mondo letterario ancora non intristito e ridotto in briciole, in un tempo in cui si poteva ancora leggere alcuni libri per il possesso dei quali si darebbe oggi in cambio mezze letterature, la balordaggine e la vanità di agitatori cristiani – sono chiamati Padri della Chiesa – osava già decretare: «Anche noi abbiamo la nostra letteratura classica, non abbiamo alcun bisogno di quella dei Greci» – e intanto rimandavano boriosamente a libri di leggende, lettere di apostoli e trattatelli apologetici, pressappoco allo stesso modo con cui oggi l’«esercito della salvezza» inglese combatte con una letteratura del genere contro Shakespeare e altri «pagani». Non mi piace il «Nuovo Testamento», già lo si intuisce; quasi mi rende inquieto starmene così isolato con il mio gusto riguardo a questa stimatissima, oltremodo stimatissima opera letteraria (il gusto di due millenni è contro di me): ma che importa! «Così me ne sto io, non posso altrimenti», – ho il coraggio del mio cattivo gusto. Il Vecchio Testamento – bene, è tutt’altra cosa: per il Vecchio Testamento, tutto il mio rispetto! In esso trovo grandi uomini, un paesaggio eroico e qualcosa di estremamente raro sulla terra, l’incomparabile ingenuità del forte sentire: e ancora di più, trovo un popolo. Nel Nuovo, invece, null’altro che piccoli maneggi settari, null’altro che rococò dell’anima, ghirigori, tortuosità, bizzarrie, aria di conventicola, senza dimenticare un soffio, ogni tanto, di bucolica dolcezza, la quale è propria dell’epoca (nonché della provincia romana) e non è tanto ebraica quanto ellenistica. Umiltà e prosopopea incollate l’una all’altra; una loquacità del sentimento che quasi assorda; passionalità, non passione; penoso giuoco mimico; qui evidentemente ogni buona educazione è assente. Come si può fare tanto chiasso delle proprie piccole imperfezioni, come fanno questi omuncoli pii! Nessuno se ne dà pensiero; tantomeno Dio. Vuol infine avere persino «la corona della vita eterna», tutta questa piccola gente di provincia: ma a che scopo? per che cosa? – non si potrebbe spingere oltre l’immodestia. Un Pietro «immortale»: chi lo sopporterebbe? Hanno un’ambizione che suscita il riso: questa gente sminuzzola le sue cose più personali, le sue stupidaggini, tristezze e oziose preoccupazioni, come se l’in-sé delle cose fosse tenuto a darsene cura; non si stancano mai di coinvolgere Dio stesso nelle più piccole afflizioni in cui si vengono a trovare. E questo continuo, di pessimo gusto, mettersi a tu per tu con Dio! Questa giudaica e non soltanto giudaica invadenza di muso e zampe nei riguardi di Dio!... Esistono nell’Asia orientale piccoli disprezzati «popoli pagani», dai quali questi primi Cristiani avrebbero potuto imparare qualcosa d’essenziale, un po’ di tatto nella venerazione; costoro, come testimoniano missionari cristiani, non si permettono neppure di pronunciare il nome del loro dio. Questo mi sembra abbastanza delicato; certo è che non soltanto per i «primi» cristiani risulta troppo delicato: per avvertire il contrasto, si ricordi semmai Lutero, «il più eloquente» e immodesto contadino che abbia avuto la Germania, nonché la tonalità luterana che proprio a costui piaceva moltissimo nei suoi dialoghi con Dio. L’opposizione di Lutero ai santi intermediari della Chiesa (e in special modo «al papa, bagascia del diavolo») era, non v’è alcun dubbio, l’opposizione, in ultima analisi, di un tanghero che aveva a noia la buona etichetta della Chiesa, quella riverente etichetta del gusto ieratico, che ammette nel Santo dei santi solo i più consacrati e i più taciturni e ne sbarra l’accesso ai tangheri. Proprio in questo luogo, una volta per tutte, costoro non devono avere la parola – ma Lutero, il contadino, lo voleva del tutto diverso, a quel modo esso non era abbastanza tedesco; voleva soprattutto discorrere direttamente, discorrere da solo, discorrere «senza cerimonie» con il suo Dio... Ebbene, così ha fatto. – L’ideale ascetico, lo si intuisce perfettamente, mai e in nessun luogo fu una scuola di buon gusto, meno ancora di buone maniere – nel migliore dei casi, fu una scuola di maniere ieratiche –; ciò fa sì che esso stesso abbia qualcosa nella carne che è mortalmente nemico di tutte le buone maniere – difetto di misura, ripugnanza alla misura, è esso stesso un «non plus ultra» –.
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L’ideale ascetico ha non soltanto guastato la salute e il gusto, ha guastato ancora una terza, una quarta, una quinta, una sesta cosa – mi guarderò dal dire quante (quando mai arriverei a fine!). Non ciò che questo ideale ha determinato deve essere qui posto in luce da me; ma piuttosto esclusivamente quello che esso significa, ciò che fa indovinare, ciò che sta nascosto dietro di lui, sotto di lui, in lui, ciò di cui esso è l’espressione provvisoria, non chiara, sovraccarica d’interrogativi e di fraintendimenti. E unicamente in considerazione di questo scopo non ho potuto risparmiare ai miei lettori uno sguardo sull’enormità dei suoi effetti, e altresì dei suoi funesti effetti: per prepararli, come vedremo, all’ultimo e più terrificante aspetto che riveste per me il problema del significato di quell’ideale. Che cosa significa esattamente la potenza di codesto ideale, l’immensità della sua potenza? Perché gli è stato dato spazio in questa misura? Perché non è stata fornita miglior resistenza? L’ideale ascetico esprime una volontà: dove si trova la volontà opposta in cui si esprimeva un ideale opposto? L’ideale ascetico ha una meta – questa è abbastanza universale da far apparire tutti i restanti interessi dell’esistenza umana, commisurati a essa, meschini e angusti; spietatamente, in vista di quest’unica meta, interpreta epoche, popoli, uomini, non considera valida alcun’altra interpretazione, alcun’altra meta, rigetta, nega, afferma, conferma unicamente nel senso della sua interpretazione (– si è mai dato un sistema d’interpretazione più compiutamente pensato?); non si assoggetta ad alcuna potenza, crede invece al suo primato su ogni potenza, alla propria assoluta distanza di rango in ordine a ogni potenza – crede non esservi alcuna potenza sulla terra che non debba ricevere unicamente a partire da esso un senso, un diritto all’esistenza, un valore, come strumento della sua opera, come via e mezzo per la sua meta, per un’unica meta... Dov’è il contrapposto di questo sistema chiuso di volontà, meta e interpretazione? Perché manca il contrapposto?... Dov’è l’altra «unica meta»?... Mi si dice però che non manca, che non solo ha ingaggiato una lunga fortunata battaglia con quell’ideale, ma che già in tutto quanto è più importante si sarebbe imposto su quell’ideale: ne sarebbe una testimonianza la nostra moderna scienza tutta quanta – questa scienza moderna che come una caratteristica filosofia della realtà crede evidentemente soltanto a se stessa, possiede evidentemente il coraggio di sé, la volontà di sé e sino a oggi s’è cavata d’impaccio abbastanza bene senza Dio, trascendenza e virtù negatrici. Frattanto con tutto questo chiasso e queste ciance d’agitatori non si arriva, per me, a un bel nulla: questi strombettatori della realtà sono cattivi musici, le loro voci non affiorano dalla profondità in maniera abbastanza distinta, da loro non parla l’abisso della coscienza scientifica – giacché oggi la coscienza scientifica è un abisso –, la parola «scienza» è su codesto becco di strombettatori nulla più che un malcostume, un abuso, una sfrontatezza. Esattamente il contrario di quel che viene affermato qui, è la verità: oggi la scienza non ha assolutamente alcuna fede in sé, tanto meno ha un ideale al di sopra di sé – e ovunque essa è ancora passione, amore, ardore, sofferenza, non costituisce l’antitesi di quell’ideale ascetico, ma piuttosto la sua stessa forma più recente e più nobile. Vi suona inusitato?... Anche tra i dotti di oggi esiste invero un popolo d’operai abbastanza a modo e modesto, al quale piace il proprio piccolo cantuccio, e che talvolta, per il fatto che gli piace, rivendica con una certa immodestia il dovere di starsene oggi paghi, specialmente nella scienza – proprio lì ci sarebbero da fare tante cose utili. Non ho nulla da opporre; meno che mai vorrei guastare a questi onesti operai il piacere del loro mestiere: poiché del loro lavoro io mi rallegro. Ma col fatto che oggi nella scienza si lavora duramente e che esistono lavoratori soddisfatti, non è assolutamente dimostrato che la scienza abbia oggi, in quanto totalità, una meta, una volontà, un ideale, un fervore di grande fede. È il caso, come ho detto, del contrario: laddove non è la più recente forma d’apparizione dell’ideale ascetico – si tratta qui di casi troppo rari, aristocratici, ricercati, perché il giudizio complessivo possa con ciò subire una svolta – la scienza è oggi un nascondiglio per ogni specie di scontento, di incredulità, di arrovellamento, di despectio sui, di cattiva coscienza – essa è l’inquietudine della stessa assenza di ideali, il soffrire la mancanza del grande amore, l’insufficienza di una involontaria moderazione. Oh, quante mai cose non nasconde oggi la scienza! O almeno quanto deve essa nascondere! La valentia dei nostri dotti migliori, la loro smorta diligenza, la loro testa giorno e notte fumigante, la loro stessa maestria di mestiere – quanto spesso tutto ciò ripone il suo vero senso nel non lasciar più diventar perspicua a loro stessi una qualsiasi cosa! La scienza come mezzo di autostordimento: sapete voi questo?... Talvolta, con una parola senza malizia – chiunque abbia dimestichezza coi dotti lo sa – possiamo ferirla fino all’osso, indispettiamo contro di noi i nostri amici eruditi nel momento in cui si crede di onorarli, li facciamo uscire dai gangheri solo perché si è stati troppo grossolani da indovinare con chi avevamo propriamente a che fare, con sofferenti che non vogliono confessare a se stessi quel che essi sono, con gente intorpidita e inebetita che teme una cosa sola: acquistare coscienza...
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– E ora si prendano invece in esame quei casi più rari di cui parlavo, gli ultimi idealisti che esistono oggi tra filosofi e dotti: troviamo forse in essi i vistosi avversari dell’ideale ascetico, i suoi contro-idealisti? In realtà, credono a sé come tali, quest’«increduli» (giacché sono tutti quanti così); si direbbe che sia proprio questo il loro ultimo brandello di fede, essere avversari di questo ideale, tanto seri essi sono su questo punto, tanto appassionata diventa esattamente a questo riguardo la loro parola, la loro mimica: – forse che già per questo avrebbe bisogno d’essere vero quello che essi credono? Noi «uomini della conoscenza» siamo col tempo divenuti diffidenti verso ogni sorta di credenti; la nostra diffidenza ci ha poco alla volta esercitati a trarre conclusioni opposte a quelle che si traevano una volta: cioè, tutte le volte che la forza di una credenza si dispone in primo piano, a concludere per una certa debolezza di dimostrabilità, per l’inverosimiglianza stessa di quanto è creduto. Neppure noi neghiamo che la fede «renda beati»: appunto perciò neghiamo che la fede dimostri qualcosa – una fede vigorosa, che rende beati, è un sospetto verso ciò di cui essa è fede, non fonda «verità», fonda una certa verosimiglianza – dell’illusione. Come stanno ora le cose in questo caso? – Questi negatori e isolati di oggi, questi incondizionati in una sola cosa, nell’esigenza di pulizia intellettuale, questi spiriti duri, severi, temperanti, eroici, che costituiscono l’onore della nostra età, tutti questi pallidi ateisti, anticristi, immoralisti, nichilisti, questi scettici, efectici, tisici dello spirito (quest’ultima caratteristica è propria in un certo senso di tutti, nessuno eccettuato), questi ultimi idealisti della conoscenza, i soli nei quali oggi alberga e s’incarna la coscienza intellettuale – si ritengono in realtà affrancati il più possibile dall’ideale ascetico, questi «liberi, assai liberi spiriti»: e tuttavia devo rivelar loro quel che essi stessi non possono vedere – giacché ci stanno troppo vicino –: questo ideale è esattamente anche il loro ideale, essi stessi oggi lo rappresentano e forse nessun altro, essi stessi sono il suo prodotto più spiritualizzato, la sua più avanzata schiera di guerrieri e d’esploratori, la sua più capziosa, più morbida, più inafferrabile forma di seduzione – se in qualche cosa sono un divinatore d’enigmi, voglio esserlo con questa affermazione!... Ancora sono ben lontani costoro dall’essere spiriti liberi: poiché ancora essi credono alla verità... Allorché i Crociati cristiani si scontrarono in Oriente con quell’invincibile ordine di Assassini, quell’ordine di spiriti liberi par excellence, i cui gradi infimi vivevano in una obbedienza quale non fu mai raggiunta da alcun ordine monastico, ricevettero per qualche via anche una indicazione su quel simbolo e su quella parola d’ordine intagliata su legno, che era riservata unicamente ai gradi sommi, come loro secretum: «Nulla è vero, tutto è permesso»... Orbene, questa era libertà dello spirito, in tal modo veniva congedata la fede nella stessa verità... Ha mai uno spirito libero europeo, cristiano, saputo smarrirsi in questa proposizione e nelle sue labirintiche conseguenze? Forse che conosce per esperienza il Minotauro di questo antro?... Ho i miei dubbi e, più ancora, mi risulta tutt’altro: – nulla è a questi incondizionati in una cosa, a questi cosiddetti «spiriti liberi» appunto più estraneo della libertà e della liberazione da ogni ceppo, intese in codesto senso; in ordine a nessun’altra cosa sono costoro appunto più saldamente legati, precisamente nella fede nella verità sono saldi e assoluti come nessun altro. Tutto ciò lo conosco forse troppo da vicino: quella veneranda moderazione filosofica, cui obbliga una siffatta fede, quello stoicismo dell’intelletto che finisce per proibirsi il no altrettanto rigorosamente quanto il sì, quel voler restare inchiodati dinanzi all’effettuale, al factum brutum, quel fatalismo dei «petits faits» (ce petit fatalisme, lo chiamo io), in cui la scienza dei Francesi cerca ora una specie di primato morale su quella dei Tedeschi, quel rinunziare all’interpretazione in generale (a violentare, a riassettare, ad accorciare, a sopprimere, a riempire, a immaginar finzioni, a falsificare radicalmente e a tutto quanto appartenga ancora all’essenza di ogni interpretare) – esprime, secondo una considerazione di massima, tanto ascetismo della virtù quanto lo esprime qualsivoglia negazione della sensualità (è in fondo soltanto un modus di questa negazione). Ma quel che costringe a esso, quella assoluta volontà di verità, è la fede nello stesso ideale ascetico, sia pure come suo imperativo inconscio, non ci si inganni al riguardo – è la fede in un valore metafisico, in un valore in sé della verità, quale solo quell’ideale garantisce e convalida (si sostiene e cade unitamente a quell’ideale). Non esiste, giudicando rigorosamente, alcuna scienza «priva di presupposti», il pensiero di una scienza siffatta è impensabile, paralogico: una filosofia, una «fede» deve sempre preesistere, affinché la scienza derivi da essa una direzione, un senso, un limite, un metodo, un diritto all’esistenza. (Chi la intende nel modo opposto, chi per esempio si accinge a collocare la filosofia su «una base rigorosamente scientifica», ha prima bisogno a questo scopo di capovolgere non soltanto la filosofia, ma anche la verità stessa: la peggiore offesa al decoro che possa verificarsi riguardo a queste due tanto rispettabili damigelle!). Sì, non v’è dubbio – e a questo proposito lascio parlare la mia «Gaia scienza», cfr. libro quinto, p. 263 – «l’uomo verace, in quel temerario e ultimo significato con cui la fede nella scienza lo presuppone, afferma con ciò un mondo diverso da quello della vita, della natura e della storia; e in quanto afferma questo “altro mondo”, come? non deve per ciò stesso negare il suo opposto, questo mondo, il nostro mondo?... È pur sempre una fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza – anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall’incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è la verità e la verità è divina... Ma come è possibile, se proprio questo diventa sempre più incredibile, se niente più si rivela divino salvo l’errore, la cecità, la menzogna, se Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna?». – – A questo punto è necessario fare una pausa e riflettere a lungo. La scienza stessa esige ormai una giustificazione (con ciò non si è ancora detto che ne esista una per lei). Si considerino, in ordine a questo problema, le più antiche e le più recenti filosofie: in tutte queste manca una coscienza di quanto la stessa volontà di verità abbia prima bisogno di una giustificazione, ecco una lacuna in ogni filosofia – donde deriva ciò? Dal fatto che l’ideale ascetico è stato fino a oggi padrone di ogni filosofia, dal fatto che la verità è stata posta come essere, come Dio, come la stessa istanza suprema, dal fatto che non era in alcun modo lecito alla verità essere problema. Si intende questo «era lecito»? – A partire dall’istante in cui la fede nel Dio dell’ideale ascetico è negata, esiste anche un nuovo problema: quello del valore della verità. – La volontà di verità ha bisogno di una critica – con ciò noi determiniamo il nostro proprio compito –, in via sperimentale deve porsi una volta in questione il valore della verità... (Si raccomanda a chi reputi eccessivamente sommario tutto quanto si è detto, di rileggere quel brano della «Gaia scienza» che porta il titolo: «In che senso anche noi siamo ancora devoti», pp. 260 sgg., o meglio ancora l’intero quinto libro dell’opera suddetta, nonché la prefazione ad «Aurora»).
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No! Non mi si tiri in ballo la scienza quando cerco il naturale antagonista dell’ideale ascetico, quando domando: «Dov’è la volontà opposta, in cui si esprime il suo opposto ideale?». A questo riguardo la scienza è ben lontana dal riposare su se stessa, ha sotto ogni aspetto innanzitutto bisogno di un ideale di valore, di una potenza creatrice di valori, al servizio della quale possa credere in se medesima – essa stessa non è mai creatrice di valori. Il suo rapporto con l’ideale ascetico non è ancora, in sé, per nulla antagonistico; anzi nell’intimo processo formativo di quello essa rappresenta ancora, in sostanza, addirittura la forza propulsiva. Il suo contrasto e la sua lotta si riferiscono, a un esame più sottile, non già all’ideale stesso, bensì unicamente alle sue opere esteriori, al suo travestimento, al suo giuoco di maschere, al suo solidificarsi, al suo farsi legnoso, al suo dogmatizzarsi – torna a liberare in esso la vita col negare in esso l’elemento essoterico. Queste due cose, scienza e ideale ascetico, riposano invero sullo stesso suolo – già l’ho fatto intendere –: vale a dire sull’identica sopravvalutazione della verità (più esattamente: sull’identica fede nella insuscettibilità di valutazione e di critica da parte della verità), e per ciò appunto sono necessariamente alleate – di guisa che, posto che siano combattute, possono pur sempre essere combattute e messe in questione solo congiuntamente. Una svalutazione dell’ideale ascetico trae inevitabilmente dietro di sé anche una svalutazione della scienza: perciò si sgombri a tempo la vista e si aguzzino le orecchie! (L’arte, sia detto sin d’ora, giacché ritornerò, quando che sia, più a lungo su questo punto, – l’arte, in cui appunto la menzogna si santifica e la volontà d’illusione ha dalla sua la tranquilla coscienza, è in maniera molto più radicale della scienza contrapposta all’ideale ascetico: lo avvertì l’istinto di Platone, il più grande nemico dell’arte che l’Europa abbia fino a oggi prodotto. Platone contro Omero: ecco il totale, autentico antagonismo – là il volontario «uomo della trascendenza», il grande calunniatore della vita, qui il suo involontario divinizzatore, la aurea natura. Un vassallaggio artistico al servizio dell’ideale ascetico è perciò la più effettiva depravazione di un artista che possa esistere, purtroppo una delle più consuete: nessuno infatti è più corruttibile di un artista). Anche secondo una considerazione fisiologica, la scienza riposa sullo stesso terreno dell’ideale ascetico: sia qui che là un certo impoverimento della vita è il presupposto – gli affetti divenuti freddi, il «tempo» rallentato, la dialettica al posto dell’istinto, la gravità espressa nei volti e nei gesti (la gravità, questo inequivocabile sintomo del più faticoso ricambio, della vita che lotta e che più duramente si travaglia). Si considerino le età di un popolo in cui il dotto appare in primo piano: sono tempi di stanchezza, spesso di crepuscolo, di decadenza – la forza sovrabbondante, la certezza di vita, la certezza d’avvenire se ne sono partite. La preponderanza dei mandarini non significa mai nulla di buono: come l’avvento della democrazia, degli arbitrati di pace al posto della guerra, dell’eguaglianza dei diritti delle donne, della religione della compassione e qualsiasi altro sintomo esistente della vita declinante. (Scienza concepita come problema; che cosa significa scienza? – cfr. al riguardo la prefazione alla «Nascita della tragedia»). – No! questa «moderna scienza» – aprite un po’ gli occhi voi! – è intanto la migliore alleata dell’ideale ascetico, per il fatto appunto che è la più inconsapevole, la più involontaria, la più segreta e sotterranea! Fino a oggi hanno fatto uno stesso giuoco, i «poveri di spirito» e gli oppositori scientifici di quell’ideale (ci si guardi, sia detto per inciso, dal pensare che questi costituiscano l’antitesi di quelli, qualcosa come i ricchi dello spirito – non lo sono affatto, li ho chiamati tisici dello spirito). Le famose vittorie di questi ultimi: indubbiamente sono vittorie – ma su che cosa? L’ideale ascetico non è stato per nulla debellato in essi, è stato invece reso più forte, cioè più inafferrabile, più spirituale, più capzioso grazie al fatto che da parte della scienza è stato sempre di nuovo sgretolato, demolito un muro, un bastione che si era addossato a quello e ne involgariva l’aspetto. Si pensa davvero che, per esempio, la sconfitta dell’astronomia teologica significhi una sconfitta di quell’ideale?... Forse che l’uomo è divenuto meno bisognoso di una soluzione trascendente del suo enigma esistenziale, in virtù del fatto che da allora quest’esistenza appare ancor più gratuita, messa da parte, superflua nell’ordine visibile delle cose? Non è forse, da Copernico in poi, in un inarrestabile progresso l’autodiminuirsi dell’uomo, la sua volontà di farsi piccolo? La fede, ahimè, nella sua dignità, unicità, insostituibilità nella scala gerarchica degli esseri è scomparsa – è divenuto animale, animale, senza metafora, detrazione o riserva, lui che nella sua fede di una volta era quasi Dio («figlio d’Iddio», «Uomo-Dio»)... Da Copernico in poi, si direbbe che l’uomo sia finito su un piano inclinato – ormai va rotolando, sempre più rapidamente, lontano dal punto centrale – dove? nel nulla? nel «trivellante sentimento del proprio nulla»?... Suvvia! sarebbe questo il retto cammino – per l’antico ideale?... Ogni scienza (e nient’affatto la sola astronomia, sulla cui avvilente e sconfortante efficacia Kant ha fatto la notevole confessione che «essa annulla la mia importanza»...), ogni scienza, tanto quella naturale, quanto la non naturale – chiamo così l’autocritica della conoscenza –, si propone oggi di dissuadere l’uomo dal rispetto sinora avuto per se stesso, come se questo altro non fosse stato che una stravagante presunzione; si potrebbe persino dire che essa ripone il suo proprio orgoglio, la sua propria austera forma di atarassia stoica nel conservare presso di sé questo faticosamente conquistato autodisprezzo dell’uomo come il suo estremo e più severo titolo di stima (a buon diritto in realtà: giacché colui che disprezza è pur sempre uno che «non ha disimparato l’apprezzare»...). È in questo modo che si lavora contro l’ideale ascetico? Si pensa ancora davvero, con tutta serietà (come per qualche tempo si immaginarono i teologi), che la vittoria di Kant sulla teologica dogmatica concettuale («Dio», «anima», «libertà», «immortalità») avrebbe recato un qualche pregiudizio a quell’ideale? – al quale riguardo non ci deve affatto interessare al momento, se Kant stesso ha avuto qualcosa di simile anche soltanto nelle sue intenzioni. Certo è che dopo Kant ogni sorta di trascendentalisti ha di nuovo avuto partita vinta – si sono emancipati dai teologi: che fortuna! – egli ha rivelato loro quella via traversa nella quale possono ormai di testa propria e con il miglior decoro scientifico assecondare i «desideri del loro cuore». Similmente chi potrebbe ormai biasimare gli agnostici se costoro, in quanto veneratori dell’ignoto e del misterioso in sé, adorano ora come Dio lo stesso punto interrogativo? (Xaver Doudan parla una volta dei ravages che «l’habitude d’admirer l’inintelligible au lieu de rester tout simplement dans l’inconnu» avrebbe cagionato; è del parere che gli antichi ne avrebbero fatto a meno). Posto che tutto ciò che l’uomo «conosce» non soddisfi i suoi desideri, ma piuttosto li contraddica e li spaventi, quale divina scappatoia poter cercare la colpa di tutto ciò non già nei «desideri», bensì nel «conoscere»!... «Non esiste alcun conoscere: di conseguenza – esiste un Dio»: quale nuova elegantia syllogismi! quale trionfo dell’ideale ascetico! –
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– O forse l’intera storiografia moderna ha messo in evidenza un atteggiamento dotato di maggior certezza di vita e d’ideale? La sua più nobile pretesa è ora quella di essere specchio; rifiuta ogni teleologia; non vuol più «dimostrare» nulla; disdegna di atteggiarsi a giudice e in ciò ripone il suo buon gusto – tanto poco afferma, quanto nega, essa constata, «descrive»... Tutto ciò è ascetico a un alto livello; ma è al tempo stesso, a un livello ancor più alto, nichilistico, non ci si inganni al riguardo! Si vede uno sguardo triste, duro, ma risoluto – un occhio che guarda oltre, come guarda oltre un solitario viaggiatore del polo artico (forse per non guardare dentro, per non guardare indietro?...). Qui è neve, la vita qui è ammutolita; le ultime cornacchie, che fanno udire qui il loro verso, dicono «A che scopo?» «Invano!», «Nada!» – qui non alligna e non cresce più nulla, tutt’al più metapolitica pietroburghese e «compassione» tolstoiana. Ma per quanto riguarda l’altra specie di storici, una specie forse ancor «più moderna», una specie godereccia, voluttuosa, ammiccante tanto alla vita quanto all’ideale ascetico, la quale usa come un guanto la parola «artista» e ha preso oggi tutta per sé la lode della contemplazione: oh, quale sete persino ancora di asceti e di paesaggi invernali suscitano queste perle d’ingegni! No! se ne vada al diavolo questo popolo «contemplativo»! Quanto più m’è caro vagabondare ancora con quei nichilisti storici attraverso le più tetre, grigie, fredde nebbie! – anzi, posto che debba scegliere, non deve avere per me alcuna importanza prestare attenzione anche a un individuo del tutto astorico, antistorico (come quel Dühring, ai cui accenti si va inebriando nella Germania di oggi una sorta sino a oggi ancor timida, ancora inconfessata di «anime belle», la species anarchistica all’interno del proletariato cólto). Cento volte peggiori sono i «contemplativi» –: non conosco nulla che m’infonda tanta ripugnanza quanto una siffatta poltrona «oggettiva», un siffatto profumato gaudente della storia, mezzo parroco, mezzo satiro, parfum Renan, che già con l’alto falsetto del suo applauso tradisce quel che gli manca, dove gli manca, dove la Parca, in questo caso, ha fatto uso delle sue crudeli forbici in maniera, ahimè, addirittura chirurgica! È una cosa che urta il mio gusto e anche la mia pazienza: conservi pure a tali apparizioni la sua pazienza chi non ha nulla da perdere – a me un’apparizione del genere dà irritazione, siffatti «spettatori» mi inaspriscono contro lo «spettacolo», più ancora dello spettacolo (la storia stessa, beninteso), e intanto all’improvviso mi vengono ghiribizzi anacreontici. Questa natura, che dètte corna al toro, il χάσμα ὀδóντων al leone, perché mai a me non dètte il piede?... Per calpestare, sant’Anacreonte, e non soltanto per prendere il largo; per pestare queste fracide poltrone, questa codarda contemplatività, questa lubrica genia di eunuchi dinanzi alla storia, questo ammiccare civettante all’ideale ascetico, questa tartufesca equanimità dell’impotenza! Tutto il mio rispetto per l’ideale ascetico, sempreché esso sia onesto! fintanto crede a se stesso e non ci vien fuori con delle frottole! Ma non sopporto tutte queste cimici leziose, la cui insaziabile ambizione sta nel fiutare l’infinito finché l’infinito finisce per lezzar di cimici; non sopporto i sepolcri imbiancati, che recitano la commedia della vita; non sopporto gli stanchi e i «finiti», che si rinvoltano nella saggezza e guardano «obiettivamente»; non sopporto gli agitatori azzimati da eroi, che portano il mantello d’invisibilità dell’ideale intorno a quello strofinaccio di paglia che è il loro capo; non posso sopportare gli artisti avidi d’onori, che vorrebbero simboleggiare l’asceta e il prete e in fondo sono soltanto tragici pagliacci; non sopporto neppure questi novissimi speculatori in idealismo, gli antisemiti, che strabuzzano oggi i loro occhi alla maniera del cristiano-ariano galantomismo e mercé l’abuso, giunto al limite della pazienza, di un mezzo d’agitazione assai a buon mercato, l’atteggiarsi moralistico, cercano di eccitare tutti gli elementi-da-bestiame-cornuto del popolo (– il fatto che ogni specie di furfanteria di pensiero non resti senza successo nella Germania di oggi, dipende dallo squallore con l’andar del tempo incontestabile e già palmare dello spirito tedesco, di cui cerco la causa in una eccessivamente esclusiva nutrizione di giornali, di politica, di birra e musica wagneriana, con in aggiunta ciò che costituisce il presupposto di questa dieta: in primo luogo, la chiusura nazionale e la vanità nazionale, il robusto, ma angusto principio «Deutschland, Deutschland über alles» e in seguito poi, la paralysis agitans delle «idee moderne»). Oggigiorno l’Europa è ricca e ingegnosa soprattutto in fatto di stimolanti, si direbbe che di null’altro senta maggiormente la necessità se non di stimulantia e d’acquavite; di qui anche l’enorme falsificazione in ideali, queste fortissime acquaviti dello spirito, di qui anche la nauseante, maleodorante, mendace, pseudoalcoolica atmosfera ovunque diffusa. Ci terrei a sapere quanti carichi di contraffatto idealismo, di costumi da eroi e di sgangherate grancasse di grandi parole, quante botti di dolciastra alcoolica simpatia sentimentale (ditta: la religion de la souffrance), quante stampelle di «nobile indignazione» a sostegno di piedi piatti dello spirito, quanti commedianti dell’ideale cristiano-morale dovrebbero essere esportati oggi dall’Europa affinché la sua aria torni ad avere un odore più pulito... Evidentemente, in considerazione di questa sovraproduzione è aperta una nuova possibilità di commercio, evidentemente con piccoli idoli d’ideale e con i relativi «idealisti» c’è da fare un nuovo «affare» – non si eviti d’afferrare questo chiaro invito! Chi ha abbastanza coraggio per questo? – sta nelle nostre mani, «idealizzare» tutta quanta la terra!... Ma non serve parlar di coraggio: qui una cosa sola è necessaria, appunto la mano, una mano senza prevenzioni, del tutto priva di prevenzioni...
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– Basta! Basta! Lasciamo andare queste singolarità e complessità dello spirito più moderno, di cui c’è tanto da ridere e da indispettirsi: precisamente il nostro problema può farne a meno, il problema del significato dell’ideale ascetico – che cos’ha esso a che fare con il tempo di ieri e di oggi? Codesti argomenti saranno da me trattati in maniera più radicale e rigorosa in un altro contesto (sotto il titolo «Per la storia del nichilismo europeo»; rimando per questo a un’opera che sto approntando: LA VOLONTÀ DI POTENZA. Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori). Ciò a cui è per me importante aver rinviato qui è questo: anche nella sfera più spirituale, l’ideale ascetico continua sempre a avere, per il momento, un’unica specie di reali nemici e danneggiatori: sono i commedianti di questo ideale – essi infatti suscitano diffidenza. Ovunque del resto lo spirito è oggi all’opera severamente, potentemente e senza coniazione di monete false, fa in generale a meno ora dell’ideale – l’espressione popolare per quest’astinenza è «ateismo» –: senza prendere in considerazione la sua volontà di verità. Ma questa volontà, questo residuo d’ideale, è, se mi si vuol prestare fede, quello stesso ideale nella sua formulazione più severa, più spirituale, assolutamente esoterico; spoglio di ogni apparecchiatura esterna, e quindi non tanto il suo residuo, quanto il suo nocciolo. L’incondizionato, onesto ateismo (– e unicamente la sua aria respiriamo noi, noi uomini maggiormente spirituali di quest’epoca!) non sta, conformemente a ciò, in contrasto con quell’ideale, come ne ha l’apparenza; è piuttosto soltanto una delle sue ultime fasi di sviluppo, una delle sue forme conclusive e delle sue intime consequenzialità – è la catastrofe, imponente rispetto, di una bimillenaria costrizione educativa alla verità, che finisce per proibirsi la menzogna della fede in Dio. (Lo stesso processo evolutivo in India, in perfetta autonomia e perciò non privo di una qualche forza probante; lo stesso ideale che costringe a un’analoga conclusione; il punto decisivo raggiunto cinque secoli prima dell’èra europea, con Buddha, o più esattamente, già con la filosofia Sankhya, successivamente popolarizzata da Buddha e trasformata in religione). Che cosa, domandiamocelo col massimo rigore, ha veramente trionfato sul Dio cristiano? La risposta sta nella mia «Gaia scienza», p. 290: «La stessa moralità cristiana, il concetto di veracità preso con sempre maggior rigore, la sottigliezza da padri confessori della coscienza cristiana, tradotta e sublimata nella coscienza scientifica, nella pulizia intellettuale a qualsiasi prezzo. Riguardare la natura come se essa fosse una dimostrazione della bontà e della protezione di un dio; interpretare la storia in onore di una ragione divina come costante testimonianza di un ordinamento etico del mondo e di finali intenzioni etiche; spiegare le proprie esperienze di vita come le hanno abbastanza a lungo spiegate uomini religiosi, come se tutto fosse una disposizione, tutto fosse un cenno, tutto fosse concepito e preordinato per amore e per la salute dell’anima: questo ha ormai fatto il suo tempo, ha la coscienza contro di sé, è per tutte le coscienze sensibili qualcosa di sconveniente, di disonesto, una menzogna, roba da donnicciole, debolezza, viltà; grazie a questo rigore, se non altro, noi siamo appunto buoni Europei ed eredi del più lungo e più valoroso autosuperamento dell’Europa»... Tutte le cose grandi periscono a opera di se stesse, per un atto di autosoppressione: così vuole la legge della vita, la legge del necessario «autosuperamento» nell’essenza della vita – ed è sempre il legislatore stesso, infine, a subire il richiamo: «Patere legem, quam ipse tulisti». In tal modo il cristianesimo come dogma è crollato per la sua stessa morale; in tal modo anche il cristianesimo come morale deve ancora crollare – noi siamo alla soglia di questo avvenimento. Avendo la veracità cristiana tratto una conclusione dopo l’altra, trae infine la sua più drastica conclusione, la sua conclusione contro se stessa; ma questo avviene, quand’essa pone la questione «che cosa significa ogni volontà di verità?»... E a questo punto tocco ancora una volta il mio problema, i nostri problemi, cari amici sconosciuti (– giacché ancora non so di alcun amico): che senso avrebbe tutto il nostro essere, se non quello espresso dal fatto che in noi codesta volontà di verità sarebbe diventata cosciente a se stessa come problema?... Per questa progressiva autocoscienza della volontà di verità, a partire da questo momento – non v’è alcun dubbio – va crollando la morale: un grande spettacolo in cento atti, che viene riservato ai due prossimi secoli europei, il più tremendo, il più problematico e forse anche il più ricco di speranza tra tutti gli spettacoli...
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Se si prescinde dall’ideale ascetico, l’uomo, l’animale uomo non ha avuto fino a oggi alcun senso. La sua esistenza sulla terra è stata vuota di ogni meta; «a che scopo l’uomo?» – fu una domanda senza risposta; mancava la volontà per uomo e terra; dietro ogni grande destino umano risonava, a guisa di ritornello, un ancor più grande «invano!». Questo appunto significa l’ideale ascetico: che qualche cosa mancava, che un’enorme lacuna circondava l’uomo – egli non sapeva giustificare, spiegare, affermare se stesso, soffriva del problema del suo significato. Soffriva anche d’altro, era principalmente un animale malaticcio: ma non la sofferenza in se stessa era il suo problema, bensì il fatto che il grido della domanda «a che scopo soffrire?» restasse senza risposta. L’uomo, l’animale più coraggioso e più abituato al dolore, in sé non nega la sofferenza; la vuole, la ricerca persino, posto che gli si indichi un senso di essa, un «perché» del soffrire. L’assurdità della sofferenza, non la sofferenza, è stata la maledizione che fino a oggi è dilagata su tutta l’umanità – e l’ideale ascetico offrì a essa un senso! È stato fino a oggi l’unico senso; un qualsiasi senso è meglio che nessun senso; l’ideale ascetico è stato sotto ogni aspetto il «faute de mieux» par excellence che sia mai esistito sino a ora. In esso la sofferenza venne interpretata; l’enorme vuoto parve colmato; si chiuse la porta dinanzi a ogni nichilismo suicida. L’interpretazione – indubbiamente – comportò nuova sofferenza, più profonda, più intima, più venefica, più corrosiva rispetto alla vita: dispose ogni sofferenza sotto la prospettiva della colpa... Ma ciò nonostante – l’uomo venne in questo modo salvato, ebbe un senso, non fu più, da quel momento in poi, una foglia al vento, un trastullo dell’assurdo, del «senza-senso», ormai poteva volere qualcosa – e soprattutto senza che avesse la minima importanza in che direzione, a che scopo, con che mezzo egli volesse: restava salvata la volontà stessa. Non ci si può assolutamente nascondere che cosa propriamente esprime tutto quel volere, che sulla base dell’ideale ascetico ha preso il suo indirizzo: questo odio contro l’umano, più ancora contro il ferino, più ancora contro il corporeo, questa ripugnanza ai sensi, alla ragione stessa, il timore della felicità e della bellezza, questo desiderio di evadere da tutto ciò che è apparenza, trasmutamento, divenire, morte, desiderio, dal desiderare stesso – tutto ciò significa, si osi rendercene conto, una volontà del nulla, un’avversione alla vita, una rivolta contro i presupposti fondamentalissimi della vita, e tuttavia è e resta una volontà!... E per ripetere in conclusione quel che già dissi all’inizio: l’uomo preferisce ancora volere il nulla, piuttosto che non volere...
CRONOLOGIA
LA VITA DI NIETZSCHE TRA L’ESTATE 1886
E L’AUTUNNO 1887
1886, fine giugno - fine settembre, Sils-Maria
Dopo un breve soggiorno a Coira, Nietzsche trascorre l’estate a Sils-Maria. La stampa di Al di là del bene e del male lo occupa sino alla fine di luglio (per la lettura delle bozze lo aiuta, come sempre, Gast). Conoscenza con Helen Zimmern. A Gast: «Comico! Si ha un bel difendersi contro l’emancipazione femminile: di nuovo è giunto sino a me un esemplare tipico di donna letterata, miss Helen Zimmern (che ha fatto conoscere Schopenhauer agli Inglesi) – credo persino che abbia tradotto Schopenhauer come educatore. Naturalmente ebrea: è straordinario, in che misura questa razza tenga ora nelle sue mani la “spiritualità” europea (oggi mi ha intrattenuto lungamente sulla sua razza)» (5 luglio). Dopo prolungate trattative con Schmeitzner, Fritzsch riesce a ricomprare le rimanenze degli scritti di Nietzsche (5 agosto). Esce Al di là del bene e del male. A Overbeck: «Il nuovo libro, un risultato che da lontano sembrava irraggiungibile, è ora finito; la richiesta di mandartene un esemplare a Basilea è già partita da qualche giorno. Ti prego ora di una cosa, vecchio amico: leggilo, dal principio alla fine, non arrabbiarti e non allontanarti da me – “raccogli tutte le forze”, tutte le forze della tua benevolenza per me, della tua benevolenza paziente e cento volte provata – se il libro ti sembra insopportabile, tuttavia forse non lo saranno cento dettagli di esso! Forse esso fornirà inoltre un paio di illuminazioni per il mio Zarathustra: questo è un libro incomprensibile per il fatto che risale a pure esperienze interiori, che io non divido con nessuno. Se potessi darti un’idea del mio sentimento di solitudine! Né tra i vivi né tra i morti trovo qualcuno con cui possa sentirmi affine. Ciò è indescrivibilmente atroce; e solo l’esercizio nel sopportare questo sentimento e un suo graduale sviluppo sin da quando ero bambino mi rende comprensibile il fatto che io non sia ancora perito per questo. Del resto il compito per cui vivo sta chiaro di fronte a me – come un factum di indescrivibile tristezza, ma trasfigurato dalla coscienza che in questo c’è grandezza, se mai si è accompagnata grandezza al compito di un mortale» (5 agosto).
Nietzsche manda a Fritzsch la Prefazione al primo volume di Umano, troppo umano e la relativa poesia finale (16 agosto). Inoltre Fritzsch mette in vendita le prime tre parti di Così parlò Zarathustra, legate assieme. Il 29 agosto Nietzsche manda a Fritzsch il «Tentativo di autocritica», per una nuova edizione della Nascita della tragedia. A Fritzsch: «Questo “tentativo”, assieme alla Prefazione per Umano, troppo umano, fornisce una vera illuminazione su di me – e la migliore preparazione per il mio figlio temerario Zarathustra» (29 agosto). J.V. Widmann recensisce Al di là del bene e del male nel «Bund» di Berna (16-17 settembre): «Quelle cariche di dinamite» si dice nella recensione «che furono usate per costruire la ferrovia del Gottardo, erano segnalate da una bandiera nera, per indicare un pericolo di morte. È soltanto in questo senso che parliamo del nuovo libro del filosofo Nietzsche come di un libro pericoloso. In questa designazione non c’è ombra di biasimo verso l’autore e la sua opera, così come quella bandiera nera non voleva biasimare quella dinamite... Nietzsche è il primo che conosca una via di scampo, ma è una via così paurosa che davvero ci si spaventa quando lo si vede percorrere il suo sentiero solitario, sinora mai calpestato!...». Frattanto è pronta anche la Prefazione al secondo volume di Umano, troppo umano. Alla madre: «Il cielo abbia pietà dell’intelligenza europea, posto che si voglia allontanarne l’intelligenza ebraica! Mi si è raccontato di un giovane matematico di Pontresina, che ha perduto la quiete notturna per l’eccitazione e l’entusiasmo suscitati in lui dal mio ultimo libro; quando io chiesi maggiori dettagli, risultò trattarsi ancora una volta di un ebreo (un tedesco non si fa disturbare così facilmente nel sonno)» (19 settembre).
Franz Liszt era morto a Bayreuth il 31 luglio; Nietzsche scrive in proposito a Malwida von Meysenbug: «Così il vecchio Liszt, che si intendeva di vita e di morte, si è fatto seppellire, diciamo così, nella causa wagneriana e nel suo mondo, come se vi appartenesse inscindibilmente e irrimediabilmente. Ne sono desolato per l’anima di Cosima: è una falsità in più sul conto di Wagner, uno di quegli equivoci quasi invincibili, tra cui oggi la gloria di Wagner cresce e mette troppe foglie. A giudicare da quello che ho sinora imparato sui wagneriani, l’odierno wagnerismo mi sembra avvicinarsi senza accorgersene a Roma, il che interiormente è la stessa cosa di ciò che fa Bismarck dal di fuori» (24 settembre). Verso la fine di settembre Nietzsche lascia Sils-Maria diretto a Genova.
ottobre, Genova, Ruta Ligure
Nietzsche si trattiene a Ruta assieme a Paul Lanzky (con escursioni a Genova e nei paesi vicini della costa ligure). Su Ruta: «A sinistra il golfo di Genova sino al faro; sotto la finestra e verso le montagne tutto è verde, scuro, rallegrante per l’occhio. L’Albergo Italia è pulito e piacevolmente arredato: la cucina è orrenda: non ho ancora potuto vedere un boccone decente di carne. Tanto più apprezzabile è l’aria pura e non snervante, come pure le passeggiate in alto tra i due mari, una foresta di pini di una rigogliosità quasi tropicale. Abbiamo già acceso tre volte grandi fuochi: non c’è nulla di più bello che veder divampare le fiamme contro il cielo puro. C’è una solitudine come su di un’isola dell’arcipelago greco; all’intorno innumerevoli catene di montagne» (a Emily Finn, 2 ottobre).
Risposta reticente di Burckhardt all’invio di Al di là del bene e del male. A Overbeck: «La lettera di Burckhardt, giunta da poco, mi ha rattristato, sebbene fosse piena della più alta considerazione per me. Ma ora che cosa m’importa di questo? Volevo sentire “di questo ho bisogno! mi ha fatto ammutolire!”. Solo in questo senso, mio vecchio amico Overbeck, soffro della mia “solitudine”...» (12 ottobre).
Nietzsche lavora alle Prefazioni per le nuove edizioni di Aurora e La gaia scienza.
fine ottobre 1886 - inizio aprile 1887, Nizza
Verso il 22 ottobre Nietzsche è di nuovo a Nizza. Lavora al quinto libro della Gaia scienza. A Fritzsch: «Ecco dunque, prima della fine dell’anno avrò finito tutto ciò che mi ero prefisso di fare per il bene dei miei libri precedenti. L’ultima cosa – che Le invio come manoscritto – è la parte finale (quinta parte) della Gaia scienza, che era progettata sin dal principio e che allora non fu completata in conseguenza di una fatale debolezza di salute» (fine dicembre 1886). A Overbeck: «Splendida lettera di Henri [sic] Taine, che mi prende tanto sul serio quanto posso desiderarlo; ha una cultura universale; i passi che segnala sono una prova di quanto bene egli capisca. Del resto io sono per lui “infiniment suggestif”, e per quanto riguarda il mio giudizio complessivo sui popoli europei e le loro forze, è del tutto incantato e promette di rivedere di nuovo questi punti. Egli fa parte dei miei tre lettori che leggono tra le righe» (29 ottobre).
Sulla «Zürcher Zeitung», H. Welti recensisce Al di là del bene e del male. Lettura del commento di Simplicio a Epitteto: «in esso viene messo chiaramente innanzi agli occhi l’intero schema filosofico nel quale si è iscritto il cristianesimo... La falsificazione di tutto ciò che è reale attraverso la morale risulta qui in piena luce; pietosa psicologia; il filosofo è ridotto a “parroco di campagna”. E di tutto questo è colpevole Platone: egli resta il più grande malheur d’Europa!» (a Overbeck, 9 gennaio 1887). A Gast Nietzsche scrive, a proposito delle sue meditazioni in questo periodo: «Attacco generale contro il causalismo di tutta la filosofia passata» (21 gennaio). A Montecarlo ascolta per la prima volta il preludio del Parsifal: «Wagner ha composto forse qualcosa di più bello?» (a Gast, nella stessa lettera). Nietzsche legge Renan, Sybel, Montalembert, e scopre Dostoevskij: «A parte Stendhal, nessuno mi ha procurato un piacere e una sorpresa maggiori, ecco uno psicologo con cui io mi intendo» (a Gast, 13 febbraio). A Overbeck: «Quest’inverno ho letto anche le Origines di Renan, con molta malignità e poco vantaggio. Tutta questa storia di stati e sentiments dell’Asia Minore mi sembra comicamente campata in aria. Alla fine la mia diffidenza si estende sino alla questione se in generale sia possibile la storia. Che cosa mai si vuol stabilire? – qualcosa che nell’attimo stesso dell’accadimento non era “fissato”?» (23 febbraio 1887).
Terremoto sulla Riviera: «Viviamo nell’interessante aspettativa di andare al diavolo, grazie a un bene intenzionato terremoto che fa ululare in lungo e in largo non soltanto i cani» (a Overbeck, 24 febbraio). Con la collaborazione di Gast (che è a Venezia) termina in marzo la lettura delle bozze della Prefazione della Gaia scienza e delle Canzoni del principe Vogelfrei.
aprile - metà giugno, Cannobio, Zurigo, Coira, Lenz
Sempre con l’aiuto di Peter Gast cura la stampa del quinto libro della Gaia scienza. Dall’inizio di maggio è a Zurigo e vede Overbeck. A Gast: «La visita di Overbeck mi ha fatto molto bene, il resto è – Zurigo» (4 maggio). In maggio da Coira lettera di rottura a Rohde. Frequenta la biblioteca di Coira. A Lenz (Lenzer Heide) composizione di un lungo frammento sul «nichilismo europeo» (fatto poi a pezzi da Peter Gast ed Elisabeth Förster-Nietzsche nella cosiddetta «Volontà di potenza»). Probabile inizio della stesura di Genealogia della morale.
metà giugno - fine settembre, Sils-Maria
Il 12 giugno Nietzsche giunge a Sils-Maria. Commozione per la morte prematura di Heinrich von Stein: «Uno dei pochissimi la cui esistenza era per me una gioia: anche lui aveva grande fiducia in me... Questo avvenimento mi fa così male che continuo a non crederci» (a Gast, 27 giugno). In luglio richiama dalla tipografia il manoscritto della Genealogia per apportarvi cambiamenti; il 30 luglio lo rispedisce corretto a Lipsia. Dopo quattordici anni di lontananza, incontro con l’amico della giovinezza Paul Deussen e sua moglie a Sils-Maria (settembre).
21 settembre - 21 ottobre, Venezia
Dopo una breve sosta a Menaggio, in visita alla signora Fynn e a sua figlia, giunge a Venezia, dove resta un mese con Peter Gast. In questo mese è portata a termine la stampa di Genealogia della morale. Invia agli amici e anche a Hans von Bülow il suo Inno alla vita, «per coro misto e orchestra», su parole di Lou von Salomé; l’arrangiamento per orchestra di questa composizione di Nietzsche è opera di Peter Gast: «Dovrà essere cantato in un qualche futuro vicino o lontano alla mia memoria, alla memoria di un filosofo che non ha avuto e, veramente, neppure ha voluto avere un presente» (a Hans von Bülow, 22 ottobre).
NOTE
1
Cfr. Matteo, 6, 21.
2
Inversione del proverbio «ognuno è a se stesso il più vicino» (cfr. Terenzio, Andria, IV, I, 12).
3
Cfr. Goethe, Faust, in Werke, Zürich, 1949, vol. V, parte I, vv. 3781-3782.
4
Nietzsche aveva letto in quest’epoca, nella biblioteca di Chur, la Storia della civiltà in Inghilterra di Buckle; in proposito scrisse a Gast, il 20 maggio 1887: «... strano! è risultato che Buckle è uno dei miei più forti antagonisti».
5
Silas Weir Mitchell (1829-1914), medico e scrittore americano.
6
Cfr. Tucidide, II, 41.
7
Cfr. Tucidide, II, 39.
8
Cfr. Luca, 23, 34.
9
Cfr. Matteo, 5, 44.
10
Cfr. Epistola ai Romani, 13, I.
11
Cfr. Omero, Iliade, XVIII, 109.
12
Cfr. Epistola prima ai Tessalonicesi, 3, 12.
13
Cfr. Dante, Inferno, III, 5-6: «Fecemi la divina potestate, / La somma sapienza e il primo amore».
14
«Ma vi sono ancora altri spettacoli, quel giorno del giudizio, ultimo e perpetuo, quel giorno inatteso per i popoli, quel giorno deriso, quando da un solo fuoco saranno divorate una così lunga esistenza del mondo e tante sue generazioni. Quale ampiezza avrà allora lo spettacolo! Quali meraviglie vedrò! Di che cosa riderò! Laggiù godrò! Laggiù esulterò, osservando tanti e tanto grandi re – che si proclamava fossero assunti in cielo – lamentarsi in profondità tenebrose assieme allo stesso Giove e agli stessi loro spettatori! Guardando del pari i presidi, persecutori del nome del Signore, che si struggono in fiamme più crudeli di quelle mediante cui essi stessi infierirono con scherno contro i cristiani! e inoltre quei sapienti filosofi, arrossati dal fuoco di fronte ai discepoli che ardono insieme a loro, discepoli che erano stati da loro persuasi che nulla spetta a Dio, e ai quali era stata data da loro l’assicurazione che le anime non esistono oppure che non ritorneranno ai corpi primitivi! Osservando anche i poeti palpitare non già di fronte al tribunale di Radamanto o di Minosse, ma di fronte al tribunale di un impensato Cristo! Allora si ascolteranno meglio i tragedi, meglio in voce riguardo alle loro proprie sventure; allora si dovranno conoscere gli istrioni, resi assai più disinvolti dal fuoco; allora sarà da guardare l’auriga, tutto ardente nella ruota fiammeggiante, allora saranno da contemplare gli atleti, mentre scagliano il giavellotto non nelle palestre, ma nel fuoco, senonché neppure vorrei questi spettacoli [leggendo visos anziché vivos], in quanto preferirei offrire piuttosto una visione che non saziasse a coloro che incrudelirono contro il Signore. “Ecco,” dirò “il figlio dell’artigiano e della prostituta, il distruttore del sabato, il Samaritano, colui che ha il demonio. Ecco colui che compraste da Giuda, ecco colui che fu percosso con la canna e con i pugni, che fu infamato con gli sputi, cui fu dato da bere fiele e aceto. Ecco colui che i discepoli sottrassero di nascosto, affinché si dicesse che era risorto, oppure colui che un giardiniere tirò giù, perché le sue lattughe non fossero danneggiate dalla grande affluenza di gente che passava e ripassava”. La vista di tali spettacoli, la possibilità di esultare per tali cose, quale pretore o console o questore o sacerdote riuscirà a offrirtela con la sua liberalità? E tuttavia queste cose, rievocate dall’immaginazione dello spirito, in qualche modo già le possediamo mediante la fede. Del resto quali sono quelle cose, che né l’occhio ha veduto né l’orecchio ha udito né si sono innalzate nel cuore dell’uomo? Credo che siano più gradite del circo, della scena comica e tragica, e di tutto ciò che si vede nello stadio».
15
Cfr. Tacito, Annali, XV, 44.
16
Cfr. P. Mérimée, Lettres à une inconnue, Paris, 1874, vol. I, p. 8.
17
Cfr. E. Dühring, Sache, Leben und Feinde, Karlsruhe-Leipzig, 1882, p. 283.
18
Cfr. J. Kohler, Das chinesische Strafrecht. Ein Beitrag zur Universalgeschichte des Strafrechts [Il diritto penale cinese. Un contributo alla storia universale del diritto penale], Würzburg, 1886.
19
Cfr. Spinoza, Ethica, I, prop. 33. schol. 2.
20
Cfr. Eraclito (Diels-Kranz), fr. 52; (Colli), fr. 18.
21
Cfr. la poesia An den Mond [Alla luna], ed. cit., vol. I, p. 71.
22
Cfr. Omero, Odissea, I, 32-33.
23
Cfr. Stendhal, Rome, Naples et Florence, Paris, 1854, p. 30: «La beauté n’est jamais, ce me semble, qu’une promesse de bonheur».
24
Cfr. H. Oldenberg, Buddha. Sein Leben, seine Lehre, seine Gemeinde, Berlin, 1881, p. 122.
25
Cfr. H. Oldenberg, ibid., p. 124.
26
Cfr. Luca, 10, 42.
27
Cfr. P. Deussen, Das System des Vedânta, Leipzig, 1883; Die Sûtras des Vedânta, aus dem Sanskrit übersetzt von P. Deussen, Leipzig, 1887.
28
Cfr. Platone, Repubblica, 414 b-c («onesta» = γενναῖον); 382 c; 389 b; 459 c-d; Leggi, 663 e.
29
Cfr. W. Gwinner, A. Schopenhauer aus personlichem Umgange dargestellt, Leipzig, 1862.
30
Cfr. A.W. Thayer, L. Van Beethoven’s Leben, Berlin, 1866 sgg.
31
Fu pubblicata soltanto nel 1911, ma Nietzsche la conosceva sin dall’epoca di Basilea come stampa privata, ed egli aiutò anche Wagner nella correzione delle bozze (1869-1870).
32
Cfr. J. Janssen, Geschichte des deutschen Volks seit dem Mittelalter, Freiburg, 1877.
33
Cfr. Giovanni, 18, 36.
34
Cfr. Goethe, Gespräche mit Eckermann, ed. cit., vol. XXIV, pp. 718 sgg., 14 febbraio 1830: «Goethe parla in seguito di Gozzi ... Gozzi ha avuto l’opinione che ci siano soltanto trentasei situazioni tragiche; Schiller ha creduto che ce ne siano di più, senonché non gli sarebbe mai riuscito di trovarne anche solo trentasei».