Gelo
per i Bastardi di Pizzofalcone
Einaudi
I.
E all’improvviso lo senti, il freddo.
Ti arriva addosso ed è una mazzata, una consapevolezza.
Lo senti mentre sei ancora su di lei, la tua faccia a pochi centimetri dalla sua, e la fissi negli occhi spenti.
Il freddo. Una sensazione pungente sulla pelle scoperta, forte e decisa come se non ci fosse nient’altro, come se nient’altro ci fosse stato mai.
Lo percepisci con tutti e cinque i sensi, il freddo, lo vedi nel vapore che ti esce dalla bocca, lo avverti nel rantolo del respiro affannato, lo inali come una frustata dalle narici, lo gusti perfino sulla lingua arida. E lo tocchi sul suo corpo.
Ti alzi di scatto, quasi ti fossi reso conto solo adesso di dove sei e di quello che hai fatto. Ti guardi attorno, disorientato, a mano a mano che la rabbia arretra e lascia il posto alla mente: una voce lontana che cerca di venire a galla, la ragione che prova a farsi ascoltare. Presto. Presto.
Agisci in fretta, anche se magari è inutile. Dall’esterno non arriva alcun rumore. È cosí, quando fa freddo. La gente si tappa in casa al calduccio, si istupidisce ancora di piú davanti alla televisione o al computer, commentando con chiunque l’unico, eterno argomento del giorno: ma che freddo, che freddo, signo’, avete sentito che freddo? E dice che scende ancora, la temperatura, io mi metto a letto e aspetto l’estate.
Stupidi. Tutti stupidi. E credono che siano stupidi pure gli altri. Ma tu no. Tu non sei stupido.
Getti un ultimo sguardo attorno. La stanza di lei. Le sue piccole cose. Qualche pupazzo, biancheria. Disordine. Niente di tuo, nessuna traccia. Bene. Arretri. L’ingresso, la porta della cucina. La stanza grande, alla tua destra; da lí lui non si vede. Ti sporgi un po’, questione di centimetri, trattenendo il fiato e le nuvole bianche che scaturiscono ritmiche dalle tue labbra. Per un attimo pensi che si sia alzato e ti aspetti dietro lo stipite, impugnando un lungo coltello come in uno di quei film americani, con il colpo di scena prevedibile, che tutti si aspettano.
No, eccolo là. Scorgi la punta delle dita, le carte, lo schermo del portatile. Una penna in una mano.
Ti fermi. Pensi che si rimetterà a scrivere, piano, o darà altri segni: una tosse, un sospiro. La luce fioca della lampadina nuda appesa al soffitto; la stufetta elettrica accesa, che ha il cavo riparato con il nastro isolante per quante volte ci sarà inciampato, distratto com’è.
Com’era.
Di nuovo una voce da dentro: muoviti, ogni secondo in piú può essere decisivo. Fai presto. Presto.
Sospiri ed entri nella stanza. Non riesci a trattenere gli occhi su di lui, sul capo appoggiato sopra il ripiano del tavolo, sul braccio che penzola nel vuoto.
Mi ci vorrebbe qualcosa, pensi, deglutendo a vuoto. Qualcosa di forte. Del vino. No, un liquore. Qualcosa che bruci scendendo nella gola, che mi dia caldo nello stomaco e leggerezza nella testa. Chissà se hanno da bere, qui. Macché, che devono avere, poveri come sono, miserabili, per rimanere attaccati alla speranza di farsi strada in una città che non li vuole.
Morti di fame.
Morti e basta.
Fa piú freddo dentro che fuori, pensi. Come in una dannata ghiacciaia. O un obitorio. Ti passi la mano tremante sulla fronte. Forse hai la febbre. Forse è tutto un incubo, di quelli che mentre li fai ti dici: ma quando mi sveglio da questo cavolo di incubo? Forse tra un po’ apri gli occhi e ti ritrovi sotto le coperte, e sorridi pensando che è finita.
Che è tutto finito.
La voce, la voce nel cervello: fai presto. Guarda bene. Che cosa può tradirti? Cosa può rivelare che sei stato qui?
Devi per forza ripartire da lui, ricostruire ogni gesto, ogni movimento. Ripartire da lui e dalla sua testa.
La sua maledetta testa, con quella strana, assurda depressione dove prima c’era la curva della nuca, alla base del cranio, adesso bagnata e scura come se qualcuno gli avesse versato sopra della vernice, alle spalle: cucú, che bello scherzo. E il colletto della camicia intriso di sangue nero.
Il riverbero rosso della stufetta sembra la luce dell’inferno.
Gli occhi vagano a terra e infine vedono quello che devono vedere. La statuetta di bronzo. Ti abbassi e la prendi.
Sei sorpreso. Era cosí leggera, prima, quando la rabbia animava il tuo braccio, quando la furia di distruggere ti scorreva nelle vene. Ora sembra pesantissima, una tonnellata di metallo fuso in una sciocca immagine di donna con la fascia a tracolla, trofeo di chissà quale insulsa serata d’estate con musica anni Sessanta e ragazzi in cerca di femmine disponibili. La guardi come se fosse la prima volta che la vedi.
Simboli. La testa di lui, la faccia di lei.
La testa di lui, la testa che hai appena spaccato, cosí piena di idee, di cocciuta voglia di studiare e di scoprire, la testa sulla quale ti sei accanito: due, tre, cinque colpi anche se sarebbe bastato il primo, con quel rumore umido di noce rotta che hai sentito.
La faccia di lei, cosí bella – il naso perfetto, le labbra piene e rosse, ricche di promesse – tumefatta dalla tua stretta, irriconoscibile e gonfia, spezzata come la sua vita.
Simboli.
Giusto, pensi, mentre infili la statuetta nella tasca del giaccone. Colpiti e rotti nelle uniche speranze che avevate per uscire dalla merda in cui siete nati e dove era meglio che rimaneste. La testa di lui, la faccia di lei. Non l’hai fatto apposta, ma se avessi dovuto scegliere avresti scelto cosí. Erano le loro uniche speranze, il passaporto per una vita migliore.
O per l’inferno.
Ti prende la frenesia. Devi andartene.
Torni nell’ingresso. Adesso sei lucido, la tua mente è tersa come una mattina di tramontana, fredda come il freddo che fa. Non chiudi la porta, l’accosti: magari qualcuno sente il rumore e si affaccia, e tutto è perduto.
Meglio le scale dell’ascensore, è piú difficile capire da che piano vieni. Potresti tenerti rasente al muro, dove c’è ombra, ma tanto chi vuoi che ti veda. È tardi, e con questo freddo non esce nessuno, se non è proprio necessario.
Da qualche appartamento, mentre scendi rapido e silenzioso, senti arrivare il suono della Tv.
Il portone: sei fuori.
Il vento gelido taglia l’aria e ti investe. Ti copri la faccia con il bavero, anche se il vicolo è deserto. Devi bere, hai bisogno di calore. Ogni passo è un passo buono, ti allontana da quell’obitorio, da quelle stanze piene di morte. Tremi, ti tremano ancora le mani, e anche le gambe. La schiena è indolenzita dalla tensione. Il peso della statuetta nella tasca ti ripete che è tutto vero.
Vedi l’insegna accesa di un bar. Il bello di questa città infame è che a qualsiasi ora c’è sempre chi ti accoglie per farti bere, mangiare, fumare, per pigliarti dei soldi.
Entri. In un angolo ci sono dei giocatori di videopoker. A un tavolo, tre ragazzi e una ragazza. C’è odore di rancido e di sudore, ma almeno fa caldo.
Ti siedi, ti liberi del cappotto e del peso di morte del bronzo. Allinei le mani sul tavolino, aspetti che smettano di tremare.
Ordini da bere, e anche qualcosa da mangiare, sempre per non dare nell’occhio.
Precauzioni inutili, pensi, perché lo spilungone assonnato che ti serve non ti guarda nemmeno.
La musica urla in dialetto dalle casse dello stereo. I giocatori del videopoker hanno gli occhi sbarrati sui display. I quattro al tavolo ridono forte.
Finalmente nel mondo normale. Invisibile. Va tutto bene, ora. Tutto bene.
Bevi. E bevi ancora.
Ma il gelo non se ne va.
II.
L’agente scelto Marco Aragona fece il suo ingresso con una specie di saltello da ballerino.
– Signore e signori, buongiorno. Avete visto che meravigliosa giornata, stamattina?
La frase cadde in un rassegnato silenzio. L’ispettore Lojacono sollevò gli occhi obliqui dal faldone che aveva davanti e fissò malevolo il giovane collega. Pisanelli, l’anziano vicecommissario, sospirò scuotendo il capo.
Aragona insistette, alzando la voce con aria offesa:
– Ecco qua… sempre pronti a fare gruppo, eh? Si può sapere che vi prende? Nemmeno al buongiorno ora si risponde piú?
Ottavia Calabrese si sporse da dietro il grande schermo del suo computer:
– E pure hai ragione, Marco. Buongiorno a te. Anche se a essere sincera non mi pare tutta questa bella giornata. Stanotte siamo scesi sottozero, e stamattina, quando sono uscita per portare il cane a fare pipí, il marciapiede era pieno di ghiaccio.
Aragona sorrise, fregandosi le mani:
– Mammina cara, e che ci sta di male in una bella, fresca giornata d’inverno? Al paese dei miei genitori ci nevica ogni anno, e tutti sono lo stesso allegri e contenti.
Un uomo dalle spalle larghe e dal collo grosso, che leggeva il giornale a una scrivania defilata, brontolò:
– Che c’è da stare allegri con la neve e il freddo vorrei proprio saperlo. Le macchine vanno in faccia al muro, le persone anziane scivolano e si fanno male, all’aperto non si può stare.
Aragona allargò le braccia in direzione di Francesco Romano:
– E figurati se tu, Hulk, non ti lamentavi. Ti avessi mai visto non dico ridere, ma sorridere, in questi mesi. E provaci a vedere il bicchiere mezzo pieno almeno una volta. Il freddo mette energia, voglia di muoversi. Magari pure la voglia di faticare, che mi pare sia merce rara, da queste parti.
Alessandra Di Nardo, che occupava l’ultima postazione in fondo alla sala, interrompendo la pulizia dell’arma d’ordinanza lo apostrofò con finta durezza:
– Ti faccio notare che, come al solito, freddo o caldo, sei l’ultimo ad arrivare, quindi tutta questa voglia di faticare a te non è venuta. E poi si può sapere come ti sei combinato? Che è quel maglione?
Aragona assunse un’aria offesa e accarezzò il dolcevita aragosta che portava sotto la giacca:
– Mi meraviglia che proprio tu, l’unica giovane in questo ospizio, non apprezzi la bellezza e la novità di un colore che dona allegria alla stagione. Inoltre questo maglione costa…
Lojacono e Ottavia finirono la frase in coro perfetto:
– … quanto tutto quello che teniamo addosso noi messo insieme.
– Esatto. Perché siete poliziotti di tipo vecchio. Come voi non se ne vedono nemmeno nelle serie anni Settanta. Il mestiere si adegua ai tempi, si evolve, e voi non lo capite. È per questo che…
Fu il turno di Alex e Romano a continuare la frase:
– … io sarò il primo a fare carriera e ad abbandonare questo…
Aragona, agitando le mani a mo’ di direttore d’orchestra, concluse:
– … cesso di commissariato di Pizzofalcone!
La porta alle sue spalle si aprí e comparve il commissario Palma. Tutti abbassarono lo sguardo su quello che stavano facendo, tranne Aragona, il quale, non essendosi accorto di nulla, si produsse in un profondo inchino con cui mostrò le terga al superiore.
Palma gli fece un lento, ironico applauso:
– Bravo, bravo, Aragona. Complimenti per il tuo numero mattutino. Ora, se non ti dispiace, vorrei capire come passeremo la giornata, qui all’asilo.
L’agente scelto si spostò di lato con un balzo, raccolse al volo gli occhiali dalle lenti azzurrate che gli erano scivolati dalla fronte, si sistemò con una mano il ciuffo alla Elvis – la cui duplice funzione era di nascondere la calvizie in espansione al centro della testa e aggiungere un paio di utili centimetri di statura – e si sedette al proprio posto.
Palma guardò i fogli che teneva in mano, come cercandovi conforto. Anche di prima mattina aveva la solita aria stanca e sgualcita, accentuata dal perenne velo di barba sul viso, dal nodo della cravatta allentato e dalle maniche rimboccate della camicia. Pure i capelli, folti e spettinati, contribuivano a comunicare l’impressione di scompiglio e iperattività.
– Dunque, – esordí rialzando la testa, – avrei preparato un ordine di servizio. Pisanelli vi coordinerà: tiriamo fuori pratiche inevase, casi rimasti in sospeso insomma. Cerchiamo di capire se c’è ancora qualcosa da fare, altrimenti li archiviamo con un verbale veloce.
Romano chiuse il giornale e mormorò:
– Scartoffie, sempre scartoffie. Se me lo dicevano prima, mi impiegavo al catasto.
Ottavia si rivolse al commissario con voce preoccupata:
– Dottore, ma è una disposizione che arriva dalla questura, questa? Vuol dire qualcosa?
Lojacono, che fissava il superiore con un’espressione indecifrabile, aggiunse:
– Vuol dire, per esempio, che hanno di nuovo in mente di eliminare il distretto, come intendevano fare all’inizio?
Pisanelli intervenne:
– Ancora con questa storia? Non abbiamo dimostrato abbastanza? Ci dobbiamo portare il carico del peccato originale per sempre?
Si riferiva alla famosa vicenda dei Bastardi di Pizzofalcone, come venivano ricordati da ogni poliziotto della regione i colleghi protagonisti di un gravissimo episodio, la commercializzazione in proprio di una partita di droga sequestrata. Era scoppiato uno scandalo e il piccolo ma storico commissariato aveva rischiato di essere chiuso. Alla fine gli alti dirigenti avevano deciso, in via provvisoria, di tenere la struttura in piedi per un periodo di valutazione.
Giorgio Pisanelli, con Ottavia Calabrese, era uno dei pochi sopravvissuti agli arresti e ai prepensionamenti che avevano seguito l’evento, ed era particolarmente sensibile alla questione: se le cose non fossero andate per il verso giusto, si sarebbe sentito per sempre responsabile, nonostante, come la collega, non c’entrasse nulla con quella brutta storia.
Aragona tagliò corto sfoderando il suo insopportabile ottimismo:
– Magari si tratta solo di togliere un po’ di vecchie carte da mezzo, no? Mica ci chiudono: senza di noi, i nuovi Bastardi di Pizzofalcone, di che cosa sparlerebbero nelle altre caserme?
Pisanelli scattò verso di lui. In genere era il ritratto della calma, ma sentire quel soprannome, i Bastardi, lo faceva imbestialire:
– Aragona, te l’ho detto mille volte: tu non conosci le cose. Chi ha sbagliato ha pagato e pagherà, ma la gente del quartiere, che se non ci fossimo noi rimarrebbe senza un presidio di ordine pubblico, non ha colpe. Dobbiamo restare aperti e ripulire l’immagine, siamo capaci di farlo e…
Romano lo interruppe, amaro:
– Sí, bella pulizia. Ma se hanno mandato noi proprio per dargli il colpo di grazia, a ’sto posto. Siamo tutta gente con una qualche macchia nel passato, ricordi? Che quindi ha alte probabilità di sbagliare ancora. Lascia perdere, va’.
Palma riprese le redini:
– State facendo discorsi inutili. Piú che inutili. Dobbiamo solo riordinare le vecchie pratiche, nient’altro. Un lavoro che, naturalmente, si interromperà se dovesse succedere qualcosa di nuovo. Dunque, Giorgio, organizza con Aragona e Romano il recupero dei faldoni e…
Lo squillo del telefono lo interruppe. A rispondere, come quasi sempre, fu Ottavia, che dopo qualche scambio di battute riagganciò e disse:
– Era il centralino della questura. Hanno ricevuto una chiamata, pare che sia successo qualcosa di grave al vico Secondo Egiziaca numero 32, a pochi passi da qui.
Lojacono si era già alzato e stava prendendo il cappotto.
– Vado io.
Palma annuí e aggiunse:
– Va bene. Di Nardo, accompagnalo. Cosí fai prendere un po’ d’aria a quella pistola.
III.
Appena Lojacono e Di Nardo furono usciti e Palma fu rientrato nel suo ufficio, Romano picchiò un pugno sulla scrivania.
– Maledizione. Loro a fare il lavoro giusto e noi a fare i contabili.
Ottavia, che era sobbalzata all’improvviso rumore, disse:
– Dài, Francesco, il commissario non fa certo preferenze e…
Aragona l’interruppe:
– Su, mammina, tu stai sempre a giustificare quello che fa il signor commissario. Hulk ha ragione, quando si tratta di cose grosse Palma manda il Cinese; e pure Calamity Jane gode di un occhio di riguardo. Io vorrei sapere come si fa carriera compilando verbali di casi vecchi cent’anni che non sono stati chiusi perché i vostri colleghi erano troppo occupati a spacciare.
Pisanelli lo guardò torvo:
– Aragona, siccome ho ricevuto l’incarico di coordinare questo lavoro, sono proprio tentato di assegnarti qualche bel faldone polveroso che non attende altro se non di essere riaperto da una decina d’anni. Che ne dici?
La Calabrese cercò di smorzare i toni:
– Vi ripeto, sono sicura che il commissario non fa preferenze. Semplicemente Lojacono è il piú esperto. Ha dimostrato di sapersela cavare sia col caso del Coccodrillo, quando era ancora al commissariato di San Gaetano, sia con la faccenda della morte della moglie del notaio. In quell’indagine, fra l’altro, Palma gli affiancò proprio te, Marco, perciò…
Romano non ci stava:
– Però cosí Lojacono diventa sempre piú esperto e noi non usciamo piú. Io ci vado a parlare, con Palma, e gli chiedo se…
Un colpo di tosse proveniente dall’ingresso della stanza troncò la discussione. Si voltarono tutti. Sulla porta c’era una signora di mezza età, abbastanza ben vestita, in attesa che qualcuno le desse attenzione.
– Prego, signora, ha bisogno?
In risposta all’invito di Ottavia, la donna fece un passo avanti ed entrò, a disagio. Dalle macchie d’inchiostro sulle mani, con cui stringeva i manici della borsetta, Pisanelli dedusse che si trattava di un’insegnante. Notò anche la corporatura rotonda e la statura modesta, di poco incrementata da scarpe con il tacco basso.
– Sí, io… vorrei sporgere una denuncia. Anzi, no: vorrei… fare una segnalazione, ecco. Una segnalazione.
Romano si alzò: non intendeva lasciarsi sfuggire la seconda occasione della giornata per lavorare sulla vita vera invece che su vecchi documenti.
– Dica pure a me, signora. Sono l’agente Romano Francesco, assistente capo.
Lei esibí un sorriso tirato che tuttavia la fece diventare piú giovane.
– Buongiorno, io sono la professoressa Emilia Macchiaroli. Insegno alla scuola media Sergio Corazzini, a poca distanza da qui. Posso… possiamo parlare qui?
– Ma certo, professoressa. Siamo tutti colleghi.
La donna si guardò attorno e si passò la lingua sulle labbra, ancora in difficoltà.
– Ecco, non so nemmeno se ho fatto bene. Ritenevo fosse il caso di avvertire… Cioè, non proprio avvertire… Ho provato a convincere la madre a… ma lei, per qualche motivo, non vuole. Non che sia raro, per una mamma è difficile da credere, poi lei è pure figlia unica, il che, come sapete, è peggio. D’altra parte, mi sono detta, se poi fosse vero? Ci sono pure le mitomani, è chiaro, con queste sconcezze che passano in televisione, però una volta su cento magari è vero. E c’è sempre la storia di quello che grida «al lupo, al lupo» per scherzo, e la volta che il lupo arriva davvero, nessuno gli crede. Non che io sia una che si allarma facilmente, per carità, ma nemmeno si può far passare tutto sotto silenzio. Non vi pare?
Aragona la fissò a bocca spalancata. Pisanelli nascose la faccia dietro un verbale. Ottavia si sforzò di concentrarsi sullo schermo del computer. Romano si chiese se davvero la donna aspettasse una risposta. Poiché sembrava di sí, pensò di tenersi sul generico:
– Be’, certo. E nella fattispecie, professoressa, di che cosa si tratterebbe?
– Ah, ma di molestie, ovviamente. Vede, io insegno Lettere. Veramente oggi le materie si chiamano in un altro modo, ma noi che abbiamo fatto le scuole in altri tempi rimaniamo legati alla tradizione, giusto? Cioè, è una questione di imprinting: se io, quando sono giovane, mi abituo a una certa terminologia, allora…
Aragona non si trattenne dall’intervenire:
– Per favore, professore’, rimanga sull’argomento. Se no, non capisce niente il collega e non capiamo niente tutti noi. E se non capiamo niente, nemmeno vi possiamo aiutare.
La Macchiaroli sbatté le palpebre, quasi sorpresa di essere stata interrotta:
– E infatti sto spiegando, no? Io, ripeto, insegno Lettere, quindi sono l’insegnante di riferimento della sezione. Naturalmente i ragazzi scrivono saggi e temi, fanno ricerche, e io leggo quello che scrivono. Certo, sono scritti per la maggior parte rivolti a mostrare quanto hanno imparato: Letteratura, Storia, Elementi di…
Aragona si alzò in piedi:
– Professore’, se lei spiega ai ragazzi come racconta i fatti, non mi meraviglio che il livello della scuola in questo paese stia crollando. La prego, vuole dirci per quale motivo è venuta qui?
Incenerendo con un’occhiata l’agente scelto Aragona, Romano cercò di recuperare:
– Professoressa, quello che vorremmo capire è se ha una denuncia da sporgere.
– No, agente, una denuncia no. Credo che la denuncia implichi la certezza dell’esistenza di un reato: io questa certezza non ce l’ho e nemmeno posso averla. Tuttavia penso che una mia alunna stia subendo molestie sessuali. E se voglio stare a posto con la coscienza, ve lo devo dire.
Nella sala calò il silenzio. Dalla soglia del suo ufficio si affacciò Palma, incuriosito dal dialogo, che chiese:
– Quanti anni ha, questa sua allieva? E chi la starebbe molestando?
La donna si voltò verso il commissario, puntando su di lui i suoi tranquilli occhi azzurri.
– Dodici. Parise Martina, seconda B. E il molestatore è il padre.
IV.
Il vico Secondo Egiziaca era in effetti a due passi dal commissariato. Lojacono e Di Nardo vi giunsero in meno di tre minuti, mantenendosi lungo i muri per ripararsi dall’aria gelida, il colletto del cappotto rialzato, gli occhi socchiusi per difendersi dal vento tagliente, il fiato che formava una nuvola di vapore.
Alex inalò un respiro profondo.
– Che vuoi, Lojacono, a me il freddo piace. E per scaldarsi basta muoversi un po’. Dal caldo, invece, non puoi difenderti: ti spogli ma lo senti lo stesso, e non ti resta che chiuderti in una stanza con il condizionatore, che però, si sa, fa male.
– Non capisco che ci trovi di bello in un vento che ti stacca le orecchie. Di Nardo, tu mi vuoi provocare. Dalle parti mie, quando fa freddo, è come da voi quando fa caldo. La Lapponia mi pare stamattina. Uscire dalle coperte è stato un trauma. Ecco, siamo arrivati.
Non c’era stato bisogno di cercare il numero civico: davanti a un portone stazionava una volante coi lampeggianti accesi, e accanto un giovane in divisa saltellava per non congelare.
Lojacono si avvicinò:
– Siamo del commissariato di Pizzofalcone.
L’altro accennò alle scale col capo, senza smettere di soffiarsi sulle mani tenute a coppa davanti alla bocca:
– Ce l’avete fatta, finalmente. Io so’ Ciccoletti, della questura. Al secondo piano, un ragazzo e una ragazza. Non c’è portinaio, nel caso lo cercaste. Sopra ci sta il mio collega che vi aspetta. Abbiamo chiamato pure la scientifica.
Quei modi troppo informali irritarono Lojacono; i Bastardi di Pizzofalcone, un marchio d’infamia indelebile. Fissando l’agente negli occhi, sibilò:
– Ciccoletti, stai parlando con un ispettore. Quindi levati quelle cazzo di mani dalla bocca e stai dritto e fermo, o ti riscaldo io a schiaffoni. È chiaro?
– Scusatemi, ispetto’. È che fa un freddo cane, stamattina, e qua sotto c’è vento. Vi aspettavamo, siamo arrivati subito e…
Lojacono si girò ed entrò nel portone. Alex lo seguí, non prima di aver rivolto al poliziotto in divisa uno sguardo a metà fra la comprensione e l’ulteriore rimprovero.
Il palazzo, come quasi tutti quelli della zona, aveva conosciuto tempi migliori. Era uno stabile antico, soggetto a vincoli rigidi, quindi intatto nella decadente facciata e vittima di orribili tentativi di ammodernamento nelle parti interne. Mentre salivano a piedi, Lojacono notò le pareti scrostate, le piastrelle sostituite con altre di colore differente, qualche crepa riparata alla bell’e meglio con della malta grezza, senza intonaco. Le porte di legno erano tutte diverse, e alcuni portoncini di alluminio anodizzato con piú campanelli lasciavano intuire suddivisioni articolate di vecchi appartamenti di grandi metrature. Di quest’ultimo tipo era l’uscio al secondo piano dove erano diretti, che immetteva in una specie di atrio su cui si affacciavano due ingressi, in quel momento aperti.
Sul pianerottolo li attendeva un secondo agente in divisa. Era piú anziano di quello rimasto di sotto, e forse per questo tenne un atteggiamento piú formale. Si toccò la visiera.
– Buongiorno, sono Stanzione. Siete voi che venite da Pizzofalcone? Mi hanno avvertito via radio.
Alex annuí:
– Sí, siamo noi. Io sono l’agente Di Nardo, lui è l’ispettore Lojacono. Che ci dici?
L’uomo si rivolse direttamente a Lojacono. Per il grado, certo. Ma anche perché è maschio, pensò con livore Alex.
– Il fatto è successo qua, nell’appartamento di destra entrando. Due giovani, un uomo e una donna: lei sta sul letto, lui seduto alla scrivania nell’altra stanza.
Alex insistette, secca:
– Chi li ha trovati?
Esitante, Stanzione rispose ancora a Lojacono, neanche l’ispettore fosse un ventriloquo e Di Nardo il suo pupazzo:
– Un collega del ragazzo, è sconvolto. Sta dai vicini, due… due che abitano là. Gli hanno fatto un caffè, beato lui.
Lojacono, senza togliere le mani dalle tasche del cappotto, esaminò prima il portoncino poi la porta indicata dall’agente in divisa; nessun segno di scasso. Fece un passo all’interno: l’ambiente era illuminato dalla luce che entrava dalla finestra di una camera e da una lampadina nuda appesa al soffitto.
Alex, anticipando l’ispettore, domandò a Stanzione:
– Hai acceso tu la luce?
– No, quando mai? Non ho toccato niente. Sono entrato, ho guardato e sono uscito. Mica sono uno di primo pelo, io.
Lojacono nascose un mezzo sorriso, cogliendo l’evidente, giustificata ostilità di Di Nardo, e a sua volta chiese:
– Le porte com’erano, quando sei arrivato? Aperte, socchiuse, chiuse…
– Aperte, ispetto’, tutte e due. E pure quella dell’altro appartamento.
Alex si era addentrata nella prima stanza, da cui proveniva la luce della lampada. Lojacono la raggiunse e la trovò in piedi accanto al letto, che riempiva quasi tutto l’ambiente.
Sul materasso c’era una giovane, supina, le gambe appena divaricate. Indossava un giubbotto aperto e una camicetta lacerata, che lasciava in parte scoperta la pelle. Non portava il reggiseno. Uno slip ridottissimo era arrotolato all’altezza del ginocchio sinistro. In terra, un paio di jeans.
Anche livido e scomposto, il corpo della ragazza era bellissimo.
Lojacono si chinò per osservare meglio: il viso aveva una tumefazione all’altezza di naso e bocca; sul collo c’erano alcune strisce rossastre. Quando si voltò verso la collega, si accorse che fissava qualcosa su una parete. In una fotografia di grande formato, la vittima sorrideva felice nel sole, in costume da bagno, con un meraviglioso mare azzurro alle spalle. Il contrasto era spaventoso e triste: una fotografia, un oggetto inanimato, pieno di vita; un corpo, di carne e sangue, privo di vita.
L’ispettore uscí dalla camera, lasciando Alex impietrita.
Sul minuscolo disimpegno si apriva un’altra porta che dava in un ambiente piú vasto, al centro del quale c’era un secondo corpo, riverso su un tavolo. Un uomo, seduto. Aveva il tronco in avanti, un braccio penzoloni, la testa e una mano, con la quale reggeva ancora una penna, appoggiate sul ripiano.
Lojacono si avvicinò, attento a dove poggiava i piedi. Il cadavere gli mostrava la nuca. Il colletto della camicia era diventato scuro, per il sangue di cui era intriso; il cranio presentava una profonda depressione alla base. Gli indumenti dovevano aver assorbito tutto il liquido, perché a terra non ce n’era traccia.
Il poliziotto girò attorno al tavolo e si trovò davanti la faccia della vittima. Era un ragazzo di poco piú di vent’anni, forse venticinque. La morte gli aveva fissato sul viso un’espressione strana, quasi un sorriso tirato, che lasciava intravedere i denti superiori; gli occhi erano semiaperti e rivolti nel vuoto. Non c’erano segni di lotta, dovevano averlo colto di sorpresa.
Nell’ingresso l’ispettore trovò Alex accovacciata che guardava qualcosa in terra, sotto una piccola console. La donna gli indicò il pavimento.
– Cos’è quello, secondo te?
Anche Lojacono si accovacciò.
– Sembrerebbe un telefono con le cuffiette. Non si vede bene.
Alex fece per allungare la mano, ma Lojacono la fermò:
– Lascia tutto com’è. Tanto la scientifica sta arrivando, lo tireranno fuori e lo esamineremo. Adesso andiamo a sentire chi li ha trovati.
V.
La professoressa Macchiaroli sembrava avere avuto una trasformazione stupefacente, forse in coincidenza, rifletteva Palma, con la crescente sicurezza di aver fatto la cosa giusta, rivolgendosi a loro. Il commissario l’aveva congedata assicurandole che i suoi sospetti sarebbero stati verificati, e si intende, con la massima discrezione. Lei per tutta risposta aveva replicato con la massima freddezza, sempre continuando a stringere i manici della borsetta, che non aveva mai abbandonato:
«Non si preoccupi, commissario. Io mi assumo le mie responsabilità, non ho certo paura che si sappia che ho raccolto il disagio di un’alunna. Siate discreti solo se è il caso, per ottenere informazioni: spesso, di fronte a estranei, i ragazzi si chiudono e non dicono piú niente. Ci è successo altre volte, si fa una fatica del diavolo a tirargli fuori le parole. E se avete bisogno di me, mi trovate a scuola».
In sala agenti i pareri erano discordi. Aragona aveva una teoria sua, che trovava risolutiva:
– Secondo me la ragazzina ha visto una fiction cretina in televisione, ha scritto qualche fesseria in un tema e quella è corsa subito alla polizia.
Romano annuí:
– Probabile. Qua non ci vuole piú niente a portare la fantasia nella realtà. Un padre non può fare una carezza a una figlia ché diventa un mostro.
Pisanelli prese a rimestare nel faldone che aveva davanti:
– Non saprei. La professoressa è una esperta, non una al primo incarico. Non mi è sembrata il tipo che si fa prendere dall’emozione o dall’eccesso di zelo. Sai quante gliene saranno passate davanti, di ragazzine. Se è venuta, un motivo ce lo doveva avere.
Aragona sghignazzò:
– Ma che bellezza, la solidarietà tra vecchi. Il decrepito, esperto poliziotto che crede alla decrepita, esperta professoressa di Lettere. Te lo dico io, preside’: come tu ti fai i film coi tuoi suicidi strani, cosí lei si fa i film con i padri violentatori. Forse, chi sa, si tratta di trasposizioni psicologiche: la signora vorrebbe tanto essere violentata da qualcuno e tu ti vorresti suicidare, e tutti e due immaginate che succeda agli altri.
L’accenno imprevisto a quella che tutti ritenevano un’innocua fissazione di Pisanelli fece calare il silenzio. L’anziano poliziotto era convinto che una serie di suicidi avvenuti negli ultimi anni all’interno del distretto fossero in realtà omicidi, e continuava ossessivamente a indagare sulla sua ipotesi raccogliendo dati, testimonianze e fotografie. Lo faceva fuori dell’orario di servizio e non dava fastidio a nessuno, perciò i colleghi lo tolleravano per tacito accordo e si limitavano a qualche battuta quando lui non era presente.
Ottavia ruppe l’imbarazzo:
– Aragona, sai essere davvero sgradevole certe volte. Viene voglia di mandarti a quel paese. Non puoi permetterti di sindacare quello che dice Giorgio. Sono certa che alla sua età non varrai un centesimo di quello che vale lui.
Anche Romano, che pure era d’accordo sul lasciar cadere la segnalazione della professoressa, reagí brusco:
– Sei un idiota, Arago’. Un vero cretino. Ti metti a fare le analisi psicologiche, tu che non capisci niente di niente.
Aragona allargò le braccia:
– Eh, e che avrò detto mai. Mica ho insultato nessuno, no? Preside’, ti sei dispiaciuto? Scherzavo.
Pisanelli tirò fuori una specie di sorriso:
– Lascia stare, Marco. E stai tranquillo, io non mi voglio suicidare. Prima o poi vedrai, anzi, vedrete tutti, che ho ragione. Lo so che pensate che sono fissato, che perdo tempo, ma al lavoro non tolgo niente, ci mancherebbe, e ho i miei motivi per andare a fondo in quei casi. Tornando alla professoressa, però, dicevo solo che certe faccende non vanno sottovalutate, tutto qui. A volte sembra niente, e invece…
Romano non lo fece proseguire:
– Sí, certo, gli altri indagano su un omicidio plurimo e a noi toccano le fantasie di una donna di mezza età? Ci mandi Lojacono, a scuola, il commissario.
– Ti ho già detto che qui non ci sono preferenze, Francesco, – ribatté Ottavia, sostenuta. – E pure io penso che se c’è anche il minimo dubbio di una molestia su una bambina si dovrebbe…
Palma comparve sulla soglia del suo ufficio:
– Se non ci sono cose piú urgenti, ragazzi, vorrei che controllaste questa storia della ragazzina. Mi pare il caso di dare almeno un’occhiata, no? Meglio essere sicuri. Romano e Aragona, andateci voi.
Aragona provò a resistere:
– Ma capo, quella è una vecchia pazza. Non possiamo aspettare almeno una denuncia, per muoverci? Ci saranno di sicuro cose piú importanti.
– Certo, Aragona. Come sottolineavo poc’anzi, ci sono i casi vecchi da chiudere. Quasi quasi te li assegno tutti, i verbali da trascrivere. Un compitino di concetto che potrebbe tenerti col culo sulla sedia piú o meno per sei mesi. Che ne pensi?
Aragona era già in piedi, col cappotto in mano. Romano si alzò per seguirlo, emettendo una specie di gorgoglio sordo.
Palma si fece serio:
– Ragazzi, niente mal di pancia. Un poliziotto è un poliziotto, e deve seguire tutto ciò che gli viene segnalato con la stessa attenzione. Non voglio che in questura arrivino lamentele sul nostro comportamento, chiaro? Se chiudono questo posto, non dev’essere per nostre mancanze. Siamo d’accordo, sí?
Aragona scattò sull’attenti, portando due dita alla fronte nell’imitazione di un marine:
– Sissignore, capo. Non si preoccupi. Faremo un’ottima figura, a scuola, e porteremo a casa un bel voto.
– Aragona, sei veramente un cretino.
VI.
Non appena entrato nell’appartamento dei dirimpettai delle vittime, a Lojacono fu subito chiaro perché l’agente Stanzione era stato cosí vago ed esitante nel definirli.
Non somigliava neanche un po’ a quello in cui era avvenuto il duplice omicidio. Subito oltre la porta si apriva un’ampia sala, illuminata da una portafinestra che affacciava su un balcone, e l’arredamento era piuttosto pacchiano, con tessuti rosa, merletti, pupazzi di peluche sparsi qua e là e lampade sinuose in precario equilibrio su esili supporti.
A un tavolo di acciaio e cristallo sedeva un giovane magro con gli occhiali, che continuava a sistemarsi sulla fronte un ciuffo liscio e ribelle. Le labbra gli tremavano; sulle guance, due chiazze rosse tradivano una forte emozione.
Accanto a lui, in piedi, un ragazzo dall’aspetto curioso, con una specie di tunica che gli arrivava alle caviglie decorata a sgargianti disegni geometrici. Aveva capelli lunghi raccolti in una coda, ed era scalzo. Gli occhi nocciola erano leggermente truccati.
In disparte, come imbarazzato, anche lui in piedi, c’era un terzo giovane di bassa statura, vestito di nero e con un paio di vistosi piercing su orecchie e naso.
Stanzione, che aveva accompagnato Di Nardo e Lojacono, disse:
– Ispettore, ecco il ragazzo che ha trovato i cadaveri e ha chiamato il 113.
Lojacono aspettò che l’agente indicasse uno dei presenti, ma non accadde nulla. Allora si rivolse ad Alex:
– Di Nardo, glielo spieghi tu a questo che deve essere piú preciso, o glielo faccio capire io con un disegnino che qua ce ne sono tre, di ragazzi?
Il giovane seduto sollevò una mano tremante, come uno studente che conosce la risposta a una domanda ma non ha il coraggio di dirla al professore.
– Io. Sono io che… che li ho… Ho chiamato io la polizia, cioè voi, insomma.
Era in evidente stato confusionale. La voce, già sottile, sconfinava in un falsetto che lui cercava di mascherare con qualche colpo di tosse. Lojacono lo scrutò per un tempo che gli parve ragionevole.
– Come si chiama, lei?
Intervenne quello con la tunica; aveva una voce profonda dal forte accento pugliese.
– Renato, non gli rispondere. Chiedi un avvocato, questi fanno brutti scherzi. Non hai visto? Non si è nemmeno presentato.
L’agente Stanzione ringhiò:
– Oh, coso brutto, non ti permettere, hai capito? Già è strano che non sei in galera, per come stai combinato. Rivolgiti con rispetto!
– Non mi fa paura, capisce? Non mi fa paura. È lei che è in casa nostra senza alcun titolo. Dovrebbe ringraziare che l’abbiamo lasciata entrare senza qualificarsi, invece continua a non mostrare alcun riguardo, nonostante il trauma che abbiamo subito.
Era troppo per Stanzione. Rosso in volto, avanzò di un passo urlando:
– Ricchione di merda, adesso ti spacco quella faccia sporca di trucco che hai…
Alex lo afferrò per il polso, con una forza insospettabile che sorprese l’agente:
– Sta’ zitto, idiota. Non ti rendi conto che questo ti denuncia e ha tutte le ragioni?
Lojacono alzò le braccia come a pacificare, e fece a sua volta un passo verso il giovane con la tunica, avendo cura di mettersi davanti a Stanzione:
– Le chiedo scusa, mi dispiace. Sono situazioni difficili per tutti, mi creda. Non ci si abitua mai. Io sono l’ispettore Lojacono Giuseppe, del commissariato di Pizzofalcone. Con me l’agente Di Nardo Alessandra. L’altro è inutile che glielo presenti perché se ne sta andando. Raggiungerà il suo collega al portone e aspetterà la polizia scientifica, vero?
L’agente comprese che era meglio ubbidire e, con uno sguardo truce, si allontanò. Almeno per il momento la sua uscita ebbe l’effetto di stemperare la tensione.
Quello con la tunica liberò con un soffio gli occhi da una ciocca di capelli e si presentò:
– Piacere. Sono Vinnie Amoruso e abito qui col mio amico, Paco Mandurino.
Indicò il nerovestito, che fece un cenno col capo.
Lojacono si rivolse a quello che aveva trovato i cadaveri:
– E lei, invece? Come si chiama, e come mai era andato nell’appartamento di fronte?
Il giovane aprí la bocca, la richiuse, trasse un respiro profondo, poi disse:
– Mi chiamo Renato Forgione. Sono un amico… un collega e un amico di Biagio. Ieri non è venuto in dipartimento, l’ho aspettato per tutto il pomeriggio. Il telefono non gli prendeva, o era spento, e stamattina… Dio mio, devo vomitare un’altra volta…
Come per ripararsi, pronunciando le ultime parole aveva alzato gli occhi su Vinnie, che gli accarezzava con tenerezza la spalla. Si passò una mano sulla faccia, guardò di nuovo Lojacono e continuò:
– Ci sentiamo sempre, lavoriamo insieme, seguiamo dei progetti all’università. Mi sono preoccupato, lui non sparisce… non spariva mai, era una cosa strana. E sono venuto qua. La porta era socchiusa, sono entrato e li ho… li ho… Scusatemi…
Si alzò e corse in bagno.
Lojacono domandò ad Amoruso:
– Lei conosceva le due vittime?
Il giovane si era sciolto i capelli e giocherellava col fermaglio:
– Non ci possiamo ancora credere, ispettore. Ma chi, chi può aver fatto una cosa del genere? Comunque si chiamavano Biagio e Grazia Varricchio, fratello e sorella. Erano calabresi, di un paese vicino a Crotone. Lui era piú grande di lei, un bravo ragazzo, collega di Renato, ricercatore, laureato in Biochimica, mi pare, o Scienze biologiche, roba cosí, io non ne capisco molto. Stava qui da tempo, da prima che arrivassimo noi, e noi siamo qui da quando? Due anni?
Quello vestito di nero, che non aveva ancora detto una parola, precisò:
– Due anni e dieci mesi, Vinnie.
Amoruso si portò una mano alla bocca con affettata sorpresa:
– Mamma mia, già tutto questo tempo? Noi due studiamo Giurisprudenza. Ce la stiamo prendendo un poco comoda, a essere sinceri, ma ne sappiamo abbastanza per far valere i nostri diritti.
Lojacono riprese:
– Ha detto che lui stava qui da tempo; e la sorella?
Vinnie scosse il capo, deciso:
– No, la sorella è arrivata solo da qualche mese.
Paco precisò di nuovo:
– Sette mesi fa.
Vinnie gli gettò uno sguardo duro e infastidito, molto rapido, poi riportò gli occhi sull’ispettore:
– Se Paco se lo ricorda cosí bene, allora saranno sette mesi.
Forgione nel frattempo era ritornato, pallido come uno straccio e altrettanto sgualcito. Alex ne approfittò per inserirsi, battendo Lojacono. Chiese d’un fiato:
– Ha detto che la porta era socchiusa. Si riferiva a quella che dà sul pianerottolo o a quella dell’appartamento?
– Quella della casa di Biagio. Il portoncino me l’ha aperto Vinnie.
Guardando quest’ultimo, Alex tenne il punto
– E voi non vi siete accorti che la porta era aperta? Non avete sentito rumori, urla, niente?
Vinnie rispose senza esitazioni:
– Sí, signorina, ma non ieri sera. Ieri pomeriggio. Sicuramente c’è stato un litigio. Una voce era di Biagio, l’altra di un uomo mai sentito prima, parlavano in dialetto. Poi qualcuno è uscito e Paco si è affacciato nell’atrio. La porta però era chiusa.
Lojacono guardò il ragazzo vestito di nero:
– Ne è sicuro?
Paco annuí:
– Sicurissimo.
– E non ha visto la persona che è andata via?
– No, non c’era piú.
Al racconto del litigio, Renato aveva spalancato le palpebre e le labbra avevano ripreso a tremare. Alex e Lojacono si scambiarono un’occhiata, poi la Di Nardo fissò il ragazzo:
– E lei non sa chi potesse essere l’altro uomo? Biagio non le aveva detto niente?
Renato non rispose.
Lojacono provò a riformulare la domanda di Alex:
– Signor Forgione, lei sapeva se Varricchio aspettava una visita?
Quello nemmeno sembrava ascoltarlo, teneva gli occhi su Vinnie. E allora proviamo ancora con Vinnie, si disse l’ispettore.
– Parlavano in dialetto? Li ha sentiti litigare in dialetto?
Vinnie fece sí con la testa:
– Non si capiva una parola. Mica che uno volesse ascoltare, ma urlavano talmente forte. Grazia però non c’era, credo, o se c’era non interveniva.
Forgione si voltò lentamente verso i due poliziotti.
– Sí, Biagio aspettava una visita. Me ne aveva parlato nei giorni scorsi. La temeva, per la verità.
Lojacono insistette:
– E si può sapere chi aspettava?
– Il padre. Aspettava la visita del padre, dal paese.
Si inserí Alex.
– Lei prima ha detto che la temeva. Perché?
Renato tacque per qualche secondo, faceva scorrere sconsolato una mano sul piano di cristallo. Quando alzò lo sguardo per rispondere, aveva un’espressione di profonda tristezza.
– Non lo vedeva da quasi diciassette anni. Era un pezzo della sua vita che aveva cercato di dimenticare. L’idea di un confronto con lui era la cosa che gli faceva piú paura al mondo.
Le sue parole caddero nel silenzio. Paco e Vinnie parevano cercare un modo per confortare l’amico. Fu Lojacono a interrompere la lunga pausa:
– Come mai non lo vedeva da tanto tempo? C’era di mezzo un litigio, una separazione, questioni di soldi?
– No. Il padre di Biagio è stato in prigione, sedici anni. È uscito da circa un anno.
– E lei sa per quale motivo è finito in carcere? – chiese Alex.
Renato si voltò verso di lei e con un sussurro disse:
– Omicidio.
VII.
La scuola media Sergio Corazzini si trovava in una zona di confine. A pensarci bene, rifletté Romano mentre vi si dirigeva con Aragona, tutto il quartiere era zona di confine: una linea continua ma frastagliata che separava, solo di pochi metri, realtà sociali opposte e in perenne ebollizione.
Gettò un’occhiata alle bancarelle del mercatino che invadevano i marciapiedi, costringendo i pedoni a camminare in strada con il rischio di essere travolti dagli scooter, che sfrecciavano senza tenere conto dei sensi di marcia. Il freddo intenso non aveva scoraggiato le normali attività; in fondo si deve mangiare anche col gelo, ma i venditori tenevano d’occhio la merce dall’interno degli androni dei palazzi, infagottati nei cappotti e con i berretti di lana calati sulle orecchie, pronti a cogliere la minima manifestazione d’interesse.
Il confine.
Gli scippatori che arrivano svelti, a piedi o in due su moto illegalmente potenziate, adocchiano i deboli, i distratti, gli incerti, arraffano quello che possono e spariscono nel dedalo di vicoli che conoscono benissimo e che in pochi secondi li protegge.
Il confine.
Le grandi banche con il viavai di uomini in giacca e cravatta e donne in tailleur, occupati in affari milionari e transazioni con l’estero, i volti seri e gli sguardi corrucciati. Gesticolano con l’auricolare all’orecchio oppure tengono il telefonino tra spalla e testa mentre cercano l’auto parcheggiata male: due ruote sul marciapiede nel posto riservato ai portatori di handicap, tanto è per un minuto solo.
Il confine.
I commercianti abusivi, decine, centinaia di commercianti abusivi. I neri, con le lenzuola stese a terra ricoperte di borse false, di animali intagliati nel legno. I gialli, coi banchetti di radio, caricabatterie e custodie per cellulari, barometri, cavalletti per fotocamere. Gli slavi, con oggetti vintage della loro terra o magari presi di notte nei cassonetti e riparati alla meglio. E gli italiani, con fiori, calzini, scope, scarpe, magliette con frasi in dialetto e bandiere e sciarpe azzurre, attenti a intercettare i passanti, anche abbrancandogli il braccio, lamentosi e invadenti, fastidiosi come zanzare, e dopo tutti in fila, pensò Romano, per riscuotere il sussidio, tutti a manifestare rabbiosi sotto le finestre dei palazzi della politica, la-vo-ro, la-vo-ro, la-vo-ro, come se non guadagnassero vendendo la loro merce, come se non guadagnassero facendo i falegnami e gli idraulici e gli antennisti senza una fattura, senza una ricevuta: dotto’, vi faccio risparmiare.
Il confine.
I cento, mille, diecimila avvocati con la cravatta slacciata o il tacco dodici, le borse in pelle rigonfie di documenti incomprensibili, di corsa su e giú per le scale dei tribunali nel tentativo di velocizzare una sentenza che non arriva e con la quale mangeranno. Tanti anni di studio, decine di stage, congressi, pubblicazioni assurde, master e contromaster per una causa con l’assicurazione e una parcella da fame: avvoca’, sono il cugino di quell’amico vostro, fatemi risparmiare.
Il confine.
I magistrati, diffidenti, impauriti dalle amicizie non controllate: non si può mai sapere. I notai, preoccupati dalla stasi del mercato immobiliare, dal livello di vita che non riescono piú a sostenere, dalla nebbia che si è alzata attorno agli atti che i grossi clienti propongono sempre piú spesso. Gli imprenditori, agghiacciati dallo spettro della chiusura dell’azienda, in giro come squali disperati alla ricerca dei soldi per coprire l’assegno che domani arriva in banca all’incasso. Gli strozzini, che non sono piú sicuri come prima perché sono sempre di piú quelli che non pagheranno, e hai voglia di dare schiaffoni e spezzare gambe, tanto non pagano lo stesso, i vigliacchi, e non scappano nemmeno piú: sono disperato, fammi quello che vuoi, non mi importa. Gli affaristi, che portano soldi che non esistono da un paese all’altro, da un fondo all’altro, da un nulla a un altro.
Il confine.
Tutti insieme spassionatamente, ognuno portatore di un’invisibile croce, ognuno schiacciato da un destino senza nome, ognuno con il suo confine privato: due milioni di isole in un unico arcipelago senza ponti né traghetti. Tutti insieme per strada, con il freddo cane che fa, a saltellare, a battere le mani, a ripararsi le orecchie, sognando di essere rimasti a casa a dormire, al calduccio delle coperte e con il conforto del sonno che allontana le disperazioni della veglia, invece di essere lí, ad affrontare quella maledetta giungla.
Sognando di tornare a letto per non attraversarlo, almeno oggi, il confine.
Aragona, che non aveva smesso di cicalecciare su quanto il freddo dalle sue parti fosse meno umido, quindi piú sopportabile, e al quale Romano aveva replicato solo con qualche fonema, indicò l’insegna dell’istituto.
La professoressa Macchiaroli, rintracciata dal bidello, li raggiunse nell’androne, nei pressi di una stufetta elettrica che a stento riscaldava sé stessa. Dal cortile giungevano urla e risate di ragazzini impegnati in una partita di pallavolo durante l’ora di Educazione fisica.
– Buongiorno. Bene arrivati. Confesso che sono colpita da tanta solerzia. Ero sicura che le mie parole sarebbero cadute nel vuoto. Allora non è vero che la polizia non ha sensibilità sociale, che se non c’è un cadavere non si prende nemmeno la briga di rispondere al telefono. Tornando dal commissariato, ero convinta che mi aveste preso per una vecchia pazza che si è fissata su qualcosa di inesistente su cui non vale la pena sprecare energie.
Aragona, rimasto dell’idea che la Macchiaroli fosse una vecchia pazza che si era fissata su qualcosa di inesistente su cui non valeva la pena sprecare energie, dondolò da un piede all’altro, a disagio. Che quella strega leggesse nella mente?
– E ho pensato pure che qualcuno avrebbe detto: gli altri indagano, chessò, su un duplice omicidio e a noi toccano le fantasie di una donna di mezza età.
A Romano corse un brivido lungo la schiena. Decise che era meglio tagliare corto: alla peggio, avevano preso un po’ di freddo.
– Ci vuole raccontare come si è fatta quest’idea, professoressa? Ha parlato con la ragazzina?
Sul viso della donna si disegnò una smorfia:
– Mica è cosí semplice, sa? Spesso, mio caro agente, i ragazzi prima dicono una cosa e poi il suo contrario. Siamo abituati, noi insegnanti, a prendere con le molle le loro confidenze, in particolare su certi argomenti. Diverso è quando le informazioni arrivano in maniera involontaria; allora si è abbastanza sicuri che non è una vendetta contro i genitori o i compagni, che non c’è la volontà di fare del male. Perché può succedere anche questo.
Aragona si guardava attorno senza tentare in alcun modo di nascondere la noia. Infine esplose.
– E nel caso che ci è venuta a raccontare ci sono delle prove? Le vogliamo vedere?
L’insegnante lo affettò con lo sguardo.
– Come credevo di avere già spiegato in commissariato qualche ora fa, agente, se avessi delle prove avrei fatto una denuncia, non una segnalazione. Ma è colpa mia, alla mia età dovrei sapere che ci sono soggetti duri di comprendonio. Prego, favorite con me in sala professori.
Mentre seguivano la Macchiaroli su per le scale, Romano rivolse al collega un’occhiata colma di irritazione e gli sussurrò:
– Meno polemiche ci sono, prima torniamo in commissariato. È proprio necessario fare l’idiota? Non ci riesci a startene zitto, è cosí?
Aragona non fu remissivo.
– Stiamo perdendo tempo, lo so io e lo sai pure tu. Questo zelo è inutile: ’sta qua è una scema, una mitomane, ed è pure un cesso. Finiamo in fretta e andiamocene.
Come se avesse sentito, la Macchiaroli si fermò davanti a una porta chiusa e sibilò:
– Naturalmente, se ritenete inutile approfondire, possiamo anche salutarci subito. Ma allora non capirei piú perché siete venuti.
Romano annuí.
– Infatti. Ci dica pure.
La professoressa aprí la porta, facendo cenno ai poliziotti di seguirla. Seduti a un lungo tavolo da riunione c’erano altri insegnanti; un paio leggevano il giornale, alcuni correggevano compiti o prendevano appunti. Al loro ingresso tutti alzarono lo sguardo incuriositi, ma la Macchiaroli non li presentò. Prese da un armadietto alcuni fogli protocollo piegati a metà per il lungo, indirizzò un nuovo cenno ai due e uscí dalla stanza. Romano e Aragona la seguirono dopo un saluto imbarazzato ai presenti, che non risposero.
Non appena fuori, la Macchiaroli spiegò:
– Non sono cose di cui parlo con i colleghi, queste. Magari non è niente, ma se ciò che sospetto dovesse rivelarsi vero, siamo davanti a una situazione gravissima. Adesso vi accompagno dalla dirigente scolastica, che ho informato prima di passare da voi stamattina.
Lungo il corridoio, popolato di ragazzi che cambiavano aula, andavano al bagno o al distributore di bevande, Romano pensò che piú il timore di un reato è condiviso, meno è probabile che si tratti di una fantasia. Se la Macchiaroli ne aveva parlato con il suo superiore e insieme avevano deciso di rivolgersi alla polizia, era il caso di non sottovalutare la questione.
La preside si alzò dalla scrivania per andare loro incontro, e l’attenzione di Aragona crebbe all’istante. Era una donna giovane e molto piacente, con lunghi capelli castani e occhi grandi e vivaci. La figura snella era fasciata da un vestito di lana morbida, che metteva in risalto il seno e lasciava scoperte fin sopra il ginocchio le lunghe gambe armoniose.
Sulla faccia di Aragona si era stampato un sorriso che Romano valutò moltiplicare di parecchio la consueta espressione ebete.
La donna si presentò.
– Sono Tiziana Trani. Grazie di essere venuti, ammetto che non ci contavamo.
Aragona le trattenne la mano e la fissò con uno sguardo che voleva essere ammaliatore, purtroppo schermato dalle lenti azzurrate.
– S’immagini, dottoressa. Non siamo il genere di poliziotti che sottovalutano le segnalazioni dei cittadini. Abbiamo subito compreso che era necessario venire qui per vederci piú chiaro. Sono l’agente scelto Marco Aragona, incantato di fare la vostra conoscenza.
Romano non credeva alle proprie orecchie: quel cialtrone non aveva ritegno.
– Io sono Romano. Non vogliamo sottrarre troppo tempo al vostro lavoro, signora, quindi, se voleste illustrarci la situazione, ve ne saremmo grati.
– Certo. Accomodatevi, prego. La professoressa vi racconterà tutto.
La Macchiaroli dispose sulla scrivania, l’uno accanto all’altro, i fogli protocollo presi dall’armadietto, spianandoli con la mano: temi in classe, in tutta evidenza; alcuni passaggi erano sottolineati con la matita rossa. Poi la donna inforcò un paio di occhiali che teneva appesi al collo tramite una catenella.
– Questi sono tre compiti in classe che l’alunna Parise Martina ha svolto nell’anno in corso. Gli argomenti proposti sono diversi, ovviamente: il primo riguardava l’alternarsi delle stagioni in città, il secondo immigrazione e integrazione, il terzo, di qualche giorno fa, il mondo degli affetti personali. Quest’ultimo è stato scelto proprio per verificare certi dubbi sorti dopo la lettura dei precedenti lavori: d’intesa con la dirigente, ovvio.
La preside confermò.
– Sí, la professoressa era venuta da me già dopo il primo tema, ma abbiamo preferito essere piú sicure prima di muoverci. Leggete pure.
Romano prese dalle mani della Macchiaroli il primo foglio, notò la grafia rotonda e precisa e lesse la parte evidenziata dal segno rosso.
… quindi le stagioni in città non sono molto diverse, se non per il freddo e per il caldo. In particolare in casa. Io vorrei sempre uscire, anche se il clima è cattivo, perché certe situazioni sono pesanti, soprattutto se ogni volta che vado a letto trovo chi mi deve per forza accarezzare e baciare, e non mi fa dormire.
Romano passò il foglio ad Aragona, in silenzio. Provava un accenno di imbarazzo, come se fosse entrato per sbaglio nel bagno delle donne.
– Be’, non è che dica molto. Cioè, non nomina nessuno e parla di baci e carezze… «Ogni volta che vado a letto…» Potrebbe essere l’augurio della buonanotte… Non fa riferimento a violenze o cose del genere. Sembra piuttosto che tutto questo affetto la annoi.
La Macchiaroli consegnò a Romano il secondo foglio.
… e non capisco perciò di che cosa si lamentano i ragazzi che finiscono negli istituti. Non sanno capire quanto vale la solitudine, stare lontano dai genitori. Io starei benissimo se non ci fosse mio padre, con le sue fissazioni, tipo mettersi steso vicino a me con quel respiro pesante. Magari potessi stare in una di quelle stanze lunghe, dove le ragazze dormono insieme e i padri non ci sono e al massimo li vedono una volta al mese.
Stavolta Romano non commentò. Diede il foglio ad Aragona, che lesse ed emise un lieve sbuffo di sorpresa.
La Trani ruppe il silenzio:
– Dopo questo, la professoressa Macchiaroli e io abbiamo discusso di nuovo la questione. Ci pareva ancora poco per chiamare la madre: sapete, a volte si rovina l’armonia di una famiglia per una sensazione, e noi non volevamo correre questo rischio, non è vero, Emilia?
– Certo. Come educatori non dobbiamo dimenticarci mai di avere una responsabilità immensa. Ci siamo chieste cosa fosse meglio fare e, come già spiegato, abbiamo pensato di assegnare un tema piú specifico: magari la scarsa dimestichezza con la scrittura poteva aver indotto la Parise a mettere sulla carta particolari che potevano essere fraintesi. Speravamo che emergesse un quadro domestico tranquillo e l’avremmo chiusa lí.
– E cosa è successo? – domandò Aragona.
Invece di rispondere, la professoressa spinse sul tavolo, verso Romano, l’ultimo compito. Lo fece con un solo dito, come se le desse fastidio toccarlo.
Non capisco perché. Lo vede che mi fa schifo, che mi sposto ogni volta che si avvicina, ma lo fa lo stesso. Non riesce a resistere. Io chiudo gli occhi e cerco di pensare ad altro. Sogno di uscire dalla finestra e di mettermi a volare, su, su, fino alle nuvole, e poi in cielo. Vorrei morire, cosí non mi sentirei piú quelle mani addosso, dappertutto. Vorrei morire.
Romano si accorse che stava tremando. Sentí il sangue rombargli nelle orecchie, mentre in lui montava quella sgradevole, familiare sensazione che preludeva agli scoppi di rabbia incontrollata con cui si era rovinato carriera e vita privata. Era come se un nuovo autista si piazzasse al volante della sua mente. Non perdeva lucidità, cambiava il punto di vista: all’improvviso gli pareva naturale mettere da parte ogni comportamento razionale per seguire l’istinto distruttivo.
Cercando di controllarsi, porse il foglio ad Aragona, che lesse veloce e mormorò:
– Maledetto porco.
La Trani aveva gli occhi puntati su Romano, come se avesse intuito il conflitto che si stava svolgendo dentro di lui. Riprese a parlare con quel suo tono calmo:
– Abbiamo convocato la ragazzina qui, nel mio ufficio. Oltre alla questione delle possibili molestie, ci preoccupava la volontà suicida manifestata nell’ultimo scritto.
Romano respirava a fatica:
– Lei che cosa vi ha detto?
Rispose la Macchiaroli:
– Oh, è una tosta. Silenziosa, ma forte. È una delle leader in una classe di alunne particolari, tutte figlie di professionisti e imprenditori, gente ricchissima. Appartiene a una famiglia media, eppure la seguono lo stesso…
Tacque e guardò la preside, come se si fosse accorta che spettava a lei riferire sull’episodio. Quella non si fece pregare.
– Le abbiamo chiesto qualche spiegazione. Lei ha risposto che parlava in generale, che era stato solo uno sfogo, che aveva inventato… Però era incerta, si capiva che si era pentita, che aveva paura. Allora le abbiamo proposto di discuterne con la madre, ma lei ha detto di no, anzi, ci ha pregate di non farlo.
Aragona scattò.
– Come, inventato? Qua c’è scritto chiaro e tondo che le mettono le mani addosso. Mica si inventano, ’ste cose, a dodici anni!
La Trani annuí.
– Abbiamo usato con lei gli stessi argomenti, ma, come ha spiegato la professoressa, è una tosta. Ha sostenuto di avere scritto il compito immaginando un personaggio, un’altra sé stessa che subiva quel tipo di violenze. Ci ha detto: datemi un voto basso, se volete, ma non dite niente a nessuno. Noi abbiamo provato comunque a parlare con la madre, usando ogni cautela, ma la signora ha troncato subito, non ha voluto ascoltare.
Romano domandò:
– E a quel punto?
Emilia Macchiaroli si tolse gli occhiali.
– A quel punto, sono venuta da voi.
VIII.
Lojacono fece un cenno ad Alex e lei si allontanò per telefonare in commissariato: i dati che avevano erano sufficienti ad attivare le ricerche di Ottavia Calabrese, in perenne connessione con i computer centrali e con le altre unità, oltre che naturalmente con internet. Era sorprendente la velocità con la quale si ottenevano informazioni necessarie o anche solo interessanti per portare avanti un interrogatorio, potendo contare su questo aiuto immediato.
Nell’attesa, l’ispettore ne approfittò per sapere qualcosa di piú sulle vittime, sui loro vicini e sul ragazzo che aveva scoperto il delitto.
Cominciò da Vinnie.
– In che rapporti eravate con Biagio e Grazia? Passavate del tempo insieme, vi frequentavate, avevate conoscenze in comune?
L’altro si strinse nelle spalle.
– No, direi di no. Biagio era un tipo riservato, chiuso. Non usciva, se ne stava all’università o a studiare e scrivere, almeno noi non gli abbiamo mai visto fare altro. Grazia, invece, era spesso fuori. Non saprei proprio a far che. Buongiorno e buonasera insomma, niente di piú. E di amicizie in comune avevamo solo Renato.
Lojacono si voltò verso Forgione, che andava lentamente riprendendo colore, anche se ogni tanto lanciava sguardi verso la porta come se si aspettasse di veder entrare da un momento all’altro il suo collega con la testa rotta. Il giovane non aspettò la domanda.
– Ci conosciamo perché questo appartamento, tutte e due le unità intendo, è mio. Cioè, della mia famiglia. Di mio padre, per la precisione. E mi sono occupato io di trovare gli inquilini tra gli studenti fuori sede.
Vinnie fece una risatina ironica.
– Inquilini, insomma. Io e Paco paghiamo il fitto, ma Biagio e Grazia non credo proprio. Non è vero?
Renato arrossí.
– Biagio e io abbiamo studiato insieme fin dall’inizio del corso di laurea. Lui al principio stava in un pensionato con un sacco di altra gente, ci vedevamo a casa mia, poi si è liberato qui e gli ho offerto questa sistemazione, anche perché aveva la sorella che voleva venire a trovarlo e…
Paco commentò:
– E caro gli è costato, ospitarla.
La frase stupí tutti. Fin lí, poi, il giovanotto vestito di nero non si era dimostrato molto loquace, e provocò un’esclamazione stridula di Vinnie.
– Paco! Ma che dici, sei impazzito?
Lojacono non voleva mettere paura al ragazzo, però non intendeva nemmeno lasciar cadere la cosa.
– Come ti sei fatto quest’idea? – gli chiese, in tono colloquiale.
Quello si girò in direzione dell’amico con la tunica; probabile che si fosse già pentito dell’uscita, ma non poteva tornare indietro. Rispose a bassa voce.
– Non l’avete vista come sta là dentro? Certo non ce l’avevano col povero Biagio. Era per lei che litigavano, ieri. E quel tipo, il fidanzato… una volta, qui sotto al portone, li abbiamo sorpresi che si prendevano a schiaffi. Non dite che non l’avete pensato anche voi: Biagio sarebbe ancora vivo, se la sorella se ne fosse rimasta a casa sua nel suo paese di merda.
Renato e Vinnie non reagirono, si limitarono ad abbassare lo sguardo. Lojacono lasciò passare qualche secondo, prima di domandare un po’ a tutti:
– Chi è il fidanzato della ragazza? Qualcuno sa il nome?
Renato alzò piano gli occhi.
– Biagio ne parlava pochissimo. Non parlava molto della sua famiglia in generale. Mi pare si chiami Nick, so che vuole diventare un cantante. Per mantenersi lavora come cameriere in un pub, non so quale, e ogni tanto fa qualche serata.
Vinnie integrò le informazioni, lanciando di tanto in tanto occhiate torve al compagno, che adesso guardava fuori dalla finestra.
– Lo abbiamo intravisto un paio di volte, compresa quella che Paco ricorda tanto bene. Un tipo particolare, con una gran massa di capelli rasta. Carino, però. Un bel tipo.
Aveva pronunciato l’ultima frase fissando Paco, come sputandogli addosso. L’altro non sembrò accorgersene.
Alex, stringendo il telefono, era uscita dal palazzo per cercare un po’ di campo. Appena era comparsa in strada, i due agenti in divisa avevano smesso di confabulare e le avevano dedicato uno sguardo ostile, che lei aveva sostenuto con calma. Si era abituata, nel tempo, a certi idioti, schiavi di pregiudizi e di ignoranza, ma non per questo le risultavano meno fastidiosi.
Che Vinnie e Paco fossero omosessuali le era stato chiaro prima ancora di notare il modo in cui erano vestiti e si muovevano, prima di sentire le loro parole. Lo aveva avvertito dall’elettricità che c’era tra loro, dall’intesa che avevano, dal modo di occupare gli spazi. E se n’era accorta dalla punta di orgoglio, comprensione e gelosia che lei stessa aveva provato. Una sensazione per lei sempre piú frequente. La frustrazione per non riuscire a essere sé stessa, per non essere capace di guardare la vita in faccia e dire con franchezza a tutti chi era e che cosa provava.
Perché anche Alex Di Nardo, agente assistente di polizia, era omosessuale. Lesbica, pensò mentre componeva il numero del commissariato attendendo la connessione. Si dice lesbica.
Lo aveva scoperto da adolescente, in collegio. Non era stata una fase, e nemmeno una circostanza. Non era stata una delusione d’amore, un ragazzo che l’aveva lasciata, né una violenza subita. Rideva tra sé con amarezza quando sentiva i bigotti alla televisione che trattavano l’omosessualità come una malattia. La malattia, la sua malattia, era non avere il coraggio di dirlo.
E d’altra parte, come quel fesso di Stanzione aveva dimostrato, si era ben lontani dal poter contare sull’universale comprensione. C’era sempre qualcuno che ridacchiava, che si dava di gomito, che esibiva disgusto. E perfino chi, senza mezzi termini, definiva una lesbica una pervertita, una donna sbagliata, una contronatura. Una che per un vizio, per il gusto del peccato, inondava di maleodorante vergogna un cognome onorato.
Cosí si sarebbe espresso suo padre, se avesse saputo. E si sarebbe chiuso in uno di quegli eterni, orribili silenzi che talvolta duravano giorni e mesi. Anzi, in quel caso era probabile che sarebbe durato per sempre, il silenzio. Forse ne sarebbe addirittura morto, il Generale. L’uomo senza pieghe né piaghe. Il soldato senza dubbi o incertezze, quello che aveva partecipato alle missioni all’estero ed era tornato carico di decorazioni, l’infallibile tiratore per avvicinare il quale lei stessa, da ragazzina, si era appassionata alle armi. Il suo adorato, ammirato, idolatrato, odiato padre.
Era la faccia di lui che si vedeva di fronte quando cedeva alla voglia e si procurava un po’ di sesso clandestino, magari con giovani signore in cerca di trasgressione nei locali fuori zona. Era la faccia di lui che immaginava quando le veniva il desiderio di urlare al mondo che le piacevano le donne. Era la faccia di lui che si figurava davanti quando si rendeva conto che non aveva nemmeno la forza di andare a vivere per conto suo, abbandonando l’atmosfera pesante di una casa buia e ordinata come una cappella funebre. Il tempio di un dio onnipotente e pensionato, dove a officiare il rito era una moglie, sacerdotessa muta, priva di qualsiasi volontà individuale.
Un’unica figlia, papà. Femmina e pure lesbica.
Forse sua madre taceva per il senso di colpa: la colpa di non avere generato un maschio a immagine e somiglianza del Generale. Se sapessi la verità, mamma, magari proveresti un sadico conforto, almeno tu: in fondo, non hai sbagliato del tutto.
Infine Ottavia rispose al telefono. Alex la ragguagliò sulle vittime, sul loro padre, sui vicini di casa e sul ragazzo che aveva scoperto i cadaveri. La collega non la interruppe con domande inutili, prese nota rapidamente. Era in gamba, Ottavia. Non era il suo tipo: troppo etero, troppo materna, romantica e sensibile. Ma avrebbero potuto essere amiche.
I colleghi di quel collettore fognario in cui l’avevano gettata in seguito a un colpo di pistola esploso nel precedente commissariato si stavano rivelando migliori del previsto. I Bastardi di Pizzofalcone sui quali ironizzavano tutti i poliziotti della città, gli scarti delle altre strutture, alla fine erano ancora capaci di fare il proprio mestiere. Lei compresa.
Certo, avevano i loro difetti: ma chi non ne ha? Romano, con i suoi accessi d’ira. Lojacono, che al suo paese, in Sicilia, era stato accusato di passare informazioni ai mafiosi. Aragona, fastidioso come una zanzara e abilissimo a perdere ogni occasione per rimanere zitto. Pisanelli, fissato con i suicidi, e la stessa Ottavia, con quel figlio di cui si sapeva cosí poco e che ogni tanto la costringeva a correre a casa. Piccole, grandi croci da portare addosso, penitenze che non si finisce mai di scontare. Ognuno la propria, e forse anche un po’ di quella degli altri.
Ottavia le assicurò che l’avrebbe richiamata, a meno che non fossero tornati prima in commissariato. Alex immaginò che la collega si sarebbe subito lanciata sulle piste informatiche dei nomi che lei le aveva appena fornito, mentre Pisanelli si sarebbe attaccato al telefono, chiedendo e ottenendo dati dalla miriade di amicizie e conoscenze che aveva nel quartiere. Si muovevano di rado dall’ufficio, quei due, ma valevano quanto un’intera centrale operativa.
Chiuse la comunicazione e si accorse che le dita erano intirizzite, avevano quasi perso la sensibilità. Il telefono le scivolò di mano e cadde. Si abbassò per raccoglierlo, ma qualcuno fu piú veloce di lei.
Alzò lo sguardo e si trovò a pochi centimetri da un paio d’occhi caldi e luminosi, che avevano il colore del legno di ciliegio.
– Ciao, Di Nardo.
Era la voce bassa, intensa, di Rosaria Martone, il capo della polizia scientifica.
La donna di cui Alex si era innamorata.
IX.
Romano ruppe il silenzio, a denti stretti:
– Avete fatto bene, ad avvertirci.
Provava un forte senso di colpa adesso che aveva letto i brani segnati in rosso sui temi di Martina Parise. Non aveva creduto a quella storia quando l’aveva ascoltata in commissariato, non ci aveva creduto quando Palma gli aveva ordinato di fare una verifica, non ci aveva creduto quando la Macchiaroli aveva accompagnato lui e Aragona dalla dirigente attraverso i corridoi dell’edificio, come due alunni indisciplinati.
Ora invece pensava che la cautela delle due donne era stata perfino eccessiva, che avrebbero dovuto intervenire prima. Sentiva anche una gran pena per la ragazzina, che immaginava restia ad accusare il padre, magari terrorizzata da una sua reazione. E per estensione sentiva dentro di sé una forte, oscura rabbia nei riguardi di chi aveva osato allungare le mani sulla propria creatura.
Anche Aragona fremeva. Aveva già dimenticato di avere ritenuto quella faccenda una perdita di tempo. Per non parlare del disaccordo con Palma. Ormai il suo scopo era dare di sé l’immagine di un tutore della legge instancabile e attento, e fare colpo, se possibile, sulla preside dalle belle gambe, celate, ahimè, dalla scrivania.
Puntando in direzione della Trani, si tolse gli occhiali azzurrati con il suo famoso, studiato gesto mutuato da un poliziotto della televisione.
– Non sarebbe opportuno, a questo punto, insistere con la madre? Va bene, bisogna stare attenti a non rovinare l’armonia e tutto il resto appresso, ma quello che c’è scritto là sopra mi pare piuttosto univoco.
La donna non era d’accordo.
– Sí, lo sappiamo. Ma se la ragazza non conferma le cose che ha scritto, se continua a sostenere di averle inventate, come facciamo? Noi siamo educatrici, dobbiamo occuparci dell’istruzione degli alunni, non controllare quello che succede nelle loro famiglie. Ci siamo trovate davanti a un caso di coscienza e abbiamo pensato di rivolgerci a degli esperti.
Aragona, alla parola «esperto», si drizzò sulla sedia e abbassò di un’ottava il tono della voce.
– E avete fatto benissimo, cara signora. Credo sia opportuno sentire di nuovo la ragazza.
La Trani si illuminò, grata.
– Speravamo lo diceste. Però non rivelerei a Martina chi siete davvero, si chiuderebbe a riccio e non riusciremmo piú a cavarle una parola. Potremmo presentarvi come due ispettori scolastici: siete venuti a conoscenza di questi compiti e avete chiesto di incontrarla.
Romano era perplesso, e avrebbe volentieri strozzato Aragona.
– Non so se è una buona idea. Vede, signora, ci sono specialisti in grado di capire molto da una conversazione con un adolescente. Credo sarebbe meglio informare la procura dei minori e ottenere l’assegnazione del caso alla psicologa di un consultorio. Noi non siamo in possesso dell’adeguata professionalità per…
La dirigente scolastica scambiò un’occhiata preoccupata con la collega e lo interruppe.
– No, no, non sia mai! Abbiamo già avuto esperienze del genere, per altre… patologie, diciamo, e i risultati non sono stati per nulla confortanti. I ragazzi non hanno fornito alcuna risposta e i vostri specialisti non sono arrivati a nessuna conclusione. Cosí hanno lasciato tutto com’era, e alla fine gli alunni stavano anche peggio di prima. Se non avete intenzione di procedere, per cosí dire, a fari spenti, vi ringraziamo ma preferiamo considerare buona l’ultima risposta della Parise, cioè che si è inventata tutto.
Aragona diede un colpo di tosse e guardò di sottecchi Romano.
– In fondo potremmo provare. Incontriamo la ragazzina e cerchiamo di capire se è il caso o no che procediamo con la madre. Non fare nulla dopo avere letto quelle frasi a me non va proprio.
Romano si sentí accerchiato. Ebbe una breve esitazione, poi disse:
– E va bene, incontriamola. Ma io continuo a pensare che sarebbe meglio rivolgersi a un professionista del campo.
La Trani si alzò in piedi, sollevata.
– Ci vorranno pochi minuti: si tratta solo di trovare la chiave per far venire fuori la verità. E poi, magari, si è inventata tutto davvero. Emilia, per cortesia, vai a chiamarla.
Quando l’insegnante fu uscita, la stanza cadde nel silenzio. Romano era a disagio: la situazione aveva preso una piega anomala. Non era mai stato uno che si attiene rigorosamente alle procedure, ma stavolta riteneva che sarebbe stato giusto seguirle. Tuttavia, non poteva permettere che quella bambina subisse certe cose, se le subiva. Aragona, dal canto suo, aveva già deciso che le molestie erano una realtà, e la sua romantica idea del poliziotto eroico prevedeva che la risolvessero loro, la questione, senza rivolgersi a qualche burocrate inutile che si sarebbe fatto sfuggire il colpevole per un cavillo.
Dopo neanche cinque minuti, si udí un lieve bussare. La Macchiaroli entrò. Dietro di lei, Martina Parise.
Era magra e graziosa, di statura media per la sua età, vestita in maniera piuttosto elegante con un maglione e un paio di jeans di cui l’occhio esperto di Aragona riconobbe la marca costosa. Aveva lineamenti regolari e capelli castani lisci che le arrivavano alle spalle. Non parve sorpresa di vedere i due uomini seduti nell’ufficio della preside. I suoi grandi occhi nocciola si aggrondarono per un istante. Si morse il labbro inferiore, ma il volto tornò subito inespressivo.
La preside fu la prima a parlare:
– Ciao, Martina. Ti abbiamo chiamata perché i signori, qui, hanno letto i tuoi compiti e volevano farti qualche domanda. Sai, lavorano in una… struttura di controllo, e gli capita di leggere le cose degli allievi migliori.
Romano colse l’assist.
– Infatti, Martina. Complimenti, sei proprio brava, i tuoi temi sono molto belli. Ascolta, la parte che riguarda la tua famiglia, le situazioni in cui…
La ragazzina lo interruppe con determinazione.
– Io lo invento il personaggio che sta parlando. L’ho anche spiegato alla professoressa e alla preside. Non è la mia famiglia, quella.
Il tono era stato conclusivo. Romano, che non aveva alcuna dimestichezza con gli adolescenti, annaspò alla ricerca di qualcosa da dire. Inaspettatamente, Aragona gli venne in soccorso.
– Ecco, di questo ti volevamo parlare, perché il tuo personaggio, la ragazza che racconta, è interessante, ci piace. Credi che potremmo proporlo per una serie televisiva? Che ne pensi?
Tutti guardarono il giovane poliziotto, sorpresi. Romano trattenne un sobbalzo. Martina si morse di nuovo il labbro, incuriosita.
– Una serie? Davvero?
Il poliziotto annuí, togliendosi gli occhiali azzurrati con il solito ampio gesto. Nemmeno davanti a una dodicenne riusciva a trattenersi.
– Certo. È avvincente, profondo, e dice parecchio dei disagi della gioventú di oggi. Per esempio, ed è questo che il mio collega voleva sapere, in famiglia cosa le succede? Ci vuoi raccontare?
Martina lanciò uno sguardo di sfuggita alla professoressa Macchiaroli, che annuí per incoraggiarla.
– È… è una ragazza della mia età, che va in una scuola come questa. Starebbe bene, sarebbe felice, se solo non… insomma…
Aragona, ormai compreso nella parte, da perfetto seguace del metodo Stanislavskij, la incalzò.
– Sii precisa: se solo? Perché capisci che, dal punto di vista della televisione, quello che conta è il dramma, sono le difficoltà da superare. Che cosa le manca, per essere felice?
– Le manca… il padre. Anzi, non le manca, ce l’ha il padre. Purtroppo. Perché il padre le dà fastidio. Il padre è un uomo orribile.
Romano cercò di approfondire il concetto:
– Cioè non ti… non le vuole bene?
Martina si girò verso di lui. Le sue pupille sembravano dilatate.
– No, gliene vuole. Gliene vuole anche troppo, per la verità.
– Che significa, troppo?
Gli occhi di Martina erano pieni di lacrime. Il tono della sua voce si abbassò, tanto che Romano dovette fare uno sforzo per sentire quello che diceva:
– Si mette vicino a lei, di notte. L’accarezza, ma non come un padre dovrebbe fare con una figlia. La tocca. E a volte vuole che lei lo tocchi.
A Romano parve anche piú piccola della sua età. Dopo un lungo minuto di silenzio, Aragona disse:
– E lei vorrebbe che qualcuno l’aiutasse? Che arrivasse, per esempio, un eroe a liberarla da questo… da questa situazione?
Martina mormorò:
– Sí. Lo vorrebbe tanto.
Romano annuí. Poi scambiò un cenno d’intesa con la dirigente, che sorrise alla ragazza:
– Va bene, Martina. Grazie. Adesso puoi tornare in classe, la professoressa Macchiaroli ti accompagnerà.
Rimasti da soli, Aragona disse:
– Mi pare tutto molto chiaro. Come procediamo?
Romano guardava nel vuoto. Dopo un attimo di riflessione, guardò la Trani e disse:
– Parliamo con la madre.
X.
Nell’appartamento delle vittime, Alex osservava affascinata gli uomini della scientifica muoversi attorno ai loro cadaveri come su un palcoscenico. Pareva un balletto, un balletto intorno alla morte. Una coreografia in cui i danzatori seguono una traiettoria prestabilita senza mai sfiorarsi.
Oltre alla stessa dirigente, erano in sei: tre della struttura diretta dalla Martone e tre dell’unità di analisi crimine violento, preposta all’ispezione dei cadaveri e ai prelievi di tracce da analizzare in laboratorio. Tutti vestiti di bianco, silenziosi, concentrati, abilissimi nello spostarsi senza toccare nulla.
A fianco di Alex si materializzò Lojacono. Anche lui teneva gli occhi sugli operatori della scientifica, seguendone la danza muta.
– Ho detto ai tre ragazzi di là di rimanere a casa. Quello con la tunica ha protestato, dice che ha una lezione all’università. È un tipo deciso.
– Molto deciso, e anche piuttosto geloso, non so se te ne sei accorto.
– Sí. Della ragazza, piú che del ragazzo. Strane dinamiche.
– Che vuol dire? Se uno è geloso, è geloso. Maschio, femmina, che differenza fa?
– Certo, certo. Figurati. Intendevo solo che la coppia non è in perfetta armonia, tutto qui. Parevano due gatti che arruffano il pelo. Non che questo significhi qualcosa, chiaro.
Alex passò oltre.
– Stavo pensando alle porte. Quella principale, dalla quale si accede all’atrio comune, era chiusa; Forgione ha detto che ha dovuto suonare per farsi aprire. Mentre quella delle vittime era socchiusa. Quindi, in teoria, l’unico accesso possibile era proprio dall’appartamento di Vinnie e Paco.
– Magari qualcuno è uscito e si è tirato dietro solo la porta principale. L’unica certezza è che non ci sono segni di scasso: l’assassino aveva la chiave o qualcuno lo ha fatto entrare.
La voce di Rosaria Martone, dietro di loro, li fece sobbalzare:
– E bravo, ispettore Lojacono. Ci ruba anche il lavoro, adesso.
L’uomo si voltò:
– Dottoressa, ma quale onore: si scomoda il primo dirigente in persona, per il piccolo commissariato di Pizzofalcone.
La donna gli sorrise:
– Mica per voi, con tutto il rispetto. Ci hanno invitato i due ragazzi qui. Un doppio omicidio non è frequente nemmeno in una città come questa. Diciamo che ho unito l’utile al dilettevole.
Aveva pronunciato l’ultima parte della frase spostando gli occhi su Alex, che consapevole di essere arrossita si girò verso la stanza dove la giovane uccisa giaceva sul letto.
– L’hanno violentata, vero? Forse si è difesa, ha tentato di resistere.
La Martone seguí lo sguardo di Alex e l’espressione ironica sul viso abbronzato divenne triste.
– Forse sí e forse no, non sappiamo ancora. D’estate, con la pelle scoperta, si capisce meglio se c’è stata violenza dai segni sul corpo, ma con questo freddo la gente ha un sacco di vestiti addosso, ed è piú difficile. Certo, la camicetta strappata e la posizione delle gambe suggeriscono lo stupro, però… Come sapete, ci sono scene che sembrano non lasciare dubbi e invece la realtà è completamente diversa. Esistono anche pervertiti che si divertono con la vittima post mortem.
– Quindi bisognerà aspettare l’autopsia?
– No, ispettore, non è detto. Vede quello strumento, quella specie di lampada? Si chiama CrimeScope. Emana luce su diverse lunghezze d’onda, e ci consente di individuare impronte, fibre, capelli e sostanze biologiche, come lo sperma, per esempio.
– E gli abiti? Verrà eseguita un’analisi specifica pure in laboratorio?
– Sí, ma prima completeremo i rilievi qui, con le fotografie a luce radente e diretta; in realtà abbiamo quasi terminato, e il collega mi ha già riferito che non sembrerebbero esserci tracce di liquido seminale. Dunque prenderemo gli indumenti e li porteremo in laboratorio per l’analisi specifica di cui parlava lei.
Alex insistette sull’ipotesi che la ragazza si fosse difesa.
– Ma potrebbe averlo graffiato, no? Che so, potrebbe esserci del materiale sotto le unghie, o…
Rosaria sorrise, e la voce si fece ancora piú bassa.
– Potrebbe, sí. A meno che non fosse consenziente: a certe donne, sai, piace fingere la violenza, e a certi uomini può scappare la mano. Intanto occorre ricostruire la sequenza dei due delitti.
Lojacono conveniva con la Martone.
– Sí, è fondamentale. Lei però ha il giubbotto addosso, perciò forse era appena rientrata, oppure stava per uscire…
Alex completò il ragionamento:
– Il fatto che lui sia al tavolo in una stanza e lei distesa sul letto in un’altra ci dice che il primo omicidio è avvenuto senza che la seconda vittima se ne accorgesse o fosse presente. Di sicuro, comunque, non si sono ammazzati l’un l’altra.
Rosaria si passò il dorso della mano su una guancia.
– Certo che lei era bellissima, guardate che fisico perfetto. E anche nella foto sulla parete: un sorriso meraviglioso. Un corpo e una faccia cosí possono fare impazzire; si uccide per molto meno. Fossi in voi cercherei tra i suoi innamorati, che saranno stati tantissimi.
– Non mancheremo, dottoressa. Ogni suggerimento è bene accetto, se arriva da un’esperta come lei.
Lojacono si girò a guardare Alex, stupito. In genere era riservatissima, rispondeva solo alle domande: quell’uscita ironica non era nel suo stile.
La Martone però sembrò non farci caso, anzi, assunse un’aria complice.
– Ma non ci davamo del tu, Di Nardo? Tra donne e tra poliziotti niente formalismi.
Alex arrossí di nuovo, e come ricordando all’improvviso disse:
– A proposito: Lojacono e io, prima, abbiamo visto qualcosa sotto la console dell’ingresso. Un oggetto con le cuffiette, forse un telefono o un lettore digitale di musica. Lo avete trovato?
– Vado a chiedere.
Dopo qualche secondo la Martone tornò con una busta trasparente.
– Ti riferivi a questo? Carino, eh?
Era un telefono cellulare con lo schermo rotto. Dalla custodia in plastica rosa, che terminava con due lunghe orecchie da coniglio, spuntava un filo collegato a un paio di cuffiette.
XI.
La dirigente scolastica non era ancora riuscita a rintracciare la madre di Martina.
La professoressa Macchiaroli, nell’attesa, ragguagliava Romano e Aragona sui Parise con l’abituale prolissità infarcita di commenti personali.
– Non sono certo ricchi, ma nemmeno poveri. La definirei una normale famiglia borghese; una volta, anzi, sarebbero stati considerati benestanti. È paradossale, non credete? Prima della crisi una famiglia che viveva con il guadagno di un impiegato ce la faceva senza problemi. Adesso tre persone non arrivano a fine mese nemmeno con due stipendi. Eppure quelli a reddito fisso, ora che il lavoro privato non tira piú, dovrebbero essere privilegiati, no?
Adesso Aragona sbuffa, si disse Romano.
E difatti.
– Sí, professore’, però l’analisi macroeconomica la facciamo la prossima volta, va bene? Mi dica, piuttosto: che fa il padre della bambina?
La Macchiaroli si mostrò risentita:
– Glielo stavo appunto dicendo, agente: è impiegato di banca, in una filiale non molto grande del centro. Un impiegato semplice; ricordo che durante un colloquio la madre mi disse che doveva venire da sola perché il direttore non aveva concesso il permesso al marito.
– E la madre? – domandò Romano.
– Collabora con un negozio di moda per donna, nella zona collinare. Mi diceva, sempre durante un colloquio, che l’affitto pesa molto, si mangia quasi tutto lo stipendio del marito, cosí lei è stata costretta a trovare questa occupazione, anche se ha un diploma da segretaria d’azienda. Comunque, è nel reparto vendite.
Aragona ridacchiava.
– E tutto ’sto panegirico per dire che la signora fa la commessa in un negozio di vestiti? Però è interessante questa cosa che nei colloqui invece di parlare di come vanno i ragazzi a scuola vi raccontate i fatti vostri. Ora capisco perché fuori dalle scuole ci sono code chilometriche che bloccano il traffico.
Come se nemmeno avesse sentito, Romano continuò a rivolgersi alla Macchiaroli.
– Ci occorrono gli indirizzi della filiale della banca e del negozio, oltre a quello della famiglia, naturalmente. Cominciamo a vedere per bene tutto, e se dovesse emergere qualcosa vi faremo sapere.
La dirigente scolastica agitò sconsolata la cornetta del telefono:
– Mi dispiace, la signora non risponde. Forse è impegnata. Emilia, dài ai signori quello che chiedono: ci siamo spinte fin qui, ora dobbiamo andare avanti.
Per raggiungere il negozio in cui lavorava la madre di Martina, Romano e Aragona presero la funicolare. Forse sarebbe stato piú conveniente tornare al commissariato e farsi dare un’auto, ma la verità era che nessuno moriva dalla voglia di incontrare Palma. Avrebbero dovuto ammettere che aveva ragione, che valeva la pena approfondire la faccenda, e che di conseguenza loro si sbagliavano.
Romano, fra l’altro, non era ancora convinto del loro modo di agire, e manifestò le proprie perplessità al collega mentre si tenevano in precario equilibrio tra la folla dell’ora di punta che gremiva il vagone.
– Noi ci presentiamo e diciamo: cara signora, probabilmente in casa sua, mentre lei dorme, succede questo, questo e questo. Lei ci guarda in faccia e ci chiede: ma scusate, voi chi siete? Come le sapete, queste cose? Chi ve lo avrebbe detto? Come vi permettete? E se vi denunciassi?
Aragona cercava di evitare la prossimità con l’ascella di una donna enorme, sudatissima nonostante il freddo pungente, che si reggeva al corrimano. Assunse un’espressione disgustata e rispose seccamente:
– Che cosa proponi, allora? Che ce ne torniamo al commissariato e diciamo: caro Palma, chiama la procura dei minori, cosí tra un paio di mesi, quando avranno sgombrato le scrivanie dal torneo di tressette che hanno in corso, qualcuno degli psicologi da cinquecento euro a perizia deciderà di farsi una chiacchiera con la creatura. E intanto quel porco del padre continua con le sue schifezze.
Non aveva parlato a bassa voce, tanto che la donna grassa spalancò gli occhi, interessata.
– Uh, Gesú, e che schifezze fa questo padre con la creatura?
Aragona la guardò a muso duro e, premuto com’era dalla ressa, le rispose in apnea.
– Signo’, sono questioni di polizia, fatevi i fatti vostri. E lavatevi, invece, ché ci state ammazzando tutti con quest’ascella all’aria. Sentite a me, non vi reggete al corrimano, tanto col fisico che tenete non cadete nemmeno se state da sola, nella funicolare.
Il negozio era una lussuosa boutique a quattro vetrine sulla via principale del quartiere. Gli abiti esposti erano cari, eppure Romano e Aragona scorsero all’interno almeno una decina di clienti per quattro commesse, e un uomo che probabilmente era il proprietario.
Decisero di attendere che ci fosse meno affollamento, ma dopo dieci minuti non era ancora uscito nessuno. Concordarono allora che sarebbe entrato solo Aragona, per non dare nell’occhio, mentre Romano avrebbe atteso in un caffè all’angolo della strada. Pochi minuti di esposizione al freddo erano bastati per intirizzire i due poliziotti.
L’interno del negozio era, per contrasto con l’esterno, caldissimo; Aragona si spiegò cosí perché le clienti la tirassero tanto lunga. Si guardò attorno per capire chi fra le quattro venditrici fosse la madre di Martina e, credendo di trovare una qualche somiglianza con la bambina in una donna sottile dai capelli castani e i grandi occhi scuri, si mise in fila in attesa che si liberasse.
Quando fu il suo turno, chiese:
– È lei la signora Parise?
– No, non sono io. Peccato. Sicuro che non posso esserle utile?
Aragona, compiaciuto, si tolse gli occhiali:
– Forse un modo lo troveremmo, a cercarlo. Ma adesso, purtroppo, dovrei parlare alla signora. Me la indicherebbe?
Quella fece una deliziosa smorfia di finto disappunto.
– Se proprio vuole… Antonella! Il signore cerca te.
La donna che si voltò colse l’agente di sorpresa. Aveva un aspetto del tutto diverso dalla figlia. Alta, i capelli rossi raccolti, gli occhi verdi e un bellissimo corpo fasciato da un abito di un marrone caldo. Dimostrava non piú di venticinque anni. Si avvicinò, l’aria vagamente tesa.
– Mi dica, prego.
– Dovrei parlarle, ma si tratta di una cosa riservata. Può seguirmi fuori per cinque minuti?
– Io… io sto lavorando, stavo sbrigando quella signora e…
Aragona la interruppe:
– Si tratta di Martina.
Antonella lo fissò. Aveva un’espressione indecifrabile, in cui c’era apprensione ma anche dolore, tristezza: i suoi erano gli occhi di una madre che soffre.
– Mi aspetti fuori.
Si avvicinò a una collega e le indicò la cliente che stava servendo, poi andò dall’uomo dietro la cassa, un elegante cinquantenne molto curato al quale sussurrò alcune parole. Quello assunse un’aria ostile, quindi fece un brusco cenno di assenso alla donna, che prese il cappotto e uscí in fretta.
Romano li attendeva a un tavolino in fondo al caffè. Quando li vide arrivare, si alzò in piedi e tese la mano:
– Buongiorno, signora. Mi chiamo Francesco Romano, lui è Marco Aragona, nel caso non vi foste ancora presentati. Si accomodi, prego: posso offrirle qualcosa?
La Parise si sedette, rigida.
– Un caffè, grazie. Posso sapere cosa volete?
La voce era appena incrinata da una vena di preoccupazione. Anche Romano notò che assomigliava poco alla figlia. L’agente decise di creare l’atmosfera meno minacciosa possibile.
– Oggi a scuola abbiamo avuto occasione di conoscere sua figlia Martina. Lei sembra davvero troppo giovane per esserne la mamma.
Un lampo di paura passò negli occhi della donna, che tuttavia esibí un sorriso tirato, portandosi le lunghe dita sottili ai capelli.
– Ero… ero giovane quando è nata. Avevo diciassette anni. Ora ne ho ventinove.
– E ne dimostra anche meno, mi creda. Complimenti.
Un cameriere arrivò con i caffè.
– Vi prego, non mi tenete sulle spine. Che ha fatto Martina? Che ha detto?
Romano colse l’occasione.
– Perché, che cosa avrebbe potuto dire o fare, sua figlia?
La donna fece per alzarsi:
– Se non mi dite subito chi siete, mi vedo costretta a porre fine a questa conversazione.
I poliziotti si guardarono, incerti. Poi Romano disse:
– Signora, non si spaventi. Il nostro compito è proprio evitare che succeda qualcosa di brutto, o che continui a succedere. Siamo due agenti del commissariato di Pizzofalcone, ma siamo qui a parlare con lei in via del tutto amichevole. La dirigente scolastica e la professoressa di Lettere ci hanno contattato, sono preoccupate per Martina. Ma credo lei lo sappia già.
Romano e Aragona si aspettavano che reagisse con ansia, angoscia, oppure indignazione. Invece Antonella prese un respiro e concentrò lo sguardo sulla tazza di caffè, come se cercasse là dentro delle risposte.
– A questo punto. Siamo arrivati a questo punto. La polizia, addirittura.
Aragona disse, piano:
– Signora, non dovete avercela con le insegnanti: sono madri anche loro, è umano che si preoccupino. Abbiamo letto i temi di sua figlia e… crediamo sia legittimo farsi delle domande, francamente.
La donna taceva, continuando a tenere la testa bassa.
Romano aggiunse:
– D’altra parte a volte succede che i ragazzi con una fantasia fervida immaginino cose che in realtà non esistono. Forse è il caso di Martina, magari si sente sola e si è inventata una vita parallela. E magari nemmeno gliele ha raccontate, a lei, ’ste cose.
La Parise rialzò di scatto la testa e Romano si trovò sotto il fuoco freddo di quegli occhi verdi. Poi disse:
– Ecco, agente. Ha fatto centro. Magari nemmeno me le ha raccontate, queste cose. O forse ci ha pure provato, ma io non le ho volute ascoltare.
Aragona era confuso.
– E perché non le ha volute ascoltare?
– Perché sono false, ecco perché. Altrimenti sarei venuta io da voi, e di corsa. Oppure lo avrei ammazzato con le mani mie. Ma non è vero.
– Come fa a essere cosí sicura? – le chiese Romano.
Il volto della donna era diventato pallido, tirato. I lineamenti erano contratti, e due rughe attorno alle labbra strette anticiparono ai poliziotti come sarebbe diventata da vecchia.
– Perché conosco mio marito. È un uomo semplice e buono, e Martina e io siamo tutto quello che ha. Non ha perversioni, non è un pazzo e non è un maniaco.
Romano si sporse in avanti. Fin dall’inizio non avrebbe voluto avere a che fare con quella faccenda, ma ora che c’era non era disposto a lasciarsi liquidare.
– E allora per quale accidenti di motivo sua figlia si sarebbe inventata una cosa del genere, me lo sa spiegare? Perdipiú descrivendo certe scene in un compito a scuola.
Alla Parise cominciò a tremare il labbro inferiore.
– Non lo so. Non lo so. Io e mia figlia parliamo molto. Non so per quale motivo abbia sentito l’esigenza di… non riesco nemmeno a dirlo. Ma so per certo che non è vero niente. Non darò seguito con una denuncia a questo pettegolezzo, anzi, avrei voglia di querelare la scuola per l’eccesso di zelo, ma siccome capisco che le loro intenzioni sono buone, farò finta che voi due non siate mai venuti qui.
Si alzò per andarsene. Aragona la fermò quando era ormai di spalle al tavolino.
– Signora, aspetti. Mi spieghi una cosa che non capisco, forse sono pazzo io. Ma come fa lei a dormire tranquilla, a venirsene a lavorare, a camminare per la strada, a fare la spesa e a cucinare sapendo che forse, solo forse, in casa sua c’è qualcuno che mette le mani addosso a sua figlia? È poco piú di una bambina, cazzo. Non se ne rende conto?
La donna rimase immobile, come un manichino, poi le sue spalle si incurvarono. Infine giunse la voce: piana, bassa, senza incrinature.
– La porto con me, a volte. La porto con me qui, quando di pomeriggio devo rientrare. La porto con me per non lasciarla sola a casa.
E uscí, veloce.
XII.
La danza dei ballerini in bianco attorno ai cadaveri si era quasi conclusa quando, sulla scena del duplice omicidio, irruppe il procuratore Laura Piras.
Al solito andava di fretta, in viso l’espressione concentrata che suscitava in chi interloquiva con lei la sensazione costante di farle perdere tempo.
Al solito si muoveva veloce e tuttavia con grazia.
Al solito era vestita con un tailleur scuro, pantaloni e giacca, una sobria divisa che non riusciva però a nascondere le linee morbide del corpo su cui si appuntavano gli sguardi degli uomini.
Al solito prese subito in pugno la situazione.
E al solito, vedendola, Lojacono provò quel misto di inquietudine e piacere che stava imparando a conoscere tanto bene.
– Eccomi. Scusate il ritardo, ero in udienza. Allora, che abbiamo qui? Mi hanno detto che sono due ragazzi. Ah, ciao, Lojacono. Ci si rivede, dunque. E in una piacevole occasione.
La voce, ironica e calda, accompagnò l’effetto sensuale dell’accento sardo che ne rendeva singolare la cadenza. Alle sue spalle c’era Stanzione, che l’aveva accompagnata.
L’agente disse:
– Di qua, dottoressa. Vede, nella stanza da letto ci sta la ragazza, mentre il ragazzo…
Lojacono l’interruppe con freddezza:
– Stanzione, chi ti ha detto di lasciare il tuo posto al portone? Mi pareva di essere stato chiaro. Scendi subito o sarò costretto a fare rapporto.
Non aveva alzato il tono, ma tutti si immobilizzarono. Il poliziotto in divisa indicò la Piras:
– Ma io ho accompagnato la dottoressa. Siamo stati noi ad arrivare per primi e…
– Se l’ispettore le ha dato una consegna, la mantenga. Posso cavarmela da sola, non si preoccupi.
Trattenendo la rabbia, Stanzione abbozzò un saluto militare e uscí. La Piras esibí una piccola smorfia di meraviglia.
– Caspita, che allegria. Mi sa che mi sono persa qualcosa di divertente. Allora, Lojacono, ragguagliami.
– I rilevamenti li hanno quasi finiti. Ti racconto quello che sappiamo per ora.
Lojacono forní al magistrato un resoconto preciso, dalla collocazione dei cadaveri all’interrogatorio dei vicini di casa e del ragazzo che aveva scoperto il delitto.
La donna seguiva con attenzione le sue parole, morsicandosi il labbro e annuendo; con le dita si arricciava le punte dei capelli. Lojacono la trovava irresistibile.
Quando ebbero concluso, si avvicinò Alex.
– Buonasera, dottoressa. Scusa, Lojacono, ha chiamato Ottavia dal commissariato. Quando rientriamo vuole parlarci, pare abbia qualche novità.
La Piras scrutò la ragazza.
– Buonasera, Di Nardo. Allora, come si trova a Pizzofalcone?
Alex scambiò un’occhiata disorientata con Lojacono, ma rispose con sicurezza.
– Sono molto contenta, dottoressa, grazie. È ancora poco tempo, però lavoriamo bene. L’ispettore, poi, è un vero maestro.
Lojacono era sorpreso, non si aspettava una simile attestazione di stima da parte della collega. Si produsse in un lieve inchino col capo:
– Anch’io imparo da te, Di Nardo.
Laura sorrise.
– Mamma mia, quanto miele. In ogni caso mi fa piacere se state trovando un equilibrio, io sono tra quelli che hanno spinto perché il commissariato non chiudesse dopo la storia dei Bastardi.
Rosaria Martone si avvicinò, togliendosi i guanti in lattice.
– Oh, buongiorno, Laura. Ce l’hai fatta ad arrivare. Noi qui abbiamo finito, poi ci sentiamo per le conclusioni scritte.
Il magistrato la salutò cordialmente, e disse:
– Non te ne perdi una, eh? Ti sei già fatta qualche idea?
– A essere sincera, no. Non ci sono tracce di lotta, nemmeno vicino alla ragazza, che a prima vista sembrerebbe essere stata oggetto di un tentativo di violenza carnale. Accanto al letto ci sono un paio di soprammobili che sarebbero dovuti cadere e invece sono ancora là. Certo, può essere che l’assassino li abbia rimessi a posto, ma non quadra con gli indumenti lasciati in terra.
Lojacono disse:
– Anche intorno al ragazzo non ci sono tracce di colluttazione, ha perfino una penna in mano. Devono averlo colto di sorpresa, il che è abbastanza strano, a meno che avesse, che so, la musica alta o qualcosa del genere.
La Martone aggiunse:
– In piú manca l’arma del delitto. Lo hanno colpito almeno tre volte nello stesso punto con un oggetto pesante, eppure abbiamo trovato solo qualche traccia di sangue e capelli sotto la sedia. Il corpo contundente è stato portato via.
Lo sguardo di Laura andava dal letto, dove c’era il cadavere della ragazza, al tavolo, su cui era riversa la seconda vittima. Come spesso accadeva quando era pensierosa, mugolava una sommessa melodia.
– Va bene. Sigillate tutto dopo che la mortuaria sarà andata via. Ho idea che questa scena ci dirà ancora qualcosa. Rosaria, ti chiamo domani. Mi raccomando: priorità assoluta. Qui sotto c’erano già tre giornalisti e due televisioni. Ci metteranno pressione, soprattutto data l’età delle vittime.
La Martone salutò e si allontanò, accompagnata da Alex. Il magistrato si rivolse a Lojacono:
– Abbiamo gli estremi delle vittime, di quello che ha scoperto i cadaveri e dei vicini. Restano da trovare il padre, per approfondire la questione del litigio, e il fidanzato di lei, che pure potrebbe avere avuto una parte in questo casino. Ma dimmi, tu come stai? La famiglia?
L’ironico riferimento a Marinella, la figlia che da qualche mese aveva raggiunto Lojacono dalla Sicilia, non sfuggí all’ispettore.
– Bene, grazie. Rompe le palle, pari pari alla madre, ed è un po’ troppo indipendente: questo invece lo ha preso dal sottoscritto. Comunque è felice, si trova bene, qui. Per usare le sue parole, è tutto «bellissimo» e «spettacolare». Adesso ha cominciato la scuola.
– E tu, sei felice?
Lojacono ponderò la risposta, come se la domanda fosse delle piú complicate.
– Sí. Sollevato, anche, perché saperla a Palermo con quella pazza della mia ex moglie non mi faceva stare tranquillo. Solo che mi sento ancora piú responsabile. Sta diventando una donna, sai, e non capisco piú quello che pensa in ogni momento, come prima.
– Questo però non dovrebbe impedirti di vivere la tua vita. Per esempio, mi pare che tu e io abbiamo una cena in sospeso. Riuscirai a liberarti, una di queste sere?
Quando si erano conosciuti, erano convinti entrambi di avere il cuore pietrificato, eppure erano stati subito consapevoli che fra loro c’era una attrazione, e Lojacono l’aveva perfino combattuta. Ma capitava spesso che la sua mente, lasciata fuori controllo, andasse al morbido profilo di Laura una sera che l’aveva accompagnata a casa in auto, sotto la pioggia. In quell’occasione, ne era sicuro, sarebbe successo qualcosa di importante, se ad attenderlo nell’androne del palazzo non ci fosse stata Marinella, bagnata come un pulcino, che era scappata dalla madre per venire da lui. Da allora si erano rivisti per lavoro, e anche sentiti al telefono, magari soltanto per chiacchierare, ma non si erano mai piú ritrovati da soli.
– Certo che ci riuscirò. Lo voglio e lo farò. Devo organizzarmi con Marinella.
– Non credi che sappia badare a sé stessa? Mangia, si guarda un film e va a dormire. Oppure potresti cercare una baby-sitter, se la cosa ti fa stare piú sereno.
Lojacono si mise a ridere.
– Non prendermi in giro. Per ogni padre la figlia resta sempre una bambina, no? Sta’ tranquilla, prometto che presto ti porterò a cena. Per quanto riguarda questa faccenda, la questione del padre e del fidanzato, abbiamo attivato la Calabrese, e pare che abbia già notizie per noi: quella donna il computer lo fa volare. Anche Pisanelli, che conosce ogni pietra del quartiere, scoprirà qualcosa.
La Piras tornò subito seria.
– Ottimo lavoro di squadra, per un gruppo raccogliticcio di poliziotti che nessun commissariato della città voleva fra i piedi. Lo sai che continuate a essere in discussione, vero? C’è ancora chi sostiene che Pizzofalcone andrebbe chiuso. Ed è gente influente.
– Lo so. Lo sappiamo. Ma la realtà è che ce la caviamo bene. A volte certi difetti, messi insieme ad altri difetti, diventano pregi. Meno per meno fa piú.
– Anche algebrico, mi diventi. Ci lavorerete tu e la Di Nardo, al caso?
Lojacono guardò in direzione della collega, che stava salutando la Martone sulla porta d’ingresso.
– Sí, immagino di sí. Palma si attiene alla regola di affidare l’indagine a chi è intervenuto per primo. Mi fa piacere, Alex è in gamba.
– E visto come parla con la nostra amica forse non devo nemmeno esserne gelosa.
Lojacono rimase perplesso.
– Che vuoi dire?
Laura abbassò la voce e ammiccò.
– Non lo sai? A Rosaria piacciono le donne. E la tua Di Nardo sembra molto a suo agio con lei.
A pochi metri di distanza, Rosaria Martone stava dicendo:
– Allora? Quanto vuoi farmi aspettare per un secondo appuntamento?
Si erano viste qualche settimana prima, dopo un fitto scambio di messaggi e telefonate che Alex aveva vissuto in maniera clandestina e piena di sensi di colpa. Erano andate a cena sull’altro lungomare, quello meno famoso e piú intimo. Rosaria aveva prenotato un tavolo d’angolo, al riparo dagli sguardi, e in silenzio la ragazza l’aveva amata perché aveva avuto quella sensibilità, lei che non aveva paura, lei che ostentava con orgoglio la propria natura, che non viveva nell’ombra.
A poco a poco, durante la cena, complici due bottiglie di vino bianco freddo e l’aria dolce che veniva dal mare, Alex si era rilassata. Piú tardi, in un viale alberato dal quale si vedeva la luna tracciare una scia d’argento sull’acqua calma, si erano baciate. Subito con incertezza, poi col fuoco crescente di una voglia immensa. Le mani avevano cercato la pelle, e si erano sentite come due adolescenti disperate.
Rosaria era piú esperta e disinibita, ma Alex aveva dentro di sé un fuoco da troppo tempo sopito. Era stata lei a trovare il piacere dell’amica per prima, sfiorandola con febbrile consapevolezza dove l’altra l’attendeva. Quindi aveva goduto lei, tante volte da non saperle contare, ricambiando ogni orgasmo che riceveva.
Voglio un letto, aveva detto Rosaria. Ma non stavolta, quando me lo chiederai tu. Sí, aveva risposto Alex. Te lo chiederò io. E in quell’istante avrebbe voluto poter dire: adesso, adesso, adesso. Ma aveva raccontato a casa che era a cena coi colleghi, e sapeva bene che né il Generale né la madre avrebbero dormito finché non avessero sentito la chiave girare nella toppa.
Si erano lasciate sorridenti, accaldate e felici. Era stata l’ultima sera in cui l’autunno aveva conservato un po’ del tepore dell’estate. Dopo era venuto il freddo, e Alex era ricaduta nell’incubo delle proprie incertezze, schiava delle mille schiavitú in cui era cresciuta, schiacciata dall’incapacità di essere come suo padre voleva che fosse. Rosaria, però, l’aveva cercata ancora, intuendone i tabú e le paure, dimostrando di volerla aspettare.
Provava qualcosa di forte, di diverso. Non era una delle tante avventure che si era concessa: in una strana maniera quella ragazza sottile e fragile, forte e determinata, la travolgeva. Ma doveva darle il tempo di uscire dal guscio. La desiderava, con tutte le forze, però temeva che scappasse via per il terrore di essere sé stessa.
Si erano telefonate con continuità, eppure c’erano voluti due cadaveri, perché si rivedessero. Non era la circostanza adatta, ma Rosaria non aveva resistito e le aveva parlato.
Alex rimase in silenzio per un lungo attimo. Il cuore le batteva nelle orecchie. Avvertiva gli occhi di Lojacono e della Piras su di lei. Fu anche per mettere fine a quel disagio che rispose:
– Dopodomani. Vediamoci dopodomani sera.
XIII.
Quando Alex e Lojacono uscirono dal palazzo, terminato il lungo rituale di ogni sopralluogo sulla scena di un omicidio, il sole era ormai tramontato.
Il freddo li schiaffeggiò, togliendo loro il respiro. L’appartamento delle vittime era senza riscaldamento, e sembrava impossibile che fuori potesse essere peggio. Invece. Lojacono pensò che il Polo Nord doveva offrire, piú o meno, lo stesso piacevole clima.
Davanti al portone c’era sempre la volante, ma non era quella di Stanzione e Ciccoletti, che evidentemente avevano ricevuto il cambio a fine turno e ora si godevano il tepore di casa, rimuginando sulla difficile giornata resa funesta dal contatto coi Bastardi di Pizzofalcone. I loro fortunati successori, che facevano andare l’impianto di climatizzazione a pieno regime, non si presero neanche la briga di uscire a salutarli, limitandosi a un cenno con le mani guantate dall’interno della vettura. E nemmeno intervennero quando, da un paio di furgoni posteggiati appena oltre la barriera costituita dall’auto con i lampeggianti accesi, sbucarono tre donne e due uomini intirizziti, imbacuccati fino agli occhi e armati di telecamere; preferirono fingersi impegnati in una romantica conversazione occhi negli occhi. Lojacono inviò loro una silenziosa maledizione.
Una delle giornaliste si accostò all’ispettore e gli infilò sotto il naso un microfono, retto da una mano guantata.
– Ecco, siamo in diretta, siamo in diretta: lei è uno degli investigatori che si stanno occupando del duplice omicidio di vico Secondo Egiziaca, vero? Ci dica, siete arrivati a qualche conclusione? C’è già una pista?
– Parli con la questura, – fu la sintetica risposta che ricevette.
Lojacono cercò poi di farsi largo, ma quella doveva essere abituata a marcare i reticenti, perché con un saltello laterale gli sbarrò la strada. Il poliziotto le spostò il microfono con un gesto secco, allora la donna tentò la carta della solidarietà femminile, puntando la propria arma verso Di Nardo.
– È vero che entrambi gli omicidi sono stati compiuti con grande efferatezza? Si parla di un cranio sfondato e di violenza carnale ai danni di una ragazza.
Alla scena del delitto, oltre ai tre ragazzi interrogati, a cui però era stato impedito di allontanarsi, avevano avuto accesso solo poliziotti. Alex si domandò se fosse stato Stanzione a far trapelare quei particolari. Replicò seccata:
– Ha sentito il collega? Non rilasciamo dichiarazioni.
La giornalista fece segno verso l’operatore e, quando la lucina rossa si fu spenta, sbottò:
– Ma cazzo, un minimo di sensibilità verso chi lavora non ce l’avete? Ore e ore in quella merda di furgone che sembra una cella frigorifera e nemmeno una parola ci dite?
Lojacono era irritato.
– Sensibilità, eh? Sensibilità. Ci sono due morti, là sopra. E magari gli amici e i familiari stanno ascoltando le vostre stronzate. Sensibilità.
Si aprí un varco e se ne andò seguito da Alex, mentre i due nella volante continuavano a conversare prestando la massima attenzione a non vedere nulla.
Dopo una camminata di qualche minuto, controvento e in silenzio, arrivarono al commissariato. La porta a vetri chiuse il freddo alle loro spalle e si ritrovarono immersi in un clima tropicale.
Guida, l’agente in divisa in servizio quasi permanente all’ingresso, scattò in piedi.
– Buonasera, ispetto’! Avete visto? Ho riparato il riscaldamento. Adesso funziona.
Il poliziotto provava nei confronti di Lojacono uno strano cocktail di emozioni composto per un terzo da timore reverenziale, per un terzo da devozione incondizionata e per un terzo da sacro terrore. Il giorno del suo arrivo a Pizzofalcone, l’ispettore lo aveva infatti redarguito con forza per la sciatteria dei modi e la divisa stazzonata, richiamandolo a valori che lui sembrava avere dimenticato. L’episodio aveva risvegliato in Guida l’orgoglio, e nel suo cranio calvo era sorta la determinazione di compiacere il superiore a ogni costo, per convincerlo che si era sbagliato sul suo conto.
Nel quadro delle iniziative rivolte alla realizzazione di questo scopo, avendo colto le lamentele a mezza voce di Lojacono per il freddo, si era armato di cacciavite e chiave inglese e aveva passato mezza mattinata nel locale caldaie, fino a riprodurre quello che era convinto fosse il clima siciliano. Il risultato era che adesso pareva di essere nella foresta amazzonica nel periodo estivo.
Lojacono boccheggiò, separandosi in fretta dal maggior quantitativo possibile di indumenti.
– Guida, ma sei impazzito? Abbassa la temperatura, qua quando usciamo ci piglia un colpo. Mi chiedo come i vetri della porta non siano scoppiati: tra fuori e dentro ci saranno quaranta gradi di differenza.
L’agente assunse un’aria costernata.
– Uh, mi dispiace, ispetto’. Provvedo subito, agli ordini! Ci vorrà un po’ a scendere il calore, la caldaia va al massimo da stamattina e…
Alex ridacchiò, mentre si sbottonava il cappotto.
– Cosí se non ci chiudono per indegnità pregressa lo fanno per il costo del riscaldamento.
In ufficio la situazione era appena migliore grazie a uno spiraglio di finestra aperta dal quale arrivava un soffio d’aria gelida. Pisanelli, sulla traiettoria dello spiffero, era come se avesse una metà del corpo all’Artico e l’altra in Cambogia, e sosteneva con ironia di stare mediamente bene. L’anziano sostituto informò Alex e Lojacono che il commissario era stato chiamato in questura – pareva che il duplice omicidio avesse fatto molta impressione – ma sarebbe rientrato di lí a poco.
Ottavia confermò.
– Ci ha pregato di aspettarlo per discuterne. Vuole sentire il vostro rapporto prima di ragguagliarvi su quello che abbiamo raccolto noi da qui.
Lojacono allargò le braccia.
– L’unica cosa certa è che ci sono due ragazzi morti, e morti male. Comunque la scientifica ha fatto tutti i rilievi, ed è passata anche la Piras.
In fondo alla sala, Romano e Aragona confabulavano: sembravano in disaccordo su qualcosa.
Alex si incuriosí.
– Ehi, voi due, come mai quell’aria misteriosa? Organizzate una festa a sorpresa?
Aragona stava per risponderle, ma Romano gli strinse il braccio.
– No, niente. Discutevamo di una verifica che abbiamo fatto.
Prima che Alex potesse replicare entrò il commissario, impegnato a districarsi dalla lunga sciarpa che portava al collo.
– Ah, siete tutti qui. Bene. Mamma mia, che freddo fuori e che caldo dentro, c’è da prendere una congestione. Sembra una doccia scozzese.
Lojacono sbuffò:
– Quel Guida, quasi quasi lo preferivo sciatto e menefreghista. Be’, commissario, che volevano i pezzi grossi?
Palma aveva appoggiato il cappotto e la giacca sullo schienale di una sedia e ora si stava arrotolando le maniche della camicia, come sua abitudine.
– Le solite cose. Non si fidano. Volevano farmi dire che non siamo in grado di seguire una faccenda cosí grossa, che preferiamo sbolognarla a qualcuno piú esperto. Televisioni e radio, anche nazionali, si sono fiondate come cani sull’osso: la grande città violenta; le strade insicure e adesso anche le case; la solita delinquenza; il Bronx, eccetera.
Ottavia lo guardò con un filo di preoccupazione.
– Quindi?
– Farebbe comodo a tanti se dichiarassimo che non siamo all’altezza, cosí quelli che vogliono mettersi in mostra potrebbero finalmente sorridere alle telecamere. L’idea è che tutti si sentirebbero rassicurati se a occuparsi del caso fossero gli investigatori veri, quelli bravi e competenti, invece dei Bastardi di Pizzofalcone.
Aragona spalancò gli occhi:
– Hanno detto cosí, capo?
– Non in modo esplicito. Ma facevano i premurosi: Palma, sei sicuro che ce la fate? Palma, non ti preoccupare, ce la vediamo noi. Palma, nessuno ti potrà rimproverare, stai tranquillo, in fondo, con le risorse che ti sono state date…
L’imitazione del tono sussiegoso e fintamente confidenziale del questore strappò un sorriso generale, nonostante l’inquietudine che regnava fra i presenti. Il marchio. Quando sarebbero riusciti a cancellarlo?
– E tu che hai risposto? – domandò Pisanelli.
– E che dovevo rispondere? Li ho ascoltati, in silenzio, con rispetto e attenzione. Poi ho detto che no, grazie, non ci serve niente e non abbiamo bisogno di aiuto. Che la mia squadra è ottima e capace di fronteggiare qualsiasi emergenza. Che questo è un commissariato di polizia come gli altri, quindi, se succede qualcosa nella nostra zona ce la vediamo noi.
Le parole del commissario scesero in un silenzio strano. Tutti fissavano qualcosa di inanimato – tavoli, sedie, computer – evitando di incrociare gli occhi dei colleghi. Provavano un miscuglio di sensazioni forti: orgoglio, consapevolezza, perfino fierezza, ma anche timore, senso di inadeguatezza, ansia. Ognuno sperava che Palma avesse ragione. Ognuno temeva che avesse torto.
Solo Aragona, con il viso trasfigurato in un sorriso estatico, come in seguito a un’apparizione, esclamò:
– Bravo, capo! Bravo! Gliele facciamo ingoiare, le offese, a ’sti…
Palma alzò la mano.
– Arago’, non ti permettere, stiamo pur sempre parlando di superiori. Un aiuto, per la verità, l’ho chiesto: quello di farci da scudo con i media, cosí noi non perdiamo tempo. La portavoce ha detto di stare tranquilli, che se la sbrigava lei. È in gamba, però non potrà reggere a lungo. Voi, mi raccomando, non una parola. Cercheranno di intervistarvi, di avere notizie: nessuno dica niente. A nessuno.
Lojacono domandò:
– Che intendi, con «non potrà reggere a lungo»?
Palma si accarezzò la corta, ispida barba sul mento; quando era in difficoltà faceva sempre cosí, pensò Ottavia.
– Intendo che se non arriviamo a niente in tempi brevi, ce lo tolgono, il caso. È troppo grosso. Due ragazzi con un padre pregiudicato per omicidio; ambiente ristretto degli studenti fuori sede; perdipiú lei bella, l’abbiamo vista su internet. Molte piste da verificare, insomma. Dobbiamo trovare presto qualcosa, dire che seguiamo un’idea.
Alex parlò dal fondo della stanza.
– Vediamo di averla, allora, quest’idea.
Palma assentí.
– Cominciate con il raccontarci tutto.
XIV.
Svegliandosi, sentí freddo. Un freddo terribile.
Si guardò intorno, nella penombra, senza riconoscere la stanza. C’era un odore forte, acido, e lui aveva un’impressione di umido sul torace. Toccò. Con i polpastrelli avvertí una sostanza vischiosa. Capí di avere vomitato nel sonno.
Allungò la mano sul fianco del letto e urtò qualcosa che produsse un rumore di vetro. Un rumore familiare. Aveva bevuto fino a ubriacarsi, e si era addormentato.
Libertà. Libertà. Non era questo che avevo sognato, pensò. Non era questo.
La mente andò alla puttana, una nera che aveva raccolto per strada la sera prima; per fortuna era rimasto abbastanza lucido da mandarla via, altrimenti l’avrebbe certo derubato. D’istinto, si tastò la tasca dei pantaloni, per controllare la presenza del portafogli. Aveva pagato quello che doveva e l’aveva mandata via. Bravo, sei furbo. Almeno questo l’hai imparato.
Quando stai dentro, pensò, la sogni cosí tanto, la libertà, che ti pare di percepirla in modo concreto. Come se fosse un vento fresco, o il ricordo di un sapore. E le dài un nome e un cognome, mentre compili la lista di quello che farai quando nessuno ti dirà piú, con un lungo fischio, che l’ora d’aria è finita e si deve tornare in cella.
Per i primi dieci anni aveva pensato alla moglie e ai figli. Poi gli era venuta l’idea della puttana nera e l’aveva coltivata. Gli era venuta quando la moglie si era ammalata e non si era piú presentata nella stanza dei colloqui, perché lui non scorgesse la morte che le stava seduta sulla spalla in attesa di prendersela.
Una puttana nera, si ripeteva in galera, è solo un pezzo di vita. Ti diverti, la paghi e la mandi via. Non è una donna vera, non c’entra niente con la donna che ti ha camminato accanto nella vita, con la madre dei tuoi figli.
Una puttana nera non assomiglia a quella ragazza vestita di bianco che splendeva nel sole di giugno, mille anni fa.
Una puttana nera non puoi confonderla con la donna sorridente che ti aspettava al ritorno dal lavoro, che appena la vedevi ti veniva voglia di saltarle addosso senza nemmeno lavarti le mani.
Una puttana nera non la tieni per mano un’ora di fila mentre partorisce un bambino di quattro chili e mezzo, e intanto ti sorride lo stesso fra tante sofferenze.
Una puttana nera non l’accarezzi mentre dorme, pensando che la tua vita dipende dalla sua.
Una puttana nera non la riconosci nemmeno, perché le puttane nere hanno tutte la stessa faccia. Ci scopi e la mandi via, cosí sei libero di bere fin quasi a morirne.
Fuori non c’era rumore di traffico. Cercò di ricordare dove fosse finito, in quale angolo di quella città assurda, ma aveva la memoria troppo confusa.
Si alzò per andare alla finestra e la schiena mandò una fitta lancinante alla quale la testa rispose con un immediato, terribile pulsare delle tempie.
Si sentiva vecchio. In galera la differenza d’età non contava. Giovani o anziani erano tutti in gabbia, fratelli di dolore, estranei nella pelle e nell’anima. Adesso però si sentiva vecchio.
Un vecchio è una cosa triste, pensò, mentre guardava il buio pesto al di là del vetro sporco della stanza. A meno che non abbia una famiglia.
Una famiglia. Rivide davanti agli occhi la ragazza con il vestito bianco sotto il sole di giugno: quando c’era lei, lui aveva una famiglia. Ma lei era morta. Era morta senza di lui. Era morta mentre lui era dentro.
Una famiglia. La moglie, d’accordo, ma pure i figli. A un uomo che resta, se gli tolgono la famiglia? In carcere c’era uno, forse un professore, che parlava pulito come l’aria di montagna; aveva ammazzato la moglie e il suo amante e diceva che non rammentava di averlo fatto, figurarsi. Be’, il professore gli aveva spiegato il significato della parola «proletario»: uno povero, molto povero, la cui unica ricchezza sono i figli, la prole, appunto.
Proletario.
Di figli ne aveva due quando era entrato in carcere, e all’uscita ne aveva trovata una sola; poi se n’era andata anche lei. Che doveva fare? Era andato a riprenderla. Ecco cosa.
Credeva di avere due figli, invece si era trovato davanti due estranei. Il maschio, quel giovane stronzo, lo aveva perfino minacciato: vattene, se no ti denuncio e ti faccio tornare dentro. Io ti ho messo su questa terra, gli aveva risposto lui, e da questa terra ti tolgo. E lei, lei che portava il suo nome, lei cosí simile alla madre quando danzava vestita di bianco sotto il sole di giugno, pure lei era marcia. Per seguire un fidanzato nullatenente e nullafacente, si era messa a girare col culo di fuori. Prole. Bella prole che aveva.
Poi dice che uno reagisce. Poi dice che uno fa guai senza ritorno.
Dio, che terribile mal di testa. Si trascinò di nuovo fino al letto, negli occhi il vago ricordo di un’insegna luminosa scassata e intermittente: una pensione infima dalle parti della stazione.
Restava poco, dei soldi della prigione. Magari a casa avrebbe trovato di nuovo da fare il bracciante; mica è un lavoro che può cambiare tanto in sedici anni. Anche se questo mondo pare diventato pazzo, pensò, la gente sempre con i telefonini in mano a picchiettare, i televisori piatti e brillanti pure nei bar, le macchine che sembrano tutte uguali.
Poco, ma non niente, gli restava. La moglie, prima di morire lontana da lui, che scherzo che mi hai fatto, che brutto scherzo, aveva messo perfino da parte dei soldi e li aveva nascosti nel loro posto, il barattolo sotto le scarpe vecchie in cantina. Quando li aveva trovati, banconote strette e arrotolate il cui valore ancora non capiva bene, non aveva resistito e si era messo a piangere come un fesso. Non era molto, ma era un messaggio che gli arrivava dall’altro mondo.
Tu sei morta e io non so vivere. Che bella cosa.
Afferrò la bottiglia. Ce n’era ancora abbastanza per ritornare a dormire senza sogni. Stasera, o stanotte che è la stessa cosa, non la voglio una puttana nera. Non voglio nessuno, vicino. Anche se una puttana nera, almeno, è calda.
Costa pure poco, alla fine. Ma non meno della bottiglia che ti serve per morire un po’.
Un altro po’.
XV.
Quando Alex e Lojacono ebbero terminato il loro particolareggiato resoconto di ciò che avevano visto e ascoltato in vico Secondo Egiziaca, e risposto alle domande dei colleghi, sulla sala agenti scese una specie di cappa. Ora tutti avevano davanti agli occhi i cadaveri dei due giovani: anni e anni a contatto con i delitti non rendevano l’immagine meno penosa.
Palma annuiva col capo, come seguendo un flusso di pensieri noto solo a lui.
– Quindi, l’arma con cui è stato ucciso il ragazzo non è stata trovata, ma di sicuro si tratta di un oggetto pesante. E la ragazza, probabilmente, è stata soffocata o strangolata. Si direbbe da un uomo, e dotato di una discreta forza.
Romano scosse la testa.
– Non per contraddire, ma ho visto donne in grado di abbattere un cavallo con un pugno. Inoltre il ragazzo è stato colto di sorpresa, a quanto pare; basta una ragazzina per dare una martellata sulla testa. Quanto alla sorella, magari l’hanno assalita alle spalle. Non credo che con questi elementi si possa trarre una conclusione sulla forza dell’assassino.
Aragona masticava pensoso la stanghetta degli occhiali.
– Mi incuriosisce la situazione della camera della ragazza. Alex ha detto che, secondo la Martone, se ci fosse stata una lotta i soprammobili vicino al letto sarebbero caduti in terra, e ciò significa che, nel caso, l’assassino, o l’assassina, si sarebbe preso il disturbo di rimetterli a posto. Però mi sembra impossibile: uno prima ammazza due ragazzi, poi mette in ordine. Perché dovrebbe?
Pisanelli prese un foglio di carta.
– Adesso tocca a noi integrare il racconto. Dopo che Alex ha chiamato, ci siamo messi in moto. Ottavia ha scoperto alcune cose interessanti, che tra un attimo vi riferirà. Io invece ho sentito un amico che gestisce l’agenzia immobiliare piú consolidata del quartiere. Ora, l’appartamento occupato dai Varricchio è di proprietà del padre di Renato Forgione, il collega di Biagio, quello che ha trovato i cadaveri, giusto?
Lojacono annuí.
– Cosí ci ha detto il ragazzo.
Pisanelli continuava a scorrere gli appunti che aveva in mano.
– Infatti cosí è. Il padre di Renato, il professor Antimo Forgione, è un famoso biotecnologo che insegna all’università: uno che si è fatto da solo, di famiglia umile, che viene da un paese della provincia. Adesso è un luminare, tiene conferenze in tutto il mondo. È uno specialista di metabolismo dell’età avanzata, e ha un sacco di soldi.
Aragona non si trattenne.
– Fatti dare il numero di telefono, preside’, che secondo me ’sto dottore ti serve.
Pisanelli fu l’unico a ridacchiare.
– In effetti potrebbe servirmi. Con la malattia tua, invece, non si può fare niente. La scemità è incurabile. Comunque il dottor Forgione è proprietario di diversi appartamenti in zona e nello stesso palazzo, compreso quello dei dirimpettai delle vittime, come già sapete.
Alex confermò.
– Sembravano amici del giovane Forgione. Insomma, almeno in confidenza.
Pisanelli lesse:
– Amoruso Vincenzo, di Foggia, ventiquattro anni, e Mandurino Pasquale, di Metaponto, stessa età. Sono cointestatari della locazione: tutto registrato, niente a nero. Il professore è uno corretto. Le unità immobiliari, mi ha detto il mio amico dopo aver controllato sul database del catasto, sono state regolarmente divise con tanto di permesso accordato dall’ufficio del comune.
Palma domandò a Lojacono:
– I due ragazzi fanno coppia o sono solo coinquilini?
– Parevano piuttosto in confidenza.
Alex intervenne, sicura:
– Sono una coppia. E almeno Vinnie è anche abbastanza geloso del compagno, l’ho capito da un paio di occhiate e una risposta acida.
Lojacono era a disagio.
– Non possiamo affermarlo con certezza. Abbiamo avuto l’impressione che…
Aragona inarcò il sopracciglio.
– Ma questa gelosia frocesca verso chi era diretta? Il proprietario di casa o il morto?
Alex lo fissò, dura.
– Né l’uno né l’altro. Vinnie, che è quello piú effeminato, era geloso che Paco conoscesse i movimenti della ragazza. La gelosia, come tu non sai, deriva dall’amore, e si può provare per chiunque.
A fermare la discussione prima che degenerasse ci pensò Ottavia.
– Il fatto di maggior rilievo, in ogni caso, riguarda il padre dei ragazzi, Varricchio Cosimo, cinquantacinque anni. Ma tutta la storia della famiglia è interessante.
– Quattro ore di computer e di telefonate: Giorgio e Ottavia hanno ricostruito un ottimo quadro esterno alla scena del delitto, – disse Palma con una punta di orgoglio.
– Grazie, – rispose la vicesovrintendente. – Speriamo serva a qualcosa. Comunque, la famiglia Varricchio è di Roccapriora, in provincia di Crotone, nell’interno. Un paese di tremila abitanti, perlopiú agricoltori. Diciassette anni fa, un sabato sera, Cosimo va al bar della piazza a perdere un po’ di tempo, mentre la moglie, Annunziata detta Tatina, rimane a casa con Biagio che aveva otto anni e Grazia che ne aveva tre. Nel locale si accende una discussione che degenera, una questione stupida, erano tutti brilli, e Varricchio si prende a pugni con un tizio piú anziano, un bracciante come lui. Lo mette a terra e fa per andarsene, ma quello, almeno cosí racconta piú di un testimone, gli insulta la moglie: pare che Tatina fosse la ragazza piú bella del paese e che tutti gli uomini le morissero dietro.
Romano era interessato.
– Be’? E che insulto si fa a una, perché è bella?
– Non ne ho idea. Fatto sta che Varricchio torna indietro, stacca una gamba da una sedia e comincia a colpire il tizio a terra finché lo ammazza.
Fu come se qualcuno avesse tirato un sasso nella stanza. Aragona era sconcertato:
– E nessuno l’ha fermato? In un bar di piazza in un paese della Calabria? Hai detto che c’erano dei testimoni.
Ottavia strinse gli occhi:
– Trentuno persone, per la precisione. I carabinieri furono molto meticolosi, quando arrivarono. Ma arrivarono tardi. Nessuno aveva avuto il coraggio di intromettersi. Pare che Varricchio fosse diventato una furia cieca.
Palma serrò le braccia al torace.
– Insomma, si è fatto sedici anni e sette mesi di galera. Fosse stato meglio difeso, avrebbe scontato una pena minore: era ubriaco, era stato provocato e non aveva armi addosso, ma tant’è. È uscito da meno di un anno, vero, Ottavia?
– Esatto. Nel frattempo la moglie, la bellissima Tatina, nonostante fosse corteggiata da molti uomini, se n’è rimasta buona buona con i due figli, per crescerli il meglio possibile. Ha fatto di tutto: la stiratrice a domicilio, la cameriera, qualsiasi cosa purché onesta. Poi si è ammalata ed è morta, sei anni fa, ancora molto giovane. Il rapporto dei carabinieri parla chiaro: nessuna relazione, una lavoratrice instancabile, molto amata. Al suo funerale c’era tutto il paese.
Lojacono aveva assunto l’aria meditativa che lo rendeva ancora piú simile a un orientale: le mani con i palmi appoggiati al ripiano della scrivania, gli occhi obliqui stretti in due fessure che a stento lasciavano intravedere le pupille. Domandò:
– E i ragazzi?
– Con i risparmi la donna aveva fatto una piccola assicurazione sulla vita in favore dei figli, che serví per le prime necessità e permise a Biagio di terminare il liceo. Malgrado tutti insistessero e la consigliassero, Tatina non aveva voluto ritirarlo da scuola: il ragazzo era bravo, bravissimo. Prese la maturità col massimo dei voti e venne qui a studiare all’università, mantenendosi con lavori e lavoretti. Quest’ultima cosa l’ha saputa Giorgio tramite i suoi amici.
Pisanelli allargò le braccia, quasi a scusarsi per quell’eccesso di relazioni.
– Gli studenti fuori sede, un po’ per necessità e un po’ per attitudine al lavoro, sono la migliore manovalanza per locali e attività commerciali della zona. Ho chiesto qua e là, e ho trovato il proprietario di un ristorante che lo ha avuto a servizio. Me ne ha parlato benissimo, dice che era instancabile.
Ottavia riprese.
– All’università ha conosciuto Renato Forgione, anche lui, a quanto dicono in segreteria di facoltà, uno studente molto bravo, dal curriculum ineccepibile. Hanno fatto amicizia e si sono laureati insieme. Sembra che Forgione desse una consistente mano a Biagio in termini economici: non gli faceva pagare l’affitto, con il consenso del padre naturalmente, e qualche volta gli ha pure saldato i conti.
Alex fece di sí con la testa:
– Gli voleva molto bene, si vedeva. Era sconvolto.
Ottavia sospirò.
– I due erano in gamba, pare che dopo la laurea se li disputassero tutte le cattedre, e anche diverse aziende. Loro però scelsero di rimanere all’università e cominciarono a lavorare col padre di Renato. La vita del ragazzo non registra, almeno a quanto siamo riusciti a sapere finora, nessuna anomalia. Tutto studio e ricerca, non particolarmente aperto, un paio di amicizie femminili in passato e sempre in ambito universitario.
– E la sorella? – chiese Romano.
– Ecco il punto. Per tutto il tempo dell’università, Biagio ha mandato soldi a casa per contribuire al mantenimento della ragazza, che era andata a stare con degli zii. Pare che lei fosse il ritratto della madre da giovane ma, diciamo cosí, piú estroversa. Tutti i ragazzi del paese, e pure quelli dei paesi vicini, le giravano attorno da quando aveva sedici anni.
– Insomma, era un po’ zoccola? – insinuò Aragona, ammiccando.
Alex gli diede una gomitata nel fianco. Ottavia lo guardò storto.
– No, non era affatto come dici tu. Era bella, era solare, era intelligente. Dopo il diploma, però, non volle continuare gli studi, anche se gli zii si erano offerti di aiutarla. Preferí rimanere al paese, almeno questo mi ha detto il carabiniere col quale ho parlato. Una persona gentilissima.
Aragona, massaggiandosi la costola colpita dalla gomitata di Alex, borbottò:
– Se torno indietro divento carabiniere, invece che poliziotto. Poi mi cerco un paese come quello, dove le ragazze sono bellissime e l’unica occupazione è farsi i fatti degli altri.
Ottavia lo liquidò con un gesto.
– È un carabiniere anziano, un appuntato che sta là da sempre. Sono quattro gatti, si conoscono tutti. Grazia, comunque, aveva un motivo per non muoversi.
Alex era incuriosita.
– Cioè?
– L’amore. È rimasta a Roccapriora finché c’è rimasto il ragazzo del quale era innamorata.
– Cioè fino a quando? – domandò Palma.
Ottavia consultò gli appunti che aveva preso a video:
– Mi risulta che sia partita lo scorso aprile.
– Quindi il padre era già uscito di galera.
– Sí, da qualche mese. Cosimo, mi ha riferito l’appuntato, ha subito riaperto la casa di famiglia, un po’ fuori dal paese, che era rimasta disabitata da quando Biagio era partito per l’università e Grazia era andata a stare con gli zii. Poi ha preteso che la figlia tornasse a vivere con lui. C’è stata una discussione, perché lei non voleva, e sembra, ma non è confermato, che Varricchio abbia pure pigliato a pugni il fratello della moglie, che aveva preso le difese della ragazza. In ogni caso, non è stata sporta denuncia.
Romano chiese:
– Sappiamo chi è il fidanzato?
– Foti Domenico, ventidue anni. In paese lo conoscono tutti come Nick la Chitarra; sul profilo dei social network si fa chiamare Nick Trash.
XVI.
Sei una merda. Tu sei una grande merda.
Perché hai i soldi per startene qua, seduto al tavolino con la tua ragazza, ordinando quello che vuoi e protestando pure per due minuti d’attesa, pensi di essere migliore di me.
Ma sei una merda. Nient’altro.
Non solo tu, intendiamoci: tutti, qui dentro, sono merde.
Del resto è un locale per fighetti dei quartieri alti, uno di quelli che vanno di moda per due, tre anni al massimo, poi non ci viene piú nessuno. A quel punto i padroni vivacchiano di ricordi, per un po’ sperano nel ritorno di un passato che non sarà mai piú, e infine chiudono. Per uno di noi, quelli che non hanno il paparino che si mette a posto la coscienza mollando soldi per le corna che fa a mammina, per uno di noi che ci lavora, è fondamentale capire quando è il momento di cambiare.
Qui per ora va bene. Certo, si deve subire qualche mortificazione, tipo te, cara merda, che protesti per il ritardo del servizio e mi lasci un euro di mancia. Io vi odio tutti, ma quelli che odio di piú sono quelli che lasciano un euro di mancia. Meglio niente, che un euro. Mi pare piú onesto: non ho gradito l’attesa, quindi non ti dò niente. Ma un euro è un affronto. Talvolta un affronto imperdonabile.
Non riesco ancora a farmele scivolare addosso, queste cose. Forse non ci riuscirò mai. E va bene cosí. È la rabbia che nutre la mia musica. È con la rabbia che riesco a sopravvivere e a far sopravvivere il mio sogno.
Per te è facile, merda. Quali problemi hai tu nella vita? Quali problemi hai mai avuto? Mica sei nato in un paese in culo al mondo, un posto che non c’è nemmeno sulle carte geografiche, sperduto nel nulla della regione piú ignorata e calpestata d’Europa. Tu hai una bella festa per ogni compleanno, e paparino ti cambia la macchina, e mammina ti compra l’ultimo paio di scarpe che esce, della migliore marca. Se poi hai la fortuna che si separino, allora il beneficio raddoppia.
Io invece devo stare qui a servirti e a prendermi il tuo rimprovero, con quella vocina da frocio che ti ritrovi, per sostenere un sogno che magari non si realizzerà mai.
Qualche piccola soddisfazione posso prendermela, però. Per esempio, sputare nella birra che mi hai ordinato. Per esempio, scambiare sguardi con la troia che ti sei portato qui, che mi guarda il pacco e i pettorali ogni volta che passo accanto al tuo tavolo.
E del resto è naturale, essendo tu un cesso, ancorché coi soldi. È naturale che lei guardi un uomo con il quale potrebbe finalmente capire il significato del verbo scopare.
Potrei aspettare che si alzi e che ti dica scusa, vado in bagno, e seguirla di sotto, portarmela nello stanzino dei detersivi e regalarle cinque minuti di paradiso e un termine di paragone. Anzi, l’ho anche fatto, all’inizio, poi ho capito che il rischio era troppo grosso. Non sono molti i posti che ti dànno qualcosa di fisso, oltre alle mance.
Certe volte, merda, mi chiedo per quanto tempo dovrà durare tutto questo. Quanti panini, quante birre dovrò portare. Quanti pavimenti dovrò lavare, la notte, mentre tu dormi beato nel tuo letto e la tua troia va in giro a metterti corna con quelli come me.
Perché le femmine, merda, sono cosí. Ti giurano fedeltà, ti dicono che ti amano. Ti seguono perfino quando parti e vai via; per starti vicino, dicono, e invece è per controllarti e per farsi i cazzi loro. Se fossimo amici, merda, e per fortuna mia non lo saremo mai, ti consiglierei di stare alla larga dall’amore, perché l’amore ti tira a fondo. L’ho pure scritto nel mio ultimo pezzo, quello che insieme agli altri cento potrebbe non avere mai l’onore di un palcoscenico.
L’amore ti tira a fondo.
Mi guardava come se fossi Dio, al paese. Tutti le morivano dietro, ma lei guardava solo me. Avrei potuto dirle di girare nuda sulla via principale e lei lo avrebbe fatto, e sarebbe rimasta lo stesso solo mia. E tu, merda, non puoi nemmeno immaginare quanto fosse bella, lei. Non ce n’è una di queste puttanelle della tua città bene, truccate e vestite e guarnite di roba da migliaia e migliaia di euro, che regga il paragone. Ogni straccetto, su di lei, sembrava un capo firmato e unico.
Perché era bellissima, sai, merda? Bellissima.
Io certe volte la guardavo, dopo aver fatto l’amore in mezzo all’erba, e mi chiedevo che cosa ci fosse di meglio al mondo; non trovavo una risposta. Oggi, se provo a suonare la roba che scrivevo allora, mi sembrano pezzi di un altro.
L’amore a volte ha bisogno di una residenza, sai, merda? Un luogo fisico, una strada, un codice di avviamento postale. Se lo sposti di là, l’amore si ammala e muore, a meno che non venga curato in tempo.
Io me ne sono andato dal paese perché credevo che certe cose non potessero cambiare. Me ne sono andato perché pensavo che a rimanere là sarei morto soffocato, e invece no, invece sono morto qua. Perché l’amore, se lo porti via dalla sua casa, non respira piú.
Mi ricordo quando me la sono trovata davanti, fuori della porta del locale, proprio qui, a dieci metri dal tavolino dove bevi con gusto la birra con il mio sputo dentro. Aspettava che finissi di lavorare, sorridente come appena uscita da una torta. Dio, quanto mi ha fatto incazzare.
Io ero qui per lavorare. Io ero qui per conoscere qualcuno che mi aiutasse a incidere un disco. Io ero qui per fabbricare il futuro mio e anche il suo. Ed eccola là, lei, ferma e sorridente sotto la pioggia. Non si rendeva conto che avevo bisogno di saperla lontana, a custodirmi il cuore che le avevo lasciato, non qui a rompermi le palle.
Se ne stava là. Ed è stata là sera dopo sera, perché pensava che io mi scopassi le ragazze, che io fossi venuto qua per divertirmi alle sue spalle, non per lavorare. Le volte che ho trovato da cantare, locali scalcinati per pochi euro, arrivava come un falco e invece di guardare me sorvegliava le altre donne, i loro movimenti.
Non puoi immaginare, merda, i litigi continui, l’ossessione che è diventata. Era andata a stare da quel nato vecchio del fratello, da quell’essere inutile che della vita non conosce niente perché pensa solo ai libri, al puro scopo di tormentarmi.
Poi ha cominciato a guardarsi attorno.
Tu lo capisci, merda, com’è questa tua città superficiale e assurda con una donna che viene da un paese infimo, e perdipiú è bella da togliere il fiato? Una che si è messa in testa che il suo uomo la tradisce quasi ogni sera, una che si vuole vendicare?
Ci ha messo poco a organizzarsi. Poteva farmelo alle spalle: preso come sono, magari non me ne sarei accorto. Ma forse non c’era sfizio, se io non lo sapevo.
Sai, mi ha detto, mi hanno chiesto di indossare. Che? Ho domandato io. Indossare, che fai, non capisci? In-dos-sa-re. Su una passerella, come quelle che escono sui giornali. E chi te lo ha chiesto? Uno, uno per strada. Come, uno per strada?
Viene fuori che mentre andava a fare la spesa un tizio accosta il Suv al marciapiede e la blocca: cosí, come in un telefilm americano. Signorina, mi scusi, posso rubarle un secondo, uno soltanto? Lei che è una campagnola, una cafoncella, che non si rende conto che in una città come questa non devi fermarti a parlare con uno per strada, sorride: prego, dica pure. Con quella faccia. Con quel corpo, capisci, merda? Prego, dica pure.
E viene fuori che il tizio ha un’agenzia di modelle, figurarsi. Che l’ha notata mentre camminava: sa, signorina, devo complimentarmi per la sua grazia naturale. Oh, signore, che coincidenza, io mi chiamo proprio Grazia. Ah, che simpatica che è, possiamo darci del tu? Ma certo, è un piacere. Grazia naturale. Culo, voleva dire, complimenti per il culo.
Ah, adesso ti incazzi, mi fa. Quando tu suoni, o giri per i tavoli sorridendo alle ragazze, mettendoti in mostra come uno che lo dà per soldi, io non devo dire niente. Quando invece fanno una proposta di lavoro a me, che poi non c’è niente di male, non è che vado a fare la squillo, solo a mostrare vestiti ad altre donne, ecco che divento subito una zoccola, è cosí?
Hai voglia a spiegarle che non è la stessa cosa. Hai voglia a dirle che per una ragazza inesperta è pericoloso frequentare certi ambienti in un posto complicato come questo. Hai voglia a farle capire che la sfilata è il primo passo, poi vengono le fotografie e chissà che altro.
Sei un egoista, mi urla. Mi viene voglia di farle, certe cose. Come sicuramente le fai tu.
È stato allora che le ho dato il primo schiaffo. Non l’avevo mai toccata, non per farle del male. Non so da dove mi sia venuto fuori, ma è venuto fuori. Mi ha guardato per un minuto intero, la mano sulla faccia, le lacrime che le scendevano silenziose. È quell’immagine che ha ispirato il mio pezzo «Tears on Your Face», forse la cosa migliore che ho scritto.
Non mi ha risposto al telefono per due giorni. Sono dovuto andare a casa sua, e quel cretino del fratello non mi voleva far entrare: l’ho tolto di mezzo con una manata. Ho sistemato tutto come sistemiamo le cose noi uomini veri, merda. Non come te.
Lei ha detto che non l’avrebbe fatto piú. Che sbagliavo, che non capivo, ma che per me avrebbe rinunciato, anche se non c’era niente di male.
Mi è sembrato troppo facile. Credevo che avrebbe opposto maggior resistenza. La cosa mi puzzava, cosí ho preso un giorno di permesso al lavoro, ho detto che stavo male, e le sono andato appresso.
Ci andava ancora, sí. Ci andava, tutta allegra, poi scendeva dal quel posto di merda con altre cinque o sei zoccole peggio di lei e se ne tornava a casa. Sono entrato, ho fatto amicizia col custode e mi sono fatto dire che indossavano.
Intimo. Ci pensi, merda? Intimo. Perizoma, reggiseni.
La mia donna che va avanti e indietro in perizoma e reggiseno, con quel corpo che fa rivoltare la mente e il cuore, quelle gambe infinite e perfette, le braccia, il ventre che ha.
Intimo.
E non sono certo le donne che vanno a vedere quelle sfilate, no? Sono i commercianti che devono scegliere i modelli, le linee di produzione. Quello schifoso del custode mi ha pure offerto di mettermi in contatto con una delle ragazze. Tu mi dài dieci euro, io le parlo e ti procuro il numero di telefono. Gli ho indicato lei e lo schifoso ha esclamato: ah, la calabrese! È nuova, uno schianto. Ma è una difficile, non la dà. Ci vorranno almeno cinquanta euro. Chissà perché non gli ho spaccato la faccia, allo schifoso.
Quando me la sono trovata davanti, quella sera, non ci ho visto piú. L’ho portata di là, sul retro del negozio, e Dio lo sa come ho fatto a non ammazzarla. Dio lo sa. È scappata, in lacrime, e da allora non è venuta piú.
Io sono qui per lavorare, merda. Solo per lavorare. E volevo costruire un domani per me e per lei. Adesso però non lo so piú se è lei che voglio vicino. Adesso è in tutto e per tutto uguale alla troietta seduta al tuo fianco, che mi guarda di nascosto quando tu sei girato dall’altra parte. A che mi serve, una cosí?
Una cosí per me non è niente.
Una cosí può pure morire.
XVII.
Pisanelli si passò una mano sugli occhi. Era stanco. Il turno era finito da ore, per lui e per gli altri. Ma c’era da pianificare il lavoro successivo, non ci si poteva fermare adesso.
Lojacono, invece, pareva fatto di pietra; non muoveva un muscolo.
– Il padre è stato contattato? – chiese, calmo.
Ottavia scosse il capo.
– No. In paese non c’è. Ha detto a un amico che veniva qui.
– E gli ha detto anche perché?
– Per riprendersi la figlia. Voleva che tornasse a casa con lui.
Ci fu qualche secondo di silenzio, interrotto appena dal vento gelido che scuoteva i vetri. Fu Palma a parlare.
– La ragazza non sarà stata d’accordo, ed ecco il motivo del litigio che hanno ascoltato i due ragazzi.
– Probabile, – disse Alex. – Però sembra che lei non ci fosse in quel momento. Vinnie e Paco hanno sentito due uomini che discutevano in dialetto, ma non hanno visto nessuno. Inoltre non conoscono Cosimo Varricchio.
Pisanelli giocherellava con una penna.
– Magari era la televisione ad alto volume, certe volte succede. Mi pare campata in aria, ’sta storia del padre.
Ottavia non era d’accordo:
– Non dimenticare che è un violento, e pure un pregiudicato per omicidio.
– Ha ammazzato un uomo di botte per una sciocchezza. Ci sta che abbia di nuovo perso la testa, – aggiunse Aragona.
Romano scattò.
– Ma che cazzo dici, Arago’, che ne sai tu? Siccome uno ha sbagliato una volta è sicuro che sbaglierà ancora? E che è, segnato a vita? Qua stiamo parlando di un padre che avrebbe ucciso i due figli, ve ne rendete conto? Non sono croci che si gettano alla leggera sulle spalle della gente. Nemmeno nelle chiacchiere da bar fra poliziotti sfigati.
Quella reazione esagerata alla frase di Aragona creò un certo imbarazzo nella stanza. Era chiaro a ognuno che Romano stava difendendo sé stesso, non il padre delle vittime. In passato, per l’incapacità di controllare la propria rabbia, aveva messo le mani al collo di un sospettato, meritandosi prima una sospensione poi l’allontanamento dal commissariato di Posillipo. E non era la prima volta che gli accadeva una cosa simile.
Palma provò a stemperare la tensione.
– Certo, certo. Non bisogna arrivare a conclusioni affrettate. Teniamo conto del litigio e cerchiamo di scoprire chi urlava e perché. Rintracciamo questo padre, se non altro dobbiamo informarlo di quello che è successo. E anche il fidanzato della ragazza, capiamo quando l’ha vista per l’ultima volta. Ottavia, sappiamo dove lavora?
– Sí, per fortuna esistono i social: lí la gente mette tutto. Fa il cameriere in un locale alla moda del centro, il Marienplatz, che tiene aperto fino a tardi. Oggi è il giorno di chiusura. Dovremmo trovarlo domani in tarda mattinata, quando fanno le pulizie. Purtroppo non risulta nessun domicilio.
Lojacono ascoltava attento, mentre Alex prendeva appunti.
– Anche il ragazzo è del paese, no? – disse l’ispettore. – Come si chiama… Roccapriora? Quindi anche lui sarà in grado di litigare in dialetto.
Palma annuí, stancamente.
– Sí, ma per ora siamo nel campo delle illazioni, non abbiamo niente in mano. Vabbe’, dobbiamo darci da fare. Lojacono, Di Nardo, naturalmente siamo tutti a vostra disposizione, qualsiasi supporto vi occorra. Credo che la sopravvivenza del commissariato dipenda parecchio da questa faccenda.
Lojacono aggrottò la fronte; era la prima volta da ore che la sua impassibilità subiva un’incrinatura.
– Bella responsabilità ci dài, capo. Ma se arriveremo a una soluzione, sarà per merito di tutti. Le informazioni che reperiscono Ottavia e Giorgio ci fanno guadagnare un sacco di tempo. E pure Aragona è fondamentale: la sua presenza qui ci fa venire voglia di stare per strada a faticare pure con questo freddo.
Tutti risero. Aragona protestò.
– Ma se vi devo trovare ogni volta io il colpevole, ché siete vecchi e avete le sinapsi imputridite!
Palma si rivolse a Romano.
– A proposito, com’è poi andata la questione della bambina? Ci siete stati a scuola?
Romano scambiò una veloce occhiata con Aragona.
– Sí, sí. È probabile, come immaginavamo, che la professoressa sia un po’ allarmista. Abbiamo incontrato la preside: lei e la Macchiaroli ci hanno fatto leggere alcuni passi di certi temi in classe che si prestano a essere interpretati in maniera equivoca.
Ottavia ridacchiò.
– Come si vede che non avete figli. Sono anni che il preside si chiama dirigente scolastico e che i temi in classe sono diventati «saggi brevi». Dovreste aggiornarvi.
Aragona le indirizzò una smorfia.
Palma insistette.
– Dunque, che idea vi siete fatti?
Aragona assunse un’aria guardinga. Intorno la tensione si era allentata, e gli altri stavano ancora discutendo a bassa voce del duplice omicidio; la poca attenzione del gruppo consentí al giovane agente di essere vago.
– Boh, capo… magari vale la pena di procedere a un altro paio di verifiche. Domani, se non ci sono cose piú importanti, diamo una controllata informale ai genitori della ragazzina.
Palma lo scrutò.
– Attenti, ragazzi: se c’è qualcosa, qualsiasi cosa, me lo dite subito e interessiamo la procura dei minori. Certe questioni devono trattarle gli specialisti. Comunque sono d’accordo, prima è meglio essere sicuri: non mi piace rovinare la gente per delle fantasie. Siate cauti, però.
Romano si grattò la guancia.
– Va bene, capo. Solo un ultimo riscontro veloce.
Palma lo fissò, come per decifrarne l’espressione. D’abitudine, Francesco condivideva volentieri le proprie perplessità. Era insolito che stesse cosí sulle sue.
Il fitto calendario di impegni che attendeva la squadra lo distolse da quel pensiero. Richiamò l’attenzione di tutti, interrompendo le chiacchiere.
– È tardi, tardissimo. Grazie come sempre per la vostra disponibilità, ma adesso è meglio che ci riposiamo un po’, domani sarà una giornata dura. Andiamo a casa.
XVIII.
Andiamo a casa.
Attraversando le strade deserte, battute da un vento che sembra venuto dalla steppa, che ulula come un lupo ed è freddo come il ghiaccio.
Andiamo a casa. Almeno là farà caldo, e saremo fra le nostre cose, fra i nostri rumori.
Andiamo a casa. Cosí potremo chiuderlo fuori, questo mondo infame.
Andiamo a casa.
Pisanelli incrociò sul pianerottolo il commendator Lapiana, che abitava accanto a lui.
Aveva il riporto fuori squadra e una giacca da camera macchiata sotto il cappotto. Doveva essersi addormentato per poi svegliarsi di soprassalto, ricordandosi che doveva portare fuori la cagnetta; la bastardina scodinzolava affettuosa, legata al corto guinzaglio. Nell’altra mano l’uomo reggeva la paletta con il sacchetto di plastica per gli escrementi.
– Buonasera, commendatore. Pantera ha fatto le ore piccole oggi, eh?
Quello gli rivolse uno sguardo disperato.
– Dotto’, lasci perdere… Ma dico io, gli animali non muoiono presto? Questa tiene sedici anni e sta assai meglio di me. È che quella là, – e indicò col capo la porta del proprio appartamento, dietro la quale c’era la moglie, – la tiene come una principessa. Ma un giorno o l’altro, quando va a fare la spesa, prendo un cuscino e la soffoco, ’sta cagna: intendo la bestia, non la padrona, naturalmente. Cosí almeno non devo uscire di notte con questo freddo. Perché fa freddo assai, eh, dotto’?
Pisanelli sorrise e fece di sí con la testa:
– Mi dispiace, commendatore. Però portate un poco di pazienza, la signora le vuole tanto bene a Pantera.
La bestiola dall’incongruo nome sollevò gli occhi oscurati dalla cataratta verso Pisanelli, come se avesse intuito che si parlava di lei, e ansimò.
– La vede? – commentò Lapiana. – Capisce. Io lo so che capisce. Piú di quella là. Buonanotte, dotto’. E mi raccomando, se le chiedono di indagare sulla strana morte di un cane soffocato, dimentichi le mie confidenze.
Mentre il vicino affrontava la tundra incassando la testa semicalva nel bavero del cappotto, il vicecommissario aprí la porta di casa. Il timer del riscaldamento aveva funzionato, per fortuna, e il tepore lo abbracciò.
Ciao, sussurrò. Poi accese il televisore su un canale qualsiasi, con il volume basso ma udibile; lo faceva sempre, per coprire la propria voce. Perché il commendator Lapiana, la megera che aveva per moglie e perfino la piccola, anziana Pantera non pensassero che il vicecommissario Giorgio Pisanelli era diventato pazzo.
Ciao, disse di nuovo. Ciao, amore mio. Sono tornato. Ti devo raccontare un sacco di cose.
Andò in cucina per prepararsi un piatto di pasta. Aveva appetito, anche se sapeva che cenando cosí tardi non avrebbe digerito e si sarebbe rivoltato nel letto come una cotoletta.
Tanto, disse, non sarà lo stomaco a uccidermi. Lo sai, amore. Il conto alla rovescia lo detta l’ospite.
L’ospite. Cosí lo chiamava, con confidenza, come fosse un vecchio amico che è venuto a stare da te per qualche giorno. Solo che il suo ospite era lí da ben piú di qualche giorno, e non se ne sarebbe andato, se non insieme a lui.
L’ospite.
Quasi lo avesse evocato, dovette correre in bagno. La minzione fu al solito difficile e dolorosa; la tazza si sporcò di sangue. L’ospite. Il suo cancro alla prostata.
Lo teneva nascosto, come la depressione, come quella follia di dialogare con una moglie morta da anni. Perché lo avrebbero costretto a lasciare il lavoro, a diventare un involucro all’interno del quale si combatteva una battaglia dall’esito già determinato. Tempo. Questione di tempo.
Tornò in cucina e ristabilí sulle labbra un sorriso sghembo. Non voleva che Carmen lo vedesse triste.
Era sicuro che la moglie continuasse ad abitare quella casa, leggera e felice come quando stava bene, prima di rinsecchirsi in un letto e di decidere che vivere non valeva piú la pena. Era sicuro che lo guardasse, che ascoltasse le sue parole con dolce partecipazione. Era sicuro che interpretasse le sue espressioni, ogni singola ruga del suo volto, come faceva quando ancora aveva occhi e mani.
Perché l’amore, pensava Pisanelli, è una cosa enorme. Una cosa troppo bella, profonda e importante per dipendere da futilità come la vita.
Ti devo raccontare, tesoro. Abbiamo avuto una giornata intensa, in ufficio. Siediti e ascoltami, mentre preparo la pasta.
Era tornato a casa.
Andiamo a casa.
Lasciamoci alle spalle il freddo, il vento e la stupidità della gente. Andiamo a casa, dove tutto è sicuro, tranquillo. Dove non c’è pericolo.
Andiamo a casa, fra i nostri mobili, negli spazi che conosciamo tanto bene da poterci muovere bendati e al buio.
Andiamo a casa. È un posto sicuro.
L’unico dove potremo essere sereni. E inseguire quell’illusione distruttiva che è la felicità.
Anche se faceva freddo, freddissimo, Francesco Romano non trovava il coraggio di entrare nel portone del palazzo dove abitava. Il vento batteva senza sosta l’angolo della strada deserta e il poliziotto offriva lo strano spettacolo di un uomo massiccio, accigliato, con la chiave in mano. Sembrava una statua moderna, di quelle che provano a esprimere il disagio dell’individuo contemporaneo di fronte alla realtà.
Andiamo a casa, aveva detto Palma. Come se fosse facile. Come se fosse confortevole.
Per Francesco Romano la casa era stata una persona: Giorgia, sua moglie. La donna che aveva avuto vicino fin dai tempi dell’università. La donna che lo aveva assecondato nella sua carriera. La donna che lo aveva sostenuto, che aveva cercato di controllarne il carattere difficile.
Io ho un carattere difficile?, si chiese Romano. Forse. Se lo dicevano tutti, e senza ricorrere a eufemismi, un fondo di verità doveva esserci. Un carattere difficile. Eppure sapeva essere allegro e gentile, e nel cuore nutriva compassione per i deboli, quelli che subiscono le angherie dei prepotenti. Per questo aveva scelto di diventare poliziotto: odiava le ingiustizie. Ogni volta che si trovava al cospetto di una sopraffazione sentiva il bisogno di mettervi rimedio. Uno cosí ha un carattere difficile? No, non poteva essere.
Se non fosse stato per quei momenti.
Il vento rinforzò, quasi volesse ingaggiare un braccio di ferro con quell’uomo che osava sfidarne il soffio gelido. Ma lui non si mosse.
Quei momenti. Aveva letto che venivano definiti come un velo rosso, la rabbia che cala davanti agli occhi. Per lui non era cosí: erano i suoi momenti di maggiore lucidità, quando una forza estranea e familiare al tempo stesso cominciava a corrergli sotto la pelle fino a raggiungere le tozze, potenti dita. I momenti in cui qualcuno prendeva il comando dentro di lui spazzando via con un gesto remore, principî, convenzioni e sovrastrutture. I momenti in cui la rabbia diventava regina nella mente e nell’anima di Francesco Romano.
L’aveva sentita, quel giorno, leggendo i temi di Martina, immaginando quello schifoso individuo che si infilava nel letto della figlia. Lo avesse avuto a tiro, magari ci sarebbe ricaduto.
Romano e Giorgia non avevano figli. Ci avevano provato, soprattutto lei aveva sempre sognato di essere madre, e lui l’aveva seguita nel suo desiderio. Dalle analisi non erano risultati problemi. Né lui né lei avevano qualcosa che non andasse. Il medico si era stretto nelle spalle e aveva detto: a volte, due persone sono semplicemente incompatibili.
Incompatibili. Ma come potevano essere incompatibili due che erano cresciuti insieme? Che non avevano mai vissuto lontani per piú di tre giorni? Che si amavano con tutto il cuore?
Errata corrige, pensò Romano: che si erano amati con tutto il cuore.
Passò un’auto. Da un finestrino un ragazzo gli urlò: vattene a casa, non vedi che non viene piú? Voce impastata, risate dall’interno, una sgommata. Pure tu, stronzo, mi dici di andare a casa? E dov’è, casa mia?
Perché poi succede anche a casa. Magari uno ha un periodo di merda e le cose gli vanno male al lavoro. Magari uno prende una sospensione perché un delinquente si permette di ridergli in faccia e lui lo afferra per il collo; vorrei vedere voi. E magari lo trasferiscono nel buco del culo della città, accomunandolo nei commenti e negli sfottò a gente che spacciava la droga sequestrata.
In un momento cosí ci sta che uno sia nervoso. Che sia sensibile, agitato. Che reagisca a vanvera a una normalissima discussione.
Che tiri un ceffone alla moglie.
Perché te ne sei andata, Giorgia? Perché non mi hai concesso un’altra possibilità? Perché non hai saputo capire che ero in un momento particolare, che mi sentivo ferito e disperato? Perché non capisci che ho bisogno di te?
Andiamo a casa, aveva detto Palma. Ma quella non era casa sua. Non senza Giorgia.
Si accorse di avere piú freddo dentro che fuori. Avrebbe cercato un bar ancora aperto. Avrebbe bevuto una birra, almeno una. Per trovare il coraggio di aprire quel portone e salire due rampe di scale.
Se no avrebbe dormito in macchina, e magari sarebbe morto per il freddo. Cosí, forse, Giorgia avrebbe capito.
Andiamo a casa.
Là sí che tutto va come deve andare. Là sí che non cambia mai nulla, che c’è il calore umano e l’imperfezione nota. Là sí che ti vogliono bene.
Andiamo a casa.
Aragona si avvicinò al banco della reception e disse:
– Ciao, Peppi’. Che si dice, stasera?
Il portiere ricambiò il saluto con professionale aplomb.
– Buonasera, signore. Tutto tranquillo, grazie. Le faccio portare qualcosa da mangiare in camera?
L’hotel Mediterraneo, pensò Aragona. Non propriamente una casa, ma vuoi mettere quanto fa figo vivere in un albergo di classe?
– Grazie, te ne sarei grato. Oggi non ho avuto il tempo di fermarmi nemmeno per un panino. La città peggiora, e se non fosse per noi che facciamo fronte contro i criminali…
L’uomo annuí, compreso.
– Certo, signore. E noi persone oneste ve ne siamo grate. Avverto subito la cucina. Dovrebbe essere ancora aperta, c’è stato un ricevimento.
Aragona sospirò, togliendosi le lenti con l’ampio gesto della mano:
– E già. La gente fa ricevimenti, si diverte. E ignora i pericoli che ci sono in strada. Pensa che oggi hanno ammazzato due ragazzi in casa loro. Proprio vicino al commissariato.
Il portiere spalancò gli occhi.
– Ma davvero? E se ne occupa lei, signore?
– Non si possono dare queste informazioni, Peppi’. Si tratta di cose riservate, che credi? I malviventi potrebbero seguirci dove viviamo, e magari, per ricattarci, prendersela con chi lavora nei paraggi. Perfino con un portiere d’albergo.
L’uomo si passò un dito nel colletto, a disagio. Si guardò attorno nella hall deserta, con circospezione.
– Davvero? Succede, eh? D’accordo, signore. Non le chiederò niente, allora.
Aragona gli lanciò uno sguardo complice.
– Ecco, bravo. Buonanotte, Peppi’.
E si avviò verso l’ascensore che l’avrebbe portato nella sua stanza, al decimo piano.
Abitare in quell’albergo era un lusso che sarebbe stato difficile da spiegare ai colleghi. Infatti, non ne sapevano niente. La stanza con la prima colazione gli costava l’intero stipendio, ma Marco poteva contare sul sostanzioso bonifico mensile che la mamma, dal paese, gli mandava all’insaputa del padre. Non era facile rinunciare alle comodità che quella bellissima struttura offriva.
E poi c’era Irina. Irina, la bella cameriera bionda che serviva la colazione al roof-garden, il cui sorriso era sufficiente a dare un senso all’intera giornata. Irina, che di lí a qualche ora lo avrebbe accolto dicendogli quelle splendide, musicali parole: che cosa le porto?
Lui, affascinante, si sarebbe tolto gli occhiali e passato una mano nei capelli per assicurarsi che quella scomoda, volgare piazzetta che andava allargandosi al centro della testa non fosse visibile. L’avrebbe fissata, lo sguardo intenso, e con voce profonda e consapevole le avrebbe finalmente detto la frase che lei, ne era certo, aspettava con ansia: un doppio caffè ristretto in tazza grande.
Dopo di che l’agente scelto Marco Aragona, l’instancabile combattente del crimine, sarebbe stato pronto per nuove, pericolose avventure.
Andiamo a casa.
A casa troveremo chi ci vuole bene. Questo mondo è duro, difficile, diffidente, una strada lastricata d’odio e di dolore. Fra le mura amiche troveremo l’amore, la dolcezza degli affetti.
Andiamo a casa. Perché è a casa che c’è la famiglia, il nucleo vero, quello in cui ci sentiamo protetti. A casa c’è chi ci capisce, chi ci conosce. Ci sono le persone per le quali non abbiamo segreti.
Andiamo a casa.
Alex cercò di fare meno rumore possibile, ma scorse subito il bagliore che giungeva dalla cucina.
Si accostò alla porta e vide il padre, in vestaglia e pigiama, seduto al tavolo davanti a una tazza di tè.
– Ciao, papà. Come mai in piedi?
Domanda ovvia, di cui conosceva la risposta.
Che arrivò puntuale.
– Ti risulta forse che io riesca a dormire finché non ti so a casa? E poi lo sai, ci sono abituato. Vorrei avere…
… un centesimo per ogni…
– … un centesimo per ogni notte che…
… ho passato sveglio…
– … ho passato sveglio per servizio nella mia carriera. Hai mangiato?
– Sí, papà, un panino qualche ora fa in commissariato. Sai, abbiamo un caso che…
Il Generale alzò la mano:
– No. Non mi devi dire niente. Io ho taciuto sulle missioni per anni, figurati se mi permetto di entrare nel merito del tuo lavoro. Dimmi solo…
… se stai bene e…
– … se stai bene e se hai bisogno di aiuto. È tutto quello che voglio sapere.
– Sto bene, papà. E ce la faccio da sola, grazie.
Il Generale le concesse un rapido, orgoglioso sorriso.
– Lo so. Sei sempre stata cosí fin da bambina. Forte e testarda. Non mi sono mai intromesso perché credo che i figli…
… maturino prima, se…
– … maturino prima, se i genitori li lasciano fare a modo loro. E tu lo sai bene che…
… ti prego, non dirlo, papà. Non dirlo un’altra volta.
– … io ho piena fiducia in te. Sono certo che non mi deluderesti mai. È vero?
Vorrei che fossi qui, Rosaria Martone. Con la tua pelle abbronzata, il tuo sorriso meraviglioso. Coi tuoi baci assetati e le tue mani benedette che sanno dare il piacere. Vorrei proprio vederti al cospetto del Generale mentre ti chiede se mai lo deluderesti.
– Sí, papà.
L’uomo si alzò soddisfatto. Prima di andare a letto diede una rapida carezza sulla guancia di Alex.
Lei spense la luce della cucina e cominciò a piangere in silenzio.
Sí, andiamo a casa.
Perché non c’è altro da fare, fuori. Perché il mondo si è fermato, infine, e per qualche ora non succederà piú niente.
Ora sí, che possiamo andare a casa.
Ottavia bussò con tocco lieve alla porta di Palma. In ufficio erano rimasti solo loro due.
– Permesso? Commissario, non c’è piú nessuno. Ho lasciato il computer acceso per gli aggiornamenti delle procedure.
Palma alzò lo sguardo dalle carte che stava compilando. Aveva profonde rughe di stanchezza attorno agli occhi, ma con quei capelli folti e scompigliati, con il colletto allentato sotto la cravatta slacciata e le maniche rivoltate sembrava un ragazzo.
– Grazie, Ottavia. Oggi sei stata splendida. Hai raccolto un sacco di informazioni. È stata davvero una fortuna averti trovato qui.
La donna arrossí.
– Lei è sempre molto gentile, grazie. Io faccio solo il mio dovere. Sarebbe un vero peccato se il commissariato venisse chiuso.
Palma la fissò a lungo, senza parlare. Era cosí bella, cosí femminile. Gli ispirava al tempo stesso tenerezza e qualcos’altro che aveva paura a indagare.
– Proprio non ci riesci a darmi del tu? Mi piacerebbe tanto. Sei la prima ad arrivare la mattina e l’ultima ad andare via la sera, ci vediamo ogni giorno in questa valle di lacrime: non pensi che dovremmo fare amicizia?
Ottavia rispose con una voce piena e calda che gli fece vibrare il cuore.
– Un po’ alla volta magari ci riesco. Questione di tempo, come per tutto. No?
Palma si ravviò i capelli, sconfortato.
– Sí, immagino di sí. Immagino sia una questione di tempo. Faremo del nostro meglio per scrollarci di dosso questa maledizione dei Bastardi di Pizzofalcone. Se poi vorranno chiuderci lo stesso, almeno saremo a posto con la coscienza.
La donna lo guardò, preoccupata; sembrava piú stanco del solito.
– Ce la faremo, vedrà. Siamo tutti bravi poliziotti, qualcuno addirittura eccellente. E in fondo, magari, quel pazzo di Marco ha ragione: non è male essere i Bastardi. È come un marchio di fabbrica.
Palma scosse il capo.
– Aragona… Se riusciamo a raddrizzarlo allora sí che sarà stato un successo. Adesso però vai a casa. È tardi, non mi piace saperti in giro da sola a quest’ora.
Nella mente di Ottavia comparvero le immagini della sua famiglia. Il figlio, Riccardo, chiuso al mondo, che ripeteva sempre e solo quell’unica parola: mamma, mamma, mamma. Una martellante accusa alla distanza di lei, come se le leggesse nel pensiero, come se sapesse di essere per lei una maledetta croce, l’ostacolo che da quasi quattordici anni le impediva di essere la donna che avrebbe voluto. Il marito, Gaetano, sorridente e premuroso, attento ai minimi particolari per farla felice, che pareva perfino assumersi la colpa dei problemi di Riccardo. Gaetano, ignaro che lei, Ottavia, non lo amava piú, se mai lo aveva amato.
Casa, pensò. Non fosse stato per gli occhi consapevoli di Sid, il suo cane, casa era l’ultimo posto nel quale avrebbe voluto rinchiudersi, quella sera.
– Tranquillo, commissario. Ho la pistola nella borsa, e so anche usarla. Cosa crede, che a stare sedute dietro un computer ci si rammollisca tanto da dimenticare di essere un poliziotto?
Palma non poté fare a meno di lasciar correre lo sguardo sulla figura morbida ma solida della donna.
– Tutto posso pensare di te, Ottavia, tranne che tu sia rammollita. Credimi.
La voce di Palma, venuta fuori un po’ roca, la fece sussultare. Era davvero ora di andarsene, pensò.
– Vada a casa anche lei, però. Non dorma di nuovo in ufficio. Saranno giorni frenetici, con questa storia dei due ragazzi, non possiamo permetterci un capo fuori uso. Promesso?
Quella donna era un vero incanto.
– Promesso. Ciao, allora.
– Ciao, – disse lei, inaspettatamente.
E scappò via.
XIX.
Se possibile, la mattina dopo sembrava fare ancora piú freddo.
Nei telegiornali le notizie sulle condizioni meteorologiche erano al primo posto. Gli esperti sostenevano che una gelata del genere non si verificava da chissà quanti anni. Anche gli opinionisti si affannavano a dire la loro sull’argomento, che cavalcava ogni chiacchiera nei locali pubblici, nelle metropolitane e nelle case. Tutti si ponevano la stessa domanda: quanto durerà?
Eppure, a pensarci, il problema non riguardava chi ne discuteva standosene al calduccio, ben riparato dal terribile vento del Nord che toglieva il fiato e spezzava le parole. Riguardava i senzatetto, gli ambulanti, la povera gente. Nelle ultime notti erano morte assiderate cinque persone, sotto le gallerie o dentro gli androni. I volontari cercavano di portare aiuto, ma non potevano fare piú di tanto.
La verità, disse Lojacono ad Alex, era che quella città non era fatta per ripararsi dal freddo. Non c’era abituata. Le finestre non chiudevano perfettamente, gli infissi non erano a tenuta, gli impianti di riscaldamento funzionavano poco e male. I grandi locali deputati all’accoglienza del pubblico, uffici, stazioni, posteggi degli autobus, non erano neppure climatizzati. Il gelo non si faceva pregare e si insinuava in ognuno dei centomila varchi lasciati aperti dall’abitudine al caldo come falle in una muraglia.
Subito dopo le notizie sul freddo, e prima di quelle di politica interna ed estera, comprese le varie guerre combattute in giro per il mondo, i media si concentravano sul delitto di vico Secondo Egiziaca. Pareva che la cronaca nera dell’intero paese non offrisse nulla di piú grave, o piú impressionante, della storia dei ragazzi calabresi uccisi con tanta efferatezza nella grande città.
I due investigatori avevano trascorso parte della mattinata a integrare, con l’aiuto di Ottavia, le informazioni relative al padre e al fidanzato di Grazia Varricchio.
Il primo pareva sparito nel nulla. Di sicuro era salito sull’autobus per la stazione, ma dopo se n’erano perse le tracce. Probabile che avesse preso un treno, però non esistevano certezze, perché alla biglietteria nessuno ricordava un viaggiatore che rispondesse alla descrizione: tarchiato, radi capelli ancora neri, occhi penetranti dello stesso colore.
L’amico che lo aveva sentito per ultimo, quello a cui aveva confidato la volontà di andare a riprendersi la figlia, era un vicino di casa, anche lui bracciante agricolo, ormai in pensione. Aveva risposto alle domande dei carabinieri a monosillabi, con l’abituale diffidenza della gente del posto verso le forze dell’ordine. Era chiaro che non voleva mettere Cosimo nei guai, e soprattutto non voleva mettere nei guai sé stesso. Meglio tacere, o dire solo lo stretto necessario.
Qualcosa in piú era saltato fuori sul conto di Foti Domenico, detto Nick Trash. Un ragazzo irrequieto, secondo una sua vecchia insegnante, ma non piú di altri. Trovato con un po’ di erba in tasca a sedici anni, aveva promesso di non farlo piú ed era stato punito con uno scappellotto; per il resto, qualche scherzo notturno nei sonnacchiosi fine-settimana di Roccapriora. Orfano di padre, quattro fratelli piú grandi in giro per l’Italia a lavorare, e al paese una madre anziana e una sorella sposata, alla quale telefonava una volta alla settimana. Una grande passione per la chitarra. Girava sempre con lo strumento, da cui il soprannome Nick la Chitarra, al quale era seguito ’o Parruccone quando si era lasciato crescere i capelli in una spettacolare pettinatura rasta, che pareva portasse ancora. Il suo genere preferito era il reggae, ma era disponibile a cantare di tutto, pur di cantare.
Le fotografie sui social mostravano un bel ragazzo dal sorriso triste. In un paio compariva con Grazia, che aveva il dono naturale di sembrare in posa anche quando non lo era.
Arrivò l’ora giusta per trovarlo nel pub dove lavorava. Alex e Lojacono si avviarono, affrontando il vento che teneva sgombro il cielo e limpidissima l’aria, ma annullava anche l’effetto del sole che pure splendeva forte.
L’ispettore si chiese che temperatura avrebbero raggiunto quella notte, e si preoccupò per Marinella, incline, come tutte le ragazze della sua età, a sottovalutare il freddo nella scelta dell’abbigliamento. Ebbe la tentazione di chiamarla; voleva assicurarsi che per andare a scuola si fosse messa la sciarpa di lana. Poi pensò che Alex lo avrebbe sentito, e comunque la figlia non gli avrebbe risposto, in presenza dei compagni.
Furono fortunati, al Marienplatz stavano già riordinando per la sera. Bussarono alla porta a vetri. Una ragazza sciatta, che masticava una gomma americana, venne ad aprire. Disse che erano chiusi e in ogni caso non servivano pranzo.
– Non vogliamo mangiare, – rispose Alex, secca. – Siamo del commissariato di Pizzofalcone, cerchiamo il signor Foti Domenico.
La ragazza non sembrò impressionata. Squadrò i due dalla testa ai piedi e disse:
– Chi sarebbe? Qua non ci sono signori, e non conosco nessun Foti Domenico.
Lojacono respirò profondamente.
– Senta, signorina, qui fuori c’è freddo. Molto freddo. Ci lascia entrare o dobbiamo chiamare qualcuno e magari vi chiudono per tre o quattro mesi?
La ragazza fece un passo indietro. All’interno si stava abbastanza bene, nonostante un pesante odore di detersivi. Lojacono contò almeno tre giovani impegnati nelle pulizie; un secchio e una spazzola parcheggiati in un angolo indicavano che anche la ragazza masticante partecipava alla festa.
– Dunque, come le dicevo, stiamo cercando una persona che risulta lavorare in questo locale, Foti Domenico.
– E come le dicevo io, non ho idea di chi sia. Qui ci conosciamo piú o meno tutti, ma fra turni e rotazioni saremo una trentina, compresi i cuochi e i baristi. Mica ci presentiamo coi cognomi.
– Dovrebbe essere un tipo abbastanza alto, coi capelli rasta, – spiegò Alex. – Una vera montagna di treccine, a meno che non le abbia tagliate di recente.
Negli occhi della ragazza si accese un piccolo lume.
– Ah, Nick. Credevo si chiamasse Nicola. Siete fortunati, fa parte della squadra di oggi; dovrebbe già essere qui, arriverà a minuti. Ma che ha combinato? L’ha picchiata di nuovo?
A Lojacono e Di Nardo si drizzarono le antenne. L’ispettore capí che bisognava procedere con i piedi di piombo.
– Picchiata? Forse. Quando è successo l’altra volta, esattamente?
La ragazza sorrise, come ricordasse un evento divertente.
– Mamma, che pacchero le ha dato! Un paio di sere fa. Era il fine-settimana. Qui è bestiale, sapete? Proprio un casino. Insomma, arriva questa tizia, bellissima: tutti i maschi avevano gli occhi fuori dalle orbite. Per attirare l’attenzione, in certe sere, serve o una cosí o una bomba atomica.
Alex cercò di stringere.
– Nick era qui? Che stava facendo?
La ragazza la guardò come fosse deficiente.
– Come sarebbe, che stava facendo? Serviva ai tavoli. Senza nemmeno il tempo per respirare. Be’, questa arriva, con la minigonna e il tacco dodici, pareva un’attrice, e va dritta da lui; un altro po’ e tutti si alzavano ad applaudire. Nick invece ha fatto finta di non vederla. Io ero proprio lí vicino. Assurdo: ha continuato a lavorare come se non esistesse nemmeno.
Lojacono assecondò la voglia della ragazza di raccontare l’episodio.
– Continui, la prego.
– Lei lo ha preso per un braccio e lo ha strattonato; a momenti gli faceva cadere dei bicchieri vuoti che teneva su un vassoio. A quel punto Nick le ha mollato uno schiaffone a mano aperta: paf! Il rumore si è sentito a due metri anche con la musica a palla che mettono qua, che la sera usciamo sordi. La ragazza si è toccata la guancia e ha detto: sei una merda. L’ho sentita benissimo. Naturalmente tutti si sono girati dall’altra parte e hanno fatto finta di niente.
– E dopo?
– Dopo Nick ha posato il vassoio, con calma, mi ha detto: Tatiana coprimi tu. E l’ha trascinata fuori. Pareva una telenovela in diretta, pareva.
– E com’è finita? – domandò Alex.
Tatiana alzò le spalle, senza smettere di masticare a bocca aperta il suo bolo di gomma rosa.
– Io che ne so? Passato un quarto d’ora lui è tornato, scuro in faccia, e ha ripreso a lavorare. La ragazza non si è piú vista.
– E lei non gli ha chiesto niente? Insomma, chi era, oppure…
– Ma che, scherza? Io mi faccio i fatti miei, se no qua dentro duri poco, e il lavoro mi serve, cosa crede? Ah, eccolo qua. Nick, vedi che questi ti cercano.
XX.
Sulla soglia del Marienplatz era appena comparso un ragazzo alto con le treccine. Esitò, come fosse stato colto dalla tentazione di girare su sé stesso e andare via. Poi incrociò lo sguardo di Lojacono e si avvicinò.
– Chi siete?
Alex e Lojacono si voltarono per un attimo verso la discreta Tatiana che, pur avendo dichiarato la rigida volontà di farsi i fatti suoi, non accennava a riprendere in mano secchio e spazzola. Forse, col suo racconto, credeva di essersi guadagnata il diritto a essere spettatrice dell’interrogatorio.
– Foti Domenico, immagino, – esordí l’ispettore. – Siamo Lojacono e Di Nardo, del commissariato di Pizzofalcone. Dovremmo parlare con lei. Possiamo allontanarci?
Il ragazzo spostava gli occhi dall’uno all’altra, come per capire le loro intenzioni. Infine annuí e uscí, con palese delusione di Tatiana, che tornò alle sue incombenze.
Di fronte all’entrata del pub c’era un piccolo bar. Si sedettero e Lojacono ordinò due caffè. Nick rispose con un cenno di diniego alla richiesta del poliziotto se volesse qualcosa.
L’ispettore scrutò il ragazzo e decise di sondare il terreno.
– Signor Foti, lei immagina perché siamo qui?
– No, affatto.
Stava fingendo? Se anche non c’entrava con il delitto, possibile che non ne avesse saputo nulla, che non avesse visto un telegiornale o sentito una chiacchiera per strada?
– Ci risulta che lei sia in contatto con Grazia Varricchio, vico Secondo Egiziaca. È cosí?
– Che significa, in contatto? È la mia ragazza. Perché?
– È vero che avete avuto un litigio, di recente? – si inserí Alex.
– Ah, è per quello. Tatiana non vedeva l’ora di raccontarlo a qualcuno, eh? È stata una discussione, magari un po’ movimentata, ma una discussione. Io non so che cosa vi abbia…
Lojacono lo interruppe.
– Da quanto tempo non la vede?
– Da… dalla sera che è venuta qui. Era sabato. Quando litighiamo lei deve cuocere nel suo brodo, lo capite, no? Io aspetto, alla fine lei mi chiama e…
Alex lo incalzò.
– Non vi siete piú sentiti da allora? Non è andato a cercarla o…
Nick scattò in piedi.
– Sentite, mi volete dire qual è il problema? Se è venuta a lamentarsi dello schiaffo, be’, dopo che siamo usciti lei mi ha preso a pugni e mi ha graffiato, guardi qui –. Indicò dei segni sull’avambraccio destro.
Lojacono si alzò e gli mise una mano sulla spalla, facendolo sedere di nuovo.
– Purtroppo devo darle una brutta notizia, signor Foti. Grazia e il fratello sono stati trovati morti nel loro appartamento, ieri mattina. Li hanno uccisi.
Subito il ragazzo non cambiò espressione. Poi il suo viso fu percorso da meraviglia. Abbozzò persino un’ombra tiratissima di sorriso, quasi fosse convinto Lojacono gli stesse facendo uno strano, incomprensibile scherzo.
Tentò di parlare, ma non ci riuscí. Fissò Alex, come per chiedere aiuto. Non si scherza su queste cose, glielo spieghi lei che deve dirmi subito che non è vero. Ho capito, siete due amici di Grazia, o del fratello magari, e adesso lei sbucherà da qualche parte e mi prenderà in giro: ecco, lo vedi come ti sentiresti, se mi perdessi per sempre.
Per sempre.
Lojacono e Alex aspettarono, in silenzio. In quei frangenti odiavano il lavoro del poliziotto: portare l’annuncio della morte. Erano le loro facce che Domenico Foti avrebbe avuto davanti agli occhi ogni volta che avrebbe ricordato quel momento.
A meno che non stesse recitando.
A meno che non fosse stato lui a spegnere le vite dei due giovani in vico Secondo Egiziaca.
A meno che i graffi che ancora stava indicando, come paralizzato, non fossero le conseguenze dell’estrema, disperata difesa della donna che aveva amato.
Il labbro inferiore di Nick cominciò a tremare, e lo stesso fecero le mani, che aveva appoggiato sul tavolino.
– Come… come è successo? Che vuol dire uccisa? Un incidente? La caldaia, la stufa… fa freddo, lei soffriva il freddo. Sentiva sempre freddo. Che vuol dire uccisa?
Lojacono sospirò. Sperava non fosse tutta una recita, il dolore sembrava cosí vero.
– No, non è stato un incidente. Non possiamo entrare nei particolari, ma si tratta di omicidio. Un duplice omicidio.
Nick strinse gli occhi.
– Il padre. Il padre. Avete parlato con il padre?
– Non lo abbiamo ancora rintracciato.
– Lei… aveva paura. Pensava che sarebbe venuto qui, in città, per riportarla a casa. L’aveva chiamata, l’aveva minacciata. Lui… lo sapete, di lui? È stato in galera, ha ammazzato uno.
– Signor Foti, dov’era nella notte tra ieri e l’altroieri?
La domanda era stata posta da Alex con tono gentile, ma esplose come una bomba, determinando nel ragazzo una reazione di assoluta sorpresa, come se qualcuno gli avesse chiesto i principî di base della fisica quantistica.
Spalancò gli occhi e si portò una mano al petto.
– Dov’ero io? Ma voi pensate che… Il nostro era un litigio tra fidanzati, abbiamo litigato un milione di volte cosí. Lei era la donna della mia vita, io l’amavo. Non le avrei mai fatto del male, mai.
Lojacono decise di rassicurarlo. Che fosse innocente o colpevole, non era quello il momento di calcare la mano.
– Cerchi di capire, è la procedura. Vi hanno visto litigare solo due giorni prima, e noi abbiamo l’obbligo di vagliare ogni possibilità. Non significa che sospettiamo di lei o di chiunque altro. È troppo presto. Ma dobbiamo farci un quadro completo della situazione. Immagino sia anche suo interesse che arriviamo presto a una soluzione del caso.
Foti continuava a fissarli allucinato. Sembrava fosse precipitato in un terribile incubo e aspettasse di svegliarsi da un istante all’altro. Tirò un respiro profondo.
– Ero a casa, a dormire. Come sempre quando non lavoro o non suono. Perché io suono la chitarra e canto, e ogni tanto riesco anche a farlo a pagamento. Per questo sono venuto in città, per farmi notare da qualcuno. E lei, Grazia, è venuta per me. Dio mio.
Alex e Lojacono conoscevano bene quel processo mentale per il quale, a mano a mano che la mente collegava gli eventi, gli scenari assumevano nuove forme e le colpe si ridistribuivano. Se non fossi venuto qui per questa cazzata della musica, stava pensando il ragazzo, Grazia sarebbe ancora viva.
A meno che, naturalmente, non rientrasse tutto nella recita.
– Dove abita, lei? Qualcuno potrebbe…
– No. Nessuno potrebbe. Vivo da solo in un monolocale seminterrato nei Quartieri Spagnoli. Via Speranzella, 18. Siccome rientro molto tardi, avevo bisogno di un ingresso indipendente, oltre che di un posto che costasse pochissimo. La stanza farebbe schifo anche ai topi, ma a me non importa. Comunque sono andato a dormire alle dieci e mi sono svegliato la mattina dopo molto tardi. Essendo il giorno di chiusura del locale, non dovevo andare al lavoro.
Niente alibi, quindi. Nessun testimone. Lojacono decise di cambiare argomento.
– In che rapporti era con il fratello di Grazia? Eravate amici?
Nick non riusciva a riguadagnare il territorio della realtà. Era sotto shock.
– Chi, Biagio? Ci conoscevamo già al paese; là ci conosciamo tutti. Ma quando io e Grazia… quando abbiamo cominciato la nostra storia, se n’era già andato. Ci incrociavamo, qualche volta, ci salutavamo, ma era un tipo riservato, chiuso. Voleva molto bene alla sorella, e questo ci accomunava. Magari non gli andavo molto a genio. Penso che avrebbe preferito un impiegato di banca, o meglio ancora un professore universitario. Però Grazia si era innamorata di me.
Cominciò a piangere. Ebbe un conato, e Lojacono temette che stesse per vomitare, poi prese a scuotere le spalle, con gli occhi inondati di lacrime e il viso contratto a intervalli in una smorfia.
Continuò a parlare tra i singhiozzi.
– Qualche tempo fa abbiamo passato una serata tutti e tre insieme, a casa loro. Abbiamo cenato, ci siamo divertiti. Biagio mi ha chiesto dei miei progetti. Ha anche detto che, se proprio volevo incidere un disco, forse avrebbe potuto darmi una mano con i soldi. Eravamo diversi, ma per amore di Grazia, chi lo sa, potevamo pure diventare amici. E adesso… anche lui. Dio, Dio… Come faccio adesso? Me lo dite che cosa devo fare?
Alex e Lojacono si guardarono.
A quella domanda non c’era risposta.
XXI.
Fermi in macchina davanti all’entrata di una banca come una coppia di rapinatori di un brutto film americano degli anni Settanta; solo che nei film non faceva freddo.
Romano si rese conto di avere fatto quella riflessione a mezza voce quando gli arrivò la risposta piccata di Aragona.
– Non capisco che tenete tutti contro i film americani degli anni Settanta e Ottanta. È stato un periodo d’oro, con attori fantastici che impersonavano poliziotti meravigliosi, non come oggi che ci mostrano tutti come i Bastardi di Pizzofalcone, quelli veri, corrotti e cocainomani. Allora i tutori della legge erano eroi che…
Romano lo fermò.
– Arago’, la sai quella battuta di quando uno dice: potrebbe andare peggio, potrebbe piovere, e si mette a piovere? Proprio questo stavo pensando: potrebbe andare peggio, Aragona potrebbe parlare. E infatti ti sei messo a parlare. Già mi sento un fesso a stare qua aspettando non so nemmeno che cosa. Ci mancavi tu che mi fai una lezione di Storia del cinema.
– Era per precisare. Un contributo culturale, non è che uno deve essere ignorante per forza. E comunque lo abbiamo deciso insieme di vederlo di persona, ’sto tizio. Per capire se andare avanti.
– E da che cosa lo deduciamo se è un maledetto pervertito, dal colore degli occhi? Credi che quelli cosí abbiano un colorito particolare, o girino in costume di scena?
Aragona fece una smorfia.
– No, però sono del parere che, se la sua faccia non ci racconta nulla, proseguire l’indagine è inutile. Magari dopo tentiamo ancora con la madre, chissà che si convinca a essere meno reticente, altrimenti torniamo alla scuola e diciamo che non è emerso niente, ma che se ritengono di fare una denuncia la facciano pure e noi investiamo la procura dei minori, come ha detto il commissario. È cosí che avevamo stabilito, no?
Romano mantenne lo sguardo sulla porta della banca. Aveva un filo di barba sulla faccia e l’aria di chi non ha dormito per tutta la notte.
– La madre… la madre mi è parsa strana. Come se si sentisse in colpa. Se avesse detto soltanto che non ci credeva, che non dovevamo nemmeno permetterci di dubitare, eccetera, mi sarei fatto un’idea. Se fosse caduta dalle nuvole, me ne sarei fatta un’altra. Invece ho avuto l’impressione che sapesse qualcosa, però qualcosa… di diverso. Non so spiegare.
Aragona non era certo di avere capito le parole del collega.
– Bah, io ho letto quello che la bambina ha scritto e mi basta per voler scoprire che cosa succede in quella casa. E per scoprirlo devo guardare il tizio negli occhi. Attento, eccolo che esce.
L’agenzia era piccola e il personale – la politica del risparmio delle risorse valeva per tutti – era limitato a un direttore, un uomo elegante con i capelli brizzolati, un po’ piú anziano degli altri, e tre impiegati, due donne e un uomo: il signor Parise, appunto, il papà di Martina. Romano e Aragona avevano concordato di attendere l’intervallo del pranzo; i clienti erano troppo pochi per entrare senza dare nell’occhio.
Quella mattina avevano chiesto a Ottavia di svolgere una delle sue ricerche su internet; l’avevano anche pregata di non dire niente a nessuno, nemmeno a Palma, perché per il momento volevano solo avere un quadro completo della situazione.
Lei, sensibilissima all’argomento dei maltrattamenti sui bambini, aveva accettato. Dopo un’ora passata a scandagliare la rete, aveva indirizzato loro un cenno d’intesa.
«Ragazzi, mi offrite un caffè? Una volta al giorno ho piacere di ricordare che sapore ha. Quello che ci infligge Guida con la sua terribile macchinetta sta peggiorando, se possibile».
Al bar aveva tirato fuori alcuni fogli stampati.
«Dunque, il tizio si chiama Sergio e sembra la perfetta raffigurazione della tristezza. Ha ventuno amici su Facebook, in pratica equivale a non averne, se non lo sapeste, tutti ex compagni di scuola che rispondono per monosillabi ai suoi patetici ricordi dei bei tempi andati. È un ometto anonimo con l’hobby della fotografia, arte in cui peraltro non eccelle. Scatta molti ritratti della moglie e della figlia, che sono davvero belle. Soprattutto la moglie mi pare davvero molto, molto al di sopra della media».
Aragona aveva sospirato.
«Decisamente una gran femmina. Mi chiedo perché abbia sposato uno cosí».
Ottavia aveva cercato un altro foglio.
«Leggendo e interpretando un po’ di frasi trovate qua e là, fra cui ci sono pure poesie e aforismi di grandi filosofi, ho concluso che quando si sono messi insieme lei era poco piú di una bambina, ed è rimasta incinta. C’è un post in cui il Parise cerca di attaccare bottone con un suo ex compagno di università e nel quale ricorda che non poté partecipare a un seminario perché la bambina non stava bene. Lui aveva ventiquattro anni, era già fuori corso e non si è piú laureato. Ora dovrebbe averne trentasei».
«Questo spiega parecchio, – aveva detto Aragona. – Certe scelte poi ti orientano la vita».
«Ma è emerso altro? – aveva domandato Romano. – Che so, foto porno, frasi da maniaco…»
«No. Le fotografie sono normalissime. Martina con la madre, mentre va in bici, in montagna, al mare… Dovessi dire, non sorride molto, la ragazzina: ma non significa nulla».
«E lui, com’è fisicamente?»
«Te l’ho detto, anonimo. Statura media, stempiato, vestito in maniera scadente. Uno come tanti. Anzi, uno come quasi tutti. Guarda tu stesso».
Lo aveva indicato su uno dei fogli stampati.
E ora eccolo, Sergio Parise, che si incamminava nel freddo verso la salumeria lí accanto, incassato dentro un giaccone dalla foggia antiquata, i pochi capelli agitati dal vento. Romano e Aragona uscirono dalla macchina e lo seguirono.
All’interno del negozio c’era una piccola folla, ma Parise doveva avere un accordo con il proprietario, perché ritirò un involto di carta gialla già pronto, pagò e si diresse al bar in fondo alla strada. Trovò un tavolino all’interno, si sedette, chiese una mezza minerale, aprí con cura il pacchetto ed estrasse uno sfilatino con la mortadella, che azzannò famelico.
Dal suo punto d’osservazione, al banco, Romano considerò che si trattava di un uomo tanto normale da mettere spavento. Trentasei anni, troppi per sperare in una nuova esistenza, in prospettive di carriera, in altre occasioni, pochi per rassegnarsi, per non guardare piú avanti, per ripiegarsi su sé stessi e aspettare la fine. Un lampo di autocoscienza gli attraversò la mente e una spiacevole voce interiore gli domandò che cosa stesse aspettando ancora, lui, dalla propria vita. La tacitò con fastidio e riportò l’attenzione sull’ometto.
Era vestito in modo dozzinale. Una brutta giacchetta sui toni del marrone, una camicia sportiva mal stirata e una cravatta sgargiante e macchiata. Jeans di marca sconosciuta, un paio di scarpe di cuoio lucido con la suola di gomma. Chissà se era imbarazzata, la moglie, quel gran pezzo di donna, camminando al fianco di uno cosí il sabato sera.
Aragona, per non smentirsi, si era concentrato su due ragazzine che mangiavano un dolce chiacchierando. Dovevano essere liceali, attorno ai diciott’anni. Erano carine e agghindate in maniera provocante; una fascia di pelle tatuata sporgeva dai pantaloni a vita bassa, il giovane seno era spinto in su da un sapiente push-up. Ridevano cercando maliziosamente di attirare l’attenzione di un bel ragazzo che, poco lontano, ascoltava musica con gli auricolari e leggeva un libro.
Romano stava per tirare una gomitata al collega, per ricordargli che non erano venuti lí ad adescare adolescenti, quando Aragona agguantò un pacco di biscotti dall’espositore e andò al tavolino di Parise.
– Permette? Le dà fastidio se mi metto qui?
Sia Romano, in piedi a un metro di distanza, sia Parise rimasero sorpresi dall’iniziativa. Il bancario rimase col boccone a metà, si guardò attorno per indicare un eventuale altro posto libero a quell’avventore invadente ma, non vedendolo, si rassegnò.
– Faccia pure, – disse con la bocca piena.
Aragona si accomodò.
– Sa, con questo freddo trovare da sedersi in un bar è quasi impossibile. Mangio qualche biscotto e me ne vado; rientro al lavoro fra mezz’ora.
Parise annuí, continuando a masticare.
– Pure a me resta piú o meno mezz’ora. Sto alla banca all’angolo. Potrei mangiare dentro, ma mi mette tristezza non uscire dall’ufficio per tutta la giornata.
Aragona gli indirizzò un’espressione complice.
– A chi lo dice. Sempre con il brutto muso dei colleghi davanti. Alcuni sono insopportabili, non sorridono mai.
Romano, che riusciva ad ascoltare perfettamente la conversazione sorbendo il caffè, si ripromise di prendere Aragona a calci nel sedere alla prima occasione. Tuttavia non poté trattenere una lieve espressione divertita.
– Non è questione di colleghi, – rispose Parise, – noi siamo solo in quattro. È proprio il luogo, che mette tristezza. Uno non vede l’ora di tornarsene a casa.
– Capisco. Io sono socio in uno studio legale, non qui vicino; ero da un cliente. A casa però non ci torno volentieri, vivo da solo. Lei? È sposato? Ha figli?
Una domanda gettata lí al momento giusto; nulla per cui insospettirsi. Bisognava ammetterlo: Aragona sapeva portare la conversazione dove voleva lui.
– Sí. Ho una figlia, ha dodici anni e mezzo. Sta diventando grande, mi sembra incredibile. Per me è sempre la mia piccolina. Mia moglie lavora anche lei, e la sera è sempre stanca, ma la famiglia è la famiglia, sa com’è.
Aragona ridacchiò.
– A essere sincero no, ma lo immagino. Io preferisco la libertà. Non è meglio avere la possibilità di portarsi a casa una diversa ogni sera?
Confidenze tra uomini a sfondo sessuale. Romano si chiese dove il collega volesse arrivare, e si accorse anche che ogni tanto lanciava un’occhiata verso le due liceali, per assicurarsi che fossero ancora là.
– No, per me no. A casa ho tutto quello che mi serve. Vorrei solo, ripeto, che mia moglie non fosse costretta a fare tardi. Certe volte mi preparo la cena da solo. Arrivare a casa e non trovare nessuno, quello è triste. Mi dispiace per lei.
– No, no, io sto benissimo. Forse è una fase, magari da un momento all’altro viene pure a me il desiderio di una famiglia. Ma non ha detto di avere una figlia? Almeno, se la signora è al lavoro, c’è lei, no?
Romano trattenne il fiato. Troppo confidenziale. Forse, adesso, l’uomo avrebbe replicato: che gliene importa di chi trovo a casa? Lui lo avrebbe fatto, pensò. Ma Parise non doveva avere molte occasioni per chiacchierare, perché abboccò all’amo.
– Sí, ma spesso la madre se la porta dietro. Non vuole… non vogliamo lasciarla sola. Questi sono tempi strani, non ci si sente sicuri nemmeno in casa propria. Non crede?
Aragona finse di masticare un biscotto e bofonchiò qualcosa.
Parise continuò.
– Quindi spesso mi ritrovo da solo. Mia moglie lavora in un importante negozio di vestiti e ha la massima fiducia del proprietario, che infatti la coinvolge perfino nella contabilità; certe volte deve trattenersi oltre la chiusura. Ripeto, mi piacerebbe poterla liberare da questa fatica, ma guadagna tanto, quanto me e certe volte di piú. I bambini costano, bisogna fare dei sacrifici.
– Immagino. E sua figlia che tipo è? Cioè, studia, no?
Stavolta Romano colse una punta di diffidenza nella voce di Parise.
– Certo che studia, non ha ancora tredici anni! E spero che andrà all’università, e che a differenza di me prenderà la laurea. È brava, i professori sono contentissimi. Io, purtroppo, con questo mestiere mi perdo tutti gli incontri a scuola, ma mia moglie ci va e riceve un sacco di complimenti. È brava, mia figlia. Bella e brava.
C’era qualcos’altro, oltre all’orgoglio di padre? Bella. Una ragazzina cosí piccola.
Aragona decise di giocarsi l’ultima carta. Fissò il sedere di una delle liceali, che adesso muovevano la testa al ritmo della musica diffusa nel locale dalla radio. Il giovane con le cuffie non aveva mai sollevato la testa dal libro.
– Certo, le ragazze fresche sono un’altra cosa rispetto alle donne mature. Le vede quelle due, che incanto. Hanno un sedere che gli manca solo la parola.
L’uomo seguí gli occhi di Aragona e quando capí dove erano puntati si girò di scatto, arrossendo.
– Avranno meno di sedici anni, – disse in un sussurro, – non si guardano nemmeno due cosí!
Aragona finse sorpresa.
– Ma no, ne avranno almeno diciotto. E poi ha visto come sono vestite? Senta me, quelle non aspettano altro che un paio di uomini veri le avvicinino.
Parise si alzò di scatto, raccogliendo la carta del panino e le briciole.
– Non si guardano, le ragazzine, – disse duro. – Io ho una figlia, ricorda? Non si guardano, le ragazzine!
E uscí a passo svelto.
XXII.
Giorgio Pisanelli arrivò ai giardini della Biblioteca Nazionale trafelato e con qualche minuto di ritardo. Non che avesse un vero e proprio appuntamento, ma in un altro paio di circostanze era capitato che per un soffio l’avesse mancata, e non voleva succedesse ancora.
Solo che con quel casino del duplice omicidio, e la conseguente maggiore attenzione puntata sul commissariato, tutti erano diventati parecchio nervosi. Palma era sempre in contatto con la questura, che voleva essere informata passo passo degli eventuali progressi, fin lí peraltro nulli; i colleghi che andavano in giro per la città facevano riferimento a lui e a Ottavia per reperire informazioni su questo o quello; Ottavia stessa, da sempre il ritratto della calma, oltre a smanettare al computer si era messa pure a fare un sacco di telefonate, e gli chiedeva un aiuto. Per esempio, poco prima aveva voluto che controllasse di nuovo se all’università Biagio Varricchio coltivasse un rapporto particolare con qualcuno di cui non erano al corrente, ma il ragazzo, al di là di qualche conoscenza in laboratorio, non frequentava nessuno.
Uscito dal viale si guardò attorno. Faceva freddo e non si vedeva la solita confusione multicolore di bambini. Anzi, lo spazio circondato dagli alberi attorno alla fontana, dove in genere si sedevano a chiacchierare mamme e baby-sitter, era vuoto, a parte due gatti impegnati a disputarsi l’esile striscia di sole che attraversava il prato.
Pisanelli riprese fiato. Il velo di bianco che ricopriva le foglie e il pelo dell’acqua conferivano al paesaggio un aspetto nordico. Se il cielo fosse stato attraversato dalla slitta di Babbo Natale, con piú di un mese di anticipo, non ci sarebbe stato niente di strano.
Poi, con la coda dell’occhio, l’anziano poliziotto colse un movimento. Su una delle panchine, all’ombra, era seduta una donna che, con gesto lento e meccanico, prendeva qualcosa da un sacchetto e lo spargeva davanti a sé, mentre un paio di uccellini beccavano.
Era lei.
Si erano conosciuti la settimana precedente, prima che il delicato autunno evolvesse in una gelata siberiana. Quel giorno Pisanelli non aveva voglia di tornare a casa, e nemmeno di attardarsi al lavoro: troppo dolce l’aria, piena di profumi del mare, e troppo piacevole il tepore del sole. Aveva sempre avuto una passione per il piccolo parco del Palazzo Reale, davanti alla Biblioteca Nazionale. Gli piaceva guardare i bambini che giocavano, le mamme che chiacchieravano, gli studenti sdraiati al sole con un libro in mano e le cuffiette alle orecchie. Erano scene che sapevano di famiglia: gli ricordavano il tempo della sua vita in cui era stato felice senza rendersene conto.
La felicità si riconosce a posteriori. È il prezzo che paghiamo per il nostro essere sempre proiettati verso il futuro: i giorni, le settimane, i mesi che verranno. Facci caso, aveva detto una volta Pisanelli a frate Leonardo, il minuscolo francescano della Santissima Annunziata che era il suo unico, vero amico: siamo felici solo nel passato. Dal passato emergono ricordi di una mattinata, di una festa, di un pranzo, magari con una persona cara che non c’è piú, come nel mio caso, o semplicemente della gioventú perduta, ed ecco che sorge lancinante il rimpianto. Eppure, in quel momento che stai ricordando, eri davvero felice? No, non lo eri. Pensavi al mutuo, alle vacanze, a un paio di scarpe nuove, non sapevi che di lí a qualche anno ne avresti avuto nostalgia.
Su questo stava ragionando l’anziano poliziotto in quel tardo pomeriggio di sole e di profumi, quando l’aveva scorta, anche allora intenta a gettare briciole agli uccelli. E aveva subito riconosciuto quegli occhi. Persi nel vuoto e nel silenzio, vacui: occhi che non vedevano futuro. E aveva provato un tuffo al cuore.
Non aveva mai saputo spiegare, a chi glielo aveva chiesto, la sua ossessione per i suicidi. La maniacale raccolta di articoli e testimonianze, di fotografie dei luoghi dove cosí tante persone avevano, secondo le conclusioni di tutti, posto volontariamente fine alla propria vita. Non aveva mai saputo spiegare il perché di quella che sembrava una perversione, una deviazione della personalità.
Carmen, la sua Carmen, non ce l’aveva fatta a sopportare il dolore, una maledetta tenaglia che la stava consumando. Aveva deciso di mollare, di scappare via. Aveva deciso di morire.
Ma voler morire è una cosa, non voler piú vivere è un’altra.
Capiva la fuga dalla sofferenza, capiva che qualcuno si svegliasse senza piú le forze per arrampicarsi su una montagna che si faceva sempre piú impervia. Lo capiva, questo.
Però la malattia gentile che ti toglie l’energia un po’ alla volta, lo svuotamento del cuore, la perdita di desiderio verso le cose che ci circondano, la mancanza di qualcuno, la solitudine non erano feroci quanto il dolore del corpo, non erano sufficienti, di per sé, a far scegliere la morte. I volti che si accumulavano nei suoi dossier, gli occhi impacciati nelle fotografie dei documenti o persi nella fissità cadaverica, erano solo stanchi. Di lí a un giorno, a un mese, a dieci anni avrebbero potuto trovare un nuovo motivo per abbracciare la vita.
Lui, per esempio. Era vecchio, malato, aveva perso la donna che amava – aveva un figlio, sí, Lorenzo, ma ormai era adulto, aveva affetti suoi e viveva lontano, non aveva bisogno di un padre, né della fiacca telefonata settimanale che si facevano al sabato – eppure non aveva certo intenzione di morire, anzi. Doveva vivere, e pure lavorare, se voleva scoprire chi, sostituendosi al Padreterno, aveva ucciso quella gente e perché.
Lo aveva detto chiaro a Leonardo, l’unico con cui ne aveva parlato a lungo: avere una missione è un motivo per tirare avanti; la tua è salvare le anime, la mia catturare chi le separa dai corpi. Il frate insisteva a spiegargli che nessuno faceva una cosa del genere, che si trattava, purtroppo, della vittoria del male di vivere sulla vita stessa, ma lui non ci credeva. E continuava a scavare in quelle esistenze per individuare il momento in cui avevano incrociato lo sguardo e le mani del loro carnefice.
Da qualche tempo, però, aveva concluso che avrebbe avuto maggiori possibilità di successo nelle indagini cercando di prevenire le mosse dell’assassino, piuttosto che tentando di ricostruirne il disegno omicida a forza di compulsare i frettolosi verbali redatti da colleghi che non ritenevano di dover andare a fondo della faccenda.
Poiché i casi sospetti si concentravano nel suo quartiere, Pisanelli ne batteva le strade in lungo e in largo allo scopo di riconoscere in anticipo le possibili vittime, persone che si facevano notare per la fatica con cui si trascinavano durante il giorno. Donne e uomini che assumevano psicofarmaci, che avevano perso da poco qualcuno, che si erano ammalati, che erano falliti in un’impresa economica, che, in poche parole, erano caduti nella spirale della depressione.
Non era stato fortunato, ancora. Ma sentiva che era la strada giusta.
La settimana precedente, Agnese, la donna per cui era venuto lí, era vestita come adesso, solo che c’erano almeno trenta gradi in piú: un soprabito leggero, chiuso fino al collo, dal quale spuntavano una lunga gonna di tela e due calze spesse, nere. I capelli le pendevano inerti nascondendo i lineamenti di un volto senza espressione. Poteva avere qualsiasi età dai trenta ai sessanta, ma era probabile che fosse sui quaranta. Gli occhi scuri, forse in un lontano passato perfino belli, sembravano ciechi, sbarrati su un panorama che non vedevano.
L’attenzione di Pisanelli era stata richiamata da un uomo coi baffi che aveva invitato la donna a non riempire il vialetto di pezzetti di pane, perché avrebbero attirato topi e blatte. La durezza del rimprovero, e l’evidente terrore della poveretta, incapace di ribattere, avevano suscitato la pietà del poliziotto, che era intervenuto, si era qualificato e aveva detto che ci avrebbe pensato lui. Sedutosi al suo fianco, aveva preso a parlarle con voce calma, mentre l’uomo con i baffi, fermatosi qualche metro piú in là a osservare la scena, esibiva un’aria contrariata. Solo dopo un po’ Agnese aveva cominciato a rispondergli: all’inizio con qualche monosillabo, poi con confidenza sempre maggiore.
Era stata sposata. La perdita di un bambino durante la gravidanza aveva allontanato il marito. L’aveva lasciata poco prima che lei perdesse anche la madre per una malattia fulminante. Tirava avanti con i soldi di una casetta che aveva dato in affitto; non aveva parenti, né lavoro, né amici.
Parlando con lei a Pisanelli sembrava di affondare in una palude scura e profonda, da cui sembrava impossibile riemergere. Eppure in quella solitudine integrale si scorgeva un barlume: una volontà disperata di sopravvivere.
Agnese sognava. A intervalli, tra sonno e veglia, incontrava il figlio che non era nato e che forse, proprio per questo, aveva influenzato il suo destino. Lo vedeva con il grembiule indosso, alla vigilia del primo giorno di scuola; lo sentiva rivolgersi a lei chiamandola mamma.
Glielo aveva confessato al terzo incontro, sempre sulla stessa panchina, guardandosi attorno per paura che qualcuno la sentisse. Temeva di essere pazza, e che se se ne fossero accorti l’avrebbero rinchiusa in una casa di cura. Allora lui, il bambino, per cui aveva scelto il nome di Raimondo, non sarebbe piú venuto a trovarla.
Agnese era consapevole che Raimondo non era reale. Ma nemmeno gli angeli si sono mai visti, no? E allora che c’era di male se almeno con la fantasia si appropriava di un piccolo pezzo della felicità che non aveva avuto?
La felicità è nel passato, aveva ripetuto a sé stesso Pisanelli. Nel ricordo o nel rimpianto. Era lieto che la donna si fosse aperta con lui, felice di poter essere la zattera che la salvava dall’ultimo, definitivo naufragio. E si era sentito confortato nella propria convinzione: le persone come Agnese non vogliono morire. Vogliono continuare la loro vita fatta di frammenti di ciò che è stato.
Si sedette vicino a lei. La panchina era gelata e il ferro gli morse la carne attraverso i pantaloni. Distese bene le falde del cappotto per trovare conforto.
– Ciao, Agnese, – disse. – Non fa troppo freddo per starsene qui? Non sarebbe meglio ripararsi?
La donna distolse a fatica lo sguardo dal vuoto che aveva davanti. Era livida, eppure non tremava. Lo fissò come se non lo vedesse, poi, lento e irresistibile, dal fondo dei suoi pensieri scaturí un sorriso.
Quando sorrideva sembrava scrollarsi di dosso almeno dieci anni, e forse era proprio cosí.
– Ciao, Giorgio. Ti aspettavo. Lo vedi quel passero là? È nuovo. Ieri non c’era.
Pisanelli non avrebbe saputo distinguere uno sparviero da un passero, però annuí.
– È vero. Brava, Agnese. Proprio cosí, è uno nuovo. Sei contenta?
Lei abbassò la voce.
– Sai, ho pensato che magari Raimondo potrebbe avere voglia di vedermi. In fondo nei sogni io vedo lui, ma non sono certa che lui veda me. E allora, forse, ha chiesto di raggiungermi in forma di passero. Perché è molto strano che con questo freddo ci sia un passero nuovo, no?
– Certo, Agnese. Può essere. Chissà. Ora dimmi, hai incontrato qualcuno, oggi? Si è avvicinato, che so, un uomo o una donna? Ricordi, hai promesso che me lo avresti raccontato, se fosse successo.
Lei tornò all’espressione vacua e scosse leggermente il capo.
Il poliziotto allungò la mano verso il cartoccio, prese delle briciole e le lanciò verso il passero, che ne beccò una.
Agnese sorrise. Pisanelli pure.
XXIII.
Lojacono e Alex erano in commissariato da mezz’ora e, dato che Guida non era ancora riuscito a tarare la caldaia su una temperatura accettabile, quasi rimpiangevano il clima artico dell’esterno.
– A forza di subire questi sbalzi, ci verrà un accidente, – disse l’ispettore. – Già mi sento la febbre addosso. Ma dove sono gli altri?
Ottavia, che si era portata da casa in borsa una camicetta leggera, rispose:
– Aragona e Romano sono in giro per quella storia della bambina. Pisanelli ha detto che aveva un mezzo appuntamento; è un po’ di giorni che all’ora di pranzo si allontana sempre. Il commissario è di nuovo in questura, poverino: hanno chiamato per concordare con lui un piano di comunicazione. Voi avete novità?
Alex riferí del colloquio con Foti, il fidanzato della ragazza. Alla fine del racconto, commentò:
– Io un’impressione di reticenza, almeno parziale, l’ho avuta. Per esempio, è stato vago sul suo litigio con la Varricchio. Insomma, mi è parso di cogliere un’esitazione. Tu, Lojacono?
– Sí, può essere. Certo sembrava parecchio sconvolto. Forse dovremmo risentirlo appena si sarà tranquillizzato un po’.
Ottavia assunse un’espressione furba.
– Se volete ve la faccio io un’ipotesi circa il motivo della discussione. E senza muovermi da questa scrivania.
I due si guardarono attoniti.
– Potresti essere piú chiara? – domandò Alex.
La Calabrese indicò il computer.
– Voi non avete idea di quello che si trova qui dentro. Stamattina, approfittando di un istante di quiete, ho girato per i profili dei ragazzi e scandagliato l’ambiente dei giovani in generale. Lo sapevate che da un paio di mesi Grazia Varricchio lavorava per un’agenzia di modelle per sfilate e servizi fotografici?
Lojacono negò con il capo.
– No. Che genere di agenzia è?
– Si chiama Charles Elegance. Opera al Centro Direzionale, isola T, fabbricato 3. Il proprietario è un certo Carlo Cava. Da quello che ho capito spulciando il sito, è abbastanza addentro all’ambiente della moda: abiti da sposa, collezioni di stilisti locali e pure costumi da bagno e intimo.
Alex era stupefatta.
– E come l’hai scoperta questa cosa?
– Facile: l’agenzia ha messo un album di foto sul suo profilo con una specie di backstage di un servizio fotografico, e il nome era riportato con le iniziali. È bastato mettere le due lettere sul motore di ricerca e perdere un po’ di tempo smanettando qua e là. Guardate.
Girò verso di loro lo schermo, mostrando una serie di scatti in cui alcune ragazze avvenenti posavano in costume da bagno. Alex e Lojacono riconobbero subito Grazia, di gran lunga la piú bella, e la piú luminosa.
– Credo valga la pena approfondire, – riprese Ottavia. – Che tipo di sfilate aveva fatto, quante, quale rapporto avesse con l’agenzia, eccetera. Il numero di telefono e l’indirizzo sono su questo foglietto.
Lojacono lo intascò.
– Il capo ha ragione, sei una macchina da guerra. Del padre non si sa ancora niente, vero?
Ottavia alzò un dito.
– Una cosa alla volta. Non eravate interessati a capire quale potesse essere la ragione di quella discussione tra Grazia e il fidanzato? Il ragazzo, secondo me, sapeva qualcosa delle fotografie e delle sfilate, e non apprezzava. Ho trovato uno status su questo argomento. Voi sapete che cos’è uno status, vero?
Alex annuí e Lojacono negò. La Calabrese decise di fornire una breve spiegazione.
– Uno status è, per esempio, un pensiero, una riflessione o appunto uno stato d’animo che qualcuno condivide sul proprio profilo del social. In pratica: sto pensando questa cosa e ve lo voglio dire.
Lojacono era perplesso.
– Ah, sí? E chi se ne frega?
Alex e Ottavia risero.
– Invece molta gente è interessata, piú di quanto immagini. Il nostro Nick Trash, per capirci, ha un seguito niente male; ho anche visto che alcune sue canzoni, i cui filmati sono disponibili in rete, sono state visualizzate diverse migliaia di volte, e i commenti, soprattutto con nomi femminili, sono abbastanza entusiastici. Non è il mio genere, ma tant’è.
Alex tornò a bomba.
– E questo status di cui parlavi?
Ottavia smanettò per qualche istante.
– Ecco, leggi. Lo ha scritto venerdí scorso, due giorni prima del delitto.
Sullo schermo comparve la fotografia del volto – e soprattutto della capigliatura – di Foti, con la scritta: «Certe pensano che basti far vedere il culo in una foto per valere di piú. Ma un culo è un culo, e non vale mai una faccia pulita».
Lojacono fece una smorfia.
– Profondo. Chi è, Confucio o Marx?
Ottavia rise.
– Vabbe’, ammetto che non lo inciderei sulla porta di casa, però secondo me la possibilità che si riferisca a Grazia è abbastanza concreta.
Alex rifletté:
– Non credo che uno scriverebbe una cosa del genere su internet prima di ammazzare la propria fidanzata.
– Non se l’omicidio è premeditato, – intervenne Lojacono. – Se invece è frutto di un’ispirazione momentanea…
Ottavia fece spallucce.
– Sta a voi verificare. Per quanto riguarda il padre, nessuna notizia. Ho sentito il mio amico appuntato. Pare che a Roccapriora non si parli d’altro. C’è il pieno di giornalisti e ogni fesso dice la sua ai microfoni tirando fuori ricordi, impressioni e congetture strampalate. Lui ha sentito di nuovo il famoso amico bracciante. È sicuro che abbia tentato di mettersi in contatto con Cosimo Varricchio, ma è altrettanto certo che non ci sia riuscito. Abbiamo diramato il nome e le foto segnaletiche alla polizia ferroviaria e alla stradale. Stiamo a vedere.
Rientrò Palma; si toglieva cappotto e giacca di dosso con movimenti frenetici.
– Mamma mia, Guida vuole ucciderci tutti con questo riscaldamento. Secondo me è stato il questore a ordinarglielo, cosí non avrà piú dubbi su cosa fare di questo posto. Novità?
Udito il rapporto rimase un attimo in silenzio, a riflettere.
– Cominciamo ad avere uno straccio di pista, quindi. Fateci un salto, a questa agenzia. Meno male che Ottavia ha scoperto la storia prima della stampa. Non avete idea, ci stanno mettendo in croce, la questura è sottoposta a una pressione costante. Tra un po’, mi diceva la portavoce, dovremo diramare un comunicato. Qualcosa in pasto dobbiamo dargliela.
Lojacono annuí.
– Intanto noi abbiamo detto a Foti di non allontanarsi dal proprio domicilio. Il tempo di mangiare un boccone, se non altro per difenderci dal freddo, e ci rimettiamo in strada, capo. Ma quello che conta davvero è trovare il padre delle due vittime, se vuoi un po’ di sostanza con cui tenere buona la stampa. Sul ragazzo abbiamo troppo poco.
XXIV.
La trattoria Da Letizia. Cucina tipica era piuttosto vicina al commissariato di Pizzofalcone. Ci si arrivava in dieci minuti a passo lento su per i vicoli. D’estate era una camminata piacevolissima, con l’aria fresca che ti accarezzava scendendo dalla collina verso il mare.
Ma adesso non era estate. Adesso l’estate era solo un ricordo. Adesso, all’inizio di quella nuova èra glaciale, l’arietta della collina era diventata un maligno, tagliente vento di bufera che quasi impediva di avanzare. Avevi la sensazione che da un momento all’altro le orecchie sarebbero diventate di cristallo e si sarebbero staccate frantumandosi al suolo.
Ciononostante, Lojacono convinse Alex a pranzare là. Il fatto era che non vedeva Letizia da piú di dieci giorni, e voleva anche chiederle una cosa di carattere personale.
L’ispettore l’aveva conosciuta ai tempi del suo arrivo in città e tra loro era nata presto una bella amicizia. Era entrato nel locale perché colto di sorpresa da un acquazzone mentre rincasava, e si era fermato per cena. Letizia era subito rimasta incuriosita da quell’uomo dai tratti quasi orientali, alto e atletico, che si era seduto da solo a un tavolino d’angolo e aveva mangiato come un lupo tutto quello che offriva il menu del giorno. Cosí, nel timore che i prezzi lo avrebbero dissuaso dal tornare, aveva praticato un taglio consistente, quasi della metà, al suo conto, destando lo stupore del personale.
Ma era la titolare dell’esercizio, poteva ben fare quello che voleva.
La trattoria di Letizia era uno di quei locali che, pur mantenendo l’apparenza popolare, vanno di moda e godono di un passaparola che rende presto il numero dei coperti insufficiente a coprire le richieste. Si mangiava benissimo, il servizio era veloce e alcuni piatti, cavalli di battaglia della casa, erano motivo di autentici pellegrinaggi da parte dei buongustai della città. Un paio di guru della gastronomia, dopo averne sentito cantare le lodi da conoscenti, si erano presentati in incognito e avevano scritto recensioni meravigliose su riviste e webzine specializzate, e sulle guide.
Non fosse stata sufficiente la qualità del cibo, una buona ragione per frequentare il ristorante era inoltre Letizia stessa: una bella quarantenne dalle forme morbide e dalla risata aperta e contagiosa. Faceva lei la spesa di persona e curava ogni particolare, girando per i mercati e scegliendo le materie prime con la stessa attenzione che una madre mette nel fare la spesa per la famiglia. Quindi avviava la cucina per poi lasciarla in mani fidatissime e dedicarsi a fare la padrona di casa, con una cordialità affettuosa e sincera, che incantava. Non di rado, a fine serata, imbracciava una chitarra e intonava un vasto repertorio di canzoni in dialetto esibendo una voce che non avrebbe sfigurato a teatro. I clienti dell’ultimo turno tiravano tardi apposta nella speranza di ascoltarla.
Lojacono non si rendeva conto del privilegio di cui godeva. E nemmeno aveva capito quello che era chiaro a tutti, dall’aiuto cuoca allo sguattero, al cameriere: di piacere, e molto, a Letizia. La donna, che non aveva legami sentimentali, era corteggiata da diversi uomini, e a ognuno regalava un sorriso e una fetta di pastiera, ma nessuna speranza. Lojacono, invece, che era oggetto di attenzioni particolari, nemmeno pareva accorgersene. Il tavolo d’angolo veniva lasciato libero nonostante la coda che si formava fuori della porta; sopra, un cartellino con su scritto «Riservato» e un piccolo vaso di vetro con un fiore sempre fresco. L’umore di Letizia si velava di tristezza quando troppo a lungo, come nell’ultimo periodo, lui non si faceva vivo. Una forma di contatto con l’affascinante ispettore le era però sempre garantito da Marinella, la figlia di Lojacono, con la quale aveva instaurato un rapporto molto discreto di complicità femminile. Dalla ragazza otteneva facilmente notizie sulla vita del padre e soprattutto sulla preoccupante ombra della Piras, il magistrato che non aveva bisogno di scuse per chiamarlo al telefono, cosa che Letizia si guardava bene dal fare.
Quando la porta si aprí, e Lojacono e Alex entrarono al limite dell’assideramento, a Letizia balzò il cuore in petto. Se avesse dato ascolto al proprio istinto, gli si sarebbe parata di fronte e gli avrebbe fiammeggiato gli occhi in faccia, chiedendogli ragione del suo silenzio e del tavolo vuoto per tutte quelle sere. Invece gli andò incontro, radiosa.
– Toh, guarda chi si vede, l’ispettore Lojacono! Qual cattivo vento ti porta fin quassú, si può sapere? E per pranzo, poi. Tu, un uccellaccio della sera.
Lojacono, che non era stupido, colse il malanimo dietro l’ironia.
– Hai ragione, manco da un po’, ma sono stati giorni difficili. Poi, con ’sto freddo, avevo solo voglia di tornarmene a casa a dormire. Però eccomi qui, hai visto? E a proposito di vento, apprezza la buona volontà: fuori ci sta una tramontana che taglia il respiro.
Letizia salutò Di Nardo.
– Ciao! Tu sei della squadra, vero? Ti ho visto quando siete venuti a festeggiare a cena, qualche mese fa. Fammi ricordare… Alessandra, giusto?
– Alex va bene, grazie. Posso testimoniare che Lojacono ha insistito per venire qui anche se abbiamo poco tempo.
– Non preoccuparti, ci mettiamo due minuti, non c’è molta gente di mattina. Con questo freddo, poi. Certo, se per una volta Peppuccio mi avesse avvertito… Accomodatevi.
– Peppuccio? – mormorò Alex, sedendosi.
L’ispettore allargò le braccia. Solo Letizia lo chiamava cosí da quando aveva lasciato la Sicilia. Una volta che lo aveva trovato particolarmente malinconico, la donna gli aveva chiesto quale fosse il modo in cui gli si rivolgevano parenti e amici, e lui, con qualche ritrosia, glielo aveva detto.
Alex si sporse in avanti.
– Concordiamo una cifra: quanto mi dài per non dirlo ad Aragona?
In soccorso di Lojacono giunse Letizia con due piatti fumanti di rigatoni al ragú, mentre un cameriere la seguiva con vino rosso e bicchieri.
Lojacono protestò.
– Ma sei pazza, il ragú a pranzo? Guarda che noi dopo dobbiamo lavorare, mica possiamo schiacciare un pisolino.
– Come se non ti conoscessi, spazzolerai tutto in due minuti, dopodiché avrai ancora fame. E Alex, qui, sembra una di quelle ragazze magre magre che mangiano come lupi. È cosí o no?
Di Nardo aveva già in bocca la prima forchettata e stava entrando in uno stato di beatitudine.
– Mamma mia, signora, che bontà. Meglio di quello di mia madre.
– Questo sí che è un complimento. Allora, Peppuccio, che mi racconti? Marinella sta bene?
– Benissimo. Questa città di pazzi le piace da morire, per lei è una vacanza continua. Pure a scuola si è integrata subito; pare che non abbia problemi.
La donna, in piedi vicino al tavolo, guardava mangiare i due poliziotti con la soddisfazione che prova solo chi cucina con amore.
– È una ragazza in gamba, Marinella. Non avevo dubbi: è la città che deve preoccuparsi di lei, non lei della città.
Lojacono colse l’occasione. Si pulí la bocca con il tovagliolo, bevve un sorso di vino e disse:
– Senti, Leti’, io proprio di Marinella volevo parlarti. Ti devo chiedere una cortesia.
– Prego.
– Domani sera io avrei un impegno. Come sai mi secca lasciarla da sola, ma non posso proprio portarla con me. Ti dispiace se te la mando qui a cena? Vengo a prenderla io appena mi sbrigo. Se poi dovessi fare proprio tardi, ti avviso e magari dorme da te. Lo sai, sei l’unica di cui mi fido.
Letizia esitò, e Alex, soltanto lei, si accorse che la sua espressione si era indurita. Fu un attimo, e subito il volto si distese.
– Certo, Peppuccio, stai tranquillo. Lo sai che per me è un piacere. Dille pure di venire a qualsiasi ora, o accompagnala, se per te è meglio.
Lojacono si alzò e la baciò sulla guancia.
– Mi hai tolto un pensiero. Adesso dobbiamo scappare, quanto ti devo?
– Fossi stato da solo, per punirti della lunga assenza ti avrei fatto pagare cento euro i due piatti di rigatoni; ma siccome sono contenta per la visita della tua collega, offre la casa. E ora fuori di qui, ché dobbiamo prepararci per i clienti veri. Ciao, Alex, torna presto. È stato un piacere.
I due poliziotti ringraziarono, uscirono e si avviarono verso valle ingobbiti dal vento freddo.
Letizia si ritrovò a pensare che, probabilmente, era in corso l’organizzazione della prima serata romantica dell’ispettore Giuseppe Lojacono da quando era arrivato in città, ma questa non prevedeva per lei la parte che avrebbe desiderato.
Avvertí un peso nel cuore, e al tempo stesso fu sorpresa dall’insorgere di una inaspettata determinazione: lei, Letizia Piscopo, non si sarebbe rassegnata; un magistrato sardo non le avrebbe sottratto cosí il primo uomo che da tanto, troppo tempo aveva suscitato il suo interesse.
La guerra, cara dottoressa Piras, è appena cominciata.
Canticchiando, tornò in cucina.
XXV.
Carine. Sono carine.
Qualcuna anche molto carina. Ma ce ne sono pure di brutte: è incredibile come la gente riesca ad avere di sé un’immagine tanto distorta. Una volta, pare, si è presentata una che pesava novanta chili. Me lo hanno raccontato, perché non è arrivata fino da me. Lo sanno che sarei stato poco urbano.
Non ho niente contro i brutti, per carità, e d’altra parte, se non ci fossero, chi apprezzerebbe la bellezza? Sono un male necessario. Per la maggior parte sono coscienti di come sono, e se ne stanno nell’ombra. Magari mascherano il loro aspetto con abiti appropriati, o si dànno ad attività intellettuali.
Io sono ossessionato dalla bellezza. Anzi, a essere precisi, dall’eleganza, che è qualcosa di diverso dalla bellezza. Sull’eleganza sono intransigente. Prima di tutto, non si dica mai in mia presenza che l’eleganza è un modo di nascondere la bruttezza. Non è cosí. Come se l’eleganza fosse una faccenda di vestiti e scarpe, come se bastassero una borsa o un foulard firmati per rendere accettabili un viso asimmetrico o un porro sul naso.
L’uso distorto delle parole è uno dei mali del secolo. È elegante, diciamo. O, peggio ancora, diciamo: almeno è elegante. Quasi parlassimo di qualcosa che deve supplire, di un supporto. Siccome ho i soldi, pensano alcuni, posso nascondere con eleganza il pattume della bruttezza sotto il tappeto delle cose belle.
L’eleganza è ben altro. L’eleganza è la bellezza portata con orgoglio, la grazia naturale dei movimenti, l’altero atteggiamento delle membra. L’eleganza è simmetria. Di piú, è armonia. È elegante una statua classica, lo sono una sonata di Mozart e un divano di Matteo Thun. È elegante una rosa rossa, lo è un levriero afghano. L’eleganza è l’immediata sensazione di trovarsi di fronte alla perfezione possibile. L’eleganza è la traccia della presenza di Dio nel creato.
In tante vengono qui, convinte che basti la bellezza. Non hanno tutti i torti, la gente è grossolana, si accontenta. Vedo manifesti sui muri, copertine di giornali, pubblicità televisive: culi, tette, facce da porca. Il richiamo non è al cuore, alla mente, ma ai genitali. Cosí, se uno dice loro: sai, hai proprio un bel culo, pensano subito di poter sfilare o farsi fotografare, pensano di avere il mondo in pugno, di poter attirare, con l’odore di quello che hanno fra le cosce, qualche ricco sfondato e di fargli perdere la testa.
Allora arrivano, bussano alla porta, si siedono accavallando le gambe e si guardano attorno: eccomi, è arrivata la regina, fate largo. Orribili, ignoranti tamarre; cafone approssimative e volgari. Non sanno che i fianchi torniti, i seni che sfidano la gravità, saranno ben presto ammassi cadenti, sconfitti da diete sbagliate e dalla naturale propensione a diventare, tutte quante, inutili e cellulitici esseri che si avviano alla fine davanti alla televisione. Come le loro madri.
Certo, alcune le accetto. Bisogna pur lavorare, no? Se dovessi seguire i miei criteri in tutto e per tutto, qui sarebbe chiuso da molti anni, e io mi occuperei di finanza o di aspirapolvere. Invece cresciamo, addirittura. Anche se io lo sento il disagio di certi clienti. Confusamente si rendono conto che mi aspetterei richieste diverse da: mi raccomando, dotto’, trovatemi due che tengono le zizze grosse, ché la pubblicità è di un negozio di alimentari e le anoressiche fanno passare la voglia di mangiare.
Non c’è problema, vanno benissimo per ciò che servono. Belle ragazze, giovanissime e ben nutrite, che uno veste, prepara e fa fotografare da uno bravo. I miei fotografi sono bravissimi e, a vedere il prodotto finale, si potrebbe quasi credere che il soggetto sia altro da una ragazzotta di paese incapace di aprire bocca.
Ma l’eleganza vera è un’assenza che rimane nell’aria. Se ne costruisce un simulacro, una pallida imitazione buona per uno scatto o per una camminata in passerella con due tacchi cosí alti che il passo lo fanno loro, non chi li porta.
Non si creda che a Roma o Milano le cose siano diverse. Ci vado ogni stagione, e vedo cose turpi. Pensano che sia sufficiente pesare quaranta chili, essere alte un metro e ottanta e avere gli occhi spiritati, per essere eleganti. Anche là si è smarrito il significato della parola, e infatti gli abiti sono diventati orribili nel tentativo disperato di essere speciali. Una volta erano le modelle a sostenere i vestiti, adesso è il contrario. E si vede.
Un’altra verità ho amaramente compreso in ritardo: l’eleganza si può perdere. Non è un cognome, non è il colore degli occhi. Il tempo, gli eccessi, i rovesci della fortuna possono sottrarre misura e sicurezza, due componenti necessarie. Ne ho viste tante di donne che erano la quintessenza dell’eleganza diventare parodie di ciò che erano.
Mia moglie, per esempio, era elegante. Potevo starmene per ore a guardare la posizione delle sue mani, il modo in cui si sedeva sul sofà raccogliendo le gambe sotto di sé: un felino pronto a saltare. Era elegantissima. Poi ha cominciato a bere. Adesso nessuno, sotto quei capillari spaccati, sotto quelle vene varicose e quell’accenno di ventre prominente saprebbe indovinare l’eco di un modo di camminare che mi prese e non mi lasciò piú.
Dell’eleganza si può sentire la nostalgia, come di una persona cara che non c’è piú, come della giovinezza. Io ho smesso di inseguirla, mi sono rassegnato a ricordarla.
Poi l’ho vista.
L’ho vista lontano da qui, non tra le file di ragazze che si propongono per un provino o per farsi fare un book; e nemmeno tra le aspiranti zoccole convinte che l’agenzia sia una copertura per un traffico di escort, titolo oggi ambito quanto e piú di una laurea. L’ho vista per strada, uguale a mille altre: jeans sottocosto, scarpe di tela, una borsa informe con chissà cosa dentro, le cuffiette nelle orecchie.
Camminava.
C’è mancato poco che finissi addosso all’automobile davanti, per guardarla. Ho frenato di botto, la gente si è girata, ma lei no, perché sentiva la musica. Ho fermato il Suv in seconda fila; tutti strombazzavano isterici, ma avrei fatto lo stesso anche in autostrada, se fosse stato necessario.
Camminava.
No, non è esatto dire che camminava: danzava. Conosco la partitura di quell’incedere come un coreografo conosce quella del «Lago dei cigni»: uno scattare di muscoli sotto la pelle, un navigare attraverso la vita con la certezza di conoscere la rotta.
Era bellissima, in piú. Non sarebbe stato necessario, la camminata bastava e avanzava, ma era anche bellissima.
L’ho fermata senza sapere cosa dirle. Lei, con una grazia eccelsa, ha tolto gli auricolari e mi ha fissato con gli occhi immensi. Emanava una curiosità priva di qualsiasi diffidenza.
Ero in soggezione, mi sentivo inadeguato a parlare con quella dea.
Intorno a me continuava la sinfonia di clacson, non potevo rimanere lí a lungo. Le ho chiesto – ma la mia era piú un’implorazione – di parlare un attimo con me, un attimo solo. Mi sentivo come Živago che vede Lara passare e teme di perderla ancora.
Ero di nuovo al cospetto dell’eleganza. L’avevo di nuovo davanti quando ormai pensavo di averla perduta per sempre. Potevo spazzare via il timore di averla solo immaginata, la paura che non fosse mai esistita.
Anche sentirla parlare non mi deluse, eppure lo temevo. L’accento calabrese, le vocali aperte, dentro la sua bocca si inchinavano e recitavano la loro parte nell’intrigante quadro complessivo. Era bellissima. Bellissima.
Riuscii a convincerla a salire in macchina. Percorsi un paio di isolati a passo d’uomo, parcheggiai ed entrammo in un caffè. Le parlai, le dissi di me e della mia attività. Avevo, me ne rendevo conto, il tono di uno che prega. Io, che dalla mattina alla sera ascoltavo le suppliche di ogni genere di donna e ne decidevo il destino, la stavo supplicando. Non potevo perdere quell’andatura da pantera, quel collo lungo, quel corpo snello e guizzante. Non potevo perdere lei.
Cercai di capire se aveva bisogno di lavorare. Vidi i pensieri passarle dietro quei suoi occhi neri come nuvole sul mare.
Alla fine mi disse che magari, una volta, sarebbe venuta in agenzia e avrebbe fatto una prova. Forse.
Venne, e andò benissimo.
Allora le parlai di luci, di vestiti e scarpe, di borse e gioielli sondando la sua voglia di lusso, ma non riconobbi traccia di desiderio. Temevo volesse tirarsi indietro.
Poi, mi chiese quello che mi chiese. E io sarei scoppiato a ridere per la piccolezza, l’esiguità della sua pretesa.
Invece mi mantenni serio e dissi: sí, non ci sono problemi. E ci accordammo. Ero felice quanto non ricordavo di essere stato mai.
Dovevo sapere tutto di lei. Tutto. Gli anni che aveva passato lontana dai miei occhi non potevano rimanere un segreto. Le domandai, e mi rispose. Mi raccontò del fratello, del padre, dell’uomo che aveva vicino.
Capii subito che gli ultimi due sarebbero stati d’ostacolo a quello che avevo in mente per lei. Parlai a lungo, sostenendo con eloquenza le ragioni della libertà, dell’autodeterminazione. E le dissi che, a volte, per fare del bene a qualcuno, bisogna nascondergli il modo, peraltro lecito, peraltro bello, peraltro gratificante e divertente, in cui questo bene si compie.
Non potevo permettere che remore e scrupoli la portassero a vivere cosí lontana da sé stessa.
Quando si alzò e andò via, mi rimase negli occhi.
Non immaginavo nemmeno che in quel momento sarebbe iniziata la mia dannazione. Perché adesso non so se ce la farò a vivere senza vederla camminare e ridere, ballare e mangiare.
Adesso che è morta.
XXVI.
Frate Leonardo Calisi attaccò la salita mulinando le gambe corte. Dalla bocca gli uscivano sbuffi di vapore. Le mani nelle tasche del saio, all’altezza del ventre, la bassa statura e le guance rosse gli conferivano un aspetto comico e inconfondibile che avrebbe potuto indurre al sorriso. Ma, in quel rigido pomeriggio di novembre, un sorriso era merce piuttosto rara nei pochi passanti infreddoliti.
Per la verità non sorrideva nemmeno lui. Per la verità, frate Leonardo era preoccupato.
Non era il gelo a dargli da riflettere, anche se come molti parroci della città si stava adoperando per offrire riparo e protezione ai senzatetto, ai quali aveva aperto perfino il refettorio del convento, con grande orrore di frate Teodoro, il cuciniere. E nemmeno lo angustiavano i numerosi impegni del suo ufficio, giacché possedeva l’energia e la forza per fronteggiare ogni difficoltà: in fondo, si diceva, tutto ciò che accade è volere di Dio, e come tale noi uomini dobbiamo accettarlo e sopportarlo.
Mentre il sole si sforzava di innalzare la temperatura a zero gradi, Leonardo pensava a tutt’altro. Pensava alla sua missione segreta.
La notte, dopo le preghiere e prima di prendere sonno, nel suo personalissimo dialogo con Nostro Signore, paragonava il proprio operato a quello di un agente dei servizi. Uno di quelli capaci di saltare da un treno in corsa su una motocicletta, come nei film che qualche volta, in sala ricreazione, i confratelli insistevano per vedere. Solo che lui era «in missione per conto di Dio».
Suo malgrado, si divertiva quando gli veniva in mente quella frase della celebre commedia con John Belushi. Non c’era essere umano piú lontano di lui dal compianto attore, vittima dei propri eccessi. Leonardo non sapeva neanche cosa fossero, gli eccessi, anzi. Era morigeratissimo: non uno scoppio d’ira, nessun desiderio scomposto, mai un richiamo della carne. Nemmeno sentiva il bisogno di sostituire i sandali con delle scarpe chiuse, sebbene il clima l’avesse consigliato a molti frati.
E mai si tirava indietro nel servizio verso i fedeli, nonostante le responsabilità della parrocchia gravassero sulle sue spalle con una serie di pesanti obblighi. In particolare, era il primo a proporsi per i turni di confessione.
Girò l’angolo e si trovò davanti due anziani coniugi, assidui frequentatori della chiesa, che salutandolo accennarono a fermarsi. Lui non decelerò, limitandosi a impartire una veloce benedizione: se si fosse trattenuto a parlare con loro, e specialmente con la signora Caterina, dotata di loquela inarrestabile, il vento di tramontana li avrebbe trasformati tutti e tre in statue di ghiaccio. Poi frate Leonardo aveva fretta. Molta fretta.
Erano proprio le confessioni ad aiutarlo nella sua missione segreta, anche se non poteva spiegarlo agli altri frati, che gli erano cosí cari. Le loro fragili coscienze non avrebbero sopportato la croce di quella confidenza.
Gettò un’occhiata a un bigliettino che teneva in tasca e controllò i numeri civici.
Certo, le tante incombenze gli portavano via tempo, e il compito che si era dato pretendeva cura, dedizione. Non poteva permettersi di essere approssimativo. Una volta, sotto pressione perché doveva correre a celebrare la messa di Natale, per poco non aveva compiuto un grave errore che avrebbe comportato conseguenze pesantissime. No, doveva stare attento.
Era grato a Dio per averlo scelto. Per avergli mostrato quanto fosse bello il mondo e meravigliosa la vita, per avergli insegnato a opporsi al peccato, a proteggere il prossimo dal demonio. In un’omelia della settimana precedente aveva messo in allerta i fedeli contro le tentazioni del Grande Nemico, che spesso si presentano in forme difficili da riconoscere. Il diavolo, aveva ricordato con forza, è furbo per definizione.
Il male del secolo, a Leonardo appariva chiaro come il sole, era la solitudine. A causa sua, donne e uomini andavano alla deriva e non erano nemmeno piú in grado di riscuotere la pietà degli altri, perché si chiudevano in una torre inespugnabile da loro stessi costruita attorno alla disperazione. La scienza, nella sua ottusa miopia, aveva addirittura pensato di poterla curare, questa piaga. Come se la depressione, l’allontanamento dall’amore potessero essere risolti con una pillola, al pari di un’emicrania.
Per Leonardo, la solitudine era la conseguenza di un progressivo voltare le spalle a Dio.
Era evidente, no? A mano a mano che si rifiutava Dio, ci si ritrovava da soli. Il libero arbitrio, in principio un dono, era stato inquinato dal Maligno diventando la piú terribile delle dannazioni, poiché consentiva agli uomini di scegliere di restare da soli, in preda all’angoscia, e perciò facili vittime dello scaltro Cornuto, che li induceva al peccato sommo portandoseli tra le fiamme eterne.
Il peccato sommo era il suicidio.
Quante volte, nel fresco del confessionale, fra l’odore dell’incenso e delle candele accese sotto il quadro della Santissima Annunziata, aveva sentito quella frase: voglio morire, padre, mi manca soltanto il coraggio di uccidermi.
Da giovane frate, quando i ricci capelli che gli facevano da corona non erano candidi come adesso, aveva passato ore a scongiurare quegli infelici di non gettare via il dono piú grande. Aveva cercato di indurli a ragionare, aveva perfino pianto. E qualche volta, con il cuore spezzato e gli occhi gonfi, era stato chiamato a riconoscere le spoglie di chi, alla fine, il coraggio lo aveva trovato.
Poi aveva capito che il suo mandato, la sua missione, appunto, era evitare che quelle anime fragili cadessero preda di Lucifero: il braccio di ferro tra Dio e il diavolo non doveva piú concludersi con la vittoria di quest’ultimo.
Ma che cosa poteva fare lui, un povero fraticello alto poco piú di un metro e mezzo, con l’unica arma di un placido sorriso sotto due limpidi occhi azzurri? Che cosa poteva fare contando sull’unico aiuto del Vangelo, che sempre in meno erano disposti ad ascoltare?
Leonardo trovò il numero civico corrispondente all’indirizzo scritto sul biglietto. Entrò e chiese al portinaio, asserragliato dentro una guardiola ultrariscaldata, l’informazione che gli serviva.
L’illuminazione gli era arrivata in un’alba di piú di dieci anni prima, mentre pregava riflettendo sul suicidio di un ragazzo che si era impiccato per il terrore di dover confessare alla famiglia la propria omosessualità. Con il volto madido di lacrime e il cuore spaccato da un senso di inutilità, aveva ricevuto il messaggio di Dio racchiuso nel primo raggio di sole del giorno.
Doveva farlo lui.
Doveva ucciderli lui prima che si uccidessero da sé.
Era l’unico modo per sottrarli agli artigli del demonio: cosí loro non avrebbero peccato togliendosi la vita.
Lui, però, avrebbe peccato? Lo aveva chiesto a Dio, col tremore in petto, atterrito dalla prospettiva dell’inferno. Il Signore non gli aveva risposto, non in modo diretto; eppure, alla luce della dottrina studiata per tanti anni con profitto, Leonardo era giunto lo stesso a una convinzione. Non sarebbe stato punito. Quello che viene fatto in nome di Dio, secondo la sua volontà, per aiutarlo a vincere la battaglia quotidiana contro il male, non è peccato. E in cielo, quando fosse giunto il momento, tanti angeli gli si sarebbero stretti intorno nell’attimo del giudizio, e avrebbero detto al Padre che quella piccola anima umile li aveva salvati dal compiere un gesto che per loro sarebbe stato irredimibile.
Non era semplice. Il minimo errore di valutazione e avrebbe ucciso qualcuno che, in fondo al proprio cuore, aveva ancora una ragione per continuare a vivere, o che avrebbe potuto trovarla in futuro. I candidati a beneficiare dell’estremo gesto di pietà di Leonardo erano solo quelli che camminavano nella selva dell’afflizione assoluta e non avevano speranza di uscirne. Uomini e donne senza piú alcun legame con la vita, che prima o poi, nella mattina piovosa di un giorno feriale, mentre lo schermo del televisore blaterava qualche insulsa televendita e dopo che anche l’ultimo amico non aveva risposto al telefono, avrebbero aperto la finestra o il gas per porre fine a un’esistenza senza piú pace.
La sicurezza di non sbagliarsi non poteva ottenerla durante una semplice confessione o con una chiacchierata in sacrestia. Doveva parlare con il candidato molte volte, capire bene le ragioni, scavare nei sentimenti e nei ricordi. Doveva controllare con calma che la persona non avesse piú niente per cui vivere. Ne andava della sua stessa salvezza. Il Signore non gli avrebbe perdonato la superficialità di un’azione affrettata, e davanti a lui si sarebbe aperto l’abisso dell’Avversario.
Mentre saliva le scale, la sua mente andò all’amico Giorgio Pisanelli, uno dei figli di Dio piú cari al suo cuore.
Molte volte, all’indomani della morte di Carmen, la moglie, che lui stesso aveva assistito nell’ultimo, atroce periodo della sua breve vita, aveva pensato che Giorgio potesse essere un serio pretendente ai suoi servigi: aveva gli occhi spenti, la voce smorta, tante volte riconosciuta in altri. Leonardo era anche il solo a essere al corrente della malattia che il poliziotto non voleva curare. Quante volte lo aveva supplicato di rivolgersi a un medico, di affrontare il cancro.Ma lui, testardo, si rifiutava: temeva di essere messo anticipatamente in pensione.
Perché soltanto Giorgio Pisanelli – e questa ragione impediva al frate di aiutarlo a compiere il gesto che gli avrebbe dato la pace – era stato capace di intravedere un disegno coerente, un’unica mano dietro gli apparenti suicidi che avvenivano nel quartiere. E si era messo in testa di scoprire chi fosse l’autore del disegno. Cosí inseguiva in modo ossessivo un assassino alla cui esistenza nessuno credeva.
Giorgio Pisanelli cercava lui.
Non sospettava che il suo migliore amico, quello che una volta alla settimana gli faceva compagnia a pranzo al ristorante del Gobbo, quello che ne riceveva le confidenze e lo sosteneva nel dolore del ricordo della moglie, fosse proprio l’uomo a cui stava dando la caccia. E d’altra parte nulla avrebbe potuto fare Leonardo per difendersi, se l’amico fosse arrivato alla verità. Non era un assassino, lui. Al di là dell’affetto per Giorgio, non avrebbe potuto uccidere un uomo che aveva una forte ragione per continuare a vivere, e cioè la sua cattura.
Ma non era questo il cruccio del frate, mentre inforcava gli occhiali da lettura a mezzaluna per leggere il nome sulla targhetta vicino alla porta. Pisanelli era lontano dal sapere, e in ogni caso lo teneva aggiornato sui progressi delle indagini, cosicché lui poteva pararne i colpi con facilità. No, la sua inquietudine era dovuta agli esercizi spirituali che avrebbe dovuto sostenere di lí a qualche giorno.
Erano, questi, un impegno periodico, una benefica e salvifica settimana di silenzio, lettura e meditazione condotta da un anziano e colto padre presso un convento romano. Di solito Leonardo attendeva l’appuntamento con letizia, perché era allora che la sua anima, logorata dall’assorbimento delle sofferenze di tanti fedeli e confratelli di cui accoglieva le confessioni, si purificava al cospetto della dottrina. Stavolta, però, gli esercizi capitavano quando aveva quasi finito i colloqui con un candidato ed era sul punto di raggiungere la certezza che non avesse piú alcuna voglia di vivere.
Suonò il campanello. Che cosa doveva fare? Accelerare i tempi era pericoloso, perché mai, nemmeno per un secondo, poteva lasciare che nella sua anima si insinuasse il dubbio. Il dubbio di avere posto fine a una vita che non doveva ancora concludersi.
Ma ritardare, rimandando tutto al proprio ritorno, esponeva alla pericolosa eventualità che la persona in questione scegliesse di compiere il passo definitivo in anticipo, concedendosi al demonio per l’eternità. Chi avrebbe lenito la sua coscienza, allora?
L’atroce dilemma lo dilaniava, ed era il motivo per cui si era ritagliato un’ora per quella chiacchierata. Avrebbe finto di passare per caso, e avrebbe parlato del piú e del meno cercando di cogliere una parola, un’espressione, un sospiro che lo convincesse in un senso o nell’altro.
Sentí un passo strascicato, poi la porta si aprí.
Il viso di Leonardo si allargò in un sorriso mite.
– Pace e bene, cara Agnese.
XXVII.
Il Centro Direzionale era un posto sinistro anche nelle giornate di sole o nei caldi pomeriggi di primavera, ma in quella sera d’inverno gelido, abbandonato da tutti e con i radi negozi e bar chiusi, ricordava lo scenario fantascientifico di un olocausto postnucleare.
Alex e Lojacono avevano lasciato l’auto di servizio in uno dei parcheggi sotterranei, antri paurosi e semibui dove il vento muggiva come una bestia ferita, ed erano usciti in superficie attraverso le scale: un luogo perfetto per gli appostamenti di rapinatori e malintenzionati, che tuttavia, con quelle temperature, era probabile se ne stessero rintanati nelle sale giochi, se non a casa come chiunque altro. A scanso di equivoci, i due poliziotti avevano passato istintivamente la mano sulla pistola che riposava nella fondina sotto l’ascella, riportandone un subliminale conforto.
I loro passi risuonavano nel silenzio. Erano appena le sette, ma potevano essere le due del mattino per la poca gente che si incontrava lungo i viali ultramoderni del quartiere. I grattacieli di cristallo avevano molte finestre illuminate, quindi l’attività continuava e il pianeta Terra era ancora abitato, però nessuno sfidava il gelo, se non era necessario.
Arrivati al fabbricato indicato sul foglietto che avevano ricevuto da Ottavia, un palazzo di altezza media schiacciato fra due colossi di metallo e vetro, entrarono in un androne vasto e non riscaldato in cui non si vedevano custodi. Studiarono le numerose targhe esposte e trovarono quella che cercavano: «Charles Elegance». Terzo piano, interno 32.
L’ascensore sembrava una cella frigorifera; produceva anche lo stesso rumore. Lojacono, che era un po’ claustrofobico, immaginò i cupi sviluppi di un blocco dell’impianto in quel luogo desertico, e il successivo ritrovamento dei loro cadaveri surgelati l’indomani mattina. Invece giunsero vivi a destinazione, e suonarono il campanello.
Ad accoglierli, con un professionale benvenuto plastificato, fu una bella ragazza bruna la cui espressione s’incrinò quando apprese che erano poliziotti. La giovane si alzò dalla postazione, scomparve dietro un angolo e poco dopo riapparve invitandoli a seguirla.
L’agenzia faceva onore al suo nome. La folta moquette marrone accoglieva i passi attutendone il rumore, mentre altoparlanti nascosti diffondevano una musica calda che rendeva l’ambiente esotico e gradevole. Nell’unica stanza aperta, Alex e Lojacono scorsero due modelle vestite da sera, coricate su un divano e illuminate da riflettori; un fotografo si muoveva attorno a loro scattando a ripetizione. La receptionist si scusò, come se fosse stato uno spettacolo disdicevole.
Arrivati alla fine del corridoio, bussò con grazia a una porta in legno scuro, piú pesante delle altre, al cui fianco campeggiava una targhetta: «Direttore».
Entrarono.
L’ufficio era illuminato dalla luce calda proveniente da due piantane e da un lume posato su una pesante scrivania in mogano, dietro la quale sedeva un uomo magro, sui cinquant’anni, in maglione scuro e occhiali, che si alzò e andò incontro ai poliziotti tendendo la mano.
– Buonasera, sono Carlo Cava, dirigo quest’agenzia. Immagino il motivo che vi ha portati qui. Accomodatevi. Posso offrirvi qualcosa?
Alex e Lojacono declinarono con garbo e si sedettero sulle poltrone che erano state loro indicate. La ragazza che li aveva accompagnati si dileguò dopo essere stata congedata dal principale con un cenno.
Ora potevano parlare.
– Signor Cava, sono l’ispettore Lojacono, del commissariato di Pizzofalcone; la mia collega è l’agente Di Nardo. Posso chiederle perché crede di conoscere la ragione della nostra visita?
– Ispettore, qualcuno i giornali li legge. E qualcuno segue pure i notiziari, tanto piú che da due giorni non si parla d’altro, freddo a parte. So quello che è accaduto a Grazia Varricchio, purtroppo. E naturalmente so che apparteneva alla nostra scuderia, anche se da pochissimo. Ho fatto due piú due.
– E come mai non ha pensato di chiamarci per segnalare che era una vostra collaboratrice? – domandò Alex.
– E che cosa avrei potuto dirvi, agente? Che la ragazza aveva fatto qualche fotografia qui, che era stata regolarmente pagata e che nemmeno tutti quelli che lavorano con noi avevano avuto il tempo di conoscerla?
Alex provò un’istintiva antipatia per quell’individuo che parlava con un tono di voce appena udibile, comodamente appoggiato all’alto schienale della sua poltrona e con le braccia conserte sul torace stretto. Le sembrava in pieno controllo della situazione, e ben attento a non perderlo.
– Esattamente, da quando la Varricchio lavorava con voi? – riprese Lojacono.
– Meno di due mesi. Dovrei controllare, ma sono quasi certo che abbia fatto solo due servizi: uno per costumi da bagno, che ha avuto un certo successo, e uno per abiti da sposa, che deve ancora essere pubblicato. Ha anche sfilato, ma non qui, ovvio.
Alex chiese:
– Che cosa significa, non qui?
– Noi facciamo solo servizi fotografici. Allestiamo un set, utilizziamo i nostri fotografi, o quelli che decidiamo di ingaggiare per l’occasione, e consegniamo gli scatti al cliente che ce li ha commissionati. Le sfilate si organizzano presso le case di moda, o in alberghi, caffè, luoghi di ritrovo. Secondo le esigenze. A noi spetta una percentuale per ogni ragazza che forniamo.
– E la Varricchio era sia fotomodella sia indossatrice? – domandò Lojacono.
– In effetti non tutte possono ricoprire entrambi i ruoli. Ci sono ragazze molto fotogeniche che non sono capaci di sfilare, e altre che in passerella sono splendide ma in foto non rendono.
Alex era perplessa.
– Eppure dovrebbero essere tutte belle. Perché c’è questa differenza?
– Signorina, la bellezza è una cosa piú complessa di quanto si creda. Esistono, per dirla in modo professionale, una bellezza statica e una bellezza dinamica. Immagino avrà fatto caso come, talvolta, una persona che lei reputa bella, in foto sembri un’altra; e viceversa le sarà capitato di conoscerne qualcuna che risultava bellissima in foto e di rimanere delusa. Sono rare, molto rare le ragazze che hanno il dono di essere perfette sia per l’occhio sia per l’obiettivo. La Varricchio era una di queste.
C’era qualcosa di ammaliante nel tono con cui Cava parlava. L’impressione era accentuata dal tepore confortevole che abbracciava la stanza e dal profumo di sandalo che vi aleggiava. Alex ebbe la sensazione di essere nella tana di un animale pericoloso.
– Come le trovate, queste ragazze? Pubblicate delle inserzioni? – domandò Lojacono.
– Ispettore, se chiedessimo di presentarsi a tutte quelle che si ritengono belle o, piú ancora, eleganti, dovremmo difenderci da un assedio. Ed è probabile che nel mucchio non ce ne sarebbe nemmeno una adatta alle varie esigenze. No, per carità. Abbiamo i nostri canali, persone conosciute o incontrate dai miei collaboratori, professioniste che hanno già lavorato con noi, attrici di teatro, presentatrici delle televisioni private. Può succedere che qualcuna venga spontaneamente e che decidiamo di metterla alla prova, ma sono eccezioni.
Lojacono si guardò attorno. Su alcune mensole utilizzate come libreria, che ospitavano perlopiú raccoglitori numerati, erano esposte delle fotografie dove la stessa modella era vestita in maniera assai diversa. La foggia degli abiti e il volto della donna lasciavano intuire che le immagini attraversavano almeno due decenni.
Cava seguí lo sguardo di Lojacono.
– Quella è mia moglie, ispettore. La donna piú elegante che sia mai stata gestita da noi.
L’ultima frase stuzzicò la curiosità di Alex.
– Elegante. Dal modo in cui usa questo aggettivo, si direbbe che ritiene l’eleganza superiore alla bellezza. Anche prima ha detto: «Belle o, piú ancora, eleganti». Perché?
L’uomo si voltò verso di lei, ma sembrava che non la vedesse.
– L’eleganza, signorina, è assai meno frequente della bellezza. E soprattutto non permette di barare. È qualcosa che nessun chirurgo, nessuna palestra, nessun estetista possono darti: ce l’hai o non ce l’hai. Però mi rendo conto che non sia facile da capire.
Era chiaro, non tanto dalla scelta delle parole quanto dal tono con cui erano state pronunciate, che quel discorso conteneva un sottinteso: Alex non solo non la possedeva, l’eleganza, ma nemmeno sarebbe stata in grado di riconoscerla. L’agente non si sentí sminuita dal tacito giudizio: avrebbe provato un disagio maggiore se si fosse accorta di piacere a quel rettile.
Lojacono cercò di scrollarsi di dosso il torpore che la voce di Cava e l’atmosfera del luogo gli stavano insinuando in corpo.
– E la Varricchio ce l’aveva, l’eleganza?
Cava fissò per un attimo il piano della scrivania e rialzò lo sguardo sull’ispettore.
– Sí. Ce l’aveva.
La risposta provocò un breve silenzio. Poi Alex si mosse sulla poltrona.
– Ci può dire come l’avete trovata? È tra le poche che si sono presentate da sole?
– No. È stata vista per caso, le è stato chiesto se voleva fare una prova e lei ha accettato.
– E chi è che l’ha vista? – chiese Lojacono.
Cava girò la faccia verso la finestra alla sua sinistra, dalla quale si ammirava uno splendido panorama di quel nulla che era il viale centrale dell’isolato. Rimase cosí qualche secondo. Un attimo prima che Lojacono sollecitasse una risposta, disse:
– Io.
XXVIII.
L’ufficio di Carlo Cava era avvolto nel silenzio. Il modo in cui aveva detto di essere stato lui a scoprire la Varricchio aveva lasciato i due poliziotti perplessi. Fu Alex a parlare.
– Ma dov’è che l’ha trovata? Gliel’hanno presentata, vi siete incontrati in un locale?
Cava continuava a guardare fuori dalla finestra, come se aspettasse di veder arrivare qualcuno.
– Non credo proprio che frequentassimo gli stessi posti. L’ho incrociata per strada.
– E lei le raccatta per strada le sue modelle? Nota una che sta facendo una passeggiata e la abborda?
L’uomo distolse a fatica gli occhi dal panorama desolato e li fissò freddi sul volto di Alex.
– Lo capisco. Una persona come lei, agente, può ragionare cosí. Rimesta nella melma ogni giorno. Si confronta con il peggio delle persone. Non è abituata a cercare la grazia, la bellezza. Mi dispiace molto per lei.
Lojacono stava per intervenire, ma fu anticipato dalla collega.
– Sí, sí, vabbe’. La bellezza, la grazia e tutte le puttanate che vuole. Ha visto una ragazza bella, bellissima, che camminava per strada. Aveva un bel culo e l’ha fermata. È questa la verità, in sintesi.
Lojacono quasi sobbalzò. Ci risiamo, si disse. Alex di solito era molto piú tranquilla e pacata nel condurre gli interrogatori. Questa nuova aggressività della collega, oltre che poco professionale, era negativa per le indagini. Poteva portare Cava a chiudersi. Non era un indagato, e le informazioni che stava fornendo erano preziose. Cercò di riportare la conversazione nei giusti binari.
– Dove è successo? E come l’ha convinta?
Cava continuava a fissare Alex, gli occhi inespressivi dietro le lenti degli occhiali.
– Il culo. Guardare il culo. Che delicata espressione, agente. La stessa che, a quanto mi riferí Grazia, usò il fidanzato quando lei gli raccontò il nostro incontro. Evidentemente possedete una mentalità simile –. Si voltò verso Lojacono. – Era in via Filangieri, ispettore. Una ragazza come le altre, con le cuffiette nelle orecchie e addosso vestiti dozzinali. Di solito il mio sguardo scivola su persone del genere come se non esistessero. A prescindere dalla bellezza del culo.
– E allora che cos’è che l’ha attratta? Le cuffiette? – replicò Alex, sarcastica.
Lojacono le rivolse un’occhiataccia. Cava riprese come se non l’avesse sentita.
– Ma fra tante, lei spiccava come una principessa. Era quella, la particolarità. Pareva l’unico personaggio a colori in un film in bianco e nero. Io ero in macchina e mi fermai in doppia fila: non vi dico il casino. La convinsi a prendere un caffè e parlammo. Le spiegai come funzionava il nostro lavoro, lei mi disse che al momento non studiava né lavorava e che se si trattava di una cosa pulita poteva pensarci. E mi lasciò i suoi recapiti.
– Tutto qui? Non avete fatto una prova? – insistette Alex, guardandolo ostinata, come a cercare di fargli girare il capo verso di sé.
– Ci fu un provino, certo. Uno dei nostri fotografi le fece alcuni scatti per poterla proporre ai clienti, e le chiedemmo di camminare con un paio di scarpe alte. A volte coi tacchi non riescono nemmeno a fare un metro, abituate come sono a quelle scarpacce di tela.
– E come andò?
– Fu perfetta. Sembrava non avesse mai fatto altro nella vita. Era nata per stare davanti agli occhi degli altri. Da anni non mi capitava una cosí. Il fotografo quasi piangeva di gratitudine.
– E il pagamento? Concordaste qualcosa da subito?
Cava scrollò il capo.
– Non volle parlare di soldi fino a quando non le dissi che un nostro cliente la voleva per la campagna dei costumi da bagno, che comincia appunto in autunno. Era il primo al quale avevamo mostrato il book. Scelse a botta sicura fra almeno trenta proposte.
– E a quel punto?
– Le proposi un contratto stabile a cifre elevate, uno di quegli accordi per i quali le altre ragazze, pure quelle consolidate, si farebbero amputare un dito. Aveva potenzialità elevatissime, e la concorrenza, appena viste le foto del primo servizio, avrebbe fatto carte false per portarcela via. Pensai che fosse meglio blindarla, come si dice. La sua reazione, però, non fu quella che mi aspettavo.
Lojacono pensò all’appartamento pieno di spifferi, con le piastrelle rotte e la stufetta elettrica mal funzionante. Alla coperta rattoppata che aveva visto sul letto della ragazza, accanto al suo cadavere.
– Cioè rilanciò? Voleva guadagnare di piú?
– No, anzi. Rispose che preferiva non prendere impegni a lungo termine. Era terrorizzata dalla reazione del fidanzato, di cui mi parlò. Mi disse anche che aveva intenzione, prima o poi, di sposarsi e di avere dei figli. Cose che le altre si guardano bene dal confessare, sanno che le caccerei.
Alex riprese la parola.
– Invece lei non l’ha cacciata.
– No, non l’ho cacciata. E sa perché, agente? Perché una cosí non l’avrei trovata mai piú. Ecco perché. Inoltre mi chiese una cifra ridicola in confronto a quella che ero disposto a darle. Una specie di forfait per la pubblicità dei costumi e due sfilate.
– Quanto? – domandò Lojacono.
– Tremilasettecento euro. Non quattromila, non tremilacinquecento. Tremilasettecento. Netti, precisò. E aggiunse che era tutto quello che le serviva.
La cosa era davvero strana, bisognava ammetterlo.
Cava pareva dolorosamente divertito dal ricordo dell’episodio. Poi si alzò, si avvicinò a una mensola, afferrò a colpo sicuro uno dei raccoglitori, tornò alla scrivania e lo aprí, girandolo verso i due poliziotti.
Nelle fotografie c’era Grazia Varricchio.
Alex e Lojacono l’avevano vista morta, un corpo martoriato disteso su un copriletto sgualcito, e l’avevano vista nelle istantanee al mare, che sorrideva allegra all’obiettivo, forse del fratello, forse del fidanzato. Sapevano che era bella. Ma a fissarli dalle immagini che si ritrovarono davanti era un’altra persona. Una donna che emanava una straordinaria forza espressiva, capace di cancellare con la sola presenza tutto ciò che la circondava.
Erano una cinquantina di pose, in bianco e nero e a colori. Grazia vi appariva vestita in modi diversi: abito lungo, jeans e top, una gonna larga in stile country e cappello di paglia. In cinque ritratti esplosivi era seminuda, su un letto sfatto, appena coperta dai lembi del lenzuolo. Talvolta era seria, altre dolce, allegra, sull’orlo delle lacrime, felina, adirata. Gli occhi neri, profondissimi, la bocca imbronciata, il naso impertinente, l’ovale perfetto del viso erano strumenti musicali suonati in coppia da modella e fotografo. La luce circondava quel corpo flessuoso con la discrezione di una serva devota.
– Capite, adesso, – disse Cava. – Quella ragazza aveva il mondo in mano. Saremmo riusciti a tenerla per poco tempo. La mia è la migliore agenzia dell’Italia meridionale, ma le potenzialità di Grazia erano diverse. Entro massimo due anni sarebbe finita sulle copertine delle piú importanti riviste internazionali. Avrebbe calcato i set dei migliori fotografi del pianeta, poi sarebbe arrivato il cinema. Per questo quando mi chiese tremilasettecento euro stavo per mettermi a ridere.
Lojacono annuí.
– Quindi glieli diede.
– Subito, e in contanti. In cambio le chiesi l’esclusiva di un anno, e lei accettò. Disse che tanto per lei finiva lí.
Alex non riusciva a distogliere lo sguardo da una fotografia in cui Grazia, stesa su un letto, osservava l’obiettivo con aria languida e soddisfatta, come se avesse appena finito di fare l’amore. Era meravigliosa.
– E lei non le chiese perché? Per quale motivo voleva smettere dopo un unico servizio? Non ha senso, ti pare, Lojacono? O non ne fai nessuno oppure…
Cava guardava di nuovo fuori dalla finestra. Pareva inseguire un ricordo. Poi si voltò.
– Certo che glielo chiesi. Avevo di fronte un’opportunità straordinaria, di quelle che non capitano due volte, e l’avevo trovata io, da solo. Secondo voi ero disposto a lasciarmela sfuggire?
Gli occhi a mandorla di Lojacono avevano assunto la solita espressione impenetrabile.
– La ragazza che cosa rispose?
– Che se l’avesse fatto ancora, l’avrebbero ammazzata.
In strada, il freddo terribile non impedí ai poliziotti di scambiarsi le prime impressioni sull’incontro appena concluso.
Alex era cupa.
– Non mi piace, ’sto Cava. Una ti dice che non può piú fare foto se no l’ammazzano, e tu non le chiedi nemmeno chi e perché? Non ci credo a ’sta storia che è rimasto senza parole.
Lojacono camminava con le mani in tasca e la testa incassata nel bavero del cappotto.
– Se davvero glielo ha detto con il tono che ha descritto, fissandolo negli occhi… Hai sentito, lo ha confessato lui stesso che era soggiogato da quella ragazza. E contemporaneamente non mi sembra il tipo che si sarebbe proposto di proteggerla. Non è un uomo d’azione.
– Non capisco perché lo difendi. È solo un maledetto maniaco, con quelle sue arie da esteta di quart’ordine. Io andrei piú a fondo su di lui.
– Di Nardo, scusa, ma mi sembra che tu sia un po’ prevenuta nei confronti di quell’uomo. In fondo ci è stato molto utile. Concentriamoci sui fatti, piuttosto. Al momento l’unico di cui sappiamo per certo che ha alzato le mani sulla Varricchio è il fidanzato, il nostro caro Nick Trash, o come si fa chiamare. Poi c’è la questione del padre. Dobbiamo capire se è stato davvero lui a litigare con Biagio la sera prima.
Entrando in macchina Alex rabbrividí, domandandosi per quale motivo in auto facesse piú freddo che fuori.
– Sarà come dici tu, però insisto, Cava non la racconta giusta. D’altra parte lo ha ammesso: aveva in mano una gallina dalle uova d’oro e non voleva farsela scappare. E che ne pensi di quella strana cifra? Tremilasettecento euro. Perché la ragazza ne aveva urgenza? A che cosa le serviva?
Lojacono lasciò lentamente il parcheggio.
– Questo sí che va approfondito. Ma se stai pensando a un movente economico, mi pare un po’ poco per ammazzare due persone. Invece dovremmo capire se il fratello aveva parlato di qualcosa con qualcuno e se era al corrente della situazione sentimentale di Grazia. Domani andiamo all’università. E speriamo di avere qualche risultato dalla scientifica.
L’ultima annotazione riportò la mente di Alex all’incontro programmato con Rosaria per il giorno dopo. Tossí cercando di mascherare l’imbarazzo.
– A proposito di domani, complimenti per lo sbolognamento di tua figlia alla trattoria. Non mi risulta che ci siano riunioni o interrogatori, la sera. Abbiamo qualche programmino, eh?
Lojacono era impacciato.
– No, sai, ho certi amici che vengono da fuori: una pizza tra maschi. Però mi dà fastidio che Marinella rimanga a casa da sola.
Alex ridacchiò.
– Sí, vabbe’. Comunque lo hai capito che alla signora Letizia tu piaci, vero?
– Ma va’, siamo amici! Sei mica una di quelle che sostengono che tra un uomo e una donna l’amicizia non può esserci? Ci conosciamo da quando sono arrivato qua, figurati, non c’è mai stato niente tra noi.
– Io non dico che non può esserci amicizia. Dico che lei ha una bella cotta per te. Credimi, una donna le capisce subito certe cose. Quindi stacci attento, solo questo: mi pare una persona perbene, sarebbe un peccato farla soffrire.
– Grazie. Offre un servizio completo, ’sto commissariato di Pizzofalcone: pure i consigli tipo posta del cuore. Santi, poeti e navigatori, altro che Bastardi.
La ragazza rise.
– Mo’ sí che ci vorrebbe Aragona. Lui, il poliziotto maledetto, sai come si arrabbierebbe a passare per santo. A proposito, chissà che stanno combinando lui e Romano con quella storia della bambina. Voglio chiederglielo.
XXIX.
Romano riemerse dal silenzio in cui si era chiuso da quasi mezz’ora.
– Abbiamo cambiato film. Siamo passati da un poliziesco americano anni Settanta a una brutta imitazione di Il cielo sopra Berlino.
Aragona lo fissò, perplesso.
– Che? Non l’ho visto. Parla di bombardamenti? Di guerra? Che c’entriamo noi con la guerra?
Romano scosse la testa e tornò a fissare il negozio dove lavorava Antonella Parise, la madre di Martina. Mancava poco alla chiusura, e i pochi compratori che lasciavano gli esercizi dell’esclusiva via commerciale si affrettavano per sfuggire al freddo.
Stavolta la donna si era portata dietro la figlia. Romano e Aragona le avevano seguite fin dal pomeriggio, quando erano uscite di casa e avevano preso l’autobus. Dalle vetrine, che offrivano una buona, anche se parziale, visuale dell’interno, avevano scorto la ragazzina tirare fuori i libri dallo zaino e andare nel retrobottega. La giornata era stata piuttosto fiacca, cosí la madre aveva avuto spesso la possibilità di raggiungerla. Alla cassa c’era sempre il principale, che sfoderava sorrisi a beneficio di chiunque entrasse.
– Che mestiere di merda, il commerciante, – disse Aragona. – Lecchi il culo a uno finché non ti si asciuga la lingua sperando che compri qualcosa, e magari quello ti fa tirare fuori tutto, poi ti dice grazie, ci penso su, e se ne va.
Romano, che la pensava allo stesso modo, si chiese il motivo per cui Antonella si portasse dietro Martina. Sembrava abbastanza grande da badare a sé stessa per qualche ora, fino al ritorno di uno dei genitori.
A meno che, si era risposto, non fosse proprio il ritorno del marito che la madre temeva.
Martina riemerse dal retro. Aveva l’aria stanca. Non c’erano piú clienti e le quattro commesse, inclusa Antonella, stavano riordinando la merce. Romano concentrò l’attenzione su madre e figlia, che confabulavano. Pareva che la ragazzina stesse cercando di convincere la donna a fare qualcosa e che lei resistesse. Dopo un po’ Antonella si avvicinò con aria sconfitta al principale, che stava contando l’incasso. Fra i due ci fu un breve scambio di battute, e a Romano sembrò di cogliere uno sguardo d’intesa fra le altre commesse lí vicino.
L’uomo, attento a non essere visto, sfilò qualche banconota da una mazzetta e la mise furtivo nella mano della donna.
Sparendo per un momento alla vista di Romano e Aragona, Antonella attraversò lo spazio fra due vetrine, tornò dalla figlia e si abbassò verso di lei. Martina l’abbracciò, corse a prendere il cappotto e uscí.
Aragona diede di gomito al collega.
– Seguila, – gli disse Romano. – Io rimango qui a vedere che altro succede.
La ragazzina si diresse verso un palazzone non lontano, dove si trovava un famoso centro commerciale, aperto fino a tardi, che trattava materiale hi-tech, libri e dischi.
Camminava lungo il muro, per ripararsi dal freddo. A un certo punto tirò fuori il telefonino e si mise a parlare. Aragona la seguiva a una decina di metri. Assorta com’era nella conversazione, era probabile che non si sarebbe accorta di lui nemmeno se l’avesse visto, ma era meglio non correre rischi.
Martina si fermò davanti a una vetrina dove erano esposti dei tablet; la conversazione al cellulare si fece piú animata. Aragona adocchiò la pensilina della fermata dell’autobus, che gli avrebbe consentito di avvicinarsi a portata d’udito senza farsi vedere. Guadagnò la posizione e si mise in ascolto.
– … e io le ho detto: sei proprio una carogna. Ma che cazzo di madre sei, se non tieni conto dei desideri di una figlia? Già hai sposato un miserabile, uno che fatica l’intera giornata per quattro soldi in quella banca di merda, e adesso non puoi nemmeno… eh, certo che gliel’ho detto! Con queste parole, ti giuro! E lei? Lei ha fatto la solita faccia da cane mazziato, quell’espressione compunta come se l’avessi presa a paccheri, ed è andata da lui… No, lui ha ceduto subito. Lo sai come si dice, no? Tira piú un pelo di… esatto. Ha cacciato i soldi, solo che non sono abbastanza per il sessantaquattro giga. Il maniaco sta incassando meno; tra la crisi e il freddo la gente non compra un cazzo. Che dici, mi accontento del trentadue o li metto da parte e aspetto? In fondo la settimana scorsa ho preso il telefono, no?… Be’, me lo posso sempre far mostrare, se c’è il commesso bono. Tanto lo sai, non posso tornare prima di un’ora, che…
La ragazza esplose in una risata sguaiata. Aragona era sconcertato dalla metamorfosi rispetto alla bambina intimidita e diffidente che aveva conosciuto a scuola. Stavolta, se avesse dovuto paragonare la scena a un film, avrebbe citato l’Esorcista.
– … T’immagini se arrivassi mentre lo fanno? Non sia mai, perderei tutto. Che? Sei pazza? Ci manca che glielo chiedo a lui. Quello non tiene manco gli occhi per piangere… Ma no, lo sa bene che il suo stipendio a stento basta per l’affitto. Ci pensa lei a tutto, dalle bollette ai vestiti, alla retta del tennis, figurati. Quindi è ben contento che noi… Vabbe’, vabbe’, ci sentiamo dopo. Dentro non prende e qua fuori mi sto congelando. Ciao, stronza.
Aragona lasciò passare quasi un minuto, poi la seguí all’interno. Andò a colpo sicuro, sapeva dove era diretta. E infatti la trovò che conversava tutta allegra con un ragazzo in divisa da commesso, tenendo in mano un tablet rosa.
Provò un senso di nausea, come se avesse mangiato pesante.
Seduto nell’auto, parcheggiata in posizione strategica, Romano continuava a scrutare l’interno del negozio, che ormai aveva chiuso. Le tre commesse colleghe di Antonella avevano quasi finito di riordinare, ridacchiando fra loro. Ogni tanto lanciavano un’occhiata in direzione di un punto dove Romano intuiva trovarsi Antonella.
Dopo qualche minuto presero i cappotti esalutarono in fretta, avviandosi verso la funicolare. A turno, come in un telefono senza fili, si sussurrarono all’orecchio qualcosa che doveva essere molto divertente, data la reazione che produsse.
Le luci della boutique si spensero, tutte tranne quella che giungeva dalla porta aperta del retrobottega. Da quanto aveva potuto vedere Aragona il giorno prima, quando aveva chiesto alla madre di Martina di seguirla al bar, era una specie di magazzino, però con un tavolo e un divano.
Nella penombra, Romano scorse Antonella appoggiarsi allo stipite, come per riposare la schiena. Si intravedevano la sagoma, alta, elegante, i capelli sulle spalle, il seno. Poi nella visuale del poliziotto comparve il proprietario del negozio. Si avvicinava alla donna lentamente. Romano pensò stessero parlando, ma la postura del corpo di lei tradiva una confidenza che non era emersa alla presenza delle altre commesse.
La Parise allungò mollemente un braccio e lo appoggiò sulla spalla dell’uomo, come per ballare. Lui si accostò ancora. I loro corpi erano l’uno contro l’altro. Si baciarono.
Romano si guardò attorno, come se fosse un suo problema che qualcuno li vedesse, o che la ragazzina tornasse. Ma in strada non c’era nessuno. Solo il vento che soffiava senza sosta.
I due entrarono nel retrobottega e chiusero la porta.
Romano rimase fermo in macchina, cercando di dare un senso a quella scena mentre aspettava Aragona.
XXX.
– Pronto, Laura? Ciao, sono io. Ti disturbo?
– Ciao! No, no. Non mi disturbi affatto. Stavo proprio leggendo le note di Palma a proposito dei vostri progressi.
– Be’, non è che abbiamo fatto grandi passi in avanti, per la verità. Stiamo lavorando come matti e…
– Sí, capisco. Io faccio del mio meglio per dare una mano a Palma, lo sai, ma in questura sono in tanti che…
– Palma ce lo ha detto. Credimi, nessuno potrebbe fare meglio. Ti sembrerò presuntuoso, ma è cosí, ne sono certo. Ci vuole un minimo di tempo, per queste cose. Dobbiamo scavare nella vita di due persone, non è semplice.
– Mi rendo conto. Però cercate di restringere il campo quanto prima, abbiamo bisogno di qualcuno da fermare, almeno. Certo, se trovassimo il padre, che è un pregiudicato…
– Non mi piace questa storia. Non ci sono elementi certi, non abbiamo nemmeno ancora le risultanze della scientifica. Solo perché è un pregiudicato non significa che…
– Lo so, ma ammetterai che è la pista piú logica. Ho letto la testimonianza resa dai due vicini di casa, come si chiamano… Amoruso Vincenzo e Mandurino Pasquale, a proposito di questa lite in dialetto calabrese tra due uomini poche ore prima del delitto, e…
– Io non ti chiamavo per questo, per la verità. Volevo… Insomma, ti volevo chiedere se…
– Avanti, dimmi.
– Volevo sapere se domani sera ti andava di mangiare quella famosa pizza. Cioè, non necessariamente la pizza, figurati, a me poi la pizza mi rimane pure sullo stomaco, magari del pesce. O anche della carne, dalle parti tue ne avete di fantastica, posso informarmi.
– Cioè, fammi capire: mi stai invitando a cena? È un appuntamento che mi stai chiedendo?
– Laura, per favore, non mi rendere tutto ancora piú difficile.
– Sí, la risposta è sí. A che ora ci vediamo e dove?
– Passo io da te. Ho preso una macchina, per accompagnare Marinella se qualche volta vuole andare a studiare da un’amica. Anche se lei preferisce girare a piedi o con i mezzi pubblici, e mi chiedo come faccia, in una città come questa. Insomma, se ti accontenti, è un’utilitaria usata, ma è in buone condizioni e…
– Andrà benissimo. E per il ristorante, scegli tu. A me piace tutto, non sono una difficile. Mangio fin troppo. Ti aspetto in procura, non ce la faccio a passare da casa. Verso le nove?
– Perfetto, grazie. Io… io sarò puntuale, ti faccio uno squillo quando arrivo. Magari a quell’ora trovo pure parcheggio.
– Sí. Certo.
– Perché lo sai, vicino alla procura è impossibile, a meno che non sei Aragona e posteggi su qualche marciapiede.
– Mi ricordo come guida Aragona, per un periodo mi ha fatto da autista, un vero pazzo.
– Sí, è pazzo. E pure tamarro. Però è un bravo poliziotto, alla fine. Anche gli altri…
– Mi porterò un cambio, non posso certo uscire combinata come arrivo a fine giornata. Scapperesti urlando, vedendomi.
– Ma no. Io, quando ti vedo, a tutto penso tranne che a scappare.
– Grazie, sei gentile. A domani.
– A domani. Ciao.
– Lojacono?
– Sí?
– Sei sicuro? Cioè, lo sai che aspettavo da tempo questa telefonata. Sei sicuro? Perché io non sono una che cerca qualcuno per…
– Sono sicuro.
– Va bene, allora. Ti abbraccio.
– Ti abbraccio anch’io.
XXXI.
Chissà perché stanotte penso agli abbracci.
Ne abbiamo passate tante, insieme. Abbiamo condiviso sogni, speranze. Abbiamo immaginato, a occhi spalancati, ogni tipo di futuro, anche il piú folle.
E tante sono state le vittorie contro la vita che si metteva di traverso, a te come a me. Perché non credere, anche per me è stato difficile, certe volte. Però poi c’eri tu, e tutto mi sembrava diverso; in due le battaglie sono piú facili da combattere.
Mi pare impossibile che tu non ci sia piú.
Mi pare impossibile non poterti chiamare, proprio adesso che sento il vento ululare e penso al freddo che c’è fuori. Mi piacerebbe parlare con te, anche senza sentirti al mio fianco. Mi aiuterebbe.
Stanotte io penso agli abbracci.
Quando si avverte la mancanza della pelle si immagina subito il sesso. Ma è nell’abbraccio che ci si perde, non credi? Quando i corpi aderiscono senza difese, senza barriere. L’abbraccio è rassicurante.
Io le ricordo tutte le volte che ci siamo rassicurati a vicenda.
Tu mi conoscevi bene, benissimo. Una cosa del genere non mi era mai capitata prima. Lo so che non sono facile da decifrare, eppure tu intuivi i miei pensieri da una semplice espressione.
È una sensazione impagabile, essere compresi. È meraviglioso sentirsi importanti, sapere che un tuo stato d’animo, una tua parola possono modificare la temperatura attorno a qualcuno.
Per questo non ho sopportato il tuo tradimento.
Fosse arrivato da un’altra parte lo avrei accettato, sono cose che fanno parte della vita. Ma da te no, non potevo, da te non pensavo di dovermi difendere.
È stata una coltellata alla schiena che ha ammazzato la parte piú bella di me, quella che si era infine aperta al prossimo.
Il tuo tradimento significava che concedersi, sfilarsi la corazza costruita con tanta fatica, strato dopo strato, era stato un errore.
No, non potevo sopportarlo.
Vedere il tuo nome là sopra.
Vedere quella fotografia.
Non potevo sopportarlo, lo capisci? Dovevo fare ciò che ho fatto.
Ma stanotte mi manca la tua stretta. Stanotte vorrei sentire il tuo corpo vicino al mio.
E perdermi in un lungo, interminabile abbraccio.
XXXII.
Esiste un momento della giornata che è diverso dagli altri, eppure è uguale in ogni casa. È la cena.
Prima di tutto la cena è diversa dal pranzo, perché dopo il pranzo ci sono ancora un intero pomeriggio e gran parte della sera da vivere, e i pensieri della giornata rendono distratti.
Ed è diversa pure dal rientro a casa, quando si corre in bagno o al computer o al televisore, con un frettoloso ciao o al massimo un bacio a fior di labbra.
A cena no. A cena ci si guarda in faccia, ci si racconta com’è andata.
E se per l’indomani si ha qualche programma, lo si dice.
Marinella buttò la pasta canticchiando il ritornello di una canzone che aveva sentito per strada.
Se c’era una cosa che la incantava, di quella città, era la musica. Ovunque andasse, a qualsiasi ora, c’era musica. Ricordava che suo padre gliene aveva parlato addirittura come di un fastidio, un’assurda invadenza degli spazi altrui, anche se solo in via sonora, ma a lei piaceva.
Non era l’unico punto su cui era in disaccordo col padre, riguardo alla città. A voler essere sintetici, il disaccordo col padre sulla città era totale.
Lui continuava a vederla come una galera, un posto nel quale era stato mandato a scontare una condanna. Mentre il luogo da cui veniva era un paradiso dove era sempre estate, dove non faceva mai freddo, dove l’aria era satura del profumo dei fiori e di un mare che si poteva toccare tutto l’anno, una terra popolata di gente cordiale che ti metteva una corona di fiori al collo ogni volta che t’incontrava per strada: aloha, papà.
Lei invece ricordava tre cinema nel raggio di cento chilometri, ricordava un caldo feroce che non dava requie, ricordava la diffidenza, la maldicenza, i pettegolezzi, e la cosa peggiore in assoluto, che tutti sapevano tutto di tutti.
Quando lei e sua madre erano rimaste là da sole, dopo che Lojacono era stato allontanato per quella storia poco chiara, attorno a loro, che non c’entravano nulla, era sceso un gelo di fronte al quale il freddo di quei giorni era una piacevole frescura primaverile. Nessuno le avvicinava piú, perfino la gran parte dei parenti aveva preso le distanze.
Il ragionamento era semplice: se era vero, come si diceva, che l’ispettore aveva passato informazioni alla mafia, allora era un infame; se non era vero, era pericoloso. In entrambi i casi, meglio non averci a che fare nemmeno per interposta persona.
All’inizio il trasferimento a Palermo sembrava una soluzione, invece aveva fatto venire a galla un ulteriore, grave problema: il rapporto tra Marinella e sua madre, Sonia. Una strisciante, silenziosa lotta culminata con la fuga della ragazza verso la città dove il padre espiava la pena. In quel momento tutto sembrava meglio dei continui litigi siciliani, che rendevano l’aria irrespirabile in casa e fuori.
Con suo padre era sempre stata bene. Non che avessero una gran confidenza, lui non parlava molto, ma si assomigliavano, anche nel carattere, e si capivano senza bisogno di tante chiacchiere. Poi lui rappresentava un punto fermo, un porto sicuro: e nella tempesta si cerca sempre un porto sicuro. Era stato naturale pensare di andare da lui.
Il suo papà non le aveva riservato sorprese, era quello di prima. La sorpresa era stata la città.
Marinella era entrata in un mondo che sembrava attenderla da sempre. Anche quelli che il padre considerava difetti, e che oggettivamente erano tali, a lei piacevano: il caos, il disordine, l’allegra ribalderia, l’arte di arrangiarsi e di subire col sorriso la divertivano perfino.
Il giorno prima aveva assistito a una scena che le era parsa pura arte. Un tizio a bordo di una Mercedes nera aveva imboccato nel senso corretto un vicolo dove la sua auto passava a malapena. A un terzo circa del percorso gli si era parata davanti un’utilitaria piena di ammaccature, con al volante una signora piuttosto imbranata che procedeva contromano. Be’, il tizio, forse intuendo che l’altra ci avrebbe messo un’eternità a risalire la stradina a marcia indietro, si era prodotto in una spettacolare gimcana tra i banchi dei fruttivendoli e le sedie delle comari, cosí che la scorretta quanto fortunata guidatrice potesse approdare alla via principale. In cambio della gentilezza aveva ricevuto dalla donna un radioso sorriso, a cui aveva risposto con un cordiale vaffanculo.
Come non innamorarsi di un posto simile, pensava Marinella.
Poi, appunto, c’era la musica: radio, Cd masterizzati abusivamente, files Mp3 piratati, autoradio al massimo volume che urlavano i propri bassi a distanza di cento metri. Un’allegra cacofonia, un caleidoscopio sonoro. Bisognava solo scegliere cosa ascoltare, escludendo, per quanto possibile, il resto.
La ragazza si chiese quanto pesasse Massimiliano nell’istintivo amore che provava per quella città. Probabilmente molto, ammise.
Il giovane abitava nello stesso stabile di Lojacono. Marinella presumeva che il padre non avesse scelto il palazzo per la sua presenza, ma era grata al caso per quella circostanza. Perché Massimiliano Rossini, studente di Lettere e aspirante giornalista, nonché figlio maggiore di una simpatica signora dalla quale, a scopo puramente investigativo, si era fatta prestare zucchero, sale e pepe in tre diverse occasioni, era il ragazzo piú bello e affascinante dell’emisfero boreale.
I due si erano incontrati un paio di volte per le scale, finché lui, attratto da quella nuova inquilina un po’ dark, con gli strani occhi a mandorla e gli intriganti zigomi alti, aveva attaccato discorso. A Marinella era sembrato di avere vinto alla lotteria – d’altra parte non poteva continuare a farsi prestare spezie e non avrebbe saputo quale altra manovra di avvicinamento tentare – e per un poco aveva addirittura temuto di essere presa in giro, perché le pareva impossibile che uno cosí si interessasse a lei.
Non era stato facile andare al di là del ciao, come stai. Ne aveva parlato a lungo con Letizia, che era ben presto diventata piú amica sua che di suo padre. Letizia, ironica e spassosa, mai invadente. Letizia, bella, accogliente e consolatoria. Letizia, che magari la mamma fosse stata cosí; solo quel testone del padre poteva non accorgersi che era innamorata di lui, affascinato invece da quella antipatica sarda in tailleur.
Letizia le aveva consigliato insomma alcune piccole, decisive mosse che avevano condotto Massimiliano felicemente in trappola. Una raffinata strategia fatta di mancati saluti, di parole pronunciate a metà e improvvisi sorrisi dopo lunghi silenzi, da un balcone all’altro o nell’androne. Alla fine, nei tempi e nei modi previsti dalla meravigliosa strega, che per hobby faceva l’ostessa, lui le aveva chiesto di uscire. Loro due. Da soli.
Ora il problema aveva assunto una differente colorazione di difficoltà, passando dal giallo al rosso. C’era un ostacolo alto da superare, e si chiamava Giuseppe Lojacono. Cadesse il mondo, alle ore venti in punto l’ispettore tornava a casa e passava la serata con la sua bambina, che gli preparava con gioia la cena; al massimo, qualche volta, andavano da Letizia. Dirgli chiaro e tondo che voleva uscire con un ragazzo era fuori discussione. Per lui Marinella era nel pieno dell’infanzia, una notizia del genere lo avrebbe sconvolto e le sue reazioni sarebbero state incontrollabili: avrebbe perfino potuto affrontare Massimiliano a tu per tu, e sarebbe stato il disastro. No, bisognava procedere con i piedi di piombo.
Perciò aveva architettato un complesso sistema di bugie incrociate che prevedeva la partecipazione di ben due compagne di scuola e delle loro madri, pronte ad assorbire eventuali telefonate di controllo. Il giorno zero era l’indomani, quando Massimiliano l’avrebbe portata al cinema per la prima volta. Ora, durante la cena, non restava che gettare là, come per caso, la notizia del terribile compito di matematica in programma quella settimana e della sessione notturna di studio che in tre avrebbero sostenuto a casa della vicina di banco.
Scolò la pasta, trasse un profondo respiro e andò nel soggiorno, animata dalle peggiori intenzioni.
La cena.
Il momento perfetto per dirsi tutto.
Il momento perfetto per confidare alla famiglia i nostri pensieri piú riposti, accogliendo il consiglio di chi ci ama.
Il momento perfetto per lasciarsi alle spalle le remore e gli scrupoli, per essere sé stessi.
Il momento perfetto per uscire allo scoperto.
Alex si sedette davanti al piatto di pastina in brodo, trattenendo il conato che sempre le saliva subdolo in gola. La pastina le faceva schifo, il brodo le faceva schifo e la pastina e il brodo insieme le facevano ancora piú schifo, eppure da oltre vent’anni, una volta alla settimana, mangiava quella roba fino all’ultimo boccone, sentendosi addosso, a intervalli, gli occhi del Generale che vegliava sulla sua perfetta salute alimentare. Ogni tanto lei ricambiava lo sguardo, fingendo apprezzamento.
Certe volte pensava a sé stessa come a una specie di dottor Jekyll, con un mostro nascosto dentro pronto a balzare fuori nel terrore dei presenti.
Il disagio per la pastina in brodo era accentuato dal terribile risucchio che il padre produceva a ogni cucchiaiata, seguito da un rumore sordo di piacere. Se mai Alex avesse deciso di scappare da quella casa dopo avere sparato ai genitori, sarebbe successo la sera della pastina in brodo. Su questo non aveva dubbi.
La cena si svolgeva in silenzio, secondo l’educazione: se c’era qualcosa da dire, bisognava approfittare dei due minuti tra la fine del pasto e l’accensione del televisore. Attese il momento con calma, sezionando con irritante attenzione la fettina di carne che seguí, anemica, l’insapore primo piatto.
Alla fine, nei tempi previsti e con il tono infastidito di chi non può sottrarsi a un obbligo, comunicò che l’indomani sera avrebbe partecipato a una riunione in commissariato per il duplice omicidio su cui stavano indagando.
Mentalmente chiese scusa ai ragazzi uccisi per averli utilizzati in modo tanto improprio. Ma tra vittime ci si capisce.
Il Generale brontolò qualcosa sul fatto che si pretendeva troppo per uno stipendio da fame, però l’orecchio allenato di Alex colse il retrogusto di orgoglio nei confronti di una figlia impegnata a risolvere un caso tanto importante, il caso di cui tutti i telegiornali parlavano.
Alex si immaginò a letto con Rosaria Martone al termine di una cena a base di ostriche e vino bianco, tra candele accese e profumo di incenso, e dovette fare uno sforzo enorme per non sorridere alla mela che cominciò a sbucciare.
Marinella attese che il padre terminasse di mangiare. Le pareva piú silenzioso del solito, un po’ a disagio, ma forse era solo stanco.
Provò un moto di tenerezza: certe volte pareva cosí vecchio. Per un attimo le venne uno scrupolo di coscienza al pensiero di lasciarlo solo, fosse anche per una sera. Poi pensò a Massimiliano, al suo sorriso smagliante sotto il ciuffo spettinato, a quelle mani forti che reggevano lo zainetto scendendo le scale, e ogni dubbio si sciolse.
Stava per aprire la bocca e iniziare il discorso sulla matematica, sulla difficoltà del compito e sulla necessità di un’adeguata preparazione da completare con l’aiuto delle compagne, quando il padre l’anticipò.
– Ascolta, tesoro, ti dispiacerebbe tanto se domani non tornassi a casa per cena? Un vecchio amico di accademia, siciliano pure lui, è in città per un corso, e siccome finisce tardi non voglio invitarlo qua, però vorrei fargli compagnia, non ci vediamo da un sacco di tempo. Ti direi di venire con me, ma ti annoieresti. Sai: i ricordi, i vecchi tempi, eccetera.
Marinella si sarebbe messa a ballare sul tavolo, ma il genitore avrebbe potuto mal interpretare quella reazione.
– E dove lo porti, papà? Da Letizia?
– No, lui… lui non conosce la città, è troppo difficile spiegargli dov’è la trattoria. Anzi, a proposito di Letizia, le ho chiesto di ospitarti; non mi va di lasciarti da sola qui. Ti aspetta per le otto, ma se fai piú tardi per via dei compiti, non preoccuparti.
Un piccolo intoppo, pensò Marinella, tuttavia superabile: Letizia era dalla sua parte, non sarebbe stata un problema.
– D’accordo, sta’ tranquillo, tanto ho da studiare parecchio: dopodomani abbiamo il compito di Matematica. Mangerò da lei.
La felicità per avere incontrato una morbida discesa dove temeva un’aspra salita impedí alla ragazza di interrogarsi sulla misteriosa serata del padre, cosa che certamente avrebbe fatto, se non avesse avuto i suoi programmi.
Agguantò una mela e la morse, di gusto.
La cena.
Il miglior momento della giornata per una famiglia unita.
Il miglior momento per essere sinceri.
XXXIII.
Per una volta arrivarono al commissariato tutti insieme, con buon anticipo sull’orario di entrata in servizio. Per alcuni, come Ottavia, non era una novità; per altri, come Aragona, l’evento aveva del miracoloso.
Il caldo tropicale non imperversava ancora nell’edificio, perché Guida aveva messo in moto la caldaia da poco. Romano, che non soffriva il freddo, si spogliò lo stesso fino a rimanere in maniche di camicia; Alex, invece, tenne la giacca.
Palma si guardò attorno soddisfatto, ma sul suo viso si coglieva la vena di preoccupazione che negli ultimi tempi non lo abbandonava quasi mai.
– Sono contento che ci siamo tutti, cosí possiamo tenere un piccolo consiglio di guerra a inizio giornata. Sapete come stanno le cose, per fortuna o purtroppo non è successo molto altro in questi giorni, e la stampa ci sta addosso per la questione dei due ragazzi. La verità è che non facciamo grandi progressi. Il padre non salta fuori, nonostante abbiamo allertato mezzo mondo con le foto segnaletiche. Mi chiedo come diavolo possa sparire uno tanto noto alle forze dell’ordine.
Ottavia era sconsolata.
– Purtroppo succede. Un paio di volte al giorno sento i carabinieri di Roccapriora, che sono in stato di massima allerta e tengono sotto controllo anche i pochi amici, parenti e conoscenti della famiglia. Ho fatto pure approfondire un paio di sciocchezze commesse da Foti, il ragazzo della Varricchio, ma davvero si tratta di bravate, nel peggiore dei casi. Insomma, niente di niente su quel versante.
– E su Cava, quello dell’agenzia di modelle, è venuto fuori qualcosa? – chiese Alex. – Io ne ho ricevuto una pessima impressione.
– Ho fatto qualche ricerca dal computer di casa, dopo che mi avete telefonato al termine dell’incontro. Non c’è granché da dire: è sposato da vent’anni con la stessa donna, non hanno figli; lei faceva la modella ed era piuttosto nota, poi ha smesso. Capita. Ho trovato un articolo su un giornale scandalistico di una decina d’anni fa in cui si parla di una scenata estiva in un locale vicino alla spiaggia. A quanto pare lei era ubriaca e lo ha accusato di avere una storia con un’altra, sempre una modella, ma la cosa non ha avuto seguito.
Pisanelli si intromise.
– L’agenzia è abbastanza conosciuta. Ho chiesto a una mia amica giornalista di moda, sembra sia una delle piú grandi del Meridione, se non la piú grande.
– Cioè, attorno al duecentesimo posto a livello nazionale, – borbottò Aragona. – Come tutte le imprese da queste parti.
Pisanelli si strinse nelle spalle.
– Comunque ha buona fama, come si dice. Ho sentito il tribunale e non risultano vertenze pendenti presso la magistratura del lavoro, cosa abbastanza inusuale per chi gestisce questo tipo di attività. Contratti di ferro e tutto alla luce del sole, tasse e contributi inclusi.
– Ci fa piacere, – disse Lojacono, – ma non è di evasione fiscale che stiamo parlando, e Cava non è Al Capone. Mi è parso molto controllato, perfino troppo, tipico di chi ha delle ossessioni. Il profilo dell’assassino è quello di una persona soggetta a scoppi d’ira, a momenti di furia cieca.
– Per esempio il ragazzo che suona e canta, – disse distrattamente Romano. – Lo avete descritto come un soggetto umorale, emotivo. E siccome le ha dato uno schiaffo, ne avete fatto il colpevole favorito del giorno.
Palma allargò le braccia.
– In pratica, brancoliamo nel buio. Stiamo aspettando il rapporto finale della scientifica, stiamo aspettando di rintracciare e interrogare il padre, stiamo aspettando che qualcuno faccia un passo falso. Stiamo aspettando. Intanto il tempo passa, e sapete che la statistica…
Aragona finí la frase.
– … dice che se il colpevole non viene scoperto entro ventiquattro ore le possibilità di trovarlo crollano.
Il commissario lo guardò storto.
– Proprio cosí. E non lo sai solo tu, lo sanno anche in questura, dove non aspettano che di piombarci addosso come avvoltoi per toglierci il caso. Un paio di giorni, non di piú, e dobbiamo passare la mano.
– Non è ancora finita, – disse cupo Lojacono. – A parte il rapporto della scientifica, mancano altri elementi. Dobbiamo capire la ragione della strana cifra chiesta dalla Varricchio a Cava, tremilasettecento euro; dobbiamo andare all’università per scoprire se il ragazzo, Biagio, aveva fatto delle confidenze a qualcuno; e soprattutto dobbiamo trovare il padre delle vittime, Cosimo. Non possono toglierci il caso prima che completiamo questo quadro. Noi ci diamo dentro, ma tu coprici.
Palma si rese conto che lo guardavano tutti. Scalcinati e bastardi, ma almeno una squadra. E una squadra che non mollava l’osso.
– Farò il possibile. Ma vi ripeto, abbiamo al massimo due giorni. Io paro i colpi, però se non troviamo nulla dovrò cedere. Lojacono, utilizza tutte le risorse del commissariato, incluso me, se posso servire. Voi, – disse rivolgendosi a Romano e Aragona, – se non avete novità sulla bambina molestata, chiudete la faccenda e passatela alla procura dei minori, cosí date una mano.
Romano lanciò un’occhiata ad Aragona.
– Ci conceda ancora stamattina, capo, e ci mettiamo a disposizione.
Palma gli puntò contro un dito.
– Siamo d’accordo, stamattina, poi mi relazionate. Dateci dentro, ragazzi.
E scomparve in ufficio.
Aragona aveva l’aria sognante.
– Quanto mi piace, quando fa cosí.
XXXIV.
L’esperienza universitaria di Lojacono risaliva a parecchio tempo prima, e per giunta era avvenuta lontano, in un’altra regione; quella di Alex era piú recente e si era compiuta nella città, all’interno di un austero e antico palazzo con scalinate in pietra e mezzibusti in marmo. Eppure, tornare fra le mura di un ateneo suscitò in entrambi quel misto di rimpianto, allegria e senso di esclusione che provano gli adulti quando si ritrovano in mezzo ai ragazzi.
Una marea umana fluiva e defluiva in ogni direzione. Singoli e gruppi vocianti si scontravano scambiandosi scuse. Occhiali e capelli legati, lunghe barbe e baffetti ridicoli, creste colorate e anfibi: tutti diversi, tutti simili negli sguardi e nei gesti.
Grandi bacheche in sughero sostenevano stratificazioni di avvisi: richieste di lavoro e ricerche di appartamenti, proposte di adozione di animali domestici, vendite di motorini e di abiti usati, offerte di lezioni private e di servizi di baby-sitter a ore. A sciami, come api, i giovani si fermavano di fronte a un foglio sgualcito, prelevavano una linguetta con un numero di telefono e volavano altrove.
Sui gradini della scala che portava ai piani superiori stazionavano gruppi di studenti che in altre condizioni climatiche se ne sarebbero stati al sole a chiacchierare di esami difficili e storie d’amore; ma quel giorno le panchine sotto i muri pieni di graffiti erano ghiacciate, e gli unici a sfidare il freddo erano gli irriducibili fumatori che bidelli e custodi scacciavano in malo modo dall’androne.
Lojacono e Di Nardo avevano chiesto a Ottavia di annunciare la loro visita, per essere sicuri di incontrare sia il professor Forgione sia il figlio, Renato, che volevano risentire; la mattina in cui aveva ritrovato i cadaveri era troppo traumatizzato per essere lucido.
I due poliziotti si erano persuasi che, a differenza del mondo di Grazia, sfaccettato e fatto di relazioni che conducevano a versanti diversi – il fidanzato, il padre, l’agenzia di modelle – quello di Biagio si esaurisse nello stabile in cui erano adesso.
Arrivati all’ultimo piano, sbucarono in un corridoio dove ampie finestre lasciavano entrare a fiotti la luce del sole. La calca dei piani inferiori era scomparsa. Una donna li accolse in un ufficio ingombro di documenti e, attraverso un secondo corridoio piú stretto e una breve rampa di scale metalliche, li accompagnò fino a una porta, e bussò. Lojacono sperava che avrebbero avuto una guida anche al momento di andarsene, altrimenti rischiavano di non trovare l’uscita.
Il professor Antimo Forgione, direttore della cattedra di Biochimica della facoltà di Biotecnologie industriali, gli andò incontro. Aveva un fisico solido, da sessantenne curato, e assomigliava tanto al figlio. Non era molto alto, ma i capelli brizzolati, tenuti in ordine, e la mascella volitiva gli conferivano un’aria imponente, accentuata dalle spalle larghe e dall’incipiente pancetta che si intravedeva sotto il blazer blu di ottima fattura e la cravatta regimental.
Dedicò ad Alex e Lojacono un sorriso aperto e cordiale, velato di tristezza.
– Buongiorno. La vostra collega ha chiamato ieri in segreteria. Avevo un convegno in città, ma ho rimandato la mia presenza, ci tenevo a incontrarvi subito. Quello che è successo al povero Biagio è terribile. Qui in facoltà siamo sconvolti.
L’ufficio, non grande, era vissuto e disordinato: un luogo di lavoro, non di pubbliche reazioni. Con l’aiuto del professore sgombrarono da grafici e riviste scientifiche due sedie davanti alla scrivania.
– Scusate la confusione, la roba si accumula a una velocità impressionante. Mi chiedo quando la benedetta rivoluzione informatica, di cui si parla da anni, eliminerà tutta questa carta. Ma accomodatevi, e ditemi come posso aiutarvi nelle indagini. Da parte nostra, dell’università intendo, avrete ogni collaborazione.
Lojacono ringraziò con un cenno del capo.
– Professore, piú che cercare qualcosa in particolare, stiamo raccogliendo il maggior numero di elementi possibile. Vorrei avere le sue impressioni sul ragazzo, e magari sapere chi frequentava, se di recente aveva avuto delle dispute, un litigio. Roba del genere.
– Un litigio? Biagio Varricchio? Si vede che non lo avete conosciuto. Era la persona piú mite e gentile dell’universo. Fin troppo educato, fin troppo serio. C’erano volte che veniva qui e io, in questo casino, nemmeno me ne accorgevo, perché se ne stava in piedi, lí, accanto a dove siete voi, ad aspettare che gli dessi il permesso di parlare. No, escludo che in facoltà abbia avuto qualsiasi discussione.
Alex prendeva appunti sul taccuino.
– Lo conosceva da molto?
Forgione corrugò la fronte.
– Dunque, mi faccia riflettere: lo notai la prima volta sei anni fa, in occasione dell’esame di Biochimica che sostenne da studente. Fu estremamente brillante. Un vero talento naturale. Dietro la calma e la posatezza nascondeva una mente fertile e intuitiva. Non sono tanti quelli come lui, purtroppo.
– Purtroppo? Perché?
Il professore sospirò.
– Vede, signorina, molti dei ragazzi che arrivano da noi sono persone che non hanno trovato posto altrove. La difficoltà dei test d’accesso a Medicina, Farmacia o Ingegneria porta chi non ce l’ha fatta a iscriversi qua come ripiego, per poi ritentare l’ammissione alla facoltà che aveva scelto. Ciò comporta un buon numero di matricole e una sensibile riduzione degli studenti negli anni successivi. Sono pochi quelli che vogliono davvero dedicarsi alle nostre materie, che invece sono bellissime e fondamentali, e offrono anche importanti sviluppi professionali. Ma è difficile farlo capire.
– Varricchio, invece? – domandò Lojacono.
– Biagio era qui perché qui voleva essere. Ve l’ho detto, capita di rado, ma per fortuna capita. Cominciò a frequentare la cattedra subito dopo l’esame, e anche questo lo apprezzai, perché non lo faceva per prendere un voto alto: la sua era passione autentica. Per me era come un figlio.
Alex studiava il viso del professore: sembrava sinceramente addolorato.
– Significa che aveva con lui un rapporto piú stretto che con altri?
– Sí. Voi avete conosciuto mio figlio; sono un padre fortunato, anche Renato è in gamba e, bontà sua, segue le mie orme: è uno dei nostri assistenti piú apprezzati. Be’, Biagio era il suo migliore amico. Studiavano insieme fin dal secondo anno di corso e conducevano le ricerche in comune. Hanno firmato congiuntamente importanti articoli per riviste scientifiche, e alcuni lavori iniziati da loro sono stati presi in carico da università statunitensi con le quali siamo in contatto. È una cosa di cui vado molto fiero.
– Quindi avete avuto modo di conoscerlo davvero bene, Varricchio.
Forgione si incupí.
– Ma certo, girava sempre per casa. Vorrei avere un euro per ogni volta che l’ho trovato sui libri all’alba, nella mia cucina, dopo una notte intera passata a studiare con Renato. Sempre col sorriso sulle labbra, sempre a chiedere scusa. Un ragazzo d’oro.
– E di che cosa si occupava qui da voi, esattamente? – chiese Lojacono. – Qual era il suo lavoro? Svolgeva didattica?
– Sí, ma non era la sua attività principale. Noi cerchiamo di utilizzare tutte le risorse al meglio, e il punto di forza di Biagio, come di mio figlio, era la ricerca. Insieme erano una forza della natura. Da padre vi dico che sono molto preoccupato per il contraccolpo che la sua morte avrà su Renato: sono due giorni che in pratica non parla, è sotto shock. In ogni caso, Biagio passava la maggior parte del tempo in laboratorio, impegnato alle rilevazioni degli elementi sui quali faceva ricerca.
– Può essere piú preciso?
Forgione cercò qualcosa sul ripiano della scrivania.
– Dunque, lui si era laureato con me con una bella tesi sulle prospettive di bioingegnerizzazione degli enzimi metabolici. Abbastanza innovativa, non tanto nell’argomento quanto nell’individuazione degli sviluppi. Inutile dire che prese la lode. Ah, ecco, l’ho trovato.
Aprí sul tavolo una rivista di carta lucida. Sotto il titolo dell’articolo, I giovani leoni della biotecnologia, un Biagio Varricchio parecchio imbarazzato, ma vivo, guardava i poliziotti da dietro le lenti degli occhiali.
– Prego, tenetela pure, – disse Forgione. – È pubblicata dall’università, e la leggono anche gli altri studenti. Il lavoro di Biagio e di mio figlio ha assunto un certo valore. Stanno conducendo una ricerca sulle proteine ricombinanti, non credo sia il caso di stare qui a spiegarvi, ma se volete…
Lojacono alzò la mano.
– No, grazie, non è necessario. Però, scusi se insisto, professore, non c’era, che so, dell’invidia? Qualcuno poteva essere interessato a prendere il posto di…
Forgione lo interruppe, deciso.
– Assolutamente no. Ognuno svolge il compito che gli viene assegnato: non ci sono rivalità perché si fanno cose diverse. Inoltre, purtroppo, non è che abbiamo molti soldi, quindi non c’è neanche lo stimolo economico per farsi la guerra. I nostri dottorandi vengono pagati poco e male. Lavorano per amore della ricerca, o al massimo per farsi spazio, un giorno, nel mondo industriale.
Lojacono colse l’occasione per introdurre un nuovo argomento.
– Le risulta che di recente Biagio avesse manifestato un particolare bisogno di soldi? Che avesse chiesto un anticipo sulle spettanze, o un prestito a qualcuno?
Forgione si concentrò, cercando di ricordare un episodio che potesse concordare col quadro di necessità ipotizzato dall’ispettore.
– Non mi viene in mente niente. Ma non credo. Sono certo che se fosse stato in difficoltà si sarebbe rivolto a me. La mia porta è aperta per tutti, e a maggior ragione lo era per lui. E poi, ispettore, i dottorandi vengono sempre pagati con parecchio ritardo: al limite avrebbe chiesto parte di quel poco che gli era dovuto, e come in altri casi avremmo trovato il modo di provvedere.
– E non ha neanche notato qualche cambiamento, qualche ombra, nell’ultimo periodo? – domandò Alex.
Il professore rifletté di nuovo. Lojacono notò come prendesse sempre molto sul serio quello che gli veniva chiesto; non dava nulla per scontato e non sembrava interessato a dimostrare di avere tutto sotto controllo.
– Guardi, – disse infine Forgione, – purtroppo, come potete immaginare, il mio lavoro è diventato piú burocratico che propriamente scientifico, e in laboratorio passo ormai poco tempo. Anche se cerco di mantenere vivo il rapporto con i collaboratori: mi informo di quello che stanno facendo e periodicamente li incontro, magari solo per fare due chiacchiere… L’umore, la libertà mentale e la concentrazione sono fondamentali in uno scienziato. Per avere una risposta alla sua domanda che abbia qualche valore, deve parlare con mio figlio, però se devo essere sincero sí, nell’ultimo periodo il ragazzo era diventato piú chiuso e perfino distratto. I risultati del suo lavoro, sempre notevoli, erano in lieve calo, e credo che proprio Renato lo stesse aiutando incrementando il proprio contributo. Loro credevano che non me ne accorgessi, ma io i miei polli li conosco.
– E secondo lei da che cosa dipendeva questa impasse? – intervenne Alex.
Forgione si strinse nelle spalle.
– Non saprei. Però, secondo mio figlio, l’arrivo della sorella, che io peraltro non ho mai incontrato, aveva portato un po’ di… disordine nella vita di Biagio. Forse anche soltanto un movimento al quale non era abituato. Immagino siate a conoscenza del fatto che Biagio occupava, in maniera gratuita, un appartamento di nostra proprietà, quindi un certo viavai di personaggi alquanto… particolari mi era stato segnalato dall’amministratore del condominio.
– Per esempio?
– Pare che un mesetto fa la ragazza abbia avuto un alterco col fidanzato nell’androne. Una signora anziana, che abita al primo piano, si è spaventata e ha protestato in assemblea di condominio.
I due poliziotti si guardarono: doveva trattarsi del litigio citato da Paco Mandurino, uno dei vicini dei Varricchio. Decisamente il rapporto fra la povera Grazia e Nick Trash era movimentato.
– Grazie, professore, – disse Lojacono, – è stato molto gentile. Ora vorremmo vedere il luogo dove lavorava Varricchio. E dobbiamo anche parlare di nuovo con suo figlio. Magari gli viene in mente qualcosa che potrebbe esserci utile.
Forgione si alzò.
– Ma certo. Venite con me, vi accompagno in laboratorio.
XXXV.
Antonella Parise spuntò dalla funicolare al capolinea in collina. Con la sua figura alta e flessuosa, il passo agile, i capelli rossi legati in una coda, spiccava tra la folla che scivolava nel freddo verso le mete della giornata lavorativa.
Romano e Aragona uscirono dall’ombra e le si pararono davanti.
La donna fece finta di non riconoscerli e tentò di scansarli, ma Aragona fu lesto a sbarrarle la strada.
– Buongiorno, signora. Ma che fretta, stamattina. Non ci farebbe compagnia per un caffè?
La Parise ebbe uno scatto.
– Non avete alcun diritto di continuare a disturbarmi. Se non la smettete, protesterò con i vostri capi. Né io né la mia famiglia abbiamo fatto niente per…
– E noi presenteremo le nostre scuse per primo a suo marito, – la interruppe Romano, – che non ha nemmeno idea di quello che nella scuola di sua figlia pensano di lui. Anzi, sa che c’è? Ci andiamo subito.
La donna rimase zitta, gli occhi verdi puntati sulla faccia del poliziotto. Poi si girò e si avviò verso il bar della funicolare.
Quando furono seduti al tavolino ed ebbero ordinato i caffè, la donna sibilò:
– Ma non capite? Non c’è niente di niente. Nulla da indagare o da scoprire. Mia figlia… lei fantastica, sogna, e scrive i suoi sogni. Tutto qui.
– Vede, signora, – disse Aragona togliendosi gli occhiali, – non deve affatto convincerci. Lo sappiamo che Martina si è inventata tutto.
– Come? Cioè, voi… allora, se è cosí, perché siete venuti? Io devo andare al lavoro, non posso…
Romano disse, a bassa voce:
– E non le interessa come siamo arrivati a questa conclusione? Perché immagino si renda conto che il reato di cui sua figlia accusa il padre è uno dei piú turpi e odiosi, una faccenda gravissima della quale in genere si va a fondo, coinvolgendo psicologi e magistrati. Sono procedure lunghe e dolorose, che possono rovinare una vita. O perfino piú vite.
Antonella rimase in silenzio, scuotendo piano il capo come a negare anche solo l’ipotesi di quello che aveva prospettato Romano. Da un occhio cominciò a scorrerle una lacrima, che asciugò con un gesto secco della mano.
– No, non mi interessa come lo avete capito. Mi interessa solo che ci lasciate in pace, soprattutto mio marito. Lui è una brava persona, non si merita…
Aragona si abbandonò a una risata grossolana.
– Ancora una volta siamo d’accordo, cara signora. Suo marito è una brava persona, e non si merita questo. Un sacco di cose, non si merita. Non crede?
Romano si convinse che il collega fosse stato sgradevole in maniera volontaria, e non si sentí di rimproverarlo per quella piccola soddisfazione.
– Non vogliamo entrare nel merito dei vostri rapporti, – disse. – Per fortuna nostra non ci riguardano. Però ci riguarda il fatto che sua figlia stia diffondendo nelle persone che la circondano l’idea di un padre molestatore. Abbiamo bisogno di capire perché, per tranquillizzare chi un domani potrebbe farsi venire la tentazione di sporgere una denuncia. Quindi, o parla lei o saremo costretti a rivolgerci a suo marito.
Per qualche secondo la Parise rimase ferma, inespressiva. Poi la diga cedette, e la donna si sfogò con Romano e Aragona come se fossero stati dei confessori, non dei poliziotti.
Mio marito guadagna poco. Non poco in assoluto, mi rendo conto che c’è chi con molto meno tira avanti una famiglia e magari ha piú figli. Ho pensato spesso che forse è stato quello il nostro errore: se i figli fossero stati piú d’uno, probabilmente avrebbero avuto meno grilli per la testa.
Martina, sapete, è intelligente. Davvero intelligente. E anche astuta. Lo è sempre stata, molto piú delle sue coetanee. Riesce a manovrare la gente a suo piacimento; ha il dono di intuire le debolezze delle persone e di utilizzarle a proprio vantaggio. Lo so, non è bello che una madre parli cosí della propria figlia, ma è la verità.
I genitori cercano di fare del loro meglio, solo che a volte non capiscono che il meglio non è quello che credono loro. Noi, per esempio, abbiamo voluto che la bambina frequentasse una scuola di élite, dove vanno i figli dei professionisti e degli industriali. Abbiamo pensato che in questo modo avrebbe avuto la possibilità di entrare nella migliore società, e magari, in seguito, di conoscere qualcuno in grado di affrancarla dalla sua condizione mediocre.
Abbiamo sbagliato.
Abbiamo sbagliato perché il risultato è stato quello di instillare in lei un senso di inadeguatezza. Ha imparato a sembrare invece che a essere. E ha sviluppato l’invidia.
Mia figlia ha invidiato le amiche, anzi, le compagne di classe, fin dal primo giorno di scuola. Invidiava le scarpe, i giubbotti, gli zainetti, la macchina con l’autista che le accompagnava a scuola, il salone dove veniva invitata alle feste. Non potendo eguagliare le altre ragazzine nell’abbigliamento e nelle frequentazioni, ha deciso di diventare il loro capo. E ci è riuscita.
Ha cominciato a odiare il padre tre anni fa. Lo incolpava di quello che non riusciva a darle. E alla fine non ha trovato di meglio che decidere che Sergio è un poveraccio, incapace di darci quello che ci meriteremmo. Con me non si è accanita perché sono bella. Io sono bella, quindi, secondo lei, dovrei accompagnarmi con un ricco e rendere ricca anche lei. Il padre, invece, è solo una palla al piede.
In un certo senso è stata lei a gettarmi fra le braccia di Pasquale, il proprietario del negozio in cui lavoro. La relazione è iniziata prima che mi desse l’impiego; ci siamo conosciuti nella sala d’attesa del dentista dove portavo Martina. Lei lo chiama zio Lino. Lui ne compra il falso affetto e il silenzio facendole dei regali, e lei in cambio gli concede l’occasione di… be’, mi pare di capire che lo sappiate.
Vi state domandando se mi sento sporca? Sí, mi sento sporca. Ma non per quello che pensate.
Mio marito sa della mia relazione. Circa sei mesi fa Martina glielo ha detto, sperando che se ne andasse. Pensa che se riuscissimo ad affrancarci da lui, Pasquale mollerebbe la moglie e tutti e tre insieme vivremmo nel lusso. Non è cosí, naturalmente. Una cosa è allungare qualche centinaio di euro a una ragazzina per farsi senza problemi una piacevole scopata con la madre, un’altra mandare a puttane la propria vita. Perdipiú è sua moglie che ha tutto intestato, lo lascerebbe col culo per terra.
Ho cercato di farlo capire a mia figlia, ma lei è convinta che se giochiamo bene le nostre carte andrà a finire bene. L’unico ostacolo che vede è Sergio. Quando ha provato a dirglielo, lui si è messo a urlare che non ci credeva e che non ci avrebbe creduto nemmeno se lo avesse visto. Non mi ha nemmeno chiesto di smettere di lavorare, perché in quel caso dovremmo ridimensionare tutto: vendere la macchina, cambiare casa… E sarebbe ancora peggio. Meglio girarsi dall’altra parte e fare finta di niente.
L’ultima fissazione di Martina è questa delle molestie. Non te ne vuoi andare, ha pensato? E io ti faccio arrestare. L’ispirazione le è venuta da un telefilm in cui un padre veniva diffidato dall’avvicinarsi a piú di un chilometro dai figli. Assurdo, eh?
Io mio marito non lo amo piú, intendiamoci. Eravamo dei ragazzini quando abbiamo concepito Martina. Ma di qui a volerlo accusare di una schifezza del genere, ne corre. Preferisco andare avanti cosí, ormai non posso piú tornare indietro.
Non posso piú.
Romano e Aragona rimasero in silenzio, gli occhi fissi sul viso della donna.
Si alzarono, pagarono il conto e uscirono dal bar con un carico di angoscia che non avevano quando erano entrati.
Restava un’ultima cosa da fare, prima di chiudere la questione.
XXXVI.
Lojacono e Alex seguirono il professor Forgione attraverso un dedalo di corridoi e scale. L’ispettore era sempre piú convinto che senza uno scout esperto sarebbero rimasti prigionieri a vita di quel palazzo.
Quando arrivarono al laboratorio, rimasero colpiti. Era ampio, ordinato e pulitissimo. Tra sé e sé, il poliziotto dovette ammettere che spesso i suoi pregiudizi negativi su quella città sporca e incasinata venivano smentiti dai fatti.
Renato era in piedi davanti a un complicato sistema di provette e tubicini in vetro. Guardava nel vuoto, pallido come uno straccio; con la mano tormentava l’orlo del camice. Il dolore per la perdita dell’amico e il trauma per avere ritrovato il suo cadavere erano ben lungi dall’essere stati assorbiti.
C’erano almeno altre otto o dieci persone, che alla vista del professore si agitarono. Era chiaro che il capo si faceva vedere di rado, e l’intento comune era quello di fare buona impressione.
– Signori, buongiorno a tutti, – disse Antimo Forgione. – Scusate se interrompiamo il vostro lavoro. Come sapete, l’università e il nostro istituto in particolare sono stati colpiti da una perdita, quella del caro dottor Varricchio. I signori sono della polizia e stanno svolgendo le indagini sul caso. Vi prego di mettervi a loro disposizione e di rispondere a qualsiasi domanda desiderino farvi.
Il tono perentorio fu apprezzato da Lojacono.
– Grazie, professore. Per il momento sarà sufficiente parlare con suo figlio, che abbiamo già conosciuto.
Gli altri presenti si guardarono, tirando un sospiro di sollievo, e ripresero in silenzio le attività che avevano interrotto.
Renato si avvicinò, salutando.
Il professore li condusse in un ufficio separato dalla sala tramite una parete a vetri, ma isolato acusticamente.
– Renato, – disse al figlio, – i signori vogliono sapere dell’ultimo periodo di Biagio: come stava, se aveva qualche preoccupazione. Io gli ho riferito quello che potevo, ma il suo amico eri tu. Gli ho raccontato anche che da un po’ coprivi le sue mancanze col tuo lavoro…
Il ragazzo si schermí.
– Papà, dài, ti ho detto mille volte che non è cosí, lui…
Il professore gli toccò con dolcezza un braccio.
– Mio caro, credi forse che io non sappia giudicare i miei collaboratori? So sempre cosa fate qui dentro, e pure cosa non fate. Da sei mesi i progetti che vi sono stati assegnati li seguivi per la massima parte tu. Ma non ha importanza, conoscevo le capacità e la bravura di Biagio, si trattava solo di aspettare che il brutto momento passasse. Purtroppo, come sappiamo, non è passato.
Renato aprí la bocca e la richiuse. La mano che portò agli occhiali per sistemarli tremava.
Lojacono e Alex erano rimasti senza parole. Prima che la collega se ne uscisse con qualche nota di troppo, Lojacono riprese il controllo della situazione.
– Professore, la ringraziamo per il suo tempo. Non vogliamo sottrargliene altro. Lasci fare anche a noi qualche domanda. Vorremmo trattenerci un attimo col dottore, poi togliamo il disturbo.
– Vi ringrazio per la sensibilità, volete parlare con Renato da soli perché pensate che potrebbe trovarsi in difficoltà per la mia presenza. Però vi assicuro che tra me e mio figlio non ci sono segreti, e…
Il giovane intervenne, deciso.
– Papà, lasciaci pure. A Biagio non piacerebbe se rivelassi le sue confidenze davanti a te.
Forgione annuí.
– Sí, probabilmente hai ragione. Signori, vi saluto. Se aveste ancora bisogno di me, sapete dove trovarmi.
E uscí.
Quando il professore lasciò il laboratorio dopo aver salutato i ricercatori, il giovane si rilassò. Alex riconobbe nei suoi occhi gli effetti, spesso pesanti, dell’influenza di un padre autorevole.
Renato ne incrociò lo sguardo, e sospirò.
– Mio padre è un grande scienziato, un uomo fantastico, però a volte non capisce certe situazioni.
Lojacono tentò di rassicurarlo.
– Non si preoccupi. Fra l’altro è stato molto collaborativo, e le assicuro che non capita spesso. Tornando a noi, quando ci siamo visti all’appartamento abbiamo parlato con lei in quanto persona che ha scoperto le vittime. Ora vorremmo sentirla in qualità di amico di Biagio Varricchio, per capirne di piú sulla sua vita e su quella della sorella. È necessario per cercare di risalire a chi…
Renato fece un gesto con la mano.
– Capisco benissimo. Ditemi pure: sono il primo a volere che chi ha commesso… quella cosa terribile venga individuato e paghi.
Alex notò che la somiglianza tra padre e figlio diventava piú evidente nel momento in cui il giovane perdeva l’usuale espressione indecisa.
– Il professore ha accennato a questa distrazione di Biagio sul lavoro. Può dirci di piú?
Renato scosse lievemente il capo.
– Vede, il nostro è un mestiere fatto di poche iniziali intuizioni seguite da lunghe attività noiose. Misurazioni, riscontri, esperimenti: tutto a supporto di una sola ipotesi, per dimostrare se è vera o falsa. Basta una piccolissima dimenticanza e si corre il rischio di dare per scontata una reazione o un processo che invece invalidano tutto il resto. L’errore è dietro l’angolo.
– Quindi?
– Biagio è sempre stato un fantastico ricercatore, brillante nelle intuizioni ma soprattutto determinato e attento nei passi successivi, quelli della verifica. Nell’ultimo periodo aveva come perso la capacità di concentrazione. Dovevo ricontrollare i suoi dati, cosa che ritardava la conclusione della ricerca. Credo che mio padre intendesse questo. Io lo facevo volentieri, Biagio mi ha aiutato ai tempi dello studio, e anche dopo: in qualche modo stavo ricambiando il favore. Era un momentaccio, per lui.
Alex voleva capire meglio.
– Insomma il problema era che i calcoli, o quello che sono, di Varricchio andavano ripetuti?
– In parte sí. Poi c’era la questione che veniva poco in laboratorio. Se ne stava a casa, con il suo portatile, dicendo che lavorava là. Ma dopo, qui, non portava mai niente. Era evidente che aveva altri pensieri.
– Le aveva confidato il motivo della sua irrequietezza? – domandò Lojacono.
Renato si strinse nelle spalle.
– Biagio non parlava molto, anche perché non è che avesse molto altro fuori dall’università. Diceva che avrebbe cominciato a uscire, a frequentare gente, quando avesse raggiunto gli obiettivi professionali che si era prefissato. In realtà era timido, perfino con me che ero il suo unico amico.
– Ma lei si sarà fatto un’idea, no?
– Non si vive con una persona dieci, dodici ore al giorno senza capire, almeno un po’, che cosa le passa per la testa. Il problema era sua sorella.
– Le aveva accennato qualcosa al riguardo? – insistette Alex.
– Sí. Quando era in università pranzavamo insieme, e se lavoravamo fino a tardi lo accompagnavo a casa; lui non aveva la macchina. In questi intervalli c’era l’occasione di fare due chiacchiere.
Il ragazzo rilasciava le informazioni con il contagocce. Forse era una deformazione professionale, pensò Lojacono.
– Può spiegarci, allora, perché la sorella sarebbe stata un problema?
Renato lo guardò, sorpreso.
– Non avete sentito Paco e Vinnie? Grazia aveva sconvolto la vita di Biagio. Prima era tutto tranquillo, le cose filavano lisce e ordinate. In seguito al suo arrivo la casa è diventata un casino. Pensate che, quando c’era da lavorare anche dopo la chiusura del laboratorio, Biagio preferiva venire da me, come ai tempi in cui studiavamo. Infatti se non lo vedevo per un po’ mi preoccupavo. L’altra mattina ero passato da lui proprio per questo motivo.
– Che cosa intende per «un casino»?
– Che il fidanzato andava e veniva, e lui e Grazia litigavano furiosamente. Poi c’era il padre, che minacciava di piombare lí per riportare la figlia al paese. Biagio ne aveva terrore, lo descriveva come un energumeno, violento e capace di tutto. Infine c’è stata la storia della fotografia.
– Quale fotografia?
– Grazia aveva portato a Biagio uno scatto, con il suo nome sopra, che aveva fatto per un’agenzia di modelle; era praticamente nuda, con addosso un costume da bagno minuscolo. Solo che il fidanzato l’aveva visto anche lui, lo aveva strappato in mille pezzi e l’aveva aggredita. Biagio, che non era certo un lottatore, aveva dovuto difenderla.
Lojacono rifletté. L’episodio quadrava con quanto avevano appreso interrogando Foti e Cava; e la reazione del ragazzo pareva in linea con il suo carattere.
– Cosa pensava di fare, Biagio? – chiese.
– Lui amava moltissimo la sorella. In modo quasi paterno. Si era ammazzato di lavoro per riuscire a studiare e al tempo stesso contribuire a mantenerla dagli zii. Io stesso l’ho sostenuto economicamente quando era in particolare difficoltà. Credo volesse aiutarla ancora, ma lei non aveva molte altre doti, a parte la bellezza. Diventare una modella, tutto sommato, era una buona idea, e Biagio ne era contento. Ma il fidanzato e il padre non gliel’avrebbero mai consentito.
– Quindi? – disse Alex.
– Quindi Biagio era in crisi. La sua mente era abituata a trovare soluzioni, invece ora girava intorno al problema senza venirne a capo. E questo lo stava esaurendo. Purtroppo.
– A proposito di soldi, dottore, – si inserí Lojacono, – Varricchio le aveva chiesto aiuto, di recente? Una somma anche piccola, ma eccedente le solite necessità.
– No. Lui non chiedeva mai soldi, forse mi sono spiegato male. Ero io che intuivo se ne aveva bisogno e provvedevo. La casa, per esempio; gliel’ho offerta anni fa, quando mi sono reso conto che stare in un pensionato lo costringeva a studiare a letto, alla luce di una lampadina fioca. O la spesa di alimentari e detersivi che periodicamente gli facevo recapitare. Per le altre necessità, quello che prendiamo qui, quando lo prendiamo, gli era piú che sufficiente. Almeno finché è arrivata la sorella. Però non mi ha mai chiesto niente.
Lojacono scambiò un cenno con Alex.
– Dottore, la ringraziamo per le informazioni che ci ha dato. Se avessimo bisogno di altro…
– Era un ragazzo straordinario, sapete? Un meraviglioso amico. E sarebbe stato un grande scienziato, uno di quelli che lasciano il segno. Mio padre pensa che dei due fossi io il piú brillante, ma si sbaglia. Lui era un tipo ritroso, anche quando è stato intervistato dalla rivista universitaria si è vergognato moltissimo, ma aveva capacità eccezionali.
– Ne siamo certi, dottore. Ne siamo certi, – mormorò Alex.
Renato la fissò. Gli occhi, dietro le lenti, erano gonfi di lacrime.
– Era mio amico. Gli volevo bene. A nessuno mancherà come a me.
XXXVII.
La dirigente scolastica Tiziana Trani non si aspettava di ricevere tanto presto una nuova visita di Romano e Aragona. A dire il vero sperava di non vederli mai piú, perché questo avrebbe significato che la brutta storia di Martina Parise si era sgonfiata.
Quando se li ritrovò sulla soglia dell’ufficio, accompagnati dalla segretaria, ebbe un tuffo al cuore.
Romano la salutò.
– Mi scusi se ci presentiamo in questo modo, signora, ma dobbiamo parlarle. Con urgenza.
La dirigente li scrutò, preoccupata. Fece un cenno alla segretaria, che uscí chiudendosi la porta alle spalle.
– Allora è vero? È cosí? Dio mio, – disse appena furono soli.
Aragona fece la sua solita smorfia, togliendosi gli occhiali.
– No, signora. È pure peggio, per certi versi. Può far chiamare la professoressa Macchiaroli? Forse è meglio che ci sia anche lei.
Nella seconda B si stava svolgendo una sonnacchiosa ora di Educazione musicale. Si parlava di solfeggio, o meglio, ne parlava l’anziano insegnante, ma era un soliloquio, mentre la gran parte degli alunni si scambiava messaggi con i telefonini sotto il banco.
L’attenzione di tutti fu risvegliata dalla professoressa Emilia Macchiaroli, che bussò, si affacciò nell’aula e chiamò il nome di Martina Parise con il tono grave di chi legge un annuncio funebre. Prima di uscire, la ragazzina scambiò un’occhiata d’intesa con due compagne che occupavano il banco dietro il suo.
Per tutto il tragitto verso la presidenza, la professoressa di Lettere non le rivolse la parola, e lei si dedicò a sostituire l’espressione trionfante con quella contrita e chiusa da adolescente molestata.
Quando vide Romano e Aragona seduti di fronte alla Trani, finse di stupirsi. In realtà non aveva creduto nemmeno per un istante alla storia degli ispettori scolastici: il cerchio si stringeva, finalmente. Certo, esisteva sempre il rischio che quella deficiente della madre negasse tutto, ma aveva letto che era normale il rifiuto di accettare la verità da parte di una moglie a cui viene rivelato che il marito molesta la figlia. Non le avrebbero creduto, e lei sarebbe stata libera di godersi la nuova vita.
Del resto mica le interessava che quell’essere inutile del padre andasse in galera. Le bastava che glielo togliessero di torno. In fondo, su venticinque compagni di classe, ben diciannove avevano i genitori separati o divorziati, e vivevano alla grande, approfittando dei sensi di colpa dell’uno e del livore dell’altra.
La dirigente non si perse in preamboli.
– Martina, l’altro giorno ti abbiamo detto una piccola bugia. I signori non sono ispettori scolastici, sono della polizia.
Ma davvero.
– Quello che hai scritto nei tuoi compiti in classe, e anche quello che hai detto quando ci siamo incontrati qui, non li ha convinti, e hanno deciso di andare piú a fondo.
Bene.
Il poliziotto meno ridicolo, quello con la faccia quadrata, le si rivolse direttamente.
– Sí. Siamo andati piú a fondo, e ci siamo convinti che quello che c’è scritto sui tuoi temi potrebbe essere vero. Anche se tu sostieni di averlo inventato.
Che bravi.
– Però servono delle prove, e noi non ne abbiamo.
E che cacchio volete, un filmato su YouTube?
– Quindi i casi sono due: o la troviamo, la prova, o tu ci fai una bella denuncia, chiara e circostanziata.
Una denuncia. Vabbe’, potrebbe essere una figata: intervista pomeridiana alla Tv, foto sui giornali… peccato che essendo minorenne mi dovranno pixelare il viso.
Intervenne quello ridicolo, giocherellando con i suoi orribili occhiali anni Settanta.
– Naturalmente, in mancanza di riscontri e senza una conferma di tua madre, la denuncia comporterà il tuo trasferimento presso una casa famiglia, almeno per la durata delle indagini.
Che cazzo dice, ’sto stronzo?
– E… che cosa sarebbe una casa famiglia?
Il poliziotto ridicolo riprese, serafico.
– Una piccola comunità in un posto lontano, gestito da psicologi e volontari, che ospita ragazzi disadattati responsabili di piccoli crimini che non prevedono la carcerazione o, appunto, oggetto di violenza familiare.
In pratica una comunità di sfigati e criminali.
– Dovrai anche cambiare scuola. Ma ti verrà garantita l’istruzione presso una delle strutture speciali che operano con successo nei quartieri piú difficili e sanno come gestire questo tipo di situazioni.
Il poliziotto con la mascella quadrata rivolse uno sguardo duro a quello ridicolo. Forse non voleva che desse tutte quelle informazioni.
Non era ancora finita. Ma sí, quella deficiente della madre avrebbe confermato: la teneva in pugno.
Martina parlò, a bassa voce, guardando nel vuoto, con aria disorientata e sofferente.
– Ma se… se mia madre dicesse che è tutto vero?
Quello con la mascella grossa assunse un’espressione falsamente contrita.
– Abbiamo sentito tua madre stamattina. Nega nel modo piú assoluto l’ipotesi delle molestie.
Gli occhi di tutti, la preside, la professoressa e gli stramaledetti poliziotti, erano fissi su di lei. Gli stronzi si erano messi d’accordo.
Quello ridicolo rincarò:
– Non devi preoccuparti. Certo, nella casa famiglia non sono ammessi telefonini, computer o tablet, perché bisogna evitare i contatti con l’ambiente di provenienza, e nemmeno potresti sentire le tue amiche attuali, ma siamo certi che te ne faresti delle altre, fra le ragazze che condividono la tua terribile condizione.
Martina scattò in piedi. In faccia aveva un sorriso gioioso e innocente.
– Allora ci avete creduto! Scusate se vi ho fatto perdere tempo, ci tenevo tanto a che la mia storia fosse realistica. Da grande mi piacerebbe diventare scrittrice e ho voluto fare un esperimento.
Aragona era sconcertato.
La ragazzina gli rivolse uno sguardo soave.
– Stia tranquillo, la mia è una famiglia felice. Felicissima.
Romano la fulminò.
– Senti, signorina, tu credi di poter scherzare su certe cose? Lo sai che tuo padre poteva passare un guaio serissimo?
Martina continuava a sorridere.
– Ma dottore, lei pensa che avrei lasciato mio padre in un pasticcio del genere? Volevo solo essere sicura che mi aveste presa sul serio. Ora posso tornare in classe, per favore? C’è un’interessante lezione di Musica e non vorrei perdermela.
La Trani sospirò.
Aragona disse:
– Io, fossi in te, penserei al mestiere di attrice, invece che a quello di scrittrice. Mi sembri piú tagliata.
– Davvero? Grazie. Terrò presente –. E si avviò leggera alla porta.
Quando poggiò le dita sulla maniglia, fu fermata dalla voce sibilante della professoressa Macchiaroli, che fino a quel momento aveva taciuto.
– Credo che presto faremo una bella interrogazione, Parise. Sono proprio curiosa di verificare come studi bene nell’ambiente idilliaco che hai a casa.
Martina uscí, senza voltarsi.
Le sue orecchie, però, si fecero rosse.
XXXVIII.
Il vicesovrintendente Ottavia Calabrese si sedette alla sua postazione, nascondendo il viso dietro lo schermo del computer. Era dovuta uscire perché avevano chiamato dalla scuola di suo figlio Riccardo. Di solito era il marito a occuparsi di quel tipo di emergenze, ma per una volta non era risultato raggiungibile.
Nel tempo era diventato un accordo tacito: fino al ritorno a casa di Ottavia, tutto quello che riguardava Riccardo era competenza di Gaetano. Il fatto che questi fosse un importante ingegnere a capo di un’impresa con una quindicina di dipendenti, che negli anni di magra guadagnasse venti volte lo stipendio di una impiegata dello stato, e che quindi il suo tempo fosse, da un punto di vista dell’economia familiare, molto piú importante, non era un argomento da tirare in ballo. E lui non lo faceva.
La verità, pensò la poliziotta collegandosi alla posta elettronica, era che Gaetano, per chissà quale ragione, si sentiva responsabile della condizione di Riccardo. Come se possedesse la certezza che il gene misterioso responsabile della nascita di quel figlio rinchiuso in un mondo tutto suo fosse venuto da lui, e che Ottavia ne avesse avuto la vita rovinata.
Tutto vero, si disse ferocemente. Tutto vero.
Perché era vero che un prozio del marito era strano e minorato e che i genitori e i fratelli lo avevano tenuto nascosto finché a vent’anni si era lanciato dal balcone.
Era vero che nei primi anni di matrimonio Gaetano prendeva delle precauzioni perché non voleva figli, poi aveva ceduto alle richieste di lei e le aveva fatto questo bel favore.
Era vero che lei Riccardo non lo aveva mai accettato e se lo portava sulle spalle come un’immeritata croce.
Era amaramente ironico che il ragazzino riuscisse ad aprire uno spiraglio nel proprio guscio solo quando l’aveva vicina. Che si sedesse a terra in silenzio, che le appoggiasse la testa sulle gambe e continuasse a mormorare sempre con lo stesso tono quella parola, mamma, mamma, mamma: non un’invocazione, non una preghiera, e nemmeno un’accusa.
Gaetano lo cambiava, lo lavava, lo accompagnava a scuola, insistendo con le insegnanti sull’importanza degli stimoli. Lo aveva fatto visitare da mille dottori in tutto il mondo, e continuava a cercarne altri; leggeva pubblicazioni sull’argomento, si scriveva con le associazioni dei genitori e con le cliniche universitarie.
Ogni tanto, per ferirlo, Ottavia gli chiedeva se avesse ricevuto qualche newsletter da Lourdes o da Medjugorje, o se potesse contare su amicizie ancora piú altolocate. Il marito scuoteva il capo e si allontanava capendo che era uno di quei momenti.
Era sempre uno di quei momenti, avrebbe voluto dirgli Ottavia. Sempre, se lei era a casa. Solo quando usciva a portare fuori il cane ritrovava un pezzo di sé stessa. E solo al lavoro era davvero felice.
Avesse raffigurato in una curva cartesiana il proprio umore all’interno della giornata, il risultato sarebbe stato una crescita costante dalle sette alle quindici, un progressivo calo dalle quindici alle diciannove, un picco nel momento in cui salutava Palma e un crollo fino alla mattina dopo.
Palma, Palma, Palma. Il bel commissario stropicciato, l’uomo dagli occhi stanchi e gentili che aveva riportato nella sua vita il sorriso, la preoccupazione, il languore, il disagio, la speranza. Palma, che l’aveva ricondotta davanti a uno specchio nuda, per cercare le imperfezioni alle quali mettere riparo. Palma, che forse, ma non voleva farsi illusioni, le sorrideva in modo speciale. Come non sorrideva agli altri.
Gettò un’occhiata furtiva al di là del monitor. Gli altri.
Romano e Aragona erano rientrati quando lei si era allontanata e, alla sua cortese richiesta se avessero concluso qualcosa a proposito delle supposte molestie alla bambina della scuola media Sergio Corazzini, avevano risposto con un grugnito. Non erano una coppia ben assortita, pensò: ma nessuna coppia che comprendesse Aragona poteva esserlo. Quel ragazzo era molto particolare, non c’era dubbio.
Un ragazzo particolare, quasi le venne da ridere. Particolare era Riccardo, non Marco, che raggiungeva il massimo dell’eccentricità con una camicia sgargiante.
Il figlio, quella stessa mattina, era salito sul banco e aveva fatto la pipí sul compagno seduto davanti, che non si era accorto di nulla fino a quando non aveva sentito il liquido caldo su di sé.
Ottavia ci aveva messo quindici minuti ad arrivare alla scuola e mezz’ora a calmare il figlio, che non la smetteva di urlare e divincolarsi dai bidelli impegnati a farlo uscire dalla classe con la forza. Un’ora l’aveva trascorsa a spiegare al dirigente scolastico, all’insegnante e alla madre del compagno imbrattato che bisognava essere comprensivi: Riccardo non sempre capiva quello che faceva. Altri quindici minuti per tornare ed ecco due ore perdute, mentre il solerte Gaetano continuava la sua perizia, il suo sopralluogo o quello che accidenti stava facendo in un posto dove non c’era campo. Le meraviglie della maternità.
Ora però era finalmente in sala agenti, in compagnia di Romano, Aragona e Pisanelli, mentre Alex e il Cinese erano in giro, a caccia. La porta dell’ufficio del commissario era chiusa, come ogni volta che era fuori.
Sarà di nuovo in questura, pensò Ottavia. Speriamo in bene.
Il timore che il commissariato chiudesse era stato prima alimentato in lei dall’orgoglio, ferito dal brutto episodio che aveva coinvolto la vecchia struttura, poi dal desiderio di dimostrare che non erano da buttare, i suoi nuovi colleghi e lei stessa. Adesso non voleva perdere un ambiente in cui si sentiva viva, con un obiettivo per cui combattere senza quella vaga apatia che derivava dalla rassegnazione. La rassegnazione che sentiva crescere ogni volta che pensava al figlio.
Ma per mantenere accese le speranze era indispensabile trovare al piú presto almeno un indiziato per il caso dei due ragazzi morti. Cosí aveva detto Palma. Si augurò che Alex e il Cinese tornassero con qualche novità.
Scorrendo le email giunte in sua assenza, vide con gioia quello che stava aspettando. Avrebbe avuto qualcosa da esporre, nella riunione.
Palma salutò e uscí dalla stanza del questore. L’ennesima riunione si era chiusa con un sostanziale nulla di fatto.
Il clima non era favorevole. Non c’era fiducia attorno ai Bastardi di Pizzofalcone. Certo, nessuno davanti a lui si azzardava a chiamarli cosí, ma la sostanza era quella. Le precedenti indagini andate a buon fine non erano rimaste a lungo nella memoria dei capi, almeno non quanto la spallata all’immagine della polizia derivante dal vecchio episodio del commercio di droga sequestrata, che aveva dato origine a tutto. Eppure Palma sospettava che non fosse quello il punto.
Il punto era che i suoi colleghi pensavano di avergli rifilato zavorra, gente inutile o addirittura dannosa, ed erano mal disposti ad ammettere di essersi sbagliati. Soprattutto non accettavano l’idea che un commissario di primo pelo come lui fosse riuscito a trasformare quella marmaglia in una squadra degna di questo nome.
Un siciliano accusato di essere colluso con la mafia e mandato a svernare al commissariato di San Gaetano, dove faceva solitari al computer, si era rivelato un fuoriclasse; un energumeno che a Posillipo aveva quasi ammazzato un balordo a mani nude era diventato un poliziotto disciplinato e intelligente; una pazza che aveva esploso un colpo di pistola in commissariato si era trasformata in un’agente sensibile e determinata; una specie di Arlecchino che non avevano cacciato dalla polizia per incapacità solo perché raccomandato, stava dando prova di essere un investigatore intuitivo e sagace. E i residuati bellici che la tempesta dei Bastardi veri aveva risparmiato, un vicecommissario lunatico e sognatore e una brava e gentile signora col pallino dell’informatica, sempre considerata poco piú di una segretaria, avevano messo su il centro d’informazioni piú efficiente dell’intera area metropolitana. Non era facile da digerire, per chi aveva pensato e detto che non si poteva cavare sangue dalle rape.
Ma Palma, entrando nell’auto e avviandosi verso il commissariato, tutte queste cose le sapeva, e lo aveva detto chiaro e tondo al questore, che gli aveva consigliato di mollare. L’anziano funzionario gli voleva bene, forse perché rivedeva in lui lo stesso entusiasmo, la stessa testardaggine che lo animavano da giovane. Sapeva che avrebbe mal sopportato un fallimento, per questo cercava di offrirgli una via d’uscita onorevole. Ma lui, Palma, era convinto di potercela fare. I suoi uomini erano in gamba, e in piú volevano dimostrare al mondo che sapevano ancora svolgere al meglio il loro lavoro.
Nella sua battaglia aveva trovato un alleato che non si aspettava, Laura Piras. Nota per l’assoluta intransigenza e per la poca disponibilità a perdonare l’errore, il magistrato aveva invece mostrato fin dall’inizio dell’operazione una particolare indulgenza nei confronti della struttura. La sua opinione, per fortuna, era molto ascoltata, perché era infaticabile e preparata, e quasi tutti i casi importanti finivano per transitare sulla sua scrivania.
Insomma, il questore e la Piras per la difesa, tutto il resto della polizia cittadina per l’accusa. Un po’ sbilanciata la partita, disse Palma tra sé. E ora ci si mettevano pure la stampa e le televisioni. La portavoce si batteva come una leonessa, ma quanto poteva reggere ancora il riserbo a protezione delle indagini di fronte a una storia che inquietava cosí tanto l’opinione pubblica?
Palma rabbrividí per il freddo e per la preoccupazione. Dovevano scoprire qualcosa, subito. Qualsiasi cosa.
Aveva fiducia nei suoi uomini e in sé stesso, ma non nella buona sorte. Sperò con tutto il cuore che, per una volta, questa lo smentisse regalandogli un colpo di fortuna. Non voleva perdere la sua squadra. Non voleva perdere i Bastardi di Pizzofalcone.
Soprattutto, non voleva perdere Ottavia.
Strinse le labbra, e accelerò.
XXXIX.
Palma fece il suo ingresso in sala agenti che Lojacono e Alex erano appena rientrati.
Il commissario appariva agitato. Non salutò nemmeno, cominciò subito a parlare.
– Le cose stanno cosí: hanno già pronta una squadra per sostituirci sull’omicidio dei fratelli Varricchio. La scusa è che in questa cazzo di città televisioni e giornali non parlano d’altro, e la polizia non può permettersi figure di merda. Io ho fatto il pazzo, ho detto che stiamo lavorando tanto e bene, che le persone coinvolte sono molte e ci devono dare almeno il tempo di interrogarle. In risposta hanno alzato la voce e si sono messi a fare discorsi che non vi voglio ripetere nemmeno.
Se uno come Palma, di solito cosí garbato, arrivava a usare le parolacce, doveva essere traboccante di adrenalina, pensò Ottavia.
Lojacono parlò a nome di tutti.
– E come è finita?
– Ho alzato la voce piú di loro. Ho detto che mi mettano per iscritto quello che avremmo sbagliato e che cosa avrebbero fatto al posto nostro. Per fortuna era presente la Piras, che mi ha dato ragione. Come magistrato che segue l’indagine, ha ribadito piena fiducia nel nostro operato. Hanno masticato amaro, ma hanno dovuto incassare, per adesso.
Tutti tirarono un sospiro di sollievo.
Pisanelli, sorprendendo i colleghi, si lasciò andare a un moto di esultanza.
– Ben fatto! Mi pare di vederli, lí, seduti in prima fila, gli altri commissari: non vedono l’ora di mettere le mani sulla zona nostra, che essendo centralissima incorpora i palazzi del potere e rende frequenti i rapporti con prefetto e signora, sindaco e signora, questore e signora.
– Esatto. In piú, quelli che vi hanno fatti fuori sono ansiosi di dimostrare che loro avevano ragione e io, il questore e la Piras avevamo torto. Ma non perdiamo tempo con certe miserie. Romano, Aragona: a che punto siete con la faccenda delle molestie?
Romano tagliò corto.
– Abbiamo chiuso, capo. Come immaginavamo, si trattava di una fantasia; la ragazzina voleva attirare l’attenzione su di sé. Ne siamo certi, mi creda. E le garantisco che non ci sarà nessuna denuncia.
Palma indirizzò a lui e ad Aragona uno sguardo compiaciuto.
– Ottimo, quando saremo piú tranquilli mi racconterete. Da oggi l’intera squadra è a tempo pieno sui Varricchio. Lojacono, Di Nardo, ci sono novità?
Alex, sfogliando il taccuino, aggiornò i colleghi sullo stato delle cose, inclusa la visita all’università di quella mattina.
Quando ebbe finito, intervenne Ottavia:
– Anch’io ho qualcosa. È arrivato il rapporto del medico legale: sono stati velocissimi, si vede che stanno addosso pure a loro. Se volete, leggo.
– Ti ascoltiamo, – disse Palma.
– Dunque: per quanto riguarda il ragazzo, «si rilevano, a livello della regione occipitale e parietale sinistra limitrofa, multiple lacerocontusioni stellate dovute a successivi colpi inferti con un oggetto contundente avente una sporgenza di cui si rileva traccia, in negativo, in piú punti distinti della superficie del cuoio capelluto…»
– Cioè gli ha dato una serie di mazzate, – disse Aragona a mezza voce.
Ottavia andò avanti, gli occhi incollati al computer:
– «… alla rimozione dei tessuti pericranici, presenza di frattura occipito-parietale sinistra, con multiple linee, di cui due a tutto spessore».
– Che significa a tutto spessore? – chiese Alex.
Romano le rispose brusco.
– Che i colpi gli hanno spaccato il cranio. Completamente.
Ottavia concluse:
– «Emorragia cerebrale e focolai di lacerocontusione cerebrale multipli in sede cerebrale occipitale parietale sinistra posteriore e cerebellare. Area di lacerocontusione anche a carico del lobo frontale destro, da contraccolpo».
Nella stanza si percepiva un certo sgomento. In qualche modo il linguaggio tecnico rendeva ancora piú atroce ciò che era accaduto al ragazzo.
– Lo ha preso alle spalle, – disse freddo Aragona. – Un primo colpo poi altri, accanendosi. Tanta rabbia, comunque.
Lojacono, al solito impenetrabile, annuí come se stesse ripetendo un precetto buddhista.
– Proprio cosí. E la rabbia moltiplica la forza.
– Ora sentite cosa scrivono della sorella, – riprese Ottavia, e tirò un sospiro profondo. – «Infarcimento emorragico dei tessuti profondi della faccia, rottura del setto nasale e rima di frattura dell’arcata zigomatica destra. Infarcimento dei muscoli sovra e sottoioidei, con frattura del corno posteriore dell’osso ioide. Presenza di materiale ematico schiumoso in trachea e nei grossi bronchi. All’esame dei segmenti ossei del rachide cervicale si rilevava la frattura della faccetta articolare superiore sinistra dell’epistrofeo. Quadro focale di asfissia meccanica violenta, con infiltrazione emorragica degli organi del collo».
Sulle ultime parole la voce della Calabrese si era fatta incerta. La donna aveva portato d’istinto una mano alla gola.
Alex aveva gli occhi spalancati.
– Cioè, prima le ha spaccato la faccia, poi l’ha strangolata? È cosí?
– Non è detto, – le rispose Lojacono. – Magari le ha messo una mano sulla faccia per farla stare zitta, poi l’ha strangolata. Certo, l’ha fatto con una violenza enorme.
Romano annuí.
– Sí, ha piú senso. Non parla di lacerocontusioni, quindi non l’ha picchiata. Non voleva che gridasse.
Pisanelli parlò con tono basso, come se si trovasse in chiesa.
– È diverso dal ragazzo. Là c’era rabbia, qui disperazione.
Aragona si rivolse a Ottavia.
– Sí, ma se l’è fatta? L’ha violentata, insomma?
Al di là del modo diretto, non proprio elegante, era la domanda che tutti avevano sulle labbra.
Ottavia scorse il documento col mouse e riprese dal punto in cui si era interrotta.
– «Quadro di asfissia meccanica violenta nel contesto di una sollecitazione del collo. Costrizione vasale, inibizione simpatica e arresto cardiocircolatorio. La ricerca di elementi di oggettivo riscontro per violenza sessuale ha dato esito negativo: tamponi perineali, vaginali e buccali; assenza di lesività cutanea e delle mucose morfologicamente da riferire ad azione di terzi. Nessuna traccia di rapporti sessuali pregressi».
Il silenzio che seguí era pesante come una coperta, e altrettanto asfissiante. Alex e Lojacono rivedevano il bellissimo corpo di Grazia adagiato sul letto; gli altri lo immaginavano.
Aragona mormorò:
– No. Non se l’è fatta. Forse gli ha resistito. Poi è arrivato il fratello, e…
Lojacono lo fermò.
– No. Lui era seduto, stava scrivendo, aveva addirittura la penna in mano. Non quadra.
Alex scuoteva il capo.
– La rabbia. La violenza inaudita. Biagio seduto tranquillo alla scrivania. Grazia che non presenta tracce di violenza sessuale. Può essere stato…
Pisanelli continuò la frase come se fosse il suo stesso pensiero.
– … chiunque. Il fidanzato di lei, andato per chiedere conto delle fotografie…
Romano:
– … il padre, che voleva riportarsi a casa la figlia…
Aragona:
– … Cava, quello delle modelle, che non si rassegnava all’idea che lei non volesse piú posare…
Ottavia:
– … uno dei ragazzi: il collega o i due dell’appartamento accanto…
Palma si passò una mano sulla faccia.
– Per favore, procediamo con ordine e senza preconcetti, o ci confondiamo solo le idee. Notizie dalla scientifica?
Ottavia era già al telefono. Dopo un breve scambio di battute, riagganciò.
– Stanno ultimando. Avremo il rapporto nel pomeriggio.
– Va bene, – disse Lojacono. – C’è il tempo per sentire di nuovo Vinnie e il suo amico, Mandurino, sperando di trovarli a casa. Ma bisogna anche capire la questione dei soldi, i tremilasettecento euro chiesti da Grazia a Cava per il servizio fotografico. È una cifra troppo strana per non avere un significato.
Pisanelli allargò le braccia:
– Ho chiesto ai miei amici bancari, nessuna delle due vittime aveva un conto corrente o un deposito a risparmio in zona. E, come sapete, l’anagrafe è ormai centralizzata, quindi possiamo escludere un loro rapporto con queste banche, peraltro le piú importanti. Non credo abbia senso pensare che uno vada a depositare una cifra tutto sommato modesta al di fuori degli istituti normali, o che si serva di un prestanome. E poiché mi sembra che l’omicidio a scopo di rapina non sia neanche da prendere in considerazione, se i soldi non sono nell’appartamento vuol dire che li hanno spesi.
– Sí, ma come? – disse Palma. – Ora, però, non perdiamoci in congetture. Lojacono, Alex: voi fate un salto dai vicini dei Varricchio. Romano e Aragona: dopo pranzo andate al laboratorio della scientifica e vi fate consegnare il rapporto, cosí risparmiamo tempo. Se è necessario aspettate. Approfittatene per chiedere la lista delle cose inventariate nell’appartamento, magari i soldi erano sotto una mattonella. Ci riaggiorniamo dopo.
XL.
Frate Leonardo si sporse sul tavolo indicando le patate fritte nel piatto di Pisanelli.
– Non le mangi? Da’ qua, allora.
Il vicecommissario si stupiva sempre della voracità del minuscolo amico: era l’unico essere umano che conoscesse capace di masticare da entrambi i lati della bocca per fare prima. Ogni tanto, dagli altri tavoli della trattoria del Gobbo, qualcuno osservava quella divertente figura di religioso che per arrivare al piano del tavolo doveva mettere un cuscino sulla sedia, con i piedi, nudi nei sandali, sospesi a qualche centimetro da terra.
– Ma ti dànno da mangiare in parrocchia? – scherzò Pisanelli. – O i frati piú grossi non ti lasciano niente?
– Ci mancherebbe, – disse Leonardo deglutendo, – io sono il parroco. Anzi, una di queste volte deciderò di pasteggiare da solo mentre gli altri mi fanno la colonna sonora con un canto gregoriano. La fame che mi mettono i cori dei frati, non puoi sapere. Ma guarda che non è una questione di appetito: mi dànno fastidio gli sprechi. Lo sai che con questa roba che avanzate tutti, si potrebbe sfamare l’intera Africa equatoriale per molto, molto tempo?
– Certo. Ricordamelo stasera, cosí mando la cena a un villaggio del Kenya. Lo sai che non mangio piú tanto.
Leonardo corrugò la fronte. Sembrava una figuretta in ceramica, di quelle che si piazzano nei giardini.
– Come stai, Giorgio? Ti senti bene? Quando lo capirai che devi farti curare? Io davvero non capisco la tua testardaggine…
Pisanelli alzò una mano.
– Alt. Ricorda la promessa: non si parla di questo argomento. La mia salute rimane parcheggiata fuori di qui come una macchina. Altrimenti, niente pranzo. E visto che offro sempre io, tu almeno rispetta i patti.
Leonardo insistette:
– Non ti rendi conto del crimine che compi contro Dio, dimostrando un tale disinteresse nei confronti della tua stessa vita.
Pisanelli tagliò un pezzo di polpetta e lo mise in bocca.
– Mmm… Le polpette al ragú quasi mi convincono che tu abbia ragione: forse esiste davvero un dio provvidente. Altrimenti le polpette non esisterebbero, o sarebbero separate dal ragú nel caos primigenio. Quello sí che sarebbe uno spreco.
Suo malgrado, Leonardo scoppiò a ridere.
– Sei il piú simpatico miscredente blasfemo che io conosca, Pisanelli Giorgio del commissariato di Pizzofalcone. E tornando a prima, è normale che paghi tu. Voto di povertà, lo sai. Ma raccontami, che stai combinando di bello?
– Di bello, proprio niente. Siamo alle prese con l’omicidio di quei due ragazzi calabresi, avrai sentito.
– E come no, non si parla d’altro, poverini. Scoperto qualcosa?
– No, purtroppo non ancora. Brancoliamo nel buio. Però ci stiamo lavorando tutti insieme. E i due colleghi assegnati direttamente al caso, Lojacono e Di Nardo, sono in gamba. Ho fiducia che ne verremo a capo.
Leonardo gli lanciò un’occhiata di traverso.
– Sí, ma tu? Di cosa ti occupi di preciso?
– Raccolgo informazioni, come sempre. E seguo ancora la faccenda dei depressi, se è questo che vuoi sapere. Ne abbiamo parlato tante volte.
– E io tante volte ti ho detto che ti fai carico di cose che non ti competono. È ammirevole che tu cerchi di aiutare chi non ha piú voglia di vivere, ma questa idea del misterioso suicidatore è assurda. Una follia.
Il vicecommissario guardò fuori dalla finestra, dove i pochi passanti cercavano un negozio aperto per sfuggire al vento gelido.
– Non male. Sarebbe un bel titolo per un romanzo. Il suicidatore. Hai mai pensato di darti alla narrativa, Leona’? Secondo me avresti una carriera.
– Sí, fai lo spiritoso, intanto i tuoi colleghi ti prendono per pazzo.
– Forse. Sarà un’ossessione, però mi aiuta a tirare avanti. Mi dà un motivo per alzarmi la mattina, per andare al lavoro e per guardare al domani. È qualcosa che mi tiene ancorato al presente e mi impedisce di farla finita, di scappare.
Leonardo smise di masticare e fissò l’amico. Sí, Giorgio, hai voglia di vivere, anche se non curi la tua malattia. Il Signore può stare tranquillo, non hai ancora intenzione di consegnarti al demonio.
– E hai fatto progressi nella tua fissaz… nella tua missione? Mi avevi parlato di quella donna, Agnese. Sai che è una mia parrocchiana? Cioè, lo sarebbe se venisse in chiesa, ma per me è una che ha mollato, che non ha piú voglia di campare.
Pisanelli riportò gli occhi sul frate.
– No, Leonardo. Non è cosí. Ha subito un trauma, anzi, una serie di traumi. Ha perso il bambino, il marito l’ha lasciata, la madre è morta. Non ha un lavoro, non ha amici…
– E questo non ti dice niente? Non avere una vita sociale, per una donna tutto sommato giovane, è segno che ha perso interesse verso il mondo. Non ha nemmeno il conforto della fede e…
– Ecco, – sibilò Pisanelli, – qui volevi arrivare: non ha fede, quindi vuole morire. Guarda che non è cosí, Leona’. Una persona può fare anche senza.
Leonardo replicò serafico:
– Va bene, dimmi dove la vedi, la voglia di vivere della tua amica Agnese. Dammi un buon motivo per non temere che domani, o la prossima settimana, in un istante di depressione piú profonda, decida di attaccarsi alla canna del gas o di prendere un flacone intero di pillole. Convincimi.
Due amici al ristorante, per il loro pranzo settimanale. Un anziano poliziotto, stanco e malato, tenuto in vita da un’assurda convinzione, e un piccolo frate, una macchietta che pareva uscita dai racconti dei nonni ai nipoti, all’apparenza inoffensivo: nessuno avrebbe potuto immaginare che fossero le controparti di un tribunale occulto dove si decideva della vita o della morte di una persona.
Pisanelli abbassò lo sguardo sulle mani, ferme attorno al piatto imbrattato di sugo. Poi lo rialzò.
– Il passero, – disse.
Leonardo strinse gli occhi azzurri.
– Che?
– Il passero, Leona’. Ricordi quando ti ho raccontato di lei la prima volta? Ti ho detto che l’avevo conosciuta perché dava da mangiare agli uccelli nel parco della Biblioteca Nazionale.
Leonardo annuí.
– Be’, da allora vado quasi ogni giorno ad assicurarmi che stia bene. Mi siedo accanto a lei, le sorrido, e lei ricambia. Prima la mia convinzione che volesse vivere si basava soltanto su una percezione. Non mi aveva mai detto niente, in pratica. Temevo fosse il soggetto ideale per il suicidatore, come lo chiami tu, che poteva sceglierla per la sua prossima impresa.
Leonardo era a disagio.
– Giorgio, ascolta…
Il poliziotto lo fermò.
– No, ascoltami tu. Io le dicevo delle cose, e sono sicuro che lei mi ascoltasse, ma non rispondeva quasi mai. Continuava a distribuire le briciole agli uccelli. Poi ieri è successo un fatto strano. Già ero stupito che fosse là, col freddo terribile che c’è…
– Sí, ma…
– Aspetta. A un certo punto comincia a parlare. Lei a me! E mi dice che un passero, uno di quei passeri, potrebbe essere Raimondo, il figlio, venuto lí per incontrarla.
– Il figlio? Raimondo? Ma non lo ha perso prima che nascesse?
Pisanelli lanciò un’occhiata attorno per essere sicuro che nessuno ascoltasse la conversazione.
– Sí. Ma per lei, che lo portava in grembo, era vivo.
– È assurdo, te ne rendi conto?
– Per la verità siete voi a sostenere che una vita è una vita in tutto e per tutto sin dal concepimento. O sbaglio?
– E secondo te Agnese vuole vivere perché il bambino che non ha avuto va a trovarla in forma di passero? Lo capisci che stai diventando pazzo anche tu?
Pisanelli batté la mano aperta sul tavolo, facendo tintinnare le posate. Gli altri avventori si girarono.
– No che non sono pazzo! Ti sto solo dicendo che ho trovato un terreno comune, riesco a dialogare con lei, finalmente. E per quanto ti sembri assurdo, la sua è stata un’apertura.
Leonardo rimase a fissare l’amico in silenzio.
– Ti stai assumendo una responsabilità, lo sai? Magari potremmo pensare a un istituto, uno di quei posti che…
Pisanelli gli prese la mano in una stretta forte.
– No, no, Leona’. Morirebbe subito. Lei sta ritrovando sé stessa, ne sono certo. Ci vorrà solo un altro po’ di tempo.
Il frate aveva gli occhi pieni di dolore.
– Io dopodomani parto, vado a fare gli esercizi spirituali. Mancherò per dieci giorni. La mia assenza è un pericolo troppo grande, lo capisci?
Pisanelli sbatté le palpebre, disorientato.
– Perché dici che è un pericolo? Per chi, sarebbe un pericolo?
Leonardo sottrasse la mano alla stretta e accarezzò quella del poliziotto.
– Per te, amico mio, e per la povera Agnese. Due anime alla deriva in questa solitudine maledetta che c’è là fuori. In piú, come farai senza questo nostro pranzo? Dovrai mangiare anche la mia parte.
– Impossibile, Leonardo. Impossibile.
XLI.
Fuori dal civico 32 di vico Secondo Egiziaca, Lojacono e Di Nardo suonarono per la terza volta il citofono che recava sulla targhetta sbiadita i nomi «Varricchio – Amoruso e Mandurino», e per la terza volta aspettarono invano una risposta. Il freddo non accennava a cedere il passo neppure nel primo pomeriggio, e in quell’angolo dove sorgeva il palazzo che era stato teatro del duplice omicidio era ancora peggio.
Lojacono aveva le estremità intorpidite: l’inverno, ne era ormai piú che certo, non sarebbe mai finito. Peraltro quella città reagiva malissimo al persistere del clima ostile, rinchiudendosi in un innaturale mutismo. Non si udiva il solito vociare, nessuno urlava, le finestre non sbattevano e perfino i clacson parevano avere sottoscritto la regola del silenzio.
Stavano per andar via quando il portone si aprí e si affacciò Paco, avvolto in una coperta scozzese. Il ragazzo li scrutò con palese diffidenza, allargò l’apertura e, senza invitarli a entrare, sparí nel buio dell’androne.
– Il citofono non funziona. Non ha mai funzionato. Suona ma non si sente chi parla, e per aprire si deve scendere.
Detto ciò mugugnando, il giovane affrontò le scale. Lojacono e Alex lo seguirono. Prima di entrare nell’appartamento gettarono un’occhiata alla porta di casa dei Varricchio, al cui centro campeggiava un avviso dell’autorità giudiziaria affisso con il nastro adesivo.
La temperatura all’interno era di poco piú confortevole che in strada. Notarono che i ragazzi avevano tentato di sigillare la portafinestra servendosi di panni e pezze, ma dalla sconnessa apertura filtrava uno spiffero che rendeva pressoché inutile l’azione della stufa elettrica.
Paco si tolse la coperta dalle spalle, rivelando il look total black della volta precedente, e chiese brusco se volevano del caffè. Alex pensò che non era questione di maleducazione: il ragazzo aveva proprio quel modo di comunicare col prossimo.
I due poliziotti rifiutarono cortesemente.
– Mi scusi se le facciamo perdere altro tempo, – disse Lojacono. – Avremmo bisogno…
– Vinnie non c’è, – disse Paco, – è all’università. Tra qualche giorno ha un esame importante e doveva chiedere delle cose a un professore. Non so quando rientrerà.
– Non importa, volevamo solo qualche informazione che può darci anche lei. Poi, se sarà necessario, torneremo.
Paco non replicò. Si sedette al tavolo, mantenendo gli occhi bassi. I capelli corti tradivano un’incipiente calvizie alla sommità del cranio. Senza alzare lo sguardo, disse:
– Qua è diventato un inferno. Giornalisti ogni momento. Vinnie secondo me si diverte, a lui piace parlare, parlare e parlare, ma a me dà fastidio. Mi rompono le palle. Devo dirlo a Renato, se continua cosí ce ne andiamo.
– Possiamo immaginare, – intervenne Alex. – Ma con quello che è successo è normale se la gente vuole sapere. Dovete avere pazienza: come comincia, cosí finisce.
– Sí, ma adesso la situazione è insopportabile.
Lojacono decise di tagliare corto.
– Signor Mandurino, non ricorda qualcosa di insolito accaduto nei giorni, nelle ore precedenti la notte del delitto? Magari una frase detta da Grazia, o da Biagio…
Paco sollevò lo sguardo verso l’ispettore.
– Be’, per quanto riguarda Grazia, era tutto insolito, quello che faceva… Insomma, non aveva una vita regolare. Usciva a ore sempre diverse, parlava forte al telefono, rideva, litigava. E il fidanzato era come lei. Quando urlavano in dialetto non si capiva niente.
– È stato qui anche negli ultimi giorni?
– No. Era un po’ che non si vedeva. Comunque, secondo me, lui aveva paura di perderla. Per questo litigavano sempre.
Lojacono apprezzò la sintesi con la quale il ragazzo aveva descritto il rapporto tra Foti e la Varricchio.
– E quell’altro litigio che avete sentito. Anche lí non si capiva proprio niente.
– No. L’unica cosa certa è che erano due uomini e che uno dei due era Biagio. Strano, Biagio la voce non l’alzava mai.
– Com’erano, di carattere, i Varricchio? – domandò Alex. – Andavano d’accordo? Si volevano bene?
Paco la fissò. A poco a poco la sua espressione si intenerí.
– Vinnie, vedete, ha un carattere strano. Se uno gli piace diventa il suo migliore amico, se uno non gli piace diventa un nemico. E io mi trovo a subire questa cosa. Grazia era bella, ed era una brava ragazza. Ma la sua bellezza attirava la gente o la respingeva. Forse è difficile essere belli. Non lo so.
Lojacono e Alex aspettavano. Sapevano che Paco, a modo suo, stava rispondendo.
– Allora il fidanzato, le telefonate, la gente per strada. Era costretta a essere allegra e forte. Ma non era né una cosa né l’altra. Lei era sé stessa solo con Biagio.
Alex iniziava a incuriosirsi.
– Cioè?
– Stavano molto insieme negli ultimi tempi. Prima Biagio andava sempre all’università: lo incontravo quando saliva e scendeva e basta. Sorrideva, salutava, non era uno che parlava molto. Ci siamo visti qualche sera, anche con Renato, ma niente di piú. Poi ha cominciato a lavorare a casa, parecchio. Forse seguiva un progetto per il quale il laboratorio non serviva.
Lojacono piegò la testa di lato, come cercasse di afferrare un sussurro.
– E la sorella, stava a casa con lui?
– No, no. Lei usciva sempre, per un motivo o per l’altro. Ma quando erano insieme si sorridevano in un modo strano, come se si capissero solo loro.
L’ispettore seguiva il filo dei suoi pensieri. Alex si chiese che cosa volesse capire, che cosa stesse immaginando.
– Da quando Biagio ha cominciato a lavorare soprattutto a casa?
Paco ci pensò su.
– Vinnie stava preparando Procedura civile, perciò tre mesi fa. Se è alla vigilia di un esame difficile, non si muove piú da questo tavolo e mi chiede in continuazione di fare il caffè. Lo portavo anche a Biagio, che teneva la porta aperta, come noi, per far circolare un poco d’aria; ora c’è un freddo cane, ma credetemi, quando fa caldo qui è un forno. Allora aprivamo le finestre, da noi e da loro, e pure le porte d’ingresso. Questo era un appartamento unico, prima, sapete?
Lojacono insistette.
– Quindi Biagio stava a casa a studiare?
– Fissava lo schermo del computer, prendeva appunti, batteva sui tasti, riprendeva appunti, consultava libri e database che portava avanti e indietro dall’università su un hard disk esterno, fissava di nuovo lo schermo e cosí via. Secondo me studiava, secondo voi?
Alex trovava divertente quel bizzarro modo di rispondere alle domande.
– Non veniva mai nessuno a trovarlo?
– No. Direi di di no. Ogni tanto si alzava di scatto, guardava l’ora, si affacciava di qua e diceva: se arriva mia sorella, sono in laboratorio all’università. Dopo un paio d’ore tornava e si rimetteva al computer. Mai visto uno lavorare tanto.
– E non lo ha sentito parlare di qualche contrasto, di qualche litigio…
– Biagio litigare? Impossibile. Per questo ci spaventammo tanto per quelle urla nel pomeriggio, non era normale. Fra l’altro, ripeto, non riceveva quasi mai nessuno, a parte Renato, che si preoccupava per lui e gli faceva la spesa, cose cosí. È anche capitato che gli aprissimo noi perché il genio, di là, si era addormentato e non sentiva il campanello del portoncino sul pianerottolo. Una volta lo abbiamo trovato che russava sul tavolo, ci siamo fatti un sacco di risate. No, era davvero un tipo tranquillo.
– E quando non c’era, le volte che andava in laboratorio, la sorella portava qualcuno in casa? O qualcuno veniva a trovarla? Vi è capitato di vedere qualcuno di diverso dal solito?
Alex pensava a Cava, lo sguardo freddo e distaccato, le braccia strette attorno al torace mentre fissava il nulla dalla finestra del suo ufficio. Quell’uomo, non sapeva perché, le dava i brividi.
Paco cercò di ricordare.
– No. Il portone, avete visto, non possiamo comandarlo da sopra. Ognuno ha il suo campanello sul pianerottolo, ma il citofono suona contemporaneamente in entrambi gli appartamenti, perciò se veniva qualcuno da loro lo sapevamo anche noi, e se veniva qualcuno da noi lo sapevano anche loro. Fra l’altro qui i telefonini non prendono quasi, quindi citofonare alla cieca è l’unico modo per farsi aprire. Uno scendeva sempre, non abbiamo mai dovuto stabilire dei turni. Al massimo, se nessuno si muoveva, ci lanciavamo un urlo.
Lojacono era concentrato.
– Mi faccia ricapitolare: il citofono suona e basta e i cellulari non hanno campo, quindi non si può sapere chi è che vuole farsi aprire e bisogna andare di sotto; e da loro non veniva mai nessuno.
– A parte il fidanzato di Grazia, – precisò Paco, – ma le ultime volte non è neanche salito. In questo caso sapevamo benissimo che era lui perché suonava come un pazzo il citofono, lei scendeva e litigavano nell’androne. Cosí la gente si lamentava con il padre di Renato, che è proprietario di mezzo palazzo.
Alex chiese:
– E quel pomeriggio quando sentiste la discussione?
– Scese Biagio ad aprire, e noi non vedemmo chi era. Dopo qualche minuto sentimmo le urla, poi la porta che sbatteva. E piú niente fino alla mattina dopo, quando Renato ci svegliò e trovò quello che sapete.
Lojacono era immobile, le fessure degli occhi guardavano un punto imprecisato.
Fu Alex a rompere il silenzio.
– Signor Mandurino, che idea si è fatto di quello che è successo? Secondo lei, chi può aver commesso questa cosa?
Nella stanza la temperatura pareva essersi abbassata ulteriormente. Paco fissava di nuovo il piano del tavolo.
– Non lo so. Il fidanzato era violento, ma secondo me l’amava. Io non credo che si possa fare una cosa cosí a qualcuno che si ama. Puoi mollargli uno schiaffo, lasciarlo. Ma non fare una cosa cosí –. Poi alzò gli occhi e incontrò quelli di Lojacono. – Una cosa cosí si fa per un tradimento, per odio, per paura. Non per amore. Per amore non si ammazza.
XLII.
Aprí di nuovo gli occhi. Il dolore alla testa era piú forte. Le pulsazioni, violente, parevano venire dall’esterno: un maledetto tamburo che batteva senza sosta e senza ritmo.
Si era ancora una volta vomitato addosso. Provò disgusto per sé stesso, per la vita, per il mondo, per quella dannata città.
Da quanto non usciva? Aveva pagato tre giorni in anticipo, al suo arrivo, e per ora quelli non erano venuti a bussare, quindi non poteva essere passato piú tempo.
Anche se, pensò mentre cercava di mettersi almeno seduto, magari erano venuti e lui non aveva sentito.
Magari era quello, il tamburo.
Si alzò, andò alla porta e la socchiuse. Fuori c’era solo il corridoio buio, con la moquette sporca e lacera. Da una delle stanze sentí giungere il sordo, ritmico rumore di un letto che sbatteva contro una parete. Gli tornò alla memoria la puttana nera che era venuta lí con lui, che gli aveva indicato la pensione. Magari era lei. Magari no.
Richiuse, cercando di dominare nausea e vertigine. Provava disgusto per quel posto. Provava disgusto per la puttana nera. Provava disgusto soprattutto per sé stesso.
La stanza puzzava del suo vomito, ma anche di muffa. C’era un caldo malato, umido e pesante, alimentato da un radiatore che buttava aria dall’alto. Gli mancò il respiro e si trascinò alla finestra.
Ebbe difficoltà ad aprire; il saliscendi era arrugginito e incrostato di polvere. Il gelo entrò come una belva feroce, togliendogli il fiato e il torpore che aveva addosso.
Nonostante la temperatura, la strada era animata; transitò perfino uno scooter guidato da un uomo bardato come un astronauta.
Inspirò profondamente. Il freddo gli piaceva. Il freddo era libero. In prigione dominava il caldo, lo stesso che c’era nella stanza: un caldo fatto di troppa gente, di tristezza, di pelli non lavate, di ossessione. Il freddo lo si incontrava solo nei cortili, in quell’illusione di fuori, di un mondo dove volendo si poteva tornare a vivere o sognare di farlo.
Invece no. Invece poi, fuori, non si tornava a vivere. Era solo un’altra galera.
O lo spazio, o i soldi. O ti toglievano una cosa, o l’altra. Eri ossessionato o dalla mancanza dell’una, o dalla mancanza dell’altra. Lo spazio in galera, i soldi fuori. Ma per il resto era uguale.
Lui gli aveva detto: ti darò dei soldi. Tu la lasci stare, le lasci fare quello che vuole, e lasci in pace anche me. E io ti darò dei soldi.
La frase gli tornò in mente quando avvertí il primo brivido. Ti darò un sacco di soldi.
E che me ne fotte, a me? Cosí gli aveva risposto, nella sua lingua, in quella lingua che anche lui parlava di nuovo dopo tanto tempo. Che me ne fotte dei soldi? Nemmeno voglio sapere dove li prendi, tu che vivi in questa casa misera, che non tieni niente, che con tutti i tuoi libri e i tuoi pezzi di carta appesi al muro campi come un poveraccio.
Lui lo aveva fronteggiato a muso duro, come se fosse un uomo. Come se non puzzasse ancora di latte, come se non ricordasse chi era lui, chi è che aveva davanti, da dove veniva e perché. Se lo era ritrovato a un centimetro, gli occhi duri dietro le lenti, gli occhi che, non aveva potuto fare a meno di notare, erano gli stessi riflessi in galera dal pezzo di specchio, gli stessi che aveva stretto davanti al sole quando si era ritrovato fuori.
Lo aveva afferrato per il collo.
Urlando, lo aveva afferrato per il collo.
La sua stessa carne, il suo stesso sangue. La ragione per cui ogni giorno e ogni minuto, per piú di sedici anni, aveva sognato di uscire.
L’unica ragione che gli aveva permesso di superare le notti infinite. L’unico motivo per cui aveva sopportato il silenzio.
Lui non li aveva abbassati, gli occhi. E si era tenuto le mani al collo come un agnello, come un bambino.
Se non aveva stretto, non era perché il sangue non gli bollisse dentro, e nemmeno perché avesse ricordato chi era, lui. Non aveva stretto perché in quegli occhi non c’era paura. C’era pietà.
Ti darò dei soldi, aveva detto.
Respirò un’altra volta il freddo, e gli venne da piangere.
XLIII.
Il ritorno di Romano e Aragona dal laboratorio della scientifica era atteso con molta ansia. Anche il terzo giorno stava per concludersi e non c’erano novità all’orizzonte.
– Maledizione, quel posto è perfetto per un delitto, – disse Alex. – Non c’è un portinaio, e nei paraggi non c’è una telecamera di sorveglianza, che so, di una banca o un ufficio. Non ci sono nemmeno un ristorante o un bar da cui qualcuno potrebbe avere notato un movimento strano nel palazzo.
Ottavia, al solito, fissava lo schermo del computer:
– Nemmeno dal web si cava niente. Soltanto chiacchiere. Un sacco di ragazzi dicono che hanno conosciuto Biagio Varricchio all’università oppure hanno sostenuto l’esame con lui, ma non c’è nessuno che lo abbia incrociato nelle ultime ore di vita. Anche al paese, Roccapriora, tutti parlano di Grazia, di quanto era bella, però non emerge alcun elemento utile.
Palma, seduto sul bordo di un tavolo, cercò di essere ottimista:
– Pensiamo a quello che abbiamo. Il vicino di casa, come ci hanno appena raccontato Di Nardo e Lojacono, non ha sentito o visto arrivare nessuno, però conferma il litigio in dialetto, e possiamo dare quasi per certo che a urlare con Biagio fosse il padre. Se proprio arriveremo alla fine del tempo senza nient’altro in mano, dovremo concludere che è stato lui.
– Non abbiamo riscontri, – rispose Lojacono, – e di calabresi in città ce ne sono tanti. Meglio ammettere una sconfitta che buttare la croce addosso a qualcuno senza prove. Io con questo padre ci vorrei parlare, per capire meglio soprattutto il suo rapporto con la figlia. Inoltre, se è stato lui dopo essersi accapigliato con il ragazzo, perché poi se n’è andato sbattendo la porta. Non ha molto senso.
Palma non era disponibile ad abbandonare la propria opinione con facilità.
– E allora dov’è adesso? Come mai non si è fatto vivo? Avrà ben saputo che i due figli sono stati ammazzati. E guarda che una porta sbattuta si riapre. Magari dopo un minuto si è ripresentato, ha finto di essere dispiaciuto, il figlio gli ha aperto, lui ha lasciato che si sedesse al computer e lo ha ammazzato; poi ha aspettato il ritorno della ragazza e ha fatto fuori anche lei.
– Sí, va bene, ma è un’ipotesi, e anche artificiosa. Cosimo Varricchio, fra l’altro, dal suo profilo sembra essere il tipo che agisce d’impulso, non che ci pensa su e torna indietro per spaccarti la testa. Io, se non vedo un movente forte, non mi convinco. Perché li avrebbe ammazzati? Perché gli avevano mancato di rispetto? Perché lo avevano fatto sentire inutile, secondario? Per soldi? Per vecchie ruggini di cui non sappiamo niente? Non dico che sia impossibile, ma voglio parlargli e guardarlo negli occhi.
Entrarono Romano e Aragona, intirizziti.
– Ah, finalmente un po’ di tepore, credetemi, fuori è la tundra norvegese. È rimasto del caffè?
Palma fissò Aragona con rassegnazione.
– Ma tu al caffè pensi, in un momento come questo? Allora, che avete portato?
Romano appoggiò un fascio di carte sul tavolo.
– Hanno lavorato bene. La dirigente, che è davvero una in gamba, ci ha spiegato che avevano chiara la priorità della faccenda. Hanno anticipato tutto quello che potevano, ma per alcuni processi ci vuole un po’ piú di tempo e…
– Sí, sí, vabbe’. Dicci quello che ci serve, se c’è qualcosa che ci serve.
Romano fece una smorfia.
– Temo niente di risolutivo, capo. Molte sono conferme. Non c’è sperma sugli indumenti della ragazza, perciò, se già sapevamo dal medico legale che non aveva subito violenza, ora sappiamo anche che nessuno ha svolto attività sessuale, diciamo in proprio, sul suo cadavere o su di lei ancora viva. Il materiale trovato sotto le unghie non è di natura organica, quindi non è riuscita a graffiare l’aggressore. La Martone mi ha detto che hanno potuto esaminare questo materiale perché la necessaria delega del Pm è arrivata immediatamente, cosa che di solito non accade.
– E il sangue? – chiese Lojacono. – Quello vicino al ragazzo o nella stanza di lei?
Rispose Aragona, fra un sorso e l’altro di caffè.
– Tutto delle vittime; l’assassino, chiunque sia, se n’è andato da quella casa illeso. E, ovvio, nessuna traccia dell’arma del delitto, che però l’assistente della Martone, uno antipatico che mi pare si chiami Bistrocchi, ritiene essere un oggetto metallico, a giudicare dalla lesività in rapporto ai colpi inferti.
Ci fu un silenzio deluso. Se fossero emerse tracce organiche sotto le unghie di Grazia, o meglio ancora gocce di sangue non riconducibile alle vittime, almeno avrebbero avuto qualcosa.
– Hanno trovato i soldi? – domandò Lojacono.
Romano cercò tra i documenti.
– Ho l’inventario completo, la rilevazione, tutto. Gli unici soldi sono settantaquattro euro nel portafogli di lui e diciotto e settanta nella borsetta di lei. In ogni caso questo conferma, se ce n’era bisogno, che non è stato un ladro, se no avrebbe preso anche questi.
– Che ne hanno fatto dei tremilasettecento euro di Cava? – disse Alex, a mezza voce. – In banca non li hanno messi, in casa non li tenevano. Hanno pagato un debito? Fatto una spesa?
Aragona fece una smorfia.
– Mamma mia, quanto fa schifo ’sto caffè; quel Guida è un cane. Ho chiesto apposta alla Martone se c’era un oggetto di valore, nuovo, in casa. Ha risposto di no. Se con quei soldi hanno comprato qualcosa, non lo avevano lí.
Palma sbuffò.
– E le impronte?
Romano picchiettò su un foglio con l’indice della mano destra.
– Le impronte un piccolo aiuto ce lo dànno. Se non altro confermano le nostre congetture. Il padre delle vittime è stato là. Ci sono segni rilevanti delle impronte dattiloscopiche di lui, raccolte mediante il solito metodo della polvere igroscopica. Le hanno riscontrate con quelle presenti in archivio. La Martone dice che non ci sono dubbi.
Palma non nascose un moto di soddisfazione.
– Ah-ah. Ci siamo. Dove le hanno trovate?
– Erano un po’ dappertutto nella stanza grande; nessuna in quella della ragazza.
– I telefoni li hanno controllati? – domandò Lojacono.
– Sí, – disse Aragona. – Lui teneva il cellulare sul tavolo, inutilmente peraltro, perché in quella casa non prende, a quanto dicono. La chiamata piú recente, in entrata, risale a due giorni prima ed è partita da un’utenza intestata a Renato Forgione, il suo amico del cuore. In uscita risultava la sorella, evidentemente le aveva telefonato da fuori, la sera prima di essere ucciso. Si sono parlati per sei minuti e qualche secondo, alle diciotto e trentadue.
Romano controllò su un foglio e fissò sorpreso il collega.
– Poi mi spieghi come te le ricordi a memoria, queste cose. Il telefono della ragazza è stato rinvenuto sotto una console nell’ingresso; la Martone ha detto che l’avevi visto tu, Alex. A proposito, ti saluta.
Di Nardo mascherò l’emozione dietro un colpo di tosse.
– C’erano telefonate?
Romano annuí:
– Questa è la faccenda piú interessante. Prima di tutto il display è rotto perché il telefono è stato scagliato a terra con forza; non è caduto finendo sotto il mobile. Si è spaccato nonostante la custodia di gomma, una cosa orribile con le orecchie da coniglio, ce l’hanno fatta vedere. Sopra non c’erano impronte dattiloscopiche, a parte quelle di Grazia. Quindi, o l’ha lanciato lei stessa, e mi pare strano, o l’aggressore portava i guanti.
Aragona integrò l’informazione pigramente, mulinando con il mignolo destro nel corrispondente orecchio e fissando con curiosità il risultato sul polpastrello.
– Comunque, dopo la telefonata del fratello, aveva ricevuto altre sei chiamate tutte dalla stessa utenza, fra le diciotto e trentaquattro e le ventuno e tredici. Ha risposto alla prima e alla quarta; una volta ha conversato per tre minuti e quindici, un’altra per due minuti e ventisei.
Romano tornò a guardarlo.
– Ma lo sai che dovresti partecipare a qualche quiz televisivo? Vi giuro, lo ha guardato una sola volta insieme a me, e io a stento ricordo le cose leggendole.
Pisanelli ridacchiò:
– Nei recipienti vuoti le cose entrano piú facilmente. A chi era intestata l’utenza, si può sapere, se è lecito?
Aragona fece un breve pernacchio all’indirizzo del vicecommissario.
– A Cava Carlo. Il tizio dell’agenzia di modelle.
Tutti si guardarono, sorpresi. Aragona commentò.
– Ma che le fate a fare, quelle facce? Mica mi pare strano che la ragazza fosse diventata una fissazione del tizio. Poi è uno dei possibili sospetti, quindi non c’è niente da meravigliarsi.
– Infatti, – disse Lojacono, che pareva non muovere un muscolo nemmeno parlando. – Mi stupisce di piú l’orario. Se il telefono in quel palazzo non prende, e lo abbiamo verificato noi stessi il giorno del ritrovamento, perché Alex per chiamare qui è dovuta scendere in strada, significa che la ragazza alle ventuno e quattordici era fuori.
Romano integrò le informazioni.
– Il telefonino della ragazza, sono riusciti a capire in laboratorio, nel momento in cui è stato rotto stava riproducendo musica ad alto volume dalla playlist. Quindi lei è entrata con le cuffiette nelle orecchie, e se c’era rumore di colluttazione o altro, non ha sentito. Le chiavi di casa erano nella borsa, a posto. Perciò o ha aperto e le ha riposte, o ha suonato.
– Ma i vicini non hanno sentito nessun campanello, – disse Alex.
Palma annuí:
– Sí, deve avere usato le chiavi.
Sulla sala scese un silenzio riflessivo, finché Lojacono disse:
– Hanno trovato qualcosa addosso a lui o a lei? Qualcosa di strano, documenti, lettere, biglietti…
Romano scorse una lista.
– No, direi di no. Nel portafoglio di Biagio c’erano la carta d’identità, i soldi che vi ho detto, il tesserino della mensa universitaria, il badge, la ricevuta di una raccomandata, un biglietto dell’autobus, la patente, un santino di padre Pio. Nella borsetta di lei… aspetta… ah, ecco: un rossetto chiaro e uno scuro, ombretto, le chiavi di casa appunto, il tascabile di un romanzo rosa, un ombrello di quelli piccolissimi, il portafoglio con gli spiccioli, carta d’identità, una fotografia di una donna che potrebbe essere la madre, un biglietto con scritto: «Questo è per te. Ti amo», che forse accompagnava un regalo ma che non risulta essere recente, almeno a un primo esame. Niente di che. Qui ci sono tutte le fotocopie, se volete.
– E nelle stanze, nei cassetti?
– Sopra il tavolo di lui, e sul divano letto in cui dormiva, solo roba relativa alla biochimica. Per il computer bisognerà aspettare, lo stanno analizzando, ma mi hanno detto che non aveva connessione, quindi non c’erano né posta elettronica né siti internet visitati; lo usava solo per fare calcoli o cose del genere. Nella stanza di lei, pupazzi e indumenti, oltre alle foto appese al muro che credo abbiate visto. C’era pure la copia della liberatoria firmata all’agenzia di Cava per le fotografie pubblicitarie. Nessun accenno al compenso, ovvio.
Di nuovo silenzio. Magari nel mare di informazioni frammentate c’era quello che serviva. Magari, ben nascosto, c’era l’elemento che li avrebbe condotti a capire chi aveva ucciso i due ragazzi e perché.
E magari no. Magari nulla poteva spiegare un atto cosí folle e disperato.
Palma si sentí vecchio e stanco.
– Va bene. Pensiamoci su. Se a nessuno viene in mente niente, e se niente succede, domani facciamo un’ultima riunione e passiamo il caso ai professoroni della questura. Cosí impariamo da loro come si lavora. Buona serata a tutti.
XLIV.
Buona serata, gente.
Divertitevi, ridete, emozionatevi, confortatevi. Fate quello che potete per togliervi di dosso il freddo di questa lunga giornata.
Liberatevi delle scorie, rinascete. Potete riuscirci, con un po’ di forza e un po’ di sacrificio, a tenere fuori dalla testa le dita gelide dei brutti pensieri.
Potete riuscirci. O provarci, almeno.
Lojacono si stava radendo davanti allo specchio quando Marinella entrò in bagno a prelevare il materiale per il trucco.
– Papà, – chiese, – e da quando in qua ti radi due volte in una giornata?
L’ispettore rispose in modo vago.
– Sai, è un vecchio amico, non lo vedo da tanto di quel tempo. Mi dà fastidio farmi trovare in disordine, potrebbe pensare che sono invecchiato male.
La ragazza scoppiò a ridere.
– Ma se le mie compagne sono tutte innamorate di te! Ti hanno visto all’inizio dell’anno scolastico, quando mi hai accompagnato, e sono impazzite, dicono che sei bonissimo.
– Ma figurati, ormai sono cadente. Tu, piuttosto: ti trucchi pure per andare a mangiare un boccone da Letizia? Non è esagerato?
– Papà, una vera donna non esce mai di casa senza trucco, lo sai come si dice: un velo di trucco, un filo di tacco.
Lui la guardò di traverso nello specchio.
– Una vera donna, ma tu sei una bambina, non te lo scordare. E mi raccomando, stai nel ristorante fino a quando non si libera Letizia, poi fili di corsa a letto. Cosí domani non sei stanca per il compito di matematica.
I due volti nello specchio erano incredibilmente simili, con gli occhi stretti e all’insú e gli zigomi alti, uno con la schiuma da barba, l’altro truccato a metà.
– Tranquillo, papà. Non hai niente di cui preoccuparti. A me piace tanto, la matematica.
Buona serata.
Cercate di passare una buona serata.
Provateci seriamente, perché chissà che non sia un’occasione. Non pensate solo di dover riempire qualche ora.
Potrebbe sembrare una serata fra tante e invece essere «quella» serata.
Una serata che se la perdi non si ripresenta piú.
Alex appoggiò l’orecchio alla porta della propria camera. Non si sentiva niente.
Aveva detto di nuovo che dopo la riunione avrebbe mangiato una pizza con i colleghi. Con tono seccato, come fosse un peso quasi insopportabile, aveva spiegato ai genitori che il commissario ci teneva allo spirito di squadra, che per questa sua fissazione sarebbe stata costretta a cenare fuori, anche se ne avrebbe volentieri fatto a meno: ma sai, papà, sarei l’unica a mancare.
Aveva dato la buonanotte ed era andata a cambiarsi: andate pure a letto, io ho le chiavi, ci vediamo domani.
Rosaria nella testa. Rosaria nel cuore. In attesa di Rosaria sulla pelle.
Aveva scelto un completo intimo aggressivo, un perizoma e un reggiseno a balconcino comprati in un negozio fuori zona, lontano sia da casa sia dal commissariato, e un reggicalze al quale aveva agganciato un paio di collant a rete a maglie strette.
Poi aveva indossato un vestito scuro, non particolarmente corto né scollato, ma aderente, che mettesse in evidenza la figura sottile e nervosa. Il trucco scuro le incavava le guance conferendole un’aria ferina. Quello che voleva.
Stasera sono una lupa, pensò fissandosi nello specchio. Stasera devi sapere che mi finirai tra le fauci. Stasera non comandi tu, primo dirigente Martone. Stasera comando io.
Il soprabito, la borsa e fuori. Cinque passi nel corridoio e fuori.
Il padre, in vestaglia, le sbarrò il passo sull’uscio.
Pensò di morire. Ringraziò Iddio di avere già indossato il cappotto, che subito strinse sulla gola per nascondere il vestito e la sottile collana d’oro che aveva al collo.
– Papà, sei ancora alzato? Mi hai spaventata.
Il padre la scrutava. Lei riprovò per l’ennesima volta la sensazione di quando era una bambina e sentiva quegli occhi vuoti scavargli dentro per portare alla luce le sue piú nere emozioni.
– E tu alle riunioni in ufficio vai combinata cosí? Con questo trucco?
Il cuore gli rombava nelle orecchie. Come faccio, adesso? Come faccio?
– No, sai, papà, è che… insomma, sí, è una riunione, ma poi si va a cena e io…
Inaspettatamente, il Generale le sorrise.
– Sei grande, ormai. Credi che tua madre e io non lo sappiamo? Non me lo devi dire, lo so che sei riservata e timida e non ti piace parlare di certe cose, ma io l’ho capito che c’è qualcuno che ti piace, fra i tuoi colleghi. Sono contento. Mi auguro sia un uomo perbene, perché te lo meriti.
In una strana maniera quel sorriso furbo e complice le faceva piú orrore della severità che la terrorizzava ogni giorno.
– Dài, papà, ti prego… non c’è nessuno, figurati, io…
L’uomo le strizzò l’occhio. Non era mai accaduto in ventott’anni di vita. Oddio, adesso gli vomito sulle pantofole.
– Vai, vai pure. Magari, domani, se ti va, mi racconti. Ma non parlarne a tua madre, altrimenti si preoccupa. Sai, lei è apprensiva. Buona serata.
Buona serata, sí.
E invece, magari, non è affatto una buona serata.
Magari è l’ennesima perla falsa di una collana fatta di serate tutte uguali e prive di un perché.
Magari nasce e muore senza lasciare traccia, se non la solita malinconia.
Magari sarebbe stato meglio se non fosse arrivata mai, la maledetta serata. Perché almeno di giorno ti puoi buttare nel lavoro, cercandoti rogne e pensieri altrove, e invece, nella maledetta serata, sbatti il muso contro il te stesso che non sei.
Magari ti uccide, la buona serata.
L’effetto del riscaldamento della macchina ci mise due secondi a sparire, quando Romano spense il motore. Troppo freddo, fuori.
E pure troppo freddo dentro, pensò.
Non resisteva piú di un paio di giorni. Ogni volta giurava a sé stesso che non ci sarebbe tornato piú, invece dopo nemmeno quarantott’ore era di nuovo lí.
Anche con mille gradi sottozero, come stasera. Anche dopo una giornata in cui mi sono rincoglionito di fatica. Anche quando potrei starmene sotto una coperta, a dormire.
Sotto casa di Giorgia.
Per la verità, precisò a sé stesso, questa è la casa della madre di Giorgia. La casa di Giorgia è quella di cui ho le chiavi in tasca. La casa di Giorgia è quella in cui non riesco a tornare, ora che non ci abita piú. La casa di Giorgia è quella da cui lei se n’è andata con una cazzo di lettera.
Intravedeva, al terzo piano, il bagliore di un televisore acceso. Non sapevo offrirti di meglio, io? Non era meglio startene con me?
La temperatura era scesa ancora. Il corpo di Francesco Romano, detto Hulk, non reagiva: né brividi, né starnuti. Forse è vero che la rabbia dà forza, pensò. Forse è vero che divento verde e potente. Io sono pieno di rabbia, sai, amore mio? Pieno.
L’ironia era che se al commissariato fosse arrivata una donna e avesse detto: sa, assistente capo Romano Francesco, mio marito, quello che ho lasciato perché mi ha dato uno schiaffo, sí, uno solo, ma forte, molto forte, be’, una sera ogni due viene sotto casa di mia madre, dove sono tornata, e si mette a guardare le finestre, se qualcuno avesse denunciato questo, magari lui, l’assistente capo Romano Francesco, sarebbe andato a prenderlo, il tizio, e gli avrebbe detto: sta’ attento, continua cosí e ti metti in un brutto guaio.
E invece era proprio lui, l’assistente capo Romano Francesco, a fare quella cosa. A mettersi sotto quella casa a guardare. E ad aspettare.
Ad aspettare che? Non lo sapeva. Se glielo avessero chiesto, non avrebbe saputo rispondere.
Magari esce. Potrebbe. È una libera cittadina di un libero stato. Magari ha voglia di andare, che so, a ballare. Potrebbe. Sarebbe un suo diritto. Quelli come lui erano pagati per garantire alla gente i propri diritti. Che cosa avrebbe detto, se l’avesse vista uscire, quelle meravigliose gambe, quei folti capelli castani, quella bocca grande e sensuale, per andare a cena e ballare, e dopo, perché no, a letto con chissà chi?
Che avrebbe detto?
Che avrebbe fatto?
Vide accendersi la luce della stretta finestra del bagno. Forse si sta preparando. La lampadina si spense quasi subito. No, solo una pipí.
Si accomodò meglio sul sedile e alzò il bavero del cappotto. Poi mise le mani sotto le ascelle per tenerle calde e si dispose ad aspettare.
Buona serata, assistente capo Romano Francesco, pensò.
Buona serata.
XLV.
C’era qualcosa, pensò Lojacono. C’era decisamente qualcosa.
O piú di qualcosa.
Era stato evidente fin dall’inizio della serata, dall’istante in cui se l’era ritrovata davanti, truccata e in tiro – tacchi alti e spacco nella gonna sotto il cappotto corto – al parcheggio del palazzo di giustizia, come stesse uscendo dall’estetista, i capelli in perfetta piega, il rossetto scarlatto e gli orecchini lunghi che brillavano alla luce del lampione.
Era stato evidente pure per tre avvocati che l’avevano incrociata, si erano dati di gomito e si erano voltati a guardarla dopo averla salutata con deferenza, e per un paio di giovanotti che bighellonavano nei dintorni, i quali, a bocca aperta e senza vergogna, avevano ululato il proprio volgare apprezzamento.
Ed era stato soprattutto evidente quando, entrata nella sua utilitaria come se stesse salendo su una Bentley, gli aveva sfiorato le labbra con un rapido, sorprendente bacio.
Lui, con indosso l’unico vestito decente che possedeva, si era sentito subito inadeguato. Per la macchina, per le scarpe, per il dopobarba dozzinale; perché non era andato a farsi aggiustare i capelli, perché non aveva i soldi per portarla a cena in un posto mozzafiato; per la conversazione ruvida, da poliziotto, che poteva offrirle, per l’accento siciliano che in genere ostentava con orgoglio, ma che era cosí lontano dal forbito linguaggio che gli sbavanti colleghi sostituti procuratori sapevano esibire.
La sensazione si acuí ancora quando, volendo parcheggiare correttamente, tralasciando quindi i marciapiedi, i posti riservati ai portatori di handicap, i divieti di sosta, i passi carrabili e gli accessi pedonali, lasciò la vettura a qualche centinaio di metri dall’ingresso del ristorante, costringendo la donna a una imprevista passeggiata sui tacchi. Ma lei lo sorprese appoggiandosi al suo braccio con una tenera confidenza che non avrebbe osato immaginare.
Il tragitto fu divertente e allegro, perché Laura continuava a prendersi in giro per la propria instabilità sul suolo sconnesso; e fu intrigante e coinvolgente per il peso dell’opulento seno che lui sentiva premere contro il bicipite. Un richiamo lontano ma udibile ai suoi sensi, al di là degli strati di stoffa di due cappotti, due giacche, un reggiseno e una camicia. Nonostante il freddo terribile, avrebbe voluto che non finisse mai.
Lojacono aveva individuato il locale durante l’ansiosa preparazione della serata, basandosi prima di tutto sulla volontà di non incontrare nessuno che li conoscesse.
Era un luogo discreto, accogliente, dotato di una vetrata panoramica sul mare, e proponeva una rivisitazione della cucina tipica con qualche contaminazione ardita; le recensioni erano ottime. Il tavolo, pur offrendo una vista mozzafiato, era abbastanza defilato rispetto al centro della sala da garantire riservatezza.
Per l’ispettore la situazione precipitò non appena ebbe aiutato Laura a liberarsi del cappotto.
La Piras aveva deciso di scendere in campo con le armi pesanti. Il vestito che si era portata dietro in procura dentro una borsa, per indossarlo nel proprio ufficio chiuso a chiave, era frutto di una scelta ponderata avvenuta al termine di una lunga e per lei parecchio insolita sessione di shopping in centro. Nella parte superiore presentava una profonda scollatura che solo donne con un seno straordinario potevano permettersi. Per fortuna aveva avuto il buon senso di abbinare all’abito una sciarpetta di seta, cosí da limitare almeno in parte la vista. Se la sistemò quasi subito, altrimenti anche la gran parte dei clienti e del personale di sesso maschile avrebbe trovato difficile convogliare altrove l’attenzione, ma per Lojacono il danno era fatto. L’ondata di attrazione fisica che aveva sentito montare fin dal giorno in cui si erano conosciuti aveva trovato un’esplicita conferma visiva, e la cena diventò, nella sua testa, un preambolo per giungere al momento in cui avrebbe tenuto la donna fra le braccia.
La serata fu piacevolissima. Conversarono di comuni conoscenze e della città, quel luogo strano, difficile e tuttavia bellissimo, esotico per entrambi, ma che offriva affascinanti opportunità. Lojacono ammise che la circostanza del loro incontro, per esempio, lo induceva a una maggiore benevolenza nei confronti delle molteplici caratteristiche negative che lo infastidivano.
Scelsero tacitamente di non parlare del passato, sebbene sarebbero stati curiosi di conoscere e di capire l’una la solitudine dell’altro: non volevano rischiare che tristezze o malinconie oscurassero con un velo quell’incontro tanto atteso.
Laura percorreva con gli occhi i tratti del viso di Lojacono, le sue spalle, le mani grandi e forti. Percepiva un languore crescere sotto lo sterno, e una parte di lei rimproverava l’altra per averla tenuta cosí a lungo rinchiusa in prigione. Lo voleva. Lo aveva voluto da subito, adesso ne era certa. Era la prima volta che le capitava, almeno dacché possedeva la consapevolezza di una donna vera. Con la mente andò a Carlo, il suo primo ragazzo, l’uomo che aveva immaginato come l’unico della sua vita, morto da tanto, e alle occasionali avventure del tempo successivo, che non avevano lasciato alcuna traccia sulla superficie del suo cuore. Confrontò quelle emozioni con la meravigliosa inquietudine che provava adesso, mangiando e ridendo durante una cena di cui non avrebbe ricordato i sapori, e capí che non poteva perdere quell’occasione.
Lojacono parlò di Marinella, e intanto cercò, senza trovarla, la memoria di Sonia, la madre di sua figlia. Storia antica, di un’altra terra e di un altro uomo. Aveva la possibilità di lasciarsela alle spalle per sempre.
La cena finí, e fu strano, perché avrebbero volentieri continuato a chiacchierare bevendo vino e gettando brevi, incantate occhiate alla rassegna di luci che coronava il mare; ma avvertivano anche, fortissima, l’urgenza di andare via e di trovarsi da soli.
A poco a poco le parole si diradarono come gocce di pioggia al termine della notte. Gli occhi rimasero agganciati. Laura posò la mano su quella di Lojacono e disse, a voce bassa: andiamocene.
Il tragitto fino a casa della Piras fu breve e lunghissimo al tempo stesso. Come se temesse di perdere l’intimità conquistata, la donna non smise mai di accarezzargli la coscia, piano. Il desiderio di lui stava diventando quasi doloroso. Salirono ascoltando ciascuno il proprio cuore che aumentava i battiti.
Non avevano pronunciato una parola, dopo quell’andiamocene sussurrato al ristorante. Non serviva.
Nel piccolo ascensore stettero l’uno di fronte all’altra, il seno di Laura che si alzava e si abbassava in un respiro appena affannato.
Lei aprí la porta e quando furono dentro vi si appoggiò, nella poca luce che giungeva attraverso le finestre. Lui si liberò del cappotto e le si accostò. La baciò, piano e profondamente, mentre i loro corpi aderivano e si conoscevano centimetro per centimetro. Lei si sollevò sulle punte e lui si abbassò per incontrarla. Le sfuggí, durante quel bacio, un lieve mugolio di piacere. Lui le passò la mano sulla schiena.
Il telefono di lui e quello di lei cominciarono a squillare.
XLVI.
Il telefono di Alex squillò mentre metteva in moto l’auto.
Era Rosaria, che iniziò a parlare senza nemmeno salutarla.
– E se invece di andare in un inutile ristorante venissi da me? So fare delle ottime penne al pomodoro.
Nella risposta di Alex vibrava il sorriso:
– Il mio piatto preferito, le penne al pomodoro. Le avrei scelte nel menu.
– Bene. Via Atri, 8. Il cognome lo sai. Posteggia in garage, ché non c’è parcheggio.
Giunta a destinazione, e compiuta un’arrampicata mozzafiato per una scala tortuosa, Alex trovò la porta aperta. Fu accolta dalla voce dell’amica che veniva dalla cucina.
– Entra. Arrivo tra un minuto.
Nel salotto c’erano le luci basse, volumi e Dvd su tutte le pareti, un televisore, un divano dall’aria confortevole, un tavolo apparecchiato per due e rischiarato da lunghe candele. La cura dei particolari, la comodità preferita all’estetica e la tenera attenzione a soprammobili, tappeti, centrini e tovaglie tradivano una dedizione femminile che Alex non avrebbe mai immaginato. La casa di Rosaria sembrava quella di un’altra persona. Si era figurata un’atmosfera moderna, un ambiente di vetro e metallo, funzionale e freddo. Fu felice di essere stata smentita.
Si tolse il cappotto, inspirando un sottile aroma di incenso che proveniva da un contenitore su un ripiano della libreria. Scorse i titoli, incontrando una lettrice famelica e senza pregiudizi di genere. Camus, Brecht e Amado si alternavano con Rex Stout, Carlotto, Carrisi e Carofiglio; l’opera omnia di García Márquez, Borges e Galeano con De Carlo e Baricco.
– Ma quando lo trovi il tempo di leggere tutta questa roba? – mormorò, quasi a sé stessa.
– Lo trovo, lo trovo, – rispose una voce sommessa alle sue spalle.
Si girò e vide gli occhi di Rosaria al di là di due calici di vino rosso. Indossava una vestaglia a colori allegri, protetta da un grembiule appena macchiato di sugo. Il sorriso era incantato sotto un trucco leggero.
– Dio, quanto sei bella, – disse.
Alex arrossí appena, prese un calice e urtò quello di lei.
Bevvero a piccoli sorsi, senza smettere di fissarsi. Alex percepí solo allora che dalle casse, nascoste in mezzo ai libri, giungevano le note calde di un blues cantato da una donna.
– Mio dio, il sugo! – esclamò Rosaria.
Appoggiò il bicchiere sul tavolo e corse in cucina. Quando tornò, sospirava di sollievo.
– Mamma mia, ancora un secondo e…
La frase non la finí, perché rimase a bocca aperta. Alex si era tolta il vestito e si era accoccolata sul divano.
– Io non ho fame. Non quella fame, almeno, – disse guardandola.
La voce, bassa, sembrava quella di una gatta che ronfa di soddisfazione.
Rosaria credeva di dover guidare l’amica verso i sensi schiudendola a poco a poco, abituandola a pensare a sé stessa al di là delle convenzioni e delle remore sociali. Non sapeva che Alex aveva scavalcato da anni quella barriera; erano ben altri i limiti che la sua complessa psicologia le imponeva. Non sapeva dei chilometri in macchina, della maschera che indossava per procurarsi la transitoria pace del corpo in bui locali privati. Non sapeva della frustrazione, della rinuncia, delle fantasie che coltivava in silenzio nella propria stanza quando il suo carceriere dormiva.
E soprattutto non sapeva quanto aveva dovuto lavorare su di sé per essere lí, quella sera, e come raggiunta quella determinazione fosse subito passata a immaginare ciò che sarebbe successo.
Da parte sua Rosaria era decisa, e pronta. Voleva essere intrigata e coinvolta, non le bastavano piú le relazioni occasionali nate dagli incontri nei bar con chi invece cercava proprio quello. Voleva qualcuno con cui condividere lacrime e risate, con cui commuoversi davanti a un film, con cui litigare. Voleva qualcuno che piacesse a tutte le parti di sé.
Fecero l’amore per ore, in tutti i modi. Sperimentarono i corpi, toccando vette prima mai raggiunte. Capirono perché l’amore fra donne è piú bello, profondo e ricco di quello che possono immaginare gli uomini, giacché non conosce fine e sazietà, e passata la furia e la rabbia offre dolcezza, senza stabilire differenze tra prendere e concedere.
Lessero l’una negli occhi dell’altra la pienezza del piacere e l’insorgere della nuova voglia. Scoprirono come giocare e come trovarsi, come condursi per mano sino a osservare il mondo da una felice distanza.
Ora, nell’aria piena dell’odore dei tanti orgasmi che si erano regalate, la mano di Rosaria percorreva il volto di Alex quasi volesse imprimersi nella memoria del corpo qualcosa che non doveva essere dimenticato.
– Io ti voglio, – le disse. – Ti voglio ora, e ti voglio domani e dopodomani. Non posso piú pensarti lontana da me.
Alex ne ascoltava la voce roca come si ascolta una musica nuova e familiare. Nemmeno lei ricordava nulla di tanto meraviglioso.
– Sí, anche per me è stato bellissimo.
Rosaria scosse dolcemente il capo, continuando ad accarezzarla.
– Non è solo questione di pelle. Io voglio la tua vita. E voglio darti la mia.
Alex non rispose. Ascoltava il proprio cuore imbizzarrito.
Rosaria riprese.
– Lo so, ti sembrerà assurdo. Penserai: ma questa, per una volta che facciamo l’amore, viene a farmi certi discorsi. Ma io ti ho riconosciuta. Appena ti ho vista, ti ho riconosciuta. Ho saputo chi eri e ho visto la strada che possiamo percorrere insieme. Non so se è una fase della mia vita, se sono impazzita o soltanto stanca di combattere contro la mia stessa indifferenza. Però so che ti voglio, e che voglio dividere con te il mio tempo e i miei desideri.
Alex ascoltava, gli occhi socchiusi, il sangue che le scorreva confuso nelle vene. Io pure ti ho riconosciuta, avrebbe voluto dirle. Io pure credo che la felicità sia qui, in questo letto, fra le tue mani e nella tua bocca. Io pure sono stanca di tenere separate la mia pelle e la mia anima…
«Sono certo che non mi deluderesti mai. È vero?»
«Sí, papà».
Che cosa posso dirle per non perderla? Per non farle capire che il mio coraggio non è il suo, che la mia catena è mille volte piú robusta?
– Non voglio spaventarti, – continuò Rosaria. – Sei giovane, e hai una vita organizzata diversamente. Ma se il tuo sentimento non è il mio, se non pensi quello che penso io, ti prego, dimmelo ora. Devo sapere se può esserci un posto per me nel tuo cuore.
Alex strinse gli occhi. Nella sua mente infuriava una terribile tempesta. Non aveva mai pensato, ogni volta che aveva rubato il piacere in modo clandestino, di fare qualcosa di sbagliato, di contrario ai suoi principî, anche se i luoghi erano loschi e mercenari.
Adesso, invece, si sentiva traditrice, colpevole, infedele. E felice come non era mai stata.
Aprí la bocca per rispondere, e il suo telefono squillò.
XLVII.
Decisero di andare ognuno per conto proprio.
Per la Piras, convocata direttamente dal questore, stava arrivando una macchina dalla procura; Lojacono, avvertito da Palma, aveva la sua.
Quando avevano capito che, per la seconda volta, dovevano separarsi nel momento piú bello, si erano concessi un lungo sguardo. Poi lei lo aveva accarezzato e gli aveva rivolto un breve sorriso.
«Io sono qua, – aveva detto, piano. – Non me ne vado».
«Anch’io», aveva risposto Lojacono. E adesso attraversava la notte diretto verso la questura, dove avrebbe trovato anche Alex.
Si sentiva in subbuglio. Il desiderio di Laura, la bellezza della serata e soprattutto l’allegria, il giovanile entusiasmo provato lo avevano riportato indietro nel tempo, dandogli speranza: poteva di nuovo essere felice. Ma dopo era giunto il brusco richiamo alla realtà del suo lavoro di poliziotto, che ogni giorno si trova faccia a faccia con delitti e brutture: la grande città era un luogo difficile, e nella grande città, adesso, c’era anche Marinella.
Il pensiero della figlia arrivava naturale alla sua mente, come una logica conseguenza, ogni volta che il crimine faceva particolarmente paura. Ogni volta che indagava sulla morte di un innocente. Ogni volta che doveva fare i conti con gli effetti della follia e del male.
Fu proprio mentre pensava a lei che la scorse.
In un primo momento pensò a uno scherzo della mente: gli occhi seguono un pensiero e credono di vedere quello che non c’è.
Era imbottigliato nel traffico all’inizio del lungomare, dove a quell’ora di notte ferveva la movida e migliaia di persone confluivano verso gli chalet che distribuivano bevande ghiacciate perfino con quel freddo terribile. La sua utilitaria procedeva con lentezza nella seconda delle quattro file, e lei camminava verso di lui in senso opposto, a una decina di metri.
Un’occhiata piú attenta, libera da pensieri, gli confermò che non soffriva di allucinazioni. Era Marinella, nessun dubbio. Rideva, i capelli scompigliati dal vento. Rideva, gioiosa come lui non ricordava di averla mai vista. Rideva, gli occhi obliqui e felici rivolti verso l’alto. In direzione del viso, vagamente familiare, di un ragazzo magro e slanciato che gesticolava raccontando chissà che.
Dietro Lojacono i clacson suonarono spazientiti, e lui dovette mettersi in movimento.
Si guardò attorno in cerca di un parcheggio. Sarebbe corso a prendere la figlia per quel bavero che teneva stretto sulla gola, le avrebbe chiesto conto del perché si trovasse per strada in piena notte in compagnia di un potenziale stupratore in una città pullulante di potenziali stupratori, invece di dormire abbracciata a un orsacchiotto di peluche. Ma di parcheggi, anche in seconda fila, anche in terza, non c’era l’ombra. E in questura lo attendevano.
Estrasse il cellulare dalla tasca interna della giacca, con difficoltà perché aveva le dita intirizzite, imprecando a mezza voce. Compose il numero della figlia per scoprire che, astutamente, quella piccola Lucrezia Borgia aveva spento il telefonino. Intanto il fiume di macchine lo trascinava lontano.
Lo smarrimento stava lasciando posto alla rabbia. Aveva affidato la figlia a qualcuno. Si era fidato di qualcuno. Digitando febbrile, trovò fra i contatti quello di Letizia. Avanzava a sobbalzi, sollecitato alle spalle da una sfortunata automobile con quattro giovani sopra che mal sopportavano la sua distrazione; avrebbero preferito qualcuno piú reattivo nel divorare i pochi metri che si liberavano di volta in volta.
Fu il cameriere a rispondere. Dalla musica e dalle voci capí che, nonostante l’ora tarda, la trattoria era in piena attività.
Letizia arrivò alla cornetta. La sua voce era agitata, almeno cosí parve a Lojacono.
– Letizia? Ciao, sono io. Come va, tutto bene?
– Ah, ciao. Sí, certo, tutto bene, perché? E tu, come stai? Ti diverti?
– Io? Sí, certo, grazie. Mi passi Marinella, per favore?
– Marinella? Perché? È successo qualcosa?
– No. Voglio solo parlarle. È lí, no?
– Qui? Certo che è qui. Ma aveva un po’ di mal di testa, ha preferito andare a dormire. Non vorrei svegliarla…
Lojacono lasciò trascorrere un attimo di penoso silenzio, poi disse:
– Io credo che alla base dell’amicizia ci sia la sincerità, sai? Credo che due amici debbano poter contare l’uno sull’altro. Se non c’è sincerità, non può esserci nemmeno amicizia.
La voce della donna tremava di pianto.
– Peppe, io non… guarda che io a Marinella voglio bene come a una figlia. Non le farei mai del male, e non le permetterei di correre dei rischi. Io…
L’ispettore sentí la collera montargli nel cervello.
– Primo, non chiamarmi piú Peppe. Secondo, Marinella non è tua figlia, è la mia. E sono io che decido se per lei una cosa è rischiosa o no. Sono io responsabile di quello che potrebbe succederle, e adesso è per strada con qualcuno che non conosco, in piena notte, in una città pericolosissima. Tutto questo per colpa tua, e mia che mi illudevo fossi diversa.
Chiuse la comunicazione, e quando dopo neanche un secondo Letizia tentò di richiamare rifiutò con rabbia. Doveva concentrarsi sul lavoro, questo imbroglio architettato alle sue spalle dalla figlia e dall’amica rischiava di impedirglielo: un’altra cosa imperdonabile.
Aveva appena parcheggiato nel cortile della questura che gli giunse la telefonata di Marinella. Sullo sfondo si udiva il rumore del traffico e della gente in strada: evidentemente la ragazza aveva riacceso il cellulare e in breve aveva saputo cosa era successo.
– Papà, ciao, sono io. Mi dispiace…
In piedi, nel vento e sotto gli occhi dei due poliziotti in servizio all’ingresso, Lojacono sibilò:
– Torna subito a casa. Subito, hai capito?
– Ma… papà, – balbetto lei, – non ho fatto niente di male, sono andata al cinema e a mangiare un panino! Tutte le mie amiche, a scuola, escono la sera, e…
– Non mi interessa quello che fanno le tue amiche. Torna subito a casa. Parleremo poi. E appena arrivi fammi uno squillo dal fisso, cosí ho la conferma che sei rientrata.
– Ma se ti dico che vado non ti fidi? Hai bisogno della verifica? Io…
– Sei stata tu a dimostrarmi che non posso fidarmi di te. E a quanto pare non posso fidarmi nemmeno di Letizia.
Adesso la voce di Marinella tradiva frustrazione.
– Letizia non ha colpa. Io sono una donna, papà, non sono piú una bambina, e tu non lo vuoi capire. Sono solo andata al cinema, cazzo! Non ho fatto niente di male!
Lojacono fissò duro i due poliziotti, che distolsero lo sguardo.
– Io sono responsabile di te anche davanti a tua madre. E devo lavorare, non posso seguirti come andrebbe seguita una bambina della tua età. Penso sia meglio che tu faccia le valigie e torni in Sicilia.
Premette il tasto rosso e varcò il portone a passo svelto.
XLVIII.
Era di statura media, le spalle larghe e le mani grandi e nodose, appoggiate sul tavolo. A prima vista sembrava un clochard. Mal rasato, capelli grigi, sporchi, lunghi sula nuca, una giacca pesante, un maglione dal quale spuntava il colletto di una camicia sdrucita, che forse un tempo era stata azzurra, emanava un acuto odore di vomito rappreso. Gli occhi arrossati e i capillari rotti sul naso erano tipici di uno che beve troppo.
Tutto in lui raccontava di povertà e male di vivere.
Contrastavano con questo quadro la posizione diritta della schiena e ancor piú l’espressione del viso, lo sguardo calmo e fiero, quasi di sfida, la mascella salda e la linea ferma della bocca.
Oltre a lui e a due poliziotti in divisa in piedi vicino alla porta, nella stanza, all’arrivo di Lojacono, c’erano altre cinque persone. La Piras, che aveva fatto in tempo a sostituire l’abito mozzafiato con un piú sobrio tailleur; Palma, che nonostante l’ora tarda aveva l’aria meno sgualcita del solito e sembrava preda di una strana euforia; il questore, un sessantenne calvo e corpulento dall’aria sempre irritata; un uomo sui quarant’anni, azzimato e dai modi supponenti che gli fu presentato come Francesco Gerardi, dirigente della squadra mobile; infine una vecchia conoscenza, il commissario Di Vincenzo, l’uomo che aveva cacciato Lojacono, in realtà facendogli un regalo, dal commissariato San Gaetano, dov’era stato assegnato senza mansioni al suo arrivo in città.
L’ispettore rivolse uno sguardo interrogativo a Palma, che si strinse nelle spalle.
Fu il questore a risolvere il mistero di quella presenza.
– Il commissario Di Vincenzo è qui perché coinvolto per un supporto a Pizzofalcone se le indagini in corso non dovessero portare risultati soddisfacenti a breve.
– Cosa piú che probabile, peraltro, – aggiunse Gerardi, chiarendo subito la propria posizione.
Le forze in campo erano abbastanza definite. Gerardi e Di Vincenzo rappresentavano il partito che voleva la chiusura di Pizzofalcone; Laura e, forse, il questore, quello che cercava di tenerlo in vita.
– Non è ancora detto che abbiamo bisogno di aiuto, – replicò piccato Palma.
La porta si aprí ed entrò Alex; aveva il cappotto chiuso fino al collo e nessuna traccia di trucco in viso. Salutò con un cenno della testa e si sedette in posizione defilata.
Palma riprese, piú calmo.
– Ora ci siamo tutti. L’ispettore Lojacono e l’agente Di Nardo stanno seguendo le indagini, quindi riassumo per loro. Come avrete capito, anche perché avete visto le sue foto segnaletiche che in questi giorni sono state diramate ovunque, il signore qui seduto è Varricchio Cosimo, il padre delle due vittime di vico Secondo Egiziaca. Si è presentato spontaneamente in questura circa tre quarti d’ora fa, e per il momento non si è provveduto a interrogarlo.
L’uomo si lasciò andare a un sorriso sprezzante.
– E con tutte le fotografie che avete mandato in giro sono venuto coi piedi miei. Bravi.
Il dirigente della mobile scattò.
– Varricchio, non parli se non è interrogato. Tenga presente che la sua posizione…
Varricchio non si girò nemmeno a guardarlo.
– La mia posizione, caro dottore, è quella di uno che è venuto qui appena ha saputo che qualcuno gli ha ammazzato due figli. O sbaglio?
La sua voce sembrava un raschietto sul ghiaccio. Il tono era tranquillo e l’accento calabrese molto forte.
Il questore provò a ricondurre l’interrogatorio sui binari di una correttezza formale.
– No, Varricchio, non sbaglia. E prima di tutto vogliamo dirle che ci dispiace tantissimo per i due ragazzi. Ma deve capire, è strano che lei compaia dal nulla a tre giorni dall’omicidio. E siccome…
– … e siccome sono calabrese e pregiudicato, mi avete messo in cima alla lista dei sospettati. Non è cosí?
Fu Di Vincenzo a perdere le staffe, questa volta.
– No, non è cosí! Lei è sospettato perché è sparito il giorno stesso del delitto per rispuntare solo adesso. È assurdo che lei non abbia saputo niente prima.
La Piras fissò freddamente Di Vincenzo, nei confronti del quale non aveva mai nascosto una forte antipatia.
– Di Vincenzo, se le regole non sono cambiate a mia insaputa, l’interrogatorio lo conduce il magistrato incaricato. E fino a prova contraria quel magistrato sono io. Quindi, a meno che non abbia domande pertinenti da fare, tenga a freno la lingua o le chiederò di lasciare la stanza, giacché lei è quello che ha meno titolo per stare qui. D’accordo?
L’attacco violento sorprese i presenti, e Palma non riuscí a nascondere una smorfia di compiacimento.
La Piras si rivolse a Varricchio.
– Signor Varricchio, mi chiamo Laura Piras, e come ha sentito sono il magistrato che coordina le indagini sulla morte dei suoi figli. Vuole spiegarci, per la soddisfazione del commissario Di Vincenzo e di tutti noi, come mai abbiamo la fortuna di ricevere la sua visita solo tre giorni dopo il fatto?
– Semplice. Mi sono ubriacato, sono andato a puttane, ho dormito, mi sono ubriacato ancora, ho dormito di nuovo e infine mi sono svegliato. Allora sono sceso in strada e sono andato a prendere un caffè; ci stava un televisore acceso e ho sentito quello che è successo. Mi sono fatto spiegare come cazzo si arrivava qui e sono venuto.
Gerardi si rivolse mellifluo alla Piras.
– Dottoressa, dobbiamo proprio sopportare un simile linguaggio? Questo è…
Laura gli indirizzò un cenno infastidito con la mano, come per scacciare una mosca.
– E dove ha trascorso tutto questo tempo?
– In una pensione vicino alla stazione centrale. Si chiama Da Lucia, mi sembra. Mi ci ha portato la puttana. Ho pagato per tre giorni. Da bere ce l’avevo con me.
Palma chiese alla Piras il permesso di fare una domanda, e lei glielo accordò.
– Signor Varricchio, può dirci se era venuto in città per i suoi figli? Se li ha incontrati ed eventualmente quando?
– Volevo riportare Grazia a casa e, come avete visto, bene avrebbe fatto a tornarsene con me. Sono stato là dove abitano… dove abitavano, ma lei non c’era. C’era solo il fratello, mio figlio.
Lojacono lanciò un’occhiata alla Piras e chiese:
– Si ricorda che ora era?
– Il treno è arrivato alle cinque e trentacinque del pomeriggio, con un’ora di ritardo, e sono andato direttamente a casa loro. Ci ho messo mezz’ora, io cammino volentieri. Quindi saranno state piú o meno le sei.
– Quanto si è trattenuto?
L’uomo tacque, corrugando la fronte. Poi rispose:
– Venti minuti, forse. Non ho guardato l’ora.
Alex lo studiava. Un padre, una figlia. Non amore, ma possesso.
– E che è successo in quel tempo? – gli domandò.
Varricchio si voltò verso di lei.
– Non lo vedevo da molto tempo. Nemmeno si era curato di venirlo a trovare, a suo padre. La sapete la mia storia, no? Mai era venuto in galera a guardarmi in faccia, mai era tornato al paese da quando sono uscito. Non lo avrei riconosciuto, a vederlo per strada. Dice che esiste la voce del sangue. Io allora sono un poco sordo, perché non l’ho sentita.
L’agente insistette.
– Le ripeto la domanda: che cosa è successo nell’appartamento?
– Io gli ho detto: tu fai quello che vuoi. Ti sei vergognato di tuo padre, hai studiato qua, ti sei sempre fatto i fatti tuoi. Per te la famiglia non è mai esistita, quindi fai quello che vuoi. Ma tua sorella torna a casa, perché il suo posto è là.
– E lui, che ha risposto? – chiese Lojacono.
Il viso duro di Varricchio fu attraversato da una specie di ghigno.
– Che la famiglia l’avevo scassata io facendomi mettere in galera ammazzando a uno. Che li dovevo far campare, a lui e alla sorella. Che Grazia era una brava ragazza, e teneva tutto il diritto di fare una bella vita. Io gli ho detto: e che significa per te fare una bella vita? Fare la zoccola in città o andare a vivere insieme a quell’essere inutile del cantante scemo?
Il tono era distante, freddamente descrittivo. Come se stesse leggendo la trascrizione di un colloquio. La Piras si inserí:
– Insomma, avete discusso e la discussione è degenerata.
– Dottore’, io sono il padre. Mica me le potevo tenere, certe cose. Gli ho dato uno schiaffone.
Quell’ammissione prese tutti in contropiede.
– Quindi gli ha messo le mani addosso.
– Ho detto che gli ho dato uno schiaffone. Un padre a un figlio uno schiaffone glielo può dare o il mondo si è rivoltato pure in questo?
Il questore tossicchiò.
– Lui ha reagito?
Varricchio scoppiò quasi a ridere.
– Addirittura. Ci sta pure che i figli si mettono a reagire coi padri, adesso. No, non ha reagito. Ha detto che me ne dovevo andare, che se no chiamava a voi, alla polizia, e mi faceva arrestare un’altra volta, che quello è il posto mio, in galera. Lui non sarebbe tornato mai, e non voleva che tornava nemmeno la sorella.
– E lei?
– Io gli ho riso in faccia. Gli ho chiesto: e se non me ne vado che mi fai? Mi cacci a calci nel culo? Allora lui ha cambiato tono. Mi ha detto: capisci che tua figlia è grande, che sono grande pure io e che ormai non siamo i bambini che hai lasciato quando sei finito dentro? Mi ha offerto dei soldi, perfino.
– Soldi? Quali soldi? – chiese subito Lojacono.
Varricchio aveva di nuovo quello strano ghigno.
– Ha detto che avrebbe guadagnato abbastanza da mantenere la sorella come una signora, e pure da farmi stare tranquillo a me al paese senza bisogno di trovarmi un lavoro. Allora io mi sono guardato attorno nel cesso dove stava, mi sono fatto un’altra risata e gli ho detto: lo vedo quanti soldi tieni, lo vedo come campate bene.
Lojacono era concentrato al massimo.
– Non le ha detto nient’altro, sui soldi? Come pensava di…
Di Vincenzo, ritenendo scaduto il tempo dell’ammonizione a tacere della Piras, si rivolse al questore, impaziente.
– Ma insomma, dottore, che significato hanno queste domande? Vogliamo o no capire se quest’uomo, un pregiudicato per omicidio uscito di galera da meno di un anno, è venuto apposta dal paese suo per ammazzare quei due poveri ragazzi? Io non capisco il senso…
La Piras si girò verso di lui come una tigre, il labbro superiore le scopriva parte degli incisivi.
– Di Vincenzo, – ringhiò, – l’avevo avvertita. Esca subito dalla stanza. Quest’indagine non le compete.
Di Vincenzo arrossí e fissò di nuovo il questore.
– Dottore, siamo nel suo ufficio, non in procura, quindi, francamente, non credo di dover prendere ordini da…
Il questore si appoggiò allo schienale della poltrona.
– Ha ragione, Di Vincenzo. Perciò mi vedo costretto a ordinarle io quanto le ha chiesto la dottoressa Piras. Vada a casa. Se ci sarà bisogno che lei conosca l’esito di questo interrogatorio, glielo racconteremo. Buonanotte.
Di Vincenzo si alzò con un movimento nervoso e, indirizzato uno sguardo carico d’odio a Lojacono, che lo sostenne senza battere ciglio, uscí. Palma si augurò di non trovarselo di nuovo sulla strada: quello non era uomo da dimenticare facilmente le umiliazioni.
La Piras tornò a Varricchio.
– Risponda alla domanda, per favore. Suo figlio le disse come avrebbe trovato quei soldi?
Varricchio scosse il capo.
– Disse che aveva solo bisogno di un poco di tempo e che era una cosa di lavoro. Fesserie. Comunque io me ne sono andato.
Alex era dubbiosa.
– Senza piú reagire?
Varricchio si sporse verso di lei.
– E che dovevo fare, signori’? Lo dovevo ammazzare?
La battuta era cosí macabra da lasciare sconcertati.
Quell’uomo era privo di emozioni, pensò Palma. Uno cosí poteva uccidere i figli.
Lojacono fu l’unico a non scomporsi.
– Mi ascolti bene. Vorrei sapere come ha fatto a entrare nell’appartamento. E quando è uscito ha incontrato qualcuno?
Le domande stupirono un po’ tutti, anche Varricchio, che corrugò la fronte, sforzandosi di ricordare.
– Ho suonato il citofono e lui è sceso ad aprirmi. Mi ha riconosciuto subito; meglio, perché, come vi ho detto, io a lui non l’avrei riconosciuto mai. Quando sono uscito… no, non ho incontrato nessuno. Ho sbattuto la porta e me ne sono andato.
Palma guardò la Piras con intenzione: l’uomo non era in grado di allontanare da sé alcun sospetto.
Il procuratore annuí e il commissario chiese:
– Dopo che ha fatto?
Varricchio alzò le spalle.
– Ho aspettato un po’ là sotto, per vedere se arrivava Grazia. Poi ho pensato che magari, facendo la zoccola, non tornava neanche, e a stare fermi in strada si gelava. Allora ho camminato, a caso, finché mi sono infilato in un bar. Ho bevuto e dopo sono andato a cercarmi una puttana.
Palma insistette.
– A che ora ha rimorchiato la prostituta?
– Non lo so. Avevo bevuto. Non mi ricordo.
Un attimo di silenzio, poi fu Alex a parlare.
– Insomma si era rassegnato. Al primo rifiuto. Tanti chilometri, tante ore di viaggio ed è bastato che suo figlio dicesse no. Poteva telefonare, avrebbe risparmiato tempo e fatica.
– No, non mi ero rassegnato. Ma non erano piú bambini, signori’. Me li ero persi. Il tempo buttato non è stato quello del viaggio, sono stati i sedici anni che ho passato in galera a pensare a quanto sarebbe stato bello quando li avrei rivisti. Ormai erano due estranei. E io ho scoperto chi ero diventato, in quei sedici anni: un uomo inutile. La vera pena, signori’, non è la libertà che ti levano, è l’uomo che ammazzano. E sono piú morto io, oggi, di quel povero cristo che ho preso a pugni tanti anni fa per una birra di troppo.
– Perché non è tornato a casa, allora? Perché non è andato a prendere il primo treno?
– E che gli raccontavo a quelli al paese? Che manco i figli miei mi volevano piú vedere? Almeno potevano pensare che ero stato con loro. Che mi avevano tenuto qualche giorno. Che avevano detto: papà, rimani un poco con noi, cosí ti raccontiamo che abbiamo combinato in questi anni.
Il questore fece accompagnare Varricchio in un’altra stanza dai due agenti in divisa. La notte andava cedendo il posto a una fredda alba.
La Piras si passò una mano sugli occhi stanchi.
– Che ne dite? Non ha alibi, ha un movente, ha avuto l’occasione. Ammette di essere stato là.
Il questore annuí.
– Oltretutto è un pregiudicato, notoriamente soggetto ad accessi di rabbia incontrollata. Pure in carcere è stato coinvolto in un paio di risse.
Gerardi, il dirigente della mobile, che fin lí era stato zitto temendo di fare la fine di Di Vincenzo, pensò che fosse venuto il suo momento.
– Comunque non è stato catturato in seguito alle indagini del commissariato di Pizzofalcone. Questo dev’essere chiaro.
Palma perse le staffe.
– Non diciamo sciocchezze, eravamo sulle sue tracce. E d’altronde non era facile trovarlo finché se ne stava chiuso in una pensione alla stazione centrale.
La Piras gli andò in soccorso.
– Il commissario ha ragione. Procediamo al fermo e andiamocene a casa.
L’intervento di Lojacono spiazzò tutti.
– E se non fosse stato lui? Lo sbattiamo dentro sulla base di semplici supposizioni? Uno che ha appena perso due figli?
Palma lo fissò sconcertato, come se fosse stato morso dal proprio cane mentre lo stava accarezzando.
– Ma… che dici? Non ha alibi… E hai sentito con che tono parla? Soffriamo piú noi, per la morte di quei ragazzi, che lui! Anche la dottoressa…
L’ispettore si alzò.
– Ognuno reagisce a suo modo alle tragedie. Magari è proprio il trauma che lo fa essere cosí. In ogni caso, capo, io non dico che sia innocente, solo che ci sono ancora delle questioni da approfondire. Perché avrebbe dovuto ucciderli? E come avrebbe fatto?
La Piras lo fissava, cupa. Ora che la chiusura del commissariato di Pizzofalcone sembrava scongiurata, proprio lui si metteva di mezzo.
– Che significa, come avrebbe fatto? Prima ha ammazzato il figlio, poi ha finto di uscire alla fine del litigio, ha aspettato la ragazza e ha ucciso anche lei.
Lojacono scosse il capo.
– Non so, non sono sicuro. Ma è una mia opinione, niente di piú.
Anche il questore si alzò.
– Vabbe’, qualche ora di sonno e avremo tutti le idee piú chiare. Intanto fermiamolo per stanotte, Laura. Vediamo se ha un avvocato, altrimenti gliene assegniamo uno d’ufficio e discutiamo dei come e dei perché. Convocheremo una conferenza stampa, dove comunicheremo che abbiamo un sospettato. Buonanotte a tutti.
Uscendo, Palma affiancò Lojacono.
– Io non so come cazzo ti vengano in mente certe cose, – gli disse con durezza. – In mattinata facciamo una riunione in sala agenti e decidiamo una linea d’azione comune. Comune, mi sono spiegato?
L’ispettore annuí.
E andò alla macchina.
XLIX.
Aragona varcò il portone del commissariato fischiettando, fiero di sé stesso. Con immenso spirito di sacrificio aveva anticipato l’arrivo in ufficio in maniera mostruosa, giacché mancava quasi mezz’ora all’inizio del turno. Voleva proprio godersi la faccia degli altri quando, entrando in sala agenti, si sarebbero visti di fronte quel solerte collega già al lavoro. Come avrebbero fatto, privati della solita occasione di scherno nei suoi confronti?
Perdipiú, non voleva prestare il fianco a qualche partaccia di Palma. Il timore che la struttura al suo comando fosse chiusa a causa di un insuccesso nell’indagine sul duplice omicidio lo aveva reso isterico. Meglio evitare.
Salí le scale con allegra energia, aprí la porta e si ritrovò davanti la squadra al gran completo, immersa in uno strano silenzio. Si tolse gli occhiali, controllò l’orologio al polso, quello alla parete e di nuovo quello al polso, constatando che erano perfettamente sincronizzati. E a quel punto allargò le braccia.
– Ma che… Dite la verità, dormite qui, vero? Siete una compagnia teatrale in tournée, dei detenuti o qualcosa del genere? Non è possibile: non sono nemmeno le otto!
– Arago’, taci, stamattina non è aria, – replicò Romano di malumore. Non hai letto il messaggio di Palma che ci convocava tutti qui a quest’ora? Buon per te che sei arrivato prima, se no prendevi un cazziatone che te lo ricordavi.
L’agente estrasse dalla tasca il cellulare.
– No, lo tenevo spento. Sta scritto sul regolamento che dev’essere acceso sempre? Ma che è accaduto?
Comparve Palma. Al contrario del solito era in ordine, con la cravatta allacciata e la giacca addosso. Perfino i capelli sembravano pettinati, e si era sbarbato di fresco. Reggeva in mano dei fogli.
Verificò che fossero tutti presenti e soffermò brevemente gli occhi su Lojacono, seduto al proprio posto con davanti la documentazione relativa al caso di vico Secondo Egiziaca.
– Buongiorno, grazie di essere arrivati prima, – esordí. – Come alcuni sanno, ieri notte si è presentato spontaneamente in questura Varricchio Cosimo, il padre dei due ragazzi uccisi, che è stato interrogato dalla dottoressa Piras alla presenza del questore e di un paio di funzionari: il capo della mobile Gerardi e il commissario Di Vincenzo, designato a rilevare l’indagine in caso di nostro fallimento. Mi fa piacere comunicare a chi non c’era che Di Vincenzo è stato infine allontanato dalla Piras.
Ci fu un moto di trionfante sorpresa in tutti i presenti. Quasi tutti. Alex si limitò a ricambiare un sorriso di Ottavia, mentre Lojacono rimase impassibile.
Palma lo fissava ancora. Riprese:
– Poiché l’interrogatorio del Varricchio è stato ritenuto conclusivo, in tarda mattinata ci sarà una conferenza stampa nella quale verrà comunicato agli organi d’informazione che finalmente c’è un fermato per l’omicidio. Sono stato invitato io, e ciò significa che viene riconosciuto il lavoro del nostro commissariato. È un risultato importante, che allontana un bel po’ di fantasmi. Il pericolo della chiusura non è ancora scongiurato, ma se non altro abbiamo dimostrato di saper lavorare.
Nella stanza serpeggiò un certo disagio. Perché Palma parlava con quel tono asettico, tanto in contrasto con la sostanza delle parole?
Pisanelli diede voce alla comune perplessità.
– Capo, se tutto va bene, come mai non sei contento? C’è qualcosa che ti disturba?
Palma rispose senza cambiare espressione.
– Sí, è cosí. Stanotte, alla fine dell’interrogatorio e alla presenza di Gerardi, uno dei nostri nemici piú fieri, l’ispettore Lojacono ha manifestato forti perplessità sull’ipotesi di colpevolezza di Varricchio. E in questo modo ha lasciato intendere che noi non abbiamo un’idea condivisa su chi sia stato ad ammazzare i ragazzi.
Seguí un istante di imbarazzo generale. Lojacono non abbassò gli occhi da Palma, che tradiva durezza dal volto.
– Ma il tizio che ha detto? – domandò Romano. – Perché mi pare di capire che non ha confessato.
Palma ebbe uno scatto.
– Perché i colpevoli confessano sempre, vero? Se in galera andasse solo chi confessa, il problema del sovraffollamento delle carceri sarebbe risolto. Ovvio che non ha confessato. Ma non ha un alibi, ha un movente, ammette di essere stato nell’appartamento e di avere litigato con il figlio, anzi, di avergli perfino messo le mani addosso. E manifesta un’insensibilità assoluta nei confronti di quanto è accaduto ai due ragazzi. Non ha nemmeno richiesto la presenza di un avvocato.
Ottavia guardò Lojacono.
– Giuseppe, perché non credi che sia stato lui?
Lojacono continuava a fissare il commissario, che con un gesto seccato gli fece cenno di parlare.
– Io non dico che non sia stato lui. Dico che non abbiamo elementi decisivi. In pratica è nella stessa posizione del fidanzato della ragazza, o di chiunque altro non possa dimostrare di avere trascorso altrove le ore in cui è avvenuto il duplice omicidio. La verità è che Varricchio ha ragione: siccome è pregiudicato ed è calabrese, è colpevole fino a prova contraria.
Palma alzò la voce.
– Come puoi pensare che proprio io ragioni cosí? Se avessi dei pregiudizi, nessuno di voi sarebbe qui! Non ha alibi e…
Lojacono lo interruppe, calmo.
– Avrebbe potuto negare di avere litigato con il figlio. Avrebbe potuto dire di essere stato accolto affettuosamente e di non avere niente a che fare con la discussione sentita dai vicini. Avrebbe potuto fingersi distrutto e disperato. Avrebbe potuto negare ogni contrasto con la figlia, e noi non avremmo avuto niente in mano.
Aragona s’intromise.
– Be’, di sicuro non è un tipo tranquillo, se ha ammazzato uno a pugni. E i due ragazzi sono stati uccisi con una tale violenza che…
Romano lo zittí.
– Arago’, non perdi mai occasione per dire una cazzata, tu. Perché uno che per una volta fa una fesseria, poi ogni cosa che succede nel giro di trecento chilometri a qualcuno di sua conoscenza è colpa sua? Lojacono ha ragione: se non abbiamo riscontri, dobbiamo continuare a cercare.
Aragona, piccato, si strinse nelle spalle, arraffò una rivista sulla vicina scrivania di Lojacono e di lí in poi finse disinteresse per la conversazione.
Palma guardò Romano, meravigliato.
– Ti ci metti pure tu. Ma mi avete sentito dire che non dobbiamo piú investigare? Certo che andremo avanti, ma nel frattempo, perlomeno, non perderemo l’indagine.
Alex parlò quasi tra sé.
– E nel frattempo un uomo che forse è innocente se ne starà in galera a pensare e ripensare alla propria vita sbagliata, sentendosi magari responsabile indirettamente della morte dei figli. Peggio dell’inferno.
Palma si passò la mano nei capelli.
– Facciamo cosí, allora: invertiamo l’ordine del processo. Convincetemi che Varricchio non è colpevole. Datemi un motivo per credere che non è stato lui. Vi rendete conto che è sparito dalla circolazione per tre giorni, e nemmeno sapeva che lo stavamo cercando? Quello appena esce all’aria aperta scompare nel nulla, ve lo dico io. E non lo troviamo piú.
Ottavia intuí lo sconforto del commissario e andò in suo soccorso.
– Giusto. Noi possiamo lo stesso continuare l’indagine. Se individueremo un altro colpevole sarà libero, altrimenti andranno comunque verificati gli elementi. Mica in procura rinviano a giudizio sulla base di semplici indizi.
– Ci sono troppi elementi che non mi quadrano, – disse Lojacono. – Uno non ha uno scoppio di rabbia, ammazza il figlio, finge di andarsene sbattendo la porta, invece aspetta il ritorno della figlia per poi aggredirla simulando una violenza carnale. Inoltre… – cercò fra i fogli che aveva davanti, – ci sono questi sei minuti di chiamata tra fratello e sorella alle diciotto e trentadue. Che ha fatto, è uscito dal palazzo, ha chiamato dal telefono del figlio, le ha detto di rientrare con l’intenzione di ammazzare anche lei ed è risalito in casa?
Palma si strinse nelle spalle.
– Teoricamente è possibile. Com’è possibile che sia semplicemente tornato piú tardi. Insomma: congetture sono quelle che portano a fermare Varricchio e congetture sono quelle che portano a pensare che non sia stato lui. Ma se l’unico modo di mantenere l’indagine è…
– I soldi, – mormorò Alex. – C’è sempre la questione dei soldi.
– Cioè? – chiese Pisanelli.
La ragazza si voltò verso di lui.
– Continuo a chiedermi: che fine hanno fatto i tremilasettecento euro ricevuti dalla ragazza per le fotografie? Sapeva che avrebbe potuto guadagnare di piú, Cava glielo aveva detto e io ci credo, perché era ossessionato da lei, come provano le telefonate. Quindi perché Grazia voleva proprio quella somma e con tanta urgenza?
Lojacono integrò il discorso della collega.
– Non solo. Biagio ha promesso a Foti che lo avrebbe aiutato a registrare un disco. E pure Cosimo Varricchio ha riferito che il figlio era certo di poter garantire la sicurezza finanziaria a sé stesso e alla sorella, e perfino a lui, se li avesse lasciati in pace. È chiaro che prevedeva un’entrata consistente a breve. Qualcosa di ben diverso dai tremilasettecento euro.
Palma scosse testardamente il capo.
– Magari diceva fesserie per liberarsi del padre e tenere buono il fidanzato della sorella. Oppure aveva inventato un sistema scientifico per vincere alle corse dei cavalli. Non diciamo sciocchezze, per favore.
Aragona stava sfogliando la rivista, stravaccato sulla sedia.
– Certo che questa dei tremilasettecento euro era un’ossessione di famiglia, – disse in tono colloquiale, come se stesse al bar.
Palma divenne rosso di rabbia.
– Aragona, ma lo capisci che quando si parla seriamente bisogna evitare le battute? Io non…
Lojacono si era voltato verso il collega, incuriosito.
– Perché dici questo?
– Ma l’avete letto l’articolo su ’st’affare qui dell’università? – rispose Aragona. – O guardate solo le figure?
Lojacono si scambiò un’occhiata con Alex.
– Ma è una semplice intervista, ce l’ha segnalata il professor Forgione, non c’è…
Aragona picchiettò col dito su una pagina.
– Guarda qua.
Lojacono lesse ad alta voce.
– «Dottor Varricchio, lei è considerato uno dei giovani scienziati piú promettenti del paese. Ci dica qualcosa che possa invogliare un ragazzo ad accostarsi al mondo della ricerca». Risposta: «Molti pensano che questo sia un mondo sterile, dove non esistono opportunità di guadagno importanti. Non è vero. Un brevetto, che costa piú o meno tremilasettecento euro, consente di vendere il risultato del proprio lavoro a un’industria, diventando, talvolta, perfino ricchi. I ragazzi possono pensare alla ricerca anche come a una rilevante fonte di reddito».
Nella sala serpeggiava una certa perplessità.
– Be’? – disse Romano. – Dove sta la stranezza? D’accordo, c’è un riferimento a una cifra che…
Alex balzò in piedi, gli occhi luccicanti fissi su Lojacono.
– Un brevetto. Ha finanziato un brevetto del fratello. Ed è per questo che Biagio preferiva lavorare a casa, negli ultimi mesi, malgrado non avesse connessione, costringendosi a un gran traffico con il laboratorio all’università.
Palma era disorientato.
– Ma… e questo che significa? Non ha attinenza con la visita del padre e…
Lojacono stava scavando tra i fascicoli sulla scrivania.
– Romano, in quella lista… ma dove cacchio sta… me lo ricordo, tra le cose che c’erano nel portafogli di lui… Eccola! – Alzò trionfante una fotocopia. – La ricevuta di ritorno di una raccomandata. Si legge chiaramente, capo, guarda: «Ufficio Brevetti e Marchi, Roma». Ci siamo!
Palma si girò verso Ottavia, come a chiedere aiuto.
– Non capisco, che c’entra?… Noi non stiamo indagando sul fatto che Varricchio se ne stesse a casa invece di andare in laboratorio. Ha presentato richiesta per un brevetto, e allora?
Alex, come se non lo avesse sentito, disse a Lojacono:
– La chiave. Non doveva nemmeno bussare, per entrare.
L’ispettore annuí.
– È andato a chiedere ragione. Ragione di tutto, e pensava di averne diritto.
– Certo. Pagava, quindi, nella sua testa, comprava.
Ormai Alex e Lojacono parlavano solo tra loro, come se nella stanza non ci fosse nessun altro. Romano aveva l’impressione di assistere a una partita di ping pong.
L’ispettore aggiunse:
– E, ovviamente, nessuno sapeva niente. Conveniva a tutti e due.
Sul viso di Alex si allargava un sorriso:
– Finché è arrivata la sorella. È stato allora che tutto è precipitato, che tutto è andato fuori controllo.
Aragona era stufo di quel duetto.
– Sentite, se spiegate pure a noi, ci fate una cortesia.
Lojacono si alzò e prese il cappotto.
– Capo, ti consiglio di rimandare la conferenza stampa. Mi sa che darai un’altra notizia, a fine mattinata. E ti prego, venditela bene, perché è come dici tu: la tua squadra è forte. Fortissima. Vieni, Alex, andiamo.
Prima di precipitarsi fuori, di fronte agli occhi esterrefatti di tutti, Di Nardo scoccò un bacio sulla guancia ad Aragona, dicendogli:
– Agente Marco Aragona, tu sei uno stramaledetto genio.
Lui si tolse gli occhiali con gesto consapevole.
– Lo so. Ma poi mi spieghi perché, vero?
Alex stava già inseguendo Lojacono per le scale.
L.
Per arrivarci dovettero chiedere indicazioni. Non ricordavano nel modo piú assoluto la strada che avevano fatto la volta precedente.
A monosillabi e frasi smozzicate avevano cercato di concordare un strategia. Non era facile. Non avevano prove incontrovertibili che lo mettessero spalle al muro, e di sicuro lui possedeva le armi e le conoscenze per cambiare le carte in tavola. Dovevano contare sulla sua scarsa freddezza, sull’instabilità caratteriale, sulla tensione che aveva accumulato negli ultimi giorni.
Sul rimorso.
Avevano poco in mano e un’unica possibilità prima che la sua mente cominciasse a fabbricare alibi e ad alzare muri difensivi. Un’unica possibilità per far sí che a pagare non fosse un innocente, un uomo che già aveva perduto i figli.
Perché una colpa antica non diventasse quella di tutta la vita.
Alex portava nel cuore il rimorso di avere dato, nel suo personale processo intimo, la croce addosso a Varricchio nel momento in cui lo aveva sentito parlare, la notte prima. Trasferendo sulla famiglia calabrese le sotterranee ingiustizie e le carsiche dinamiche della propria, lo aveva giudicato colpevole di essere il carnefice dei propri figli, per avergli prima ucciso l’adolescenza e poi reciso la vita. Ora che sapeva come stavano le cose, era piú che mai determinata a fare giustizia.
Anche Lojacono era mosso da uguale determinazione. Non era disponibile, per il proprio tornaconto, a rinunciare ai principî che lo avevano spinto a fare il poliziotto, e in realtà non lo aveva mai convinto l’idea che Varricchio avesse ucciso i figli. Accadeva, purtroppo: l’interesse, la meschinità, l’ignoranza conducevano anche a quel tipo di delitto. Ma quell’uomo era partito dal paese per chiedere alla figlia di tornare da lui, perché non voleva invecchiare da solo in un carcere a cielo aperto troppo simile a quello in cui era stato rinchiuso tanto tempo. Non poteva avere commesso un omicidio cosí efferato.
Nelle pochissime ore che aveva passato sdraiato sul letto a fissare il soffitto, ascoltando il sonno irrequieto di Marinella che si era addormentata vestita, l’ispettore aveva scandagliato il proprio immenso amore di padre e si era reso conto che non lasciava spazio ad alcuna ipotesi di odio, qualsiasi cosa fosse accaduta. E le sue perplessità sulla colpevolezza di Cosimo ne erano uscite rafforzate, insieme alla volontà di contrapporsi a una deduzione troppo semplice per essere vera, che cioè l’uomo avesse ucciso Biagio e Grazia, l’uno per rabbia e l’altra con premeditazione.
Poi Aragona aveva letto l’intervista e le tessere del mosaico erano andate al loro posto. Il quadro d’insieme si era delineato nella sua tragica armonia, spiegando i come e soprattutto i perché. Un quadro che era logico fin dall’inizio ma solo ora risultava visibile, e che forniva una risposta a ogni singola domanda.
Questo però non aiutava nella soluzione del problema.
Prima che qualcuno si accorgesse di loro, osservarono per quasi cinque minuti l’attività quotidiana del laboratorio al di là di un vetro insonorizzato, che donava l’effetto di assistere a un film muto. I ricercatori si muovevano fra gli strumenti con perizia e abilità; pareva impossibile che non si scontrassero e non rompessero mai nulla. Ogni tanto qualcuno faceva una battuta e gli altri ridevano, o si limitavano a incrociare una semplice occhiata; ogni tanto si scambiavano i dati che leggevano sugli schermi dei computer. Alex e Lojacono pensarono che, in fondo, gli ambienti di lavoro collettivo si assomigliavano tutti, che sotto l’aspetto dei rapporti umani quel luogo e la sala agenti erano gemelli.
Renato Forgione se ne stava in disparte. Aveva un colorito terreo, gli occhi che vagavano senza concentrazione. Nessuno gli rivolgeva la parola, come se i colleghi cercassero di evitarlo.
Poi il giovane alzò lo sguardo e li vide. Le sue palpebre sbatterono come per scacciare una brutta allucinazione, e a Lojacono parve di notare un lieve abbassamento delle spalle sotto il camice, quasi una reazione di sconforto.
Uscí dal laboratorio, andò loro incontro e parlò con voce monotonale.
– Buongiorno. Avete bisogno di me? Ci sono novità?
Dapprima i due poliziotti tacquero. Poi Lojacono trasse dalla tasca del cappotto alcuni fogli di carta.
– Vengo subito al punto, dottore. Lei era a conoscenza del fatto che, in data 21 ottobre scorso, Biagio Varricchio aveva presentato all’Ufficio Brevetti e Marchi di Roma una richiesta a proprio nome?
Forgione chiuse gli occhi e li riaprí, come se avesse ricevuto un ceffone.
– Io? No, come avrei potuto…
Alex lo incalzò.
– Non è di questo che è andato a parlare col dottor Varricchio dopo avere letto l’intervista sulla rivista universitaria?
Renato arretrò di un passo.
– Ma che dice? Io non potevo sapere niente. E quando ci sarei andato, da Biagio?
Lojacono assestò il colpo.
– Ci risulta che lei sia stato a casa sua nella tarda serata di lunedí. È entrato dal portone aprendo con la sua chiave, lei la possiede, essendo suo padre proprietario di piú appartamenti nello stabile, ed è uscito alcuni minuti dopo il rientro di Grazia Varricchio, che ascoltava musica con le cuffiette dal telefonino. Non c’era nessun altro, quindi il duplice omicidio è stato compiuto in sua presenza. Abbiamo anche trovato l’arma del delitto, stiamo rilevando le impronte dattiloscopiche.
Alex trattenne il fiato.
Forgione rispose d’istinto, seppure con voce tremante:
– Ma che dite? La statuetta è a casa mia e…
Alex respirò. Era fatta.
Lojacono piantò gli occhi obliqui in quelli di Renato Forgione.
– Stia calmo, – disse. – Sarà tutto piú facile, adesso. Venga con noi.
LI.
Voi non conoscete mio padre. Non avete idea di come sia fatto.
Per tutta la vita ho sentito addosso quella maledetta pressione. Avesse chiesto, mi avesse martellato, forse sarei stato capace di difendermi, di vivere. Ma lui no. Lui guarda e basta.
Ha uno sguardo, sapete, che brucia sulla pelle peggio di dieci frustate. Uno sguardo amaro, sofferente, addolorato. Uno sguardo che dice: lo so, tu mi odî. Ce l’hai con me. È per questo che non eccelli, che non sei il meglio.
Sono il figlio unico di un grand’uomo. Non ho mai avuto qualcuno con cui dividere il peso. In questo Biagio era piú fortunato.
Sembra ridicolo, eh? Chiamare fortunato uno che il padre non l’aveva quasi conosciuto solo perché aveva una sorella. Eppure ne sono certo, il fortunato era lui. Lui ce l’aveva, una famiglia.
Mio padre non è una famiglia, lui è un grand’uomo. È un genio. Sapete che è stato segnalato per il premio Nobel, qualche anno fa? Ce lo dissero in via riservata. È famoso in tutto il mondo in un settore chiuso come il nostro. Il nostro, sí, perché non c’è mai stato il minimo dubbio che io avrei seguito la sua strada.
A me piaceva la musica, sapete? Da ragazzino strimpellavo la chitarra da autodidatta; era forse l’unica cosa in cui mi sentivo davvero bravo. Gli chiesi se potevo prendere qualche lezione. Mi rispose che non tollerava distrazioni dallo studio, per me. Aveva una faccia, quando me lo disse, che vorrei farvela vedere. La faccia di uno che ha ricevuto una coltellata alla schiena. E allora niente lezioni di chitarra, Renato. Niente di niente.
Ho incontrato Biagio al secondo anno di università. Vi devo dire una cosa: io so studiare. Quando si tratta di imparare a memoria, di sgobbare sui libri, di fare nottate per preparare un esame, sono bravissimo. Ma non ho intuito. No. Non so immaginare, non ho idee innovative e particolari, non vedo cose che gli altri non vedono. Biagio sí. Lui capiva subito, poi ricostruiva con le dimostrazioni: ed erano uguali a quelle del libro.
Come quasi tutti avrebbe voluto fare il medico, eppure non lo provò nemmeno, il test di ammissione. Non ho dubbi che lo avrebbe polverizzato, prendendo il voto piú alto dell’intero paese, ma lui non poteva permettersela, Medicina. Troppo lunga, troppi libri, troppe tasse. Biagio non aveva un centesimo.
Scelse Biotecnologia perché pensava che avrebbe cominciato a lavorare prima. Per mantenersi ha fatto qualsiasi mestiere. Perfino il traslocatore, ci pensate? Portava mobili e pacchi. E riusciva anche a mandare dei soldi a casa, alla sorella.
Ci conoscemmo a un appello. Chiacchierammo un po’ e decidemmo di preparare insieme l’esame successivo. Non ci siamo separati piú.
Fin quando non è arrivata Grazia.
Andava tutto bene, sapete?
Io gli passavo dei soldi, sí. Anzi, gli pagavo tutto.
Noi siamo abbastanza ricchi. Il grand’uomo guadagna parecchio, ma non gli interessa: lui lavora per la gloria, non guarda certe cose. E allora io potevo prendere tutti i soldi che volevo e darli a Biagio. Perché lui non dovesse trovarsi un impiego, perché non andasse via mollandomi qui.
Noi eravamo una squadra, lo capite? Una squadra. Lui intuiva, stabiliva le linee guida e io le percorrevo con testardaggine. Firmavamo gli articoli insieme. Ogni tanto capitava che li firmassi solo io; me lo lasciava fare, per soldi. Cosí il grand’uomo poteva essere fiero di quel genio di suo figlio, e perdonargli l’eccentricità di volersi trascinare dietro un po’ di zavorra calabrese. Non aveva idea che le cose stavano al contrario. Il grand’uomo, alla fin fine, qualche volta sbaglia.
Avremmo continuato cosí per anni. Io avrei fatto la carriera universitaria, e quando mi fossi consolidato, con una cattedra da qualche parte, Biagio avrebbe potuto scegliere se seguire la stessa strada o trovare un posto nell’industria. Il grand’uomo, intanto, sarebbe stato a godersi la pensione, e noi saremmo stati liberi. Sí, avremmo continuato cosí.
Poi è arrivata la sorella.
La statuetta l’aveva vinta lei a sedici anni a un concorso di bellezza, al mare. E l’aveva regalata al fratello. Biagio ne andava piú fiero che delle nostre pubblicazioni. Era soggiogato da Grazia: un misto tra una figlia, una sorella e una fidanzata. Quando me l’ha presentata avreste dovuto vederlo, sembrava impazzito dalla gioia. Che stronzo.
Poi ha cominciato a raccontarmi del fidanzato idiota che voleva fare il cantante reggae; e del padre, l’assassino, che prima o poi si sarebbe presentato per riportarsela a casa. Che è quello che è successo, no? Alla fine è quello che è successo.
Si era fissato che doveva risolverla lui, la vita della sorella. Non sapeva come, ma l’avrebbe risolta. Io non potevo certo finanziare i sogni di grandezza che aveva per lei. Persino il grand’uomo si sarebbe arrabbiato, se avessi fatto sparire una cifra troppo grossa. Gli dissi di portare pazienza, il concorso ci sarebbe stato entro un anno, mi avrebbe aiutato a vincerlo e a quel punto sarebbe stato libero di scegliere strade piú remunerative.
Ma non ha voluto aspettare.
Dovevo capirlo che si era messo a lavorare per conto suo. Dovevo capirlo. Aveva una vecchia idea su un lievito industriale, una cosa che, se avesse funzionato, avrebbe, a parità di costo energetico, quasi raddoppiato la quantità di etanolo prodotta. Veniva in laboratorio, si tratteneva fino a tardi, prendeva i dati e andava a casa a svilupparli. E io, stupido, credevo che volesse tenere d’occhio la sorella.
Mi chiedo dove abbia preso i soldi per il brevetto. Costa, sapete. Ci vogliono quasi quattromila euro, e lui non li aveva. Se li sarà procurati lei; forse faceva la puttana. Certo, bella era bella. Questo non si discute. Biagio diceva che era uguale a sua mamma da giovane.
Poi è uscita quell’intervista, e ho capito. Sapete quando vi cade un velo dagli occhi? Tutto è stato chiaro. La fotografia, quel discorso sui brevetti, sulla possibilità di guadagnare attraverso la ricerca, eccetera. Ho capito perché non veniva all’università, perché non lavorava a nuovi articoli, ai nostri progetti comuni. Mi stava lasciando a terra. Se ne stava andando, per guadagnare soldi suoi.
Allora sono andato io da lui. Quella era casa mia, lo capite? Casa mia. Stava rubando il mio avvenire, il mio futuro, da casa mia. Sono andato là e gli ho chiesto di dirmi chiaro e tondo che cosa stava facendo.
Non ha negato. Nemmeno per un attimo. Ha detto che era stato costretto, che c’era in ballo la vita della sorella. Che il tempo era poco, altrimenti lei se ne sarebbe andata con quel tizio e si sarebbe bruciata. Ha detto cosí: si sarebbe bruciata. Ed era pure arrivato il padre. L’unico modo che aveva di risolvere la questione era il brevetto del suo lievito.
Il suo lievito.
Lo aveva scoperto e realizzato nel laboratorio di mio padre, con i mezzi che io gli avevo messo a disposizione, dormendo nella mia casa, mangiando quello che io gli portavo, e diceva che il lievito era il suo.
Non riuscivo nemmeno a parlare. Lo guardavo e basta. E lui, a un certo punto, si è voltato e si è messo a ricontrollare un’equazione come se niente fosse.
Sono impazzito, credo. Ma ero freddo. Vedevo me stesso dall’esterno, come in un film. Mi sono girato e ho preso la statuetta dalla mensola. Un colpo. Poi altri. Non ricordo bene.
Avevo appena finito, sarei uscito con calma e lei sarebbe sopravvissuta. Era colpevole quanto lui, ma l’avrebbe scampata. Invece si apre la porta ed eccola che entra.
Ho capito che ero perduto quando avete detto che aveva le cuffiette nelle orecchie. Come potevate saperlo? L’avete vista? Qualche telecamera di sorveglianza esterna, vero? Sui giornali si legge sempre.
Le ho messo la mano sulla faccia, portavo i guanti; con il freddo cane che fa mi si addormentano le mani. Poi le ho stretto il collo e ho smesso quando sono stato sicuro che non poteva urlare piú. L’ho messa sul letto: magari sembrava che fosse entrato qualcuno per violentarla. Qua è pieno di immigrati e lei è cosí bella. Era cosí bella.
Non sono pentito. Era un maledetto ladro. Credevo fosse mio amico, il mio migliore amico, invece no. Era un traditore.
Un vigliacco, maledetto traditore. Ditelo, al grand’uomo, che non è stata colpa mia. Io sono innocente.
Mi manca, perfino. Dopo gli esami, dopo gli articoli, a ogni successo, sapete che facevamo? Ci abbracciavamo. Io non abbracciavo mai nessuno, ma con lui ci abbracciavamo. Accidenti a lui.
Accidenti a lui.
LII.
Bisogna stare attenti, al freddo. Perché il freddo, alla lunga, entra nelle ossa e si insinua nelle anime.
E quando si insinua nelle anime, le cambia; secca le sorgenti del sorriso, riempie col ghiaccio i vuoti che prima consentivano di passeggiare sull’orlo dei sentimenti, incantandosi davanti al panorama.
State attenti al freddo.
Giorgio Pisanelli si incamminò di nuovo per il parco della Biblioteca Nazionale.
Anche stavolta era in ritardo. La notizia dell’arresto di Renato Forgione aveva gettato nello scompiglio non solo il commissariato, ma l’intera città. A Pizzofalcone si erano avvicendati giornalisti e troupe televisive, ansiosi di scavare in ogni possibile anfratto di un’impresa che prometteva di fare scalpore, in senso positivo, per fortuna: la polizia aveva risolto in meno di cinque giorni il caso dei due ragazzi uccisi. E guarda un po’, erano stati proprio i Bastardi a riscuotere quel successo.
Nonostante ciò, il vicecommissario si sentiva gravato da un peso enorme. La chiacchierata con Leonardo aveva incrinato le sue certezze: e se il frate aveva ragione? Se in realtà questa storia dell’assassino dei disperati, dei solitari, dei depressi era una necessità sua? Una fantasia costruita apposta per non andare alla deriva?
Giunto alle aiuole deserte e coperte di brina, mentre osservava il proprio respiro condensarsi, Pisanelli si vide com’era: un uomo vecchio, malato, vicino alla fine. Un uomo che giocava con la propria follia, uno che ogni sera parlava con una moglie morta. Morta. Carmen era morta, e lui non voleva accettare quella semplice realtà.
Forse lui stesso avrebbe dovuto farsi da parte rispetto alla vita.
Si guardò attorno. Agnese non c’era.
Sei morta pure tu, Agnese?, si domandò. E lo fece ad alta voce, nel paesaggio lunare del parco, privo delle grida dei bambini, dei richiami delle mamme e del canto degli uccelli. Della primavera, che magari non sarebbe tornata piú.
Si lasciò cadere sulla panchina, indifferente al gelo che lo punse trapassando gli abiti. Era stanco. L’idea di mollare, di cedere al silenzio una volta per tutte non lo spaventava, anzi, gli era di conforto. Pensò che forse valeva la pena abbandonare il palcoscenico, perché la vanità della rappresentazione che metteva in scena ogni giorno gli appariva adesso insostenibile.
Un uccellino gli si avvicinò ai piedi. Pigramente, bucando la nebbia gelida che gli velava il cuore, salutò attraverso lui la sua povera amica, che forse penzolava da un lenzuolo, o giaceva senza piú respiro, piena di pillole, nel proprio letto. Mi dispiace, Agnese. Mi dispiace tanto. Non sono riuscito a salvarti. E non riesco a salvare nemmeno me stesso.
Si coricò. Il freddo era terribile. Anche il pallido sole pomeridiano aveva abbandonato sconfitto quell’angolo di parco. Chiuse gli occhi.
Ciao, Leonardo, vecchio amico mio. A quest’ora ti starai preparando per i tuoi esercizi spirituali. Non sentirti in colpa perché non c’eri quando me ne sono andato.
Ciao, Carmen, amore mio dolcissimo. Come vorrei credere che ci vedremo tra poco per stare insieme per sempre. Come vorrei che fosse vero, cosí accarezzerei di nuovo il tuo viso.
Ciao, Agnese. Spero tu possa trovare pace. E spero di trovarla anch’io.
– Ciao, Giorgio.
La sincronia fra il suo ultimo pensiero e l’arrivo di quella voce era stata talmente perfetta che non sobbalzò nemmeno. Pisanelli sentí una mano che lo toccava, delicata, e si tirò su.
– Grazie di avermi tenuto il posto. Spero che Raimondo non abbia pensato che la mamma si era scordata di lui. Lo vedi? Mi aspettava.
Agnese si sedette e cominciò a distribuire briciole di pane al passero, che prese a beccare felice.
– Sai, mi ero addormentata. E nel sogno lui mi diceva: dài mamma, non vedi che è tardi? Giorgio sarà preoccupato. Mi sono alzata in tutta fretta e sono venuta qui. Tu come stai?
Pisanelli la guardò per un istante. Poi le passò il braccio attorno alle spalle e disse:
– Bene, Agnese. Bene.
State attenti al freddo, perché il freddo vi può cambiare.
Il freddo è capace di sussurrarvi all’orecchio brutte storie, racconti tristi che rendono l’umore grigio.
Il freddo lo vedete dalla finestra, mentre allunga le dita di nebbia e ghiaccio attraverso la notte, invadendo lento e inesorabile le strade e i pensieri.
Non c’è esercito che possa opporsi all’invasione del freddo. Arriva come una condanna e non potete farci niente.
Solo aspettare, e pregare di sopravvivere ancora.
Senza che il freddo vi cambi troppo.
Ottavia si affacciò all’ufficio di Palma per salutarlo. Il commissario era in piedi vicino alla finestra, di spalle. Aveva le braccia conserte e la schiena curva.
– Tutto bene, capo? – disse piano la donna.
Lui le rispose senza voltarsi.
– Ah, Ottavia. Sí, buona serata.
Il tono gelido la colpí come uno spintone.
– Che c’è che non va? – sussurrò. – Abbiamo risolto il caso, no?
Palma si girò e le indirizzò un sorriso tirato. Il viso era stanco, segnato da profonde occhiaie.
– Certo, certo. Siete stati bravissimi. Tu in particolare, a reggere l’assalto dei giornalisti e a mantenere il riserbo, a non lasciar trapelare indiscrezioni. Ho visto i servizi qui, sul televisore dell’ufficio. Quanto sono bravi, a fare congetture.
Ottavia era preoccupata.
– Capo, ma che c’è? Non la vedo felice. Abbiamo trovato il colpevole, parlano tutti di noi: adesso nessuno può pensare di chiuderci. È quello che volevamo, no?
Il commissario si abbandonò sulla propria poltrona.
– Sí. È quello che volevamo. Ma io non sono stato all’altezza. E non me ne faccio una ragione.
– Ma che dice? È stato lei a coordinarci, a tenere i rapporti con la questura, permettendoci di lavorare e di arrivare alla soluzione. Senza di lei questo posto non esisterebbe piú.
– No, Ottavia. Sei molto cara, ma non è cosí. Io, per segnare un punto in questa squallida partita in cui mi sono fatto invischiare, avrei mandato in galera un innocente. Un padre distrutto dai rimorsi, un uomo che ha già pagato caro, carissimo, un momento di rabbia. Pur di vincere, di tenere aperto il commissariato, mi sarei fermato alla prima taverna.
– Ma lei credeva davvero che Varricchio fosse colpevole. Lo credevamo tutti.
– Lojacono no, e aveva ragione. Io avevo dimenticato il motivo per cui ho scelto questo mestiere: cercare la verità. Forse non sono adatto al posto che occupo. Forse dovrei farmi da parte.
Ottavia sentí il cuore stringersi. Girò intorno alla scrivania e gli andò vicino.
– Non deve dirlo nemmeno per scherzo. Senza di lei noi non siamo niente, non lo capisce? Noi abbiamo bisogno di una guida, di un punto di riferimento, perché da soli non siamo capaci. Non è un caso che non ci volesse nessuno. Soltanto con lei abbiamo trovato di nuovo la forza che pensavamo di non avere piú.
Palma alzò la testa. Erano vicinissimi.
– Magari un altro farebbe meglio. Un altro non avrebbe dimenticato che dobbiamo essere sicuri prima di…
Ottavia gli tappò la bocca.
– Zitto, zitto. Basta. Non voglio sentirle certe sciocchezze. Le ho detto che abbiamo bisogno di lei. Che io ho bisogno di lei.
Gli occhi di Palma si riempirono di lacrime. Lentamente, alzò un braccio dalla scrivania e accarezzò la mano di Ottavia.
Lei avvertí il suo sorriso che si allargava sotto la pelle. Quasi senza rendersene conto, cominciò a percorrergli il viso con la punta delle dita.
Poi scappò via.
È pericoloso, il freddo.
Superata la prima, pungente sensazione, la pelle si abitua e sembra tutto finito, ma non è cosí.
Il freddo è un nemico subdolo e strisciante, sa inscenare un torpore che pare normale sonnolenza, invece è l’annuncio della morte.
Il freddo è infame, sa insinuarsi nelle pieghe delle corazze, e quando è penetrato diventa difficile scacciarlo.
Il freddo sa uccidere con l’arma del silenzio.
Lojacono girò la chiave nella toppa, sospirò ed entrò in casa. Marinella lo aspettava seduta al tavolo del salotto.
Appena lo vide, la ragazza cominciò a piangere.
– Papà, mi dispiace tanto. Non volevo deluderti.
Lui rimase immobile come una statua di ghiaccio.
– Credimi, papà. È stata solo una ragazzata, io volevo… sai, tutte le mie compagne di scuola escono con i ragazzi. Lui… lui è una brava persona, abita in questo palazzo. L’ho conosciuto per le scale. È uno studente universitario.
Lojacono non parlava. Sembrava perfino che non respirasse.
– Letizia non ha colpa, sono stata io a insistere. Lei è cosí dolce e gentile, mi vuole bene, come una mamma. Io ci tenevo tantissimo, l’ho pregata, e alla fine siamo rimaste d’accordo che sarei tornata prima della chiusura del ristorante.
Silenzio. Gelo.
– Papà, ti supplico, rispondimi! Non ho fatto niente di male, te lo giuro. Siamo stati al cinema, abbiamo mangiato un hot dog, abbiamo riso e chiacchierato. Non ho fatto niente di male.
A poco a poco le lacrime le rigarono le guance, mentre i singhiozzi spezzavano le frasi.
– Papà, ti prego, non mandarmi via. Io sono felice qui. Non farmi tornare dalla mamma. Voglio stare con te. Non ti mentirò mai piú, è una promessa, ma non farmi questo. Non lasciarmi sola un’altra volta. Ti prego.
Lojacono non cambiò espressione. Si avviò verso la propria camera. Sulla porta, senza voltarsi, disse:
– È stata una giornata lunga. Ho fame. Prepara la cena, per favore.
Il freddo, attenti, si può anche non sentirlo.
Distratti dalle cose della vita, presi dall’inutile corsa quotidiana, il freddo può sfuggire.
Magari non ci fermiamo a pensare, non cogliamo i segnali che ci arrivano da fuori.
Magari continuiamo a fissarci l’ombelico come se fosse il centro del sistema solare, e non ci accorgiamo che attorno a noi c’è il freddo.
È allora che il freddo ci avvolge, che ci prende senza incontrare resistenza.
È allora che il freddo vince.
– Pronto? Alex? Ciao, sono io. Complimenti, sei una superstar.
– Ma no, che dici? Io non ho fatto niente.
– Sí, invece. Ne parlano tutti: hai visto i Bastardi che sono stati capaci di fare? E pare che, se non fosse stato per voi, il padre dei ragazzi…
– Rosaria, l’indagine non era finita, tutto qui. Poi sono venuti fuori gli elementi giusti e abbiamo tirato le conclusioni.
– Mi piaci quando fai la schiva. Sei ancora piú sexy. Ma io lo so che cosa c’è dietro quella deliziosa timidezza.
– Dài, smettila! Se ti sente qualcuno?
– E allora? Ti vergogni di me?
– No che non mi vergogno. Ma lo sai, bisogna stare attente, questo è un ambiente difficile.
– Me ne frego dell’ambiente. Te l’ho detto, questa per me non è una cosa come le altre. Non è uno scherzo, Alex. E voglio rivederti subito.
– Rosaria, io… oggi non sarà possibile, devo stare a cena coi miei.
– Domani?
– Ti prego, facciamo passare qualche giorno. Fosse per me sarei già lí con te, lo sai, ma…
– Si può sapere dov’è il problema? Se stiamo bene insieme e se…
– Non è solo questo. Io… i miei genitori non sanno che… non sanno di me, insomma. Non sanno che…
– Ma ti rendi conto che non ha senso? Ti pare possibile? Sei la donna meravigliosa che sei e ti nascondi dietro…
– Non è cosí, non puoi parlare di cose che non conosci. Io… non è facile. Non è facile affatto.
– Va bene. Ho capito. Be’, non mi interessa…
– No, Rosaria, non fare cosí, ti prego: io non mi sento…
– … non mi interessa una donna che non ha la forza di guardarsi allo specchio: figurati se troverà mai il coraggio di amare sul serio contro le convenzioni. Tieniti…
– Rosaria, ti prego…
– … tieniti la tua piccola vita. Se un giorno deciderai di essere te stessa, chiamami. Anche se non ti prometto che me ne starò qui ad aspettarti.
– Ti prego, no. Ti prego.
…
– Ti prego.
Perché il freddo fa questo effetto.
È appena arrivato e sembra che ci sia da sempre. Che non abbia mai lasciato spazio al sole, alle risate e alla voglia di stare insieme.
Il freddo mette voglia di chiudersi in sé stessi, di non vedere nessuno.
Tutto sembra minaccioso, col freddo. Tutto sembra terribile, e buio.
Il freddo cancella il futuro.
Francesco Romano era di nuovo in macchina. Di nuovo il gelo gli intorpidiva gli arti, il naso, le orecchie.
Di nuovo osservava le finestre della madre di Giorgia senza distogliere lo sguardo.
Tra le mani rigirava una busta aperta, con un foglio all’interno. Un singolo foglio, nemmeno scritto per intero: mezza pagina appena.
Meglio di un condizionatore, questa mezza pagina. Meglio di un condizionatore a pieno regime. Raggelante, agghiacciante.
Una luce si accese. Romano visualizzò mentalmente la camera degli ospiti, che adesso di sicuro occupava Giorgia. Chissà cosa stava facendo sua moglie. Sua moglie? Sí, sua moglie. Lo era ancora.
Soppesò la busta, come se l’entità di quei pochi grammi di carta rispecchiasse quello che c’era scritto. Mamma mia, quanto era leggera.
Si mosse sul sedile, per evitare che i muscoli si addormentassero. Uscirai di lí, pensò. Uscirai, prima o poi.
E dovrai parlarmi. Dovrai affrontarmi e dirmelo in faccia quello che c’è scritto qui sopra. Dovrai convincermi che è vero.
Perché un matrimonio è una cosa seria, lo sai anche tu. Se uno sceglie di convivere, senza impegno, può andarsene per la sua strada al minimo screzio. Non si promette niente davanti a nessuno, con la convivenza. Si mette su casa insieme e basta; è sufficiente una valigia, se vuoi rompere il patto. Il matrimonio, invece, è un legame di cuori davanti agli uomini e davanti a Dio. Mica si scioglie con uno schiaffo.
Non ci credo, Giorgia. Non ci credo che vuoi rivedermi solo davanti a un avvocato per concordare i termini della separazione.
Io non voglio separarmi, capisci? Non voglio. Non sono pronto a vivere senza di te.
Guardò di nuovo la finestra con la luce accesa.
Dovrai uscire, prima o poi. E incontrarmi. Senza nessun cazzo di avvocato davanti.
Dovrai dirmelo guardandomi negli occhi, che non mi ami piú.
Eppure, prima o poi, il freddo finisce.
Quando meno ve lo aspettate giunge una mattina con un soffio d’aria diversa, che magari sa un po’ di mare.
Un’aria particolare, che vi mette sotto la pelle, resa insensibile dal gelo, una strana voglia di vivere. Un’aria che vi fa pensare, dopo tanto tempo, che il domani arriverà, e che forse non sarà malvagio.
Il freddo finisce perché il mondo va cosí. Non c’è una ragione vera e propria, ma finisce.
E tutto ricomincia.
Aragona fingeva di guardare fuori dalla vetrata che d’inverno riparava il roof-garden dell’hotel Mediterraneo dal vento gelido del Nord.
Si era preparato a lungo. Il suo doveva sembrare lo sguardo assorto di un uomo che ricorda avventure straordinarie, vissute altrove, e nel contempo scruta l’orizzonte in cerca di nuove imprese e di un futuro migliore. Lo sguardo di uno che vede oltre il muro e oltre il tempo, lo sguardo di chi sente sulle proprie spalle la responsabilità della salvezza del prossimo.
Purtroppo, quello sguardo, nessuno lo guardava.
Gli altri tavoli erano occupati da uomini d’affari di passaggio o congressisti impegnati a leggere rapporti e giornali, e a digitare sui telefonini; ma non era per loro l’espressione da supereroe di Aragona.
Lui aveva un solo obiettivo.
Irina, la cameriera di cui era innamorato, volteggiava leggera e discreta fra i tavoli e gli assorti ospiti. Aragona si domandava come fosse possibile che non si alzassero tutti per dedicarle un accorato applauso quando usciva dalla cucina con in mano il vassoio dei cappuccini. Era bellissima, con i capelli biondi raccolti sotto la cuffietta, gli occhi azzurri e vivaci, il corpo armonioso e l’accento esotico ed eccitante.
Gli si era già avvicinata, e lui con voce calda e piena di sottintesi – sperava che si fossero sentiti, i sottintesi – le aveva rivolto la solita, dolce frase: un doppio caffè ristretto in tazza grande, grazie. Sospettava che la ragazza fingesse di non ricordare quello che prendeva ogni mattina soltanto per ascoltarla di nuovo, quella sua frase, come si fa con la canzone preferita in un disco. Anche lui, del resto, pur avendo seguito con gli occhi ogni suo singolo passo, aveva dato a intendere di non averla vista arrivare per sentirsi chiedere, ancora una volta: posso portarle qualcosa di caldo, signore?
Ora stava aspettando, fissando l’orizzonte attraverso gli occhiali azzurrati. Ci voleva il tempo che ci voleva, pensò. Un doppio caffè ristretto in tazza grande, peraltro, non era facile da preparare. La tazza, per cominciare, doveva avere la giusta temperatura, e il caffè doveva essere, per l’appunto, ristretto, quindi attinto nella corretta misura e col dovuto intervallo. Ma alla fine Irina sarebbe tornata e lo avrebbe trovato in quell’affascinante posizione studiata nei minimi particolari.
Sentí il tintinnio della tazza e la voce sensuale della donna che pronunciava l’attesa parola:
– Prego.
Finse di riscuotersi dai suoi importanti pensieri, le dedicò un distratto ma incantevole mezzo sorriso e rispose, al solito:
– Grazie.
Ecco, era finito tutto. Adesso avrebbe dovuto attendere l’indomani per un altro intenso scambio di battute con la donna che aveva preso possesso del suo cuore. La giornata, pensò, non era che questo: un intervallo tra un grazie e un prego.
Poi accadde l’incredibile. Irina si fermò, si girò e tornò al suo tavolo proprio mentre lui stava infilando in bocca un biscotto. Era luminosa come una giornata estiva.
– Ho visto il signore in televisione, sí? – disse.
Lo aveva visto! Mentre sorrideva come un ebete alle spalle di Ottavia che diramava il comunicato concordato con la questura, insieme al vecchio Pisanelli, orgoglioso, a Hulk che si guardava attorno arcigno, ad Alex che sembrava volersi tenere in disparte e al Cinese, come sempre privo di espressione. Lo aveva notato!
– Mpf, – rispose, spargendo briciole di biscotto nell’aria e sul tavolo.
Irina annuí, e se ne andò.
Aragona bevve un po’ d’acqua, riuscendo cosí a inghiottire il biscotto e salvandosi la vita.
Quando ebbe ripreso un normale ritmo di respirazione, riportò gli occhi lacrimanti sull’orizzonte.
In fondo, pensò, il tempo stava migliorando.