domenica 5 maggio 2019


COSPIRAZIONE CARAVAGGIO
Alex Connor Cospirazione Newton Compton editori


Prologo
Napoli, Italia Inizio del 1610 Silenzio. Trattieni il respiro. Ascolta. Si ritrae nell’oscurità dell’androne, lontano dal raggio di luce proiettato dal suo inseguitore, che è fermo all’imboccatura del vicolo, con la torcia in mano. Non può aver perso le sue tracce. L’ha colpito. Ne è certo. Ha sentito il coltello affondare dentro la mascella di quell’uomo. L’ha colpito. Ma quanto forte? Abbastanza da ucciderlo? L’aggressore avanza con cautela sul selciato irregolare, mentre la sua vittima si appiattisce contro la porta, premendo il corpo affinché rimanga nascosto nell’oscurità dell’androne. Respira a malapena, osserva la luce che avanza e si ferma a pochi metri da lui. Sente l’odore di fumo, segue il bagliore della torcia che si alza e ricade, al sollevarsi e abbassarsi del braccio del suo inseguitore. Fa un passo in avanti e poi si ferma di nuovo. Ascolta. Li separano soltanto pochi metri. Nell’androne, Michelangelo Merisi, il pittore conosciuto con il nome di Caravaggio, si nasconde, ferito. Tastandosi, percepisce la violenza dell’aggressione subita, il taglio nella pelle che parte dall’angolo dell’occhio attraversa la guancia e arriva fino alla mascella. Ha mancato di poco l’arteria. Respira. Quasi impercettibilmente, a fatica, emettendo uno stentato sibilo dai polmoni. Se scampa a questa, riuscirà a cavarsela. Rimarrà sfigurato, ma vivrà. Sente il sangue che gli scorre sulla camicia; l’aria della notte fa bruciare la ferita aperta. Il suo aggressore riflette, a pochi centimetri da lui. Immobile, Caravaggio si rende conto che un solo respiro, un movimento impercettibile, il tremolio di un muscolo e sarà perduto per sempre. Il silenzio è opprimente, totale, il minimo suono tradirà la sua presenza alla stregua di una palla di cannone. È in quel momento che lo sente. Il rivolo di sangue scende dalla mascella, lungo il petto, fino al braccio. Caravaggio si contrae. Il sangue, appiccicoso e infido, scivola sul polso, poi attraversa il palmo. Inspiegabilmente, per un istante che sembra un’eternità, pare che si blocchi, proprio sulla punta delle dita, prima di proseguire la sua corsa. Gocciola, come uno sparo, fino a terra vicino ai suoi piedi. Lunedì Uno Cork Street, Londra Gennaio 2014, ore 8.36 La polizia aveva delimitato l’area con il nastro giallo, bloccando l’accesso alla strada da entrambi i lati per evitare che le auto entrassero o uscissero dal perimetro. Un’ambulanza con la sirena muta era parcheggiata all’ingresso della Weir Gallery e c’erano due poliziotti di guardia. Erano le 7.30 di una mattina d’inverno. Il nevischio rendeva le strade della capitale poco agevoli, un cielo caustico preannunciava una giornata di gennaio fredda e dal tempo variabile. Però, all’interno della galleria, dove il riscaldamento era stato alzato al massimo, oltre a quaranta gradi, un uomo sconvolto sedeva con la testa tra le mani sulle scale che portavano alla galleria sottostante. «Jacob?». L’uomo sollevò il capo sentendo pronunciare il suo nome. «Gil. Grazie di essere venuto». Fissò l’individuo robusto fermo in piedi davanti a lui. Aveva i capelli scuri e ricci, le mani callose e il naso che portava i segni di una frattura subita durante una rissa adolescenziale. Non il genere d’uomo che ci si sarebbe aspettati di vedere in una galleria. «Eri l’unica persona che potevo chiamare…». Il suo sguardo si mosse verso il retro della galleria principale, dov’era stato posizionato un paravento. «Volevo chiamare la polizia subito dopo che ci siamo sentiti, ma Oscar mi ha anticipato». Quel nome fece sussultare Gil. “Rilassati”, pensò. “Ci sono molti uomini che si chiamano Oscar”. Ma, ancora prima di chiederlo, aveva già intuito di quale Oscar si trattasse. «Era qui poco fa. Non vi siete incrociati per poco. Ho bisogno del tuo aiuto. Devi assumere questo caso». Gil non rispose, così Jacob continuò. «La polizia non mi lascerà andare. Di sicuro credono che io c’entri qualcosa». «Vogliono interrogarti perché sei stato tu a trovare i cadaveri», osservò Gil, accomodandosi sui gradini accanto al gallerista. «Vogliono solo farti qualche domanda». Infilò la mano in tasca e poi si ricordò che aveva smesso di fumare. Aveva smesso sette anni prima. Ai tempi di Berlino. «Come ha fatto Oscar a scoprire cos’è capitato?» «Non lo so. Non me l’ha detto. Sai com’è Oscar, sempre sul pezzo». Mentre Jacob parlava, Gil sentì odore di alcol nel suo fiato. Alle 8.45 del mattino? Jacob Levens era stato un gran bevitore per moltissimo tempo, però l’anno prima dei problemi di salute lo avevano costretto a smettere. O almeno così Gil supponeva. «Perché eri qui, Jacob?» «Avevo una colazione di lavoro alle otto. Sono arrivato in anticipo, la porta era aperta, così sono entrato. Le luci erano accese e anche il riscaldamento». «Sul serio? Ci saranno almeno 40 gradi qui dentro. Perché non l’hanno abbassato?» «L’avrei fatto io, ma non mi hanno permesso di toccare niente». Gil guardò il quadro che stava prendendo forma in fondo alla galleria. Vecchi ricordi, poco piacevoli e indesiderati, si fecero largo nella sua mente. «Sono anni che non passo di qui». «Mi stupisce che la polizia ti abbia permesso di entrare». Gil scrollò le spalle. «Conosco il poliziotto all’ingresso». «Hai ancora degli agganci?» «Direi di no». Gil diede un’occhiata a Jacob, l’uomo che l’aveva assunto molti anni prima, e che nel tempo era diventato suo amico. L’uomo che gli era rimasto accanto dopo la morte della sua prima moglie e che gli aveva fatto conoscere la seconda. Un uomo che Gil stimava, ammirava, anche se aveva delle debolezze note a tutti. Quelle, in nome dell’amicizia, poteva perdonargliele. Ora Jacob Levens voleva riportare Gil nel mondo che lui aveva ripudiato. Se si fosse trattato di chiunque altro, avrebbe risposto con un rifiuto. «Torno subito», disse Gil, avviandosi verso il paravento. Il poliziotto che l’aveva lasciato entrare nella galleria stava parlando con un detective, un’altra persona nota a Gil. Il detective Phil Simmons, sulla quarantina, aveva le borse sotto gli occhi e una brutta eruzione cutanea dal collo alla fronte. Quando si accorse di Gil, Simmons gli fece cenno di avvicinarsi. Gil esitò. “No”, pensò. “Se passo dietro al paravento, rimarrò incastrato. Tornerò indietro, dovrò di nuovo indagare sul mondo dell’arte, un letamaio stracolmo di truffatori e nomi sulla bocca di tutti, che fingono di essere uomini onesti, che vengono manipolati da una banda di ricconi. Se passo dietro al paravento, tornerò alla mia vecchia vita, prima di Bette. Voglio davvero mettere a repentaglio il mio futuro per un passato che disprezzo? Lo voglio?”. «Credevo avessi abbandonato questo mondo», disse Simmons, facendogli di nuovo cenno di passare oltre il paravento. «Se non sbaglio, non sei più un investigatore». Si grattò la pelle rovinata. «Adesso sei uno studioso, no?» «Sì, è così». «Allora che ci fai qui?» «Mi ha chiamato Jacob. È un amico». Simmons cercò con lo sguardo il gallerista. «Ha trovato i cadaveri». «Già. Me l’ha detto». «Ti sei un po’appesantito», sottolineò Simmons, ridendo tra i baffi. «Mi sono risposato». «Evidentemente sa cucinare bene». «Aspetto un bambino». «Oh, adesso mi spiego quella pancia». Con sua enorme sorpresa, Gil rise della battuta, instaurando il vecchio rapporto informale che c’era tra loro. «Che aspetti?», gli chiese Simmons, muovendo la testa a mo’d’invito a passare dietro il paravento. Lui esitò ancora. «Forza!», gli urlò Simmons. «Non ho tutto il giorno». I fratelli Weir erano decisamente morti. Erano seduti, schiena contro schiena, nudi, i colli legati insieme con del fil di ferro. Le gambe erano piegate nella posizione yoga del loto, in modo che i genitali fossero ben esposti, gli scroti erano ricoperti di sangue, lacerati da profonde ferite. «Hanno usato una sparachiodi», affermò Simmons, indicando l’attrezzo abbandonato a qualche centimetro dal piede sinistro di Sebastian Weir. «Li hanno torturati entrambi». Gil osservò i fratelli, i gemelli che avevano dominato la scena dell’arte londinese per una decade. Due galleristi di successo, con la pelle bianca come il latte di cocco, e i capelli più bianchi che biondi. Cattivi o generosi, a seconda delle occasioni. Sempre insieme. Anche nella morte. «Oh, merda!», esclamò all’improvviso Simmons, chinandosi sui fratelli per osservare da vicino i loro visi gonfi. Si rivolse al patologo che stava esaminando i corpi. «È quello che penso?». Dunning rifletté. «Non saprei. Cosa pensi che sia?» «Intorno alla bocca. È…». «Colla di coniglio», intervenne Gil. «Grazie al cielo! Pensavo fosse sperma», replicò Simmons. «Cos’è la colla di coniglio?» «Una miscela che serve per l’apprettatura della tela. Dev’essere stesa prima dell’imprimitura». «Cosa ci fa sulle loro bocche?» «Non ne ho idea», rispose Gil, mantenendo lo sguardo fisso sui corpi. Si domandò se Dunning o Simmons si fossero accorti di una certa cosa, che lui avrebbe preferito non notare, perché ne conosceva perfettamente il significato. «Dai», Simmons esortò il patologo. «Cosa li ha uccisi?». Dunning ricordava un ragazzino in un abito da uomo. Ignorò la domanda del detective e allungò la mano coperta dal guanto per toccare la testa insanguinata di Benjamin Weir. Rimase turbato quando lo scalpo scivolò sopra il viso della vittima, lasciando il cranio esposto. Gil respirò profondamente e Simmons si voltò a guardarlo. «Che c’è? Stavi per dire qualcosa. Spara». «Anche a Sebastian è stato rimosso lo scalpo». Il patologo toccò la testa dell’altra vittima e annuì. Simmons rivolse uno sguardo curioso a Gil. «Come facevi a saperlo?» «L’ho già visto». «C’è altro che dovremmo sapere?» «L’assassino ha scambiato gli scalpi. Benjamin ha quello di Sebastian e viceversa». Due Era stato catapultato nel passato
senza quasi accorgersene. Si trattava di un caso a cui aveva lavorato sette anni prima. Non a Londra, ma a Berlino. Un noto gallerista d’arte, Terrill Huber, era stato ritrovato in un magazzino, nudo, legato con il fil di ferro, i genitali mutilati da una sparachiodi e della colla di coniglio in bocca. Lo scalpo era stato rimosso. Un’ora dopo, sua moglie Alma era stata rinvenuta nuda e legata nella loro galleria d’arte in Friedrichstrasse, anche lei con lo scalpo rimosso. I seni erano punteggiati di ferite inferte dalla sparachiodi e la bocca era stata riempita di colla di coniglio post mortem. Ciò che rendeva ancora più ripugnante e allo stesso tempo comico quell’efferato omicidio era che gli scalpi di marito e moglie erano stati invertiti. L’immagine di un uomo robusto di una certa età, sfigurato e ricoperto di sangue appariva in un certo senso ridicola con lo scalpo di capelli tinti della moglie. Era un tocco crudele e sottilmente feroce. La moglie, invece, era stata trovata accasciata contro la porta dell’ufficio della galleria, con lo scalpo pelato del marito a coronare il suo bel viso. Gil non aveva mai dimenticato quella scena. Era rimasta ben impressa nella sua mente. Nonostante le sue indagini e quelle della polizia di Berlino, l’assassino non era mai stato catturato. Due mesi dopo la moglie di Gil era morta. Afflitto, aveva deciso di lasciare quel lavoro. Era diventato uno studioso, aiutava gli scrittori nelle ricerche per i loro libri. Gli era capitato di raccogliere informazioni di vario genere: su crimini in generale, sul mondo dell’arte e persino su quello dello sport. A Gil piaceva. Si rannicchiava nelle parole e si lasciava rassicurare dai fatti come se fossero una ninnananna. Sapeva che la morte di Holly era stata un incidente, una coincidenza. Il semaforo non aveva funzionato bene. Si era bloccato sul verde quando invece avrebbe dovuto essere rosso. La macchina che aveva investito Holly non aveva previsto di trovarsela davanti, perciò non era riuscita tempestivamente a evitare la collisione. «Erano gay?». Gil fu costretto a ritornare al presente. Scosse la testa, mentre posava di nuovo lo sguardo su Simmons. «No». «Sicuro?» «Sì. Erano asessuati. La cosa era di pubblico dominio. Non facevano sesso da anni». Rimasero a guardare mentre i corpi venivano sistemati dentro i sacchi neri, sopra una barella, per essere trasportati via. C’era già un gruppo di curiosi fermo all’ingresso della galleria. L’eco della chiusura dello sportello dell’ambulanza si propagò in quella mattina di morte. «Quindi, hai già visto una scena del genere», riprese Simmons. «Dove?» «A Berlino. Ero stato chiamato a risolvere un caso, ma non ebbi fortuna. Nemmeno la polizia riuscì a chiuderlo. Ci fu una volta che credetti di averlo quasi acciuffato, ma mi sfuggì». «Quando è successo?» «2007». Simmons pareva nervoso, continuava a grattarsi il collo. «Da quando hai quell’eruzione cutanea?» «L’ho vinta alla lotteria», rispose ironicamente Simmons. «Il medico dice che è stato qualcosa che ho mangiato. Ho già provato tre diverse creme, ma non hanno funzionato». Continuando a grattarsi il collo, tornò a interrogare Gil. «Ci sono altre somiglianze, a parte la questione dello scalpo?» «Anche le altre due vittime erano nude. L’uomo aveva i genitali mutilati». «L’uomo?» «Si trattava di un uomo e una donna», spiegò Gil. «Marito e moglie. I seni della donna erano stati mutilati». «Che mi dici di quella colla?» «Colla di coniglio. Entrambe le vittime ne avevano in bocca». Simmons alzò le sopracciglia. «E gli scalpi erano stati invertiti?» «Sì. I corpi furono rinvenuti in due posti differenti. L’assassino se n’era andato a spasso con lo scalpo del marito per tutta Berlino». «L’aveva posizionato sulla testa della moglie dopo aver rimosso il suo scalpo?». Gil annuì. «Poi aveva percorso tutta la strada a ritroso con l’altro scalpo per metterlo sulla testa del marito?». Simmons fece una pausa. «Quindi il marito era la prima vittima?» «Sì». «Perché rimuovere lo scalpo?» «Non l’abbiamo mai capito, perché non siamo mai riusciti a catturare l’assassino». «Quindi i fratelli Weir sono stati uccisi nello stesso modo. Stesso assassino?» «Forse». Gil scrollò le spalle. «Non sono aggiornato sui casi degli ultimi sette anni. Sono fuori dal giro. Forse ci sono stati altri omicidi come questo…». «Non a Londra». «Be’, forse dovresti informarti su casi simili avvenuti in Germania e altrove, ammesso che ce ne siano stati». Gil sospirò. «Senti, è capitato molti anni fa, quando di mestiere facevo l’investigatore». «Lo sei ancora…». «No, sono qui perché Jacob mi ha chiamato. Non voglio essere coinvolto in questa faccenda». «Lo sai che devo chiederti di Berlino, vero?». Gil annuì. «Sì, ma se vuoi che ti aiuti, devi condividere con me le informazioni che hai: referto del patologo, dichiarazioni dei testimoni, le solite cose. Sono riservato, lo sai. Puoi fidarti di me». Simmons inclinò la testa da un lato. «Mi stai dicendo che accetti il caso?» «Indagherò un po’per conto di Jacob, non mi lascerò incastrare una seconda volta. Mi sono ritirato, chiaro?» «Oh, certo, per me è tutto chiaro», dichiarò Simmons, indicando il punto in cui Jacob Levens era ancora seduto. «Ma lo è anche per lui?». Tre Berlino, Germania Ore 9.30 Usava la piastra, perché odiava il modo in cui i suoi capelli si arricciavano. Gli piacevano lisci, non selvaggi come quelli dei contadini. Comunque, pensò compiaciuto, era un lusso per un quarantenne possedere una chioma come la sua. Luca si appoggiò allo specchio per studiare da vicino i suoi denti. Non aveva placca, e nessun irritante resto di un pranzo frettoloso. Del suo viso amava genuinamente soltanto gli occhi. Erano di un castano scuro, per niente cordiali. Rudi. Irresistibili. A volte erano invitanti, altre volte freddi come il ghiaccio. Occhi da duro…Li abbassò per osservare l’uniforme da cameriere che indossava, una divisa impregnata di rancore, un simbolo di umiliazione. Ciò che i clienti pensavano traspariva dai loro sguardi, le parole erano irrilevanti. La loro espressione era più che eloquente: lo giudicavano perché era un uomo di mezz’età che serviva ai tavoli, cercando di dimostrarsi compiacente e ossequioso. Uno straniero con i capelli mediterranei leccati e le labbra pronunciate. Eccessivo per l’età che aveva, non più tanto giovane…“Sì”, pensò Luca. “So perfettamente come mi giudicate, ma non per molto ancora”. Inspirò profondamente e si rilassò. Finalmente le cose stavano andando a posto. Tra qualche ora sarebbe diventato famoso su internet. Avrebbe contattato i giornali, le riviste, le radio e le televisioni e iniziato a scrivere un blog. Facebook e Twitter stavano puntando la preda, come dei levrieri, ed erano pronti ad affondare i denti. Dalla sua aveva un nome, un certo nome famoso e, cosa assai più importante, infame. Il nome di un pittore che era anche un assassino. Naturalmente Luca sapeva che non tutti gli avrebbero creduto. Forse non avrebbero mai accettato l’idea che lui fosse discendente di Caravaggio e di una nota prostituta romana di nome Fillide Melandroni. Ma lui era pronto, pronto ad affrontare le persone che l’avrebbero deriso, ritenendolo pazzo. Lui sapeva la verità. Era consapevole del suo sangue e del segreto che nascondeva. Lui era l’unico uomo al mondo a conoscere l’ubicazione del ritratto di Fillide Melandroni, che si credeva perduto per sempre. E non finiva lì. Conosceva anche il nascondiglio della tela più famosa sottratta al mondo dell’arte, la Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi, trafugata, si presumeva dalla mafia, a Palermo, in Sicilia, nel 1969. Si supponeva che il ritratto di Fillide fosse andato distrutto in Germania nel 1945. La Natività, invece, risultava scomparsa nel nulla dal 1969. Entrambe le tele erano di valore, ma la Natività era una vera e propria leggenda. Era troppo famosa per essere venduta sul mercato nero, troppo preziosa per essere distrutta. Era rimasta nascosta. Come lui. Ad aspettare. Naturalmente, Luca Meriss sapeva che, esponendosi, sarebbe diventato il bersaglio di ogni sorta di scherno. Rivelare che conosceva l’ubicazione di quel dipinto era una mossa audace. La sua storia era incredibile e avrebbe colpito l’immaginario di tutto il mondo. Era ciò che Luca desiderava. Fillide Melandroni era una sua antenata: una bellissima prostituta impetuosa, il cui volto era stato ritratto da Caravaggio su molte tele. Chi non avrebbe voluto possederne una? Ma la Natività avrebbe fatto tremare il mondo dell’arte. Valeva più di 60.000.000 di sterline. Avrebbe suscitato interesse e invidia in tutti. Ogni collezionista, ogni gallerista, ogni conoscitore e ogni delinquente avrebbero desiderato possederla. Ma soltanto lui sapeva dov’era. Soltanto Luca Meriss. Chiunque desiderasse vedere quel dipinto doveva rivolgersi a lui. E se gli fosse successo qualcosa? Il quadro sarebbe andato perduto per sempre. Era un’inconfutabile garanzia sulla sua vita. Quattro Londra Bette era rimasta a guardare suo marito dalla soglia per diversi minuti. Conosceva quello sguardo. Era lo stesso di quando le aveva raccontato com’era morta la sua prima moglie, la brillante ed enigmatica Holly, di cui lei era ancora gelosa. Lo stesso sguardo di quando le aveva narrato della sua vita precedente, del suo vecchio lavoro e del caso d’omicidio avvenuto a Berlino. Gil percepì la sua presenza e si girò a guardarla. «Ti ho svegliata?» «No». Lei guardò il suo orologio. «Dove sei stato? Mi sono svegliata e tu non c’eri». «Jacob Levens mi ha chiamato. Ha avuto un problema». «Che genere di problema?». Lui avrebbe preferito tenerla all’oscuro della cosa, visto che mancavano poche settimane al parto. «Cos’è capitato, Gil?» «C’è stato un duplice omicidio. I gemelli Weir. Jacob ha trovato i cadaveri». «Cielo!». «Non è ben messo». Bette si accomodò al tavolo, riflettendo su Jacob Levens. L’estate di qualche anno prima lei lavorava nel settore della moda, ma la sua carriera era miseramente fallita sul nascere. D’impulso aveva lasciato Milano per trasferirsi a Londra ed era andata a vivere con la madre divorziata. La convivenza si era rivelata un altro fallimento: due caratteri forti sotto lo stesso tetto erano un conflitto preannunciato. Allora Bette aveva iniziato a sperare di trovare tempestivamente un lavoro che le permettesse di affittare una casa tutta sua. Nel frattempo Jacob Levens, con una mostra alle porte, era stato piantato in asso dalla sua segretaria di lunga data, ed era alla disperata ricerca di una nuova impiegata. Così quando Bette si era proposta per quel lavoro, Jacob l’aveva assunta. Era elegante, intelligente e imparava in fretta: esattamente la donna che faceva per lui. In più Bette aveva trovato una figura paterna e lui il surrogato di una figlia. Lei era abbastanza sveglia da tenergli testa: l’irritazione di Jacob svaniva di fronte all’indifferenza di Bette. Nel periodo in cui lui beveva, era stata sempre Bette a buttar via le bottiglie che Jacob credeva di aver nascosto molto bene. Si era occupata di lui perché non aveva nessun altro e Jacob le aveva restituito il favore presentandole Gil Eckhart.
«Devi dargli una mano», disse Bette, appoggiando le dita sul braccio del marito. «Ha bisogno di te». «Non sono più un investigatore. Ho giurato di restarne fuori, lo sai». Calò il silenzio. Gil si domandò quanto potesse rilevarle. Aveva detto a Bette che i fratelli Weir erano stati uccisi, nient’altro. Non aveva menzionato le somiglianze tra quel caso e gli omicidi di Berlino di sette anni prima. Non voleva dirglielo. Non voleva pronunciare le parole che avrebbero evocato ancora una volta quella scena. Lei lo guardava incuriosita. «La polizia sospetta di lui?» «No, ma è sotto shock per il ritrovamento dei cadaveri». Gil stava mentendo, per evitare di dover dare ulteriori informazioni. «Forse Jacob si è agitato troppo. Probabilmente non ha bisogno di me. La polizia se la caverà benissimo». «Sono incinta, non stupida!», esclamò Bette. «Detesto quando mi nascondi le cose». «Non ti sto nascondendo nulla». «Sì, invece! Dimmi che sta succedendo». Lui esitò. «Gil, che c’è?» «Ti ricordi quel caso di Berlino di cui ti ho parlato? L’omicidio di Alma e Terrill Huber?». Bette iniziava a capire. «Sì, me lo ricordo». «I fratelli Weir sono stati uccisi con lo stesso modus operandi». La fissò e lei sostenne il suo sguardo. «Non chiedermi i dettagli». Lei non ne aveva intenzione. «Perciò la polizia vorrà interrogarti su Berlino». «L’hanno già fatto. Il detective assegnato al caso, Phil Simmons, si trovava già sul posto quando sono arrivato lì. Abbiamo chiacchierato e poi mi ha richiamato. Aveva dato un’occhiata al caso di Berlino e voleva confrontarsi con me». «Simmons crede che l’assassino sia lo stesso?». Gil non rispose. «L’assassino non è mai stato catturato?» «Lascia perdere, Bette. Troverò una via d’uscita. Chiuderò la cosa oggi stesso». Lei non amava essere liquidata in quel modo. «Ma se si tratta dello stesso uomo, dov’è stato per sette anni?» «All’estero. In prigione. In ospedale. Chi lo sa?». In quell’istante Bette realizzò che la loro vita poteva essere in pericolo, alla mercé di una qualche oscura forza. Gil cercò subito di placare la sua ansia. «Senti, la polizia mi farà ancora qualche domanda e basta». Le sorrise, ma lei non ricambiò. Si chiuse in se stessa, appoggiando le mani sul pancione. Sentiva il bambino muoversi in modo convulso dentro di lei, incessantemente. Rispecchiava il suo stato d’animo. Mancavano soltanto un paio di settimane al parto. Perché Jacob Levens non si era rivolto a qualcun altro? Perché proprio Gil? Bette doveva la propria felicità al gallerista, lo sapeva bene, ma aveva paura. Non voleva che l’odore della tortura e dell’assassinio entrasse in casa sua. Non voleva che suo marito si ritrovasse di nuovo a fare una vita che odiava. Voleva che si occupasse di decorare la stanza del bimbo, che le stesse accanto nelle ultime settimane prima del parto. Non avrebbe dovuto viaggiare, inseguire criminali, parlare con la polizia o rivangare il passato. Non sarebbe dovuto tornare a Berlino, alla sua vecchia vita, dalla sua prima moglie. «Non fai più l’investigatore. Jacob lo sa bene». Rimase in silenzio a fissare suo marito. «Comunque, perché ha chiamato proprio te? Come mai Jacob vuole assumere te per questo caso?». Gil stava schivando le domande per evitare di dover dire la verità. «Ho già lavorato con lui in altri casi». «Molti anni fa». «Sì, è vero, ma Jacob mi conosce e si fida di me». Bette scosse la testa. «No, c’è qualcos’altro. In fondo, ha solo ritrovato i cadaveri, no? Allora perché vuole coinvolgerti nelle indagini?». Fece di nuovo una pausa, sostenendo lo sguardo del marito. «Come mai questi omicidi sono così importanti per Jacob Levens?» «Non lo so!». «Sì che lo sai! Dimmelo!». Lui rimase zitto per un attimo, poi riprese a parlare. «Alma Huber era sua sorella». Cinque New York Ore 3.30 «Ehi! Ehi! C’è qualcuno?». Catrina Hoyt rimase in ascolto. Era ancora buio, stava appena albeggiando. Aveva sempre avuto il sonno leggero e si era svegliata sentendo un suono che non era riuscita a identificare, un rumore sufficientemente forte da penetrare il doppio vetro. Si era girata per ascoltare meglio. A parte le continue sirene e i clacson dei taxi che disturbavano sempre il riposo dei newyorchesi, non le era parso di udire nulla di inusuale. Poi, però, sentì un rumore provenire dall’interno della casa e saltò di corsa giù dal letto. Aprì il cassetto del comodino, tirò fuori la pistola, e tenendola stretta in mano si diresse al piano di sotto. Le scale erano separate dall’edificio principale e si trovavano oltre l’area della galleria collegata all’allarme. Catrina raggiunse la porta dello scantinato. Togliendo la sicura alla pistola, aprì la porta con un piede. Poi provò ad accendere la luce, ma non accadde nulla. Udì di nuovo quel suono provenire dallo scantinato, un rumore che sembrava provocato con intenzione. Atterrita, Catrina allungò la mano sinistra per prendere la torcia appesa dietro la porta e puntò il raggio di luce verso l’oscurità. Silenzio. Non doveva aver paura. Sapeva cavarsela. Inoltre era alta un metro e ottanta, era ben piazzata e sapeva come attaccare un uomo. Era decisa a farla pagare a chiunque si fosse introdotto nella sua galleria. Non era la prima volta che le capitava una cosa del genere. Scese molto lentamente i primi gradini. Un suono. Un rumore di trascinamento. Si bloccò a metà della scala, illuminando la cantina con la torcia. C’erano molte casse da imballaggio accatastate contro le pareti, alcune puntellate come delle bare, altre spalancate come le fauci di un mitologico mostro di legno. La torcia illuminò i tavoli da lavoro dove i dipinti venivano impacchettati per essere spediti, e gli altri tavoli dove le tele venivano spacchettate e predisposte per le mostre. In un angolo remoto dello scantinato, il sensore rosso dell’allarme lampeggiò. Qualcuno era passato lì davanti. Catrina fece oscillare la torcia, ma chiunque avesse fatto scattare il sensore era di nuovo nascosto nell’oscurità. S’innervosì, continuando a muovere la torcia a destra e a sinistra, alla ricerca di qualsiasi cosa fosse all’interno della sua proprietà. La luce rossa lampeggiò di nuovo. E poi si spense. Sentiva dei movimenti a pochi centimetri da lei. Fece di nuovo oscillare la torcia. Niente. Poi il rumore si spostò verso sinistra. E lei fece oscillare la luce in quella direzione. Di nuovo niente. A quel punto udì un inconfondibile rumore di passi proprio alle sue spalle. Sei Hampstead, Londra Ore 13.00 Jacob Levens era seduto nel salotto di casa sua e aveva l’aria di volersi scusare con Gil. «Non avrei dovuto chiamarti né questa mattina né ora. Non so perché l’ho fatto. Non ci ho pensato. Mi spiace». Jacob scrollò le spalle. Desiderava versarsi un whisky e non cercava affatto di nasconderlo. Di certo non era il primo drink della giornata. Era impeccabile, come sempre. Certo era robusto, ma portava il suo peso in eccesso come se valesse molti soldi. Indicò il caos che regnava intorno a lui. «Qualcuno si è introdotto in casa mia. Ha messo tutto sottosopra». «Hai chiamato la polizia?» «No». «Devi chiamarla, Jacob». «Pensi che c’entri con l’omicidio dei gemelli Weir?» «Può darsi. Hai toccato qualcosa?» «No». Fissò Gil, la sua calma lo rassicurava. A dirla tutta, gli era mancato. Come tutti quanti, Jacob comprendeva il motivo per il quale Gil Eckhart si era autoesiliato, e anche il suo lutto dovuto al terribile incidente che aveva provocato l’inaspettata morte della sua prima moglie. Però gli era mancato comunque. La vita era andata avanti per entrambi. Si erano scambiati un paio di telefonate all’anno, una cartolina di auguri a Natale, ma non si erano mai più rivisti. Jacob era ormai vedovo da molti anni e si era totalmente concentrato sulla galleria. Gli piaceva stare in compagnia di altri galleristi, ma non c’era mai da fidarsi in un settore in cui tutto era basato sulla competizione e sulla fortuna. Bisognava scoprire i “dormienti”, gli artisti sconosciuti, o aggiudicarsi un pezzo all’asta prima della concorrenza. Era un ambiente culturalmente vivo, ma con un cuore velenoso, cosa che Gil Eckhart sapeva fin troppo bene. Si erano conosciuti quando Jacob l’aveva assunto per indagare su un furto avvenuto anni prima alla galleria. L’aspetto di Gil, a primo impatto, aveva sorpreso Jacob, il quale non si aspettava di trovare intelligenza e cultura in un corpo da pugile. Forte e robusto, Gil aveva modellato il suo fisico con lo sport, correndo ogni volta che ne aveva l’occasione. Era il miglior modo per conoscere una città, aveva detto una volta a Jacob. Ma si era dimostrato più restio a rivelare come mai fosse diventato un investigatore privato. Gli aveva soltanto detto che era stato in polizia per un breve periodo e che poi era passato a fare l’agente di sicurezza in estremo Oriente. Jacob supponeva fosse stato assoldato come guardia del corpo, ma Gil non l’aveva mai ammesso apertamente. Anzi, aveva stupito di nuovo l’amico, confidandogli di avere una laurea in Belle Arti. Gil era un enigma, pensò Jacob, ed era felice di riaverlo nella sua vita. «Perché qualcuno dovrebbe fare una cosa del genere?». Jacob scrollò le spalle. «Manca qualcosa?» «Non mi pare proprio. Comunque non ho nulla di prezioso nell’appartamento. La roba di valore è tutta nella galleria. Non c’è davvero niente d’interessante qui». «Alla galleria è tutto a posto?» «Penso di sì. L’allarme è in funzione, altrimenti la polizia mi avrebbe già contattato», Jacob tacque per un momento, visibilmente agitato. «Sono uscito per pranzo, ma avrei potuto benissimo essere a casa quando è capitato». «No, non credo che volessero te. Sembra più un tentativo di spaventarti», sottolineò Gil, fissando l’uomo che ormai conosceva da quindici anni. «Ho dovuto dire a Bette la verità», aggiunse. «Altrimenti non avrebbe capito come mai avevo deciso di darti una mano». «Le hai raccontato tutto?». Gil lo guardò dritto negli occhi. «Sta per partorire. Di certo non voglio che sappia l’intera storia. Diciamo che ho omesso qualche dettaglio, ma sa che sei collegato agli omicidi di Berlino di sette anni fa. Le ho detto che Alma Huber era tua sorella», fece una pausa, aspettando che interiorizzasse quelle parole. «Ma non il resto. Non conosce i dettagli di come Alma sia stata assassinata». Jacob giocava con i polsini della camicia, sforzandosi di non crollare. «Voleva che fossi io a trovare i fratelli Weir, vero?» «Non lo so, Jacob. Tu credi?». Annuì. «È stato tutto inscenato per me. Dovevo vederli, voleva che sapessi che l’assassino di mia sorella è tornato. Non ho mai scordato il suo corpo all’obitorio. Non ho mai dimenticato che cosa le ha fatto». Tacque un momento per poi ripetere le stesse parole con enfasi. «Voleva che fossi io a trovare i fratelli Weir». «Perché?» «Non lo so». Gil continuò a squadrare il gallerista. «Non ha sottratto nulla dalla galleria d’arte di tua sorella, sette anni fa. Pare che anche alla Weir Gallery non manchi nulla. E adesso questo», si guardò intorno. «Di nuovo non ha portato via niente. Quindi, se non è un furto, qual è il movente?». Jacob scrollò le spalle. «Quando ti sei presentato per la colazione di lavoro con i fratelli Weir, hai notato qualcosa d’insolito? C’era qualcuno che gironzolava nei paraggi della galleria? Macchine sospette parcheggiate vicino?» «Non mi pare. Non ho notato nulla di strano, ma non è che fossi alla ricerca di qualcosa», rispose Jacob privo d’espressione. «Non sono molto vispo di mattina presto». «Di sicuro, quando bevi, non lo sei affatto». Jacob accettò quel commento lasciandoselo scivolare addosso. «Sono molto stressato ultimamente». «Avevi i postumi di una sbornia?» «No, sì, un po’», ammise Jacob. «Li ho chiamati per annullare il nostro appuntamento ma non hanno risposto, così mi è toccato presentarmi». «Quando li hai chiamati?», domandò Gil. «Circa alle sette». «Hai lasciato un messaggio?» «Non ho potuto. Non c’era la segreteria inserita». «Davvero?», disse Gil. «Cosa insolita per un’attività commerciale.
O li hai chiamati sul cellulare?» «No, non ho il numero. Ho solo quello della galleria». Gil annuì. «Quindi, non sei riuscito a parlare con loro e, perciò, hai deciso di presentarti all’appuntamento. A che ora sei arrivato?» «Te l’ho detto, prima delle otto». «La porta era chiusa?». Jacob aveva un’aria frustrata. «Aperta, altrimenti non sarei entrato, no?» «Sei entrato dalla porta principale?» «Sì». «La serratura era forzata?». Jacob rifletté per un istante. «No. Era semplicemente aperta, come negli orari d’apertura al pubblico. Il campanello all’ingresso ha segnalato la mia presenza, li ho chiamati, ma nessuno ha risposto. Faceva così caldo là dentro». «Di cosa dovevate discutere?» «Di alcuni disegni del Guercino. Sebastian aveva comprato un paio di pezzi in Giappone e desiderava avere la mia opinione in merito». «Alle otto di mattina?» «Si alzavano sempre presto, in modo da poter fare un paio di riunioni prima dell’apertura della galleria al pubblico». «Che mi dici dell’appartamento sopra la galleria? Da quanto tempo ci vivevano?» «Da vent’anni», rispose Jacob. «Tutta la loro vita si svolgeva lì. Vivevano e lavoravano nello stesso edificio, intrattenevano i clienti lì, lavoravano con le stesse persone da anni». «La polizia ha controllato lo staff: hanno tutti degli alibi». «Ovvio!», esclamò Jacob. «Solo uno squilibrato può aver fatto una cosa del genere, lo stesso squilibrato che ha ucciso mia sorella». «Alma conosceva i fratelli Weir?». Jacob restò in silenzio per riflettere. Le sue mani si muovevano incessantemente, la bocca era asciutta, desiderosa di un drink. «Ogni tanto le era capitato di averci a che fare, ma di solito frequentava un altro giro. Alma aveva vissuto a Berlino per tutta la sua vita. Io avevo sposato una ragazza inglese e andavo di rado in Germania, soltanto per brevi visite. Non posso dirti con esattezza quanto Alma fosse coinvolta con i fratelli Weir». «Ma se è lo stesso uomo ad averli uccisi, allora ci deve per forza essere un collegamento», insistette Gil. «I fratelli Weir e tua sorella trattavano l’arte italiana?». Jacob annuì. «Sì, ma Alma preferiva il periodo barocco a quello rinascimentale. Desiderava trattare i grandi nomi. Una volta aveva partecipato a un’asta per un Gentileschi, ma non era riuscita ad aggiudicarselo». «Cosa stava trattando quando è morta?» «Queste domande me le hai già fatte sette anni fa». «Lo so, ma ho bisogno di rifartele ora», replicò Gil deciso. «Cosa stava trattando Alma quando è morta?» «Niente di particolare. Nature morte. Suo marito aveva avuto un attacco di cuore e avevano deciso di rallentare un po’i ritmi. Non so neanche se aveva in programma delle mostre. Non me lo ricordo…». «Concentrati». «Sono passati sette anni!». L’irritazione di Jacob era piuttosto evidente. «Mi hai chiesto di aiutarti ed è quello che sto facendo, tu però devi collaborare. Non hai voglia di ritornare a sette anni fa? Be’, neanche io! Tu hai perso tua sorella, io mia moglie. Mi ci sono voluti sette anni per ricostruirmi una vita e quello che mi stai chiedendo è di mettere a rischio ciò che ho conquistato con fatica», si chinò verso di lui. «Ci sto, Jacob, perché te lo devo». «Non mi devi nulla». «Sai benissimo che non è così», Gil liquidò l’affermazione dell’amico in fretta. «Te lo devo e noi siamo amici. Però devi collaborare, chiaro? Perché non stiamo parlando soltanto del tuo passato e, di sicuro, non si tratta soltanto del tuo futuro». Sette New York Ore 7.00 Tremante, Catrina si sedette alla scrivania. Non lo avrebbe mai ammesso con nessuno, ma era davvero sconvolta. Quel bastardo che si era intrufolato nel suo scantinato era riuscito a fuggire e, prima di farlo, le aveva toccato la spalla. Voleva prenderla in giro, dimostrarle che era più furbo e veloce di lei, che avrebbe potuto colpirla facilmente così come l’aveva toccata. All’improvviso il cellulare cominciò a squillare. «Dobbiamo parlare». La voce non era naturale. Il suo interlocutore stava usando una qualche strumentazione per camuffarla. «Sei tu che ti sei introdotto nel mio scantinato?» «Sono venuto a dare un’occhiata. Non pensavo che saresti scesa ad affrontarmi da sola, ma in effetti sei ben messa, eh? Sembri una tipa tosta». Il tono di lei era sprezzante. «Avevo una pistola. Avrei potuto far saltare in aria la tua testa di cazzo». «Ma se non sei riuscita neanche a individuarmi!». Sapevano entrambi che era la verità. «Ho chiamato la polizia». «Signorina Hoyt, stai mentendo», disse la voce con gentilezza. «Non puoi permetterti di chiamare la polizia, certo non prima di esserti sbarazzata della droga. Immagino che tu ne faccia ancora uso. Cocaina. E prendi anche degli steroidi anabolizzanti. Come va il bodybuilding?». Ora era riuscito ad avere la sua completa attenzione. «D’accordo, ho recepito il messaggio», disse lei. «Questa mattina hai messo fuori uso l’allarme, ti sei introdotto nella mia galleria, ma non hai preso nulla. Cosa vuoi?». Calò il silenzio, quasi a sottolineare che il tono era diventato confidenziale. «Concludere un affare». «E c’era bisogno di questa pantomima? Perché non ti sei presentato alla galleria per parlarne?». Lui ignorò la domanda. «Ho qualcosa d’interessante per te. Un dipinto perduto di Caravaggio». Catrina riagganciò per l’esasperazione. Si domandò come il suo misterioso interlocutore avesse scoperto il suo numero. Il telefono squillò di nuovo. «Signorina Hoyt». «Come hai fatto ad avere il mio numero di cellulare?» «Perché hai messo giù?» «Perché fiuto aria di truffa e non sono interessata». «Ma se riesco a convincerti che non si tratta di una truffa?». Lei rispose con tono sbrigativo. «Sai quante telefonate di questo genere ricevo ogni settimana? Sono tutte truffe. So che anche la tua proposta lo è». «Eppure mi sono dato così tanto da fare per dimostrarti che sono una persona seria», continuò l’interlocutore misterioso. «Avrei potuto farti del male stamattina. So chi sei e cosa fai. Potrei rovinarti». «Va’all’inferno!». «Non è ciò che desidero. Ho bisogno di un gallerista, signorina Hoyt. Ho bisogno del tuo sigillo d’autenticazione». «Su un dipinto falso?» «Non è falso. Ho le prove. So dove si trovano due dipinti perduti di Caravaggio». Lei non era ancora convinta. «E come fai a saperlo?» «Ho i miei informatori». «Naturalmente». «Sono a conoscenza di cose che nessuno sa». «Sul serio? Be’, scusa, ma ho un sacco di lavoro da fare». «Non riagganciare!». Ma fu esattamente ciò che fece. Otto Londra Bernard Lowe tossì per espellere un grumo di catarro, si ripulì la bocca e poi si rilassò appoggiandosi allo schienale del sedile posteriore della sua auto. Ai suoi piedi c’era una bombola d’ossigeno portatile, una precauzione nel caso in cui il suo enfisema fosse peggiorato, intaccando i polmoni. Per un istante fu tentato di ricorrervi, invece spalancò la bocca, abbassò il finestrino di qualche centimetro e respirò un po’di aria fresca. L’autista, seduto al posto del guidatore, lo fissò. Si stava domandando come un uomo così malato riuscisse ancora a essere un vero bastardo. Proprio quella mattina Lowe gli aveva negato un giorno di permesso. Gary Rimmer gli lanciò un altro sguardo dallo specchietto retrovisore. Lowe si stava colpendo il petto come un primate, nella vana speranza di scollare un po’del catarro che appesantiva i suoi polmoni. Rimmer pensò che si sarebbe di nuovo messo a tossire di lì a poco. Quella era una brutta giornata. Per entrambi. Rimmer non aveva ottenuto il giorno di permesso e Bernard Lowe boccheggiava come una capra malata. “Indossa sempre quel cazzo di parrucchino”, pensò Rimmer, continuando a osservare il suo datore di lavoro dallo specchietto retrovisore. Capelli scuri con striature chiare: dovevano sembrare veri ma, in realtà, sulla testa del vecchio assomigliavano più a dei fili di paglia. “Idiota”, pensò Rimmer. “Crede davvero di riuscire a ingannare qualcuno?”. Il telefono dell’auto squillò e Lowe rispose, con il suo tipico e marcato accento del Nord, con le vocali chiuse. «Pronto? Chi parla? Harvey Crammer! Non ci sentiamo da settimane…». Lo sguardo di Lowe incrociò quello del suo autista, che, senza indugio, alzò il vetro di separazione. Quello che Lowe ignorava era che Rimmer aveva lasciato una piccolissima fessura, sufficiente, per qualcuno con un udito fine come il suo, a cogliere stralci della conversazione. «Catrina Hoyt, quella troia palestrata. Ti sei cercato un avversario tosto». Lowe tossì, sputò e poi si riappoggiò allo schienale. Il semaforo era rosso e Rimmer riusciva a origliare meglio ora che il motore non emetteva quasi rumore. «Non credo a una parola uscita dalla bocca di quel travestito. Cosa? Lo so che è una donna! Però assomiglia a un uomo travestito». Lowe raddrizzò la schiena, le mani sporche di nicotina tenevano stretto il telefono mentre lui ascoltava. «Te l’ha detto lei? Caravaggio! Due dipinti perduti!». Scoppiò a ridere, oscillando avanti e indietro come un clown malvagio. «Cristo! Se credi a una cosa del genere, allora credi a tutto!». Bernard Lowe stava ascoltando con attenzione; Rimmer lo sapeva. Qualcosa aveva attirato l’interesse di quel vecchio bastardo. Il nome Harvey Crammer gli diceva qualcosa. Rimmer fissò il semaforo rosso, poi si ricordò di un canadese, molto alto, con la fronte ampia come un campo da calcio e il naso aquilino che quasi si tuffava dentro una bocca larga quanto quella di una rana. Un viaggiatore instancabile con un fiuto infallibile per i “dormienti”. Quel Harvey Crammer. La luce divenne verde, Rimmer inserì la marcia, deluso dal fatto che Lowe avesse interrotto la chiamata. In tutti gli anni in cui aveva lavorato per Bernard Lowe, Rimmer aveva accumulato due cose: la prima, l’odio per il suo datore di lavoro; la seconda, un sacco di informazioni sul mondo dell’arte, informazioni che era certo di poter barattare o vendere. Aveva accompagnato Lowe in tutti i più famosi centri d’arte d’Europa. Ammazzava la noia origliando e, a poco a poco, nomi e fatti sconosciuti erano andati a formare un ben preciso quadro di persone, segreti e soffiate. Rimmer non impiegava più molto ad associare una certa notizia a una persona famosa, oppure un certo pettegolezzo al suo creatore. Conosceva Catrina Hoyt, la sua stazza e le sue mani da macellaio. Conosceva Jacob Levens, l’arzillo ex gran bevitore. E conosceva Harvey Crammer, desiderabile quanto una pallottola d’argento per un lupo mannaro. Era tutto molto affascinante, ma ciò che Rimmer aveva appena udito aveva qualcosa di più: era elettrizzante. Bernard Lowe aveva citato Caravaggio. Rimmer conosceva il pittore italiano. Be’, sapeva quanto valevano i suoi dipinti e che non venivano mai messi in vendita. Guardò di nuovo lo specchietto retrovisore. Se Harvey Crammer aveva parlato di Caravaggio a quel bastardo di Lowe, be’, allora c’era qualcosa di grosso in ballo. Rimmer aggrottò le sopracciglia, pensieroso. Lowe e Crammer erano rivali, due avari collezionisti che si scontravano di continuo alle grandi aste. Quindi come mai il canadese avrebbe deliberatamente fatto una soffiata al suo acerrimo nemico? Che vantaggio ne avrebbe avuto Crammer? Quando si fermarono al successivo semaforo rosso in Barker Street, Rimmer studiò il suo datore di lavoro. Bernard Lowe, dopo aver terminato la chiamata, si era messo a sfogliare una rivista di ceramiche orientali. Solo che Rimmer lo conosceva bene: fingeva indifferenza, ma in realtà stava riflettendo su ciò che aveva appena saputo. Aveva quello sguardo: lo sguardo di un uomo che aveva appena scommesso sul cavallo vincente all’ippodromo. Nove Sulla soglia della stanza del bambino, Bette guardò la nuova culla e le pareti dipinte di rosa. Dovevano riverniciare, un lavoretto che Gil le aveva promesso di fare, ma che lei sapeva sarebbe stato rimandato, perché aveva deciso di lavorare per Jacob. Sospirò, sperando che il caso non fosse troppo complicato. In fin dei conti, Gil l’aveva rassicurata in merito. Uscì dalla stanza del bambino e diede un’occhiata all’appartamento. Era una tipica casa di città nella zona di Battersea, con soffitti alti, parquet, un camino vittoriano e un bovindo. Un affare, così l’aveva definito l’agente immobiliare quando lo avevano acquistato. Avevano stipato al suo interno i mobili ultra moderni di Gil e quelli rustici ma chic di Bette: il risultato era un’accozzaglia di roba, ma la casa era accogliente; la cucina si affacciava su un giardino lungo e stretto nelquale c’era un capanno dove Gil teneva la moto. Raramente la usava, ma Bette l’aveva visto tirarla fuori quella mattina. “È più maneggevole nel traffico”, aveva sostenuto. “Posso muovermi velocemente…”. Vecchia moto. Vecchia vita. Vecchia moglie. Bette non aveva mai incontrato la volubile Holly, di cui aveva ereditato solo un’eco, una costante presenza che le seconde mogli percepiscono sempre intorno ai vedovi. In tutta sincerità, Gil non idolatrava Holly. In realtà ne parlava così poco da suscitare maggiore curiosità. Se l’avesse evocata più spesso, dicendo per esempio “a Holly piaceva questo”, “Holly diceva quell’altro”o “Holly amava visitare questo posto, leggere questo libro o guardare questo film”, per lei sarebbe stato tutto molto più semplice. Ma lui taceva. Così Bette si era fatta una sua idea di Holly. Aveva creato uno scheletro con quel poco che sapeva, e poi ci aveva ricamato sopra un’intera persona. Sul vecchio sito di Holly aveva trovato una sua fotografia che l’aveva aiutata a visualizzarne l’immagine fisica: era castana, con il viso allungato e gli occhi profondi, inconsueti, attraenti. Era evidente che fosse intelligente: per Bette la cosa traspariva dalla fotografia. Il resto se l’era più o meno inventato: Holly doveva essere sicura di sé a letto, orgogliosa e poco consapevole delle sue gambe e braccia allampanate; il suo lavoro come informatica era incomprensibile alla maggior parte delle persone, ma a lei risultava facile. Era una forza della natura. Morta, sì, ma esercitava ancora un potere immenso. E Bette la odiava. Odiava che avesse condiviso con Gil una vita spericolata. Holly aveva conosciuto il vero Gil, aveva fatto l’amore con lui, aveva vissuto nel pericolo, si era goduta gli anni migliori. Lei aveva ascoltato i dettagli degli assassini e delle indagini di Gil, aveva discusso i suoi casi con lui. Non gli aveva mai detto di fare attenzione, perché era lei stessa spericolata. Bette si fermò, vergognandosi dell’odio che nutriva per una donna morta. Non aveva motivo di sentirsi minacciata. Portava in grembo il bambino di Gil. Holly non l’aveva fatto. Lei gli aveva regalato una nuova vita. Aveva vinto. Con lei Gil Eckhart era diventato uno studioso, lavorava a casa, al telefono o su internet, frequentava le librerie. Bette si occupava di lui, lo faceva ridere. Gil era a mille miglia di distanza dal mondo dell’arte e dalle sue macchinazioni. Era al sicuro. Era suo. Eppure…Prima di sposare Gil, Bette aveva chiesto a Jacob di Holly Eckhart. Lui l’aveva conosciuta, ma era stato sempre piuttosto evasivo in merito. «Era diversa», aveva detto Jacob, quando lei aveva insistito. «La gente era affascinata da lei. In lei c’era un potere di attrazione». «Un potere? Che significa?». Jacob aveva esitato. «Viaggiava spesso, era molto occupata, sempre a caccia». «Di cosa?» «Di qualsiasi cosa: esperienze, lavoro, gente. Holly non riposava mai». «Come si sono conosciuti lei e Gil?» «Non lo so», aveva risposto Jacob. «Non me l’ha mai detto e io non gliel’ho mai chiesto. L’ha conosciuta, l’ha sposata e l’ha perduta. Ora, però, ha te ed è su questo che ti devi concentrare. Holly non c’è più». Non c’era più, o meglio…era stata via per un po’, fino a quando Jacob Levens non aveva fatto quella chiamata che aveva cambiato tutto, la telefonata che rischiava di trascinare Gil indietro nel passato…e di riportare Holly in vita. Dieci Ospedale Saint Thomas, Londra Ore 16.15 Avendo ottenuto l’accesso alle informazioni del caso, Gil ora si trovava accanto al tavolo autoptico con il dottor Dunning e osservava il lavoro del patologo a braccia conserte. Era lo stesso uomo che aveva incontrato alla Weir Gallery: sembrava, se possibile, ancora più giovane con quella cuffietta bianca e verde. «Il detective Simmons è in ritardo», annunciò il patologo, «ma mi ha detto che posso parlare con lei. So che avete già condiviso le informazioni e che lei ha letto i miei referti». Gil lo interruppe. «A dire il vero, la polizia me li ha trasmessi in ritardo, perciò non ho ancora finito di leggerli». «Allora che vuole sapere?», gli chiese Dunning. Era sulla difensiva, intimorito dalla stazza dell’investigatore. «I fratelli Weir sono morti strangolati. Il sistema usato è quello della garrota. I loro colli sono stati legati insieme con del fil di ferro, che l’assassino ha poi passato intorno a un pezzo di legno posto vicino a Sebastian Weir. Li ha strangolati tirandolo». «Che mi dice della tortura?» Dunning rimase in silenzio. «Non è la causa del decesso». «Quanto potrebbe essere durata?» «Circa un’ora, forse un po’di più». «Quindi, l’assassino si trovava nella galleria già alle sei o addirittura prima». «Come fa a dirlo?» «Doveva avere il tempo di irrompere nella galleria, atterrare i fratelli Weir e legarli per poi torturarli. Tutto ciò richiede tempo. Jacob Levens è arrivato alle otto e loro erano già morti». “Sarà davvero così?”, si chiese Gil. Era quello che sosteneva Jacob. Poteva darsi, però, che fossero ancora vivi quando il gallerista si era presentato all’appuntamento. Levens magari non li aveva uccisi, ma si era rifiutato di soccorrerli. In fin dei conti era una strana coincidenza che Jacob avesse scoperto i cadaveri, vista la stretta connessione col caso originario di Berlino. Certo, non erano state rinvenute tracce evidenti di sangue sugli abiti di Jacob, ma quanto sangue poteva effettivamente esserci sul corpo di un uomo che non aveva preso parte attiva al crimine e si era limitato a guardar morire le vittime? In passato Jacob era stato un gran bevitore e gli era capitato spesso di ubriacarsi al punto di crollare. Era persino finito in ospedale un paio di volte. E adesso aveva ripreso a bere. Gil si stupì di quanto velocemente avesse ripreso a ragionare come un tempo e di quanto gli venisse facile sospettare di chiunque, anche di un amico. Quella era una delle ragioni per cui aveva smesso di fare l’investigatore privato. Non era stato solo per gli omicidi di Berlino o per la morte di Holly, ma anche perché temeva il cambiamento che stava avvenendo in lui: si stava trasformando in un uomo che disprezzava. «Quanto è difficile rimuovere lo scalpo?», chiese al patologo, riprendendo il discorso interrotto. «Dipende. In questo caso l’assassino sapeva esattamente cosa fare». Gil annuì mentre si guardava intorno: l’ambiente era stato rimodernato con luci al neon, piastrelle immacolate e ripiani d’appoggio in metallo sterile. Assomigliava più a una cucina Ikea che all’obitorio del Servizio sanitario nazionale. Si spostò in direzione del muro più distante e studiò le file di scompartimenti perfettamente allineate. Uno scompartimento per ogni cadavere. Pulito. Igienico. Tristemente familiare. «Non ha alcun senso», disse, parlando più a se stesso che al patologo. «Come può un uomo avere avuto la meglio su due? Come è riuscito a legarli, torturarli e poi ucciderli?». Si voltò a guardare Dunning. «Ha riscontrato tracce di droga?» «No». «Ferite da difesa? Qualcosa che suggerisca che abbiano lottato?» «Come ho scritto nel mio referto», rimarcò Dunning con tono ufficiale, «non ho trovato prove che si siano opposti all’aggressione». «E non le sembra strano?» «Forse conoscevano l’assassino». «E gli hanno permesso di legarli?» «Erano nudi. Forse pensavano si trattasse di un giochetto sessuale», ipotizzò Dunning. «E sono rimasti impassibili mentre qualcuno gli sparava chiodi nelle palle?», chiese Gil, spostando lo sguardo sull’altra parete di fondo, e mettendosi a leggere le etichette sugli scomparti dei cadaveri. «Posso vedere i corpi?». Il patologo annuì. «Il detective Simmons ha detto che devo collaborare con lei». Gil aprì lo scompartimento con su scritto “Sebastian Weir”, poi sollevò il lenzuolo che lo ricopriva. Notò l’incisione a Y, tipica delle autopsie, e quella provocata dalla garrota. Poi studiò il corpo di Sebastian, dalla testa ai piedi, soffermandosi sulle efferate mutilazioni ai genitali. «Quanto sangue hanno perso a causa della tortura?» «Post o perimortem?». Gil si voltò di scatto. «Alcune torture sono state inflitte dopo il decesso?» «Sì, in effetti». «Entrambi i fratelli hanno ricevuto lo stesso trattamento?» «Sì, esatto». «Quante lesioni in totale?» «Otto». Gil annuì, respirando profondamente. Sette anni prima, a Berlino, a Terrill Huber erano stati sparati dei chiodi nello scroto. Otto chiodi. Alma Huber invece aveva dei chiodi conficcati nei seni. Di nuovo otto. Nessuno ne aveva capito il significato. Gil, al momento, ancora non sapeva come interpretarli. Si rivolse di nuovo al patologo. «Come può l’assassino da solo aver avuto la meglio su due uomini? Anche nel caso in cui fosse riuscito a convincerli a spogliarsi e a farsi legare insieme, come ha potuto torturarli senza che loro si opponessero?». Gil tacque per un momento. «I fratelli Weir non facevano sesso. Non giravano pettegolezzi su di loro. Mi creda, la gente lo avrebbe saputo se avessero avuto deviazioni sessuali». «Ma questo è proprio il genere di cose che si tende a tenere nascoste». «Un uomo potrebbe farlo, ma due fratelli?», Gil scosse la testa. «Ne dubito». Ripensò a Berlino ed ebbe la certezza che si trattasse dello stessoDunning. «Ha riscontrato tracce di droga?» «No». «Ferite da difesa? Qualcosa che suggerisca che abbiano lottato?» «Come ho scritto nel mio referto», rimarcò Dunning con tono ufficiale, «non ho trovato prove che si siano opposti all’aggressione». «E non le sembra strano?» «Forse conoscevano l’assassino». «E gli hanno permesso di legarli?» «Erano nudi. Forse pensavano si trattasse di un giochetto sessuale», ipotizzò Dunning. «E sono rimasti impassibili mentre qualcuno gli sparava chiodi nelle palle?», chiese Gil, spostando lo sguardo sull’altra parete di fondo, e mettendosi a leggere le etichette sugli scomparti dei cadaveri. «Posso vedere i corpi?». Il patologo annuì. «Il detective Simmons ha detto che devo collaborare con lei». Gil aprì lo scompartimento con su scritto “Sebastian Weir”, poi sollevò il lenzuolo che lo ricopriva. Notò l’incisione a Y, tipica delle autopsie, e quella provocata dalla garrota. Poi studiò il corpo di Sebastian, dalla testa ai piedi, soffermandosi sulle efferate mutilazioni ai genitali. «Quanto sangue hanno perso a causa della tortura?» «Post o perimortem?». Gil si voltò di scatto. «Alcune torture sono state inflitte dopo il decesso?» «Sì, in effetti». «Entrambi i fratelli hanno ricevuto lo stesso trattamento?» «Sì, esatto». «Quante lesioni in totale?» «Otto». Gil annuì, respirando profondamente. Sette anni prima, a Berlino, a Terrill Huber erano stati sparati dei chiodi nello scroto. Otto chiodi. Alma Huber invece aveva dei chiodi conficcati nei seni. Di nuovo otto. Nessuno ne aveva capito il significato. Gil, al momento, ancora non sapeva come interpretarli. Si rivolse di nuovo al patologo. «Come può l’assassino da solo aver avuto la meglio su due uomini? Anche nel caso in cui fosse riuscito a convincerli a spogliarsi e a farsi legare insieme, come ha potuto torturarli senza che loro si opponessero?». Gil tacque per un momento. «I fratelli Weir non facevano sesso. Non giravano pettegolezzi su di loro. Mi creda, la gente lo avrebbe saputo se avessero avuto deviazioni sessuali». «Ma questo è proprio il genere di cose che si tende a tenere nascoste». «Un uomo potrebbe farlo, ma due fratelli?», Gil scosse la testa. «Ne dubito». Ripensò a Berlino ed ebbe la certezza che si trattasse dello stesso assassino. Il killer lo aveva chiamato, stava convocando coloro che avevano preso parte al suo precedente duplice omicidio. Jacob Levens, il fratello di Alma Huber, aveva ritrovato i cadaveri dei gemelli Weir. Gil Eckhart, l’investigatore di Berlino, era stato chiamato a occuparsi di questo nuovo caso. “Chi manca?”, si domandò Gil, riflettendo. Chi altro era stato coinvolto in Germania? All’improvviso ricordò: Harvey Crammer. Undici New York Ore 10.00 Catrina si asciugò i capelli corti, poi si diresse nel salotto del suo appartamento proprio sopra la galleria, nel cuore di Manhattan. Aveva ereditato la casa e l’attività da suo padre, Frank Hoyt, che li usava per riciclare il denaro sporco dei casinò di Las Vegas, e per ospitare una serie di prostitute. *