domenica 19 maggio 2019


GIUSTIZIA SOMMARIA
Introduzione alla "Storia della colonna infame",di Leonardo Sciascia
ed. Sellerio 
In questa sua introduzione alla "Storia della colonna infame" Sciascia difende la denuncia che Manzoni fa nel suo pamphlet, contro i giudici colpevoli  di aver condannato come untori degli innocenti. Sciascia mette in evidenza quanto, per lui, sia alto il rischio che "cattivi governi" trovino dei capri espiatori cui addossare la responsabilità dei propri fallimenti, così come sia sempre presente anche il rischio di un  "fascismo" che può talvolta manifestarsi sotto forma di una giustizia sommaria. 

INTRODUZIONE
di Leonardo Sciascia
La figura dell'untore, che già si era materializzata nella peste del 1576,[...] ebbe in quella del 1630 una più tragica, moltiplicata e prolungata apoteosi. E non solo a Milano. Ma su quella di Milano, sulle memorie cittadine che ne restavano, sulle carte che la descrivevano, si abbatteva nel secolo successivo lo sdegno di Pietro Verri, illuminista; e ancora un secolo dopo, nel XIX, la non meno sdegnata ma più dolorosa e inquieta e acuta meditazione di Alessandro Manzoni, cattolico.
Più vicini che all’illuminista ci sentiamo oggi al cattolico. Pietro Verri guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni; Manzoni alle responsabilità individuali. La giustezza della visione manzoniana possiamo verificarla stabilendo una analogia tra i campi di sterminio nazisti e i processi contro gli untori, i supplizi, la morte. Quando il Nicolini (che più volte avremo occasione di richiamare per il suo libro su Peste e untori, 1937) dice che "l'istruttoria venne delegata a un Monti e a un Visconti, ch'è quanto dire a uomini di cui tutta Milano venerava l'integrità, l'illibatezza, l'ingegno, l'amore pel bene pubblico, lo spirito di sacrificio e il grande coraggio civile", coraggio civile a parte, e cioè in meno, viene da pensare a quel libro di Charles Rohmer, L’altro, che è quanto di più terribile ci sia rimasto nella memoria e nella coscienza di tutta la letteratura sugli orrori nazisti pubblicata dal 1945 in poi: "una dimostrazione per assurdo, in cui è proprio la parte di umanità rimasta nei burocrati del Male, la loro capacità di sentire ed agire come tutti noi, a dare l’esatta misura della loro negatività" […]. Non si accorge, il Nicolini, che quel di cui c’è da tremare è appunto questo: che quei giudici erano onesti e intelligenti quanto gli aguzzini di Rohmer erano buoni padri di famiglia, sentimentali, amanti della musica, rispettosi degli animali. Quei giudici furono "burocrati del Male": e sapendo di farlo. Che si potesse, come oggi in un laboratorio batteriologico, manufare la peste e diffonderla, intanto era questione controversa. Il Tadino, medico, ci credeva: ma allora non c'era differenza tra uno che si diceva o dicevano medico e una qualsiasi persona colta. Le conoscenze del Tadino, in fatto di medicina, non erano né diverse né superiori a quelle di un don Ferrante: il quale risulta personaggio comico, caricatura, nelle pagine dei Promessi sposi, col senno di poi; ma è, in effetti, il ritratto del Tadino, tal quale. Anzi: il Tadino vedeva la peste scendere dalle stelle e andare a finire nelle ampolle degli untori; don Ferrante invece si fermava alle stelle, e morì prendendosela con le stelle e non cogli untori. Ma contro il Tadino che ci credeva, altri non ci credevano. L'opinione del cardinale Federico Borromeo non era del tutto netta [...].
Non c'è dubbio che il cardinale abbia, sulla diffusione della peste, idee più chiare di quelle del protomedico; ma - senza volere essere irriverenti verso un uomo che non fu sordo alla pietà come alla ragione - si ha l'impressione che, non fosse questione di bottega, crederebbe anche alle unzioni, così come crede agli untori. Ma tra labottega degli untori e la propria, tra lapeste creata e amministrata dagli uomini e la peste inviata come dono-punizione da Dio, il cardinale non può che scegliere la propria, e alimentarle credito. Ammette dunque gli untori: che cioè ci sia stata della gente intenzionata, per dirla manzonianamente, a "spiantare Milano"; ma per squallida e folle operazione di magia, senza averne effettivamente i mezzi. E si poteva l'intenzione, fondata sull'ignoranza e la follia, per quanto malvagia fosse, punire tanto atrocemente? Il cardinale non si pronuncia. Né si pronuncia il Ripamonti, che pure lascia intravedere una più decisa opinione contro la credenza. Ma aveva già passato i suoi guai, col Sant'Uffizio: e da quella esperienza era venuto fuori prudente, circospetto. [...]
Siamo alle solite: la religione e la patria. Abbiamo comunque, nero su bianco, l’opinione di due persone – il presule della chiesa lombarda, l’uomo di lettere ufficialmente incaricato di far la storia di quegli eventi – che non credettero alle unzioni. Quante altre ce ne saranno state dello stesso avviso? Certo, erano persone la cui opinione doveva avere una qualche influenza. Ma in ogni caso, bastano il Borromeo e il Ripamonti a dirci che i tempi non erano così oscuri e che un uomo intelligente e onesto poteva e doveva, specialmente esercitando ufficio di giudice, arrivare se non allaconvinzione del secondo, almeno a quella del primo. E secondo il Nicolini quei due gentiluomini che condannarono i presunti untori, il Monti e il Visconti, avevano ingegno, erano onesti. Due qualità che, nel caso, non potevano coesistere: perché è possibile fossero onesti ma imbecilli: o che fossero disonesti essendo intelligenti.
Ma non c'è causa, per quanto irrimediabilmente persa, che non trovi un suo difensore: anche dopo tre secoli. Contro Verri e contro Manzoni, in difesa dei giudici che avevano torturato e condannato ad atroce morte degli innocenti imputati di un delitto che anche allora, da alcune menti razionanti, era considerato impossibile, ecco levarsi ai giorni nostri Fausto Nicolini. "Fondato sul presupposto che le sole prove effettive di reità raccolte contro gli imputati furono le loro confessioni e denunzie reciproche, strappate con la tortura o la paura di questa, il Verri aveva attribuito l'errore giudiziario, che li trasse a morte tanto orrorosa, all'inconcludente barbarie così di quel mezzo probatorio come dei tempi nei quali era parso naturale e indispensabile, contro i quali tempi, da buon illuminista, egli imprecava. Che, a prescindere da qualche inesattezza nel presupposto, è un esempio cospicuo d'una conclusione totalmente illogica appiccicata a un ragionamento più o meno logico". E qui ci par di capire che la tesi del Verri vien liquidata in nome  del più pedante storicismo; per il fatto che c'erano, l'oscurità delle menti e la tortura nelle istituzioni, non potevano non esserci - e prendersela con quegli uomini, con quelle istituzioni, è come prendersela con un fatto di natura, un terremoto, un nubifragio. Non tiene per nulla in conto, il Nicolini, che il Verri faceva una battaglia; una battaglia che ancora oggi va combattuta: contro uomini come quelli, contro istituzioni come quelle. Poiché il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente, se vogliamo essere davvero storicisti. Il passato che non c’è più – l’istituto della tortura abolito, il fascismo come passeggera febbre di vaccinazione – s’appartiene a uno storicismo di profonda malafede se non di profonda stupidità. La tortura c’è ancora. E il fascismo c’è sempre.Liquidato, di passata, il Verri, Nicolini s'impegna di punto a liquidare la Storia della Colonna Infame. Il suo principale argomento, tutto sommato, non è però che questo: gli imputati avevano, come si suol dire in linguaggio poliziesco-giudiziario, dei precedenti. Non tutti; né, si capisce, in fatto di unzioni. [...] Altro argomento del Nicolini, in discarico ai giudici e a carico degli imputati, è che non tutte le confessioni avvennero avvennero sotto tortura: ma prima o dopo o nelle pause. Singolare argomento, e da uomo che non riesce a vedere al di là delle carte gli uomini, gli individui, i personaggi: la loro estrazione, il loro diverso carattere, la maggiore o minore forza d'animo, la maggiore o minore sensibilità al dolore fisico, la paura in ciascuno più o meno forte, il diverso grado di credulità o di fiducia. E additare l'esempio del giovane figlio del Migliavacca, "che né lusinghe né forza di tormenti indussero mai ad accusare bugiardamente sé e altri" (ma fu afforcato come gli altri), e che gli altri imputati avrebbero potuto seguirlo, è a dir poco ingenuo.
Ma tra tanta, diciamo, ingenuità; tra tanta, direbbe il Manzoni, scarsa conoscenza del cuore umano, c'è nel saggio del Nicolini un breve passo che sommamente ci interessa: "poiché il Manzoni non solo s'ostinò in quel tentativo disgraziato, ma, dopo un'incubazione di circa vent'anni, dié anche alle stampe, rifatta, ampliata e molto accentuata, quella dissertazione infelice, è mai possibile non concludere che in lui il moralismo fosse mille e mille volte più prepotente non solo della logica (violata, come ognun vede, nel modo più palmare), ma persino delle sue credenze religiose?" Quel tentativo disgraziato, quella dissertazione infelice: sono, a dirla francamente, sciocchezze da ricercatore d'archivio intriso di estetica crociana che non riesce a vedere né i fatti nella loro totalità e nel loro significato né l'opera nella sua interna e intera logica e poesia. Ma la domanda finale ha (è il caso di dire: finalmente) un senso; può aprire, a rispondere affermativamente, un discorso. Il moralismo - termine oggi in disgrazia, che come una goccia d'acqua si vaporizza se cade sulle roventi ingiustizie dei nostri anni, e quel breve vapore si dice qualunquismo - il moralismo appunto è in Manzoni molto più prepotente delle sue credenze religiose. E dalla Colonna infame, più che dal romanzo (al romanzo bisogna tornare dopo aver letta l'appendice), questa verità appare in tutta evidenza. In uno scritto del 1927 sui Promessi sposiHofmannsthal ad un certo punto dice: "Questa altissima vitalità, che è anche un culmine di discrezione, viene attuata da una rappresentazione estremamente modesta, penetrante e precisa, che nel tono somiglia a una relazione, che un amministratore (sia egli amministratore di beni terreni o di anime) fornirebbe a uno più alto, per informarlo in maniera veramente precisa perché egli ne possa ricavare un giudizio".
Non sappiamo se Hofmannsthal lesse mai la Storia della Colonna Infame: si sarebbe accorto che non soltanto nel tono ma fondamentalmente, in essenza, è una relazione; e non a "uno più alto" ma a se stesso e ai suoi simili.

(da Introduzione alla "Storia della colonna infame", ed. Sellerio 1981;
rielaborazione di uno scritto del 1973)