martedì 28 maggio 2019


LA SOLITUDINE DEL SATIRO
Ennio Flaiano

Flâneur inveterato, illuminista paradossale e lieve, Flaiano passeggia per Roma e la guarda tranquillamente deteriorarsi. Luoghi comuni, accademismi, velleità, mode e vezzi di una cultura che, sul finire degli anni Sessanta, si parla e sparla addosso sono l’oggetto e il bersaglio di questo libro postumo, straordinario nella sua ilare, fulminante icasticità. Miscellanea di racconti, aneddoti, ricordi, graffianti definizioni e struggenti o disilluse passioni, La solitudine del satiro è attraversato da un sentimento intellettuale che pochi dei nostri scrittori hanno posseduto: l'intelligenza messa al servizio del disincanto, una lucidità che è insieme cinica e malinconica, ma non riesce a velare l’amore per la letteratura e quello, ostacolato, per la vita, che può anche trovarsi in guerra proprio con la letteratura.
  Sempre deambulante fra i generi letterari, giornalistici e cinematografici, poco sedotto insomma dall’architettura chiusa del romanzo, negli ultimi anni, trascorsi ormai i tempi degli «amici del “Mondo”» e di via Veneto, tramontata la stagione degli scambi intensi e folgoranti - Flaiano non rinuncia a posare sul mondo che lo circonda, e che sempre meno gli somiglia, il suo occhio acuto e beffardo di irregolare, di outsider. Alla fine sarà confortato solo dalla propria ironia.

LA SOLITUDINE DEL SATIRO


Un militare chiede un passaggio, mi dice che deve andare a M., quindici chilometri, a trovare la fidanzata. È un bel ragazzo bruno, indolente, con un’ombra di disgusto sul volto, quasi stesse sempre sul punto di vomitare. È ben pettinato, si guarda le unghie, con la bustina si dà due colpi sulle scarpe. Parla con sforzo, sospirando. Mi informa che ogni giorno, alla libera uscita, va a M., dove del resto il suo reggimento tra giorni si trasferirà per il campo. Dopo un mese, nuovo campo a C. Anche a C. il militare ha una fidanzata. Poi, ne ha una a Roma e una al paese. Ma per sposarsi c’è tempo, prima vuol godersi la vita. Dice quest’ultime parole con tale disgusto da farmi credere che stia scherzando. Non scherza affatto. Lo interrogo un po’. È di «vicino Palermo». Gli domando se gli piacciono più le siciliane o le «continentali». Risponde: «Tutte hanno i loro difetti e le loro bellezze ». Insisto: « A quanto sembra lei è fortunato con le donne». Fa una smorfia e dopo un silenzio risponde con decisione: « Egregio signore, sarei fortunato, ma non so parlare. Le ragazze vogliono parlare e io non so dire le barzellette, tutti questi scherzi che vogliono loro. Poi, non so nemmeno cantare, i fatti miei non li racconto, quelli degli altri non li voglio sapere. Allora stiamo zitti e siccome io ho sempre poco tempo perché alle dieci devo tornare in caserma, loro poi si lamentano che sono materiale. Ma a me piace la verità e non posso soffrire le bugie. Se io mi metto con te è per fare l’amore, non per parlare. Per questo mi piacciono le ragazze oneste, che dicono sì o no. Viva la faccia dell’onestà ».
Un silenzio e riprende: « Una volta a C. ero fidanzato con una. Mi aveva giurato che era vergine e onesta. Bene, dissi io tra me, adesso vediamo. Una domenica, prima prendiamo il caffè e poi andiamo a spasso in un boschetto. Mangiamo le caramelle e in una caramella io ci avevo messo il sonnifero, che avevo preso in infermeria. Basta, quella s’addormenta e io allora ho fatto l’ispezione per vedere se era onesta. Non era onesta, egregio signore, se non stavo attento ci cascavo dentro. Quando si svegliò, ci dissi: “Perché mi hai detto che sei onesta e non lo sei? Credi che non t’avrei voluto bene lo stesso?”. Allora lei si mise a piangere e io ci perdonai. Abbiamo fatto l’amore un mese, tutti i giorni, ma i genitori di lei non volevano perché dicevano che i militari non sposano. Gli avrei voluto rispondere: i militari sposano come tutti gli altri, però sposano le ragazze oneste e vostra figlia non è onesta. Ma non ci dissi niente perché ci trasferirono».
Un altro silenzio. Il giovane si passa una mano sul volto e quando la toglie vedo che sorride. È un sorriso agghiacciante, suscitatogli da qualche ricordo. Infatti, riprende: « A proposito di donne oneste, una volta a Palermo fermai una ragazza, andiamo a spasso e ci faccio la corte.
Due giorni dopo, quella mi dice, sinceramente: “Senti, te lo dico subito, così non facciamo brutte sorprese. Io ho avuto un bambino con uno che mi ha lasciato e adesso è finito tutto perché il bambino è morto. Se vuoi seguitare a metterti con me, seguita che io sono contenta, tu mi piaci, sennò dillo subito così non mi faccio illusioni”. Io ci dissi: “Hai fatto bene a dirmelo subito, sei una ragazza onesta, non c’è niente di male a fare un bambino. Tu mi piaci perché hai detto la verità, il passato non conta, seguitiamo”. Signore, ci feci l’amore quattro mesi, poi la piantai. Naturalmente, per precauzione, ci avevo dato il nome e l’indirizzo falso, nome e indirizzo di mio cugino. Ah, signore, le risate quando quella andò a protestare. Mio cugino quel giorno era partito ma, quando tornò, mio zio, che sarebbe il fratello di mio padre, voleva ammazzarlo di botte. E mio cugino non sapeva niente! E io zitto, mi facevo certe risate dentro di me! ». Continuiamo in silenzio. Davanti a un casolare, una ragazza bionda ci saluta con un cenno della mano. Il militare si agita e poiché subito dopo superiamo un camion fermo, si rivolge con grandi gesti, urlando, al camionista: « La bionda ci sta! Sotto! ». E a me: « Se non avessi la fidanzata che mi aspetta, scenderei».
A M. infatti il lugubre dongiovanni scende, di nuovo stanco e pieno di disgusto, lasciandomi a riflettere sulle sue avventure.

A che è servita la lezione di Stalin? A niente. C’è già qualcuno che tenta di instaurare il culto della mancanza di personalità.
Scrive le sue impressioni, sperando che siano poetiche. Fa dunque il trasognato, il meravigliato, il semplice. Se guarda un muro è perché una rosa ci si sta arrampicando. Esce di casa e si accorge che c’è il sole, oppure che non c’è. Se esce di notte, una stella fora le nuvole, oppure grosse nuvole cariche di pioggia passano sospinte dal vento. Va in campagna: trova che il paesaggio muta colore e la città, mortificante, avanza come un polipo, con le sue ultime case. Racconta le emozioni di una comune passeggiata. Si ferma a guardare due bambini che giocano. Una donna canta. Dov’è? Non la vede. Si sveglia nel cuore della notte, crede di essere morto e sente il buio tutt’intorno come una coltre. Per fortuna non è morto. Eccetera.

« Una mattina » dice R. « non avevo sonno e andai sulla spiaggia. Il sole non era ancora apparso e faceva freddo. A cinquanta metri dalla riva, nell’acqua calma, un vecchio pescava telline. Aveva indosso un cappotto militare, in testa un informe cappello e l’acqua gli arrivava al petto. La sua fatica mi apparve in quel momento talmente maledetta che, vincendo un moto di vergogna, lo chiamai, gli avrei pagato io la sua giornata, purché tornasse a casa. Il vecchio sulle prime non capì, poi disse che c’era abituato e continuò. Faceva quel mestiere da bambino, adesso aveva settantacinque anni, avrebbe seguitato sino all’ultimo giorno. Uscì dall’acqua così vestito, le gambe nodose e forti come quelle di un giovane. Depositò la sua pesca in una cesta e rientrò adagio nell’acqua, credendomi un pazzo o soltanto un villeggiante annoiato. Andava avanti, come un vecchio che ha deciso di suicidarsi e quando l’acqua gli arrivò al petto, riprese a pescare, tirando duramente il suo attrezzo. A un certo momento si levò il cappello, si asciugò il sudore e guardò il cielo. Quel giorno stesso mi informai sul vecchio. Era di un paese della Campania, vicino Formia. Ogni anno, verso primavera, si trasferiva qui con altri pescatori, vecchi e giovani, e con i suoi figli. Dormivano in alcune capanne di paglia, nel bosco. Riuscivano a non spendere più di cinquanta lire a testa ogni giorno: per il pane e basta. Non fumavano e non bevevano mai vino. Si alzavano tutti prima dell’alba e ognuno accendeva il suo fuoco, mettendovi a bollire una pentola di fagioli secchi, che portavano, assieme all’olio e alle cipolle, dal loro paese? Pescavano dall’alba sino alle dieci e poi consumavano il loro pasto, ognuno davanti alla propria capanna, senza far crocchi e quasi senza parlare. La sera cenavano con un pezzo di pane. Il resto del tempo lo passavano a vendere le loro telline, che è lavoro altrettanto duro che il pescarle. Con l’avanzare dell’inverno riprendevano la strada del loro paese, per la solita pesca con le barche; e portavano quasi intatti i loro guadagni, che depositavano alla Posta. Questo vecchio ha sempre depositato i suoi guadagni alla Posta, mettendoli anche a nome della moglie. Ora la moglie è morta e bisogna rinnovare i buoni fruttiferi scaduti. Vengono chiamati gli eredi della moglie, i tre figli, suoi compagni di emigrazione e di pesca. I tre figli vogliono le parti uguali, altrimenti non mettono la firma. Dice il vecchio: “Non è giusto. Metà a me, metà a voi”. Ma i figli ribattono: “No, parti uguali”. E non mettono la firma. Così i soldi di vent’anni di lavoro non possono essere ritirati. Ogni mattina, ognuno per suo conto, il vecchio e i suoi tre figli, pescano telline. Se si incontrano, non si salutano. Il pescatore che mi ha raccontato questa storia conclude: “Sono troppo egoisti”».

[«Il Mondo», 17 luglio 1956]


Attori italiani, tutti bravissimi nelle parti di ladro, di prete, di carabiniere. Attrici, tutte bravissime nelle parti di suora, popolana, donna di vita. I guai cominciano quando vogliono fare i signori, le signore, gli artisti, i condottieri, gli industriali, gli uomini politici, i professori, gli scienziati. La crisi delle élites si sente anche sulla scena, sullo schermo.

Niente mi diverte come sentire una commedia inglese o americana recitata da attori italiani. L’attore italiano quando fa, ad esempio, l’inglese, si veste come l’inglese della convenzione caricaturale: giacche a scacchi, foulard al collo, pipa tra i denti, si muove con le spalle rigide. La traduzione del testo aggrava la situazione: « Càspita! » dice l’attore inarcando le sopracciglia. Non è vero niente: a casa sua, in una circostanza simile non esiterebbe a dire: «C...!», battendo un pugno sul tavolo; e questo sempre ammettendo che sia di buon umore.
Perché il teatro « in lingua » non fa né ridere né piangere? Forse perché la realtà della vita supera da noi sempre la fantasia dei commediografi: e la realtà, così com’è, non può essere portata sul palcoscenico se non in dialetto. Fatemi una scena, se vi riesce, in cui la signora X racconta storielle sporche, in italiano, e che non sia volgare. Nella vita, quando le racconta, la signora X non scade di rango. Fatemi una scena di seduzione, in italiano, che non sia comica. Nella vita, riescono benissimo: i protagonisti non avvertono il ridicolo della finzione. Fatemi infine parlare un poeta. Impossibile. Sappiamo che i nostri poeti sono tutti benedetti, sistemati benino, e che il solo poeta maledetto che abbiamo segue il corso delle Montecatini. Quel poeta, sulla scena, se parlasse adeguatamente al suo personaggio ci farebbe sospettare della sua serietà, lo accuseremmo di fanatismo professionale, di esibizionismo. Ecco, non possiamo far parlare i nostri eroi, perché ci farebbero sempre sorridere, e non li stimeremmo mai capaci di grandi azioni, di soluzioni tragiche, di «profondità», mentre nella vita spesso lo sono. A teatro ci andiamo convinti di rappresentare, noi pubblico, una società che agisce « in italiano », mentre in realtà pensa in dialetto. Quanto al teatro di idee... la simpatia che ispira l’italiano medio non è forse nel fatto che non ha idee? Pirandello? Dimentichiamo che Pirandello, la sera della prima dei Sei personaggi, fu inseguito dal pubblico e dovette nascondersi in un portone.

Passo la serata con C. in una trattoria di campagna. C’è una comitiva di campeggiatori accanto a noi. Ridono sempre. Il giovane che diverte i suoi compagni ha l’eleganza di restar serio, anzi gravemente corrucciato. Guarda noi e gli avventori degli altri tavoli con palpebre pesanti, senza muovere la testa, pronto alla rissa. Ha labbra tonde e rosee, una barbetta bionda da navigatore di zattere, un torace grasso e possente. Il suo repertorio è povero, ma questa è la ragione del successo: poiché l’efficacia dei suoi scherzi è solo nella loro ostinata ripetizione. È specializzato in rumori. Non dice una parola, emette suoni, variandoli dal sibilo al miagolio, dal ruggito al rutto. Sa così di essere irresistibile. Passa il cameriere: lo fa voltare di scatto con un grugnito. La radio trasmette una canzone: l’accompagna con brevi ragli. Un signore obeso gioca a ping pong e si china a raccogliere la pallina: è un peto. E siccome si deve chinare spesso, la faccenda si fa irresistibile. Il signore si guarda intorno, la sua sorpresa s’infrange contro il freddo contegno del giovane: tenta di sorridere, dopo un po’ rinuncia a raccogliere la pallina. E se ne va, guardato da tutti come il vero autore di quei suoni. Ora il nostro riso scaturisce da vecchi ricordi di scuola e anche da questo: che il giovane scherzoso definisce i suoi modelli, ne fa delle caricature infantili ma appunto perciò i modelli si riconoscono, sentono oscuramente di essere stati sorpresi e riportati a un’età in cui i soli scherzi efficaci sono quelli che scoprono in noi l’animale.

Riceve i ladri cattolici e tiene loro un discorsetto sul modo di rubare il necessario ai poveri, che hanno bisogno solo del superfluo, altrimenti è la rivoluzione.

Sulla strada della Futa, sui muri, a intervalli regolari: «Viva la Morini», che non è una ragazza del luogo, come ho immaginato per qualche chilometro, rappresentandomi la felicità dei giovani paesani uniti almeno da questo tenero collettivismo erotico, ma una marca di motociclette.
Sulla porta della chiesa di San Petronio, a Bologna: « Per il decoro del tempio è vietato di entrare con biciclette ». Ecco un avviso che sarebbe piaciuto a Stendhal, lui che si meravigliava che in San Pietro, a Roma, due innamorati si scambiassero biglietti. Penso che a Roma potrebbe stupirmi un cartello che vietasse di riparare biciclette in chiesa.

Signor Sindaco, credo ormai di aver capito come si costruisce una strada in un quartiere nuovo, a Roma. Così: si istalleranno dapprima in aperta campagna i pali con il nome della strada che si vuol tracciare, facendo bene attenzione che il nome scelto non abbia nessun riferimento coi luoghi ma sia di mediocre personalità scomparsa da almeno dieci anni e quindi dimenticata. Si costruiranno subito dopo le case della strada (meglio se enormi palazzi a otto piani vivacemente colorati), sempre lasciando intatti i naturali avvallamenti del terreno tra casa e casa, avendo anzi cura che si trasformino in palude nei giorni di pioggia. Una volta abitate le costruzioni (intanto si sarà provveduto ad abbattere tutti gli alberi che deturpano i cantieri edilizi e ostacolano le manovre degli autocarri), si farà uno scarico di materiale pietroso sul terreno riservato alla strada vera e propria. Questo materiale non andrà tuttavia distribuito per tutta l’area, ma sistemato in piccole piramidi, che sarà bene lasciare per almeno un anno al loro posto, per facilitare i giochi dei ragazzi. Trascorso questo tempo si passerà a un livellamento sommario della pista e alla costruzione dei marciapiedi, che dovranno risultare alti circa un metro sul livello della suddetta pista, per evitarne l’uso sconsiderato da parte dei pedoni. L’anno seguente si appresterà infine la strada propriamente detta, con la sua massicciata di cemento e i necessari strati di catrame. Questo lavoro, tuttavia, sarà bene interromperlo a metà, per riprenderlo con maggior lena l’anno successivo e portarlo quindi a termine. Due giorni dopo che la strada sarà stata inaugurata, si renderà utile riaprirla nel senso della sua totale lunghezza per la istallazione dei tubi del gas illuminante. La strada, dopo tale necessario lavoro, che apporterà grande beneficio ai suoi abitanti, apparirà con una marcata gobba nel centro. Non dovremmo preoccuparcene, poiché un mese dopo (in certi casi, una settimana dopo) la stessa strada dovrà essere riaperta per la seconda volta, sempre nel senso della sua lunghezza e con trincee trasversali, per l’istallazione dei cavi indispensabili al trasporto dell’energia elettrica. A questo punto si potrebbe pensare che noi approfitteremmo della singolare circostanza per sistemare definitivamente anche i pali della luce, sui marciapiedi. No, signor Sindaco, tale lavoro sarà bene rinviarlo sempre alla stagione invernale, quando il fango lo renderà più interessante. Comunque, la sistemazione dei suddetti pali precede, per solito, di un mese appena, talvolta di quindici giorni, l’istallazione dei tubi per il deflusso dell’acqua potabile, che richiederà una terza, più vasta e impegnativa, riapertura della sede stradale e il ripristino delle caratteristiche trincee. In certe strade si potrà addivenire a una quarta apertura della massicciata (o dei marciapiedi), per il passaggio dei cavi del telefono. Ma si tratta, signor Sindaco, di strade « signorili»! Nelle strade dei quartieri popolari gli impianti del telefono saranno possibili col ragionevole ritardo di almeno cinque anni. Quindi, per quanto concerne i cavi del telefono, si potrà aspettare che siano avviati i necessari lavori di restauro alla massicciata, con quale economia lascio a lei immaginare. Qualora poi, per renderla gaia e salubre, si volesse adornare di alberi la nostra strada, si provvederà, con un’opportuna riapertura dei marciapiedi, a piantare, a conveniente distanza l’uno dall’altro, arbusti di gerani già, secchi: per evitare sia l’ombra (per quanto piccola possa essere) che questi alberi fanno, sia un’eccessiva vivacità di colori che andrebbe a scapito dell’arcobaleno edilizio. Altri alberi già secchi che potranno essere piantati convenientemente (ma solo nei viali) sono il pino marittimo secco e l’acacia secca. Quest’ultima, signor Sindaco, è forse più consigliabile poiché le sue radici, raggiungendo facilmente i condotti e le tubature poste, come sappiamo, nel sottosuolo, possono danneggiarle e rendere necessaria una quinta, e non necessariamente ultima, riapertura della sede stradale: essendo la sesta per solito riservata all’eventuale istallazione delle fogne.

[« Il Mondo», 16 ottobre 1956]


Siamo in campagna, io e un amico, seduti davanti al cancello della sua casa. Dobbiamo parlare di una storia, per il cinema, e nessuno ha voglia di dire la prima parola, come se a scatenare le modeste immagini che suggeriscono appunto la storia e la sua protagonista, questo nostro pomeriggio perdesse ogni senso e il paesaggio scomparisse. Siamo tutti e due d’accordo nel voler fare una storia vera, con un personaggio vero. Ma che cos’è la verità? Ah, potercene anche noi lavare le mani! E così aspettiamo socchiudendo gli occhi, ognuno sperando che l’altro taccia ancora; o, se proprio vorrà parlare, che accenni a quelle amabili sciocchezze sul tempo, sui primi amori, sugli incontri del giorno prima, che formano, in città, la delizia di queste conversazioni di lavoro. Ora, però, il silenzio diventa sospetto; continuando a tacere si dovrà, una volta per sempre, parlare della storia e della sua immobile protagonista. Anzi, ogni attimo che passa rende più inevitabile una discussione seria. Insieme diciamo: « Sembra che il tempo... ».
Ma, verso ponente, il cielo rosa annunzia una sera calma e stellata: inutile parlarne. Uno sguardo disperato agli orologi e l’amico conclude: « Lavoriamo seriamente un’oretta. Dopo, il paese si animerà, non dobbiamo perderci lo spettacolo». Benissimo, lavoriamo. E dal fondo pigro della nostra immaginazione avanza, ancora informe, ma già diffidente, il volto dell’attrice che aspetta una nostra decisione sul suo destino. « È una ragazza di queste parli» dice l’amico di colpo, con uno sforzo che gli ammiro. « D’accordo » dico. « È una povera ragazza di queste parti, che lavora e vuol andare in città». È un’ipotesi abbastanza probabile. Ci pensiamo su un momento. Ora passa davvero una ragazza. « Non farti accorgere che la osservi, » dice l’amico « ma ti prego di guardarle gli occhi. Dimmi se hai mai visto un paio di occhi simili. Occhi da gatto. Ti mangerebbe, se potesse». La ragazza, infatti, ha occhi molto belli, obliqui, in un volto disfatto dalle sue mediocri avventure. « Pensa, » aggiunge l’amico « io me la ricordo che aveva un fidanzato. Non potevano sposarsi per mancanza di soldi, lei fece un bambino e lui si squagliò». « In città, naturalmente». «Sì, in città. Non si è più visto ».
Silenzio. Ognuno rivive a rapidi balzi la storia di questa ragazza, che sta passando, ognuno pensa che forse un tipo così, per la nostra storia... « Sì, e poi che le succede? » domanda l’amico, come se io fossi responsabile delle molte cose che le possono succedere, tutte ovvie e poco esemplari. Ma già la ragazza si allontana, e con essa ogni fantasia che la riguarda. « Osserva come cammina» dice l’amico, che non ha perso l’ultima speranza. No, è già tardi.
Un’altra ragazza esce dalla sua casa, inforca la bicicletta, si sta avvicinando. « E questa? Pensa, va matta per il ballo, ma proprio matta! Quando attacca l’orchestra nessuno più la tiene, diventa un’altra. Che ne dici? ». Rispondo con un mugolìo. « Sì, va bene, » aggiunge l’amico, prevenendomi « e dopo, che fa? Sposa l’orchestra? ».
Ora passano quattro ragazze, allacciate, parlando fitto. Vedendoci tacciono e una si copre il volto per nascondere un’improvvisa allegria, certamente suscitata da noi. « Si potrebbe » dico « fare la storia di queste quattro ragazze. Vita di paese, sogni, realtà. Lavorano tutte in uno scatolificio. Una è fidanzata, le altre no... ». « O viceversa » dice l’amico, ironico. Cade un lungo silenzio. Un reciproco risentimento per la nostra futile pretesa di adattare la vita degli altri alle nostre necessità ci fa imbronciati. Ah, la vita degli altri, fatta di giorni, uno dietro l’altro, e di cui il succo si coglie soltanto alla fine, e non sempre! Passa una signora: « Fai finta di niente, » dice l’amico « ma guarda che faccia. Indomita! ». E aggiunge, salutando: « Buona sera, signora». Me ne racconta poi le prodezze. E così, per un’ora, i modelli che offriva la realtà ci sfilarono davanti. Noi chiedevamo a essi esattamente quello che essi chiedevano a noi: una storia. Infine, stanchi, decidemmo di riparlarne l’indomani. Non si inventa niente all’aperto. E copiarsi, che mal di testa!

Roberto, calato a Roma per fare l’attore, vaga per la città elegantemente vestito. Incontra un compaesano, avvocato, che gli fa grandi feste e lo invita a cena. Roberto, che non mangia da due giorni, si commuove. Un’ora prima dell’appuntamento eccolo passeggiare su e giù impaziente, sotto il portone dell’amico. La cena si svolge quasi in silenzio, Roberto è troppo occupato a sfamarsi. Una laboriosa digestione lo spinge poi a commuoversi ancora. Trattenendo le lagrime racconta all’amico le sue sfortune e come, in attesa di meglio, stia cercandosi un lavoro, anche umile, purché onesto. L'avvocato pensa, esita, infine dice: « Ci sarebbero le scope ». E spiega: ha assistito un tale, che gli ha pagato gli onorari con una partita di scope; si tratta di un migliaio di scope, di cui dovrà pure disfarsi, ma gli dispiace rimetterci troppo, vendendole all’ingrosso. Se Roberto se ne vuole occupare... « Ma certo! » grida riconoscente Roberto. Venderà le scope! E si inebria per questa umile prova offertagli dal caso. Non si legge di grandi uomini che hanno cominciato anche peggio? Vanno giù al magazzino a vedere le scope: ce ne sono di tre tipi: extra-lusso, piuma e ordinario. Si tratta, dunque, di fare un giro dei droghieri rionali e offrire questa merce a buon prezzo. L’avvocato aggiunge: «Se avessi tempo, lo farei io. Ma non ho mai tempo! ». Roberto ribadisce la sua intenzione di vendere tutta la partita in pochi giorni. Stabiliscono la percentuale e Roberto prende tre scope, una per ogni tipo, e promette che l’indomani farà il primo giro. Chiede solo un anticipo, che gli viene concesso e col quale passa una gaia serata.
La mattina dopo Roberto, a mente fredda, viene assalito dalla vergogna. Uscire di casa con tre scope? E come? Sottobraccio, a spall’arm o semplicemente impugnate per il manico? Che penseranno di lui? Infine l’orgoglio gli suggerisce la più spavalda delle soluzioni: legarsi le scope ad armacollo, come tre fucili; rilanciare sul ridicolo. Che importa se la gente riderà? Anzi, è probabile che questo sia l’unico modo di non farla ridere, di sorprenderla. Dopo qualche minuto, con le sue scope ad armacollo e guardando fisso gli incauti che si fermano al suo passaggio, Roberto è in istrada, e davanti alla vetrina di un droghiere. Qui la sua bella sicurezza lo abbandona. Esita, infine entra. Il negozio è pieno di donnette e il suo ingresso fa cessare di colpo la gaia conversazione. Il droghiere lo scruta con occhi implacabili e gli domanda che cosa vuole. Roberto sorride: «C’è tempo, serva prima le signore» dice galantemente. Il droghiere insiste: vuol servire prima lui. Indicando un pacco di canfora, Roberto dice: « Me ne dia un etto ». Finge di incantarsi a guardare gli scaffali, spera che le clienti lo lascino solo; ma il droghiere non lo perde d’occhio e lo serve subito. Paga, deve uscire. Una volta fuori, si prenderebbe a schiaffi. E vuol fare l’attore, salire su un palcoscenico, recitare davanti a un freddo obbiettivo!
Al diavolo la vergogna! Il suo aspetto elegante non è forse la migliore garanzia che lui non vende abitualmente scope? Rientra di corsa nel negozio e, sbadato, con i manici delle scope rompe il vetro della porta. Resta sopraffatto a guardare la caduta degli ultimi pezzi di vetro, mentre il droghiere, più sorpreso di lui, e con una voce in cui, nell’ira, vibra una disperata curiosità, gli urla: « Ma che voleva fare? Che voleva fare? ». E Roberto, irritato con se stesso e quasi piangendo, fa spallucce, imbronciato: « Ma niente! Volevo vendere una partita di scope! Che c’è di strano? ». Ma già dicendo queste parole egli sente che ha sbagliato tutto nella vita, ha sbagliato anche nella scelta della sua carriera d’attore: perché un attore che vuol vendere scope (e alcuni ci riescono) deve avere almeno l’accortezza di vestirsi da venditore di scope, per passare inosservato.

In giro con F. sul Monte Amiata, sui luoghi dove predicò Davide Lazzaretti. Arriviamo in un borgo nitido, spazzato dal vento, interroghiamo un vecchio: dove troveremo una trattoria? Il vecchio ci guarda sorridendo e si confonde a risponderci: fa schioccare le dita, un momento e darà la risposta. È un vecchio molto povero, indossa abiti rattoppati e una scoppoletta con la visiera, che sfodera già il cartone. Tuttavia non si può scambiarlo per un mendicante: il suo sguardo chiaro testimonia di una vita difficile, ma innocente e alla pari. È solo la sorpresa che gli impedisce di esserci d’aiuto, tanto poche sono le occasioni di fare quattro chiacchiere.
Ci indica, infine, la prossima piazzetta, vorrebbe andare avanti a farci strada; lo ringraziamo. Eccoci, contenti per quest’incontro, nella trattoria. È una povera mescita con due tavoli, ma così familiare, che la nostra gaiezza aumenta e ci porta a trovare tutto bello e piacevole. Il cibo è ottimo, ci serve una ragazza che è diventata rossa e che, quando può, si ravvia di nascosto le vesti e i capelli. Poco dopo vediamo il nostro vecchio passare davanti alla porta, scrutare oltre i vetri. Entra e siede all’altro tavolo, tenendosi sull’angolo. Senza che chieda nulla, la ragazza gli porta un piatto colmo di roba: un mischietto. È chiaro che non ha diritto di scelta, per quel che può di solito pagare. Mangia piano, tentando di afferrare un nostro sorriso; per guardarci, rischia di infilarsi il cucchiaio nelle orecchie. Poiché indugiamo a tavola, presi dal benessere di quella calda atmosfera, il vecchio, che ha terminato il suo pasto, se ne va, salutando tutti. Scambia un nostro gesto per un invito a stringerci la mano e si precipita a stringerla. Un’improvvisa timidezza (forse ha capito lo sbaglio) lo fa indietreggiare, rovescia una sedia, ride e si scusa.
Eccoci ora fuori anche noi nella piazzetta a guardare il panorama, presi da una felicità sempre più irragionevole. Il vecchio incrocia ed è chiaro che sta lì ad aspettarci. Fa il distratto, finge di non vederci, per trovarsi sul nostro cammino. Giriamo in modo da poterlo incontrare e finalmente ci urta. Ha un sobbalzo, scoppia a ridere e la domanda che gli cuoceva da tempo gli viene subito nitida alle labbra, come se temesse di scordarsene: « Siete rimasti contenti? ». E poiché lo rassicuriamo, tutto è andato benissimo, ha un sospiro di sollievo.
« È un buon locale » dice serio. Poi: « Se vi trovate ancora a passare di qui, chiedete di me».
E aggiunge: « Io veramente non sono di qui, io abito su quella montagna ». Ce la indica. « Non proprio in cima, » e ride « là dove sono quei faggi». «Solo?». Il vecchio annuisce: chiaro, chi ci starebbe, lassù? Chi può vivere, lassù, se non un vecchio innocente, che la sera scende per guardare qualcuno e girare attorno alle macchine, per leggerne la targa e confortarsi almeno di questo?
La macchina è già in moto quando si ricorda di non averci detto il suo nome. Ci rincorre: « Chiedete dell’Arittimetica! Sono io! » e il vecchio apostolo lazzarettiano resta a guardarci, agitando la mano finché non ci vede imboccare la prima curva; senza supporre che la sua apparizione, la sua sorveglianza, quel suo bisogno così scoperto di amicizia e di amore, ci hanno dato questa gioia calma, questa fiducia improvvisa nella sera che sta per scendere, che lui non può certo immaginare; o che, se lo potesse, gli sembrerebbe uno scherzo.

[«Corriere della Sera», 23 ottobre 1956]


Dopo i sogni tranquilli e ormai prevedibili della notte, il risveglio porta sul mio letto le sue minacciose simbologie, nei sogni più abbietti che la posta e i giornali mi suggeriscono. Ecco il pittore che manda un invito alla sua mostra e sul catalogo fa stampare un suo quadro: in quale incubo ho mai potuto vederne uno simile per agghiacciante inutilità? L’occhio, ancora debole e ferito dalla luce, beve questa visione e un brivido mi raggiunge sotto le coperte, un brivido tanto più assurdo se penso che sono sveglio, ben difeso dalle quattro mura, dal pavimento e dal soffitto, e non sto vagando nel limbo della notte. Seguono altre lettere, tutte oniriche: una partecipazione di nozze, un’altra mostra, la minaccia di dover vedere un brutto film, il catalogo di un magazzino, un amico di infanzia che mi ricorda ancora, tre mostre, un congresso, un calendario-omaggio che mi annuncia l’anno prossimo con la crudeltà di un creditore impaziente! E poi, i giornali. In quale torpido sogno vegliato dallo scirocco ho mai vissuto attimi più densi di paura e di pietà, per me e per i miei simili, di quelli che vivo ben sveglio leggendo di stragi familiari, di omicidi efferati, di pazzie inevitabili, di disastri collettivi? E ogni particolare, proprio come nei sogni di una volta, è precisato ad arte! Nomi, sesso, età, le ultime parole, le ultime convulsioni! Spesso è tanta la pena che non reggo e mi riaddormento con un grido, cercando conforto tra i miei sogni innocui, che non vanno più in là di un’ipotesi o di un desiderio; sogni che purtroppo scivolano come le ombre, pudicamente, ai più fitti rumori della strada che si risveglia, e che vuol vivere.

«E dopo questo suo primo omicidio, che ha avuto tanto successo, che cosa ci sta preparando di bello? ».
« Be’, veramente... ».
« Non ha proprio nessun progetto? ».
« Oh, sì, realizzare una vecchia idea, una strage, ma è prematuro parlarne».
« Grazie. Siamo certi che lei saprà anche in questa prova essere all’altezza della sua fama. E ora, per finire, desidera salutare qualcuno? ».
« Sì, prima di tutti desidero salutare la Magistratura, poi la mia cara mamma. Ciao, mamma! ».

Sono abbastanza vecchio per ricordare le prime dimissioni di Enrico De Nicola e abbastanza giovane per poter passeggiare in via Giovanni Giolitti.

Il celebre cavallo non farà nel suo primo anno di riproduzione più di ventiquattro monte. Nei due anni successivi farà ogni anno quaranta monte. Ogni monta costerà circa due milioni. Un allevatore americano ha telegrafato impegnando tutte le monte del primo anno. Il padre del celebre cavallo montò regolarmente fino ai vent’anni di età, per un totale di circa novecento monte. Non è detto però che ogni monta del celebre cavallo dia per risultato un puledro altrettanto in gamba. Ciò dipende anche dalla fattrice, dai suoi organi riproduttivi e da come si svolge la monta. Eccetera. Insomma, l’interesse che suscitano i futuri amplessi di questo cavallo giustifica che le suddette monte vengano fatte in pubblico, possibilmente nei giorni festivi e in uno stadio. Ci si potrà arrivare se una parte del ricavato andrà a beneficio di... di chi? Oh, qui prevedo una lotta. Sarebbe anche opportuno che il celebre cavallo venisse eletto senatore, tanto per rifarsi a un periodo della storia romana che noi stiamo ricalcando con la migliore approssimazione.
« E ci dica, signorina, lei è stata sempre così bella, anche da ragazza? ».
« Oh, no, da ragazza ero piuttosto bruttina, tanto che i miei decisero di farmi studiare. Frequentai così tre anni di scuola media, ripetendo per guadagnar tempo, finché a sedici anni migliorai fisicamente».
« E questo le permise di abbandonare gli studi e di darsi alla prostituzione».
« Sì, infatti ».
« Dunque possiamo dire che anche lei ha dovuto lottare per affermarsi! ».

Un corridore automobilista scrive un articolo dando consigli sul modo di guidare l’automobile. Raccomanda per esempio di non prendere le curve contromano e di tenersi sempre nella propria carreggiata « soprattutto perché è più elegante ». Elegante! Ecco la parola, l’argomento che cercavo da tempo! Sì, perché l’eleganza è il solo nostro affanno. Accettiamo ogni riserva sulla nostra condotta ma un sospetto sulla nostra eleganza ci turba e ci offende profondamente. Oh, poter applicare questo metodo di critica ai ladri, agli assassini, ai truffatori, stabilire una volta per sempre che rubare non è elegante, assassinare non è elegante, truffare è sommamente inelegante. Quando i reprobi saranno colpiti non dal disprezzo dei moralisti, che anzi li eccita, ma dal velato sdegno delle persone eleganti, il più sarà fatto, potremmo sciogliere anche il corpo di polizia; che del resto ha dimostrato di capire le vere esigenze dei tempi, adottando proprio in questi giorni una nuova divisa, molto elegante.
Se il proprietario di un cinematografo, trovandosi nella necessità (facciamo un’ipotesi disperata, anzi il caso limite) di comprare un libro, entrasse da un libraio e, dopo aver chiesto il titolo che desidera, si sentisse rispondere: « Signore, lei lo avrà, anzi la preghiamo di versarci subito il prezzo del volume; ma, prima di immergersi nella lettura, voglia porgere un orecchio attento alle nostre seguenti declamazioni»; e fosse costretto, pena la perdita del denaro versato, ad ascoltare seduta stante: a) un estratto del prossimo romanzo di un autore ch’egli detesta; b) un poema sulla lavorazione del cioccolato; c) un sonetto sull’eccellenza di alcuni detersivi derivati dalla lavorazione del petrolio; d) una cronaca commossa e gioiosa degli avvenimenti poco interessanti della settimana scorsa, quali: l’inaugurazione di una brutta chiesa, una fiera di bestiame, un discorso di personalità politica al governo, una partita di foot-ball e una festa di matricole universitarie; e quindi, dopo un breve intervallo: e) una lirica a colori sulla costiera amalfitana; f) un certo numero di indirizzi di negozi; g) un’illustrazione dei vantaggi che gli verrebbero dall’uso di aspirapolvere, e infine: h) un disco con tre canzoni napoletane: se quel proprietario di cinema dovesse - dunque — ascoltare per mezz’ora queste e altre simili declamazioni prima di entrare in possesso del suo libro, che ha già pagato e per avere il quale si è spinto nella libreria, solo perché il libraio ricava un certo utile dalle sue estrose imposizioni, non avrebbe egli forse il diritto di gridare morte ai librai e di staccarsi dai piaceri della lettura? Certamente, e chi oserebbe dargli torto? Né, d’altro canto, lo sconsiderato libraio potrebbe lamentarsi se, così facendo, i suoi clienti gli disertassero decisamente la libreria, preferendo spendere il loro denaro nei cinematografi, dove queste soperchierie non sono ammesse.

Come Lady Chatterley che, di un bosco, la cosa che più la colpiva era il guardaboschi, così la nostra cronaca vede, della vita, solo le passioni. La pietà dei cronisti è dalla parte del sentimento e del sesso. I nomi sui quali da anni insistono sono ormai un cielo zodiacale di costellazioni fisse, ogni mese spinge avanti il suo, che vorremmo dimenticare; ma non è possibile. Oh, il ritorno periodico di questi nomi! Io non li scriverò, essi mi suscitano un sospetto persino ortografico, ma li so a memoria, come tutti. Dimenticheremo il nome dei nostri maestri, il nome della persona che amammo per un giorno ma non i nomi di questa turpe combriccola, i loro sorrisi, la loro volgare sicurezza, che traggono dal semplice fatto di sopravvivere, impuniti, e che quindi sfida ogni critica. E come potremmo, del resto, dimenticarli? I giornali stanno all’erta e a ogni nostro indizio di stanchezza raddoppiano la pietà. Lo stesso giornale che ha stampato cento fotografie della signora assassina, oggi lamenta la pubblicità che essa vuol farsi: e stampa, all’uopo, la centunesima fotografia. Da qui il disgusto che ci ispirano le facce troppo fotografate: in ognuna di esse può nascondersi il nostro incubo di domani.
A chi può interessare.
« Veniamo alla nostra ultima domanda: per trenta denari Lei deve dirci dove si trova ora esattamente Gesù il Nazareno». «Nell’orto di Getsemani ». « La risposta è esatta! ». (Applausi). «Andiamo, guardie!». (Escono).

Sguazziamo nel disgelo. Le statue di neve di Stalin, con la pipa in bocca e la scopa sotto-braccio, si squagliano al primo sole. Gli scultori, che imponevano ai cittadini di adorarle, ora si tirano palle di neve sporca tra di loro, aumentandone il peso con un sasso. Uno di essi provoca un passante: vuole il dialogo. E dimostrare, con questo dialogo, che loro hanno sì avuto torto, anche se per motivi interni dovevano sostenere di aver ragione; ma che d’ora in avanti tutto cambierà e che avranno dunque sempre ragione.

[«Il Mondo», 30 ottobre 1956]


Signor Direttore,
Collaborando al Suo giornale con queste note di diario mi sono fatta una piccola e riprovevole fama di uomo forse intelligente ma arido. La verità è il contrario: sono certamente un cretino, ma umido. Debbo infatti ammettere che credo ancora nelle idee che mi sono state inculcate da ragazzo, sui banchi della scuola, e non saprei non dico tradirle, ma nemmeno immaginarne altre che le sostituissero: segno quindi che sono inadatto ai tempi, i quali richiedono versatilità e immaginazione. Io credo, per esempio, nella Libertà e di questo vorrei parlarle. Uno dei momenti più felici della mia disordinata giovinezza fu quando lessi questa semplice frase, che mi spiegava tutto il mio amore: « La Storia è storia della lotta per la libertà». Quest’amore per la parola Libertà non sopportava aggettivi né associazioni: io non volevo una libertà sorvegliata, difesa, personale, intellettuale; né gradivo che le si accoppiassero concetti, altrettanto nobili, come Giustizia e Democrazia, parendomi che la libertà li contenesse tutti, anzi li proteggesse. Quest’amore per la libertà è l’unico errore giovanile che io non rifiuto e che condiziona tutti i miei errori di oggi. Ma poiché questi errori mi aiutano a vivere, mi rendono anzi la vita sopportabile, io li difendo. Ora che le ho fatto il quadro abbastanza desolato e povero della mia filosofia, siamo maturi per giudicarla. Purtroppo, dovremo prendere le cose un po’ alla larga e ripetere argomenti ovvi, ma possiamo permettercelo.
Da tempo il mondo ha in sospetto la Libertà; e i popoli, attraverso i loro rappresentanti, fanno di tutto per darle un altro nome, meno risibile: col risultato che ideologie contrarie e opposte vengono chiamate con lo stesso nome, portando la confusione delle idee a quel punto critico che impedì ai costruttori della Torre di Babele di proseguire la fabbrica. Ma che cos’è questa confusione di idee se non una delle prove più smaglianti dell’esistenza della Libertà e del poco rispetto di cui viene circondata? Lei potrà rimproverarmi che la Libertà che io amo è una pura astrazione e che con argomenti simili non si costruisce il mondo di domani, anzi se ne distruggono i progetti. Perché amare una parola, per se stessa, non porta a nulla, se non a un’adorazione assurda, lontana dalla vita e dal suo svolgersi, quindi dalla Storia.
Io dunque, limitandomi ad un culto privato della Libertà, non sono inserito nei miei tempi. Vorrei cavarmela, insomma, e salvare la faccia, amando la Libertà: impegno che non mi costa nulla, perché l'amiamo tutti ovviamente, anche se ognuno dandole un diverso scopo e significato. Per difendere questa Libertà che io dico di amare, io dovrò invece definirla, darle un programma, rifletterla nei miei scritti, farle dei proseliti. Ebbene, direi di no. Questo mi sembrerebbe il più assurdo dei disegni perché io penso (guardi fin dove giunge il mio amore) che la Libertà è una forza vitale che può essere oscurata, mortificata ma non soppressa e che ogni uomo, in un preciso momento della sua vita, impara veramente ad amarla; ma che pretendere di anticipare questo momento è avventato, anzi illiberale. La Libertà, voglio dire, per alcuni è un dono, che trovano sul cuscino nascendo, portato da un benefico caso, per altri è una conquista, che tentano - qui è il punto — di ostacolare essi stessi con tutte le loro forze, di rifiutare con ogni argomento, dal più facile al più capzioso, dal più onesto al più politico. Noi della nostra generazione, signor direttore, abbiamo avuto il privilegio (non diciamo triste, perché da esso tiriamo le nostre poche soddisfazioni) di credere subito nella Libertà e quindi di poter prevedere quello che sarebbe accaduto, molto prima che realmente accadesse. Povere Cassandre in un mondo mobilitato per le guerre, stimiamo un vero successo l’essere sopravvissuti alle nostre facili profezie sul trionfo finale della Libertà. Noi eravamo tra i pochi, anzi pochissimi, che nel settembre del ’39, quando la guerra scoppiò, sapevamo l’intreccio della tragedia e volentieri avremmo saltato i primi quattro atti per arrivare al quinto, poiché era nel quinto atto che entrava in scena il nostro amato personaggio, con la fiaccola in mano. Noi fummo quei pochi che ridemmo (un riso ben amaro, ma del resto non si poteva piangere) quando Mussolini, dall’alto del suo balcone, disse che l’entrata in guerra dell’America lo lasciava perfettamente indifferente. Noi pensammo, allora, che restare indifferenti a tale notizia era il segno che la Libertà rende ciechi coloro che vuol perdere. Col volgere degli anni ci toccò fare altre profezie, tutte malinconicamente esatte, e dalle quali non c’era da tirar vanto, perché si trattava sempre della prima profezia, che doveva esaurirsi. Tuttavia, l’essere restati fedeli a quell’idea ci ha attirato dapprima il disprezzo e infine l’odio di coloro che, adattandosi giorno per giorno alla realtà apparente (e quindi mendace), finiscono per dimenticare che c’è una realtà superiore, che muove i popoli e gli avvenimenti, e che questa realtà è una scienza esatta, coi suoi postulati, teoremi e corollari che si chiama... ma sì, ripetiamolo, che si chiama Libertà.
Un tale disprezzo ha finito talvolta per inorgoglirci. Nelle lotte dei popoli, come in una sinfonia che ormai conosciamo a memoria, finito il chiasso degli ottoni, sappiamo che gli archi riprenderanno il semplice enunciato del teorema, che ispirò il musicista e per dimostrare il quale egli ha dovuto appunto scrivere la sinfonia, anche eccedendo in sonorità e interpolazioni. Noi guardiamo oggi ai paesi d’oltre cortina. Pochi anni sono bastati a quei popoli per dimostrare, per assurdo, il nostro teorema: una dimostrazione tanto facile, che quasi ci sgomenta, perché non l’avevamo prevista così rapida. E benché sappiamo che quei popoli saranno ancora per lungo tempo sottomessi al giogo che hanno accettato pieni di speranza, sappiamo anche che oggi lo trovano innaturale e che una luce si sta facendo strada nel loro ragionamento. Questo ci basta. Perché la Libertà ha un sapore che non si dimentica facilmente e che spinge a tutti gli eccessi coloro che ne restano privi, o che se ne sono voluti privare nella certezza di poterne fare a meno. Noi ora aspettiamo l’evoluzione di questi eccessi.
A questo punto lei, pur convenendo col mio modesto ragionamento, mi pregherà di volerne tirare il succo, per quel che ci riguarda. Giusto. Noi siamo un popolo in pace con la Libertà, siamo un Paese libero, con una stampa libera e un Parlamento liberamente eletto. Ma la Libertà per noi, ottenuto il suo primo successo di curiosità, è oggi divenuta una realtà talmente quotidiana che quasi ci infastidisce con i suoi eccessi e della quale talvolta elenchiamo i difetti. Pretendiamo anche che ci dia tutto, col nostro minimo sacrificio, la consideriamo come qualcosa di estraneo, un Ente, di cui qualcun altro farà le spese. Non siamo ancora riusciti ad accettare questo postulato, il più importante di tutti: che la Libertà siamo noi. Ci consideriamo staccati da essa, non più suoi amanti, ma padroni e già in quel pericoloso stato d’animo di insoddisfazione che una fedeltà troppo facile e alla lunga pesante istilla nei coniugi: « Faute de mieux nous couchons avec la Liberté ». Per noia, arriviamo ad augurarle la morte o almeno una malattia grave. Così, oggi, in ogni italiano sonnecchia un infedele, pronto a sottomettere « temporaneamente » la Libertà, per poterla restaurare, abbellire, ampliare, completare. Abbiamo da una parte il forte partito comunista che ha per disperato scopo di spiegarci, con un ritardo di dieci anni, quel che ci succederebbe se si istaurasse qui un governo comunista: come se noi non lo sapessimo. Ma questa eventualità non ci preoccupa. Il partito comunista noi lo rispettiamo non per le conclusioni alle quali vorrebbe arrivare e alle quali non arriverà mai, ma per il semplice fatto che esiste. Oggi il comunista è un partito conservatore e reazionario, che non vuol fare rivoluzioni e si accontenta che gli altri partiti lo credano capace di farle. E i pochi futuri amanti della Libertà che l’avvenire ci riserba oggi soffrono la loro crisi proprio nelle file di questo partito.
Dall’altra parte abbiamo un partito confessionale-economico, talmente vasto che lo si potrebbe scambiare per la volontà degli italiani, se non sapessimo che a dirigerlo è una volontà che ha sempre avversata l’idea stessa di un’Italia libera. Questo partito, fortemente involuzionario, dovrà ricorrere alla rivoluzione per mantenersi al potere e scacciare quella libertà che sa di eresia e puzza di zolfo. Non credo, signor direttore, che nessun altro Paese al mondo si trovi in una simile assurda e antistorica situazione: i due partiti più forti del nostro Paese non amano il loro Paese, non lo amano cioè libero, ma occupato, da loro beninteso, per poterlo rendere degno di questa Terra o di quel Cielo.
C’è da chiedersi: come si è potuta creare una situazione tanto assurda e pericolosa? La risposta è una sola: il nostro sospetto per la Libertà. Noi non abbiamo ancora esaurito tutto il disgusto per una Libertà che non volevamo, che ci è stata imposta dagli avvenimenti e che usiamo a consumazione, aspettando che si esaurisca. Noi italiani odiamo la Libertà; e la prova maggiore che io porto a sostegno di tale tesi è il gran numero di monumenti eretti nel nostro Paese ai martiri della Libertà, che sono sempre morti per difenderla.Noi amiamo la Forza e la Libertà sta sempre dalla parte dei deboli, che muoiono.
Se oggi voglio trovare una persona che condivida il mio stesso totale amore per la Libertà debbo, signor direttore, interrogarne duecento: questo ci dicono le statistiche. Dunque la mia posizione, come sembrava in un primo momento, non è affatto comoda, potendo io restare senza interlocutori, quasi isolato, facilmente deriso e probabilmente morto.
Né ci resta il conforto d’aspettare le rivoluzioni. Le rivoluzioni che l’Italia può oggi permettersi e che fatalmente si permetterà, sono di ripiego, timide, rivoluzioni approvate dallo stato, fatte con l’aiuto dello stato e dirette contro la Libertà, ma proclamate in nome della Libertà: un sinistro pasticcio. Da qui il mio sentimento verso la Libertà, che io amo senza illudermi di poterla sposare, sapendo anzi che dovrò prepararmi ad un’altra (ventennale?) relazione clandestina: una relazione disapprovata da tutti, in alto e in basso, a destra e a sinistra.
Questo dunque il mio impegno che, dandomi una certa lucidità nel giudicare gli avvenimenti, mi spinge a fare della Libertà un culto privato, personale, nient’affatto arido (perché mi sorregge la speranza di essere imitato dalla maggioranza degli italiani) ma purtroppo cretino (perché la maggioranza degli italiani ha altro a che pensare).

[«Il Mondo», 6 novembre 1956]


« La crisi dello spettacolo » disse l’Imperatore entrando nella vasca « si può definire economica o di saturazione di idee? ».
Caio Sestilio, prefetto agli spettacoli pubblici, a cui la domanda era rivolta, cavò di tasca un rotolo e disse: « Io penso, o divino Cesare, che la verità sia nel mezzo: saturazione economica di idee. Del resto, ho qui la mia relazione sull’argomento, se vuoi posso leggerla».
« Ti ascolto » disse benevolmente l’Imperatore, sguazzando nell’acqua. Caio Sestilio incurante, anzi lusingato, degli schizzi, che ogni tanto lo raggiungevano, cominciò a leggere: « Quando tu salisti al trono, divino Cesare, lo spettacolo languiva. Tollerati i Cristiani, ignorati i buffoni, arruolati i gladiatori nelle legioni, non ancora usciti dal nulla i mimi, tutto ciò che i tuoi sudditi potevano sperare per svago e godimento spirituale erano le corse di bighe, le gare di atletica, qualche tragedia di ambiente repubblicano. Tu facesti, al tuo cenno magico, fiorire le arene, i teatri e i circhi; e indegnamente me ne nominasti prefetto. Tu cogliesti dalla Natura le espressioni più vive di lotta, chiamasti a te gli inventori di macchine, i poeti, i drammaturghi, i suonatori e gli impresari. Le fiere entrarono nelle arene e i romani conobbero le foreste dell’Africa; i danzatori accorsero e i romani vissero negli splendori del Medio Oriente; si moltiplicarono le mime e il culto della bellezza, già greco, fu romano. I buffoni distrassero il popolo, i drammaturghi lo esaltarono, i gladiatori lo ammonirono. Ripresa giustamente la persecuzione dei Cristiani, assistemmo a stragi che nessuna mente umana avrebbe potuto immaginare, così sapientemente variate. Tanta fu la verità di questi trattenimenti, che non potemmo, o Cesare, sottrarci all’accusa di voler fare del realismo a tutti i costi».
« Ma che cos’è questo realismo » interruppe l’Imperatore « se non la sublimazione più audace ed evidente della nostra realtà? ».
« Giusto » disse Caio Sestilio. « E difatti il nostro spettacolo corse nel mondo, le sue forme sedussero, furono imitate. Se, però, nel nostro realismo c’era un neo, questo fu la facilità delle infinite applicazioni che permetteva, rozze e volgari, farsesche e patetiche, che ne indebolirono, col dilagare, la forza. Tuttavia l’incasso globale degli spettacoli, che nel primo anno del tuo reggimento fu di milioni 3,1, salì nel quarto anno a milioni 15,7, con un aumento del 500 per cento circa. E in queste cifre non vanno inclusi gli incassi di quegli spettacoli politici, fondati sui Cristiani, che vennero dati a scopo benefico. Oggi, a dieci anni di distanza, le cifre sono purtroppo diverse: milioni 6,8, con una diminuzione del 250 per cento rispetto alla punta massima del quarto anno. E bisogna notare che nel frattempo il costo medio del biglietto è aumentato del 180,2 per cento!
« A che, dunque, dobbiamo questa crisi, che fa tremare gli impresari, irrigidisce i mimi e i buffoni, indirizza i gladiatori verso la politica, scontenta i tecnici, imbaldanzisce i Cristiani e allarma lo stesso pubblico? Si deve forse, o Cesare, all’eccesso di realtà che noi abbiamo voluto? Spinta al massimo l’audacia dei nostri temi, essi invece di colpire lo spettatore gli fanno desiderare sempre nuovi e impossibili eccitamenti? Certo è che se dieci vittime potevano bastare, ieri, a decretare il successo di una strage, oggi il pubblico ne vuole centinaia, e divise per categorie. Ho sentito con le mie orecchie due giovani commentare così l’odierno manifesto del Colosseo: “Trenta ragazze ai leoni? Ancora ragazze! Che noia!”. Ho riportato questo giudizio plebeo per avvisarti che è condiviso dalla classe dirigente. La noia: ecco il sentimento che ormai suscitano le nostre invenzioni più sottili e sfrenate.
« Ma un altro fattore alimenta la crisi, o Cesare, anzi è la crisi stessa: il fattore economico. L’evoluzione dello spettacolo ha creato dal nulla un’industria dello spettacolo, che ora si dibatte nei debiti e chiede aiuti. È accaduto a quest’industria come a certi enti pubblici che, nati per alimentare le casse dello Stato, alimentano esclusivamente se stessi e chiedono anzi, in virtù della loro assurda esistenza, sempre nuove elargizioni».
« Non durerà molto » disse l’Imperatore insaponandosi. « Proprio ieri ho creato un ente per la soppressione degli enti superflui».
« Io penso » continuò Caio Sestilio « che gli eventuali aiuti dello Stato non aiuteranno lo Spettacolo, bensì l’industria dello Spettacolo, che è qualcosa di molto diverso e di molto meno divertente. Ho il sospetto che le nostre sovvenzioni faranno respirare sì gli impresari, ma sbadigliare con più forza il pubblico. E saranno pronti gli impresari, una volta concessi questi aiuti, a fare migliori spettacoli e a diminuire il costo medio del biglietto, proprio oggi che i teatri e le arene si vuotano? Io ne dubito, o Cesare. Non possono permetterselo, perché nel frattempo sono aumentati i costi di produzione e un mediocre gladiatore, per un paio di vittorie che abbia riportato, non si concede oggi a meno di una cifra che ieri sarebbe bastata a comprare l’intera sua famiglia. I mimi, che un rapido successo di volgarità ha insuperbito, non partecipano a spettacoli se non si garantisce loro un 20, persino un 30 per cento dell’incasso lordo. E il guadagno degli impresari? Non parliamo, o Cesare, di ciò che gli impresari (e mi riferisco alla legione degli inetti, pullulata nell’inflazione) intendono per onesto guadagno: una fortuna. Gli è che essi non si preoccupano mai della riuscita di uno spettacolo ma soltanto di prepararlo, perché già vi trovano sufficiente premio. Pur di avere il mimo celebre, che ha la simpatia del pubblico, il cattivo impresario non esita a offrirgli somme sempre maggiori».
« È una legge economica » disse l’Imperatore. « Aumentando l’offerta, aumenta la richiesta».
« Sì, » riprese Caio Sestilio « ma il cattivo impresario inflaziona l’offerta contando non sul suo denaro, che non ha, ma sul capitale privato, che non resta mai insensibile alle lusinghe dei fortissimi e facili guadagni. A questo punto, Cesare, il giuoco è fatto. Il cattivo impresario rifornisce di murene le sue piscine, compra nuove schiave, intesta le sue proprietà alla moglie e destina il poco denaro che gli resta allo spettacolo, che riesce pessimo. Così noi assistiamo ad un aumento del numero degli spettacoli e a una diminuzione del loro successo. Quando sulle gazzette leggi di privati che si uccidono senza motivo apparente sappi, o Cesare, che probabilmente essi hanno finanziato uno spettacolo. Ma la vergogna terrà suggellate le labbra dei familiari e altri capitalisti cadranno a loro volta nel gioco, per ingordigia, per vanità o per il piacere di bazzicare con l’Arte. Senonché, da qualche tempo gli insuccessi aumentano a gara, i capitali difettano ed ecco la crisi degli impresari, che chiedono denaro a te ».
« Stanno freschi » disse l’Imperatore.
« I mimi, poi, che conoscono la situazione, l’aggravano partecipando sempre più a spettacoli di modestissima levatura, ben sapendo che dovranno affrettarsi a far fortuna, incuranti quindi del giudizio della critica e del pubblico, solo preoccupati di mantenere alte le loro quotazioni; che restano alte, o Cesare, appunto per il gran numero di richieste che essi soddisfano ».
« Spietato paradosso » disse l’Imperatore cominciando la doccia. « E i rimedi? ».
« Perdonami, o Cesare, » disse Caio Sestilio « se oso suggerirli con una sicurezza che può apparire impertinente ma che invece è dettata dal desiderio di non defraudarti oltre del tempo prezioso che tu giornalmente consacri alle Muse. I rimedi che propongo sono questi: a) organizzare spettacoli in cui i più avidi e inetti impresari saranno fatti lottare all’ultimo sangue contro i mimi più famosi; b) invitare i Cristiani a questi spettacoli, garantendo loro l’impunità. Il pubblico abituato a vederli nell’arena sarà gradevolmente sorpreso di trovarseli sulle gradinate; c) impalare i buffoni e devolvere a un’erigenda Cassa dello Spettacolo le loro fortune; d) riassorbire i gladiatori nell’esercito; e) minacciare il pubblico con una chiamata alle armi. Ciò servirà a ravvivare la sua spenta immaginazione ».
« Optime, » disse l’Imperatore asciugandosi « e per conto mio aggiungi: f) decimare i poeti e i drammaturghi che si occupano di spettacoli. Questo servirà a ravvivare l'immaginazione dei superstiti ».
« Bene » disse Caio Sestilio. « Nel frattempo io perfezionerò le mie statistiche e tu potrai coltivare le Muse con quel successo che fa volare la fama del tuo nome nel mondo ».
« E giacché si deve fare » concluse l’Imperatore « facciamolo subito ».

[«Corriere della Sera», 6 novembre 1956]


Il giovane amico comunista mi saluta, mi guarda fisso, parla del tempo, di un film che vorrebbe vedere. La sua calcolata indifferenza finisce per rattristarmi. Cerco invano nei suoi occhi un’ombra di dubbio o di vergogna, non c’è niente, nemmeno il dispiacere di quest’amicizia che finisce. Sappiamo che eviteremo di salutarci, di stringerci la mano, perché io non saluto né stringo le mani agli enti, alle associazioni, alle mafie, ai dogmi, alle ragion di stato. Mi viene in mente un paragone forse odioso, ma spontaneo. In Francia, per parlare di un Paese che ha un partito comunista nelle nostre stesse condizioni, molte voci si sono levate dalle file del partito per condannare l’aggressione all’Ungheria. Ci sono state dichiarazioni, dimissioni, proteste: segno che gli Uomini non sono ancora morti e non vogliono morire. Da noi, qualche lettera non spedita, qualche deplorazione subito attenuata. Il turbamento dei giovani si è limitato a un calcolo abbastanza cinico: era o no il partito tanto debole da accettare una levatina di scudi? I carri armati russi hanno eliminato ogni dubbio nelle loro menti. Avrebbero parlato soltanto per vanità, dunque, o per non « essere tra gli ultimi ». Ora vogliono farci credere che hanno anteposto l'idea comune alle idee personali. Sappiamo che non è vero, che è stata solo la paura a consigliarli, una paura resa più bieca dagli impavidi sogni di fratellanza che hanno nutrito e che ora tacendo rinnegano; una paura che sperano sia scambiata per sicurezza. Si tratta invece di rigidità, probabilmente la rigidità dei cadaveri.

Seguo Togliatti non per il suo programma politico, che non m’interessa, ma per le sue civetterie filologiche. All’epoca del Togliatti in doppio petto blu, il capo comunista indulgeva a un certo amore per la grammatica. Oh, piccole delizie da professore che facevano dire di lui: « È un brav’uomo, se ama tanto la lingua italiana ». Oggi leggo su « L’Unità »: « i teppisti controrivoluzionari», riferito agli insorti di Budapest. È un’inesattezza, professore! Abbiamo già sentito un linguaggio simile, nel ’44, quando gli SS parlavano di « delinquenti badogliani », per riferirsi agli assassinati delle Fosse Ardeatine. Come hanno fatto presto i fratelli della Pace, gli allevatori di colombe, i piantatori di ulivo, i dialoghisti aperti ad assumere quel linguaggio che è proprio e soltanto degli aguzzini!

« L’Unità »: in prima pagina gli insulti ai morti di Budapest; nelle altre pagine la rubrica degli sport, la vostra casa signore, come cucinare un buon pranzetto, la serena vita cinese, eccetera.
Agghiacciante, come un boia che racconti storielle allegre.

Gli studenti fascisti, in qualsiasi circostanza, perseguitati dalla maledizione della festa delle matricole. Non sanno far niente, se non il chiasso. Coi loro berrettini dugenteschi, pieni di insegne comiche e pornografiche, eccoli percorrere le vie del centro (che sono più sicure), soffiando nei fischietti, guardando le ragazze, contenti di essere a spasso, convinti di essere ammirati e di manifestare il loro sdegno, mentre riescono solo a suscitare quello di chi li guarda. Durante gli ultimi anni del fascismo «manifestarono», se ben ricordo, una sola volta: per chiedere il « diciotto » agli esami. Pulcinella quando protesta ruba un piatto di maccheroni.

J.P. Sartre: passa l’esistenza a entrare e a uscire dal partito comunista. È l’ometto con l’ombrello di certi barometri che indicano così il buono e il cattivo tempo. Oggi non approva il rapporto Krusciov, perché ha minato lo stalinismo e « anziché contribuire a ridurre la dittatura del partito, l’ha riconfermata». Bisognava dunque smantellare Stalin soltanto quando la dittatura del partito fosse interamente scomparsa, cioè quando sarebbe stato persino inutile. Nell’attesa, Sartre avrebbe obbedito ai « feticci » del partito, prestandosi a tirare le orecchie a tutti coloro che, dopo Hervé, li avessero messi in dubbio. È il ragionamento del cane dell’ortolano, che detesta i cavoli ma pretende che nessuno li tocchi.

Alle prime notizie della rivolta aveva cominciato un quadro di enormi dimensioni dal titolo: « Il Popolo di Budapest si batte contro la Tirannide». Ora lo continua, ma ha cambiato il titolo: « Il Glorioso Esercito sovietico schiaccia la reazione ». In vista di un premio ha tuttavia di riserva un terzo titolo: « Carri e figure ».

Il fascismo: un orologio fermo che due volte al giorno segna l’ora esatta. È questione di un attimo. Ma in quell’attimo grida: « Spacco il minuto! » e tutto finisce qui, il Tempo non si ferma.

Si rimprovera a Erode la strage degli innocenti. Ma uno storico di corte riuscì a dimostrare che quei bambini, troppo piccoli per capire qualcosa, non erano sinceramente democratici. Alle loro madri restava inoltre l’orgoglio di un sacrificio tanto più lodevole perché dedicato al Trono. Senza contare che nel parapiglia scatenato dalla reazione, ben dodici giustizieri, tutti democratici, restarono malamente contusi.

« Signore e signori, la trasmissione è stata sospesa per ragioni tecniche. Tra qualche giorno, sopita l’ultima minaccia, riprenderemo i nostri giochi di società, che danno alla nostra vita nazionale quel senso di vivacità che tanto ci lusinga. Cercheremo di venire incontro ai più sciocchi, agli esibizionisti di ogni tendenza, terremo qualche processo piccante, pubblicheremo le vostre memorie, compreremo caldatori ungheresi. L’essenziale è arrivare con fiducia alla prossima estate; dopodiché, riaperti i concorsi di bellezza, i premi letterari, i festival e le danze, potremo affermare a fronte alta che all’estero ci invidiano la nostra allegria ».

È talmente vanitoso che non resiste al suo stesso fascino. Si rovina la salute facendosi autoritratti.

Un eroe del nostro tempo. Nel 1943 si toglieva il distintivo alle due del pomeriggio. Nel ’45, incontrandomi, disse: « Tipi come te li metteremo tutti al muro». Nel ’46 lo rividi in una trattoria: cantava una canzone russa. Aveva i denti neri, non se li lavava più. Nel ’48 lo trovai di notte che scriveva su un muro. Nel ’49 mi elogiò un brutto film come espressione d’arte popolare progressista. Nel ’50 mi disse: «Il vostro sparuto gruppo di intellettuali... ». Lo rividi nel ’54 e mi ammonì: « Il nostro dovere di intellettuali è un dialogo aperto». Nel ’55 mi abbracciò: «Torno dalla Russia. Non potremmo viverci ma dovresti andarci. È un’esperienza». Due mesi dopo mi sorride: «Hai visto i russi alla Biennale? Che schifo! ». L’altro ieri infine mi ha detto: « So che cosa vuoi dirmi: che Suez segna il tramonto della libertà! ».

Per i più piccini. Un topo, caduto in una trappola, si dibatteva furiosamente: « Niente equivoci, » disse il topo a quelli che stavano a guardarlo « io non mi batto contro la trappola, che va benissimo, ma per la cattiva qualità del formaggio ». Questa la tesi che i comunisti ci hanno offerto per spiegare la rivoluzione ungherese, informandoci che hanno già provveduto a migliorare la qualità del formaggio e a rinforzare la trappola.

[«Il Mondo», 20 novembre 1956]


L’Adelchi, mendicante gentilissimo, è un vecchietto piccolo e ben proporzionato, con un bel naso di razza e occhi vivaci. Affronta il passante con amabilità, chiede un piccolo prestito, ma non insiste, oppure intasca il denaro con un sorriso d’intesa. Si distrae spesso. L’ultima volta che rincontrai, su un ponte, trascurava gli oboli per occuparsi di un cane giallo, col quale poi prese a parlare dolcemente; mentre il cane, sospettoso, lo ascoltava, la testa un po’ chinata, pronto a scappare ma incuriosito. Gli piace anche fare la statua: impettito, la testa alta, guarda fisso davanti a sé e sorride al cielo: impossibile resistergli. Lo conobbi in una farmacia notturna, dove chiedeva l’obolo di una compressa per il mal di testa. Si presentò e prese a raccontare della sua vita. All’alba eravamo ancora lì ad ascoltarlo, affascinati. L’avventura sulla quale insiste di più è la sua parentesi in un manicomio. Poiché gode tuttora di una piccola pensione, come mutilato della prima guerra, fu ritenuto pazzo perché trascurò appunto, per qualche mese, di ritirarla. E su questa prova, ritenuta fondamentale dagli impiegati che non salterebbero un giorno per intascare un soldo, « fece » tre mesi di osservazione, i più saggi della sua vita.

Dal diario di un letterato ho avuto licenza di togliere i due brani che seguono. Essi smentiscono una favola corrente; e cioè che la letteratura sia staccata dalla vita politica e che i letterati, chiusi nelle loro torri d’avorio, misconoscono e deridono coloro che governano le sorti del Paese, né porgono loro alcun aiuto.

I
21 giugno. - Può un letterato estraniarsi dalla vita pubblica, quindi dalla politica nazionale e, di conseguenza, dalla crisi mondiale? Può trattenersi di imprimere ad ognuna il sigillo del suo pensiero e rifiutare quelle soluzioni che ne conseguono? Questo il tema delle mie meditazioni stamane, durante la consueta passeggiata lungo la spiaggia. L’estate trionfa qui coi suoi modi usuali e sempre sorprendenti, con una forza così languida che mi ha spinto a considerare la vita di tutti nella sua essenza, a farmene artefice. Ho scritto « artefice ». Questa parola, dopo l’uso smodato fattone da poeti a me inferiori, può apparire sospetta: ma io amo questo e altri simili vocaboli, che sembrano attrezzi di ferro battuto, per quel tanto di civetteria desueta che imprimono alla mia prosa, per altri versi perfetta. L’estate, dicevo, è qui nel suo primo rigoglio. Il sole batte a picco, e mi invita ad agire. Cosicché nel pomeriggio ho fatto un salto al Viminale, per incontrarmi col Presidente. Particolare curioso: non volevano lasciarmi entrare. Ma quando l’usciere ha saputo il mio nome, s’è imporporato sino alla cima dei capelli, profondendosi in scuse servili; e balbettando mi ha chiesto la grazia di firmargli una copia del mio ultimo libro Confidenze attuali, che stava appunto leggendo. Poi l’ho visto sparire per un corridoio e ritornare, strisciante come un cane che rivede il padrone dopo le vacanze, mormorando altre scuse, assicurandomi che il Presidente stava licenziando i membri del consiglio dei ministri per ricevermi. Un secondo dopo entravo nel suo studio. Era in piedi ad attendermi, il brav’uomo, fuori della soglia, e così impacciato che ho dovuto battergli la mano sulle spalle per rincuorarlo. E intanto i ministri uscivano uno ad uno, rossi in viso, dandomi brevi sguardi di soppiatto e mormorando il mio nome con un rispetto misto di timore che non mi è dispiaciuto. Scivolavano, riassettandosi gli abiti e i capelli, lasciando cadere le borse per l’impaccio. Il mio colloquio col Presidente è stato breve, né io avevo tempo da perdere. Gli ho chiesto soltanto se aveva letto i miei Aforismi su una crisi. Mi ha risposto che li sapeva a memoria e ne condivideva le conclusioni e che le stava appunto difendendo in consiglio prima che io arrivassi. Ho fatto finta di non credergli e l’ho pregato di citarmene i passi principali. Bene, li sapeva. Si dice tanto male dei nostri presidenti, ma ecco qui: in fondo sono brave persone, che seguono il nostro lavoro di letterati con un amore che può arrivare a sorprenderci, quando lo conosciamo. Aggiungo questo gentile episodio: mentre mi congedavo, dopo aver avuto la promessa che la politica estera italiana si baserà d’ora in poi sulla mia tesi, il Presidente mi ha chiesto arrossendo se pensavo che mi sarebbe stato possibile apporre la mia firma su una copia, che egli già possedeva ed anzi era consunta per le molte letture, di Suprema chiarezza. L’ho accontentato. Firmando, poiché l’inchiostro recalcitrava ho fatto un gesto vivace per distribuirlo sulla punta del pennino e una goccia è caduta sui pantaloni del Presidente. Ha riso, con l’eccitazione di un’ammiratrice. « La lascerò per ricordo di questo incontro » ripeteva. Accompagnandomi alla porta si è fatto audace e ha detto sospirando: « Lei naturalmente è molto occupato ». E poiché lo fissavo: « Se non fosse tanto occupato » ha soggiunto «la pregherei di... di...». Non osava, il pover'uomo! Infine ha concluso, balbettando: « ... di... aiutarmi! ». Gli ho risposto che, nei limiti della discrezione, gli permetto di telefonarmi, all’ora dei pasti, e comunque ci penserò, vedrò, beninteso per le risoluzioni più gravi. Infine, non ho promesso niente, ma quell’infelice era tanto abbattuto che probabilmente mi deciderò a dargli qualche consiglio.

II
2 luglio. — Mattinata al Quirinale, dopo la solita passeggiata al sole. Se si toglie la storta che il Presidente, mio vecchio ammiratore, ha preso al piede sinistro per corrermi incontro nel cortile, nessun incidente ha turbato la mia visita.
Ah, dimenticavo, due corazzieri sono svenuti. Il Presidente era turbatissimo e mi ha pregato di stargli vicino mentre il medico di palazzo gli applicava acqua vegetominerale al piede, per non perdere un solo minuto dei quindici che volevo concedergli. Ho saputo poi che tre ambasciatori aspettavano per essere ricevuti e (nella confusione suscitata dal mio arrivo) erano stati dimenticati in un salotto sino alle due del pomeriggio. Il Presidente, che tutti dicono di temperamento freddo, mi si rivelava entusiasta come un adolescente che arriva a conoscere il suo poeta preferito e di cui tutto gli piace e lo sorprende, la voce, i gesti, i silenzi. Eckermann non era così turbato quando fu ammesso alla presenza di Goethe. Il paragone non è preso a caso, perché credo di essermi condotto con quella semplicità di modi e quella carità che rivelano appunto, in chi le possiede, la grandezza del genio, che non va mai divisa dalla modestia. Ho cominciato, per non emozionarlo maggiormente, con alcune semplici domande: quanti anni aveva, i suoi studi, se si trovava bene in quel posto, se aveva qualche desiderio. Poi, mentre si parlava dei miei successi, gli ho chiesto sbadatamente che ne pensasse, per l’Italia, di una presidenza esecutiva e se conosceva qualcuno che sarebbe stato in grado di assumerne il peso e le responsabilità. Sgomento, dopo un lungo silenzio mi ha risposto, con l’audacia della disperazione: « Chi avesse il Suo appoggio non temerebbe nulla». « Diamoci del tu » ho detto, cambiando discorso. Ho così evitato di impegnarmi, ma egli ha capito che potrebbe contare perlomeno sulla mia neutralità e ha cominciato a sudare. Si torceva le mani, ripeteva: « Sì, diamoci del tu... ». Gli ho parlato allora della mia tecnica del colpo d’estate, che consiste nel fare le rivoluzioni quando tutti sono in villeggiatura. Approvava, mentre parlavo, con grandi cenni del capo, sicché ho temuto che gli si staccasse. Era entusiasta, ma anche titubante. Gli ho chiesto il perché. Mi ha risposto: «C’è la questione dei diritti d’autore ». Ho cercato di guadagnar tempo, mugolando qualcosa, non capivo. « Nessuno » ha continuato il Presidente « correrebbe il rischio di un processo per plagio. Senza contare le beffe dei nemici, il Suo... voglio dire: il Tuo risentimento. Sbaglio? ». « Benissimo, » ho detto « questa prudenza è un segno della tua onestà». Tra me pensavo che avrei commesso un errore irrigidendomi sulla questione dei diritti d’autore. La mia tecnica del colpo d’estate è sì pregevole ma ha una grave pecca d’origine: che può essere usata solo tre mesi all’anno; e in un anno molte cose possono succedere. Per esempio (è di me stesso che ho paura) posso studiare una nuova tecnica che oscurerebbe la precedente. Senza contare che siamo a luglio e bisogna stringere i tempi. Gli ho promesso dunque che parlerò della questione coi miei avvocati e che non dispero di convincerli ad un’onesta cessione (chiederò un miliardo, è poco lo so, ma che farci?). Congedandomi, l’ho rimproverato amabilmente perché non vedevo sul suo scrittoio le mie Dure realtà. «Impossibile! », ha gridato. « Deve esserci! È il mio livre de chevetl ».
Per farla breve, nell’emozione ci si era seduto sopra.

[«Il Mondo», 11 dicembre 1956]


L’uovo di Marx. « Amico, sono stato al Congresso. Che cosa ne penso? Questo: il partito comunista esce rafforzato dalla sua crisi. Il comunismo è una chiesa che prospera nel martirio. Gli attacchi violenti e ostinati, l’esecrazione generale, il nostro disprezzo, i tentennamenti dei suoi stessi intellettuali, lo sdegno dei compagni di strada, tutto lo conferma nella sua ostinata politica come nell’unica che lo farà sopravvivere al recente disastro. Non si può combattere il comunismo, come facciamo noi, con le invettive e con la logica. Esso ha altrettante invettive e altrettanta logica per risponderci. Né si può combatterlo lusingando la sua base, “trattando bene” la classe operaia. Più la classe operaia sta bene, più incallisce nel comunismo. Aumentate i suoi salari, non diminuirete la sua fede. Perché si tratta appunto di fede, suscitata dal partito, con una continua richiesta di sacrifizi, di obbedienza, di cecità. Il partito è Dio, le cui strade sono misteriose e non tutte tracciate: quindi non si discutono, anche se ti portano alla rovina. Il ridicolo? E come? Provati a ridicolizzare uno snob. Diventerà più snob, poiché si sente osservato: è la sua unica difesa. Insomma, mai come oggi ci viene spontanea la domanda: come combattere il comunismo? ».
« Amico, credo che non occorra combattere il comunismo; il comunismo si combatte già da se stesso, è una malattia che segue il suo corso. Ma so tuttavia come si potrebbe renderlo inefficace in un paese come il nostro, di democrazia parlamentare. È un’idea talmente semplice che mi meraviglio non sia venuta a nessuno. È l’uovo di Marx. Per applicarla, basterebbe un ministro ».
« Quale? ».
« Il ministro della Pubblica Istruzione ».
« Lo conosco personalmente. Ti ascolto ».    
« Bene. Bisogna accettare un primo assioma, il seguente: un grande partito rivoluzionario non può prosperare né darsi la necessaria vivacità senza un continuo afflusso di giovani intellettuali ».
« D’accordo. Ma ciò che più mi spaventa è proprio l’adesione di troppi giovani intellettuali al partito ».
« Chiediamocene il perché. Il partito comunista ha conosciuto momenti di splendore in Italia quando i cretini vi accorrevano nella certezza di apparire intelligenti, perché nel partito erano trattati come tali. Abbiamo avuto casi molto penosi di scrittori, filosofi, artisti, poeti che hanno conosciuto un po’ di fama grazie alla ostinata pubblicità che il partito, attraverso i suoi fogli e le sue cellule, fa ai suoi intellettuali. Ti risparmio i nomi. Alcuni sono notissimi. E tu stesso ti sorprenderesti se ti dimostrassi, carte alla mano, che si tratta di mediocrità, déguisées à gauche, ma sempre mediocrità. Sappiamo persino di altri “genii”, sconosciuti in Italia e noti nei paesi d’oltre cortina, grazie alle relazioni tra i comunisti dei vari paesi, grazie all’internazionale comunista della pubblicità ai prodotti ortodossi: di fronte alla quale le camorre letterarie e universitarie italiane fanno sorridere ».
«Continua, amico».
« Ammesso questo primo assioma, ne deduciamo un corollario: che il comunismo fa grande presa su molti dei suoi giovani aderenti prospettando loro un avvenire di gloria o comunque un continuo sistematico e ricattatorio riconoscimento che sostituisce la gloria. Conferenze, gite, edizioni, viaggi in Cina, polemiche letterarie in cui tutti, anche gli autori, dapprima brillano e infine sono d’accordo con l’intellettuale più conformista, che li ammonisce contro l’eresia. E ne deduciamo ancora che finché i giovani saranno attratti dal partito come da un trampolino di lancio, poco avranno a sperare gli altri partiti non confessionali e che non promettono un trampolino altrettanto affollato e quindi elegante.
«Tu stai per suggerire: il partito democristiano. Forse. Ma non ci si improvvisa scrittori o filosofi cattolici di sinistra (o perlomeno di centro) da un giorno all’altro; mentre scrittori di sinistra si diventa tornando dalla Calabria con quattro articoli e filosofi copiandone altri quattro. E poi, una volta presa quella strada democristiana, che farà un giovane se non accoccolarsi in un impiego, nelle diramazioni del partito? E basta un impiego per i sogni di giustizia, di democrazia, di trasformazione del mondo che un giovane nutre assieme ai sogni di gloria personale? Non basta. Il problema resta dunque aperto da questo lato. I giovani italiani ancora per molto tempo saranno attratti dall’idea comunista perché è la più corrente, la più radiosa, la più combattuta, quella che promette maggiori battaglie, sacrifizi, rinunzie, cinema, soddisfazioni e clandestinità.
« A questo punto, siamo maturi per il secondo assioma: che cioè niente ci alletta più delle cose che non conosciamo profondamente. Se lo accetti, passiamo subito alla mia proposta».
« L’accetto. Se non erro è il complesso di Ulisse, che era attratto solo dall’ignoto».
« Grazie. Siamo dunque arrivati alla mia proposta. È questa: far conoscere profondamente l’idea comunista alle giovanissime generazioni ».
« Non pensi che a questo provveda sufficientemente lo stesso partito comunista?».
« Qui è tutto l’errore. Il partito non spiega scientificamente, fa propaganda. E si guarderà bene dal far studiare i suoi migliori, dopo i risultati del Seminario bolognese. Il partito fa conto soprattutto sul nostro secondo assioma per attrarre, con quella forza che non possiamo non riconoscergli, i giovanissimi intellettuali, ai quali chiede soltanto di credere, non di conoscere. E di credere quanto più il credo è assurdo. Ora c’è un solo modo per far conoscere qualcosa ai giovani italiani e questo modo è: farglielo studiare a scuola. La mia proposta, in breve, è tutta qui: l’insegnamento obbligatorio di comunismo nelle scuole medie e universitarie ».
« Se ho ben capito, tu proponi... ».
« Propongo il “comunismo” come materia principale per le scuole medie inferiori e superiori e come corso obbligatorio in tutte le facoltà universitarie. E, attenzione: niente diplomi, niente licenze, niente lauree se non si supera l’esame di comunismo. È un ricatto doloroso, lo so, ma indispensabile».
«Comincio a capire. Continua».
« Tu vedi già il quadro. Se non lo vedi, fa appello ai tuoi ricordi di scuola. Vuoi che ti aiuti? Ecco. Nelle scuole medie il comunismo diventa, sin dal primo anno, assieme alla matematica, al greco e al latino, lo spauracchio delle scolaresche. Gli alunni bravi in comunismo, poverini, sono già antipatici agli altri alunni. Aridi, sgobboni, raccolgono la matita al professore, quando gli cade dalla cattedra. Generalmente, non sono bravi in ginnastica. Col tempo non ne avremo più di due ogni classe, finiranno in piccoli impieghi, qualcuno anche nel partito di cui conoscono così bene l’ideologia burocratica. Gli altri, in grande maggioranza, cominceranno a odiare Marx e il marxismo: non perché l’ignorano - come in molti casi succede oggi — ma perché sono obbligati a studiarci sopra. Come si vendicano? Facendo anche caricature oscene del professore, che sarà insensibile all’umorismo (li sceglierei tutti nel partito, s’intende), che entrerà in classe portandovi il gelo della sua missione, interrogando otto alunni alla volta, riempiendo il registro di “tre” e di “quattro”. Il giorno in cui si presume che il professore interrogherà, ecco gli studenti impreparati saltare le lezioni. Vanno ai biliardi, ai giardini pubblici, in campagna e sulle spiagge, secondo le città, le stagioni, gli umori. Si intrecciano idillii, si gioca, si passano quattro ore di smemoratezza. Ma tornando a casa gli studenti pensano al comunismo e sospirano. C’è poi il compito in classe di marxismo, nei licei, che è l’incubo mensile, perché il giorno non viene mai fissato in anticipo. Impossibile copiare, gli alunni bravi in questa materia sono tutti nei primi banchi.
« Pensa allo scoppio di gioia della classe quella mattina che il bidello viene ad annunciare: “Niente comunismo. Il professore è malato”.
« Pensa ai primi giorni d’estate, quando dalle finestre aperte viene nell’aula il vento caldo e asciutto del mare che fa gonfiare le tende e fermentare il sangue della scolaresca. Gli occhi si socchiudono nel languore e nel primo desiderio di libertà e il professore spiega invece le questioni fondamentali del Plekhanov e improvvisamente decide di interrogare qualcuno. Scorre il registro con un dito, dall’alto in basso. Gli A, i B, i C, i D, fremono e respirano man mano che il dito scorre. Ora fremono gli F, impallidiscono gli N, sbiancano i P. Infine il professore, gelido, con quella cortesia che lo rende tanto temibile, dice: “Vuol venire... vuol venire il signor Rossi?”. Dice “il signor”, è l’unica ironia che si permette, con ostinata puntualità, ogni volta che chiama l’alunno Rossi, la sua vittima. Costui, nell’ultimo banco, non ha seguito bene la manovra, stava leggendo L’amante di Lady Chatterley. La classe, vilmente sollevata dall’angoscia, si volge a guardarlo, sgomenta per lui. Col coraggio di una disinvolta disperazione, Rossi si alza in piedi, fissa il professore, si porta la mano sinistra sull’avambraccio destro, agita l’avambraccio recisamente e dice: “To’!”. Viene espulso da tutte le scuole della Repubblica, povero Rossi, per vivere sarà poi costretto a fare lo scrittore; ma i suoi compagni lo ammireranno segretamente per tutta la vita, a spese del comunismo». «Stai facendo galoppare la fantasia».
« No. Succederà di molto meglio. Succederà tutto. Siamo in Italia, in questa magnifica Italia dove il tempo è galantuomo. Continuo. Durante l’anno scolastico, padri e madri cercano di parlare col professore, lo trovano villano e intrattabile. Dice che i loro figli sono reazionari, fascisti, teppisti, perché non conoscono la materia e non faranno niente di buono nella vita, niente di utile per la collettività. Qualcuno riesce a farsi raccomandare dal Concetto Marchesi. Conosci? Il professore allora diventa feroce, interroga più a lungo il disgraziato, lo fa cadere nei suoi tranelli, pretende una solenne autocritica e poi legge ad alta voce la lettera di raccomandazione, la conserverà tra i suoi documenti, utilissima il giorno che il Concetto Marchesi tralasciasse di approvare le stragi in Romania o altrove.
« E gli esami? Dio mio, il professore di comunismo è l’incubo delle commissioni. Si darà il caso, riportato dai giornali, di un’intera classe bocciata in comunismo. Il professore viene aggredito di notte e picchiato. Ben gli sta! - diremo. A un altro gli sparano e l’alunno feritore, data la minore età, ha le attenuanti. Vorresti forse negargliele?
« Ecco, sono passati due o tre anni e cominciano sui giornali le proteste. A che serve il comunismo? Non basta già il partito? L’opinione pubblica si allarma (ci sono stati due casi di suicidio); il partito comunista - che ha infine capito il nostro giuoco - chiede in Parlamento l’abolizione della materia, ma invano! Insisterà con petizioni, raccolta di firme, scioperi. Niente da fare, il ministro della Pubblica Istruzione non accetterà l’ignobile ricatto comunista di privare i giovani della luce di Marx. Piuttosto abolirà il latino. I programmi anzi si faranno più pesanti, tutto lo scibile comunista sarà sceverato: politica, storia, economia, filosofia, arte e letteratura. E il folclore russo. E la sua superiorità sul nostro, che sembra accertata. Il greco, la matematica, persino la geometria analitica diventano allora le scienze preferite dagli studenti. La cultura umanistica e borghese conosce un periodo di splendore, e proprio nelle scuole! E il comunismo diventa invece sempre più materia di preoccupazione. Ma non basta. I giovani ora sanno, bene o male, perché l’hanno studiato, che cos’è il comunismo, che significano nella sua interpretazione i concetti di Democrazia, di Stato, di Libertà, che cos’è uno Stato-guida e dove vuole guidarci.
«Oh, certo, non tutto andrà liscio. Nelle università avremo scioperi per ottenere l’abolizione della materia, giudicata inutile. Studenti fascisti e studenti comunisti si alleeranno. Avremo tafferugli, sequestri di persona: ma non sarà la polizia che verrà a mancarci per mettere un po’ d’ordine. E tutto infine sarà addolcito dal commercio delle tesi e delle dispense che fiorirà attorno alla nuova scienza. Ma alla line degli esami, tu vedi già gli studenti che vanno a vendersi i testi marxisti, che non vorranno mai più aprire, nemmeno per sbaglio. E dimenticheranno tutto».
«Non tutto ».
« Quasi tutto. Ecco un pezzo di carta e un lapis: vuoi dimostrarmi, per favore, il teorema di Talete? ».
« Mi dispiace, non lo ricordo ».
« Eppure l’hai studiato, come me, per una settimana ».
« Toccato. Ma, riguardo ai libri di testo, hai un’idea di quel che verrebbe a guadagnare il partito comunista dal commercio di questi libri? ».
« Nemmeno un soldo. Non ci sono forse le case editrici democristiane, appositamente fondate, che hanno il monopolio dei libri di testo per le scuole? No, da questo lato, possiamo dormire tranquilli».
« Mi hai convinto ».
« Completo il quadro, se permetti. Dunque, col tempo, la visita mensile agli stabilimenti industriali e alle fattorie modello, resa fermamente obbligatoria, verrà temuta più dei concerti basati su musiche di Sciostakovic i quali integreranno (piccola concessione alla severità della materia) l’insegnamento del comunismo. La letteratura sulle conquiste del proletariato e sugli sforzi dell’Unione Sovietica allontanerà i lettori, come succede oggi ai capolavori della nostra letteratura, fatti studiare a scuola. Chi ha avuto come tema d’esame, una sola volta: “Personaggi minori stakanovisti nell’opera di Fedajev” [sic] si guarderà bene dal leggere Fedajev per tutto il resto della sua vita. I giovani trascurano anche il jazz, la poesia negra e la saggistica documentaristica. Si torna a forme d’arte persino neoclassiche. Piace la calma, lo studio della forma, si scrivono molte poesie d’amore. Un’ondata di misticismo sommerge le facoltà di filosofia. Passano gli anni. I giovani ora leggono tutto e discutono di tutto, fuorché di marxismo. È un argomento per molti penoso, perché legato a ricordi di lunghe notti a tavolino, umilianti bocciature, esaurimenti nervosi. Logicamente, il partito comunista continuerà ad essere un forte partito, forse soltanto un po’ vecchiotto, perché i giovani hanno dovuto studiarlo e non vi aderiscono più tanto volentieri. Come dovevasi dimostrare».
« Bene. Temo soltanto che la tua proposta faccia acqua da molte parti. Il partito comunista ha qualche mossa da fare per mandare all’aria la tua proposta o almeno neutralizzarla. Prima mossa: può imporre ai professori comunisti di abbandonare l’insegnamento».
« Non lo farà. Il partito sa bene che i professori comunisti-marxisti sarebbero subito sostituiti con professori fascisti-marxisti, di cui abbondiamo. La seconda mossa, prego? ».
« Questa: “Giovani, aderite al partito e il professore vi promuoverà” ».
«Ecco un tipico errore suggerito dall’esperienza. Tu confondi il partito comunista col partito fascista. Ammetto che i fascisti non esiterebbero, ma i comunisti sono troppo abili per sollecitare adesioni le quali, appunto perché interessate, si tingerebbero di malcelato disprezzo. Il partito sollecita adesioni soltanto in casi eccezionali, per squalificare il vanitoso simpatizzante che stima di entrare nel partito per rifarlo a sua immagine, senza sapere che, perduta l’indipendenza, egli perde anche ogni autorità. No, non si presentano soluzioni per il partito comunista. L’unica mossa che può tentare, ma nel campo assistenziale e propagandistico, è di istituire corsi estivi gratuiti di ripetizioni per bocciati. Ma lo farà? Mi permetto di dubitarne. Perché i bocciati sarebbero spinti a identificare sempre più la loro disgrazia col partito comunista, anzi fisicamente con la sede del gruppo rionale dove si terrebbero gli squallidi corsi, e mai più vorrebbero metterci piede in seguito».
« Seducente prospettiva. Ma il partito ha comunque un’arma segreta. Può raccomandare l’indulgenza ai suoi professori (e questo lo farà) in maniera che il comunismo, con gli anni, diventi una di quelle materie complementari che non preoccupano gli scolari e che si “ripassano” in una notte, la notte prima degli esami ».
« Sei al terzo errore, al più grave. Se il partito comunista prende una decisione simile, la nostra vittoria è totale. Se il comunismo diventa una materia che non fa paura, finisce di far paura anche il comunismo. Quale alunno prenderà sul serio il segretario generale del partito se a scuola potrà prendere sottogamba, perché tanto non sarà bocciato, le “verità” che egli rappresenta? Chi prende oggi sul serio la Calligrafia e chi pensa che la Ginnastica debba governare il mondo? Ti dirò ancora: il comunismo finirebbe proprio quel giorno che gli al-
lievi potessero farsi esentare dalle lezioni di comunismo per debolezza organica (come appunto oggi ci si fa esentare dalla Ginnastica). No, credimi, il partito comunista deve accettare l’istituzione del comunismo come materia d’insegnamento e deve vegliare che l’insegnamento sia condotto con estrema severità, deve insomma seguire il nostro giuoco sino in fondo, pur conoscendone le conseguenze, senza tentare nessuna mossa. Per il ricupero dei giovani intellettuali non gli resta che affidarsi al calcolo delle probabilità. O forse (e questa è la morale della mia proposta) dovrà affidarsi ciecamente alla Provvidenza, sperare in Dio, pregare in ginocchio che i giovani dopo... (un momento: cinque e tre otto, e quattro dodici), dopo dodici anni di comunismo scritto e orale abbiano ancora voglia di sentir parlare di comunismo. Non è successo lo stesso in Ungheria, esattamente dopo dodici anni? ».

[«Il Mondo», 25 dicembre 1956]


Non possiamo nasconderci che oggi le dittature appaiono logorate dai loro stessi sistemi, specialmente per quanto concerne la repressione dei nemici interni. Le «purghe», i processi montati, i campi di sterminio, le repressioni violente hanno purtroppo screditato anche la dittatura del proletariato. Come aiutarla a superare questa crisi? Un modo ci deve essere. Augusto Frassineti, che da tempo si è dedicato alla filosofia della burocrazia e ora ristampa i suoi Misteri dei ministeri aggiungendovi una seconda parte, affascinante per le tesi che prospetta sulla funzione trascendente della burocrazia, mi diceva giorni fa che il problema, vivissimo in ogni dittatura, dell’eliminazione dei nemici politici, si potrà risolvere nel prossimo futuro con l’ibernazione, o letargo artificiale a bassa temperatura degli stessi soggetti.
È un processo scientifico che dà sufficienti garanzie di serietà. In pieno accordo ne abbiamo enumerato i seguenti vantaggi: I) L’ibernato, politico o meno, si «comporta» esattamente come un eliminato; ma la sua scomparsa dalla scena politica non desta allarme, non suscita critiche all’estero, sospetti all’interno e non istiga all’apologia dello scomparso e alla vendetta. 2) L’ibernazione, applicata con i sani e dovuti criteri, dà nuovo lustro alla dittatura che l’adotta e permette il suo rafforzamento burocratico, perché si dovrà certamente costituire una Direzione generale degli Ibernati, presso il Ministero degli Interni, che darà impiego ad una vasta categoria di scienziati burocrati, altrimenti insoddisfatta. 3) La ibernazione è propagandisticamente producente poiché non sarà raro il caso di politici ibernati, riimmessi nella vita del partito dopo anni di silenzio, che offriranno spettacolo del loro scarso «attualismo», frustrando quelle speranze che il ricordo di loro aveva suscitato nei seguaci o nei semplici simpatizzanti. 4) E infine, in caso di riabilitazione per mutamento di indirizzo o distensione internazionale, l’ibernato potrà essere realmente riabilitato e fatto tornare alle sue normali occupazioni. Così, mentre il « disgelo » avrebbe un senso non soltanto metaforico, le dittature apparirebbero in una luce umanitaria che le farebbe diventare simpatiche.
L’unico punto nero della prassi ibernistica può essere rappresentato (meglio dir tutto) dalla possibilità che gli ex-ibernati politici, col tempo, si riuniscano in associazioni o enti morali, onde far valere i loro diritti lungamente maturati, quali pagamento degli arretrati, facilitazioni ferroviarie, pensioni e simili: ma questo è un lievissimo rischio che ogni dittatura correrà volentieri, tenuto conto del vantaggio che le procurerà l’eliminazione indolore e pulita dei suoi avversari, anche se questa eliminazione in qualche caso potrà risultare provvisoria.
Dovrà inoltre essere tenuto presente che l’ibernazione, come noi la raccomandiamo, non offende la religione poiché l’anima dell’eventuale ibernato seguiterà a sussistere nel suo corpo. Questo toglierebbe alla propaganda avversaria anche l’ultima arma, per tacere dell’impossibilità di ogni accenno ai «bagni di sangue », ai « massacri », alle « repressioni brutali», eccetera.
La scienza lavora, come è noto, per le dittature, fornendogli armi sempre più esclusive e perfezionate. Sarebbe tempo che le dittature lavorassero d’accordo con la scienza anche nel settore, così delicato, delle eliminazioni. Continuare al giorno d’oggi con i sistemi cari a un Tiberio (il quale del resto per i suoi tempi era strettamente scientifico) può convincere un sognatore e un umanista come il prof. Concetto Marchesi, ma lascia noi uomini moderni scettici e preoccupati sull’avvenire delle dittature. P.S. - Nei regimi democratici parlamentari l’ibernazione potrà essere vantaggiosamente usata nell’interno dei vari partiti, applicando gli stessi criteri generali, per quegli elementi irrequieti che tendono a staccarsi a destra o a sinistra compromettendo la stabilità del centro. Non c’è uomo politico tanto a destra o a sinistra il quale, svegliandosi dopo qualche anno di sonno scientifico, non si trovi, per gli avvenimenti stessi prodottisi nel frattempo, utilizzabile a destra o a sinistra.

(1953). Un amico, che è entusiasta di spettacoli popolari di varietà, mi parla di una compagnia che agisce in un piccolo cinema di Trastevere. Capitiamo che la rivista è già cominciata e, naturalmente, si sta svolgendo il numero dei Due Grandi. È un numero che non manca mai. Russia e America sono di scena con Pulcinella, servo furbo di due padroni. Lo sketch, più che materia di divertimento, offre la solita materia di riflessioni e usciamo dal cinema alla fine molto rattristati. Più di me il mio amico, il quale deve accorgersi che, nel frattempo, gli hanno rubato la ruota di scorta dell’automobile. Quel furto è tuttavia un seguito dello sketch o almeno aderisce al suo spirito. Cerco di farlo capire al mio amico. Ma penso che egli sia troppo irritato dal furto per consolarsi con una divagazione filosofica sul «nostro» carattere.
Uno dei punti sul quale l’ignoto autore dello sketch ha insistito è infatti la capacità che noi abbiamo di « far fesso » il prossimo; capacità che l’autore definisce: intelligenza. Pulcinella, per esempio, si vanta di aver spogliato l’Americano, di avergli fatto sparire persino un piroscafo. A questo accenno di una storiella napoletana che circolò ai tempi del mercato nero, il pubblico è scoppiato in applausi. Sul palcoscenico invece il Russo, pur congratulandosi con Pulcinella per la sua furberia, lo ammonisce severamente, facendogli balenare l’eventualità di un suo prossimo viaggio in Italia. « Con me, » dice il Russo « con me non si scherza, caro Pulcinelloff! ». Pulcinella lo guarda con aria di sorridente pietà, ammicca al pubblico e gli risponde: « Ma lei è mai stato qui? » più volte, mimando: « Ma lei è mai stato qui? ». Intende: in Italia. E quando il Cosacco risponde che non c’era mai stato, Pulcinella spara la battuta di riserva: « E allora venga e poi vedrà! ». Un uragano di applausi copre la battuta del Russo che, del resto, non deve essere molto importante.
L’applauso del pubblico ci ha portati per un momento a sentire un certo bieco orgoglio per questa nostra capacità di ridere dei difetti nazionali. Senonché il pubblico e prima di lui l’autore e gli attori dello sketch non pensano affatto che si possa parlare di difetto, ma anzi di una virtù antica, assodata, eterna. Una di quelle virtù che bastano persino ad appianare le divergenze politiche tra due rivali che si trovano entrambi a possederla. Una virtù, tanto per capirci, che dava in quel momento allo spettatore la sottile e invincibile certezza di essere al di sopra di ogni critica e sospetto, oltre la mischia.

In quattro o cinque, via della Croce, conosciamo un professore americano di origine italiana, molto calmo e simpatico. Presentazioni, soliti scherzi. Il professore chiede a V. dove è nato. V. risponde: a Ravenna. Annoto il dialogo che ne è seguito:
« Magnifica città Ravenna. Vi ho scritto le più belle pagine del mio Byron».
« Lei ha scritto un libro su Byron? E perché? ».
« Perché Byron mi interessa. Ravenna mi ha ispirato le pagine migliori. Andavo nella pineta... ».
« Solo? ».
« Solo. Avevo però la “loro” compagnia. Di Byron e della contessa Guiccioli. A Ravenna, come lei sa, Byron era ospite della contessa Guiccioli ».
« Altro che ospite! S’era ficcato in casa Guiccioli, mangiava, beveva e faceva all’amore con la contessa. Lo sanno tutti a Ravenna. Bel modo di comportarsi per un poeta».
« Ma Byron era innamorato. Fu un periodo di sogno, quello. Andava con la contessa nella pineta... ».
« E questo lo chiama agire da gentiluomo? ».
« Byron e la contessa facevano lunghe cavalcate ».
« Sì. E poi? ».
« E poi niente. Byron declamava versi e la contessa... ».
« Allargava le... ».
« Ma che dice! Fu un amore purissimo. Byron vi trasse la sua più alta ispirazione».
« Cavalcando ».
« E quei momenti li eternò nel 16° canto del Don Giovanni. Ricorda la bellissima invocazione alla Madonna? ».
« Non ci credo ».
« La legga! ».
« Se crede che ho tempo di leggere Byron ».
« Si fida di Carducci? ».
« No, affatto ».
« Bene, anche Carducci... ».
« Come, anche Carducci andava in pineta con la contessa? Doveva essere vecchietta! ».
« No, Carducci, scrisse la famosa ode in cui dice, ricorda? Una di flauti lenta melodia... ».
« Benissimo, anche il flauto adesso. Belle cose che vuol difendere, professore. E poi lamentiamo la crisi della cultura».
E il dialogo continua su questo tono. Il professore sta allo scherzo, ma è un po’ preoccupato. Che oltre lo scherzo non ci sia veramente nessun rispetto per Byron?

[« Il Mondo», 8 gennaio 1957]


Mi telefona un tale per dirmi che sta facendo una piccola inchiesta e vorrebbe che gli rispondessi a questa domanda: di che nazionalità vorrei essere se non fossi italiano.
Viviamo nel secolo delle domande. Chiudo gli occhi, aspiro profondamente e rispondo: « Prima di tutto bisognerebbe provare che sono italiano. Vediamo di riuscirci, con una dimostrazione per assurdo, ma ne dispero. Dunque: non sono fascista, non sono comunista, non sono democristiano: ecco che mi restano forse venti probabilità su cento di essere italiano. Non scrivo e non parlo il mio dialetto, non adoro la città dove sono nato, preferisco l’incerto al certo, sono per natura dimissionario, detesto il paternalismo, le dittature e gli oratori. Il gioco del calcio non mi entusiasma, lo sopporterei se sul campo i giocatori fossero ventimila e il pubblico ventidue persone, non ascolto la radio e non guardo la televisione: ignoro perciò gli eroi di queste attività di cui tutti sanno dirvi vita e miracoli. Pago le contravvenzioni, non ho amici negli uffici importanti e mi sarebbe penoso partecipare a un concorso. Non so cantare e non mi piace sentir cantare gli altri, se non a teatro. Non scrivo versi. Sono italiano? Ho conservato sempre gli stessi amici, mi piace viaggiare per l’Italia e quasi ogni luogo mi incanta e vorrei restarci. Sotto quest’aspetto potrei essere un inglese. I grandi problemi mondiali mi lasciano perplesso e non ho per ognuno di essi un giudizio preciso e definitivo: sono forse indiano? Così pure mi stimo abbastanza prudente nel giudicare il prossimo e trovo che la maggior parte delle persone che conosco sono ottime e gli auguro ogni bene. Esquimese? Leggo libri di autori italiani, classici e moderni, e ammiro i nostri artisti e qui potrei dirmi americano. Adoro il sole, il mare caldo, l’Etruria e la Campania e in questo potrei riconoscermi tedesco. Se visito un museo non parlo ad alta voce e se vado in una biblioteca non tento di portarmi via un libro o le sue illustrazioni. Sono forse svedese? Non mi interessano i processi, la cronaca nera, la vita mondana. Eremita? Non scrivo il mio nome sulle rovine o sui muri dei monumenti. Analfabeta? Pago i miei debiti, anzi evito di farne, non ammiro le grandi qualità dei popoli che non conosco, la morte non mi spaventa, sto volentieri in piedi la notte e una compagnia che superi le quattro o cinque persone mi annoia francamente. Spagnolo? In treno non racconto episodi della mia vita, né do giudizi sull’Italia meridionale, gli uomini mi interessano per il loro carattere, nelle donne ammiro molto anche l’intelligenza, che non mi suscita sentimenti di invidia o di disprezzo. Tuttavia, che io sia italiano potrebbe essere innegabile: infatti mi piace dormire, evitare le noie, lavorare poco, scherzare, e ho un pessimo carattere, perlomeno nei miei riguardi. Bene, se non fossi italiano, a questo punto, non saprei che farci. Probabilmente, non sarei niente e questo dimostra, in fondo, che sono proprio italiano. Allora? La sua domanda è senza risposta. Si consoli pensando che per molti l’italiana non è una nazionalità, ma una professione ».

Si racconta che Pablo Picasso, a un ufficiale tedesco che osservando il suo dipinto Guernica gli chiedeva: « Siete stato voi a fare questo? », abbia risposto: « No, voi ».
Si racconta che Pablo Picasso, a un ufficiale russo che osservando certi piatti ungheresi gli chiedeva: «Siete stato voi a fare questi?», abbia risposto sovrappensiero: «No, voi».
Il bambino che gioca tutto il giorno col pallone sotto la mia finestra e che spesso sono stato tentato di uccidere, mi incontra e mi saluta. Poiché è la prima volta che lo vedo senza pallone ma con un pacco di libri scolastici, mi informo dei suoi studi. Fa la quinta elementare e oggi ha avuto tema in classe. Il tema era: Se io fossi mago. Ecco il concetto informatore del suo svolgimento: se io fossi mago, comanderei il mondo. Quasi tutti i suoi compagni hanno palesato la stessa inclinazione al dominio mondiale, oggi possibile appunto con quelle opere di magia che i ragazzi conoscono nei libri di fantascienza e gli scienziati si affannano a realizzare. Ci stiamo preparando, penso, una bella vecchiaia.
Ciò che tuttavia più mi ha colpito è il tema proposto, che riconosce la magia come attività umana, anzi professionale. È chiaro che il mago della signora maestra non è il vecchio sapiente delle favole, col cappello a cono e la bacchetta appunto magica, ma il mago moderno, di città, con un gabinetto di consultazione e gli attestati dei ministri e delle attrici sulle pareti dello studio. È il mago aruspice e guaritore, che va alle prime dell’Opera e che stipendia un medico ai suoi servizi per non essere accusato di esercizio abusivo della professione. È il mago che scrive sui giornali, il fratello maggiore di tutte le cartomanti e di tutti gli astrologhi, questo vasto sottobosco di ciurmadori (è la parola esatta: « ciarmatori » — da charme — venivano chiamati una volta, e il senso è peggiorato per colpa loro), che oggi prospera grazie alla paura collettiva, alla pubblicità, al disorientamento. Forse la signora maestra sarebbe rimasta soddisfatta se il mio giocatore di pallone avesse risposto che, una volta mago, curerebbe le alte personalità e terrebbe una rubrica di oroscopi.

Serata allo spettacolo del Circo di Pechino. Una suite precisa, dipinta su seta, che avrebbe voluto la penna di Bruno Barilli. Per tutte le due ore dello spettacolo non ho fatto che pensare a lui, al suo modo elegante e prestigioso di prendere la Vita e l’Arte. Forse, pensavo, Barilli avrebbe saputo spiegarci, nello stesso stile di questi minuti acrobati ben lavati e pettinati, il disagio sottile, davvero cinese, che ci davano talvolta quei loro giochi pieni di lievità, di grazia e di abnegazione, troppo precisi per essere veri, estenuanti per l’attesa di una catastrofe che non avveniva e, in fondo, riprovevoli.
Il giorno dopo F. mi racconta che la sera della presentazione, capitato in quella festa di comunismo, e voltatosi a guardare la platea mentre sul palcoscenico un tranquillo cinese imitava le voci degli animali domestici e persino lo sbuffare del treno, vide le stesse facce che aveva visto al Congresso del partito, egualmente serie, approvatrici, trattenute e ipocrite. Aderivano alla via cinese del circo equestre, erano già pronti a seguirla? Alla fine dello spettacolo, un tale con un microfono in mano gli aveva chiesto che cosa ne pensasse della Repubblica Popolare Cinese. « Graziosissima, » aveva risposto « ma un po’ monotona».
Altra immagine che rivedevo a tratti: una fotografia conservata nel Museo criminale di Roma. Forse c’è ancora, ingiallita dal tempo. Due cinesi, chiusi ognuno nella loro cassa, la testa fuori per respirare, e messi l’uno di fronte all’altro, a un metro di distanza, fotografati poco prima che la cella dove sarebbero restati, soli, venisse chiusa. I due condannati a morte sanno di doversi guardare sino all’ultimo momento, sanno che ognuno spierà negli occhi dell’altro il progresso della fine o che sentirà nelle sue urla l’eco della follia che lo stordirà. Un esercizio, come si vede, di una bravura, pur nella sua semplicità, che strappa gli applausi.
Padre A., frate cappuccino, ottimo e candido vegliardo. Poiché il discorso cade, non ricordo perché, sul Diavolo, mi racconta che da giovane l’ha visto. Ecco come. Aveva appena preso i voti e una mattina d’estate, nella gran calura, tornava stanco al convento. Sulla strada bianca e polverosa una donna l’aspettava al bivio di un sentiero. Era immobile e sorrideva. Quando Padre A. fu a pochi passi da lei, la donna sollevò la gonna e gli mostrò il ventre nudo, mentre gli occhi le divenivano torbidi ed enormi. Padre A. si ferma di scatto, stringe la sua croce, grida: «Vade retro, Satana!». La donna, ridendo, infilò il sentiero e ben presto scomparve. « Non l’avete più vista dopo quella volta?». «Solo un paio di volte. Fui trasferito». «E che cosa vi fece pensare che fosse il Diavolo e non una povera esibizionista? ». Padre A. non afferra la definizione, scuote la testa: era il Diavolo. Aveva in più la gonna di color rosso. Ma che fosse davvero il Diavolo comincio a crederlo anch’io se penso che Padre A., dopo tanti anni, ricorda ancora l’episodio e raccontandolo si emoziona per il suo forse unico e grande peccato.

[«Il Mondo», 29 gennaio 1957]


Foglietti napoletani (I)

  Piazza del Municipio, acconciata come un viale della Fiera di Milano, con fontane illuminate, dai getti verticali a pettine. Un’altra fontana nuova è in piazza S. Ferdinando, serve da spartitraffico e sembra provvisoria, un addobbo inutile in questa piazza unica; di un’eleganza da vecchia stampa, angusta e di vaste aperture, comunque inadatta a giochi d’acqua municipali. La insufficienza di queste fontane, anzi la sorpresa che suscitano, viene dal nessun bisogno che Napoli ha di fontane: non le sopporta - si direbbe - per il confronto troppo sfavorevole con il Golfo, che è la sua unica e vera fontana. È forse per questo che anche il trofeo dell’Immacolatella, a Santa Lucia, si dà piuttosto arie di arco trionfale che di fontana vera e propria. Si potrebbe concludere che le uniche fontane che si addicono a questa città sono le vecchie botteghe degli acquaioli, fresche grotte dove i limoni, lo zinco e le bottiglie fanno decorazione musiva, e davanti alle quali è così piacevole sostare.
  Il ragazzo che guarda le macchine vicino al Municipio s’è vestito da guardia municipale in uniforme di gala, ha persino il casco di panno nero, con lo stemma. Sono rimasto ad ammirarlo nelle sue funzioni per qualche minuto. Svelto, abilissimo, pilotava le macchine fuori del parcheggio con gesti ampi e sicuri e una serietà che incuteva rispetto. Faceva sentire la utilità di simili personaggi, scaduti specie a Roma al rango di mendicanti inopportuni. Qui il ragazzo si rendeva utile con un entusiasmo che elevava il suo intervento al grado di lavoro. Penso a come gli sarà venuta quest’idea di vestirsi da guardia, alla madre che ha approvato il progetto, al sarto che gli ha cucito e tagliato la minuscola uniforme; ma soprattutto alla finezza psicologica del travestimento, che gli dà oggi decoro e forse, col tempo, gli darà una sistemazione. Lo vedo più tardi, a sera, con l’aria di chi ha finito la sua giornata, davanti alla rosticceria, il casco leggermente levato sulla fronte, occupato a mangiarsi un pasticcio fritto. Parla vivacemente con due uomini, che lo ascoltano e gli rispondono con quella serietà con cui nel Sud gli uomini trattano i ragazzi che lavorano.
  L’ingresso al Presepio nella sagrestia costa cinquanta lire. Due giovani, seduti dietro un tavolino, staccano i biglietti e si tengono compagnia. Sollevo una tenda e ho subito davanti a me il Presepio acconciato su un palchetto largo forse cinque metri e profondo altrettanti. L’idea che ha sedotto gli scenografi è questa: il Sacro Avvenimento nella Napoli monumentale del porto. L’anatopismo sarebbe presuntuoso se tutte le costruzioni non rivelassero una bonomìa approssimativa e un lodevole senso del risparmio. La culla del Bambino è nel Palazzo San Giacomo e tutt’intorno, di cartone dipinto, il Maschio Angioino, il Palazzo Reale, le vecchie case, i nuovi grattacieli, frammisti di pastori, gentildonne, santi e zampognari settecenteschi, avanzi di un più ricco presepio e di misura pari alle case. Domina la scena il Castel Sant’Elmo, circondato da pastori ritardatari. Per rendere più movimentato il quadro, un trenino elettrico gira attorno al presepio, scompare in un tunnel, si ferma davanti alla sua stazione, riparte, passa davanti al Bambino. Si sente, nel silenzio della sagrestia, il suo minuto e instancabile sferragliare. Non è una cattiva idea, questa del trenino: mi sembra di sentire l’autore che la difende, dicendo che così il Bambino si diverte pure lui.

  Visita a Pompei. Prendiamo la piccola guida del Maiuri e la Guida di Napoli e dintorni, di Gino Doria, non perché questa possa servirci molto a Pompei ma è un aureo libretto, che porto in tasca dacché sono qui a Napoli e al quale debbo i miei momenti migliori. Non ho mai letto niente di più precisamente affettuoso su questa città, che questo signore presenta come una persona amabilissima, cui si vorrà molto bene e di cui persino i difetti appariranno familiari, forse parte di noi stessi. Prendiamo dunque questi due libretti e ci infiliamo nell’autostrada, che Doria definisce «la più bella del mondo », e lo è senz’altro, ma è anche la più favorevole alle letture: per tutto il percorso è difatti fiancheggiata di cartelli pubblicitari, invitanti e perentori, a volte tanto grandi da nascondere la vista del Vesuvio. Il paesaggio non può essere più difeso di così. Quando siamo alla Villa dei Misteri, la pioggia scroscia monotona e fa freddo. Indugiamo nella visita, potremmo andarcene ma restiamo a guardare la pioggia, e poi davanti a quei dipinti proviamo ancora la sensazione di non essere capitati lì per una gita, ma di doverci restare e che la pioggia è un elemento determinante. Mi viene in mente la frase di un poeta francese: « Puisque ces mystères nous dépassent, feignons d’en être les organisateurs». Organizzatore di misteri! Si finisce così, a volerne capire qualcosa. Invidio questi custodi, che possono restare qui tutta la vita, non turbati da nessun mistero, sfiorandoli a volte senza restarne folgorati, solo spingendo la loro complicità col grossolano visitatore sino a fargli vedere «la cosa sporca», nascosta allo sguardo delle signore da uno sportello o da un pezzo di tela
  La trattoria a mare si annunzia alla svolta del viottolo con un camino nero che fuma alto sul vecchio fabbricato. Al passaggio a livello il guardiano mi ha augurato buon pranzo, segno che si passa di qui solo per raggiungere la trattoria, del resto famosa. Piove su un paesaggio sconquassato di case e di orti. Vecchie case mediterranee, col tetto a volta, si mischiano a nuove casette economiche, dai blocchi di tufo umidi, i balconi incompleti, il tetto a terrazza. Isolato in un orto c’è un dado di casa, anzi un ripostiglio, su cui è scritto: « Salone »; e da dietro i vetri della portafinestra il barbiere mi guarda passare, immalinconito dal freddo. La sala della trattoria è enorme e nuda, imbiancata a calce. Nessuna decorazione, soltanto i tavoli e le sedie, sicché lo sguardo si perde subito nel mare e vi resta affascinato per il gioco della pioggia che scende a velari, con un mutare di luci che i tuoni lontani accompagnano. Le nuvole coprono e ricoprono Capri e i monti di Sorrento, rapidamente e sempre daccapo. Due comitive sono ai loro tavoli, abbastanza insensibili agli sforzi del paesaggio, immerse nella serietà napoletana del pranzo. Esco all’aperto, il mare è subito sotto di me, spumoso, cattivo, contro la roccia nera portata dal Vesuvio. È persino troppo. Ma nel punto più alto e sacro della breve scogliera, dove la spuma arriva con improvvisi schiaffi, e proprio dove i Greci avrebbero eretto il tempietto ad Afrodite, c’è il chiosco dei gabinetti, stile ferroviario.
  Al Teatro San Ferdinando, dove recitano gli attori della Compagnia Scarpettiana. Danno tre atti di Eduardo Scarpetta, elaborati da una vecchia pochade francese, riprova questa che l’unica lingua in cui il francese può essere tradotto è il napoletano, perché vi conserva il suo brio e vi perde quel tanto di esatto, di finito, di irremovibile che la rende superba come una figlia unica. Si apre il sipario e siamo in campagna, nelle scene di una volta: a destra l’osteria, a sinistra un albergo, in fondo l’accecante paesaggio dei dintorni di Napoli. In commedie come questa, che s’intitola: ’E nepute d’o Sinneco, due personaggi cominciano spiegando la situazione, dopodiché si passa' a un onesto divertimento. Gli attori della Scarpettiana son tutti eccellenti, di una comicità naturale; e la commedia, basata su equivoci di persona e travestimenti da uomo a donna e viceversa, si presta al loro gioco, sembra anzi un’invenzione continua e così si riscatta dal suo meccanismo. La presenza di un’attrice francese, Hélène Remy, non appare affatto arbitraria, anzi allusiva alla Napoli del café-chantant, ai suoi legami con la stessa Parigi. Il De Vico, lo Sportelli, Pupella Maggio mi sembrano gli attori più precisi. Ma uno, tra gli altri, per la sua pulita eleganza e la sua adesione a una precisa realtà mi fa pensare a una Napoli viva inserita nella pochade: Pietro Carloni. Il suo personaggio, ma più ancora il suo stile, ricordano un Pulcinella di ottima famiglia decaduta, obbligato a cercarsi un lavoro facile e a svolgerlo con garbo. C’è un punto nella commedia che è la sua chiave. Costretto al silenzio da un amico, quando si accorge che tacendo potrà perdere appunto il suo impiego, scoppia sdegnosamente: « Debbo parlare, ne va di mezzo la mia dignità!». Ma aggiunge poco dopo: «Anzi, peggio, ne va di mezzo il mio pane». E tra sé commenta, avendo ritrovata la forza plebea del suo ragionamento: «La zuppa!». Il pubblico è, come dicono a Napoli, «aux anges».

   

  [« Il Mondo», 19 febbraio 1957]


  Foglietti napoletani (II)

  Mi infilo con la macchina in una strada che improvvisamente diventa vicolo e si ingombra di carretti, di bambini, di sedie e persino di un baule. Quattro o cinque persone che stavano andando per i fatti loro si fermano severamente per vedere come me la caverò; non capisco se vogliono assistere alla catastrofe o se hanno deciso di provocarla. Innervosito, tento la marcia indietro, che riesce male. Dovrò tentare daccapo. Una piccola folla si è raccolta, i passanti aspettano, i bambini gridano, sto rischiando di entrare in un portone, da dove uscirei soltanto con l’aiuto dei pompieri. E a questo punto, vista la mia sconfitta, tutti mi aiutano: i carretti scompaiono, le sedie e i bambini vengono ritirati, il baule sollevato. È una rapida, allegra gara di cortesie, che mi permette di passare. Parto, salutato come un amico.

  La sera in un albergo apro i Diari di viaggio di Melville, nella traduzione francese di Ledoux, uscita in questi giorni. C’è il diario di un viaggio in Italia, con una sosta a Napoli e la data è proprio di un secolo fa: 1857. A pagina 214, leggo: «Acrobati in una via stretta. Strada ostruita. Balconi carichi di donne. Un telo steso a terra. [Gli acrobati] si fecero da parte per lasciarci passare, dopo aver cominciato il loro numero, per dar prova di una calma molto naturale. Gaiezza. Mi sono voltato per mandargli un saluto grazioso e riconoscente. Fazzoletti agitati dai balconi, esclamazioni di buon umore. Ero più fiero di un imperatore ».

  È probabile, penso, che l’angustia di certe strade renda inevitabili questi incidenti, da secoli. Ma che la gente continui a sopportarli sempre con la stessa allegria, come se facessero parte di una commedia che conosce e che giustifica anzi la sua presenza all’aperto, questo è un mistero che non si spiega se non accettando il semplice giudizio di R., che commenta così l’episodio: «È un popolo spirituale»

  Fermo davanti alla vetrina di un libraio, un bambino mi chiede qualcosa. Non ho moneta spicciola, ma mi dispiace di mandarlo via deluso. Gli do un biglietto, chiedendogli di cambiarmelo; lo prende, assicura che andrà a cambiarlo « da quello della benzina » e si allontana di corsa. Entro nella libreria, già pentito del mio impulso e quando esco il bambino non c’è: forte della mia bella prova di stupidaggine ha stimato inutile di tornare. Non so dargli torto, ma mi dispiace; e, camminando, penso al discorsetto severo che gli farei, se il caso me lo facesse incontrare daccapo: un discorsetto inutile, che ben presto si scioglie nello spettacolo della strada e con un improvviso scroscio di pioggia che fa riunire i passanti nei portoni e fa fuggirne altri coi giornali sulla testa. Qualche giorno dopo lo stesso bambino è lì davanti a me, nella stessa strada, e mi rinnova la sua richiesta. Lo guardo fisso, gustando la mia puerile vendetta. « Mi riconosci? » gli domando. Fa un cenno negativo, mandando il capo in su, gli occhi però mi scrutano e già il suo piccolo corpo si tende, impercettibilmente, allo scatto della fuga: comunque non ricorda. Ma è chiaro che la sua curiosità è pari almeno alla mia ironica soddisfazione. Gli rammento l’incidente, convinto di schiacciarlo. Per un attimo tace, poi di colpo illuminandosi per la magnifica scusa che gli viene, limpida come un verso, esclama: « Signore, quello dev’essere stato mio fratello! Ma stasera, quando lo vedo... ». E se ne va, facendomi segno di stare tranquillo, penserà lui a vendicarmi
Impossibilità di sentirsi estranei, visto che la gente non ve lo permette. Il breve momento di una sosta al caffè e il barista già vi offre un pretesto di conversazione, non solo plausibile ma intrigante. Vi ha studiato in un attimo, sa che forse non vi vedrà più, ma questo non conta, deve mostrarvi come può che è un essere vivente e pieno di simpatia. Torcendo il collo, guarda il libro sul banco, commenta: « Siete professore? », già pronto al rispetto se ammettessi di essere professore. Poiché nego di esserlo, fa un gesto di comprensione, per dire che va bene lo stesso, non tutti possiamo essere professori e del resto, se volessi, io potrei esserlo benissimo, si vede che non mi manca l’intelligenza e lo studio. Tutto ciò con un semplice gesto al quale fa seguire uno sguardo che sottintende questa riserva: « Probabilmente voi siete un professore, anche se volete negarlo. Non mi importa, sono fatti vostri, comunque io credo a quello che mi dite ».

  E il venditore di false penne stilografiche che, al mio rifiuto, smette di colpo il tono insinuante, si fa serio e si apre alle confidenze: « Signore, da dopo Natale a tutto febbraio poco si combina. Sono sessanta giorni, bisogna resistere, poi ricomincia il turismo, viene la bella stagione, e allora... ».
  Sul Vesuvio ci fermiamo a una svolta della strada a guardare il golfo. Vibra un vento che fa sfumare la nebbia sulle cime e il silenzio è completo, ravvivato da qualche colpo lontano di clacson che sorprende per la sua nitidezza. Il paesaggio e i colori sono ancora quelli di certa pittura di genere, col mare e il cielo che si confondono, il rosa delle fabbriche, l’azzurro brunito delle isole. Tutt’intorno, la lava si è rappresa in forme violente e decorative, qualcosa come la scultura di Moore, ma con un piglio più drammatico e in quantità strabocchevole. Saltellando su queste rocce vengono verso di noi due giovani sporchi di celeste dalla fronte alle scarpe. Hanno infatti un gran barattolo di questo colore e due pennelli, e vanno dando una mano di tinta ai tralicci della luce. Sono attratti anche essi dal paesaggio, lo commentano, ci dicono i nomi della pianura, scherzano. Parlano poi del Vesuvio come di un signore scontroso, che però si rifarà vivo, si tratta di aspettare, ha un carattere suo e ci vuole pazienza. Hanno l’aria di scusarlo ai nostri occhi per lo spettacolo interrotto. Poi parlano del loro lavoro, che non è facile né allegro, ma lo preferiscono a ogni altro, perché se ne vanno liberi per la montagna e poi « è sempre un lavoro di pittura ». Volentieri si fermerebbero ancora, ma debbono tornare giù o altrimenti tutti restano senza luce. Si allontanano canticchiando, ebbri di una felicità carnevalesca che li rende, così colorati come sono, incredibili.

  G. mi racconta che nel suo albergo, che stanno restaurando, una mattina entra nella sua stanza un tale, gli si ficca sotto il letto e comincia a dar colpi di martello sulla parete. Così svegliato, G. fa un balzo, crede di essere assassinato, ma di sotto il letto sbuca la sorridente faccia di un elettricista che lo rassicura: « Dormite pure, signo’, sto facendo l’impianto»
  Serata in un teatrino popolare di varietà. Entra una cantante piccola e grassoccia, con due occhi di carbone, che strizza furbescamente, aspettando l’attacco dell’orchestra. Indossa un abito a tuta, con pantaloni guarniti di laminette dorate, i tacchi delle scarpe molto alti, un orologio al polso. Comincia a cantare con una voce talmente forte da suscitare lo sgomento nel pubblico, e va avanti così per qualche minuto. Le subentra un giovane che è il beniamino della galleria, dove in un angolo s’è radunato un gruppetto di spasimanti. Il cantante sta subito al gioco e guarda i giovani provocantemente, sottolinea le frasi più accese della sua canzone e strizza intanto l’occhio alla platea perché nessuno dubiti di lui. Gli spasimanti applaudono, mandano baci, il pubblico protesta, ride, fischia; mentre l’orchestra, distratta, sbanda come durante un naufragio, aumentando il disastro, riprendendosi infine con un rullare di tamburi che è un richiamo all’ordine e che fa spuntare tra le quinte le teste degli altri cantanti, per vedere che succede.
  Passando per la Domiziana, deviazione per Cuma. Arriviamo in quella campagna invernale ma pure dolcissima, fittamente coltivata, con le case dei contadini fatte sui ruderi, la spiaggia che sfuma verso il lago di Patria e la cima di Mondragone, coperta di macchie basse e nemmeno molto mutata dal giorno che vi sbarcò Enea. Il mare è lo stesso, un mare per contadini, senza barche, selvatico e aperto al vento. L’Acropoli è davanti a noi ma il cancello è chiuso e un custode ci avverte che non può farci entrare: « C’è lo sciopero delle Belle Arti » dice. E così, su questo saggio e certamente sibillino richiamo alla realtà, riprendiamo la strada per Roma.

   

  [«Il Mondo», 5 marzo 1957]