domenica 5 maggio 2019


LO SCHERZO
Milan Kundera
ADELPHI 

PARTE PRIMA

Ludvík

  Così, dopo molti anni, mi ritrovai a casa. Stavo sulla piazza principale (dove ero passato innumerevoli volte da bambino, da ragazzo e da giovane) senza provare alcuna emozione; al contrario, pensavo che quella piazza così piatta, coi suoi tetti sovrastati dalla torre del municipio (simile a un soldato con un elmo antico), sembrava un grande cortile di caserma, e che il passato militare di quella città morava, un tempo baluardo contro le scorrerie di turchi e magiari, aveva impresso sul suo volto i segni di una irrimediabile volgarità.
Per molti anni nulla mi aveva richiamato nella mia città natale; mi dicevo di esserle divenuto indifferente e mi sembrava naturale: non vivendoci ormai da quindici anni, non mi sono rimasti che un paio di conoscenti o amici (e questi preferisco evitarli), mia madre vi è sepolta in una tomba estranea della quale non mi curo. Ma mi ingannavo: quella che chiamavo indifferenza era in realtà rancore; i suoi motivi mi sfuggivano, perché nella mia città natale mi erano accadute cose belle e cose brutte, come in ogni altra città, ma quel rancore c'era; me ne ero accorto proprio in relazione a questo viaggio: in fondo, il compito che mi aveva portato qui avrei potuto assolverlo anche a Praga, ma l'occasione che mi si offriva di farlo nella mia città natale aveva cominciato all'improvviso ad attrarmi in maniera irresistibile, proprio perché si trattava di un compito cinico e materiale che mi liberava con un sogghigno dal sospetto di esser potuto tornare qui per un intenerimento sentimentale legato al tempo perduto.
Guardai ancora una volta con scherno quella piazza non bella e poi le voltai le spalle e mi diressi verso l'albergo dove avevo prenotato per la notte. Il portiere mi consegnò una chiave attaccata a una pera di legno, dicendo: «Secondo piano». La camera non era affatto attraente: lungo la parete un letto, al centro un piccolo tavolo con un'unica sedia, accanto al letto una pretenziosa toilette di mogano con lo specchio, vicino alla porta un lavabo screpolato decisamente piccolo. Posai la cartella sul tavolo e aprii la finestra: dava su un cortile e su alcune case che mostravano all'albergo le loro schiene nude e sporche. Chiusi la finestra, tirai le tende e mi avvicinai al lavabo; aveva due rubinetti, uno con un segno rosso, l'altro azzurro; li provai e da entrambi uscì acqua fredda. Guardai il tavolo: tutto sommato poteva andare, per una bottiglia e due bicchieri c'era posto a sufficienza; il guaio era che ci si poteva sedere solo una persona, perché nella stanza mancava una seconda sedia. Avvicinai il tavolo al letto e provai a sedermi lì, ma era troppo basso e il tavolo troppo alto; per di più sprofondava tanto sotto il mio peso che fu subito chiaro non solo che ben difficilmente sarebbe potuto servire come sedile, ma che anche la sua funzione di letto sarebbe stata assolta in maniera discutibile. Lo saggiai con i pugni; poi mi distesi, sollevando con cura i piedi con le scarpe per non sporcare la coperta e il lenzuolo. Il letto si affossò e mi ci trovai sdraiato dentro come in un'amaca o in una tomba stretta: era impossibile immaginare che su quel letto, insieme con me, potesse stare anche un'altra persona. Mi sedetti sulla sedia fissando le tende attraversate dalla luce e mi misi a pensare. In quel momento dal corridoio si sentirono dei passi e delle voci; erano in due, un uomo e una donna; discutevano tra loro e si capiva ogni parola: parlavano di un certo Petr che era scappato di casa, e di una certa zia Klara che era stupida e viziava il ragazzo; si sentì poi una chiave in una serratura, una porta che si apriva e le voci continuarono nella stanza accanto; si sentirono i sospiri della donna (sì, anche i semplici sospiri si sentivano!) e la decisione dell'uomo di parlare schietto a Klara una volta per tutte.
Mi alzai, ormai deciso; mi lavai nuovamente le mani nel piccolo lavabo, le asciugai con l'asciugamano e uscii dall'albergo, senza saper bene dapprima dove sarei andato. Sapevo soltanto che, se non volevo mettere a repentaglio la riuscita di tutto il mio viaggio (un viaggio piuttosto lungo e faticoso) solo per l'inadeguatezza della camera d'albergo, dovevo, pur non avendone alcun desiderio, rivolgermi a qualche mio conoscente di qui con una richiesta confidenziale. Passai velocemente in rassegna tutti i vecchi visi della giovinezza, ma li scartai tutti immediatamente, non foss'altro perché il carattere confidenziale del favore richiesto mi avrebbe obbligato a gettare un faticoso ponte sui lunghi anni nei quali non ci eravamo visti - e non ne avevo alcuna voglia. Ma poi mi ricordai che lì probabilmente viveva un tale, uno di fuori, al quale io stesso anni prima avevo procurato un posto e che, per come lo conoscevo, sarebbe stato molto felice di potermi ripagare il favore con un favore.
 Era un tipo strano, allo stesso tempo scrupolosamente retto e stranamente inquieto e mutevole, la cui moglie, per quel che ne sapevo, aveva ottenuto il divorzio alcuni anni prima per la semplice ragione che lui viveva dappertutto tranne che con lei e col figlio.
Adesso ero terrorizzato all'idea che si fosse potuto risposare, perché ciò avrebbe reso difficoltosa l'accoglienza della mia richiesta, e mi affrettai verso l'ospedale. L'ospedale di questa città è un complesso di edifici e di padiglioni disseminati nell'ampio spazio di un giardino; entrai nella piccola guardiola vicino al cancello e pregai il portiere dietro il tavolo di passarmi virologia; quello spinse il telefono verso il bordo del tavolo e disse: «Zero due». Feci quindi lo zero due e venni a sapere che il dottor Kostka aveva appena lasciato il reparto e stava dirigendosi verso l'uscita. Mi sedetti su una panchina vicino al cancello per non farmelo sfuggire, e presi a osservare gli uomini che gironzolavano in vestaglia da ospedale a strisce bianche e celesti; poi lo vidi: camminava sovrappensiero, alto, magro, simpaticamente brutto: sì, era lui. Mi alzai dalla panchina e gli andai dritto incontro, come se avessi voluto urtarlo; mi lanciò uno sguardo irritato, ma subito mi riconobbe e spalancò le braccia. Mi sembrò che la sua sorpresa fosse quasi gioiosa, e la spontaneità della sua accoglienza mi fece piacere.
Gli spiegai che ero arrivato da poco meno di un'ora per una faccenda senza importanza che mi avrebbe trattenuto circa un paio di giorni, ed egli manifestò subito la sua lieta meraviglia che il mio primo giro in città mi avesse condotto da lui. All'improvviso mi spiacque di non essere andato a trovarlo disinteressatamente, solo per vederlo, e che anche la domanda che stavo per fargli (gli chiesi giovialmente se si fosse già risposato) fingesse una reale partecipazione, mentre in realtà era pratica e interessata. Mi disse (con mio sollievo) che era sempre solo. Dichiarai che su questo avevamo molte cose da dirci. Fu d'accordo e gli dispiaceva di avere soltanto poco più di un'ora di tempo, perché doveva ancora tornare in ospedale e la sera, poi, sarebbe partito dalla città con la corriera. «Lei non abita qui?» mi spaventai. Mi rassicurò: ci abitava, aveva un monolocale in una costruzione nuova, ma «da soli si sta male».

      Venne fuori che Kostka aveva una fidanzata in un'altra città a venti chilometri da lì, un'insegnante che, disse, aveva un appartamento di due stanze. «Col tempo si trasferirà da lei?» gli chiesi. Lui disse che in un'altra città gli sarebbe stato difficile procurarsi un lavoro interessante come quello che aveva trovato col mio aiuto, mentre per la fidanzata ci sarebbero stati problemi a trovare un posto lì.

      Cominciai a maledire (in tutta sincerità) la lentezza della burocrazia, incapace di venire incontro a un uomo e a una donna perché possano vivere insieme. «Si calmi, Ludvík,» mi disse con gentile condiscendenza «non è poi così insopportabile. Mi costa un po' di soldi e di tempo in viaggi, ma la mia solitudine rimane intatta e io sono libero». «Perché ha tanto bisogno di libertà?» gli chiesi. «E lei, perché ne ha bisogno?» mi chiese lui di rimando. «Sono un donnaiolo» risposi. «Io non la voglio per le donne, la libertà, la voglio per me» disse, e continuò: «Senta, facciamo un salto da me, prima che io parta». Non desideravo altro.

      Uscimmo quindi dall'ospedale e in breve giungemmo a un gruppo di nuove costruzioni che si alzavano disarmoniche, una accanto all'altra, da un terreno polveroso e irregolare (senza prati, senza marciapiedi, senza una strada), creando un triste scenario ai margini della città che confinava con la pianura vuota dei campi lontani.

      Entrammo in un portone, salimmo una stretta scala (l'ascensore non funzionava) e ci fermammo al terzo piano dove, su un biglietto da visita, vidi il nome di Kostka. Quando, attraversata l'anticamera, entrammo nella stanza, fui più che soddisfatto: in un angolo c'era un ampio e comodo divano; oltre al divano, c'erano un tavolino, una poltrona, una grande libreria, il giradischi e la radio.

      Mi complimentai con Kostka per la camera e chiesi com'era il bagno. «Niente di lussuoso» disse, compiaciuto del mio interesse, invitandomi a passare nell'anticamera da dove una porta introduceva in un bagno piccolo ma abbastanza piacevole, con la vasca, la doccia, il lavabo. «A vedere questo suo bellissimo appartamento mi viene un'idea» dissi. «Cosa fa domani pomeriggio e domani sera?».

      «Purtroppo» si scusò lui contrito «domani ho l'orario continuato, tornerò solo verso le sette. Lei non è libero la sera?». «Penso di sì,» risposi «ma nel frattempo non potrebbe prestarmi il suo appartamento per il pomeriggio?».

      Fu sorpreso della mia domanda, ma subito (come temendo che io sospettassi una sua scortesia) mi disse: «Sarò molto felice di dividerlo con lei». E continuò, come non volendo indagare di proposito i motivi della mia richiesta: «Se ha problemi di alloggio, può dormire qui oggi stesso perché io non tornerò che domattina, e in effetti neanche domattina, perché andrò direttamente in ospedale».

      «No, non serve. Ho preso una camera in albergo. Solo che non è affatto accogliente e domani pomeriggio avrei bisogno di qualcosa di accogliente. Certo non per starci da solo». «Sì,» disse Kostka abbassando leggermente la testa «l'avevo immaginato». E dopo un istante disse: «Sono felice di poter fare qualcosa di buono per lei».

      Poi aggiunse ancora: «Ammesso che per lei sia veramente qualcosa di buono».

      Ci sedemmo poi al tavolino (Kostka aveva preparato il caffè) e restammo un po' a parlare (io mi sedetti sul divano, appurando con soddisfazione che era solido, che non si abbassava né cigolava). Poi Kostka annunciò che doveva già tornare in ospedale, per cui mi iniziò velocemente ad alcuni segreti della casa: il rubinetto della vasca da bagno deve essere stretto forte; l'acqua calda, contro ogni consuetudine, esce dal rubinetto segnato con la lettera F; la presa di corrente per la spina del giradischi è nascosta sotto il divano e nell'armadietto c'è una bottiglia di vodka appena iniziata. Mi diede poi un mazzetto con due chiavi, e mi mostrò la chiave del portone e quella dell'appartamento. Nel corso della mia vita, durante la quale ho dormito in molti letti diversi, ho coltivato un culto speciale per le chiavi, e anche le chiavi di Kostka le infilai in tasca con silenziosa allegria.

      Uscendo, Kostka espresse il desiderio che il suo appartamentino mi procurasse «davvero qualcosa di bello». «Sì,» gli dissi «mi permetterà di operare una bella distruzione». «Pensa che le distruzioni possano essere belle?» disse Kostka, e io sorrisi dentro di me perché in quella domanda (posta con mitezza ma pensata con spirito combattivo) riconobbi la stessa persona che avevo conosciuto per la prima volta più di quindici anni addietro. Gli volevo bene e allo stesso tempo mi faceva sorridere, e a quest'ultimo aspetto di lui risposi: «So che lei è un tranquillo operaio dell'eterno cantiere di Dio e che non le piace sentir parlare di distruzioni, ma cosa posso farci: io non sono un muratore di Dio. Del resto, se qui i muratori di Dio costruissero edifici con muri autentici, difficilmente le nostre distruzioni potrebbero far loro qualche danno. Io ho invece l'impressione di vedere dappertutto, al posto dei muri, nient'altro che fondali. E la distruzione dei fondali è una cosa giustissima».

      Eravamo tornati al punto in cui ci eravamo lasciati l'ultima volta (forse qualcosa come nove anni prima); ora la nostra discussione aveva un'aria molto astratta, perché la sua base concreta era ben nota a entrambi e non sentivamo il bisogno di ripetercela di nuovo; l'unica cosa da ripeterci era il fatto che non eravamo cambiati, che continuavamo a essere diversi l'uno dall'altro allo stesso modo (anche se devo dire che quella diversità di Kostka mi piaceva, e proprio per questo provavo gusto a discutere con lui, perché così potevo sempre e nuovamente chiarire a me stesso di passaggio chi ero realmente e che cosa pensavo). Per non lasciarmi quindi dei dubbi su di sé, mi rispose: «Quello che lei ha detto suona bene. Ma mi dica: se lei è tanto scettico, da dove prende tutta questa certezza di saper distinguere un fondale da un muro? Non ha mai dubitato che le illusioni delle quali si prende gioco siano davvero soltanto illusioni?

      E se si sbagliasse? E se fossero invece dei valori e lei un distruttore di valori?». E poi disse: «Un valore sminuito e un'illusione smascherata hanno gli stessi miseri corpi, si rassomigliano, e non c'è niente di più facile che confonderli».

      Riaccompagnavo ora Kostka all'ospedale, all'altro capo della città, giocherellavo in tasca con le chiavi e mi sentivo bene accanto a quel vecchio amico capace di cercare di convincermi della sua verità in qualunque momento e luogo, magari proprio adesso mentre attraversavamo la superficie irregolare del nuovo complesso edilizio.

      Kostka, naturalmente, sapeva che il giorno dopo avremmo avuto a disposizione l'intera serata, per cui passò in breve dai problemi filosofici alle preoccupazioni comuni, e si assicurò nuovamente che l'indomani avrei aspettato nell'appartamento il suo ritorno alle sette (non aveva altre chiavi per sé) e mi chiese se non avessi davvero più bisogno di nulla. Mi toccai il viso e dissi che ormai avrei solo avuto bisogno di passare da un barbiere, perché avevo la barba spiacevolmente lunga. «Ottimo!» disse Kostka. «Le procurerò una rasatura di favore».

      Non mi opposi alla premura di Kostka e mi lasciai accompagnare in un piccolo negozio di barbiere dove, davanti a tre specchi, troneggiavano tre grandi poltrone girevoli, due delle quali occupate da due uomini con la testa piegata all'indietro e il viso insaponato.

      Due donne in camice bianco erano chine su di loro. Kostka si avvicinò a una di esse e le bisbigliò qualcosa; la donna pulì il rasoio su una salvietta e diede una voce al retrobottega: ne uscì una ragazza in camice bianco che andò a occuparsi del signore abbandonato nella sua poltrona, mentre la donna alla quale Kostka aveva parlato mi fece un cenno con la testa invitandomi con la mano a sedermi sulla poltrona rimasta. Salutai Kostka con una stretta di mano e mi sedetti appoggiando la testa al sostegno, e poiché dopo tanti anni di vita non mi piace guardare la mia faccia, evitai lo specchio di fronte a me, alzai gli occhi e li lasciai vagare sul soffitto bianco macchiato.

      Lasciai gli occhi sul soffitto anche dopo, quando sentii sul collo le dita della barbiera che mi infilavano il lenzuolo bianco dentro il colletto della camicia. Poi la barbiera si allontanò leggermente e io non sentii altro che l'andirivieni del rasoio sulla striscia di cuoio, e mi fissai in una sorta di dolce immobilità piena di gradevole indifferenza. Un istante dopo sentii sul viso le dita umide e scivolose spalmarmi la pelle di crema saponata e mi resi conto del fatto strano e ridicolo che un'estranea, della quale non mi importava nulla e alla quale non importava nulla di me, mi stava accarezzando con tenerezza. Poi, col pennello, la barbiera cominciò a stendere il sapone, e a me parve di non essere forse nemmeno seduto, ma semplicemente di navigare nello spazio bianco disseminato di macchie. E allora (poiché i pensieri negli istanti di riposo non rinunciano ai loro giochi) immaginai di essere una vittima indifesa data completamente in balìa della donna che aveva affilato il rasoio.

      E poiché il mio corpo si dissolveva nello spazio e io sentivo solo il viso toccato dalle dita, mi fu facile immaginare le sue morbide mani che tenevano (giravano, accarezzavano) la mia testa come se non la considerassero attaccata al corpo bensì isolata, a sé, per cui il rasoio affilato, in attesa sul tavolino, non poteva far altro che portare a compimento la bella autonomia della testa.

      Poi i palpeggiamenti cessarono e sentii la barbiera scostarsi un poco e questa volta prendere in mano il rasoio, e allora mi dissi (dato che i pensieri continuavano i loro giochi) che avrei dovuto vedere che aspetto aveva veramente la detentrice (la sollevatrice) della mia testa, il mio tenero assassino. Distolsi gli occhi dal soffitto e guardai nello specchio. E in quel momento raggelai: il gioco che mi stava divertendo acquistò all'improvviso tratti stranamente reali: quella donna che si chinava su di me nello specchio, mi sembrava infatti di conoscerla.

      Con una mano mi teneva il lobo dell'orecchio, con l'altra toglieva con attenzione il sapone dalla guancia; la guardai, e in quel momento l'identità, accertata con terrore un attimo prima, cominciò lentamente a sfumare e a confondersi. Lei si chinò sul lavabo, con due dita tolse dal rasoio il mucchietto di sapone, si rialzò e fece ruotare un poco la poltrona; in quell'istante i nostri sguardi si incontrarono per un attimo e mi sembrò nuovamente che si trattasse davvero di lei! Certo, il suo viso era un po' diverso, come se fosse appartenuto a una sorella più vecchia: era diventato grigio, spento, smagrito; ma erano pur sempre passati quindici anni dall'ultima volta che l'avevo vista! In tutti quegli anni il tempo aveva impresso sul suo volto reale una maschera ingannatrice, ma fortunatamente la maschera aveva due fori attraverso i quali potevano ancora guardarmi i suoi occhi autentici, i suoi occhi veri, quelli che conoscevo.

      Ma le tracce si confusero ulteriormente: nel negozio entrò un nuovo cliente che andò a sedersi su una sedia alle mie spalle, in attesa del suo turno; subito rivolse la parola alla mia barbiera; disse qualcosa sull'estate che era bella e sulla piscina che stavano costruendo fuori città; la barbiera gli rispondeva (facevo più attenzione alla sua voce che alle sue parole, del resto insignificanti) e scoprii di non riconoscere quella voce; suonava naturale, disinvolta, senza inquietudine, quasi rozza, era una voce del tutto estranea.

      Adesso mi stava lavando il viso, premeva i palmi sulla mia faccia e io (a dispetto della voce) ripresi nuovamente a credere che si trattava di lei, che dopo quindici anni sentivo nuovamente le sue mani sul mio viso, che nuovamente lei mi accarezzava, mi accarezzava a lungo e con tenerezza (stavo dimenticando del tutto che non si trattava di carezze ma di un lavaggio); la sua voce estranea continuava intanto a rispondere qualcosa all'uomo che cianciava, ma io non volevo credere alla voce, preferivo credere alle mani, volevo riconoscerla dalle mani; cercavo di capire, dal grado di gentilezza dei suoi tocchi, se si trattava di lei e se mi aveva riconosciuto.

      Poi prese un asciugamano e mi asciugò il viso. Il chiacchierone rideva rumorosamente a una sua stessa battuta, e io mi accorsi che la mia barbiera non stava ridendo, che quindi probabilmente non stava prestando troppa attenzione a quello che l'uomo le diceva. Questo mi elettrizzò, perché in ciò vedevo una prova del fatto che mi aveva riconosciuto ed era segretamente agitata. Ero deciso a parlarle non appena mi fossi alzato dalla poltrona. Lei mi tolse l'asciugamano da dietro il collo. Mi alzai. Tirai fuori dal taschino un biglietto da cinque corone. Aspettavo che i nostri sguardi si incontrassero nuovamente per poterle parlare chiamandola per nome (l'uomo continuava a cianciare qualcosa), ma lei aveva la testa distrattamente voltata dall'altro lato, e prese le cinque corone con un gesto così secco e impersonale che tutt'a un tratto mi sembrò di essere un pazzo che aveva creduto alle sue visioni, e non riuscii in alcun modo a trovare il coraggio di parlarle.

      Uscii dal negozio con una strana insoddisfazione; sapevo soltanto che non sapevo nulla e che era una cosa molto rozza perdere la certezza dell'identità di un viso un tempo tanto amato.

      Mi affrettai verso l'albergo (lungo la strada vidi sul marciapiede opposto un vecchio amico di gioventù, Jaroslav, primo violino in un'orchestrina col cimbalom, ma come fuggendo davanti a una musica importuna e chiassosa allontanai velocemente lo sguardo) e dall'albergo telefonai a Kostka; era ancora in ospedale.

      «Mi scusi, la barbiera alla quale mi ha affidato si chiama Lucie Šebetková?».

      «Oggi ha un nome diverso, ma è lei. Come la conosce?» disse Kostka.

      «È una cosa di tanto tempo fa» risposi e non andai nemmeno a cena, uscii dall'albergo (già imbruniva), me ne andai ancora a gironzolare.

      PARTE SECONDA

      HELENA

      1

      Oggi andrò a letto presto, non so in realtà se mi addormenterò, ma andrò a letto presto, Pavel è partito oggi pomeriggio per Bratislava, io domattina presto andrò in aereo a Brno e da lì poi in corriera, Zdenička rimarrà sola a casa due giorni, non gliene importerà, non le interessa molto la nostra compagnia, cioè non le interessa molto la mia compagnia, Pavel invece lo adora, Pavel è il primo uomo che lei ammiri, ma bisogna dire che lui ci sa fare con lei, come ci ha sempre saputo fare con tutte le donne, anche con me ci sapeva fare, e continua a saperci fare, questa settimana ha ripreso a comportarsi con me come tanto tempo fa, mi ha accarezzato il viso promettendomi che di ritorno da Bratislava sarebbe passato a prendermi in Moravia, secondo lui possiamo ricominciare a parlare, forse anche lui ha capito che così non può più andare avanti, forse vuole che le cose tra noi tornino come prima, ma perché c'è arrivato solo ora che ho conosciuto Ludvík? Sono angosciata ma non devo essere triste, non devo, che la tristezza non sia unita al mio nome, questa frase di Fučík è il mio motto, anche quando lo stavano torturando, anche sotto la forca, Fučík non fu mai triste, e non m'importa che oggi la gioia sia fuori moda, forse sono stupida, ma anche gli altri lo sono, col loro scetticismo alla moda, non capisco perché dovrei scambiare la mia stupidità con la loro, non voglio spaccare in due la mia vita, voglio che la mia vita sia una, una dall'inizio alla fine, è per questo che Ludvík mi è piaciuto tanto, perché quando sono con lui non devo cambiare i miei ideali e i miei gusti, è un uomo ordinario, semplice, allegro, chiaro, e questo è ciò che io amo, ciò che ho sempre amato.

      Non mi vergogno di come sono, non posso essere diversa da come sono sempre stata, fino a diciott'anni non ho conosciuto altro che l'appartamento per bene di gente per bene di Plzeň, gli studi e basta, e la vita reale era al di là di sette pareti; quando poi nel quarantanove giunsi a Praga, fu all'improvviso il miracolo, una felicità così grande che non la dimenticherò mai, e anche per questo non potrò mai cancellare Pavel dalla mia anima, anche se non lo amo più, anche se mi ha fatto del male, non posso, Pavel è la mia giovinezza, Praga, la facoltà, la casa dello studente e soprattutto il gruppo di canti e danze, oggi nessuno sa più cos'era per noi, è là che conobbi Pavel, cantava da tenore e io da contralto, partecipammo a centinaia di concerti e di spettacoli, cantavamo canzoni russe, le nostre canzoni sulla ricostruzione e ovviamente le canzoni popolari, erano le nostre preferite, a quei tempi ero a tal punto innamorata delle canzoni morave, che io, nata in Boemia, mi sentivo morava, ed esse sono diventate il leitmotiv della mia vita, per me si confondono con quell'epoca, con la mia giovinezza, con Pavel, le sento ogni volta che il sole si leva per me, anche in questi giorni, le sento.

      E in che modo avevo fatto amicizia con Pavel oggi non riuscirei neanche a dirlo, è come un racconto da libro di lettura, era l'anniversario della Liberazione e c'era una grande manifestazione nella piazza della Città Vecchia, anche il nostro gruppo era lì, andavamo insieme dappertutto, un pugno di persone in mezzo a decine di migliaia, e sulla tribuna i nostri uomini di Stato e quelli stranieri, ci furono molti discorsi e molti applausi e poi venne al microfono anche Togliatti e pronunciò un breve discorso in italiano, e la piazza rispose come al solito con grida, battimani, scandendo slogan. In quell'enorme ressa Pavel era per caso accanto a me, e io sentivo che in quel frastuono urlava qualcosa da solo, qualcosa di diverso, qualcosa di suo, gli guardai le labbra e capii che stava cantando, ma più che cantare urlava, voleva che noi lo sentissimo e ci unissimo a lui, cantava un canto rivoluzionario italiano, faceva parte del nostro repertorio ed era allora molto popolare: «Avanti popolo, alla riscossa, bandiera rossa, bandiera rossa...».

      Lui era fatto così, non gli bastava mai attaccare soltanto la ragione, voleva raggiungere i sentimenti; a me sembrava meraviglioso salutare su una piazza di Praga un dirigente operaio italiano con un canto rivoluzionario italiano, speravo che Togliatti fosse commosso come già lo ero io, e per questo mi unii con tutte le mie forze alla voce di Pavel, poi si unirono altri, e poi altri ancora e alla fine il nostro gruppo al completo, ma il clamore della piazza era terribile e noi eravamo un pugno di persone, eravamo solo cinquanta e loro almeno cinquantamila, una superiorità schiacciante, una lotta disperata, per tutta la prima strofa pensavamo che ci avrebbero sopraffatti, che il nostro canto non si sarebbe nemmeno udito, ma poi avvenne il miracolo, a poco a poco si unirono sempre più voci, la gente aveva cominciato a capire e il canto lentamente si liberava dal grande fragore della piazza come una farfalla da un'enorme crisalide rumoreggiante. Alla fine quella farfalla, quel canto, o almeno alcune delle sue ultime battute, volarono fino alla tribuna, noi guardavamo ansiosi il viso dell'italiano brizzolato e fummo felici quando ci sembrò che reagisse al canto con un movimento della mano, e io ero addirittura certa, benché fosse impossibile distinguerlo da quella distanza, di vedere delle lacrime nei suoi occhi.

      E in quel momento di entusiasmo e di emozione, senza nemmeno sapere come, afferrai all'improvviso la mano di Pavel e Pavel ricambiò la mia stretta, e quando poi la piazza si fece silenziosa e al microfono si avvicinò ancora qualcun altro, io ebbi paura che mi avrebbe lasciato la mano, ma non lo fece, continuammo a tenerci per mano fino alla fine della manifestazione e non ci lasciammo neanche dopo, la folla si disperse e noi passeggiammo alcune ore nella Praga in fiore.

      Sette anni dopo, quando Zdenička aveva già cinque anni, non me lo dimenticherò mai, lui mi disse: non ci siamo sposati per amore ma per disciplina di partito, lo so che stavamo litigando, che era una bugia, Pavel mi aveva sposato per amore e soltanto dopo era cambiato, ma è ugualmente terribile che abbia potuto dirmi una cosa del genere, quando era proprio lui a sostenere che oggi l'amore è diverso, che non è una fuga dalla gente ma un conforto nella lotta, e così infatti noi l'abbiamo vissuto, a mezzogiorno non avevamo neanche tempo per il pranzo, mangiavamo due panini asciutti nella segreteria dell'Unione della gioventù e poi magari non ci vedevamo più per tutto il resto della giornata, aspettavo che Pavel tornasse verso mezzanotte da quelle interminabili riunioni di sei o otto ore, nel mio tempo libero gli ricopiavo le relazioni che presentava alle conferenze e ai corsi più disparati, ci teneva in maniera straordinaria, lo so soltanto io quanto ci tenesse al successo dei suoi interventi politici, ripeteva centinaia di volte nei suoi discorsi che l'uomo nuovo si differenzia da quello vecchio per aver eliminato dalla propria vita il conflitto tra privato e pubblico, e adesso all'improvviso, dopo anni, mi rinfaccia che allora i compagni non avevano lasciato in pace il suo privato.

      Erano quasi due anni che stavamo insieme e io cominciavo a spazientirmi, non c'è niente di strano, nessuna donna vuole accontentarsi di una relazioncella tra studenti, Pavel si accontentava, si era abituato alla sua comoda mancanza di obblighi, ogni uomo è un po' egoista e tocca alla sua compagna difendere se stessa e la propria missione di donna, Pavel purtroppo questo lo capiva meno dei compagni del nostro gruppo, soprattutto meno di alcune mie amiche che si misero d'accordo con gli altri e alla fine convocarono Pavel davanti a una commissione, non so cosa gli dissero lì, non ne abbiamo mai parlato insieme, ma non usarono certo i guanti perché allora regnava una morale rigida, si esagerava, ma in fondo forse è meglio esagerare con la moralità che non con l'immoralità, come succede oggi. Pavel mi evitò a lungo, pensavo di aver rovinato tutto, ero disperata, volevo togliermi la vita, ma poi venne da me, mi tremavano le ginocchia, mi pregò di perdonarlo e mi diede in regalo un ciondolo con l'immagine del Cremlino, era il suo ricordo più caro, non me lo toglierò mai, non è solo un ricordo di Pavel, è qualcosa di più, scoppiai a piangere dalla felicità, e due settimane dopo ci sposammo e c'era tutto il nostro gruppo, si andò avanti per quasi ventiquattr'ore, cantammo e ballammo, e io dissi a Pavel che se noi due ci fossimo traditi l'un l'altro, avremmo tradito tutti quelli che stavano festeggiando con noi il matrimonio, avremmo tradito anche la manifestazione nella piazza della Città Vecchia e Togliatti, e oggi mi viene da ridere pensando a tutto quello che poi abbiamo tradito...

      2

      Sto pensando a quello che mi metterò domani, probabilmente il maglione rosa e il trench, mi fanno una figura migliore, non sono più molto slanciata, ma con ciò? Avrò delle rughe, ma ho anche un fascino diverso, che non ha nessuna ragazza giovane, il fascino di un destino vissuto, certo l'ho per Jindra, poverino, rivedo ancora la sua faccia delusa quando ha scoperto che io partirò in aereo al mattino presto e lui verrà da solo in macchina, è felice quando può stare con me, gli piace mettersi in mostra davanti a me in tutta la sua maturità di diciannovenne, con me sarebbe andato di sicuro a centotrenta pur di farsi ammirare, è un po' bruttino, ma come tecnico e autista è davvero in gamba, ai giornalisti piace portarselo dietro per i piccoli reportages in esterni, e in fondo che c'è di male, è bello sapere che c'è qualcuno che prova piacere a vedermi, in questi ultimi tempi alla radio non sono molto amata, dicono che sono una testarda, una fanatica, una dogmatica, un mastino del partito e non so cos'altro, solo che io non mi vergognerò mai di amare il partito e di sacrificargli tutto il mio tempo libero. Che mi resta, in fondo, nella vita? Pavel ha altre donne, ormai non cerco più di sapere chi, mia figlia adora il padre, da dieci anni il mio lavoro è sconsolatamente uguale: reportages, interviste, programmi sulla realizzazione dei piani, su stalle e mungitrici, e a casa una situazione altrettanto disperata, solo il partito non ha mai avuto colpe verso di me e io non ho mai avuto colpe verso di lui, nemmeno nei momenti in cui quasi tutti volevano abbandonarlo, quando nel cinquantasei vennero fuori i crimini di Stalin, la gente allora era impazzita, sputavano su tutto, dicevano che la nostra stampa mentiva, che i negozi nazionalizzati non funzionavano, che la cultura era in decadimento, che le cooperative nei villaggi non sarebbero dovute nascere, che l'Unione Sovietica era il paese della mancanza di libertà, e la cosa peggiore era che in questo modo parlavano anche i comunisti nelle loro riunioni, anche Pavel parlava in questo modo, e tutti ancora a battergli le mani, a Pavel hanno sempre battuto le mani, è da quand'era piccolo che gli battono le mani, figlio unico, sua madre si porta a letto la sua fotografia, un bambino prodigio, ma come uomo è un mediocre, non fuma, non beve, ma senza applausi non riesce a vivere, sono il suo alcol e la sua nicotina, e così era contento di poter nuovamente agire sul cuore della gente, parlava di quei terribili assassinii giudiziari con una tale passione che la gente per poco non si metteva a piangere, e io lo sentivo felice nel suo sdegno, e lo odiavo.

      Fortunatamente il partito diede una lezione a quegli isterici, si calmarono, si calmò anche Pavel, il posto di professore di marxismo all'università era troppo comodo per metterlo a repentaglio, ma qualcosa ormai era rimasto nell'aria, il germe dell'apatia, della sfiducia, dello scetticismo, un germe che si propagava in maniera silenziosa e nascosta, non sapevo cosa fare per oppormici, e così mi sono attaccata al partito ancor più di prima, come se il partito fosse stato una creatura viva, una persona, con lui posso discutere in tutta fiducia ora che in fondo non ho niente da dire a nessuno, e non soltanto a Pavel, neanche agli altri vado molto a genio, questo è venuto a galla una volta che abbiamo dovuto risolvere una faccenda penosa: un nostro giornalista, un uomo sposato, aveva una relazione con una ragazza dell'ufficio tecnico, giovane, nubile, irresponsabile e cinica, e la moglie del giornalista, disperata, si era rivolta alla nostra commissione chiedendo aiuto; discutemmo il caso per parecchie ore, convocammo a turno per un colloquio la moglie, la ragazza dell'ufficio tecnico e anche testimoni dei due uffici, ci sforzammo di capire il caso da tutti i lati e di essere giusti, il giornalista ricevette un biasimo dal partito, la ragazza dell'ufficio tecnico fu ammonita, ed entrambi dovettero promettere davanti alla commissione che si sarebbero lasciati. Purtroppo le parole sono soltanto parole, lo avevano detto soltanto per rassicurarci e per continuare a incontrarsi, ma le bugie hanno le gambe corte, in breve venimmo a saperlo e allora io fui per la decisione più severa, proposi che il giornalista fosse espulso dal partito per averlo coscientemente ingannato e deluso: che comunista è se mente al partito, io odio le menzogne, ma la mia proposta non passò, il giornalista ricevette un semplice biasimo, però la ragazza dell'ufficio tecnico dovette lasciare la radio.

      Allora si vendicarono ben bene di me, mi dipinsero come un mostro, una belva, fu una vera e propria campagna, cominciarono a rovistare nella mia vita privata, era il mio tallone d'Achille, una donna non può vivere senza affetto, non sarebbe una donna, perché dovrei negarlo, cercavo l'amore altrove non avendolo a casa, e del resto l'ho cercato invano, un giorno a una riunione pubblica aprirono il fuoco contro di me, dissero che ero un'ipocrita, che mettevo alla gogna gli altri accusandoli di rovinare i matrimoni, che volevo espellerli, cacciarli via, distruggerli, quando poi io stessa ero infedele a mio marito appena potevo, così dissero alla riunione, ma dietro le spalle dicevano cose anche peggiori, che in pubblico ero una suora e in privato una puttana, come se non riuscissero a capire che proprio perché so cos'è un matrimonio infelice, proprio per questo sono severa con gli altri, non per odio verso di loro ma per amore, per amore dell'amore, per amore della loro casa, dei loro bambini, perché voglio aiutarli, perché anch'io ho una bambina e una casa e ho paura per loro!

      Ma che importa, forse hanno ragione, forse sono davvero una donna cattiva e alla gente si deve davvero lasciare la sua libertà e nessuno ha il diritto di impicciarsi del suo privato, forse tutto questo nostro mondo l'abbiamo davvero concepito male e io sono davvero un commissario odioso che parla di cose che non lo riguardano, ma ormai sono così e non posso comportarmi diversamente da come sento, ormai è tardi, ho sempre creduto che un essere umano è in fondo indivisibile, solo un borghese è ipocritamente diviso in un essere pubblico e in un essere privato, questa è la mia convinzione, alla quale sono sempre stata coerente, anche quella volta.

      E quanto all'essere forse stata cattiva, non ho difficoltà ad ammetterlo, odio quelle ragazzine, quelle carognette, crudeli nella loro giovinezza, senza un briciolo di solidarietà per le donne più vecchie, ma un giorno anche loro avranno trenta e trentacinque e quarant'anni, e che nessuno mi venga a dire che lo amava, che ne sa lei dell'amore, va a letto con tutti, subito, non ha inibizioni, non ha pudore, mi offende a morte chi mi paragona a ragazze come quelle, solo perché da sposata ho avuto relazioni con altri uomini. La differenza è che io ho sempre cercato l'amore, e se mi sono sbagliata e non l'ho trovato dove lo stavo cercando, mi sono voltata, con la pelle d'oca, e sono andata via, sono andata altrove, pur sapendo benissimo quanto sarebbe stato semplice dimenticare il sogno giovanile dell'amore, dimenticarlo, superare il confine e ritrovarsi nel regno di quella strana libertà dove non esistono né vergogna né inibizioni e nemmeno una morale, nel regno della strana e ripugnante libertà dove tutto è permesso, dove basta ascoltare, dentro di sé, il pulsare del sesso, questa bestia.

      Ma so anche che se superassi quel confine cesserei di essere me stessa, diventerei qualcun altro e non so chi, e questo mi terrorizza, è un cambiamento terribile, ecco perché cerco l'amore, cerco disperatamente un amore nel quale gettarmi così come sono sempre stata, con i miei vecchi sogni e i miei ideali, perché non voglio che la mia vita si spacchi in due, voglio che resti intera dall'inizio alla fine, e per questo sono rimasta così affascinata quando ti ho conosciuto, Ludvík, Ludvík...

      3

      In effetti è stato terribilmente comico quando sono entrata per la prima volta nel suo studio, non mi ha colpito in modo particolare, gli ho chiesto le informazioni di cui avevo bisogno senza alcuna timidezza, gli ho detto come avevo intenzione di fare il servizio per la radio, ma quando poi ha cominciato a parlarmi, ho sentito all'improvviso che mi stavo confondendo, che dicevo delle sciocchezze, che parlavo come una stupida, e quando lui si è accorto del mio imbarazzo, ha spostato subito il discorso sulle solite cose, se ero sposata, se avevo bambini, dove andavo a fare le ferie, e ha detto anche che sembravo giovane e che ero bella, voleva farmi passare la tremarella, è stato molto gentile, ne ho conosciuti di fanfaroni che si danno delle arie senza sapere nemmeno la decima parte di quello che sa lui, Pavel non avrebbe fatto altro che parlare di sé, ma la cosa davvero buffa è che sono rimasta da lui un'ora intera e alla fine del suo istituto ne sapevo quanto prima, poi a casa ho buttato giù il servizio, che non mi è venuto affatto bene, ma forse ero contenta che non mi riuscisse, almeno così avevo una scusa per telefonargli e chiedergli se per caso non avesse voglia di leggere quello che avevo scritto. Ci siamo visti in un caffè, il mio povero servizio aveva quattro paginette in tutto, lui le ha lette, ha sorriso con galanteria e ha detto che era ottimo, mi aveva fatto capire fin dall'inizio che lo interessavo come donna e non come giornalista, non sapevo se questo avrebbe dovuto farmi piacere oppure offendermi, ma lo faceva in modo gentile, ci capivamo, non è certo uno di quegli intellettuali sottovetro così antipatici, dietro alle spalle ha una vita ricca, ha persino lavorato in una miniera, gli ho detto che sono proprio quelle le persone che mi piacciono, ma ciò che più mi ha sbalordita è che sia originario della Moravia, che abbia addirittura suonato in un'orchestrina col cimbalom, non potevo credere alle mie orecchie, sentivo il leitmotiv della mia vita, vedevo giungere da lontano la mia giovinezza e ho sentito che stavo abbandonandomi a Ludvík.

      Mi ha chiesto cosa mai facessi tutto il giorno, gliel'ho raccontato e lui - sento ancora quella sua voce per metà scherzosa e per metà compassionevole - mi ha detto: lei vive male, Helena, e poi ha dichiarato che dovevo cambiare, che dovevo cominciare a vivere in modo diverso, che dovevo dedicarmi un po' di più alle gioie della vita. Gli ho detto che non avevo nulla in contrario, che sono sempre stata una seguace della gioia, che non c'è nulla che mi dia più fastidio di tutte quelle malinconie alla moda, e lui mi ha detto che la mia professione di fede non significava nulla, che quelli che si dichiarano seguaci della gioia sono quasi sempre le persone più tristi, oh, come ha ragione! volevo gridare, e poi lui ha detto chiaro e tondo, senza mezzi termini, che il giorno dopo sarebbe venuto a prendermi alla radio alle quattro, che ce ne saremmo andati da qualche parte in campagna, fuori Praga. Ho protestato, sono pur sempre una donna sposata, non posso andare così alla leggera nel bosco con uno sconosciuto, e Ludvík mi ha risposto scherzando che lui non era un uomo ma solo uno studioso, ma intanto si era fatto triste, così triste!

      Me ne sono accorta e ho sentito un fiotto di calore per la gioia di scoprire che mi desiderava, e che mi desiderava ancora di più quando gli ricordavo di essere sposata, perché in quel modo mi allontanavo da lui e gli uomini desiderano sempre più fortemente le cose che si allontanano da loro, bevevo con avidità quella malinconia dal suo viso e in quel momento ho capito che era innamorato di me.

      E il giorno dopo, da un lato mormorava la Vltava, dall'altro si alzava un ripido bosco, era romantico, mi piacciono le cose romantiche, forse mi sono comportata un po' da pazza, magari questo non si addice alla madre di una bambina di dodici anni, ridevo, saltellavo, l'ho preso per mano obbligandolo a correre per un pezzo con me, ci siamo fermati, il cuore mi batteva forte, eravamo vicini, faccia a faccia, e Ludvík si è chinato leggermente e mi ha dato un bacio veloce, io mi sono divincolata in fretta e l'ho preso nuovamente per mano e abbiamo ricominciato a correre, io ho un leggero vizio cardiaco e il cuore si mette a palpitarmi al minimo sforzo, basta che salga di corsa una rampa di scale, per cui ho rallentato presto il passo, a poco a poco l'affanno è scomparso e all'improvviso ho intonato sottovoce le prime due battute della mia canzone preferita: «Ehi, splendeva il sole sul nostro giardino...» e quando mi è parso che lui mi capisse, ho cominciato a cantare a voce alta, non mi vergognavo, sentivo gli anni cadermi di dosso, le preoccupazioni, le pene, migliaia di scaglie grigie, e poi ci siamo seduti in una piccola osteria, abbiamo mangiato pane e salsicce, ogni cosa era assolutamente ordinaria e semplice, l'oste burbero, la tovaglia macchiata, eppure è stata un'avventura meravigliosa, ho detto a Ludvík lo sa che fra tre giorni vado in Moravia per un reportage sulla Cavalcata dei re? Mi ha chiesto dove di preciso e, quando gli ho risposto, mi ha detto che lui è nato proprio lì, di nuovo una coincidenza tale da sbalordirmi, e Ludvík ha detto prendo un permesso e vengo con lei.

      Ho avuto paura, ho ripensato a Pavel, a quel lumicino di speranza che ha acceso in me, non sono cinica verso il mio matrimonio, sono pronta a fare di tutto pur di salvarlo, non foss'altro per Zdenička, ma perché mentire, lo farei soprattutto per me stessa, per tutto ciò che è stato, per il ricordo della mia giovinezza, ma non ho trovato la forza di dire di no a Ludvík, non ho trovato quella forza, e adesso ormai i dadi sono stati gettati, Zdenička dorme, io ho paura e Ludvík è già in Moravia e domani sarà ad aspettarmi alla corriera.

      PARTE TERZA

      Ludvík

      Sì, me ne andai a gironzolare. Mi fermai su un ponte sulla Morava e guardai in direzione della corrente. Com'è brutta la Morava (un fiume così marrone che dentro sembra scorrerci argilla liquida invece che acqua) e com'è malinconico il suo lungofiume: una strada con cinque case borghesi a un piano, separate, ciascuna per conto suo, bizzarre e abbandonate; forse dovevano costituire l'inizio di un lungofiume la cui monumentalità non si era mai più realizzata; sopra due di esse ci sono piccole scene e angioletti di ceramica e stucco, oggi naturalmente ormai deteriorati: a un angelo manca un'ala e le scene in alcuni punti sono corrose fino ai mattoni, così da risultare incomprensibili. Poi la strada delle case abbandonate finisce, non ci sono più che i piloni di ferro dell'alta tensione, un po' d'erba dove si attardano alcune oche, e poi campi, campi senza orizzonti, campi che non arrivano da nessuna parte, campi nei quali va a perdersi l'argilla liquida della Morava.

      Le città hanno la capacità di farsi da specchio a vicenda, e io in quello scenario (lo conoscevo dall'infanzia e a quel tempo non mi diceva proprio nulla) vidi all'improvviso Ostrava, città mineraria simile a un enorme dormitorio provvisorio, piena di case abbandonate e di strade sporche che portano nel vuoto. Ero in trappola; stavo lì sul ponte come una persona esposta al fuoco di una mitragliatrice. Non volevo più guardare la strada abbandonata con le cinque case solitarie perché non volevo pensare a Ostrava. Allora feci dietrofront e mi incamminai lungo la riva, risalendo la corrente del fiume.

      Di qui passava una stradina fiancheggiata da un lato da un folto filare di pioppi: uno stretto viale panoramico. Alla sua destra digradava verso la superficie dell'acqua un pendio coperto di erba mista a erbacce e più oltre, al di là del fiume, sulla riva di fronte, si scorgevano magazzini, officine e cortili di piccole fabbriche; a sinistra della strada c'erano prima un lungo immondezzaio e poi un vasto campo perforato dalle strutture in ferro dei piloni coi fili dell'alta tensione. Li costeggiai dall'alto, proseguendo sullo stretto passaggio del vialetto come se camminassi su una lunga passerella gettata sulle acque - e se paragono tutto quel paesaggio a un'ampia distesa d'acqua, è perché da quel paesaggio soffiava su di me il freddo, e perché camminavo su quel vialetto come se da lì rischiassi di precipitare. E intanto mi rendevo conto che la strana spettralità del paesaggio non era che una copia di ciò che dopo l'incontro con Lucie non avevo voglia di ricordare; come se i ricordi soffocati si fossero trasferiti in tutto ciò che vedevo in quel momento attorno a me, nel vuoto dei campi, dei cortili e dei magazzini, nella torbidezza del fiume e nel freddo onnipresente che dava unità a tutto quello scenario. Capii che ai ricordi non sarei sfuggito; che ne ero circondato.

      Di come sia giunto al primo naufragio della mia vita (e attraverso la sua poco amorevole mediazione anche a Lucie) non sarebbe difficile raccontarne con tono spensierato e addirittura con un certo divertimento: tutto aveva avuto origine dalla mia infausta tendenza agli scherzi idioti e dall'infausta incapacità di Markéta di capire uno scherzo. Markéta apparteneva a quel tipo di donne che prendono ogni cosa sul serio (per questa sua qualità si identificava perfettamente col genio stesso dell'epoca) e alle quali le Parche hanno concesso che la capacità di credere sia la loro qualità più forte.

      Questo non è un eufemismo per dire che era stupida; tutt'altro, era abbastanza dotata e intelligente, e comunque tanto giovane (diciannove anni, era matricola) che la sua ingenua credulità apparteneva più alle sue grazie che ai suoi difetti, tanto più che si accompagnava a indiscutibili grazie fisiche. A noi ragazzi della facoltà Markéta piaceva e, chi più chi meno, avevamo provato tutti a conquistarla, il che non ci impediva (almeno ad alcuni di noi) di farle ugualmente qualche piccolo scherzo ben architettato.

      Gli scherzi naturalmente si accordavano poco con Markéta, e ancora meno con lo spirito dell'epoca. Era il primo anno dopo il febbraio del quarantotto; era iniziata una nuova vita, davvero totalmente diversa, e il volto di questa nuova vita, così come si è impresso nel mio ricordo, era di una rigida serietà, ma lo strano era che questa serietà non era mai imbronciata, al contrario, aveva un aspetto sorridente; sì, quegli anni si autoproclamavano i più radiosi fra tutti, e chi non si dimostrava felice era immediatamente sospettato di essere triste per la vittoria della classe operaia, oppure (colpa non certo minore) di essere individualisticamente sprofondato nelle proprie malinconie interiori.

      Io a quel tempo non avevo molte malinconie interiori; avevo anzi un notevole senso dell'umorismo, eppure non si può dire che di fronte al volto radioso dell'epoca godessi di un successo incondizionato, perché i miei scherzi erano troppo poco seri, mentre la gioia di quell'epoca non amava le buffonate e l'ironia, era una gioia, come ho detto, seria, che si fregiava con orgoglio del titolo di «ottimismo storico della classe vittoriosa», una gioia ascetica e solenne, insomma, la Gioia.

      Ricordo che allora in facoltà eravamo organizzati nei cosiddetti collettivi di studio che si riunivano spesso per fare una pubblica critica o autocritica di tutti i propri membri, sulla cui base veniva poi stilato per ciascuno un giudizio valutativo. Come ogni comunista, io allora avevo molte funzioni (occupavo una posizione importante nell'Unione degli studenti universitari), e dal momento che non ero nemmeno un cattivo studente un simile giudizio non poteva in alcun modo crearmi problemi. Eppure, dopo le frasi di apprezzamento dove venivano descritti il mio attivismo, il mio atteggiamento positivo verso lo Stato e verso il lavoro e la mia conoscenza del marxismo, il più delle volte veniva aggiunta anche una frase dove si diceva che in me persistevano «residui di individualismo». Una simile riserva non era necessariamente pericolosa, essendo buona abitudine scrivere qualche osservazione critica anche nelle migliori note personali: a uno si rimproverava uno «scarso interesse per la teoria rivoluzionaria», a un altro un «atteggiamento freddo nei confronti degli altri», a un altro ancora «poca vigilanza e circospezione», a qualcuno, magari, un «atteggiamento sbagliato verso le donne»; naturalmente, nell'istante in cui questa critica non era più isolata, quando a essa si aggiungeva qualche altra riserva o quando la persona in questione entrava in conflitto con qualcuno o diventava vittima di sospetti o attacchi, allora quei «residui di individualismo» o quell'«atteggiamento sbagliato verso le donne» potevano diventare il seme della sua rovina. E c'era una particolare fatalità nel fatto che questo seme ciascuno lo portava con sé nelle proprie note caratteristiche, sì, ciascuno di noi.

      Talvolta (più per sport che per autentico timore) mi ero opposto all'accusa di individualismo e avevo voluto che i colleghi mi dimostrassero perché ero individualista. Non avevano prove particolarmente concrete; dicevano: 

      «Perché ti comporti così».

      «Come mi comporto?» chiedevo. «Sorridi sempre in maniera così

      strana». «Be', e con ciò? Esprimo la mia gioia!». 

      «No, tu sorridi come se pensassi qualcosa tra te e te».

      Quando i compagni ebbero stabilito che il mio comportamento e il mio modo di sorridere erano da intellettuale (un altro celebre peggiorativo di quei tempi), in fondo ci credetti, non riuscendo a immaginare (era semplicemente superiore alla mia audacia) che tutti gli altri si sbagliassero, che si sbagliasse la stessa Rivoluzione, spirito dell'epoca, mentre io, individuo isolato, potevo aver ragione.

      Cominciai a controllare un po' i miei sorrisi e presto sentii che si stava aprendo in me una piccola crepa tra ciò che ero e ciò che (secondo l'opinione dello spirito dell'epoca) dovevo e volevo essere.

      Ma allora, chi ero in realtà a quel tempo? A questa domanda voglio rispondere in tutta onestà: ero uno che aveva facce diverse.

      E le facce aumentavano. Circa un mese prima delle vacanze cominciai a fare amicizia con Markéta (lei era iscritta al primo anno, io al secondo), cercando di impormi a lei nello stesso stupido modo usato dai ventenni di tutti i tempi: mi infilavo una maschera; fingevo di essere più adulto (nel modo di pensare e nelle esperienze) di quanto non fossi in realtà; fingevo di provare distacco verso ogni cosa, di guardare il mondo dall'alto e di portare sulla mia pelle una seconda pelle, invisibile e imperforabile. Ritenevo (del resto a ragione) che scherzare fosse una chiara espressione di distacco e, se mi era sempre piaciuto scherzare, con Markéta scherzavo con un impegno, una ricercatezza e un'insistenza particolari.

      Chi ero quindi in realtà? Devo ripeterlo nuovamente: ero uno che aveva facce diverse.

      Ero serio, entusiasta e convinto alle riunioni; critico e pungente con gli amici che mi erano più vicini; ero cinico e spiritoso a tutti i costi con Markéta; e quando stavo da solo (e pensavo a Markéta) ero in genere incerto e agitato come uno scolaretto.

      Era forse quest'ultima la faccia autentica?

      No. Tutte quelle facce erano autentiche: non avevo, come gli ipocriti, una faccia autentica e delle facce false. Avevo facce diverse perché ero giovane e io stesso non sapevo chi ero e chi volevo essere.

      (Ma la sproporzione tra tutte quelle facce mi faceva venire la tremarella; mi stavano tutte larghe e mi ci muovevo dietro in maniera goffa e a tentoni).

      I meccanismi psicologici e fisiologici dell'amore sono così complessi che, in un certo periodo della vita, un giovane deve concentrarsi quasi esclusivamente sul loro puro e semplice controllo, perdendo così di vista il contenuto reale dell'amore: la donna amata (allo stesso modo di un giovane violinista che non può concentrarsi pienamente sul contenuto della composizione fino a quando non arriva a dominare la tecnica manuale al punto di non doversene più preoccupare mentre suona). Se ho parlato della mia agitazione da scolaretto quando pensavo a Markéta, devo aggiungere che ciò non derivava tanto dal fatto che ero innamorato, quanto invece dalla mia goffaggine e dalla mia insicurezza, della quale sentivo il peso e che era diventata la dominatrice dei miei sentimenti e dei miei pensieri molto più di quanto lo fosse Markéta.

      Per scrollarmi di dosso il peso di questi imbarazzi e della mia goffaggine mi davo delle arie con Markéta: mi sforzavo di contraddirla o semplicemente di prendere in giro tutte le sue idee, cosa poi non tanto difficile, perché Markéta, nonostante la sua intelligenza (e nonostante la sua bellezza che - come ogni bellezza - suggeriva intorno a lei un'apparente inaccessibilità), era una ragazza ingenua e fiduciosa; non sapeva guardare dietro alle cose e le vedeva soltanto così come apparivano; capiva magnificamente la botanica, ma succedeva che non capisse una barzelletta raccontata da qualche compagno; si lasciava trascinare da tutti gli entusiasmi dell'epoca, ma davanti a qualche mossa politica ispirata al principio che il fine giustifica i mezzi, diventava ottusa come davanti alle barzellette dei suoi compagni; fu anche per questo motivo che al partito giudicarono che avesse bisogno di rafforzare il suo entusiasmo con la conoscenza della strategia e della tattica del movimento rivoluzionario e decisero che, durante le vacanze, avrebbe partecipato per due settimane a un corso del partito.

      Quel corso mi capitava davvero inopportuno perché proprio in quelle due settimane contavo di stare da solo a Praga con Markéta e di portare il nostro rapporto (che fino ad allora si era limitato a passeggiate, a conversazioni e a qualche bacio) verso risultati più concreti; non avevo a disposizione che quelle due settimane (il mese seguente lo dovevo passare in una brigata di lavoro in campagna, e le ultime due settimane di vacanza da mia madre in Moravia), per cui accolsi con dolorosa gelosia il fatto che Markéta non condivideva la mia tristezza, che non era affatto arrabbiata per il corso, e anzi mi diceva che non vedeva l'ora di andarci.

      Dal corso (che si teneva in un castello al centro della Boemia) mi spedì una lettera che era proprio identica a lei, piena di una sincera adesione a tutto ciò che viveva; le piaceva ogni cosa, anche il quarto d'ora mattutino di ginnastica, le relazioni e le discussioni, anche le canzoni che cantavano; mi scriveva che là regnava uno «spirito sano» ; e aveva anche aggiunto con diligenza la considerazione che in Occidente la rivoluzione non si sarebbe fatta aspettare a lungo.

      Tutto considerato, ero in fondo d'accordo con quello che Markéta affermava, e credevo anche in una rivoluzione nell'Europa occidentale entro breve termine; su una sola cosa non ero d'accordo: che lei fosse felice e contenta mentre io sentivo la sua mancanza. E così comprai una cartolina e (per ferirla, per scioccarla e sconvolgerla) scrissi: L'ottimismo è l'oppio dei popoli! Lo spirito sano puzza di imbecillità! Viva Trockij! Ludvík.

      3

      Alla mia cartolina provocatoria Markéta rispose con un biglietto breve e banale, le altre lettere che le spedii nel corso delle vacanze non ricevettero risposta. Ero su in montagna a raccogliere fieno con una brigata dell'università, e il silenzio di Markéta mi procurava grande tristezza. Da lì le scrivevo quasi ogni giorno lettere piene di un'infatuazione supplichevole e malinconica; la scongiuravo di fare in modo che potessimo vederci almeno nelle ultime due settimane di vacanza, ero pronto a non andare a casa, a non vedere mia madre che era là sola, ad andare dovunque fosse Markéta; e tutto questo non soltanto perché lei mi piaceva, ma soprattutto perché era l'unica donna sul mio orizzonte e perché la condizione di ragazzo senza una ragazza mi era insopportabile. Ma Markéta non rispondeva.

      Non capivo che cosa stesse accadendo. Tornai a Praga in agosto e riuscii a trovarla a casa. Andammo a fare la solita passeggiata lungo la Vltava e sull'isola - il Prato dell'Imperatore (quel prato triste, con pioppi e campi da gioco vuoti) -, e Markéta sosteneva che tra noi non era cambiato nulla, e difatti si comportava come sempre, ma era proprio quell'identicità spasmodicamente immobile (l'identicità del bacio, l'identicità della conversazione, l'identicità del sorriso) a essere deprimente. Quando chiesi a Markéta un appuntamento per l'indomani, mi disse di telefonarle, che ci saremmo messi d'accordo.

      Telefonai: una voce femminile sconosciuta mi annunciò che Markéta aveva lasciato Praga.

      Ero infelice come può essere infelice solo un ragazzo di vent'anni quando non ha una donna; un ragazzo ancora abbastanza timido, che finora ha conosciuto l'amore fisico solo poche volte, di sfuggita e male, e nel frattempo non smette mai di pensarci. Le giornate erano insopportabilmente lunghe e inutili; non riuscivo a leggere, non riuscivo a lavorare, andavo al cinema tre volte al giorno, a tutti gli spettacoli, uno dopo l'altro, pomeriggio e sera, solo per ammazzare in qualche modo il tempo, solo per coprire in qualche modo quell'ululato di civetta che saliva di continuo da dentro di me. Io, che agli occhi di Markéta (grazie alle mie arie insistenti) apparivo come ormai quasi annoiato delle donne, per strada non avevo il coraggio di rivolgere la parola alle ragazze, che con le loro belle gambe mi ferivano l'animo.

      Accolsi quindi con gioia l'arrivo, finalmente, di settembre, e con esso la ripresa delle lezioni e, prima ancora, del mio lavoro all'Unione degli studenti dove avevo una stanza per me e tutta una serie di impegni. Ma già il secondo giorno fui convocato telefonicamente alla segreteria del partito. A cominciare da quell'istante ricordo ogni dettaglio: era una giornata di sole, uscii dall'edificio dell'Unione degli studenti e sentivo che la malinconia che aveva riempito tutte le mie vacanze stava lentamente scivolandomi via di dosso. Raggiunsi la segreteria con una piacevole curiosità. Suonai e la porta mi fu aperta dal presidente del comitato, un giovane alto dalla faccia stretta, coi capelli biondi e azzurri occhi di ghiaccio. Dissi: «Onore al lavoro», lui non salutò e disse: 

      «Va' in fondo, ti aspettano».

       In fondo, nell'ultima stanza della segreteria, ad aspettarmi c'erano tre membri del comitato universitario del partito.

      Mi dissero di sedermi. Mi sedetti e capii che si trattava di qualcosa di infausto. I tre compagni, che conoscevo bene e coi quali ero solito divertirmi allegramente, avevano un volto inaccessibile; ovviamente mi davano del tu (come di regola tra compagni) ma all'improvviso non era più un tu amichevole, bensì un tu ufficiale e minaccioso.

      (Confesso di avere avuto, da allora, un'avversione per il tu; in origine, deve essere espressione di una fiduciosa vicinanza, ma se le persone che si danno del tu sono estranee una all'altra, questo darsi del tu acquista immediatamente il significato opposto, diventa espressione di rozzezza, per cui un mondo nel quale la gente si dà normalmente del tu non è il mondo della fratellanza comune, ma il mondo della comune mancanza di rispetto).

      Ero quindi seduto davanti ai tre studenti che mi davano del tu e che mi posero la prima domanda: se conoscevo Markéta. Risposi che la conoscevo. Mi chiesero se mi ricordavo che cosa le avevo scritto.

      Risposi che non me lo ricordavo, ma la cartolina col suo testo provocatorio mi tornò in quel momento davanti agli occhi e cominciai a sospettare di che si trattava. Non puoi cercare di ricordartelo? mi chiesero. No, dissi. E Markéta che cosa ti scriveva?

      Strinsi le spalle per dare l'impressione che mi avesse scritto cose intime delle quali lì non potevo parlare. Non ti ha scritto qualcosa del corso? chiesero. Sì, qualcosa, dissi. Cosa ti ha scritto? Che le piaceva essere là, risposi. E che altro? Che c'erano delle belle relazioni e un bel collettivo, risposi. Ti ha scritto che al corso regnava uno spirito sano? Sì, dissi, deve aver scritto qualcosa del genere. Ti ha scritto che stava imparando a conoscere la forza dell'ottimismo? continuarono. Sì, dissi. E tu, che cosa pensi dell'ottimismo? chiesero.

      Dell'ottimismo? E che dovrei pensarne? chiesi. Ti consideri un ottimista? insistettero. Sì, certo, dissi timidamente. Mi piace scherzare, sono una persona abbastanza allegra, dissi per cercare di rendere più leggero il tono dell'interrogatorio. Anche un nichilista può essere una persona allegra, disse uno di loro, e magari può ridere della gente che soffre. Anche un cinico può essere una persona allegra, continuò. Pensi che si possa edificare il socialismo senza l'ottimismo? chiese un altro. No, dissi. Allora tu non sei d'accordo che da noi si edifichi il socialismo? disse il terzo. Come sarebbe a dire? protestai. Perché per te l'ottimismo è l'oppio dei popoli, attaccarono loro. Ma come, l'oppio dei popoli? continuai a protestare.

      Non tergiversare, l'hai scritto. Marx ha chiamato la religione oppio dei popoli, invece per te l'oppio è il nostro ottimismo! Lo hai scritto a Markéta. Sarei curioso di sapere che cosa direbbero i nostri lavoratori e i nostri operai modello che superano i piani di produzione, se venissero a sapere che il loro ottimismo è oppio, attaccò un altro. E il terzo aggiunse: per un trockista, l'ottimismo edificatore non è mai nient'altro che oppio. E tu sei un trockista. Per Dio, ma come vi viene in mente, protestai. L'hai scritto o non l'hai scritto? Forse avrò scritto qualcosa del genere per scherzo, ma si tratta ormai di due mesi fa, non me lo ricordo. Te lo possiamo far ricordare noi, dissero e mi lessero la mia cartolina: L'ottimismo è l'oppio dei popoli! Lo spirito sano puzza di imbecillità! Viva Trockij!

      Ludvík. Le frasi, nella piccola stanza della segreteria politica, avevano un suono così terribile che in quel momento ne ebbi paura e sentii che erano cariche di una forza distruttiva alla quale non avrei resistito. Compagni, quello doveva essere uno scherzo, dissi sentendo però che nessuno mi poteva credere. A voi questo fa ridere? chiese uno dei compagni agli altri due. Entrambi scossero la testa.

      Bisognerebbe che voi conosceste Markéta! dissi. La conosciamo, mi risposero. Ma allora lo capite da voi, dissi, Markéta prende ogni cosa sul serio, noi la prendevamo sempre un po' in giro e cercavamo di scandalizzarla. Interessante, disse uno dei compagni, dalle altre tue lettere non ci sembrava che tu non prendessi Markéta sul serio. E voi avete letto tutte le mie lettere a Markéta? E così, intervenne un altro, dal momento che Markéta prende ogni cosa sul serio, tu la prendi in giro. Ma dicci, cos'è che lei prende sul serio? Magari il partito, l'ottimismo, la disciplina, eh? E tutto questo che lei prende sul serio, a te fa venir da ridere. Compagni, cercate di capire, dissi, non mi ricordo nemmeno come ho scritto quella roba, l'ho buttata giù in fretta, due o tre frasi, per scherzo, senza nemmeno pensare a quello che stavo scrivendo, se avessi avuto qualche cattiva intenzione non le avrei certo spedite a un corso del partito! Non fa differenza come tu le abbia scritte. In fretta o lentamente, sulle ginocchia o su un tavolo: potevi scrivere solo quello che era dentro di te. Niente di diverso.

      Forse, se ci avessi riflettuto su un altro po', non l'avresti scritto. In questo modo l'hai scritto senza ipocrisia. Così, almeno, sappiamo chi sei. Così, almeno, sappiamo che hai più facce, una per il partito e una per gli altri. Sentivo che la mia difesa aveva esaurito gli argomenti validi. Ripetei alcune volte ancora le stesse cose: che si trattava di uno scherzo, che erano parole senza senso, che dietro c'era il mio stato d'animo di allora e cose simili. Niente da fare. Dissero che avevo scritto le mie frasi su una cartolina aperta, che chiunque le poteva leggere, che quelle parole avevano un significato oggettivo e che non c'era nessuna noterella che spiegasse il mio stato d'animo.

      Poi mi domandarono cosa avevo letto di Trockij. Dissi che non avevo letto nulla. Mi domandarono chi mi aveva prestato i libri.

      Dissi che non me li aveva prestati nessuno. Mi domandarono con quali trockisti mi incontravo. Dissi che non mi incontravo con nessuno. Mi dissero che ero privato con decorrenza immediata delle funzioni che ricoprivo all'Unione degli studenti e mi chiesero di consegnare loro la chiave della mia stanza. L'avevo in tasca e gliela diedi. Poi mi dissero che, per quanto riguardava il partito, il mio caso sarebbe stato risolto dalla mia organizzazione di base della facoltà di Scienze. Si alzarono senza guardarmi. Dissi: «Onore al lavoro» e me ne andai.

      Mi ricordai, più tardi, che nella stanza all'Unione degli studenti avevo molte cose mie. Nel cassetto della scrivania, oltre a diversi documenti personali, avevo anche dei calzini, e nell'armadio, tra le pratiche, una focaccia dolce incominciata che mi aveva mandato mia madre da casa. Avevo appena consegnato la chiave alla segreteria provinciale, ma il portiere al pianterreno mi conosceva e mi diede la copia di servizio appesa alla bacheca di legno in mezzo alle altre chiavi; ricordo ogni cosa fin nei dettagli: la chiave della mia stanza era unita da una robusta cordicella di canapa a una tavoletta di legno sulla quale era scritto in bianco il numero della mia stanza. Con quella chiave aprii la porta e mi sedetti alla scrivania; tirai fuori il cassetto e tolsi tutte le mie cose; lo feci con lentezza e distrattamente perché, in quel breve istante di relativa calma, cercavo di pensare a ciò che mi era accaduto e a quello che avrei dovuto fare.

      Non passò molto che la porta si aprì. Erano di nuovo i tre compagni della segreteria. Adesso non avevano più l'aria fredda e riservata. Adesso la loro voce era alta e indignata. Soprattutto il più piccolo dei tre, il responsabile dei quadri del comitato. Mi assalì chiedendomi come avessi fatto ad arrivare lì. Con che diritto. Mi chiese se volevo per caso farmi portar via dalla polizia. Cosa stavo arraffando nella scrivania? Risposi che ero tornato per prendere la focaccia e i calzini. Lui disse che non avevo il benché minimo diritto di venire in quella stanza, anche se avessi avuto l'armadio pieno di calzini. Poi si avvicinò al cassetto e controllò un foglio dopo l'altro, un quaderno dopo l'altro. Si trattava davvero soltanto di cose mie personali, per cui alla fine mi permise di metterle, sotto i suoi occhi, in una valigetta. Ci infilai dentro anche i calzini, sgualciti e sporchi, e poi anche la focaccia che stava nell'armadio su un foglio di carta unto, pieno di briciole. I tre sorvegliavano ogni mio movimento.

      Uscii dalla stanza con la valigetta, e il responsabile dei quadri, come saluto, mi disse di non farmi mai più rivedere in quel posto.

      Una volta fuori dalla portata dei compagni del distretto e dalla logica invincibile del loro interrogatorio, mi sembrò subito di essere innocente: nelle mie espressioni non c'era, in fondo, niente di male, dovevo andare a confidarmi con qualcuno che conoscesse bene Markéta e che avrebbe capito il ridicolo dell'intera faccenda. Andai a trovare uno studente della nostra facoltà, un comunista, e quando gli ebbi raccontato ogni cosa, disse che al distretto erano troppo bigotti, che non capivano uno scherzo, mentre lui che conosceva Markéta riusciva a immaginarsi perfettamente la cosa. Comunque, disse, la persona da cui andare era Zemánek che, quell'anno, sarebbe stato presidente del partito nella nostra facoltà e che appunto conosceva molto bene sia Markéta sia me.

      4

      Che Zemánek sarebbe stato presidente dell'organizzazione era cosa che non sapevo e mi sembrò un'ottima notizia perché Zemánek lo conoscevo benissimo ed ero anzi certo che avesse per me una piena simpatia, non foss'altro per le mie origini morave. A Zemánek, infatti, piaceva moltissimo cantare le canzoni morave; in quel periodo era molto di moda cantare canzoni popolari, e cantarle non pedantemente, ma con il braccio alto sopra la testa e la voce un po' rozza, e assumere, cantando, un'aria da vero cantore popolare, partorito dalla madre sotto un cimbalom durante una festa da ballo.

      Alla facoltà di Scienze io ero in realtà l'unico moravo autentico, e questo fatto mi conferiva certi privilegi; in occasione di qualsiasi festa, si trattasse di una riunione o di una commemorazione o del Primo Maggio, i compagni mi invitavano a tirar fuori il clarinetto e a imitare, con due o tre dilettanti tra i compagni d'università, un'orchestrina morava. In quel modo (col clarinetto, il violino e il contrabbasso) partecipammo per due anni al corteo del Primo Maggio e Zemánek, che era un bel ragazzo al quale piaceva mettersi in mostra, veniva insieme con noi, vestito di un costume popolare preso in prestito, e ballava lungo il corteo, lanciando in alto il braccio e cantando. Quel praghese di nascita, che non era mai stato in Moravia, giocava con enorme piacere al ragazzo di campagna, e io lo guardavo con simpatia, felice che la musica della mia terra, da sempre l'Eldorado dell'arte popolare, fosse così profondamente amata.

      E poi Zemánek conosceva anche Markéta, e questo fatto costituiva il secondo vantaggio. In diverse occasioni ci eravamo trovati spesso tutti e tre insieme; una volta (eravamo tutto un gruppo di studenti) mi ero inventato che sulle montagne della Boemia vivevano alcune tribù di nani, e avevo documentato il tutto con citazioni da un presunto testo scientifico che trattava appunto di questo argomento così interessante. Markéta era stupita di non averne mai sentito parlare. Dissi che non c'era di che stupirsi: la scienza borghese aveva tenuto nascosta di proposito l'esistenza dei nani perché i capitalisti ne facevano commercio come schiavi.

      Ma bisognerebbe scrivere di queste cose! gridava Markéta.

      Perché non lo si fa? Eppure sarebbe un argomento contro i capitalisti!

      Forse di queste cose non si scrive, dissi pensieroso, perché si tratta di una faccenda alquanto delicata e scabrosa: i nani erano infatti dotati di una potenza sessuale straordinaria che li rendeva ricercatissimi e la nostra repubblica li esportava in gran segreto, in cambio di valuta pregiata, soprattutto in Francia, dove venivano presi a servizio dalle vecchie signore della borghesia capitalista, le quali poi ovviamente abusavano di loro in tutt'altra maniera.

      I compagni trattenevano il riso, suscitato non tanto dall'ingegnosità della mia trovata, quanto soprattutto dal viso attentissimo di Markéta, sempre desiderosa di infiammarsi per qualcosa (eventualmente contro qualcosa); si mordevano le labbra per non rovinare a Markéta la gioia di quella scoperta, e alcuni (tra i quali in maniera particolare proprio Zemánek) mi diedero man forte a confermare le mie notizie sui nani.

      Quando Markéta chiese che aspetto avesse un nano, ricordo che Zemánek, con la faccia seria, le disse che il professor Čechura, che Markéta e tutti i suoi compagni avevano l'onore di vedere occasionalmente dietro una cattedra universitaria, discendeva da una famiglia di nani, se non per entrambi i genitori, almeno da parte di uno di loro. Pare che l'assistente Hůle avesse raccontato a Zemánek di avere alloggiato una volta, durante le vacanze, nello stesso albergo dei coniugi Čechura i quali, messi assieme, non raggiungono nemmeno i tre metri. Una mattina era entrato nella loro camera senza sospettare che i due ancora dormissero ed era rimasto di stucco: erano distesi nello stesso letto, ma non uno accanto all'altro bensì testa piedi, il professor Čechura rannicchiato nella metà inferiore del letto e la consorte nella metà superiore.

      Sì, confermai: quindi, ovviamente, non soltanto il professor Čechura ma anche sua moglie discende senza ombra di dubbio da una famiglia di nani, perché dormire testa piedi è un'usanza atavica dei nani di quel luogo i quali, d'altronde, in passato non costruivano mai le loro capanne con una pianta circolare o quadrata, bensì sempre con una pianta a forma di rettangolo allungato, perché non soltanto le coppie sposate ma l'intera tribù era abituata a dormire in una lunga catena, una persona dopo l'altra.

      Quando, in quella scura giornata, mi tornarono in mente le nostre sciocchezze, mi sembrò di vedervi tremolare un barlume di speranza.

      Zemánek, che si sarebbe dovuto occupare della risoluzione del mio caso, conosceva il mio modo di scherzare e conosceva anche Markéta, e avrebbe capito che il biglietto che le avevo scritto era stato solo un modo scherzoso di provocare una ragazza che piaceva a tutti noi e che (forse proprio per questo) ci piaceva prendere in giro.

      Alla prima occasione gli raccontai, quindi, della mia grana; Zemánek ascoltò con attenzione, aggrottò la fronte e disse che avrebbe visto quel che si poteva fare.

      Intanto vivevo in uno stato di precarietà: andavo alle lezioni come prima e aspettavo. Spesso venivo chiamato davanti a diverse commissioni del partito che cercavano di appurare soprattutto se non appartenessi a qualche gruppo trockista; io cercavo di dimostrare che non sapevo nemmeno bene che cosa fosse il trockismo; mi aggrappavo a ogni sguardo negli occhi dei compagni inquirenti, cercandovi fiducia; talvolta la trovavo per davvero e quello sguardo, poi, riuscivo a portarlo con me a lungo, a conservarlo, accendendo pazientemente in me la speranza.

      Markéta continuava a evitarmi. Capii che questo aveva a che fare con la faccenda della cartolina e, con orgoglioso dolore, non volli chiederle nulla. Un giorno, però, fu lei a fermarmi in un corridoio della facoltà: «Vorrei parlarti di una cosa».

      E così, dopo alcuni mesi, ci ritrovammo di nuovo a fare una passeggiata insieme; era già autunno, portavamo entrambi dei lunghi impermeabili, sì, lunghi, un po' sotto il ginocchio, così come andava di moda a quell'epoca (un'epoca del tutto priva di eleganza); cadeva una leggera pioggerella, gli alberi sul lungofiume erano neri e senza foglie. Markéta mi raccontò come erano andate le cose: durante il corso estivo, i compagni della direzione un bel giorno l'avevano chiamata e le avevano chiesto se riceveva lettere lì al corso; lei aveva detto di sì. Le avevano chiesto da parte di chi. Lei rispose che le scriveva la madre. E nessun altro? Di tanto in tanto un compagno di università, disse. Puoi dirci chi? le chiesero. Fece il mio nome. E cosa ti scrive il compagno Jahn? Lei strinse le spalle perché non aveva molta voglia di citare le parole della mia cartolina. Anche tu gli hai scritto? le chiesero. Sì, disse. E cosa gli hai scritto? chiesero.

      Be', disse, del corso e di altre cose in genere. Ti piace essere qui al corso? le chiesero. Sì, molto, rispose. E gli hai scritto che ti piace?

      Sì, gliel'ho scritto, rispose lei. E lui? chiesero ancora. Lui? rispose Markéta titubante, be', lui è un tipo strano, bisognerebbe che voi lo conosceste. Lo conosciamo, dissero, e vorremmo sapere cosa ti ha scritto. Puoi mostrarci quella sua cartolina?

      «Non devi arrabbiarti con me,» mi disse Markéta «ho dovuto mostrargliela».

      «Non occorre che ti scusi,» dissi a Markéta «la conoscevano già prima di parlartene; se non l'avessero conosciuta non ti avrebbero chiamata».

      «Io non mi scuso affatto, e nemmeno mi vergogno di avergliela fatta leggere, non volevo dir questo. Tu sei un membro del partito e il partito ha il diritto di sapere chi sei e come la pensi» protestò Markéta e poi mi disse che si era spaventata di quello che le avevo scritto, quando tutti sappiamo bene che Trockij è il peggior nemico di tutto ciò per cui lottiamo e viviamo.

      Che cosa potevo spiegare a Markéta? Le chiesi di continuare e di dirmi quello che era avvenuto in seguito.

      Markéta disse che avevano letto la cartolina ed erano rimasti di stucco. Le avevano chiesto cosa avesse da dire al riguardo. Lei disse che era una cosa terribile. Le chiesero perché non era venuta lei stessa da loro a mostrarla. Lei strinse le spalle. Le chiesero se sapeva cosa vuol dire vigilare e stare in guardia. Lei abbassò la testa. Le chiesero se sapeva quanti nemici aveva il partito. Lei disse che lo sapeva, ma che non credeva che il compagno Jahn... Le chiesero se mi conosceva bene. Le chiesero di me. Disse che ero un tipo strano.

      Che, in effetti, c'erano momenti in cui pensava che io fossi un comunista convinto, ma che talvolta dicevo cose che un comunista non dovrebbe mai dire. Le chiesero cosa, ad esempio. Disse che non ricordava esempi concreti, ma che per me non c'era nulla di sacro.

      Dissero che lo si vedeva chiaramente dalla cartolina. Lei disse di aver discusso sovente con me di molte cose. E disse ancora che alle riunioni parlavo in un modo e con lei in un altro. Alle riunioni ero tutto entusiasta, mentre con lei non facevo che scherzare su ogni cosa e prendevo tutto alla leggera. Le chiesero se pensasse che una persona simile potesse essere membro del partito. Strinse le spalle.

      Le chiesero se il partito sarebbe giunto a edificare il socialismo se i suoi membri affermavano che l'ottimismo è l'oppio dei popoli. Lei disse che un partito simile non avrebbe edificato il socialismo. Le dissero che bastava. E che nel frattempo non avrebbe dovuto dirmi nulla perché volevano controllare quello che avrei scritto in seguito.

      Lei dichiarò che non mi voleva più vedere. Le risposero che sarebbe stato un errore e che, al contrario, doveva continuare a scrivermi perché venisse fuori quello che c'era ancora dentro di me.

      «E tu poi gli hai mostrato le mie lettere?» chiesi a Markéta, arrossendo fino alla punta dei capelli al ricordo delle mie effusioni sentimentali.

      «Che cosa potevo fare?» disse Markéta. «Io, però, dopo tutto quello che era successo, non riuscivo più davvero a scriverti. Non mi va di scrivere a uno solo per fargli da richiamo. Ti ho mandato ancora una cartolina e poi basta. Non volevo vederti perché non potevo dirti nulla e avevo paura che mi avresti chiesto qualcosa e io avrei dovuto mentirti guardandoti negli occhi, e a me non piace mentire».
Chiesi a Markéta che cosa, allora, l'avesse spinta a incontrarmi quel giorno.

  Mi disse che era stato per via del compagno Zemánek. Lui l'aveva incontrata, dopo le vacanze, nei corridoi della facoltà e l'aveva portata con sé nella stanzetta dove l'organizzazione del partito della facoltà di Scienze aveva la segreteria. Le disse di avere avuto notizia che io le avevo scritto al corso una cartolina con delle espressioni ostili al partito. Le chiese di che frasi si trattava. Lei glielo disse. Lui le chiese che cosa avesse da dire al riguardo. Lei gli disse che condannava il fatto. Lui le disse che era giusto e chiese se stavamo ancora insieme. Lei, imbarazzata, gli rispose in modo vago. Lui le disse che dal corso erano giunte in facoltà notizie molto favorevoli sul suo conto e che l'organizzazione della facoltà contava su di lei.

  Lei disse che ne era contenta. Lui le disse che non voleva intromettersi nella sua vita privata, ma pensava che una persona si riconosce da chi frequenta, dal ragazzo che sceglie, e che non le avrebbe giovato molto scegliersi proprio me.

  A quanto pare Markéta ci aveva riflettuto su per qualche settimana. Erano già diversi mesi che non stavamo più insieme, per cui l'incitamento di Zemánek era in effetti superfluo; e invece proprio quell'incitamento l'aveva spinta a chiedersi se per caso non fosse crudele e moralmente inaccettabile intimare a qualcuno di lasciare il proprio ragazzo solo perché questi ha fatto uno sbaglio, e se non fosse quindi ingiusto anche il fatto che lei stessa, già da prima, mi aveva lasciato. Era andata a trovare il compagno che aveva diretto il corso durante le vacanze e gli aveva chiesto se fosse ancora valido l'ordine di non dirmi nulla di ciò che era accaduto in relazione alla cartolina, e quando aveva saputo che non c'era più motivo di nascondere la cosa, mi aveva fermato e aveva chiesto di parlarmi.

  E così, ecco che ora mi confidava quello che la tormentava e l'opprimeva: sì, aveva agito male decidendo di non vedermi; in fondo, nessuno è perduto anche se ha commesso gli errori peggiori.

  Diceva di essersi ricordata di un film sovietico, Giurì d'onore (a quel tempo molto popolare negli ambienti di partito), dove un medico ricercatore sovietico offriva la sua scoperta al pubblico straniero prima che al suo paese, azione che puzzava di cosmopolitismo (altro famoso peggiorativo dell'epoca) e di tradimento; Markéta si riferiva, commossa, soprattutto alla conclusione del film: il ricercatore viene condannato da un giurì d'onore di colleghi, ma la moglie che lo ama non abbandona il marito condannato e cerca invece di infondergli la forza per riparare alla sua grave colpa.

  «Così hai deciso di non abbandonarmi?» dissi.

  «Sì» disse Markéta prendendomi per mano.

  «E scusa, Markéta, tu pensi che mi sia macchiata di un grave delitto?».

  «Penso di sì» disse Markéta.

  «E pensi che abbia il diritto di rimanere nel partito o no?».

  «Ludvík, io penso di no».

  Sapevo che se fossi entrato nel gioco in cui Markéta si era immedesimata, vivendone il pathos, con tutta l'anima, a quanto pareva, avrei raggiunto tutto ciò che mesi prima avevo vanamente tentato di conquistare: sospinta dal pathos della redenzione come un vaporetto dal vapore, ora senza dubbio si sarebbe data a me anche col corpo. Certo, a una condizione: che la sua opera di redenzione fosse davvero pienamente soddisfatta; e perché potesse essere soddisfatta, l'oggetto della redenzione (ahimè, io stesso) avrebbe dovuto accettare la sua profonda, la sua profondissima colpevolezza.

  Solo che io non potevo. Ero a un passo dalla meta agognata del corpo di Markéta, ma a quel prezzo non potevo prenderlo, perché non potevo ammettere la mia colpa e accettare un'intollerabile condanna; non potevo sentire che qualcuno che doveva essermi vicino ammettesse quella colpa e approvasse quella condanna.

  Non accettai Markéta, la respinsi e la persi, ma è poi vero che mi sentivo innocente? Certo, ero sempre più convinto del ridicolo dell'intera faccenda ma allo stesso tempo (e oggi, a distanza di anni, questa mi sembra la cosa più penosa e sintomatica) cominciavo a vedere le tre frasi sulla cartolina con gli occhi dei miei inquisitori; cominciai ad aver paura di quelle frasi, a temere che, sotto il manto dello scherzo, mi rivelassero davvero qualcosa di molto serio, e cioè che non mi ero mai fuso interamente col corpo del partito, che non ero mai stato un vero rivoluzionario proletario e avevo invece stabilito, sulla base di una pura e semplice (!) decisione, di «darmi ai rivoluzionari» (lo spirito rivoluzionario proletario, infatti, noi lo sentivamo non come una questione per così dire di scelta, quanto piuttosto di sostanza; o si è rivoluzionari, e allora si è fusi col movimento in un unico corpo collettivo, o non lo si è, e allora non resta che il semplice voler esserlo; ma in tal caso si sente anche l'incessante colpevolezza di non esserlo).

  Ripensando, oggi, alla mia situazione di allora, mi viene in mente per analogia l'immenso potere del cristianesimo che instilla nel credente il convincimento della sua fondamentale e incessante condizione di peccatore; anch'io (come tutti, però), di fronte alla rivoluzione e al suo partito, tenevo continuamente la testa bassa, rassegnandomi così un poco alla volta all'idea che le mie frasi, anche se pensate per scherzo, rappresentavano lo stesso una colpa, e nella mia testa cominciò a svolgersi un esame di coscienza autocritico: mi dicevo che quelle frasi non mi erano venute in mente solo per caso, che in fondo già da prima (ed evidentemente a buon diritto) i compagni mi avevano rimproverato «residui di individualismo» e «intellettualismo»; mi dicevo che avevo cominciato a compiacermi in maniera troppo narcisistica della mia cultura, della mia condizione di studente e del mio futuro di intellettuale, e che mio padre, un operaio, morto in campo di concentramento durante la guerra, difficilmente avrebbe capito il mio cinismo; mi accusavo del fatto che il suo modo di pensare da operaio era purtroppo quasi morto in me; mi accusavo di ogni possibile colpa, rassegnandomi anche alla necessità del castigo; a una cosa soltanto mi opponevo: essere espulso dal partito ed essere in quel modo bollato come suo nemico; vivere col marchio di nemico di qualcosa che avevo scelto fin da ragazzo e al quale davvero tenevo mi sembrava disperato.

  Una simile autocritica, che era allo stesso tempo una difesa supplichevole, la pronunciai centinaia di volte dentro di me, almeno dieci volte davanti a vari comitati e commissioni e, alla fine, anche alla decisiva riunione plenaria della nostra facoltà dove, su di me e sulla mia colpa, Zemánek tenne la relazione introduttiva (efficace, brillante, indimenticabile) proponendo a nome del comitato la mia espulsione dal partito. La discussione che seguì al mio intervento autocritico si svolse a mio svantaggio; nessuno prese le mie difese e alla fine tutti (erano circa un centinaio, e tra loro anche i miei insegnanti e i miei compagni più vicini) sì, tutti fino all'ultimo, alzarono la mano per approvare non soltanto la mia espulsione dal partito ma anche (e questo proprio non me l'aspettavo) il mio allontanamento dagli studi.

  La notte stessa della riunione presi il treno e andai a casa, solo che casa mia non poteva recarmi nessun conforto, anche perché per alcuni giorni non ebbi il coraggio di dire a mia madre, così orgogliosa dei miei studi, ciò che era avvenuto. In compenso, già il secondo giorno capitò lì Jaroslav, un compagno di liceo e dell'orchestrina col cimbalom nella quale avevo suonato allora, e fu felicissimo di trovarmi: disse che si sposava tra due giorni e che io dovevo fargli da testimone. Non potevo dir di no a un vecchio amico e così non mi restò che festeggiare la mia rovina con una festa di nozze.

  Oltre tutto, Jaroslav era anche un fervente patriota moravo e un appassionato di folklore, sicché aveva approfittato delle nozze per dar sfogo alla sua passione etnografica, e le aveva organizzate secondo le antiche usanze popolari: i partecipanti in costume, l'orchestrina col cimbalom, il paraninfo coi suoi discorsi fioriti, la sposa portata in braccio oltre la soglia, le canzoni e insomma tutto un cerimoniale che durava l'intera giornata e che lui, naturalmente, aveva ricostruito basandosi molto più sui libri di etnografia che non sulla memoria viva. Mi accorsi, però, di un fatto strano: l'amico Jaroslav, da poco animatore di un gruppo di canti e danze piuttosto fiorente, aveva sì mantenuto tutte le antiche tradizioni possibili, ma (memore evidentemente della propria carriera e ubbidiente agli slogan ateistici) non era andato in chiesa insieme con gli invitati, benché un matrimonio secondo la tradizione popolare fosse impensabile senza parroco e senza la benedizione divina; aveva lasciato che il paraninfo leggesse tutti i discorsi del rito tradizionale, ma aveva accuratamente cancellato tutti i motivi biblici, benché fossero proprio loro a costituire il materiale metaforico principale dei discorsi nuziali tradizionali. La tristezza che mi impediva di identificarmi con quell'ebbra festa di nozze mi permise di sentire nella purezza di quei riti popolari una puzza di cloroformio. Quando poi Jaroslav mi chiese di prendere il clarinetto (in affettuoso ricordo della mia partecipazione di un tempo all'orchestrina) e di unirmi agli altri suonatori, rifiutai. Mi era tornato in mente, infatti, il Primo Maggio degli ultimi due anni, quando avevo suonato allo stesso modo, col praghese Zemánek che mi ballava accanto in costume, allargando le braccia e cantando. Non potevo prendere in mano il clarinetto e sentivo che quello schiamazzo folkloristico mi riempiva fin nel profondo dell'animo di nausea, di nausea, di nausea...

  5
Dopo aver perso la possibilità di studiare, persi anche il diritto al rinvio del servizio militare, così non mi restò che aspettare la chiamata autunnale; riempii l'attesa prendendo parte a due lunghe brigate di lavoro: prima alla riparazione di una strada dalle parti di Gottwaldov, poi, verso la fine dell'estate, ai lavori stagionali in una fabbrica per la conservazione della frutta; finalmente arrivò l'autunno e un mattino (dopo una notte insonne passata in treno) mi ritrovai in una caserma nella sconosciuta e brutta periferia di Ostrava.

  Ero nel cortile, con altri ragazzi chiamati nella stessa unità; non ci conoscevamo; nella penombra dell'iniziale anonimato reciproco emergono nettamente negli altri la rozzezza e l'estraneità; fu così anche allora, e il solo legame a unirci era l'incertezza di un futuro sul quale circolavano tra noi solo brevi supposizioni. Alcuni affermavano che ci trovavamo nei battaglioni neri, altri dicevano di no, altri ancora non conoscevano addirittura il significato di questo termine. Io lo sapevo e accoglievo quindi con terrore quelle congetture.

  Poi un caporalmaggiore venne a prenderci e ci portò in una baracca; ci infilammo in un corridoio e dal corridoio in una stanza più grande, tappezzata di enormi pannelli con slogan, fotografie e disegni grossolani; sulla parete di fondo era appuntata una grande scritta ritagliata in carta rossa: NOI EDIFICHIAMO IL SOCIALISMO, e sotto la scritta c'era una sedia con accanto un vecchietto sparuto. Il caporalmaggiore fece cenno a uno di noi e quello dovette andare a sedersi sulla sedia. Il vecchietto gli annodò attorno al collo un lenzuolo bianco, infilò la mano nella cartella che teneva appoggiata a una gamba della sedia, tirò fuori una macchinetta tosatrice e la passò sui capelli del ragazzo.

  Sulla sedia del barbiere cominciava il nastro della catena di montaggio che doveva trasformarci in soldati: dalla sedia dove avevamo lasciato i nostri capelli fummo trasferiti nella stanza accanto, là dovemmo spogliarci completamente, impacchettare gli abiti in un sacchetto di carta, legarlo con uno spago e consegnarlo a uno sportelletto; nudi e rapati a zero, attraversammo poi il corridoio per andare in un'altra stanza dove ritirammo le camicie da notte; in camicia da notte passammo a un'altra porta dove ricevemmo gli scarponi militari; con gli scarponi e la camicia da notte attraversammo il cortile a passo di marcia fino a un'altra baracca dove ricevemmo le camicie, le mutande, le fasce, il cinturone e la divisa (sulla giacca c'erano le mostrine nere!); infine arrivammo all'ultima baracca dove un graduato lesse ad alta voce i nostri nomi, ci divise in squadre e ci assegnò i posti e i letti nella baracca.

  Quello stesso giorno fummo portati all'adunata, poi a cena, poi ai letti; al mattino fummo svegliati e condotti alla miniera; in miniera fummo divisi in gruppi di lavoro, a seconda della squadra, e muniti di attrezzi (martello pneumatico, pala, lampada a petrolio) che quasi nessuno di noi sapeva maneggiare; poi il montacarichi ci portò sottoterra. Quando risalimmo col corpo dolorante, i graduati ci stavano aspettando, ci incolonnarono e ci riportarono in caserma; mangiammo, e il pomeriggio ci furono le esercitazioni d'ordine chiuso e dopo le esercitazioni le pulizie, la lezione di educazione politica, i canti obbligatori; invece della nostra vita privata, una stanza con venti brande. E così andò avanti, giorno dopo giorno.

  All'inizio, la reificazione che ci veniva inflitta mi sembrò del tutto opaca; le funzioni impersonali che venivano ordinate e che noi eseguivamo avevano sostituito ogni nostra manifestazione umana; ovviamente, questa opacità era soltanto relativa, provocata non solo da circostanze reali, ma anche dalla non ancora avvenuta assuefazione della vista (come quando dalla luce si passa in un luogo buio); col tempo essa si fece via via più trasparente e, pur in quella «penombra di reificazione», nelle persone cominciò ad affiorare quello che vi era di umano. Devo ammettere, naturalmente, di essere stato uno degli ultimi a riuscire a regolare la vista sulla mutata «luminosità».

  Ciò dipendeva dal fatto che rifiutavo con tutto me stesso di accettare la mia sorte. I soldati con le mostrine nere, tra i quali ero capitato, facevano infatti soltanto gli esercizi d'ordine chiuso, senza armi, e lavoravano nelle miniere. Il loro lavoro veniva pagato (da questo punto di vista stavano meglio degli altri soldati), ma per me era una ben magra consolazione se pensavo che si trattava esclusivamente di persone alle quali la giovane repubblica socialista non voleva affidare un'arma, considerandole suoi nemici. È naturale che da ciò derivasse un trattamento più crudele e la tremenda minaccia che la ferma potesse protrarsi più a lungo dei due anni obbligatori, ma a terrorizzarmi ancor di più era il semplice fatto di trovarmi tra quelli che consideravo i miei peggiori nemici, e di esser stato mandato tra loro dai miei stessi compagni. Fu per questo che passai il primo periodo tra i neri in un'ostinata solitudine; non volevo fare amicizia coi miei nemici, non volevo abituarmi a loro. Con le libere uscite a quel tempo si andava abbastanza male (un soldato non aveva diritto all'uscita, la riceveva soltanto come premio, il che in pratica voleva dire che si andava fuori circa una volta ogni due settimane, il sabato), ma io, nei giorni in cui i soldati si precipitavano a gruppi nelle osterie o dietro alle ragazze, preferivo rimanere solo; mi sdraiavo sul letto nella camerata, cercavo di leggere qualcosa o addirittura di studiare, consumandomi nella mia inadattabilità; ero persuaso di avere un solo e unico compito: continuare la lotta per il mio onore politico, per il mio diritto a «non essere un nemico», per il mio diritto ad andar via da lì.

  Ero andato varie volte a trovare il commissario politico della nostra unità, cercando di convincerlo che ero capitato tra i neri per sbaglio; che ero stato espulso dal partito per il mio intellettualismo e il mio cinismo, ma non perché nemico del socialismo; spiegai nuovamente (ormai per l'ennesima volta!) la storia ridicola della cartolina, una storia che però ormai non era più ridicola, ma al contrario, messa in relazione alle mie mostrine nere, diventava sempre più sospetta e sembrava nascondere qualcosa che io tacevo.

  Devo però dire, a onor del vero, che il commissario politico mi aveva ascoltato con pazienza e aveva manifestato una comprensione quasi inaspettata per quel mio desiderio di giustificarmi; e in seguito si era effettivamente informato del mio caso nelle alte sfere (quale invisibile determinazione del luogo!), ma alla fine mi aveva fatto chiamare e mi aveva detto con sincera amarezza: «Perché mi hai ingannato? Ho saputo che sei un trockista».

  Cominciai a capire che non esisteva alcuna forza in grado di mutare l'immagine della mia persona posta in chissà quale sala suprema dove si decidono i destini umani; capii che quell'immagine (pur non somigliandomi in nulla) era di gran lunga più reale di quanto lo fossi io stesso; che non era affatto la mia ombra, ma ero invece io l'ombra di quell'immagine; che non era possibile accusarla di non somigliarmi, perché il colpevole di quella non somiglianza ero io; e che quella non somiglianza era la mia croce, una croce che non potevo scaricare addosso a nessuno e che dovevo continuare a portare.

  E tuttavia non volevo capitolare. Volevo veramente portare quella mia non somiglianza, volevo continuare a essere quello che era stato deciso che io non fossi.

  Passarono una quindicina di giorni prima che mi fossi un po' abituato al lavoro massacrante della miniera, al peso del martello pneumatico nella mano e alle vibrazioni che sentivo scuotermi il corpo fino al mattino successivo. Ma mi impegnavo con lealtà e con una certa rabbia; volevo che il mio fosse un rendimento da operaio scelto, e in breve ci riuscii.

  Solo che nessuno vedeva in ciò l'espressione della mia coscienza di classe. Il fatto era che venivamo pagati per il nostro lavoro (ovviamente ci erano detratti il vitto e l'alloggio, ma anche così ricevevamo abbastanza), e perciò anche molti degli altri, comunque la pensassero, lavoravano con notevole slancio per riuscire a strappare a quegli anni sprecati almeno qualcosa di utile.

  Anche se eravamo considerati accaniti nemici dello Stato, in caserma venivano rispettate tutte le forme di vita sociale tipiche delle collettività socialiste; noi, nemici dello Stato, organizzavamo, sotto la sorveglianza del commissario politico, i dieci minuti di discussione sulle questioni di attualità, avevamo le nostre riunioni politiche giornaliere, dovevamo occuparci dei pannelli murali sui quali incollavamo le foto degli uomini di Stato dei paesi socialisti e scrivevamo col pennello slogan sul radioso futuro! Chiesi, all'inizio in maniera quasi ostentata, di partecipare a tutte queste attività. Ma neppure in ciò fu visto un segno della mia coscienza di classe, perché a dire il vero anche gli altri ne facevano richiesta quando avevano bisogno che il comandante si accorgesse di loro e gli desse il permesso di libera uscita. Nessuno dei soldati sentiva quell'attività politica come vera attività politica, ma piuttosto solo come un gesticolare privo di contenuto che era necessario offrire a coloro che ci tenevano in loro potere.

  E così capii che anche quella mia ostinazione era inutile, che anche di quella mia «non somiglianza» ero ormai il solo ad accorgermi, mentre per gli altri era invisibile.

  Tra i graduati ai quali eravamo stati dati in balìa, c'era un piccolo slovacco dai capelli neri, un caporale che si differenziava dagli altri per la sua mitezza e per un'assoluta mancanza di sadismo. Era il nostro preferito, anche se alcuni di noi dicevano malignamente che la sua bontà era solo frutto della sua stupidità. A differenza di noi, i graduati ovviamente avevano le armi e, di tanto in tanto, andavano alle esercitazioni di tiro. Una volta, il piccolo caporale dai capelli neri tornò dalle esercitazioni carico di gloria perché era risultato primo nel tiro. Molti di noi si congratularono subito con lui chiassosamente (in parte con sincerità, in parte per scherzo); il piccolo caporale si era fatto tutto rosso.

  Per caso quel giorno mi trovai da solo con lui e, per tener viva la conversazione, gli chiesi: «Come fa a sparare così bene?».

  Il caporale mi squadrò e poi disse: «Io ho un mio sistema per aiutarmi. Mi immagino che il bersaglio non sia un pezzo di latta ma un imperialista. E mi prende una tale rabbia che faccio centro!».

  Volevo chiedergli come se l'immaginava quell'imperialista, ma lui prevenne la mia domanda e mi disse, con voce seria e pensierosa: «Non so perché voi tutti mi facciate tanti complimenti. Se ci fosse una guerra, è su di voi che sparerei!».

  A sentir ciò dalle labbra di quella pasta d'uomo che contro di noi non era mai riuscito nemmeno ad alzare la voce - e appunto per questo fu poi trasferito altrove - capii che il filo che mi legava al partito e ai compagni mi era irrimediabilmente sfuggito di mano. Mi ritrovai fuori dell'orbita della mia vita.

  6

  Sì. Tutti i fili erano spezzati.

  Interrotti gli studi, interrotta la partecipazione al movimento, il lavoro, i rapporti con gli amici, interrotto l'amore e la ricerca dell'amore: si era, insomma, interrotto l'intero corso, dotato di senso, di una vita. Non mi era rimasto che il tempo. E quello, in compenso, lo conobbi così intimamente come mai prima. Non era più il tempo col quale ero stato in rapporto una volta, un tempo metamorfosato in lavoro, in amore, in ogni sforzo possibile, un tempo che accettavo senza accorgermene perché anch'esso era discreto e si nascondeva con delicatezza dietro le mie attività. Ora il tempo era venuto da me denudato, per quello che era, nel suo aspetto originario e autentico, e mi aveva costretto a chiamarlo col suo vero nome (perché adesso non vivevo che il puro tempo, il puro tempo vuoto), mi aveva costretto a non dimenticarlo neanche un istante, a pensarci continuamente e a sentirne incessantemente il peso.

  Di una musica, noi sentiamo la melodia, dimenticando che questo è solo uno degli aspetti del tempo; quando l'orchestra tace sentiamo il tempo; il tempo come tale. Io vivevo in una pausa. Naturalmente non in una pausa generale dell'orchestra (la cui lunghezza è stabilita con precisione dal segno di pausa), ma piuttosto in una pausa della quale non è indicata la fine. Non potevamo (come invece si faceva in tutte le altre unità) tagliare un centimetro dopo l'altro da un metro da sarto per vedere accorciarsi, giorno dopo giorno, la ferma biennale; i neri, infatti, potevano essere trattenuti sotto le armi per tutto il tempo che si voleva. Il quarantenne Ambroz della seconda compagnia era lì già da quattro anni.

  Essere allora sotto le armi e avere a casa una moglie o una fidanzata era molto amaro; voleva dire montare continuamente e inutilmente la guardia dentro di sé alla loro esistenza incontrollabile.

  E voleva anche dire desiderare continuamente le loro visite così rare e continuamente temere che il comandante rifiutasse quel giorno l'uscita promessa e che la moglie fosse arrivata inutilmente fino al portone della caserma. Tra i neri si diceva (con umorismo nero) che gli ufficiali aspettassero le mogli insoddisfatte, le avvicinassero e cogliessero poi i frutti del desiderio che appartenevano di diritto ai soldati trattenuti in caserma.

  Eppure, per quelli che avevano a casa una moglie, questa pausa era percorsa da un filo, magari sottile, magari angosciosamente sottile e facile a rompersi, ma pur sempre un filo. Un filo del genere io non l'avevo; con Markéta avevo interrotto ogni rapporto, e se mi arrivava qualche lettera, era di mia madre... E allora? non è un filo, questo?

  No, non è un filo; una casa, fino a che è soltanto la casa dei genitori, non è un filo; è soltanto il passato: le lettere che ti scrivono i genitori sono un messaggio da una terraferma dalla quale ti allontani; sono lettere, addirittura, che ti rendono unicamente consapevole del tuo deragliamento, ricordandoti il porto dal quale eri salpato in condizioni create con tanta onestà e tanto disinteresse; sì, dice una lettera simile, il porto continua a esserci, continua a resistere, sicuro e bello nel suo rappresentare il passato, ma la strada, la strada è perduta!

  Mi abituai quindi lentamente al fatto che la mia vita aveva perso la sua continuità, che mi era caduta di mano, che non mi restava altro che cominciare finalmente a essere, anche dentro di me, là dove ero realmente e senza rimedio. E così il mio sguardo si adattò a poco a poco a quella penombra di reificazione e cominciai ad accorgermi della gente intorno a me; più tardi degli altri ma, in fondo e per fortuna, non così tardi da essere del tutto estraniato da loro.

  Il primo a emergere da quella penombra (come adesso emerge per primo dalla penombra della mia memoria) fu Honza, nativo di Brno (parlava un gergo di periferia quasi incomprensibile), finito tra i neri per aver picchiato un poliziotto. L'aveva picchiato perché erano vecchi compagni delle medie e stavano litigando, ma il tribunale non aveva voluto sentir spiegazioni, Honza si era fatto sei mesi di galera e poi era arrivato dritto da noi. Era montatore specializzato ma si vedeva chiaramente che per lui tornare un giorno a lavorare come montatore o fare dell'altro era lo stesso; non era legato a nulla e mostrava verso il proprio futuro un'indifferenza che era all'origine della sua libertà insolente e noncurante.

  Per quel raro senso di libertà con Honza poteva competere soltanto Bedřich, il personaggio più strano della nostra camerata a venti brande; era finito tra noi solo due mesi dopo la regolare chiamata di settembre perché all'inizio era stato arruolato in un reggimento di fanteria dove però si era ostinatamente rifiutato di prendere in mano un'arma perché ciò andava contro i suoi rigidi princìpi religiosi; lì non avevano saputo che cosa fare di lui, soprattutto dopo che ebbero intercettato le lettere che indirizzava a Truman e a Stalin, invitando pateticamente i due uomini di Stato a sciogliere tutti gli eserciti in nome della fratellanza socialista; imbarazzati, dapprincipio gli avevano addirittura permesso di partecipare alle esercitazioni d'ordine chiuso, sicché era l'unico fra tutti i soldati a non avere armi, e gli ordini «spall'arm» e «pied'arm» li eseguiva alla perfezione, ma con le mani vuote. Aveva partecipato anche alle prime lezioni di politica dove si infervorava a discutere, scaldandosi contro i guerrafondai imperialisti. Quando però di sua iniziativa preparò e affisse in caserma un manifesto nel quale invitava a deporre tutte le armi, la procura militare lo accusò di sedizione. Ma il tribunale fu tanto sconcertato dai suoi discorsi pacifisti che lo mandò in osservazione in un reparto psichiatrico e, dopo altre esitazioni, lo prosciolse dall'accusa e lo spedì tra noi.

  Bedřich era felice: era l'unico che si fosse conquistato quelle mostrine nere di sua spontanea volontà e fosse contento di portarle.

  Era per questo che si sentiva libero in quel posto, anche se la sua capacità di essere libero non si esprimeva come in Honza con l'insolenza ma, proprio al contrario, con una tranquilla disciplina e una soddisfatta laboriosità.

  Tutti gli altri erano molto più pieni di paura e di angoscia: il trentenne Varga, ungherese del sud della Slovacchia, che, non conoscendo pregiudizi di nazionalità, durante la guerra aveva combattuto in diversi eserciti ed era stato fatto prigioniero al di qua e al di là del fronte; il rossiccio Petráň, il cui fratello era scappato oltre confine, sparando a un soldato della guardia di frontiera; il ventenne Stáňa, bellimbusto di periferia, che aveva ricevuto dal Comitato nazionale di zona un giudizio distruttivo perché, dicevano, al corteo del Primo Maggio si era ubriacato e poi aveva pisciato di proposito sul bordo del marciapiede, sotto gli occhi dei cittadini in festa; Pavel Pěkný, uno studente di legge che nei giorni di febbraio era andato, insieme con un gruppetto di compagni di università, a dimostrare contro i comunisti (capì immediatamente che io stavo dalla stessa parte di quelli che, dopo il febbraio, l'avevano espulso dalla facoltà, ed era il solo a mostrarmi la maligna soddisfazione di vedere che ero finito insieme con lui).

  Potrei ricordare ancora altri soldati che condivisero con me il destino di allora, ma voglio attenermi solo all'essenziale: chi mi piaceva di più era Honza. Ricordo una delle nostre prime conversazioni; fu durante un breve intervallo, in una galleria, quando ci trovammo (addentando uno spuntino) uno accanto all'altro e Honza mi diede un colpo al ginocchio: «Ehi, sordomuto, e tu che tipo sei?». A quel tempo ero davvero sordomuto (rivolto verso le mie eterne autodifese interiori) e cercai di spiegargli faticosamente (con parole delle quali sentii subito io stesso la spiacevole artificiosità e ricercatezza) com'ero capitato lì e perché in realtà non ci sarei dovuto stare. Lui mi disse: «Stronzo, e noi invece dovremmo starci?». Volli chiarirgli di nuovo la mia opinione (cercavo parole più naturali) e Honza, inghiottendo l'ultimo boccone, disse lentamente: «Se tu fossi tanto alto quanto sei stupido, il sole ti brucerebbe il cranio». Da quella frase spirava allegramente verso di me lo spirito plebeo della periferia e all'improvviso mi vergognai dei miei continui appelli da bambino viziato ai privilegi perduti, quando le mie convinzioni si fondavano proprio sull'opposizione ai privilegi e alla gente viziata.

  Col tempo diventai molto amico di Honza (Honza mi rispettava perché sapevo risolvere rapidamente e a memoria tutte le complicazioni di calcolo legate alla riscossione della paga e in quel modo avevo impedito varie volte che ci imbrogliassero); una volta si era messo a prendermi in giro perché passavo le libere uscite in caserma come uno stupido, e mi aveva trascinato fuori col gruppo.

  Quella libera uscita me la ricordo bene: eravamo in parecchi, otto o nove, c'erano Stáňa, Varga e anche Čeňek, uno dell'Accademia di Belle Arti che non aveva finito gli studi (era arrivato tra i neri perché all'Accademia si intestardiva a dipingere quadri cubisti mentre adesso, per rimediare qualche vantaggio di tanto in tanto, dipingeva col carboncino in tutte le stanze della caserma guerrieri hussiti armati di mazze ferrate e mazzafrusti). Non avevamo poi tante mete possibili: l'accesso al centro di Ostrava ci era proibito; solo alcuni quartieri erano permessi, e lì solo alcuni locali. Raggiungemmo la vicina periferia e avemmo fortuna perché quella che un tempo era una palestra sulla quale non gravava alcun divieto era stata trasformata in sala da ballo. Pagammo un ingresso insignificante ed entrammo. Nella grande sala c'erano molti tavoli e sedie, ma di gente pochina: una decina di ragazze, a occhio e croce, e una trentina circa di uomini, di cui metà soldati della vicina caserma di artiglieria; non appena ci videro, si fecero subito attenti, e noi sentimmo sulla pelle che ci stavano esaminando e contando. Ci sedemmo a un lungo tavolo vuoto e ordinammo una bottiglia di vodka, ma la cameriera, una bruttona, affermò seccamente che la vendita degli alcolici era vietata, così Honza chiese otto limonate; poi si fece dare una banconota a testa e dopo un po' fu di ritorno con tre bottiglie di rum che aggiungemmo, sotto al tavolo, al bicchiere con la limonata. Lo facemmo nella massima segretezza perché vedevamo che gli artiglieri ci tenevano d'occhio e sapevamo che erano i tipi da tradire quel nostro uso clandestino di alcolici. Le formazioni armate nutrivano infatti una profonda inimicizia nei nostri confronti: da un lato vedevano in noi degli elementi sospetti, degli assassini, dei criminali, dei nemici sempre pronti (come nelle storie di spionaggio che circolavano allora) a uccidere a sangue freddo le loro pacifiche famiglie, dall'altro (e questa era forse la cosa più importante) ci invidiavano perché avevamo soldi e potevamo permetterci dappertutto cinque volte più di loro.

  In ciò risiedeva infatti la particolarità della nostra situazione: non conoscevamo nient'altro che fatiche e stanchezza, ogni due settimane ci rasavano il cranio a zero affinché i capelli non ci dessero una qualche sconveniente autocoscienza, eravamo dei diseredati che ormai non si aspettavano più nulla di buono dalla vita, ma avevamo soldi. Non era molto, ma per un soldato e per le sue due libere uscite al mese era un patrimonio tale che in quelle poche ore di libertà (nei pochi posti permessi) poteva comportarsi come un nababbo e ripagarsi della cronica impotenza delle altre lunghe giornate.

  Quindi, mentre sul podio una cattiva orchestrina di ottoni alternava polke e valzer e sulla pista roteavano alcune coppiette, noi esaminavamo tranquilli le ragazze sorseggiando la nostra limonata il cui gusto alcolico già ci elevava al di sopra di tutti gli altri presenti nella sala; eravamo in uno stato d'animo eccellente; sentivo salirmi alla testa un'inebriante, gioiosa socievolezza, un senso di cameratismo che non provavo dall'ultima volta che avevo suonato insieme con Jaroslav nell'orchestrina col cimbalom. Honza, intanto, aveva escogitato un piano per portar via agli artiglieri quante più ragazze possibile. Il piano era ottimo nella sua semplicità e cominciammo velocemente a metterlo in atto. Il più energico a entrare in azione fu Čeňek che, spaccone e commediante com'era, per divertirci svolse il suo compito nella maniera più plateale: invitò a ballare una brunetta dal trucco pesante e poi la portò al nostro tavolo; si fece versare, per sé e per lei, una limonata al rum e le disse con aria d'intesa: «Allora, d'accordo!». La brunetta annuì e brindò facendo tintinnare i bicchieri. In quel momento passò lì accanto un adolescente in uniforme da artigliere coi due bottoncini da caporale sulle spalline, si fermò vicino alla brunetta e disse a Čeňek, con la voce più sgarbata possibile: «Permetti?». «Certo, amico, facci questo giretto insieme» disse Čeňek. Mentre la brunetta saltellava con l'appassionato caporale al ritmo idiota di una polka, Honza aveva già chiamato un taxi; dieci minuti dopo il taxi era lì e Čeňek si preparò a lasciare la sala; la brunetta finì di ballare, si scusò col caporale dicendo che doveva andare alla toilette e, tempo un istante, si sentì il rumore della macchina che si allontanava.

  Dopo il successo di Čeňek, fu la volta del vecchio Ambroz della seconda compagnia, che si era trovato una ragazza un po' più matura, dall'aspetto misero (questo non impediva che quattro artiglieri le girassero disperatamente intorno); dieci minuti dopo arrivava il taxi e Ambroz, con la prostituta e Varga (che sosteneva che con lui non sarebbe venuta nessuna ragazza), se ne andò a raggiungere Čeňek in un locale convenuto, all'altro capo di Ostrava. Poi altri due di noi riuscirono a portar via una ragazza e nella sala non restammo che in tre: Stáňa, Honza e io. Gli artiglieri ci guardavano con occhi sempre più minacciosi cominciando a sospettare un legame tra la nostra diminuzione di numero e la scomparsa di tre donne dalla loro riserva di caccia. Noi cercavamo di darci un contegno innocente, ma sentivamo che tirava aria di rissa. «E ora un ultimo taxi per la nostra ritirata onorevole» dissi guardando tristemente una biondina con la quale all'inizio ero riuscito a ballare una volta senza avere avuto però il coraggio di dirle di venir via con me; speravo di farlo durante il ballo successivo, ma ora gli artiglieri la sorvegliavano tanto che non potei accostarla. «C'è poco da fare» disse Honza alzandosi per andare a telefonare. Ma mentre attraversava la sala gli artiglieri lasciarono i loro tavolini e gli si fecero intorno. La rissa era nell'aria, ormai era lì lì per scoppiare, e a me e a Stáňa non rimase che alzarci dal tavolo e pian piano avvicinarci, in aiuto dell'amico in pericolo. Il gruppetto degli artiglieri circondava in silenzio Honza, quando all'improvviso tra loro comparve un sergente ubriaco fradicio (aveva certo anche lui una bottiglia sotto il tavolo) che interruppe il minaccioso silenzio: cominciò a blaterare che ai tempi della Prima repubblica suo padre era disoccupato e che a lui gli saltavano i nervi a vedere quei borghesi con le mostrine nere farla da padroni, che gli saltavano i nervi e gli amici avrebbero fatto bene a trattenerlo prima che lui gli spaccasse il muso, a quello là (si riferiva a Honza). Honza stava zitto e, quando nel discorso del sergente vi fu una breve pausa, chiese con garbo cosa desiderassero da lui i compagni artiglieri. Che ve la filiate in fretta, dissero gli artiglieri, e Honza disse che era proprio quello che volevamo fare, ma che gli lasciassero chiamare un taxi. A questo punto al sergente sembrò prendergli un colpo: ma porca merda, urlava con voce stridula, porca merda, noi stiamo a sfacchinare, non possiamo uscire, ci spacchiamo la schiena, non abbiamo quattrini e loro, questi capitalisti, questi sabotatori, queste canaglie, se ne vanno in giro in taxi, ah no!, diceva, anche a costo di torcergli il collo con le sue mani, quelli da lì in taxi non se ne sarebbero andati!

  Tutti erano presi dalla lite; intorno agli uomini in uniforme si erano raccolti anche dei civili e il personale della sala, che temeva un incidente. Fu allora che vidi la mia biondina; era rimasta sola al tavolo e ora (indifferente alla lite) si era alzata per andare al gabinetto; senza farmi notare mi sganciai dal gruppetto e nell'atrio vicino all'entrata, dove c'erano il guardaroba e i gabinetti (a parte la guardarobiera non c'era nessuno), le rivolsi la parola; mi sentivo come uno caduto in acqua che non sa nuotare: timidezza o non timidezza, dovevo agire; frugai in tasca, estrassi alcuni biglietti da cento spiegazzati e dissi: «Non vuole venire con noi? Sarà più divertente di qui!». Lei diede un'occhiata al denaro e alzò le spalle.

  Le dissi che l'avrei aspettata fuori e lei annuì, si infilò nel gabinetto e ne uscì un attimo dopo, già col soprabito addosso; sorridendomi affermò che si vedeva subito che io ero diverso dagli altri. Mi fece molto piacere sentirlo, la presi sottobraccio e l'accompagnai dall'altro lato della strada, dietro un angolo dove restammo a osservare l'ingresso della sala (illuminata da un unico lampione), in attesa che comparissero Honza e Stáňa. La biondina mi domandò se ero uno studente e, quando le dissi di sì, mi confidò che il giorno prima, in fabbrica, le avevano rubato dall'armadietto dei soldi che non erano suoi ma dell'azienda e che era disperata perché avrebbero potuto mandarla in tribunale: mi chiese se non potevo prestarle un centinaio di corone: infilai la mano in tasca e le diedi due biglietti da cento spiegazzati.

  Dopo poco che aspettavamo, i due amici uscirono con la bustina in testa e il pastrano. Feci loro un fischio, ma in quell'istante altri tre soldati (senza pastrano e senza berretto) si precipitarono fuori dal locale e si gettarono verso di loro. Sentivo il tono minaccioso delle domande: non riuscivo a capire le parole, ma il senso era chiaro: cercavano la mia biondina. Poi uno di loro si scagliò su Honza e la rissa cominciò. Corsi in aiuto. Stáňa aveva addosso un artigliere mentre su Honza ce n'erano due; presto l'avrebbero sbattuto a terra, ma per fortuna arrivai giusto in tempo e cominciai a prenderne a pugni uno. Gli artiglieri contavano sulla loro superiorità numerica ma, non appena le forze si pareggiarono, persero lo slancio originario; quando uno di loro finì a terra per un colpo di Stáňa, approfittammo della confusione per lasciare velocemente il campo di battaglia.

  La biondina, ubbidiente, ci stava aspettando dietro l'angolo.

  Quando gli amici la videro si abbandonarono a un delirio di entusiasmo, dicevano che ero un cannone, volevano abbracciarmi e io, per la prima volta dopo tanto tempo, fui sinceramente e allegramente felice. Honza tirò fuori da sotto il cappotto una bottiglia piena di rum (non so come fosse riuscito a metterla in salvo durante la rissa) e la sollevò in alto. Eravamo nella migliore disposizione di spirito, ci mancava soltanto un posto dove andare: da un locale ci avevano sbattuto fuori, negli altri non avevamo accesso, prendere un taxi c'era stato impedito dai nostri furiosi rivali e anche all'aperto la nostra esistenza era minacciata da un'eventuale spedizione punitiva che avrebbero potuto ancora organizzare contro di noi. Ci allontanammo in fretta per una stretta stradina, camminammo per un po' tra le case e poi non ci fu più che il muro da un lato e una staccionata dall'altro; accanto alla staccionata c'era la sagoma di legno di un carretto e, lì vicino, una macchina agricola col seggiolino di lamiera. «Un trono» dissi, e Honza vi installò la biondina, giusto a un metro da terra. La bottiglia cominciò a passare di mano in mano, bevevamo tutti e quattro, la biondina in breve divenne loquace e scommise con Honza: «Tu un biglietto da cento non me lo presteresti!». Honza era un gran signore, le allungò le cento corone e in un attimo la ragazza si era già tolta il soprabito e tirata su la gonna e un istante dopo si stava togliendo da sola le mutandine. Mi prese per mano e mi strinse a sé, ma io avevo la tremarella, mi divincolai e spinsi verso di lei Stáňa che non mostrò la minima esitazione e si infilò decisamente tra le sue gambe. Rimasero insieme non più di venti secondi; poi io volevo dare la precedenza a Honza (da un lato volevo comportarmi come un padrone di casa, dall'altro continuavo ad avere la tremarella) ma questa volta la biondina fu più risoluta, mi tirò a sé e quando, dopo i contatti di incoraggiamento, potei finalmente unirmi a lei, mi sussurrò teneramente all'orecchio: «Sono qui per te, stupido», e cominciò a sospirare per cui d'un tratto ebbi davvero la sensazione che lei fosse una tenera ragazza che mi amava e che io amavo, e intanto lei continuava a sospirare e io non smettevo, finché non sentii all'improvviso la voce di Honza uscirsene con un'oscenità, e allora mi resi conto che non era una ragazza che io amavo e mi tolsi da lei di colpo, senza concludere, tanto che la biondina quasi si spaventò e disse: «Ma che ti prende?», ma Honza era già da lei e i sospiri rumorosi ripresero.

  Quel giorno tornammo in caserma che erano quasi le due di notte.

  Alle quattro e mezza dovemmo già alzarci per il turno volontario domenicale che al comandante fruttava i premi e a noi le nostre libere uscite un sabato sì e uno no. Eravamo insonnoliti, col corpo pieno di alcol e, benché ci muovessimo come fantasmi nella penombra della galleria, io ripensavo con piacere alla serata trascorsa.

  Due settimane dopo andò peggio; a causa di una storia, Honza era stato consegnato e io uscii con due ragazzi di un altro plotone che conoscevo solo di sfuggita. Andammo quasi a colpo sicuro da una donna che, per la sua mostruosa lunghezza, era stata soprannominata il Lampione. Era un orrore, ma non c'era niente da fare perché la cerchia delle donne di cui potevamo disporre era notevolmente limitata, soprattutto a causa delle nostre scarse disponibilità di tempo. La necessità di approfittare a ogni costo dei momenti di libertà (così brevi e concessi così raramente) portava i soldati a dare la precedenza al sicuro piuttosto che al sopportabile. Col tempo e con ricognizioni che ci comunicavamo a vicenda, era stata rimediata una rete (peraltro misera) di queste donne più o meno sicure (e ovviamente a malapena sopportabili) ed era stata messa a disposizione di tutti.

  Il Lampione proveniva da questa rete comune; a me non importava affatto; quando i due ragazzi attaccarono a far battute sulla sua lunghezza spropositata, ripetendo quasi per la cinquantesima volta che al momento giusto avremmo dovuto procurarci un mattone da mettere sotto i piedi, quel modo di scherzare (grossolano e noioso) mi parve particolarmente piacevole: stimolava in me una furiosa voglia di donna; di qualsiasi donna; quanto meno individualizzata, quanto meno dotata di un'anima tanto meglio; tanto meglio, se fosse stata una donna qualsiasi.

  Benché avessi bevuto molto, la furiosa voglia di donna mi passò alla vista della ragazza chiamata Lampione. Tutto mi sembrava disgustoso e inutile e, poiché non c'erano né Honza né Stáňa e nessuno che mi piacesse, il giorno dopo mi svegliai con un tale mal di testa e di così cattivo umore che anche gli avvenimenti di due settimane prima furono assorbiti in quello scetticismo e giurai a me stesso che non sarei mai più andato né con una ragazza seduta sul seggiolino di una macchina agricola né con un Lampione ubriaco...

  Si era forse fatto sentire in me qualche principio morale? Macché: era puro e semplice disgusto. Ma perché quel disgusto, quando ancora un paio d'ore prima avevo una furiosa voglia di donna, una furia rabbiosa legata proprio al fatto che mi era programmaticamente indifferente chi sarebbe stata quella donna? Ero forse più delicato degli altri e le prostitute mi facevano schifo? Macché: ero stato assalito dalla malinconia.

  Una malinconia che veniva dal lucido riconoscimento che quella situazione non era uno stato eccezionale scelto per lusso, per capriccio, per un irrequieto desiderio di conoscere e vivere ogni cosa (nobile o volgare), ma era diventata la condizione fondamentale, sintomatica e consueta della mia vita presente. Che quella situazione limitava con esattezza il cerchio delle mie possibilità, disegnava con esattezza l'orizzonte della vita affettiva che da allora in poi mi sarebbe toccata. Che non era espressione della mia libertà (come avrei potuto intenderla se mi si fosse presentata magari un anno prima), bensì del mio condizionamento, dei miei limiti, della mia condanna. E sentii paura. Paura di quel misero orizzonte, paura di quel destino. Sentivo il mio animo ripiegarsi su se stesso, cominciare a indietreggiare davanti a tutto ciò e, allo stesso tempo, avevo paura che non avesse dove trovar scampo di fronte a quell'accerchiamento.

  7
La tristezza che emanava da quel misero orizzonte affettivo era presente (anche solo come sensazione inconscia) in quasi tutti noi.

  Bedřich (l'autore dei manifesti per la pace) si difendeva calandosi in meditazione nelle profondità del suo intimo, dove evidentemente dimorava il suo Dio mistico; nella sfera erotica a questa intimità religiosa corrispondeva la masturbazione che egli praticava con una regolarità rituale. Gli altri si difendevano con autoinganni ancor più grandi: riempivano le ciniche spedizioni a puttane col più sentimentale dei romanticismi; tutti avevano a casa un amore che ora, a furia di ricordi, lustravano fino a renderlo sfolgorante; tutti credevano nella Fedeltà durevole e nell'Attesa fedele; tutti si convincevano segretamente che la ragazza che avevano rimediato ubriaca in osteria nutriva per loro sentimenti sacri. Stáňa ricevette un paio di volte la visita di una ragazza di Praga con la quale, prima del servizio militare, aveva avuto una relazioncella (che allora lui sicuramente non aveva preso molto sul serio), e all'improvviso si intenerì e decise (in accordo con la sua natura avventata) di sposarla all'istante. Certo, a noi diceva che lo faceva solo per procurarsi col matrimonio due giorni di libertà, ma io sapevo che il cinismo di questa scusa era una pura facciata. Fu ai primi di marzo che il comandante gli concesse i due giorni di libertà e Stáňa andò a Praga il sabato e la domenica a sposarsi. Lo ricordo benissimo perché il giorno del matrimonio di Stáňa diventò anche per me un giorno molto importante.

  Avevo ottenuto la libera uscita e, poiché ero ancora triste per l'ultima giornata di libertà sprecata col Lampione, evitai i compagni e me ne andai da solo. Presi il trenino locale, un vecchio tram che correva su strette rotaie collegando i quartieri lontani di Ostrava, e mi lasciai portar via. Poi scesi a caso, e salii su un'altra linea; tutta quella sconfinata periferia di Ostrava, dove in uno strambo amalgama si mescolavano una fabbrica e la natura, campi e depositi di immondizia, boschetti e cumuli di detriti, caseggiati e costruzioni di campagna, mi attirava e mi turbava in maniera particolare; scesi nuovamente dal tram e cominciai una lunga passeggiata a piedi: percepivo quasi con passione quello strano paesaggio cercando di arrivare sino al fondo del suo spirito; cercavo di esprimere con parole ciò che dava unità e ordine a quel paesaggio costituito da elementi così eterogenei; passai accanto a un'idilliaca casetta coperta di edera e mi venne in mente che quello era il suo posto proprio perché non si adattava affatto ai caseggiati screpolati che le stavano accanto, e nemmeno ai contorni delle torri dei pozzi, delle ciminiere e delle fornaci che ne erano lo sfondo; passai accanto a basse baracche provvisorie, quasi un villaggio nel villaggio, e poco più in là vidi una villa, sporca e grigia, è vero, ma circondata da un giardino e da una cancellata; in un angolo del giardino era cresciuto un grande salice piangente che, in quel paesaggio, era come una persona che si fosse smarrita - eppure, mi dissi, forse proprio per questo motivo quello era il suo posto. Ero turbato dalla scoperta di tutte quelle minute discordanze e non solo perché in loro vedevo il denominatore comune di quel paesaggio, ma soprattutto perché in loro scorgevo l'immagine del mio destino, del mio esilio in quella città; e, naturalmente, quel proiettare la mia storia personale sull'oggettività di un'intera città mi concedeva una sorta di rassegnazione; capivo che quello non era il mio posto così come non lo era per il salice piangente e la casetta con l'edera, così come non lo era per le brevi strade che portavano nel vuoto e in nessun luogo, strade fatte di casette che sembravano arrivate lì da luoghi diversi, non era il mio posto come non era il posto - in una regione un tempo piacevolmente rurale - di quei mostruosi quartieri fatti di basse baracche provvisorie, e mi resi conto che proprio perché quello non era affatto il mio posto io dovevo star lì, in quella orribile città di discordanze, in una città che stringeva in un abbraccio implacabile cose tra loro estranee.

  Poi mi trovai in una lunga strada di Petřkovice, un paesino che adesso costituiva uno dei più vicini sobborghi di Ostrava. Mi fermai accanto a un edificio a un piano, più grande degli altri, con all'angolo la scritta verticale CINEMA. Mi venne in mente una domanda del tutto banale, di quelle che possono venire in mente solo a chi va in giro senza una meta: come mai accanto alla parola CINEMA non c'era anche il nome del cinema? Mi guardai intorno, ma sull'edificio (che del resto non ricordava affatto un cinema) non figurava nessun'altra scritta. Tra l'edificio e la casa accanto c'era uno spazio di un paio di metri che formava un vicolo; lo percorsi e sbucai in un cortile; soltanto qui fu chiaro che l'edificio sul retro aveva un'ala a pianterreno; sul muro c'erano bacheche di vetro con le locandine e le foto dei film; mi avvicinai, ma neanche qui trovai il nome del cinema; mi guardai attorno e, di fronte, oltre la rete metallica del cortile accanto, vidi una ragazzina. Le chiesi il nome del cinema; la ragazzina fece la faccia meravigliata e disse che non lo sapeva. Mi rassegnai quindi al fatto che il cinema non avesse nome; che in quell'esilio di Ostrava i cinema non potessero permettersi neanche un nome.

  Ritornai indietro (senza saper bene che cosa fare) verso le bacheche di vetro e soltanto allora mi accorsi che il film annunciato dal manifesto e dalle due fotografie era il film sovietico Giurì d'onore. Lo stesso film alla cui eroina si era richiamata Markéta quando aveva deciso di recitare nella mia vita la gloriosa parte della misericordiosa, quello stesso film alle cui parti più severe si erano richiamati i compagni di partito nei provvedimenti contro di me; tutto ciò me lo aveva reso abbastanza disgustoso da non volerne più neanche sentir parlare; ed ecco che nemmeno lì a Ostrava ero riuscito a sfuggire al suo dito puntato... Be', se un dito alzato non ci piace, basta voltargli le spalle. Così feci e dal cortile mi mossi per tornare verso la strada di Petřkovice.

  E fu allora che vidi per la prima volta Lucie.

  Veniva proprio nella mia direzione; stava entrando nel cortile del cinema; perché non le passai accanto senza fermarmi? fu forse a causa dello strano vagabondare della mia libera uscita? o fu la strana luce di fine pomeriggio nel cortile a trattenermi lì e a impedirmi di uscire in strada? o fu l'aspetto di Lucie? Eppure era un aspetto del tutto comune, del tutto ordinario e, anche se in seguito fu proprio quel suo aspetto ordinario a intenerirmi e ad attrarmi, che cosa mi colpì e mi fece fermare al primo sguardo? non avevo forse incontrato ragazze ordinarie come lei nelle strade di Ostrava? forse quella ordinarietà era così fuori dall'ordinario? Non lo so. L'unica cosa certa è che rimasi fermo a guardare quella ragazza: si avvicinò alla bacheca a passo lento, senza fretta, e guardò le foto di Giurì d'onore; poi si allontanò lentamente, superò la porta aperta ed entrò nel piccolo atrio dove c'era la cassa. Sì, oggi posso dire che forse era stata proprio quella particolare lentezza di Lucie ad attrarmi tanto, una lentezza dalla quale pareva come diffondersi la rassegnata consapevolezza che non esiste nessun luogo verso cui affrettarsi e che è inutile protendere le mani impazienti verso qualcosa. Sì, forse fu proprio quella lentezza piena di malinconia a obbligarmi a seguire da una certa distanza quella ragazza mentre si avvicinava alla cassa, tirava fuori gli spiccioli, prendeva il biglietto, dava un'occhiata alla sala e poi si voltava nuovamente e usciva in cortile.

  Non le staccavo gli occhi di dosso. Mi dava sempre le spalle, e aveva lo sguardo lontano, oltre il cortile dove, circondati da paletti di legno, gli orti e le casette di campagna proseguivano fino in alto, dove erano chiusi dal contorno marrone di una cava. (Non potrò mai dimenticare quel cortile, ne ricordo ogni minuzia, ricordo la rete di recinzione che lo separava dal cortile vicino dove la ragazzina curiosava dalla scala davanti alla casa; ricordo che i gradini finivano di lato con un muretto su cui erano poggiati due vasi da fiori vuoti e una bacinella grigia; ricordo il sole, affumicato, che scendeva verso l'orizzonte della cava).

  Erano le sei meno dieci, il che voleva dire che mancavano dieci minuti all'inizio dello spettacolo. Lucie si voltò e attraversò lentamente il cortile per uscire in strada; la seguii; dietro di me si chiuse l'immagine della campagna bruciata di Ostrava e ricomparve una strada di città; a una cinquantina di passi c'era una piazzetta, tenuta con cura, con alcune panchine e un piccolo giardino dietro il quale si stagliava una costruzione falsogotica in mattoni rossi.

  Continuavo a seguire Lucie; si sedette su una panchina; la lentezza non la lasciava un istante, anche del suo ultimo movimento avrei quasi potuto dire che si era seduta lentamente; non si guardava attorno, non muoveva gli occhi, stava seduta come quando si è in attesa di un'operazione o di qualcosa che ci prende a tal punto che non ci lascia guardare attorno e volge invece il nostro sguardo dentro di noi; forse fu proprio questa circostanza a permettermi di gironzolare lì vicino e osservarla senza che lei se ne accorgesse.

  Si parla di amore a prima vista; so benissimo che l'amore ha la tendenza a farsi leggenda e a mitizzare retroattivamente i propri inizi; non voglio quindi sostenere che si trattò di un amore così improvviso; ma vi fu in effetti come una preveggenza: l'essenza di Lucie, o meglio - se devo essere del tutto preciso - l'essenza di ciò che Lucie fu poi per me, questo lo capii, lo sentii, lo vidi di colpo e immediatamente; Lucie mi aveva offerto se stessa come alla gente si offrono le verità rivelate.

  La guardavo, osservavo i suoi capelli che una messa in piega di paese aveva ridotto a una massa informe di riccioli, osservavo il suo soprabitino marrone, misero e consunto e forse anche un po' corto; osservavo il suo viso di una bellezza non appariscente e di una non appariscenza che era bella; sentivo che in quella ragazza c'erano tranquillità, semplicità e modestia, e che questi erano i valori di cui avevo bisogno; del resto mi sembrava che fossimo molto vicini; che avessimo l'uno per l'altro (pur non conoscendoci) il dono segreto della naturalezza; mi sembrava che sarebbe bastato avvicinarmi a lei e rivolgerle la parola e che, nell'istante in cui (finalmente) mi avesse guardato in faccia, avrebbe certo sorriso come se all'improvviso davanti a lei fosse comparso un fratello non visto da molti anni.

  Poi Lucie sollevò la testa; guardava in alto la torre con l'orologio (anche questo movimento è registrato nella mia memoria; il movimento di una ragazza che non porta nulla al polso e automaticamente si siede davanti a un orologio). Si alzò e si diresse verso il cinema; volevo raggiungerla; non mi mancava l'audacia, ma all'improvviso mi mancarono le parole; avevo sì il petto pieno di sensazioni, ma in testa nemmeno una sillaba; seguendo la ragazza, giunsi nuovamente nel piccolo atrio della cassa; da lì si poteva guardare nella sala dove regnava il vuoto. Lucie si fermò e si guardò intorno imbarazzata; in quell'istante entrarono nell'atrio alcune persone e si precipitarono verso la cassa; le precedetti e comprai il biglietto per quel film che non amavo.

  Nel frattempo la ragazza era entrata; la seguii. Nella sala semivuota la numerazione dei posti non aveva più senso e ognuno si sedeva dove voleva; entrai nella stessa fila di Lucie e mi sedetti accanto a lei. Poi, da un disco consumato venne una musica gracchiante, la sala si fece buia e sullo schermo comparve la pubblicità.

  Lucie doveva essersi resa conto che non era un caso se un soldato con le mostrine nere si era seduto proprio accanto a lei, certamente doveva percepire e sentire la mia vicinanza, doveva sentirla forse ancor più ora dal momento che io ero completamente concentrato su di lei; non facevo caso a quello che avveniva sullo schermo (che ridicola vendetta: ero felice che il film al quale i miei moralisti si erano così sovente richiamati ora mi passasse davanti sullo schermo senza che io vi prestassi attenzione).

  Poi il film terminò, le luci si accesero, i pochi spettatori si alzarono dai loro posti. Anche Lucie si alzò. Sollevò dalle ginocchia il soprabitino marrone ripiegato e infilò il braccio nella manica. Mi misi in fretta la bustina perché non vedesse il cranio rasato a zero e l'aiutai in silenzio a infilare l'altra manica. Per un attimo mi guardò e non disse nulla, forse scosse leggermente la testa, ma non sapevo se questo dovesse rappresentare un cenno di ringraziamento o se si trattasse invece di un movimento del tutto involontario. Poi uscì dalla fila a piccoli passi. Mi infilai anch'io velocemente il pastrano verde (mi andava lungo e non doveva certo starmi molto bene) e la seguii.

  Eravamo ancora nella sala quando le rivolsi la parola.

  Era come se, nelle due ore in cui le ero stato seduto accanto pensando a lei, mi fossi sintonizzato sulla sua lunghezza d'onda: all'improvviso riuscii a parlarle come se la conoscessi bene; non iniziai la conversazione con qualche battuta o qualche paradosso come ero solito fare, ma fui invece del tutto naturale sorprendendomene io stesso, perché fino ad allora davanti alle ragazze avevo sempre inciampato sotto il peso delle maschere.

  Le chiesi dove abitava, che cosa faceva, se andava spesso al cinema. Le dissi che lavoravo in miniera, che era un lavoro massacrante, che avevo raramente la possibilità di uscire. Lei disse che lavorava in fabbrica, che abitava in un pensionato, dove si doveva rientrare prima delle undici, che al cinema ci andava spesso perché non le piaceva ballare. Le dissi che mi sarebbe piaciuto andare al cinema con lei appena avessi avuto di nuovo un giorno di libertà. Lei disse che preferiva andarci da sola. Le chiesi se questo era perché la sua vita le sembrava triste. Annuì. Dissi che neanch'io ero felice.

  Non c'è nulla che avvicini le persone più in fretta (anche se, magari, in maniera apparente e illusoria) di una triste e malinconica comprensione; questa atmosfera di tranquilla partecipazione che mette a tacere ogni timore e ogni difesa ed è comprensibile a un animo fine come a un animo volgare, a uno colto come a uno semplice, è il modo più facile per accomunare due persone, e insieme il più raro: è infatti necessario mettere da parte l'«atteggiamento mentale» coltivato con gli anni, i gesti abituali e la mimica, ed essere semplici; non so come (all'improvviso, senza preparazione) fossi riuscito ad arrivarci, come fossi potuto riuscirci io che brancolavo alla cieca dietro le mie facce fasulle; non lo so; ma lo sentivo come un dono inaspettato e come una miracolosa liberazione.

  Ci dicemmo quindi le cose più banali su noi stessi; le nostre confessioni erano brevi e impersonali. Arrivammo al pensionato e lì ci fermammo per un po'; un lampione gettava la sua luce su Lucie e io guardai il suo cappottino marrone e la accarezzai, non sul viso o sui capelli, ma sulla stoffa consunta di quel patetico soprabito.

  Ricordo ancora che il lampione ondeggiava, che lì accanto passavano delle giovani dalle risate fastidiosamente rumorose e aprivano la porta del pensionato, ricordo la prospettiva verticale del muro dell'edificio nel quale abitava Lucie, un muro grigio e spoglio con finestre senza davanzale; ricordo poi il viso di Lucie che (in confronto ai visi di altre ragazze conosciute in situazioni analoghe) era molto tranquillo, senza espressione, e somigliava al viso di una studentessa che, alla lavagna, risponde umilmente (senza arroganza e senza finzioni) soltanto a quello che sa, non sforzandosi di ottenere un bel voto o un elogio.

  Rimanemmo d'accordo che avrei scritto a Lucie una cartolina per farle sapere quando avrei avuto la prossima libera uscita e quando ci saremmo visti. Ci salutammo (senza baciarci e senza toccarci) e io mi allontanai. Dopo alcuni passi, mi voltai e la vidi ancora davanti alla porta, non l'apriva, era immobile e guardava verso di me; soltanto adesso che io ero distante era uscita dal suo riserbo e il suo sguardo (fino ad allora schivo) si era fissato a lungo su di me. Poi sollevò la mano come uno che non ha mai agitato la mano e non sa come farlo, ma sa solo che quando si saluta qualcuno bisogna agitarla e per questo si è deciso ad accennare goffamente quel movimento. Mi fermai e agitai anch'io la mano verso di lei; restammo a guardarci così da lontano, poi io ripresi a camminare e di nuovo mi fermai (Lucie continuava ad agitare la mano), e in quel modo mi allontanai lentamente, fino a che non svoltai l'angolo e scomparimmo l'uno alla vista dell'altro.

  Da quella sera ogni cosa in me cambiò; ero di nuovo abitato; tutt'a un tratto la camera del mio intimo era ordinata e qualcuno ci viveva.

  L'orologio che stava appeso alla parete con le lancette immobili da molti mesi aveva ripreso all'improvviso a ticchettare. E questo era importante: il tempo, che fino ad allora era trascorso come un flusso indifferente dal nulla verso il nulla (vivevo pur sempre in una pausa!), senza alcuna articolazione, senza alcuna indicazione di ritmo, aveva cominciato a riacquistare il suo volto umano: aveva cominciato a suddividersi e a scandirsi. Cominciai a dare importanza ai permessi di uscita dalla caserma, e i singoli giorni si mutarono per me nei pioli di una scala che mi portava da Lucie.

  Mai in vita mia ho dedicato tanti pensieri, tanta silenziosa attenzione, a un'altra donna (del resto non ho mai più avuto tanto tempo a disposizione). Per nessuna donna ho mai sentito tanta riconoscenza.

  Riconoscenza? Per che cosa? Lucie mi strappava soprattutto dal cerchio di quel doloroso orizzonte affettivo che circondava noi tutti.

  Ovviamente anche Stáňa, sposato di fresco, si era strappato a suo modo da quel cerchio: adesso a casa, a Praga, aveva una moglie che amava. Però non c'era di che invidiarlo. Con l'azione di sposarsi aveva rimesso in moto il suo destino, ma già nel momento in cui aveva preso il treno per tornare a Ostrava, aveva perso ogni influenza su di esso.

  E anch'io, grazie all'incontro con Lucie, avevo rimesso in moto il mio destino; ma non lo stavo perdendo di vista; con Lucie mi incontravo poco, ma pur sempre con una certa regolarità, e sapevo che sarebbe stata capace di aspettarmi due settimane e anche più e di incontrarmi dopo quell'intervallo come se ci fossimo lasciati il giorno prima.

  Ma Lucie non mi liberava soltanto dalla generica depressione causata dalle sconfortanti avventure amorose di Ostrava. Sapevo già, in fondo, di aver perso la mia battaglia, sapevo che non avrei cambiato nulla nelle mie mostrine nere, sapevo che non aveva senso estraniarmi dalle persone con le quali avrei dovuto condividere due anni o forse più, che non aveva senso reclamare continuamente il diritto all'orbita originaria della mia vita (della quale avevo già cominciato a capire il carattere privilegiato), ma questo cambiamento di posizione era soltanto razionale, frutto di una scelta, e non poteva eliminare il mio pianto interiore sul «destino perduto». Lucie aveva miracolosamente calmato quel pianto interiore. Mi era bastato sentirmela accanto con tutto il caldo cerchio della sua vita, nella quale non giocavano alcun ruolo il problema del cosmopolitismo e dell'internazionalismo, la vigilanza e la circospezione, le dispute sul concetto di dittatura del proletariato, la politica con la sua strategia e la sua tattica.

  Era su queste preoccupazioni (così tipiche di quell'epoca che la loro terminologia diventerà ben presto incomprensibile) che io ero naufragato e tuttavia proprio ad esse mi ero aggrappato. Davanti alle varie commissioni potevo addurre decine di motivi per i quali ero diventato comunista, ma quello che nel movimento soprattutto mi aveva affascinato, anzi ammaliato, era il volante della storia vicino al quale (realmente o in apparenza) mi ero trovato. A quel tempo, infatti, noi decidevamo davvero dei destini delle persone e delle cose; e in particolare nelle università: allora c'erano pochi comunisti nel corpo docente, per cui nei primi anni le università erano state rette quasi soltanto dagli studenti comunisti, che da soli decidevano della composizione del corpo docente, della riforma dell'insegnamento e dei programmi. L'ebbrezza che vivevamo è generalmente chiamata ebbrezza del potere, ma (con un po' di buona volontà) potrei trovare parole meno severe: eravamo stregati dalla storia; ci ubriacavamo dell'idea di essere saltati in groppa alla storia e di sentirla sotto di noi; certo, in realtà tutto ciò si era poi rivelato per la maggior parte una brutta sete di potere, ma (così come tutte le vicende umane sono ambigue) c'era in questo allo stesso tempo (e forse soprattutto in noi giovincelli) l'illusione del tutto idealistica che proprio noi stavamo inaugurando quell'epoca dell'umanità in cui l'uomo (ogni uomo) non sarebbe stato né fuori della storia, né sotto il suo tallone, ma l'avrebbe diretta e creata.

  Ero convinto che fuori di quel cerchio, lontano dal volante della storia (che io avevo toccato con ebbrezza) non esisteva vita ma soltanto il vegetare, la noia, l'esilio, la Siberia. E adesso all'improvviso (dopo sei mesi di Siberia) vedevo una possibilità di vita del tutto nuova e inaspettata: mi si era aperto davanti, sotto l'ala della storia in pieno volo, il campo dimenticato del quotidiano nascosto, e su quel campo c'era una donna povera, misera eppure degna di amore: Lucie.

  Che cosa sapeva Lucie della grande ala della storia? A malapena qualche volta ne aveva sentito il suono; non sapeva nulla della storia; viveva sotto di essa; non vi aspirava, le era estranea, non sapeva niente delle grandi preoccupazioni del tempo, viveva tra preoccupazioni piccole ed eterne. E io all'improvviso ero libero: mi sembrava che lei fosse venuta a cercarmi per condurmi nel suo paradiso grigio; e quel passo che un istante prima mi era sembrato terribile, il passo che mi avrebbe fatto «uscire dalla storia», fu per me di colpo il passo del sollievo e della felicità. Lucie mi stringeva timidamente il gomito e io mi lasciavo guidare...

  Lucie era la mi  grigia accompagnatrice. Ma chi era Lucie secondo dati più concreti?

  Aveva diciannove anni, ma in realtà certo molti di più, così come di solito avviene per le donne che hanno avuto una vita dura e sono state gettate dall'età dell'infanzia in quella della maturità. Diceva di essere originaria di Cheb, in Boemia occidentale, e che dopo le medie era andata subito a lavorare. Di casa sua non le piaceva parlare e, se lo faceva, era perché la costringevo. A casa non era stata felice: «I miei non mi volevano bene» diceva, adducendo molte prove: che la madre si era risposata; che il patrigno beveva ed era cattivo con lei; che una volta l'avevano accusata di aver rubato dei soldi; che la picchiavano, addirittura. Quando i contrasti raggiunsero il limite, Lucie approfittò di un'occasione e partì per Ostrava. Ormai era quasi un anno che viveva lì; aveva delle amiche; però preferiva uscire da sola, le amiche andavano a ballare e si portavano i ragazzi al pensionato, e lei non voleva; era una ragazza seria: preferiva andare al cinema.

  Sì, definiva se stessa una ragazza «seria» e associava questa particolarità al fatto di andare al cinema; più di tutti le piacevano i film di guerra, che in quel tempo venivano dati in grande quantità; forse ciò dipendeva dal fatto che erano emozionanti; o forse, invece, dal fatto che in essi era accumulata una grande sofferenza e vedendoli Lucie provava quei sentimenti di dolore e di pena che, pensava, l'avrebbero elevata e confermata nella «serietà» che tanto amava in sé.

  Naturalmente non sarebbe giusto pensare che in Lucie mi attirasse solo il carattere esotico della sua semplicità; la semplicità di Lucie, la sua cultura frammentaria, non le impedivano certo di capirmi. Era una comprensione che non si basava su esperienze o su conoscenze, sulla capacità di sviscerare una cosa e di dare consigli, ma piuttosto sull'intuitiva ricettività con la quale mi ascoltava.

  Mi torna in mente un giorno d'estate: avevo ottenuto la libera uscita prima che Lucie lasciasse il lavoro, presi quindi con me un libriccino: mi sedetti su un muretto e cominciai a leggere; con le letture andavo male, avevo poco tempo e scarsi contatti con i conoscenti praghesi; già da recluta, però, avevo messo nella mia valigetta tre libriccini di versi che leggevo continuamente ricavandone conforto: si trattava delle poesie di František Halas.

  Quei libri hanno avuto un ruolo particolare nella mia vita, particolare già per il fatto che io non sono un lettore di poesia e quelli sono stati gli unici libri di versi che io abbia mai amato. Li avevo scoperti nel periodo in cui ero già stato espulso dal partito; proprio allora il nome di Halas era divenuto nuovamente famoso perché l'ideologo capo di quegli anni aveva tacciato il poeta, da poco scomparso, di morbosità, di mancanza di fede, di esistenzialismo e di tutto ciò che in quegli anni sapeva di anatema politico. (Il libro nel quale l'ideologo aveva raccolto le sue considerazioni sulla poesia ceca e su Halas era uscito, allora, con una tiratura enorme e diventò lettura d'obbligo per tutta la gioventù ceca).

  Nei momenti di sfortuna l'uomo cerca conforto collegando il proprio dolore al dolore altrui; anche se in ciò vi è forse qualcosa di ridicolo, devo confessare questo: avevo cercato i versi di Halas perché volevo conoscere qualcuno che fosse stato anche lui scomunicato; volevo cercare di capire se il mio modo di pensare somigliava davvero al modo di pensare di uno scomunicato; e volevo vedere se per caso la tristezza, della quale il potente ideologo denunciava il carattere morboso e dannoso, non mi avrebbe magari concesso, per consonanza con la mia, un po' di gioia (perché nella mia situazione difficilmente avrei potuto trovare gioia nella gioia).

  Prima ancora di partire per Ostrava, mi ero fatto prestare tutti e tre i libri da un vecchio compagno di scuola che adorava la letteratura e, alla fine, ero riuscito a convincerlo a non chiedermeli più indietro.

  Quando, quel giorno, Lucie mi trovò al posto stabilito col libro in mano, mi domandò cosa stessi leggendo. Le mostrai il libro aperto.

  Meravigliata disse: «Ma sono poesie». «Ti sembra strano che io legga poesie?». Strinse le spalle e disse: «Perché?», ma io penso che per lei fosse davvero strano perché molto probabilmente per lei le poesie si confondevano con l'idea di una lettura per bambini.

  Vagabondammo nella strana estate di Ostrava, un'estate nera e piena di fuliggine, sulla quale al posto di nuvole bianche passavano carrelli di carbone attaccati a lunghi cavi d'acciaio. Vedevo che il libro che avevo in mano continuava in qualche modo ad attrarre Lucie. E così, quando ci sedemmo in un rado giardinetto sotto il Petřvald, lo aprii e le chiesi: «Ti interessa?». Annuì col capo.

  Prima di allora non avevo mai letto versi a nessuno, né l'ho mai fatto dopo; possiedo un'efficientissima valvola di sicurezza del pudore che mi impedisce di scoprirmi troppo davanti alla gente, di manifestare davanti agli altri i miei sentimenti; e a leggere versi mi sembrerebbe non solo di parlare dei miei sentimenti, ma di parlarne come stando su una gamba sola; quella certa innaturalezza che è nel principio stesso del ritmo e della rima mi metterebbe a disagio se mi abbandonassi ad essa altrimenti che in solitudine.

  Ma Lucie aveva il potere prodigioso (nessun altro dopo di lei l'ha più avuto) di controllare quella valvola e di sbarazzarmi di tutto il peso della soggezione. Davanti a lei potevo permettermi tutto: anche la sincerità, anche il sentimento, anche il pathos. E così lessi: «Esile spiga è il corpo tuo da dove il grano è caduto e mai più germoglierà come esile spiga è il corpo tuo Matassa di seta è il corpo tuo vergato di desiderio fino all'ultima ruga come matassa di seta è il corpo tuo Cielo bruciato è il corpo tuo in agguato nei tessuti la morte sogna come cielo bruciato è il corpo tuo Silenziosissimo è il corpo tuo il suo pianto fa fremere le mie palpebre com'è silenzioso il corpo tuo».

  Tenevo la mano sulla spalla di Lucie (coperta dalla stoffa sottile di un vestito a fiori), la sentivo tra le dita e cedetti alla suggestione offerta che i versi che stavo leggendo (quella lunga litania) appartenessero proprio alla tristezza del corpo di Lucie, il corpo silenzioso e rassegnato di un condannato a morte. E le lessi altre poesie, e poi quella che ancor oggi mi evoca la sua immagine e si chiude con la terzina: «Tarde parole a voi non credo io credo al silenzio superiore alla bellezza superiore a ogni cosa festa della comprensione».
All'improvviso sentii, sotto le dita, che la spalla di Lucie fremeva; che Lucie stava piangendo. Che cosa l'aveva fatta scoppiare in lacrime? Il senso di quei versi?
O piuttosto il dolore indicibile che spirava dalla melodia delle parole e dal timbro della mia voce? O forse era stata proprio la solenne incomprensibilità di quella poesia a elevarla spiritualmente, e lei si era commossa fino alle lacrime per quell'elevazione? O semplicemente i versi avevano sbloccato in lei un chiavistello segreto e liberato un peso che vi premeva contro?
  Non lo so. Lucie mi teneva le braccia intorno al collo come un bambino, con la testa appoggiata sulla stoffa sudata dell'uniforme verde che mi fasciava il petto, e piangeva, piangeva, piangeva.

  9
Quante volte, negli ultimi anni, le donne più diverse mi hanno rimproverato (solo perché non sapevo ricambiare i loro sentimenti) di essere presuntuoso! È una sciocchezza, non sono affatto presuntuoso, ma a dir la verità mi rattrista di non essere mai riuscito, da quando ho raggiunto l'età adulta, a trovare un rapporto autentico con nessuna donna, di non averne, come suol dirsi, amata nessuna.

  Non sono sicuro di conoscere le cause di questo mio fallimento, non so se dipendano semplicemente da difetti congeniti del mio cuore o se non siano piuttosto radicate nella mia biografia; non voglio essere patetico, ma è così: nei miei ricordi torna molto spesso una sala nella quale cento persone alzano la mano e in quel modo ordinano che la mia vita sia spezzata; quelle cento persone non immaginavano che un giorno sarebbe cominciato un graduale mutamento dei rapporti; contavano, quindi, sul fatto che la mia espulsione sarebbe durata per tutta la vita. Non certo per autolesionismo, quanto piuttosto per una maligna testardaggine che è la caratteristica della riflessione, ho immaginato spesso numerose varianti di quella situazione e mi sono figurato che cosa sarebbe successo se, mettiamo, invece della mia espulsione dal partito fosse stata proposta la mia impiccagione. Non sono mai arrivato a conclusioni diverse: anche in quel caso tutti avrebbero alzato la mano, soprattutto se nella relazione introduttiva fosse stata motivata in maniera commovente l'utilità della mia impiccagione. Da allora, quando incontro per la prima volta uomini o donne che potrebbero diventare miei amici o mie amanti, li trasporto col pensiero a quell'epoca e in quella sala e mi chiedo se avrebbero alzato la mano: nessuno ha mai superato l'esame: tutti hanno alzato la mano così come l'avevano alzata (di buon grado o controvoglia, per fede o per paura) i miei amici e i miei conoscenti di allora.

  Ammettetelo: è difficile vivere accanto a persone che sarebbero pronte a mandarvi in esilio o a morte, è difficile legarsi a loro, è difficile amarle.

  Forse era crudele da parte mia sottoporre a un così crudele esame immaginario le persone con le quali ero in rapporto, quando era molto più verosimile che accanto a me esse avrebbero trascorso un'esistenza più o meno tranquilla, al di là del bene e del male, e non sarebbero mai passate per la sala vera dove si alza la mano. Forse qualcuno arriverà anche a dire che il mio comportamento aveva un solo scopo: quello di pormi al di sopra degli altri, in un autocompiacimento morale. Ma in verità un'accusa di presunzione non sarebbe giusta; io, naturalmente, non ho mai alzato la mano per danneggiare nessuno, ma sapevo bene che si trattava di un merito abbastanza discutibile, perché del diritto di alzare la mano ero stato privato appena in tempo. In effetti, ho cercato a lungo di convincermi almeno del fatto che in situazioni analoghe non avrei alzato la mano, ma ero abbastanza onesto da dover sorridere, in fondo, di me stesso: sarei stato forse io il solo a non alzare la mano? soltanto io sono giusto? ah no, non ho trovato in me nessuna garanzia che io sia migliore degli altri; ma che cosa ne deriva nel mio rapporto con le altre persone? La coscienza della mia meschinità non mi riconcilia affatto con la meschinità degli altri. Mi fanno schifo le persone che provano un sentimento di fratellanza perché hanno scoperto, l'una nell'altra, la medesima bassezza. È una fratellanza viscida, alla quale non ambisco.

  Com'è possibile, allora, che io abbia potuto amare Lucie? Le considerazioni a cui ho dato sfogo un attimo fa appartengono, fortunatamente, a una data posteriore, per cui io avevo potuto accogliere Lucie (da giovane, quando mi tormentavo, più che riflettere) ancora col cuore avido e senza esitazioni, come un regalo; un regalo del cielo (un cielo grigiamente gentile). Quello fu per me un periodo felice, forse il più felice che abbia attraversato: ero sfinito, esausto, distrutto, ma dentro di me si diffondeva, giorno dopo giorno, una pace sempre più celestiale. È buffo: se le donne che oggi disapprovano la mia presunzione e mi accusano di considerare tutti degli stupidi avessero conosciuto Lucie, l'avrebbero definita, con ironia, una stupida e non avrebbero potuto capire che le volevo bene.

  E le volevo tanto bene che non ammettevo neppure l'idea di potermi mai separare da lei; è vero che con Lucie non ne avevamo mai parlato, ma io vivevo nella serissima convinzione che un giorno l'avrei sposata. E se mai mi venne in mente che sarebbe stato un legame disuguale, be', proprio quella disuguaglianza mi allettava più che allontanarmi.

  Per quel paio di mesi di felicità dovrei essere grato al comandante di allora; i graduati ci facevano sgobbare il più possibile,  ci  cercavano  i  granelli   di  polvere   nei 
risvolti dell'uniforme, buttavano all'aria i letti quando trovavano anche solo una piega, ma il comandante era una brava persona. Era un omino in là con gli anni, l'avevano trasferito da noi da un reggimento di fanteria e si diceva che era stata una specie di degradazione. Era quindi anche lui un perseguitato e forse questo lo riappacificava interiormente con noi; è chiaro che pretendeva ordine, disciplina e di tanto in tanto qualche turno volontario la domenica (per poter dimostrare ai suoi superiori un'attività politica), ma non ci aveva mai fatto sgobbare inutilmente e ci accordava, tutto sommato senza problemi, le nostre libere uscite un sabato sì e uno no; mi sembra addirittura che, proprio quell'estate, riuscissi a vedermi con Lucie fino a tre volte in un mese.

  Nei giorni in cui ero senza di lei le scrivevo; le scrissi una marea di lettere, cartoline e biglietti. Oggi non so più immaginare che cosa le scrivessi e come. Del resto non è poi così importante come fossero quelle mie lettere; volevo più che altro far notare che ne scrissi davvero molte a Lucie, e Lucie a me neanche una.

  Non potevo costringerla a scrivermi; forse con le mie lettere l'avevo in qualche modo intimidita; forse le sembrava di non aver nulla da scrivermi, di fare errori di grammatica; forse si vergognava della sua calligrafia incerta che conoscevo solo dalla firma sulla sua carta d'identità. Era superiore alle mie forze farle capire che proprio la sua incertezza e la sua ignoranza mi erano care, e non perché venerassi il primitivismo in quanto tale, ma perché in esse io vedevo un segno del carattere intatto di Lucie, e questo mi dava la speranza di lasciare su di lei un'impronta ancor più profonda e indelebile.

  Lucie si limitava a ringraziarmi timidamente per quelle mie lettere, ma presto cominciò a desiderare di ricambiarle con qualcosa; e poiché non voleva scrivermi, al posto delle lettere scelse i fiori. La prima volta avvenne così: stavamo passeggiando in un rado giardinetto e Lucie all'improvviso si chinò a raccogliere un fiorellino (mi si perdoni il fatto di non conoscerne il nome: aveva una piccola corolla viola e il gambo sottile) e me lo diede. Mi sembrò un gesto molto bello e non mi sorprese affatto. Quando, però, al nostro appuntamento successivo, la trovai ad aspettare con un intero mazzo di fiori, cominciai un po' a vergognarmi.

  Avevo ventidue anni, rifuggivo da tutto ciò che potesse gettare su di me un'ombra di effeminatezza e di immaturità; mi vergognavo di camminare per strada con dei fiori in mano, non mi piaceva comprarli, e tanto meno riceverli. Imbarazzato, obiettai a Lucie che i fiori sono gli uomini a darli alle donne e non le donne agli uomini, ma quando vidi che stava per piangere, mi affrettai a dirle che erano belli e li presi.

  Non ci fu niente da fare. I fiori, da allora, mi aspettarono a ogni nostro appuntamento e in fondo mi rassegnai, perché la spontaneità di quel dono mi disarmava e perché vedevo che Lucie ci teneva a quel modo di donare, forse dipendeva dal fatto che lei stessa soffriva dei limiti della sua lingua, dei limiti della sua eloquenza, e nei fiori vedeva una forma di linguaggio; non secondo il rigido simbolismo degli antichi linguaggi dei fiori, ma piuttosto in un senso ancora più antico, più impreciso, più istintivo, prelinguistico; forse Lucie, sempre piuttosto taciturna che loquace, tendeva istintivamente a quello stadio muto dell'uomo quando non esistevano le parole, e le persone si comprendevano tra loro per mezzo di piccoli gesti: si additavano un albero, sorridevano, si toccavano...

  Avessi capito o no la sostanza di quel modo di donare di Lucie, alla fine ne fui colpito e si risvegliò in me il desiderio di donarle anch'io qualcosa. Lucie aveva in tutto tre vestiti che alternava regolarmente, per cui i nostri appuntamenti si susseguivano, uno dopo l'altro, secondo il ritmo di un tempo ternario. Amavo tutti i suoi vestiti proprio perché erano lisi, non troppo di buon gusto e sciupati; li amavo come amavo il suo soprabitino marrone (corto e liso sui polsi) che anzi avevo accarezzato prima ancora del viso di Lucie.

  Eppure mi misi in testa di comprarle dei vestiti, dei vestiti belli, e molti. E così un giorno portai Lucie in un grande magazzino di abbigliamento.

  Lucie all'inizio pensava che vi andassimo solo per curiosare e per osservare la gente che fluiva per le scale verso l'alto e verso il basso.

  Al secondo piano mi fermai vicino ad alcune lunghe aste orizzontali alle quali erano appesi, in fila serrata, dei vestiti da donna, e Lucie, quando vide che li guardavo con curiosità, si avvicinò e cominciò a commentarne alcuni. «Questo è bello» e ne indicava uno con un accurato motivo di fiorellini rossi. I vestiti belli in verità erano pochi, ma ogni tanto si trovava qualcosa di discreto; ne tirai fuori uno e chiamai il commesso: «La signorina potrebbe provarlo?». Lucie, magari, si sarebbe opposta, ma davanti a un estraneo, al commesso, non ne ebbe il coraggio, e si ritrovò dietro il paravento senza nemmeno sapere come.

  Dopo un po' scostai leggermente il paravento e guardai Lucie; benché il vestito che stava provando non fosse niente di eccezionale, rimasi di stucco: il suo taglio quasi moderno aveva fatto di Lucie tutt'a un tratto un'altra persona. «Posso guardare?» si sentì dietro di me la voce del commesso, che investì di una loquace ammirazione sia Lucie sia il vestito che stava provando. Guardò poi me, le mie mostrine, e mi chiese (anche se la risposta positiva era evidente già da prima) se ero tra i politici. Annuii. Ammiccò, e sorridendo disse: «Avrei qui degli articoli di qualità superiore; vuole dare un'occhiata?» e in un attimo comparvero diversi vestiti estivi e un modello esclusivo da sera. Lucie se li provò uno dopo l'altro, le stavano bene tutti, con ognuno era diversa e con quello da sera era proprio irriconoscibile.

  I momenti cruciali nell'evoluzione dell'amore non sono sempre prodotti da avvenimenti drammatici, bensì spesso da circostanze a prima vista poco appariscenti. Nell'evoluzione del mio amore per Lucie un ruolo simile lo ebbero i vestiti. Fino ad allora, Lucie era stata per me ogni cosa possibile: un bambino, una fonte di commozione, una fonte di consolazione, un balsamo e un'evasione da me stesso, per me era stata tutto, quasi nel vero senso della parola, tranne una donna. Il nostro amore, inteso nel senso fisico della parola, non era andato al di là dei baci. Del resto, anche il modo di baciare di Lucie era infantile (mi ero innamorato di quei baci lunghi ma casti a bocca chiusa, con le labbra asciutte che, sfiorando le labbra dell'altro, contano commosse i loro solchi leggeri). Insomma, fino a quel momento io avevo sentito per lei tenerezza, non sensualità; all'assenza di sensualità mi ero abituato al punto di non accorgermene nemmeno; il mio rapporto con Lucie mi sembrava così bello che non mi avrebbe nemmeno sfiorato l'idea che in realtà vi mancasse qualcosa. Tutto si fondeva insieme armoniosamente: Lucie, il suo vestito di un grigio monacale e la mia relazione con lei, di un'innocenza monacale. Nell'istante in cui Lucie aveva indossato un vestito diverso, l'intera equazione era improvvisamente saltata; Lucie era sfuggita di colpo alla mia idea di Lucie. A un tratto la vedevo come una bella donna: le sue gambe che si disegnavano attraenti sotto la gonna ben tagliata, le sue rotondità ben distribuite e la sua poca appariscenza che scompariva di colpo in un vestito dai colori vivaci e dal bel taglio. Ero completamente incantato dall'improvvisa scoperta del suo corpo.
Al pensionato Lucie abitava in una stanza insieme con altre tre ragazze; le visite al pensionato erano permesse solo due giorni alla settimana, e solo per tre ore, dalle cinque alle otto, e per far questo l'ospite doveva registrarsi in portineria, consegnare la carta d'identità e farsi vedere nuovamente al momento dell'uscita. A parte questo, tutte e tre le compagne di camera di Lucie avevano i loro ragazzi (uno o più d'uno) e tutte avevano bisogno di incontrarli nell'intimità della camera del pensionato, per cui litigavano di continuo, si odiavano e calcolavano ogni minuto che una toglieva all'altra. Tutto ciò era così spiacevole che non tentai mai di andare a trovare Lucie in camera sua. Sapevo anche, però, che tutte e tre le compagne di Lucie sarebbero partite il mese dopo per una brigata di lavoro di tre settimane in campagna. Dissi a Lucie che avrei voluto approfittarne per vederci da lei. Non ne fu contenta; si fece triste e disse che con me stava meglio fuori. Le dissi che desideravo stare con lei in un posto dove nessuno e niente ci avrebbe disturbato e dove avremmo potuto pensare solo a noi; e che volevo anche vedere come viveva.
Lucie non sapeva dirmi di no e ricordo ancor oggi la mia eccitazione quando alla fine accettò la mia proposta.

10
Era già quasi un anno che stavo a Ostrava e il servizio militare, all'inizio insopportabile, era diventato qualcosa di abituale e di normale; certo, era spiacevole e faticoso, e tuttavia ero riuscito a trovare un modo di vivere, ad avere un paio di amici, addirittura a essere felice; quella fu per me una bella estate (gli alberi erano pieni di fuliggine, eppure mi apparivano straordinariamente verdi quando li guardavo con gli occhi appena liberati dal buio della miniera), ma come in genere avviene, il germe dell'infelicità si nasconde proprio nella felicità: i tristi avvenimenti di quell'autunno ebbero la loro origine in quell'estate verdenera.

  Incominciò con Stáňa. Si era sposato a marzo e già dopo un paio di mesi cominciarono ad arrivargli notizie che la moglie se ne andava in giro per i locali notturni; Stáňa si agitò, scrisse alla moglie lettere su lettere e gli arrivavano risposte tranquillizzanti; più tardi però (fuori faceva già caldo) venne a fargli vista a Ostrava la madre; Stáňa passò con lei tutto il sabato e tornò in caserma pallido e taciturno; all'inizio non voleva dire nulla perché si vergognava, ma il giorno dopo si confidò con Honza e poi con altri, e in breve lo seppero tutti, e quando Stáňa vide che tutti lo sapevano si mise a parlarne lui stesso, ogni giorno e quasi in continuazione: che sua moglie si era messa a fare la puttana, che lui sarebbe andato a casa e che le avrebbe torto il collo. E subito andò a chiedere al comandante due giorni di permesso, ma il comandante si rifiutò di concederglieli perché proprio in quel periodo dalla miniera e dalla caserma fioccavano rapporti su Stáňa per la sua distrazione o per qualche scatto d'ira. Stáňa chiese allora un permesso di ventiquattr'ore. Il comandante si impietosì e glielo concesse. Stáňa partì e da allora non lo vedemmo mai più. Quello che gli accadde lo so solo per sentito dire: Era arrivato a Praga, si era gettato sulla sua donna (la chiamo donna, ma era una ragazza di diciannove anni!) e lei, con sfrontatezza (e forse anche con gusto), gli aveva confessato tutto; lui cominciò a picchiarla, lei si difese, lui cominciò a strangolarla e alla fine le spaccò una bottiglia sulla testa; la ragazza cadde a terra e rimase immobile. Stáňa tornò in sé, fu còlto dal terrore e fuggì; rimediò, chissà come, una casetta sui monti Krušne e là visse nella paura e nell'attesa che un giorno o l'altro l'avrebbero trovato e l'avrebbero mandato alla forca per omicidio. Lo trovarono solo due mesi dopo, ma non fu processato per omicidio bensì per diserzione.

  Sua moglie, infatti, poco dopo che lui era andato via si era ripresa dallo svenimento e, a parte un bernoccolo in testa, non aveva nemmeno un graffio. Mentre lui era rinchiuso nel carcere militare, lei ottenne il divorzio e oggi è la moglie di un noto attore di Praga che vado a vedere di tanto in tanto, solo per ricordarmi del mio vecchio amico che poi fece una triste fine: dopo il servizio militare rimase a lavorare in miniera: per un incidente sul lavoro perse una gamba e, per l'amputazione cicatrizzata male, la vita.

  Quella donna, che, a quel che si dice, brilla ancor oggi nell'ambiente artistico, non rovinò soltanto Stáňa, ma noi tutti.

  Almeno così ci sembrava, anche se non possiamo certo sapere con precisione se tra lo scandalo per la scomparsa di Stáňa e la commissione di controllo ministeriale che di lì a poco giunse nella nostra caserma ci fosse realmente (come tutti ritenevano) una relazione di causa ed effetto. Ci fosse o no, il nostro comandante fu rimosso e al suo posto venne un giovane ufficiale (poteva avere sì e no venticinque anni), e col suo arrivo tutto cambiò.

  Ho detto che aveva circa venticinque anni, ma sembrava ancor più giovane, sembrava un ragazzo; a maggior ragione ci teneva che il suo comportamento facesse il più possibile impressione e incutesse rispetto. Tra noi dicevamo che i discorsi li provava davanti allo specchio e li imparava a memoria. Non gli piaceva urlare, parlava seccamente e ci faceva capire con la massima calma che ci considerava tutti dei delinquenti: «So bene che la cosa che più vi piacerebbe è di vedermi impiccato,» ci disse quel bambino col suo primo discorso «ma se qualcuno sarà impiccato, quelli sarete voi e non io».

  Presto si arrivò ai primi contrasti. Nella memoria mi è rimasta soprattutto la faccenda di Čeňek, forse perché ci sembrò molto divertente.

  In quell'anno passato sotto le armi, Čeňek aveva già fatto molti grandi disegni murali che sotto il comandante precedente erano sempre stati apprezzati. Čeňek, come ho già detto, preferiva dipingere ika e i suoi guerrieri hussiti; per far contenti gli amici, amava completare quei gruppi con la figura di una donna nuda che presentava al comandante come simbolo della Libertà o della Patria.

  Anche il nuovo comandante volle approfittare dei servizi di Čeňek, lo convocò e gli chiese di dipingere qualcosa per la stanza dove si tenevano le lezioni di educazione politica. E colse l'occasione per dirgli che lasciasse perdere per questa volta tutti i suoi ika per «rivolgersi invece di più verso il presente»; il dipinto avrebbe dovuto mostrare l'Armata rossa e il suo legame con la nostra classe operaia nonché il suo significato nella vittoria del socialismo a febbraio.

  Čeňek disse: «Sarà fatto!» e si mise all'opera; passò diversi pomeriggi a disegnare su grandi fogli bianchi stesi sul pavimento, che poi attaccò con le puntine lungo tutta la parete di fondo della stanza. Quando vedemmo per la prima volta il disegno finito (alto un metro e mezzo e lungo non meno di otto) ammutolimmo: al centro, in posizione da eroe, c'era un soldato russo in abiti pesanti, col fucile mitragliatore e il berretto di pelliccia calcato sulle orecchie, e tutt'intorno a lui otto o nove donne nude. Due gli stavano accanto e gli facevano gli occhi dolci, mentre lui, cingendo con un braccio le spalle di entrambe, rideva sguaiatamente; le altre gli si affollavano intorno, se lo guardavano, allungavano le braccia verso di lui o stavano semplicemente in piedi (ma ce n'era anche una distesa) mostrando le loro belle forme.

  Čeňek si mise davanti al quadro (stavamo aspettando l'arrivo del commissario politico ed eravamo soli nella stanza) e ci tenne questa specie di conferenza: Dunque, questa qui alla destra del sergente è Alena, ragazzi, la mia prima donna in assoluto, mi possedette che avevo sedici anni, era la mogliettina di un ufficiale, sicché qui ci sta proprio a puntino. L'ho disegnata come appariva allora, oggi ormai avrà di sicuro un aspetto peggiore, ma allora era abbastanza in carne, come potete vedere principalmente dai fianchi (li indicò col dito).

  Dal momento che era molto più bella da dietro, l'ho disegnata anche qui (si spostò a un'estremità del disegno e puntò il dito su una donna nuda che rivolgeva il sedere alla sala e sembrava sul punto di andarsene da qualche parte). Vedete il suo sedere principesco, di misura magari un po' superiore alla norma, ma è proprio così che ci piacciono. Questa qui invece (e indicò la donna a sinistra del sergente) è Lojzka, questa l'ho avuta che ero già in età adulta, aveva i seni piccoli (li indicò), le gambe lunghe (le indicò) e un viso terribilmente bello (indicò anche quello) e frequentava il mio stesso anno. E quella è la nostra modella a scuola, quella la so rifare tutta a memoria, e anche altri venti ragazzi la sanno rifare a memoria perché stava sempre al centro dell'aula e noi la usavamo per imparare a disegnare il corpo umano e non uno che sia mai riuscito a toccarla, c'era sempre la mammina ad aspettarla fuori dell'aula e se la portava subito a casa, si mostrava a noi, che Dio glielo perdoni, in tutta onestà, amici cari. In compenso quella lì, signori, quella era una puttana (ora indicava un gran bel pezzo di ragazza sdraiata su una specie di sofà stilizzato), venite a osservare più da vicino (obbedimmo), vedete quel puntino sulla pancia? lì era stata bruciata da una sigaretta e pare che gliel'avesse fatto una donna gelosa con la quale aveva una relazione, perché la gentildonna in questione, egregi signori, era per la comunione sotto le due specie, aveva un sesso che era come una fisarmonica, signori, in quel sesso ci entrava qualunque cosa al mondo, là ci saremmo entrati tutti quanti noi, comprese le nostre mogli, le nostre ragazze, i nostri figli e i nostri nonni...

  Čeňek stava evidentemente arrivando al pezzo forte della sua dissertazione, ma ormai era entrato nella stanza il commissario politico e dovemmo andare a sederci. Il commissario politico era abituato ai lavori di Čeňek già dai tempi del vecchio comandante e senza fare alcuna attenzione al nuovo disegno attaccò a leggere forte un opuscoletto nel quale erano chiarite le differenze tra l'esercito socialista e quello capitalista. Con le orecchie ancora ronzanti della dissertazione di Čeňek, noi ci eravamo abbandonati a un silenzioso fantasticare, quando comparve nella stanza il ragazzo comandante.

  Era evidentemente venuto a controllare la lezione, ma prima di poter ricevere il rapporto del commissario politico si arrestò stupefatto alla vista del disegno sulla parete di fronte; senza lasciare che il commissario politico continuasse la sua lettura, assalì Čeňek, chiedendogli che cosa volesse significare quel disegno. Čeňek saltò su, andò a mettersi davanti al disegno e incominciò: Qui viene rappresentato allegoricamente il significato dell'Armata rossa nella lotta del nostro popolo; qui (e indicò il sergente) è raffigurata l'Armata rossa; al suo fianco (e indicò la mogliettina dell'ufficiale) è simboleggiata la classe operaia e qui, dall'altro lato (e indicò la compagna di scuola), abbiamo il simbolo del mese di febbraio. Qui poi (e indicò le altre signore) ci sono il simbolo della libertà, il simbolo della vittoria, e il simbolo dell'uguaglianza; e qui (e indicò la mogliettina dell'ufficiale che mostrava il sedere) si vede la borghesia che esce dalla scena della storia.

  Čeňek tacque e il comandante dichiarò che quel disegno era un insulto all'Armata rossa, che doveva essere immediatamente rimosso; quanto a Čeňek avrebbe preso i provvedimenti del caso. Chiesi (sottovoce) perché. Il comandante mi sentì e mi chiese se avessi obiezioni da fare. Mi alzai e dissi che a me quel disegno piaceva. Il comandante disse che non faceva fatica a credermi perché quello era un disegno per onanisti. Gli dissi che anche lo scultore Myslbek aveva rappresentato la libertà come una donna nuda, e il pittore Aleš aveva dipinto il fiume Jizera addirittura come tre donne nude; che l'avevano fatto pittori di tutti i tempi.

  Il ragazzo comandante mi guardò incerto e ripeté l'ordine di rimuovere il disegno. Ma forse eravamo davvero riusciti a disorientarlo, perché non punì Čeňek; prese però a malvolerlo, e me con lui. Čeňek ricevette abbastanza presto una sanzione disciplinare e, dopo poco, anch'io.

  Avvenne così: una volta il nostro plotone stava lavorando con pale e picconi in un angolo lontano della caserma; il pigro caporale non ci sorvegliava con troppa attenzione, e noi spesso ci appoggiavamo ai nostri attrezzi e chiacchieravamo, senza accorgerci che, poco lontano da noi, il ragazzo comandante ci stava osservando.

  Ce ne rendemmo conto solo nell'istante in cui risuonò la sua voce secca: «Soldato Jahn, qui da me!». Afferrai la pala con piglio energico e andai a mettermi sull'attenti davanti a lui. «È questo che lei intende per lavoro?» mi chiese. Non so più bene che cosa gli risposi, ma non fu con insolenza, perché non avevo nessuna intenzione di rendermi la vita difficile in caserma e di aizzarmi contro, per un nonnulla, una persona che aveva ogni potere su di me.

  Tuttavia, dopo la mia risposta insignificante e piuttosto impacciata, il suo sguardo si indurì: mi si avvicinò, mi afferrò come un fulmine per un braccio e mi fece volare sulla sua spalla con una presa perfetta di jujitsu. Poi mi si accovacciò sopra e mi tenne premuto contro il terreno (io non mi difendevo, ero solo stupito). «Basta?» disse infine a voce alta (per essere sentito anche da chi era a una certa distanza); gli risposi di sì. Mi ordinò di alzarmi e poi, davanti al plotone schierato, annunciò: «Do al soldato Jahn due giorni di cella. Non perché sia stato insolente con me. La sua insolenza, come avete visto, l'ho regolata con le mie mani. Gli do due giorni di gattabuia perché poltriva, e la prossima volta toccheranno anche a voi». Poi si voltò e si allontanò tutto impettito.

  A quel tempo non riuscivo a provare per lui altro che odio, e l'odio getta una luce troppo violenta, nella quale si perde la plasticità degli oggetti. Nel comandante non vedevo altro che un topo di fogna vendicativo e perfido, oggi invece lo vedo soprattutto come un giovane che recitava una parte. Non è colpa dei giovani se recitano; sono incompleti, ma vengono gettati in un mondo già completo e devono agire come se fossero completi anche loro. Si affrettano perciò a usare le forme, i modelli e gli esempi che trovano piacevoli, quelli che sono di moda, quelli che stanno loro bene - e recitano.

  Anche il nostro comandante era così incompleto, ed era stato messo all'improvviso davanti alla nostra truppa, del tutto incapace di capirla; ma sapeva come cavarsela, perché tutto quello che aveva letto e sentito gli aveva offerto una maschera già pronta per situazioni analoghe: l'eroe dal sangue freddo dei romanzetti da quattro soldi, il giovane dai nervi d'acciaio che sgomina la banda di delinquenti, nessun appello ai sentimenti, solo una fredda calma, la battuta secca e a effetto, la fiducia in sé e la fede nella forza dei propri muscoli. Maggiore era la sua consapevolezza del proprio aspetto infantile, maggiore il fanatismo con cui si dava alla parte del superuomo di ferro, maggiore l'enfasi con cui la recitava davanti a noi.

  Ma era forse la prima volta che incontravo un attore adolescente di quel genere? Quando mi avevano interrogato nella segreteria a causa della cartolina, avevo poco più di vent'anni e i miei inquisitori al massimo uno o due di più. Anche loro erano soprattutto dei ragazzini che coprivano i loro visi non ancora completi con una maschera che sembrava loro più illustre, la maschera del rivoluzionario ascetico e inflessibile. E Markéta? Non aveva forse deciso anche lei di recitare la parte della salvatrice, intravista addirittura solo in un filmetto di terz'ordine? E Zemánek, invaso di punto in bianco dal pathos sentimentale del moralismo? Non recitava anche lui una parte? E io? Non recitavo forse anch'io, e addirittura parti diverse? E non passavo maldestramente dall'una all'altra, fino a quando non ero stato bloccato a metà corsa?

  La giovinezza è terribile: è un palcoscenico dove dei bambini si muovono su alti coturni e nei costumi più diversi, pronunciando parole imparate a memoria e capite solo a metà, ma alle quali si abbandonano fanaticamente. E la storia è terribile perché diventa molto spesso campo da gioco per persone immature, campo da gioco per un Nerone fanciullo, per un Napoleone fanciullo, campo da gioco per fanatiche folle di bambini le cui passioni imitate e le cui parti ingenue si trasformano di colpo in una realtà catastroficamente reale.

  Quando ci penso, nella mia mente si rovescia l'intera scala dei miei valori e io sento un profondo odio verso la giovinezza e al contrario una paradossale indulgenza per i criminali della storia, nei cui crimini all'improvviso vedo solo il terribile annaspare dell'immaturità.

  E ripensando a tutti gli immaturi, mi viene subito in mente anche Alexej; anche lui recitava la sua grande parte, una parte che superava la sua intelligenza e la sua esperienza. Aveva qualcosa in comune col comandante: anche lui sembrava più giovane della sua età; la sua giovinezza però (a differenza di quella del comandante) era sgraziata: un corpiciattolo magro, occhi miopi dietro le spesse lenti degli occhiali, una pelle brufolosa (eternamente puberale). Aveva cominciato la scuola allievi ufficiali di fanteria ma all'improvviso fu trasferito da noi. Ci si stava infatti avvicinando ai famosi processi politici e in molte sale (di partito, di tribunale, di polizia) c'erano in permanenza mani che si alzavano per privare gli accusati della loro fede, dell'onore e della libertà; Alexej era figlio di un alto funzionario comunista arrestato poco prima.

  Un giorno comparve nella nostra squadra e gli venne assegnato il letto vuoto di Stáňa. Ci vedeva come io avevo visto i miei nuovi compagni all'inizio; per questo era chiuso e gli altri, quando seppero che era membro del partito (non era stato ancora espulso), davanti a lui cominciarono a badare a ciò che dicevano.

  Quando Alexej scoprì che io ero un ex membro del partito, divenne un po' più espansivo con me: mi confidò che doveva superare a qualunque costo il grande esame che la vita gli aveva preparato e che non doveva mai tradire il partito. Mi lesse poi una poesia che aveva scritto (benché prima di allora non avesse mai scritto poesie) quando aveva saputo che doveva essere trasferito tra noi. Una delle quartine diceva:

  Voi potete, compagni, mettermi alla gogna e coprirmi di fango.

  Ma io infangato e alla gogna, compagni, in riga e fedele con voi rimango.

  Lo capivo, perché anch'io un anno prima avevo provato le stesse cose. Ora, invece, il dolore era diminuito: accompagnatrice nel mondo del quotidiano, Lucie mi aveva allontanato da quei luoghi dove così disperatamente si torturavano gli Alexej.

  11

  Mentre il ragazzo comandante era occupato a trasformare il regime della nostra unità, io mi domandavo soprattutto se sarei riuscito a ottenere la libera uscita; le compagne di Lucie erano partite per la brigata di lavoro e io già da un mese non mettevo piede fuori della caserma; il comandante ricordava bene la mia faccia e il mio nome, e sotto le armi questa è la cosa peggiore che possa capitare.

  Appena poteva mi faceva capire che ogni ora della mia vita dipendeva dal suo arbitrio. Con le libere uscite, poi, andava malissimo; fin dall'inizio aveva dichiarato che l'avrebbe ottenuta soltanto chi avesse partecipato regolarmente ai turni volontari della domenica; e così vi andavamo tutti, ma era una vita miserabile perché in tutto il mese non avevamo un giorno senza miniera e, quando qualcuno il sabato riceveva davvero il permesso fino alle due di notte, alla domenica era senza forze e in miniera era come un fantasma.

  Anch'io cominciai ad andare ai turni domenicali, il che naturalmente non mi garantiva affatto la libera uscita perché il merito del turno domenicale poteva essere facilmente annullato da un letto fatto male o da qualsiasi altra mancanza. L'autocompiacimento del potere, però, non si esprime solo con la crudeltà ma anche (sebbene più raramente) con la carità. Il ragazzo comandante provò piacere a dimostrarmi, dopo alcune settimane, anche la clemenza, e così, all'ultimo istante, ottenni un permesso, due giorni prima che tornassero le compagne di Lucie.

  Ero emozionato quando, alla portineria del pensionato, una vecchietta con gli occhiali registrò i miei dati e mi permise di salire fino al quarto piano dove bussai a una porta in fondo a un lungo corridoio. La porta si aprì, ma Lucie vi si nascondeva dietro, per cui io vidi davanti a me soltanto la camera, che, a una prima occhiata, non somigliava affatto alla camera di un pensionato; mi sembrava di essere capitato in una sala preparata per qualche festa religiosa: sul tavolo splendeva un mazzetto dorato di dalie, vicino alla finestra torreggiavano due grandi ficus e dappertutto (sul tavolo, sul letto, per terra, dietro ai quadri) erano sparsi o infilati ramoscelli verdi (era asparagus, come constatai immediatamente), come se fosse atteso l'arrivo di Gesù Cristo sull'asinello.

  Attirai Lucie verso di me (era sempre nascosta dietro la porta aperta) e la baciai. Indossava il vestito nero da sera e le scarpe coi tacchi alti che le avevo comprato lo stesso giorno che avevamo preso il vestito. Era ritta in mezzo a tutta quella festa di verde, come una sacerdotessa.

  Chiudemmo la porta dietro di noi e soltanto allora io mi resi conto che mi trovavo davvero soltanto in una comune camera di pensionato e che sotto quei paramenti verdi non c'erano nient'altro che quattro letti di ferro, quattro comodini screpolati, un tavolo e tre sedie. Ma questo non riusciva in alcun modo a diminuire la sensazione di entusiasmo che si era impossessata di me nell'istante in cui Lucie aveva aperto la porta: dopo un mese mi era stato nuovamente permesso di uscire per qualche ora; non solo: per la prima volta, dopo un intero anno, mi trovavo di nuovo in un luogo piccolo; lo spirito inebriante dell'intimità mi alitava intorno e la forza di quello spirito quasi mi vinceva.

  Fino ad allora, in tutte le passeggiate con Lucie, la libertà dello spazio mi teneva continuamente legato alla caserma e alla mia sorte dentro di essa; l'aria che vi circolava dappertutto mi teneva avvinto con un legame invisibile al portone sormontato dalla scritta SERVIAMO IL POPOLO; mi sembrava che da nessuna parte esistesse un luogo nel quale avrei potuto cessare, per un istante, di «servire il popolo» ; da un anno intero non mi trovavo in una piccola stanza privata.

  Era, all'improvviso, una situazione nuovissima; mi sembrava di avere davanti a me tre ore di totale libertà; ero libero, ad esempio, di gettare lontano senza alcun timore (contro tutti i regolamenti) non solo il berretto e il cinturone, ma anche il camiciotto, i pantaloni, le scarpe, tutto, e magari, se ne avessi avuto voglia, potevo anche calpestarli; potevo fare qualsiasi cosa e nessuno mi avrebbe visto; per di più nella stanza c'era un piacevole tepore e questo tepore si univa alla libertà e insieme mi salivano alla testa come alcol; afferrai Lucie, la abbracciai, la baciai e la portai sul letto tutto coperto di verde.

  Quei ramoscelli sul letto (rivestito di una coperta grigia da pochi soldi) mi turbavano. Non riuscivo a spiegarmeli se non come simboli nuziali; mi venne in mente (e ciò mi commosse) che nella semplicità di Lucie risuonavano inconsciamente le più antiche tradizioni popolari e che quindi essa aveva voluto separarsi dalla propria verginità con una cerimonia solenne.

  Solo dopo un po' mi resi conto che Lucie, pur ricambiandomi i baci e gli abbracci, manteneva però un chiaro ritegno. Le sue labbra, pur baciandomi con avidità, erano sempre chiuse; si stringeva sì a me con tutto il suo corpo, ma quando le infilai una mano sotto la gonna per sentire sotto le dita la pelle delle sue gambe, si divincolò. Capii che la spontaneità alla quale volevo abbandonarmi con lei in una cieca vertigine era solo unilaterale; ricordo che in quell'istante (ed erano passati appena cinque minuti dal mio ingresso nella camera di Lucie) sentii agli occhi lacrime di dolore.

  E così ci sedemmo uno accanto all'altra (schiacciando sotto il sedere i poveri ramoscelli) e cominciammo a parlare di qualcosa.

  Dopo un altro po' di tempo (la nostra conversazione era del tutto senza senso) cercai nuovamente di abbracciare Lucie, ma lei resisteva; cominciai allora a lottare con lei, ma capii subito che non si trattava di una piacevole lotta tra innamorati, bensì di una lotta che trasformava il nostro rapporto d'amore in qualcosa di brutto, perché Lucie si difendeva davvero, con accanimento, quasi con disperazione, e si trattava, quindi, di una lotta reale e non certo di schermaglie amorose, sicché mi ritrassi velocemente.

  Provai a convincere Lucie con le parole; cominciai a parlare; ovviamente le dissi che le volevo bene e che amore vuol dire darsi l'uno all'altro in tutto e per tutto; malgrado la sua banalità, si trattava pur sempre di un'argomentazione inconfutabile e difatti Lucie non cercava in alcun modo di confutarla. Taceva, invece, o diceva: «Ti prego, no, ti prego, no» oppure: «Oggi no, oggi no...», e si sforzava (con commovente goffaggine) di cambiare discorso.

  Tentai un nuovo attacco: in fondo tu non sei una di quelle ragazze che eccitano un uomo per poi prenderlo in giro, in fondo non sei insensibile e cattiva... e di nuovo l'abbracciai e di nuovo iniziò la breve e triste lotta, che mi riempì (di nuovo) di una sensazione come di bruttezza.

  Smisi anche questa volta, e all'improvviso credetti di capire perché Lucie mi respingeva; Dio mio, come avevo fatto a non pensarci subito? Lucie è una bambina, certamente l'amore la spaventa, è vergine, ha paura, paura di una cosa sconosciuta; e subito decisi di eliminare dal mio comportamento tutta quell'insistenza che forse la spaventava, decisi di essere tenero, delicato, affinché l'atto d'amore non si differenziasse in nulla dalle nostre tenerezze, affinché fosse solo una di queste tenerezze. Smisi, quindi, di insistere e cominciai a carezzare Lucie. La baciai (e fu terribilmente a lungo), la strinsi a me (senza sincerità, recitando) e intanto cercavo di distenderla sul letto senza che se ne accorgesse. Ci riuscii; le accarezzavo il seno (Lucie non vi si era mai opposta); le dicevo che volevo essere tenero con tutto il suo corpo, perché quel corpo era lei stessa e io volevo essere tenero con lei nella sua interezza; riuscii addirittura a tirarle un po' su la gonna e a baciarla dieci, venti centimetri sopra il ginocchio; ma non arrivai lontano; quando volli spostare la testa fino al grembo di Lucie, lei si divincolò terrorizzata e saltò giù dal letto. La guardai e vidi sul suo viso uno sforzo convulso, un'espressione che fino ad allora non avevo mai conosciuto in lei.

  Lucie, Lucie, ti vergogni perché c'è la luce? Vorresti il buio? le chiesi, e lei si attaccò alla mia domanda come a una scaletta di salvataggio e disse che sì, si vergognava della luce. Mi avvicinai allora alla finestra per chiudere le persiane, ma Lucie disse: «No, non farlo! Non chiuderle!». «Perché?» chiesi. «Ho paura» disse. «Di che cosa hai paura, del buio o della luce?» chiesi. Tacque e scoppiò a piangere.

  La sua resistenza non mi commuoveva affatto, mi sembrava assurda, ingiusta, iniqua; mi tormentava, non la capivo. Le chiesi se mi respingeva perché era vergine, se aveva paura del dolore che avrebbe provato. A ciascuna di queste mie domande annuiva obbediente vedendovi l'offerta di una giustificazione. Le spiegai com'era bello che lei fosse vergine e che potesse conoscere ogni cosa con me che l'amavo. «Non desideri diventare mia in tutto e per tutto?». Disse di sì, che lo desiderava. La abbracciai nuovamente e nuovamente si difese. Faticavo a frenare la rabbia. «Perché mi resisti?». Disse: «Ti prego, la prossima volta sì, voglio farlo, ma la prossima volta, un'altra volta, oggi no». «E perché oggi no?».

  Rispose: «Oggi no». «Ma perché?». Rispose: «Ti prego, oggi no».

  «E allora quando? Lo sai benissimo anche tu che questa è l'ultima occasione che abbiamo di stare soli insieme, dopodomani tornano le tue compagne. E allora, dove potremo starcene soli insieme?».

  «Troverai tu qualcosa» disse. «Va bene,» acconsentii «troverò qualcosa, ma promettimi che ci verrai, perché difficilmente sarà una cameretta piacevole come questa». «Non importa,» disse «non importa, sarà dove vuoi tu». «Va bene, ma promettimi che là sarai mia, che non mi respingerai». «Sì» disse. «Lo prometti?». «Sì».

  Capii che quella promessa era l'unica cosa che avrei potuto ottenere da Lucie quel giorno. Era poco, ma pur sempre qualcosa.

  Soffocai il risentimento e passammo il resto del tempo chiacchierando. Uscendo mi scrollai dall'uniforme i ramoscelli di asparagus, carezzai il viso di Lucie e le dissi che non avrei pensato ad altro che al nostro prossimo incontro (e non mentivo).

  12

  Alcuni giorni dopo l'ultimo appuntamento con Lucie (era una piovosa giornata autunnale) tornavamo incolonnati dal turno di lavoro verso la caserma; la strada era piena di buche che avevano formato profonde pozzanghere; eravamo infangati, stanchi, fradici, e sognavamo il riposo. La maggior parte di noi già da un mese non aveva avuto una sola domenica libera. Subito dopo il pranzo, però, il ragazzo comandante ci fece schierare e ci comunicò che nel corso dell'ispezione pomeridiana delle nostre camerate era stato rilevato del disordine. Ci consegnò poi ai graduati, ordinando loro che per punizione ci facessero sgobbare altre due ore.

  Dal momento che eravamo soldati senza armi, le nostre esercitazioni avevano un carattere particolarmente assurdo; non avevano altro scopo che svilire il tempo della nostra vita. Ricordo che una volta, sotto il ragazzo comandante, fummo costretti a trasportare per tutto un pomeriggio pesanti assi di legno da un angolo della caserma all'altro e poi, il giorno dopo, a riportarle indietro, e in quel modo, trasportando assi, andammo avanti per dieci giorni di fila. Ma in realtà tutto quel che facevamo nel cortile della caserma dopo il turno di lavoro era come trasportare assi. Questa volta, invece di assi, si trattava dei nostri corpi; facevamo far loro dietrofront e fiancodestr, li gettavamo lunghi distesi per poi sollevarli di nuovo, li facevamo correre da una parte all'altra e li trascinavamo per terra.

  Trascorsero tre ore di esercitazioni e comparve il comandante; con un gesto, ordinò ai graduati di portarci a fare ginnastica.

  Sul retro, dietro le baracche, c'era un campo più piccolo dove si poteva giocare a pallone, ma anche fare ginnastica o correre. I graduati decisero di organizzare una gara di staffetta; nella nostra compagnia c'erano nove squadre di dieci uomini ciascuna  quindi nove staffette di dieci corridori. I graduati non volevano soltanto strapazzarci come si deve ma, essendo per la maggior parte ragazzi tra i diciotto e i vent'anni e avendo desideri da ragazzi, volevano gareggiare anche loro e mostrarci la loro superiorità; e così schierarono una propria staffetta composta di dieci caporali.

  Ci volle un bel po' di tempo perché riuscissero a spiegarci che cosa avevano in mente e perché noi lo capissimo: i primi dieci uomini dovevano correre da un lato all'altro del campo; all'arrivo doveva essere già pronto a scattare in direzione opposta il secondo gruppo di corridori, per ritornare al punto di partenza dei primi; qui intanto si sarebbe già preparato il terzo gruppo e così via. I graduati ci contarono laboriosamente e ci spedirono ai lati opposti del campo.

  Dopo il turno in miniera e le esercitazioni, eravamo già morti di stanchezza e il pensiero di dover correre ancora ci imbestialiva; confidai allora a un paio di compagni un'idea elementare: avremmo corso tutti quanti pianissimo! L'idea si sparse immediatamente, passò di bocca in bocca e ben presto, nella stanca massa dei soldati, circolavano risatine represse di soddisfazione.

  Alla fine, eravamo ciascuno al nostro posto, pronti alla partenza di una gara che, nel modo stesso in cui era concepita, era il culmine dell'assurdo: dovevamo correre con l'uniforme e gli scarponi pesanti, ma alla partenza fummo costretti a inginocchiarci; dovevamo passare il testimone in un modo mai visto prima (il compagno che ci avrebbe dato il cambio correva in direzione opposta alla nostra), ma tenevamo in mano dei testimoni autentici e il segnale di via fu un vero colpo di pistola. Mentre il caporale in decima corsia (primo corridore della squadra dei graduati) partiva di gran carriera, noi ci raddrizzammo (io ero nel primo gruppo) e partimmo al piccolo trotto; già dopo venti metri a malapena riuscivamo a trattenere le risa, perché il caporale era ormai quasi arrivato in fondo al campo, e noi invece, a un passo dalla partenza, in una improbabile schiera ordinata, trottavamo ansimando e fingendo uno sforzo eccezionale; i soldati ammassati ai due lati del campo avevano cominciato a incitarci ad alta voce: «Forza, forza, forza...». A metà del campo incrociammo il secondo corridore della staffetta dei graduati che correva già verso di noi, diretto alla linea di partenza. Alla fine raggiungemmo il fondo del campo e passammo i testimoni, ma già dal lato opposto, alle nostre spalle, era partito il terzo graduato.

  Oggi ricordo quella staffetta come l'ultima grande sfilata dei miei compagni neri. I ragazzi dettero prova di un'inventiva sconfinata: Honza correva zoppicando, tutti lo incitavano con accanimento e lui giunse al cambio (tra grandi applausi) davvero come un eroe, con due passi di vantaggio sugli altri. Lo zingaro Matloš durante la gara cadde a terra circa otto volte. Čeňek correva sollevando le ginocchia fino al mento (stancandosi certo molto di più che se avesse corso con tutte le sue forze). Nessuno tradì il gioco: né Bedřich, il disciplinato e rassegnato autore di manifesti per la pace, che adesso correva serio e contegnoso a bassa velocità insieme con gli altri, né Pavel Pěkný, al quale non piacevo, né il vecchio Ambroz che correva rigido e impettito con le braccia dietro la schiena, né il rosso Petráň che lanciava strilli acuti, né l'ungherese Varga che correva gridando «Hurrà!», nessuno di loro rovinò quella perfetta e semplice messa in scena che faceva sbellicare dal ridere tutti noi che stavamo intorno.

  A un tratto vedemmo arrivare dalle baracche il ragazzo comandante. Uno dei caporali lo vide e gli andò incontro per fargli rapporto. Il capitano lo ascoltò e si avvicinò al bordo del campo per osservare la nostra gara. I graduati (la cui staffetta già da molto tempo aveva raggiunto vittoriosamente il traguardo) si erano innervositi e avevano cominciato a gridare: «Svelti! Muoversi!

  Sbrigarsi!», ma i loro incitamenti scomparivano sommersi dai nostri.

  I graduati non sapevano che fare, erano incerti se interrompere o no la gara, correvano su e giù per consultarsi, guardavano di sottecchi il comandante, ma il comandante, senza degnarli di uno sguardo, seguiva la gara con occhi glaciali.

  Alla fine si giunse all'ultimo gruppo dei nostri; tra loro c'era anche Alexej; ero molto curioso di vedere come avrebbe corso, e non mi sbagliavo: voleva rovinare il nostro gioco: si lanciò a tutta forza e dopo venti metri ne aveva almeno cinque di vantaggio. Ma poi avvenne qualcosa di strano: la sua velocità cominciò a diminuire mentre il vantaggio rimaneva invariato; capii subito che Alexej non avrebbe potuto rovinare il gioco neanche se avesse voluto: era infatti un ragazzo malaticcio che già dopo due giorni avevano dovuto per forza assegnare a lavori più leggeri perché non aveva né muscoli né fiato! Nell'istante in cui lo capii, mi sembrò che proprio la sua corsa fosse il culmine della burla; Alexej ce la metteva tutta, e proprio per questo non si distingueva dai ragazzi che si trascinavano cinque passi dietro di lui alla stessa velocità; i graduati e il comandante erano certo convinti che la partenza veloce di Alexej facesse parte della farsa, come il finto zoppichio di Honza, le cadute di Matloš e i nostri incitamenti. Alexej correva coi pugni stretti esattamente come quelli dietro di lui, che fingevano un grande sforzo e ansimavano con ostentazione. Solo che Alexej sentiva un dolore vero all'inguine e faceva un grandissimo sforzo per vincerlo, sicché sul viso gli scendeva un sudore vero; quando furono a metà del campo, Alexej ridusse ancora di più l'andatura e la schiera dei malandrini che correvano piano lo raggiunse facilmente; a trenta metri dal traguardo lo superarono; a venti metri dal traguardo smise di correre e l'ultimo pezzo lo percorse zoppicando, con una mano premuta sull'inguine sinistro.

  Poi il comandante ci fece schierare. Domandò perché avevamo corso così piano. «Eravamo stanchi, compagno capitano». Chiese che alzassero la mano tutti quelli che erano stanchi. Alzammo la mano. Guardai con attenzione Alexej (stava nella fila davanti a me); era il solo a non averla alzata. Ma il comandante non si era accorto di lui. Disse: «Bene, quindi tutti». «No» si sentì. «Chi non era stanco?».

  Alexej disse: «Io». «Lei no?» lo guardò il comandante. «E come mai lei non era stanco?». «Perché sono un comunista» rispose Alexej. A quelle parole la compagnia scoppiò in una cupa risata. «Ma lei non è quello che è arrivato al traguardo per ultimo?» chiese il comandante.

  «Sì» disse Alexej. «E non era stanco» disse il comandante. «No» rispose Alexej. «Se lei non era stanco, allora ha sabotato di proposito l'esercitazione. Le do due settimane di cella di rigore per tentativo di rivolta. Voialtri eravate stanchi, per cui siete scusati. Poiché il vostro rendimento in miniera non sembra molto alto, è chiaro che vi  stancate nelle libere uscite. Nell'interesse della vostra salute, alla compagnia sono sospese le libere uscite per i prossimi due mesi».

  Prima di andare in cella, Alexej ebbe una conversazione con me.

  Mi rimproverò di non comportarmi come un comunista e mi chiese, con sguardo severo, se ero per il socialismo oppure no. Gli risposi che ero per il socialismo ma che lì, in caserma, tra i neri, era del tutto indifferente, perché lì esistevano distinzioni diverse da fuori: lì c'erano da una parte quelli che avevano perduto il proprio destino e dall'altra quelli che avevano preso questo destino e lo tenevano in pugno facendone quel che volevano. Ma Alexej non era d'accordo con me: secondo lui la linea che separava socialismo e reazione passava dappertutto; la nostra caserma non era che un mezzo col quale ci difendevamo dai nemici del socialismo. Gli chiesi in che modo il ragazzo comandante difendeva il socialismo dai nemici quando mandava in cella di rigore per due settimane proprio lui, Alexej, e in generale si comportava con gli altri in modo tale da farne i nemici più acerrimi del socialismo, e Alexej ammise che il comandante non gli piaceva. Quando però gli dissi che se la linea di demarcazione tra socialismo e reazione valeva anche per la caserma, lui, Alexej, non si sarebbe mai dovuto trovare lì, mi rispose con veemenza che lui lì ci stava a pieno diritto. «Mio padre è stato arrestato per spionaggio. Capisci che vuol dire? Come può credere in me il partito? Il partito ha il dovere di non credermi!».

  Parlai poi con Honza; mi lamentai (pensando a Lucie) che adesso non saremmo andati fuori per due mesi. «Cos'hai paura, scemo?» mi disse. «Si uscirà più di prima».

  L'allegro sabotaggio della corsa aveva rafforzato nei miei compagni il sentimento di solidarietà e risvegliato in loro un notevole attivismo. Honza aveva costituito una sorta di piccolo consiglio che si era subito messo ad analizzare le possibilità di uscire di nascosto dalla caserma. Nel giro di due giorni era tutto predisposto; si era istituito un fondo corruzioni; si erano comprati due graduati della nostra camerata; si era trovato il punto più adatto dove tagliare non visti la rete di recinzione; era in fondo alla caserma, dove c'era solo l'infermeria e dove le prime casette del villaggio distavano dalla rete solo cinque metri; nella casa più vicina viveva un minatore che conoscevamo a causa del nostro lavoro nei pozzi; i compagni si misero rapidamente d'accordo con lui perché lasciasse aperta la porticina dello steccato; il soldato che scappava, quindi, doveva arrivare alla rete senza farsi vedere, sgusciare dall'altra parte e attraversare di corsa i cinque metri; superata la porticina dello steccato era al sicuro: attraversava la casa e sbucava su una strada di periferia.

  L'uscita era quindi relativamente sicura; ma non si poteva approfittarne troppo; se uno stesso giorno fossero usciti di nascosto troppi soldati, la loro assenza sarebbe stata facilmente accertata; per questo il consiglio di Honza costituitosi spontaneamente doveva regolare le uscite e stabilire l'ordine secondo il quale si poteva lasciare la caserma.

  Purtroppo, ancor prima che fosse giunto il mio turno, tutto il piano di Honza crollò. Una notte il comandante fece personalmente un'ispezione delle baracche, e appurò la mancanza di tre soldati.

  Mise alle strette un graduato (il capocamerata) che non aveva segnalato l'assenza dei soldati e, come andando a colpo sicuro, gli chiese quanto gli avevano dato. Il graduato, convinto che il comandante sapesse tutto, non cercò nemmeno di negare. Il comandante fece venire Honza e il graduato, messo a confronto, confermò di aver ricevuto dei soldi proprio da lui.

  Il ragazzo comandante ci aveva dato scacco matto. Il graduato, Honza e i tre soldati che quella notte erano in libera uscita clandestina furono mandati alla procura militare. (Non riuscii nemmeno a salutare il mio migliore amico, tutto si svolse in fretta durante la mattinata, mentre eravamo in miniera; solo molto più tardi venni a sapere che erano stati tutti condannati, Honza a un anno intero di carcere). Fatta schierare la compagnia, il comandante annunciò che la consegna veniva prolungata di altri due mesi e che d'ora in avanti l'intera compagnia sarebbe stata sottoposta al regime delle compagnie punitive. Chiese inoltre l'installazione di due torri di sorveglianza agli angoli del campo, riflettori, e due guardiani che avrebbero pattugliato la caserma con cani lupo.

  L'intervento del comandante era stato così improvviso e ben riuscito da far nascere in noi la convinzione che il piano di Honza fosse stato tradito da qualcuno. Non si può dire che tra i neri la delazione fiorisse in maniera particolare; tutti concordemente la disprezzavamo, ma sapevamo bene che era sempre presente come possibilità, trattandosi del mezzo più efficace a nostra disposizione per migliorare le nostre condizioni, per essere rimandati a casa senza proroghe, per ricevere un buon giudizio e salvaguardarci un po' il futuro. Resistevamo (nella grande maggioranza) a quella che era la più infima delle bassezze, ma non resistevamo alla fin troppo facile tentazione di sospettare gli altri.

  Anche questa volta il sospetto prese velocemente piede e ben presto si trasformò in una sensazione di certezza collettiva (anche se l'intervento del comandante poteva benissimo essere spiegato altrimenti che con una denuncia) e con sicurezza incondizionata si concentrò su Alexej. Questi stava scontando proprio allora gli ultimi due giorni di cella; naturalmente veniva ogni giorno con noi giù in miniera ed era quindi sempre insieme con noi; tutti erano certi che avesse potuto benissimo sentire qualcosa («con quelle sue orecchie da spia») del piano di Honza.

  Il povero studente occhialuto dovette subire le cose peggiori: il caposquadra (che era dei nostri) gli assegnava i lavori più duri; gli scomparivano regolarmente gli attrezzi che poi lui doveva rifondere con la sua paga; era costretto ad ascoltare insinuazioni e insulti e sopportare centinaia di piccole angherie; sulla parete di legno dietro al suo letto qualcuno aveva scritto a caratteri cubitali con la morchia:

  ATTENZIONE, TOPO DI FOGNA.

  Alcuni giorni dopo che Honza e gli altri quattro colpevoli erano stati portati via sotto scorta, un pomeriggio tardi diedi un'occhiata alla stanza della nostra squadra; era vuota, c'era solo Alexej che, curvo sul suo letto, lo stava rifacendo. Gliene chiesi il perché. Mi rispose che i ragazzi gli disfacevano il letto più volte al giorno. Gli dissi che tutti erano convinti che lui avesse denunciato Honza.

  Protestò quasi piangendo: lui non ne sapeva niente e non avrebbe mai denunciato nessuno. «Perché dici che non denunceresti mai nessuno?» dissi. «Ti consideri un alleato del comandante. Da ciò deriva logicamente che saresti pronto a denunciare». «Non sono un alleato del comandante! Il comandante è un sabotatore!» disse, e la voce gli si incrinò. Mi confidò poi la conclusione che, diceva, aveva raggiunto quando, in cella, aveva avuto la possibilità di riflettere a lungo in solitudine: le formazioni di soldati neri erano state istituite dal partito per coloro ai quali non poteva essere affidata un'arma, ma che il partito intendeva rieducare. Il nemico di classe, però, non dorme e vuole impedire a ogni costo che il processo rieducativo si compia; vuole che nei soldati neri venga mantenuto un odio furioso verso il comunismo in modo da farne la riserva della controrivoluzione. Il fatto che il comandante trattasse tutti in modo tale da risvegliare in loro la rabbia faceva evidentemente parte del piano del nemico. A sentir lui, io nemmeno mi immaginavo dove riuscivano a infiltrarsi i nemici del partito. Il comandante era di sicuro un agente nemico. Alexej sapeva qual era il suo dovere e aveva scritto un rapporto dettagliato sull'attività del comandante.

  Trasecolai: «Cosa? Che hai scritto? E dove l'hai spedito?». Rispose di aver mandato al partito un esposto contro il comandante.

  Uscimmo dalla baracca. Mi chiese se non avessi paura a farmi vedere insieme con lui davanti agli altri. Gli dissi che era uno stupido se me lo chiedeva e uno stupido doppio se pensava che la sua lettera sarebbe arrivata a destinazione. Mi rispose che era un comunista e doveva agire in ogni occasione in modo tale da non doversi vergognare. E mi ricordò nuovamente che anch'io ero un comunista (sebbene espulso dal partito) e che mi sarei dovuto comportare in maniera diversa da come mi comportavo: «In quanto comunisti, siamo responsabili di tutto ciò che accade qui». Mi venne da ridere; gli dissi che la responsabilità è impensabile senza la libertà. Rispose che si sentiva sufficientemente libero per comportarsi come un comunista: che doveva dimostrare di essere un comunista e l'avrebbe dimostrato. Nel dir questo il mento gli tremava; ancor oggi, dopo anni, ricordo quell'istante e mi rendo conto, molto più chiaramente di allora, che Alexej aveva poco più di vent'anni, che era giovane, un ragazzo, e che il suo destino gli andava largo, come un vestito da gigante su una figura minuta.

  Ricordo che, poco dopo la mia conversazione con Alexej, Čeňek mi chiese cosa avessi da dire a quel topo di fogna. Gli dissi che Alexej era un imbecille ma non un topo di fogna; e gli dissi quello che mi aveva raccontato Alexej sul suo esposto contro il comandante. Čeňek non ne fu affatto impressionato: «Se è un imbecille, non lo so,» disse «ma un topo di fogna lo è di sicuro. Uno che riesce a rinnegare pubblicamente il proprio padre è un topo di fogna». Non lo capivo; lui si meravigliò che non ne sapessi nulla; il commissario politico in persona aveva mostrato loro, alcuni mesi prima, un giornale sul quale era pubblicata la dichiarazione di Alexej: rinnegava suo padre che, secondo lui, aveva tradito e sputato su quanto di più sacro il figlio conoscesse.

  Quel giorno, verso sera, sulla torre di sorveglianza (costruita negli ultimi giorni) entrarono in azione per la prima volta i riflettori e il campo fu tutto illuminato; lungo la rete di recinzione passeggiava una guardia con un cane. Fui preso da una terribile malinconia: ero senza Lucie e sapevo che non l'avrei vista per due mesi interi. Quella sera le scrissi una lunga lettera; le scrissi che non l'avrei vista per molto tempo, che non avevamo il permesso di uscire dalla caserma e mi dispiaceva che lei mi avesse rifiutato la cosa che desideravo tanto e che mi avrebbe aiutato, col ricordo, a superare quelle tristi settimane.

  Il giorno dopo che ebbi imbucato la lettera, nel pomeriggio, stavamo facendo le esercitazioni in cortile: gli obbligatori dietrofront, avanti marsch e pancia a terra. Eseguivo i movimenti comandati del tutto automaticamente, senza quasi badare al caporale che dava gli ordini o ai miei compagni che marciavano e si gettavano lunghi distesi; non mi accorgevo nemmeno di quello che c'era intorno: su tre lati baracche e sul quarto la rete metallica lungo la quale correva la strada. Di tanto in tanto qualcuno passava lungo la rete, di tanto in tanto accadeva anche che qualcuno si fermasse (per la maggior parte bambini, soli o accompagnati dai genitori che spiegavano loro che al di là della rete c'erano i soldatini che facevano gli esercizi). Tutto ciò si era trasformato per me in un fondale inanimato (tutto quello che era al di là della rete era un telone dipinto); perciò mi voltai da quella parte solo quando qualcuno lanciò a bassa voce in quella direzione un: «Cosa guardi, bambola?».

  Solo allora la vidi. Era Lucie. Stava in piedi accanto alla rete, col soprabitino marrone, quello vecchio e liso (mi venne in mente che durante gli acquisti estivi ci eravamo dimenticati che l'estate sarebbe finita e sarebbe venuto il freddo), e le scarpette nere da sera coi tacchi alti (mio regalo) che stonavano col soprabitino logoro. Stava immobile accanto alla rete e ci guardava. I soldati ora commentavano con sempre maggiore interesse il suo aspetto stranamente paziente, e mettevano nei loro apprezzamenti tutta la disperazione sessuale di persone tenute in un celibato forzato. Anche il graduato si accorse della disattenzione dei soldati e non tardò a scoprirne l'origine; si vedeva che provava rabbia per la propria impotenza; non poteva allontanare la ragazza dalla rete; al di là della rete c'era il regno della relativa libertà, dove i suoi ordini non arrivavano. Minacciò allora i soldati perché la smettessero coi loro commenti e aumentò la voce e il ritmo dell'esercitazione.

  Lucie ogni tanto si spostava di qualche passo, ogni tanto scompariva del tutto dal mio sguardo, ma subito dopo tornava nel punto da dove mi poteva vedere. Poi l'esercitazione finì, ma io non potei avvicinarmi a lei perché fummo condotti alla lezione di educazione politica; ascoltammo frasi sul campo della pace e sugli imperialisti e solo dopo un'ora potei correre fuori (già imbruniva) a guardare se Lucie era ancora accanto alla rete; c'era, e corsi da lei.

  Cominciò a dirmi che non dovevo arrabbiarmi con lei, che mi voleva bene, che le dispiaceva se ero triste per causa sua. Le dissi che non sapevo quando avrei potuto rivederla. Disse che non le importava, che sarebbe venuta lei da me. (Alcuni soldati che passavano di lì proprio allora ci gridarono qualcosa di volgare). Le chiesi se non le avrebbero dato fastidio le volgarità dei soldati. Disse che non le avrebbero dato fastidio, che mi voleva bene. Infilò tra le maglie lo stelo di una rosa (si sentì la tromba; ci chiamavano all'adunata); ci baciammo attraverso un foro della rete.