IL POTERE ASSOLUTO
(Absolute Power, 1996)
David Baldacci
"Il potere assoluto corrompe assolutamente"
LORD ACTON
1
Con le mani appoggiate al volante, a luci spente, lasciò che la spinta inerziale dell'automobile si esaurisse. Le ruote macinarono le ultime manciate di ghiaia, poi calò il silenzio. Si concesse un attimo per ambientarsi, quindi estrasse un binocolo per la visione notturna, vecchio ma ancora in perfette condizioni. Piano piano mise a fuoco la casa. Si accomodò meglio nel sedile; accanto a lui era posata una sacca. L'interno dell'automobile era scolorito, ma pulito.
L'automobile era rubata, ma sarebbe stato difficile indovinarne la provenienza.
Allo specchietto retrovisore era appesa una coppia di palme in miniatura. Le contemplò con un mezzo sorriso. Forse, presto sarebbe partito alla volta del paese delle palme. Acque placide, azzurre e trasparenti, farinosi tramonti color salmone e mattine tardive. Doveva prendere il largo. Era tempo. Se lo era già detto e ripetuto chissà quante volte, ma questa era la volta buona, ne era sicuro.
A sessantasei anni, con tanto di tessera dell'Associazione pensionati, Luther Whitney aveva ormai maturato il diritto alla pensione sociale. Era l'età in cui normalmente un uomo è già avviato nella sua seconda carriera di nonno, occupato a mezza giornata a crescere i figli dei suoi figli, con le articolazioni stanche accoccolate in una vecchia e comoda poltrona, mentre le scorie accumulate in una vita intera finiscono di occludergli le arterie.
In vita sua Luther aveva dedicato tutte le energie a una sola carriera: penetrare illecitamente nelle abitazioni e nei luoghi di lavoro altrui, solitamente di notte, come ora, e prelevare quanto più gli era possibile trasportare via.
Pur avendo svolto un'attività che restava chiaramente dalla parte sbagliata della legge, Luther non aveva mai premuto un grilletto o scagliato un coltello per odio o per paura, se non nel corso di una guerra alquanto confusionaria combattuta là dove Corea del Nord e del Sud erano unite per l'anca. E se aveva menato le mani era stato nei bar e solo per difendersi, in quei frangenti in cui la birra alimentava a dismisura il coraggio.
Luther aveva un unico criterio: prendere solo a chi non ne avrebbe patito la mancanza. Non si considerava diverso dagli eserciti di persone che quotidianamente adescano i ricchi con le loro lusinghe, convincendoli ad acquistare cose di cui non hanno bisogno.
Molti dei suoi sessanta e passa anni li aveva trascorsi in vari istituti correttivi di media e poi di massima sicurezza, lungo la costa orientale. Tre condanne in tre Stati diversi gli pesavano sulle spalle come macigni. Avevano strappato anni alla sua vita. Anni importanti. Ma era una realtà che ormai non poteva in alcun modo cambiare.
Luther aveva affinato le sue capacità professionali abbastanza da poter fondatamente scongiurare l'eventualità di una quarta detenzione. Non c'era niente di ipotetico sulle conseguenze di un altro arresto: gli sarebbero toccati vent'anni senza sconti di pena. E alla sua età, vent'anni equivalevano a una condanna a morte. Tanto valeva che lo friggessero, secondo quanto stabilivano antiche leggi della Virginia per gli elementi particolarmente cattivi. Stato di luminosa importanza storica, la Virginia era popolata da timorati di Dio e la religione, che si basava sul principio della corrispondenza fra ciò che dai e ciò che ricevi, esigeva coerentemente il massimo dei castighi. Solo due Stati hanno superato la Virginia in numero di sentenze capitali eseguite, Texas e Florida, che peraltro condividevano in larga misura i principi morali della loro sorella meridionale. Ma non è prevista la condanna a morte per il furto, seppure con scasso: persino i bravi virginiani avevano i loro limiti.
Quali che fossero i rischi che Luther correva, non poteva tuttavia distogliere lo sguardo da quella casa o, per meglio dire, da quella villa sontuosa. Da mesi ormai ne era affascinato e questa notte avrebbe appagato la sua ansia di possesso.
Middleton, Virginia. Quarantacinque minuti di macchina in linea retta da Washington. Località di estese tenute, inevitabili Jaguar e cavalli, il cui prezzo avrebbe sfamato per un anno le famiglie di un intero condominio in un quartiere popolare. La vastità dei terreni e lo splendore delle abitazioni di quella zona ne giustificavano appieno i loro nomi. A Luther non passò inosservata l'ironia di quel nome sulla targhetta: I BRONZI.
La sensazione scaturita dalla scarica di adrenalina che accompagnava ciascuno dei suoi colpi non aveva uguali. Luther immaginava che qualcosa di simile dovesse provare nel baseball il battitore quando compie al piccolo trotto il giro delle basi, prendendosi tutto il tempo di questo mondo dopo aver spedito la palla chissà dove oltre la recinzione del campo. La folla in piedi, centomila occhi tutti puntati su un solo essere umano, tutta l'aria del mondo risucchiata in uno spazio minimo e poi, all'improvviso, scomposta dallo sventolare trionfante della mazza.
Luther perlustrò lentamente la zona con occhi ancora acuti. Qualche lucciola rispose luccicando al suo sguardo, per il resto era solo. Ascoltò per qualche istante l'altalenante concerto dei grilli, poi lo sentì dissolversi nel sottofondo, come accadeva, per effetto dell'abitudine, a chiunque si trattenesse abbastanza a lungo in quella zona.
Procedette ancora sulla strada asfaltata e si infilò poi in retromarcia in un viottolo sterrato che pochi metri più avanti si interrompeva sul limitare di una densa boscaglia. Un passa¬montagna nero gli nascondeva i capelli grigio ferro; la pelle coriacea del volto era ricoperta di crema mimetica; gli occhi verdi, calmi, spaziavano da sopra la mascella volitiva. Nulla era andato perso, con l'età, del ranger che era stato sotto le armi. Scese dalla macchina.
Accovacciato dietro un albero, Luther esaminò il suo obietti¬vo. Davanti ai Bronzi, come in molte altre tenute di campagna dov'erano cessate le vecchie attività di scuderie e allevamenti, si ergeva un cancello in ferro battuto, grande ed elegante, sorretto da pilastri di mattoni. Tuttavia la proprietà non era chiusa da una recinzione e vi si poteva accedere direttamente dalla strada o dal bosco circostante. Luther entrò dal bosco.
In due minuti fu al bordo del campo di granoturco adiacente la casa. Era evidente che il proprietario non aveva bisogno di coltivare per vivere, ma doveva aver preso a cuore il suo ruolo di signorotto di campagna. A Luther andava bene così, potendo rimanere praticamente invisibile fino alla porta d'ingresso.
Attese qualche momento, quindi scomparve nell'abbraccio dei fusti di granoturco.
Sul terreno, fortunatamente privo di detriti, le sue scarpe da tennis non facevano rumore, in condizioni ambientali in cui il minimo rumore si sarebbe udito anche a notevole distanza. Guardava diritto davanti a sé; i suoi piedi, dopo anni di esperienza, procedevano autonomamente e con sicurezza tra i filari, compensando automaticamente ogni lieve irregolarità. L'aria notturna era fresca dopo la calura insopportabile di un'ennesima estate afosa, ma non abbastanza perché l'alito si trasfor¬masse nelle nuvolette di condensa che anche in lontananza sa¬rebbero state visibili da occhi irrequieti e insonni.
Per un mese intero Luther aveva ripetutamente cronometrato i tempi di quel colpo, fermandosi sempre al bordo del campo prima di uscire nel tratto allo scoperto. Aveva ripassato centinaia di volte nella mente ogni particolare, fino a stamparsi nella memoria un'alternanza precisa di movimenti e di attese.
Si acquattò ai margini della coltivazione e si guardò intorno per un'ultima volta. Non c'era fretta, non c'erano cani di cui preoccuparsi e questo era un bene. Non c'è essere umano, per quanto giovane e scattante, in grado di gareggiare in velocità con un cane. Ma erano i latrati a far desistere uomini come lui. Mancava anche un sistema di sicurezza perimetrico, probabilmente per via degli innumerevoli falsi allarmi che sarebbero stati provocati dalla notevole popolazione locale di cervi, scoiattoli e procioni. Ciononostante, di lì a poco Luther avrebbe dovuto affrontare uno sbarramento ad alta tecnologia, per neutralizzare il quale avrebbe avuto a disposizione trentatré secondi, compresi i dieci che gli sarebbero stati necessari per rimuovere il pannello di controllo.
Le guardie giurate avevano compiuto il loro giro di controllo nella zona trenta minuti prima. Teoricamente i poliziotti privati avrebbero dovuto esercitare la sorveglianza in maniera irregolare, con percorsi ogni ora diversi nei rispettivi settori, ma dopo un mese di appostamenti Luther aveva facilmente individuato uno schema ricorrente e sapeva di avere almeno tre ore prima che passasse la prossima ronda. Gli sarebbe bastato molto meno.
L'oscurità era assoluta, e un folto rampicante, vera manna per ogni ladro di questo mondo, si aggrappava alla facciata di mattoni a vista dell'ingresso, come il nido di un bruco al ramo di un albero. Luther controllò le finestre della casa a una a una, tutte nere, tutte mute. Due giorni prima aveva spiato il convoglio con gli occupanti della villa in partenza verso sud, facendo un puntiglioso inventario di tutta la comitiva. La casa più vicina era a più di tre chilometri.
Trasse un respiro profondo. Aveva predisposto ogni cosa, ma la semplice verità nel suo mestiere era che non si poteva mai prevedere tutto.
Allentò le fibbie dello zaino e finalmente uscì dal granoturco con lunghe falcate regolari, attraversò il prato, e in dieci secon¬di fu di fronte alla porta d'ingresso, in legno massiccio, rinfor¬zata da profilati d'acciaio e munita di un meccanismo di bloccaggio fra i più resistenti. Nulla che potesse preoccuparlo minimamente.
Prese da una tasca della giacca una copia della chiave della porta d'ingresso e la inserì nella toppa senza però girarla.
Tese l'orecchio per qualche secondo ancora, quindi si tolse lo zaino e si cambiò le scarpe per non lasciare tracce di fango. Pre¬parò il cacciavite elettrico con cui avrebbe scoperto dieci volte più velocemente che lavorando di mano il circuito che doveva disinnescare.
Lo strumento che estrasse poi con cura dallo zaino pesava esattamente centosettanta grammi, era poco più grosso di una calcolatrice tascabile e, a parte sua figlia, era il miglior investimento che avesse mai fatto in vita sua. "Genio", come lui stesso lo aveva battezzato, lo aveva assistito nei suoi ultimi tre colpi, dando prova di affidabilità assoluta.
Luther si era già procurato i cinque numeri del codice di sicurezza corrispondente a quell'abitazione e li aveva inseriti nel suo computer. Quale fosse la sequenza giusta gli era ancora ignoto, ma rimuovere quell'ostacolo era compito del microchip del suo minuscolo compagno, se voleva evitare l'assordante stridio che istantaneamente sarebbe stato emesso dai quattro potenti altoparlanti piazzati a ciascun angolo della fortezza di mille metri quadrati che stava per penetrare. E immediatamente sarebbe seguita la chiamata alla polizia, inoltrata dall'anonimo computer con cui avrebbe ingaggiato la sua battaglia di lì a poco. La casa aveva anche sensori alle finestre e sotto il pavimento, oltre che rivelatori antiscasso alla porta. Ma tutto ciò sarebbe stato inutile se Genio avesse individuato la sequenza giusta del codice dal sistema d'allarme.
Con un movimento che gli era ormai abituale Luther si agganciò Genio alla cintura dello zaino, all'altezza dell'anca. Ruotò dolcemente la chiave nella serratura preparandosi a soffocare il prossimo suono che avrebbe udito, il segnale a bassa tonalità del sistema di sicurezza che segnalava l'imminente entrata in funzione della sirena se il codice corretto non fosse stato digitato entro il tempo previsto, non un millesimo di secondo in più.
Luther si tolse i guanti di pelle nera e ne indossò un paio di plastica con un'imbottitura speciale per palmi e polpastrelli. Non era sua abitudine lasciare prove in giro. Fece un respiro profondo, poi aprì la porta. Il ronzio petulante del sistema di sicurezza lo investì immediatamente. Penetrò rapido nell'atrio enorme fino a trovarsi di fronte al pannello d'allarme.
La punta del cacciavite elettrico ruotò senza rumore; i sei elementi metallici caddero nelle mani di Luther e furono riposti nel marsupio agganciato alla cintura. I sottili cavi che fuoruscivano da Genio scintillarono nella lama di luce lunare riflessa dalla finestra accanto alla porta, e Luther, dopo aver sondato per qualche istante come un chirurgo che tasta la cavità toracica di un paziente, trovò il punto che cercava, collegò i fili e ac¬
cese il suo fedele compagno.
cese il suo fedele compagno.
Dal fondo dell'atrio si puntò su di lui un fascio sottile di luce rossa: il rivelatore a raggi infrarossi aveva già localizzato la fonte termica del suo corpo. Mentre i secondi trascorrevano, Luther attese paziente che il "cervello" del sistema d'allarme decretasse se lo sconosciuto era da ritenersi amico o nemico.
Troppo veloci perché l'occhio potesse seguirli, i numeri si avvicendavano in brevi lampi color ambra sul display di Genio, mentre in un piccolo riquadro nell'angolo superiore destro procedeva il conto alla rovescia.
Passarono cinque secondi, poi sul minuscolo display si stabilizzarono cinque numeri: 5, 13, 9, 3, 11.
Il cupo ronzio cessò all'istante, il filo di luce rossa si spense e fu sostituito da un'accogliente spia verde: Luther era invitato a mettersi tranquillamente al lavoro. Scollegò i fili, riavvitò il coperchio del circuito, ripose la sua attrezzatura e chiuse a chiave la porta.
La camera da letto padronale si trovava al secondo piano, raggiungibile da un ascensore in fondo al corridoio di destra, ma Luther preferì usare le scale: meno si affidava a congegni di cui non aveva il controllo assoluto, meglio era. Trovarsi blocca¬to per settimane in una cabina d'ascensore non rientrava nel programma.
Guardò il rivelatore all'angolo del soffitto, ora felicemente addormentato con la sua bocca rettangolare che quasi sembrava at¬
teggiata a un sorriso, quindi salì le scale.
teggiata a un sorriso, quindi salì le scale.
La porta della camera da letto non era chiusa a chiave. Mise subito in funzione la sua lampada da lavoro anabbagliante, a bassa potenza, e si concesse qualche attimo per guardarsi attor¬no. L'oscurità era rotta dal riverbero verde di un secondo pan¬nello di controllo, montato accanto alla porta.
La villa era di recente costruzione, Luther aveva controllato in tribunale ed era persino riuscito ad avere accesso a una serie di planimetrie presso l'ufficio di pianificazione urbanistica; le dimensioni non comuni avevano infatti richiesto un'autorizzazione speciale da parte delle autorità locali, come se queste avessero mai potuto ostacolare i cittadini benestanti nella rea¬
lizzazione dei loro desideri.
lizzazione dei loro desideri.
Luther non aveva riscontrato sorprese. Era una costruzione grande e solida, che valeva fino all'ultimo centesimo i milioni di dollari pagati in contanti dal suo proprietario.
In verità, Luther l'aveva già visitata una volta, in pieno giorno, in mezzo ad altre persone. Si era trovato proprio in quella stanza e aveva visto quello che doveva vedere. Era il motivo per cui si trovava lì adesso.
Sovrastato da una modanatura ornamentale di quindici centimetri, si chinò presso il gigantesco letto a baldacchino. Di fianco al letto c'era un comodino. Sul comodino un piccolo orologio d'argento, il più recente bestseller sentimentale e un tagliacarte d'antiquariato, argentato e con una grossa impugnatura rivestita in pelle.
Tutto era grandioso, tutto costoso. C'erano tre guardaroba dietro altrettante porte, ciascuno grande quanto il soggiorno di Luther. Due contenevano effetti femminili, indumenti, scarpe, borsette e tutti gli altri accessori per i quali si voglia razional¬mente o irrazionalmente spendere denaro. Luther osservò le fotografie incorniciate sul comodino e considerò con una punta di riprovazione i poco più di vent'anni della "piccola donna" confronto ai settanta suonati del marito.
C'erano molti tipi di lotterie al mondo, e non tutte statali.
Alcune delle fotografie mettevano nel massimo risalto le misure della padrona di casa, e un rapido esame del guardaroba rivelò che i suoi gusti nel vestire volgevano decisamente al pacchiano.
Luther alzò gli occhi sullo specchio a figura intera e ne studiò la sontuosa cornice intagliata. Poi ne esaminò i lati. Era massiccio, elegante, e dava l'impressione di essere incassato nel muro, ma lui sapeva dei cardini accuratamente nascosti nella nicchia retrostante, a una spanna dal lato superiore e da quello inferiore.
Tornò a osservare la superficie riflettente. Luther aveva il vantaggio di essersi imbattuto in un oggetto simile un paio di anni prima, sebbene non avesse in programma di forzarlo. Ma non si ignora un secondo uovo d'oro solo perché si è già messo al sicuro il primo, così l'aveva forzato e gli aveva fruttato cin¬quantamila dollari. Dietro quest'altro specchio calcolava di tro¬vare un tesoro dieci volte superiore.
Ricorrendo all'uso di un piede di porco Luther avrebbe potu¬to forzare senza problemi la serratura nascosta nella cornice dello specchio, ma avrebbe sprecato tempo prezioso. E, soprat¬tutto, avrebbe lasciato sul posto segni evidenti dello scasso. Sebbene fosse previsto che la villa sarebbe rimasta vuota per al¬cune settimane ancora, non si poteva mai dire. No, quando se ne sarebbe andato non sarebbe rimasta alcuna traccia del suo passaggio, anche se i proprietari, al loro rientro, avrebbero potuto lasciar passare un po' di tempo prima di controllare la cassaforte. In ogni caso, Luther non era costretto a ricorrere alle maniere forti.
Si avvicinò al televisore con megaschermo situato nella parte dell'ampia camera allestita a salotto, con poltrone gemelle rico¬perte in cintz e uno spazioso tavolo basso. Osservò i tre teleco¬mandi. Uno era quello della TV, uno era per il videoregistratore e il terzo era quello che avrebbe ridotto del novanta per cento le sue fatiche notturne. Tutti portavano il nome del rispettivo pro¬duttore e a guardarli superficialmente sembravano uguali, ma un rapido esperimento dimostrò che solo due azionavano gli elettrodomestici corrispondenti e uno no.
Tornò dall'altra parte della stanza, puntò il telecomando verso lo specchio e premette il pulsante rosso situato più in basso. Nor¬malmente avrebbe avviato la registrazione di un nastro, invece quella sera, in quella stanza, stava aprendo la banca di casa per metterla a disposizione del suo unico, fortunato cliente.
Luther osservò lo sportello che si apriva dolcemente e silen¬ziosamente sui cardini in lega, che non avevano bisogno di ma¬nutenzione. Per abitudine ormai consolidata, ripose il teleco¬mando esattamente dove l'aveva trovato, quindi prese dallo zaino una sacca ripiegata ed entrò nel forziere.
Alla luce della torcia, osservò stupito la poltrona al centro di un vano di circa due metri per due. Su un bracciolo c'era un te¬lecomando identico a quello che aveva appena usato, evidente¬mente una precauzione nel caso di rimanere chiusi lì dentro per sbaglio. Poi il suo sguardo si spostò sugli scaffali.
Per prima cosa fece razzia del denaro contante, ordinatamen¬te suddiviso in mazzette, quindi toccò ad alcuni particolari astucci che non custodivano affatto gioielli. Luther contò obbligazioni e altri titoli negoziabili per un valore di circa duecento¬mila dollari. Poi due piccole scatole di monete antiche e un'al¬tra di francobolli, tra i quali uno con l'immagine capovolta che lo fece deglutire a vuoto. Esclusi i documenti legali e le azioni nominali, che per lui non avevano alcun valore, la sua rapida stima si fermò intorno ai due milioni di dollari.
Si guardò intorno ancora una volta, attento a non tralasciare dal suo inventario nemmeno il più remoto angolino. Le pareti erano spesse e dovevano essere a prova di incendio, secondo le più avanzate tecniche di costruzione. La stanzetta blindata non era tuttavia ermetica, perché l'aria era fresca. Ci si sarebbe potuti trattenere per giorni.
La limousine procedeva ad andatura sostenuta seguita dal furgone. Entrambi i conducenti erano abbastanza esperti da guidare a quella velocità senza bisogno della luce dei fanali.
Nello spazioso abitacolo posteriore della limousine viaggiavano un uomo e due donne, una delle quali, quasi del tutto ubriaca, si adoperava come meglio riusciva per spogliare se stessa e il passeggero, eludendo i pacati sforzi difensivi della sua vittima.
L'altra donna, seduta in faccia a loro, mostrava di ignorare quel ridicolo spettacolo sottolineato da risolini infantili e un grande ansimare, ma in realtà seguiva fin nei particolari i contorcimenti della coppia. Apparentemente il suo sguardo era posato sulla grande agenda che teneva aperta sulle ginocchia e sulla quale appunti e appuntamenti si rubavano spazio per cer¬care l'attenzione del'uomo che le sedeva di fronte, e che in quel momento, approfittando della tregua concessagli dalla sua compagna per sfilarsi le scarpe con i tacchi a spillo, si stava versando di nuovo da bere. La sua resistenza era straordinaria: era in grado di bere il doppio di quanto già aveva consumato in quella sera senza lasciar poi trasparire alcun segno esteriore, nessun incespicamento nel parlare o impedimento nelle funzio¬ni motorie, che sarebbero stati fatali in una persona nella sua posizione.
Lei non poteva fare a meno di ammirarlo, capace com'era di coniugare le sue ossessioni e gli aspetti più rudi del suo carattere con un'immagine esteriore di purezza, forza, normalità e, contemporaneamente, grandezza. Non c'era donna in America che non fosse innamorata di lui, giovane, di mezza età o anzia¬na; affascinata dalla virilità classica della sua bellezza, dalla sensazione di immensa sicurezza che trasmetteva e anche da ciò che rappresentava per tutte loro. E lui aveva ripagato tanta ammirazione con una passione che, sebbene mal riposta, l'aveva sbalordita.
Purtroppo tanta generosità non aveva mai trovato la strada per arrivare a lei, a dispetto dei suoi mirati sottintesi, dei contatti fisici prolungati un attimo di troppo, degli stratagemmi con cui faceva in modo di incontrarlo già nelle prime ore del mattino quando era in grado di presentare il meglio di sé, delle allusioni erotiche che insinuava nel corso delle loro riunioni strategiche. Ma finché non fosse arrivato quel momento, un momento che lei sapeva sarebbe sicuramente arrivato, avrebbe seguitato a coltivare la virtù della pazienza.
Guardò dal finestrino. Stava andando per le lunghe, stravolgeva l'ordine prestabilito delle cose. Fece una smorfia di disgusto.
Luther udì i veicoli che imboccavano il viale d'accesso.
Strisciò verso la finestra e seguì la direzione dei veicoli che giravano l'angolo della villa per portarsi dove non sarebbero stati visibili dal viale d'accesso. Contò quattro persone che scendevano dalla limousine, e una dal furgone. Rifletté rapidamente su chi potessero essere. Troppo pochi perché fossero i proprietari; troppi perché fossero venuti solo per un controllo. Non riusciva a distinguere in faccia nessuno di loro. Per un momen¬to si domandò se l'ironia della sorte avesse voluto che la villa fosse svaligiata due volte nella stessa notte, ma la coincidenza era troppo clamorosa. Nel suo, come in molti altri lavori, le percentuali giocavano un ruolo essenziale e in ogni caso non era verosimile che dei criminali si recassero vestiti da sera in corteo sul luogo dove effettuare il colpo.
Meditò alacremente ascoltando i rumori che gli giungevano presumibilmente dal retro della villa. Impiegò non più di un se¬condo per stabilire che la via della ritirata gli era preclusa e per determinare quali contromisure prendere.
Afferrò la borsa e attivò il sistema di sicurezza dal pannello della camera da letto, benedicendo la buona memoria che gli aveva fatto ricordare con precisione la sequenza dei numeri. Quindi tornò rapido nella cassaforte, chiudendosi accurata¬mente la porta alle spalle. Andò a rannicchiarsi nell'angolo più lontano e si rassegnò ad aspettare.
Imprecò contro la sfortuna, dopo che tutto era proceduto co¬sì bene. Poi scrollò con forza la testa per riprendersi dal malu¬more e si costrinse a respirare con regolarità. Era come volare, più a lungo lo facevi, più crescevano le probabilità che qualcosa andasse storto. Non avrebbe potuto fare altro che aspettare, e sperare che nessuno dei nuovi arrivati avesse necessità di effet¬tuare un deposito nella banca privata che lo stava attualmente ospitando.
Ci furono uno scoppio di risa e poi un sordo rimbombo di voci trafitto dallo stridulo ronzio del sistema d'allarme, che ri¬suonò come il sibilo di un jet che gli passasse sopra la testa: do¬vevano aver fatto qualche confusione con il codice d'accesso. Mentre gli si imperlava la fronte di sudore, Luther visse un atti¬mo di profondo turbamento al pensiero che partisse l'allarme, facendo accorrere i poliziotti che avrebbero preteso di esamina¬re ogni centimetro della villa, a partire da quella piccola tana.
Si chiese come avrebbe reagito sentendo lo specchio ruotare sui cardini, colpito dalla luce che lo abbagliava senza la minima possibilità di mancarlo. Poi i volti sconosciuti che guardavano dentro, le pistole spianate, la lettura dei suoi diritti. Gli venne quasi da ridere. Intrappolato come un topo, senza scampo. Era¬no quasi trent'anni che non fumava, ma mai come in quel mo¬mento provò il bisogno di una sigaretta. Posò silenziosamente la borsa e si sedette per terra allungando adagio le gambe in maniera che non gli si addormentassero.
Passi pesanti sulla scala di quercia. Chiunque fossero, non si preoccupavano che qualcuno sapesse della loro presenza lì, la qual cosa poteva essere giudicata allo stesso modo un bene o un male. Quattro persone di certo, forse cinque. Svoltarono a sini¬stra e procedettero dalla sua parte.
La porta della camera da letto si aprì con un cigolio sommes¬so. Luther ricostruì mentalmente i propri movimenti. Tutto era stato rimesso a posto. Aveva toccato solo il telecomando, che aveva ricollocato esattamente sul rettangolo privo di polvere. Ora distingueva solo tre voci, una maschile e due femminili. Una delle donne doveva aver bevuto troppo, l'altra era tutta ef¬ficienza. Poco dopo la signora Efficienza tolse il disturbo, la porta fu richiusa, ma non a chiave, e l'uomo restò solo in com¬pagnia della signora Gluglu. Dov'erano finiti gli altri? Dov'era andata la signora Efficienza? Continuavano a giungergli risoli¬ni. Passi che si avvicinavano allo specchio. Si fece più piccolo che poté nel suo angolo, nella speranza che la poltrona gli facesse da scudo, ben sapendo di non poter in alcun modo ren¬dersi invisibile.
Poi un'esplosione di luce lo accecò momentaneamente ed egli trasalì per il folgorante trasformarsi del suo piccolo mondo da nero come l'inchiostro a fulgido come un mezzogiorno in pieno sole. Batté rapidamente le palpebre per abituare gli occhi alla nuova intensità della luce e le sue pupille passarono in pochi se¬condi dalla dilatazione massima al minimo diaframma. Ma non ci fu nessun grido, nessun volto, nessuna pistola.
Lasciò trascorrere un intero minuto, poi sbirciò da dietro la poltrona e fu un secondo trauma: la porta della cassaforte era scomparsa ed egli stava guardando direttamente nella camera da letto. Per poco non cadde all'indietro, mentre tutt'a un trat¬to capiva la funzione della poltrona.
Riconobbe entrambe le persone che si trovavano in camera da letto: aveva già visto la donna quella stessa sera in fotogra¬fia, era la mogliettina con gusti da prostituta nel vestire.
Conosceva invece l'uomo per un motivo completamente di¬verso: senza dubbio non era il padrone di quella casa. Scosse lentamente la testa per lo stupore, emettendo il fiato che aveva trattenuto. Un tremito gli colse le mani e dovette resistere a un conato di vomito mentre osservava la scena.
Il dorso dello specchio che nascondeva l'accesso alla cas¬saforte era trasparente, e con la luce accesa all'esterno e l'oscu¬rità nel piccolo ambiente era come trovarsi davanti a un gigan¬tesco schermo televisivo.
Poi la vide e per un istante gli si serrò la gola: la collana di diamanti della donna. Il suo occhio esperto la valutò a un mini¬mo di duecentomila dollari, giusto la sorta di ninnolo che d'abi¬tudine si riporrebbe nella cassaforte di casa prima di andare a coricarsi. I suoi polmoni ripresero la loro funzionalità solo quando la vide togliersi il gioiello e abbandonarlo con noncu¬ranza sul pavimento.
Tranquillizzatosi, Luther si rialzò e si accomodò lentamente in poltrona. Dunque era da lì che il vecchio spiava la sua donni¬na che si faceva sbattere da una processione di giovani stalloni, magari impiegati al salario minimo o aggrappati alla libertà tra¬mite il fragile appiglio di un permesso di soggiorno. Ma questa notte l'ospite era di ben altra classe.
Si guardò intorno, tese l'orecchio per catturare i rumori degli altri della comitiva, ma che cosa avrebbe potuto mai fare? In più di trent'anni di attività ladresca, non gli era mai capitato niente di simile, perciò decise di fare l'unica cosa che poteva. Con non più di un paio di centimetri di vetro a separarlo dalla totale rovina, sprofondò un po' di più nella morbida pelle della poltrona e attese.
2
A tre isolati dalla mole bianca del Campidoglio, Jack Graham aprì la porta di casa, lasciò cadere il soprabito per terra e andò dritto al frigorifero. Con la lattina di birra in mano, si buttò sul vecchio divano in soggiorno. Bevve un sorso contemplando con un'occhiata l'ambiente angusto. Una bella differenza con il po¬sto che aveva appena lasciato. Trattenne la birra in bocca per qualche istante, prima di inghiottirla. Gli si contrassero breve-mente i muscoli della mascella squadrata, quindi si rilasciaro¬no. Il tarlo del dubbio smise a poco a poco di tormentarlo, ma avrebbe ricominciato a farsi sentire, come sempre.
Un altro pranzo importante con Jennifer, la sua promessa sposa, i genitori di lei e una rappresentanza della loro cerchia di conoscenze mondane e di lavoro. Evidentemente la gente a quel livello non frequentava semplici amici, tutti servivano a una funzione precisa e l'insieme dava un valore superiore alla som¬ma delle parti. Quanto meno, tale era l'intento, che non coinci¬deva necessariamente con l'opinione di Jack in proposito.
Industria e finanza erano ben rappresentate da nomi di cui Jack leggeva sul Wall Street Journal prima di immergersi nella pagina sportiva per sapere come stavano andando gli 'Skins o i Bullets. Poi c'erano i politici, schierati in forze a rastrellare voti futuri e dollari attuali. Il gruppo era completato dagli onnipre¬senti avvocati, fra i quali lui stesso, il luminare medico di turno in onore della tradizione, e un paio di esponenti di categorie so¬ciali di pubblico interesse, a dimostrare la solidarietà delle per-sone di potere con i cittadini comuni.
Jack finì la birra e accese la TV. Si tolse le scarpe, e le calze a rombi da quaranta dollari che gli aveva regalato la fidanzata fi¬nirono senza cerimonie appese al paralume. A darle corda, pre¬sto o tardi l'avrebbe ridotto in un paio di bretelle da duecento dollari con abbinata cravatta dipinta a mano. Merda! Si sfregò le dita dei piedi e considerò seriamente una seconda birra. La TV non riusciva a catturare il suo interesse. Si ravviò una folta ciocca di capelli bruni che gli era caduta sugli occhi e si concen-trò per l'ennesima volta su dove fosse stata catapultata la sua vita, a una velocità che non gli sembrava molto diversa da quel¬la di una navetta spaziale.
Era venuta la limousine aziendale ad accompagnare lui e Jennifer Baldwin a casa di lei, nella zona nordovest di Washington, dove con tutta probabilità si sarebbe trasferito dopo le nozze: lei detestava l'abitazione di lui. Mancavano sei mesi alle nozze, ovvero un batter d'occhi, secondo il punto di vista di una sposa, e lui se ne stava seduto lì in preda a seri ripensamenti.
Jennifer Ryce Baldwin era dotata di una bellezza folgorante, tale da far girare la testa tanto alle donne quanto agli uomini. Era anche intelligente e raffinata, il patrimonio familiare che aveva alle spalle era di quelli che contano e si era messa in testa di sposare Jack. Suo padre era a capo di una delle più grandi so¬cietà immobiliari della nazione, con interessi un po' dappertut¬to distribuiti con successo in centri commerciali, palazzi per uf-fici, emittenti radiofoniche, quartieri residenziali. Il bisnonno paterno era stato uno dei primi magnati industriali del Midwest e sua madre proveniva da una famiglia che un tempo era stata proprietaria di una notevole fetta del centro di Boston. Gli dei avevano sorriso precocemente e spesso a Jennifer Baldwin. Fra gli amici e i conoscenti di Jack, non ce n'era uno che non lo in¬vidiasse a morte.
Cambiò posizione e prese a massaggiarsi una spalla, cercando di sciogliere un inizio di crampo. Non faceva ginnastica da una settimana. Anche a trentadue anni il suo fisico, per una statura di quasi un metro e novanta, conservava la solidità che gli aveva fatto da dote durante tutto il liceo, quando era già un uomo in mezzo ai ragazzi in quasi tutti gli sport praticati, e al college, do¬ve in condizioni di competizione molto più dure era ugualmente riuscito a emergere come lottatore nella categoria dei massimi, guadagnandosi un posto in prima squadra negli All-Academic. Quei successi gli avevano aperto le porte della scuola di legge all'università della Virginia, dove si era laureato fra i primi del suo corso e da dove era passato direttamente al ruolo di difenso¬re d'ufficio del Distretto di Columbia.
Tutti i suoi compagni avevano colto al volo le occasioni of¬ferte dai grandi studi legali e successivamente si erano rifatti vi¬vi a turno, offrendogli i numeri telefonici di psichiatri che avrebbero potuto aiutarlo a guarire dal suo colpo di follia. Sor¬rise e prese la seconda birra. Adesso il frigorifero era vuoto.
Il primo anno da difensore d'ufficio era stato duro per Jack e durante l'apprendistato erano state più le cause perse di quelle vinte. Con il passare del tempo, però, aveva imparato a trattare casi via via più complessi, e mentre consumava su di essi ener¬gia giovanile, talento innato e buonsenso la situazione cominciò a cambiare.
Poi strapazzò in aula le prime persone importanti.
Si era scoperto nato per quella parte, così forte nel controinterrogatorio quanto lo era stato nel mettere al tappeto avversari più grossi di lui. Era rispettato e veniva apprezzato come un avvocato, per quanto possibile.
Poi aveva conosciuto Jennifer, vicepresidente alla Baldwin Enterprises, responsabile del settore Sviluppo e Marketing. Donna dai modi dinamici, aveva l'abilità supplementare di far sentire importanti i suoi interlocutori: le loro opinioni venivano ascoltate, anche se non necessariamente accolte. Era una donna bella che per fare carriera non aveva bisogno di affidarsi solo al proprio aspetto fisico.
Volendo guardare dietro l'avvenenza, c'era molto di più. O così sembrava. E Jack sarebbe stato qualcosa di meno di un es¬sere umano se non avesse provato attrazione per lei, tanto più che Jennifer aveva mostrato fin dal principio che era contrac¬cambiato. Mostrandosi debitamente colpita dalla sua dedizione nella difesa dei diritti dell'accusato, a poco a poco Jennifer ave¬va convinto Jack di aver ormai dato il suo generoso contributo alla causa dei poveri, degli sciocchi e degli sfortunati, inducen¬dolo a chiedersi se non fosse venuto il momento di pensare a sé e al proprio futuro, un futuro al quale non le sarebbe dispiaciu¬to partecipare. Quando finalmente lui aveva lasciato l'avvoca¬tura d'ufficio, gli amici della procura gli avevano organizzato un congedo con tutti i crismi, e dalla loro esuberanza forse lui avrebbe dovuto subito dedurre che erano ancora molti i poveri, gli sciocchi e gli sfortunati che avrebbero avuto bisogno di lui. Non prevedeva di ritrovare mai più le stesse emozioni provate nell'esercizio dell'avvocatura d'ufficio, persuaso com'era che esperienze come quella si fanno una volta sola nella vita, senza possibilità di repliche. Era tempo di mettersi in cammino, anche i ragazzini come Jack Graham dovevano crescere prima o poi. Forse era semplicemente giunto il suo momento.
Spense la TV, prese un sacchetto di noccioline e andò in ca¬mera da letto, scavalcando le montagne di indumenti da lavare che si erano accumulate davanti alla porta. Ecco perché a Jennifer non piaceva casa sua, l'aveva ridotta a un porcile. Ma lo an¬gustiava di più l'assoluta certezza che anche se fosse stata im¬macolata, lei avrebbe rifiutato di viverci. Tanto per cominciare, era nel quartiere sbagliato. Sì, era a Capitol Hill, ma non nella parte nobile, e nemmeno nelle sue vicinanze.
Poi c'era il problema delle dimensioni. La residenza di città in cui lei avrebbe vissuto doveva essere sui cinquecento metri qua¬drati, escludendo l'alloggio per la collaboratrice domestica e il box doppio per la sua Jaguar e una Range Rover nuova di zec¬ca, come se un abitante di Washington, con le sue strade soffo¬cate dal traffico, avesse bisogno di un veicolo in grado di ar¬rampicarsi in verticale fino in cima a una montagna di seimila metri.
Lui aveva quattro locali, contando il bagno. Si spogliò e si buttò sul letto. Dall'altra parte della stanza, sulla piccola targa che aveva tenuto in ufficio fino al giorno in cui aveva comincia¬to a provare imbarazzo a guardarla, c'era l'annuncio del suo in¬gresso allo studio legale Patton, Shaw & Lord. La PS&L era la prima società di consulenza legale in diritto societario tra quelle operanti nella capitale. Rappresentava centinaia di blue chip tra cui l'azienda del suo promesso suocero, un assetto multimilio¬nario del quale ci si aspettava da Jack un consolidamento pres¬so lo studio e che, in cambio, gli avrebbe garantito una quota come socio al prossimo consiglio di amministrazione. Una par¬tecipazione alla PS&L equivaleva, in media, a qualcosa come mezzo milione di dollari l'anno. Erano bazzecole per i Baldwin, d'altra parte lui non era un Baldwin. Non ancora.
Si infilò sotto la coperta: la coibentazione dell'edificio lascia¬va molto a desiderare. Mandò giù un paio di aspirine con il re¬sto di una Coca-Cola rimasta sul comodino, poi si guardò in¬torno. La sua stanza era piena di roba e di altrettanto disordine. Gli ricordava quella in cui era cresciuto. Era un ricordo affet¬tuoso, amichevole. Così doveva essere un ambiente domestico, un posto in cui i bambini avessero sempre la possibilità di gri-dare e correre da una stanza all'altra in cerca di nuove avventu¬re, nuovi oggetti da fracassare.
Ecco un altro problema con Jennifer: lei aveva dichiarato senza tergiversazioni che il rumore di piedini in corsa era un progetto lontano nel tempo e tutt'altro che sicuro. Al primo po¬sto, nella sua mente e nel suo cuore, c'era la carriera nell'azien¬da paterna, conseguenza di un'ambizione forse superiore anche alla sua.
Jack si girò su un fianco e cercò di addormentarsi. Il vento fe¬ce tintinnare il vetro della finestra e lui guardò in quella direzio¬ne. Cercò di distogliere subito gli occhi, poi con un che di rasse¬gnato si arrese, posando lo sguardo sulla scatola.
Conteneva parte della sua collezione di vecchi trofei e premi vinti al liceo e al college. Ma non era a quelli che stava pensan¬do. Nella semioscurità allungò il braccio per prendere la foto, ebbe un attimo di esitazione, poi si decise.
La tolse dalla scatola. Era diventato quasi un rituale. Non aveva mai dovuto temere che la fidanzata scoprisse quell'ogget¬to particolare perché si rifiutava di trattenersi nella sua camera da letto per più di un minuto. Quando finivano tra le lenzuola era a casa di lei, dove Jack contemplava l'affresco del vasto sof¬fitto condiviso da cavalieri e fanciulle mentre Jennifer si abban¬donava al proprio piacere fino al momento in cui crollava sul letto al suo fianco e lasciava che fosse lui a mettersi disopra. Le variazioni sul tema avvenivano nella casa di campagna, dove i soffitti erano ancora più alti e gli affreschi provenivano da chis¬sà quale chiesa romana del Tredicesimo secolo, cosicché lui ave¬va l'impressione che fosse Dio stesso a guardarlo cavalcato dal¬la splendida e nudissima Jennifer Ryce Baldwin, a rischio di meritarsi il castigo eterno per quei pochi momenti di piacere carnale.
La donna della foto aveva lucidi capelli castani che si arricciavano leggermente sulle punte delle ciocche. Guardando il suo sorriso, Jack ricordò il giorno in cui l'aveva fotografata.
Erano usciti per una gita in bicicletta nelle campagne della contea di Albemarle. Lui aveva appena cominciato la scuola di legge; lei era al secondo anno di college alla Mr. Jefferson's University. Era solo il loro terzo appuntamento, ma era come se fossero stati insieme da sempre.
Kate Whitney.
Pronunciò adagio il suo nome. Con la punta del dito ridise¬gnò senza accorgersene la curva del suo sorriso, toccò la fosset¬ta solitaria che aveva appena sopra la guancia sinistra e che fa¬ceva apparire il suo viso lievemente asimmetrico. Gli zigomi a mandorla e un naso sbarazzino sopra un paio di labbra sensua¬li. La linea del mento era marcata, segno evidente di cocciutag¬gine. La mano di Jack risalì a fermarsi all'altezza dei grandi oc-chi, sempre pieni di malizia.
Poi Jack si girò sulla schiena e si posò la fotografia sul petto, tenendola alzata in modo che Kate lo guardasse dritto negli oc¬chi. Non poteva pensare a lei senza rivedere mentalmente suo padre, senza ricordare il suo sorriso sornione e la sua sferzante ironia.
Spesso era andato a trovare Luther Whitney nella sua casetta a schiera in un quartiere di Arlington che aveva visto tempi mi¬gliori. Passavano ore a bere birra e a raccontare storie, con Luther soprattutto nella parte di narratore e Jack in quella di ascoltatore.
Kate non andava mai a trovare suo padre e lui non cercava mai di contattarla. Jack aveva scoperto chi era quasi per caso e, contro il volere di Kate, aveva preteso di conoscerlo. Era raro che le labbra di lei non fossero incurvate in un sorriso, ma suo padre era un argomento sul quale non sorrideva mai.
Dopo la laurea, si erano trasferiti a Washington, dove Kate si era iscritta alla scuola di legge di Georgetown. All'inizio la loro vita insieme era stata un idillio e Kate aveva assistito ai suoi pri¬mi processi, quando lui si sforzava di controllare i brontolii del¬lo stomaco e il tremito della voce, cercando di ricordare a quale tavolo doveva sedersi. Ma con il crescere della gravità dei cri¬mini di cui erano accusati i suoi clienti, l'entusiasmo di Kate era diminuito.
Si erano lasciati quando lui era ancora nel primo anno di ap¬prendistato.
Le ragioni erano semplici: Kate non capiva perché avesse scelto di rappresentare persone che violavano la legge e non tol¬lerava la simpatia che lui provava per suo padre.
Nell'ultimo scampolo di vita insieme, Jack ricordava di esser¬si trovato in quella stessa stanza a domandarle, scongiurarla, di non lasciarlo. Ma non c'era stato niente da fare ed erano passa¬ti quattro anni, durante i quali non l'aveva né vista né sentita.
Sapeva che aveva trovato lavoro alla procura di Alexandria, in Virginia, dove senza dubbio non perdeva occasione di schiaf¬fare dietro le sbarre qualche suo ex cliente per aver violato le leggi di quello Stato. Per il resto, Kate Whitney per lui era di¬ventata una perfetta sconosciuta.
Ma mentre giaceva a letto a contemplare quel sorriso che gli diceva milioni di cose che mai aveva trovato sulle labbra della donna che avrebbe dovuto sposare di lì a sei mesi, Jack si do¬mandava se Kate gli sarebbe rimasta per sempre sconosciuta; se la propria vita era destinata a diventare molto più complicata di quanto avesse immaginato. Sollevò il ricevitore del telefono e compose un numero.
Quattro squilli e udì la voce. Aveva un'inflessione che non ri¬cordava, o forse era nuova. Dopo il segnale acustico cominciò a lasciare il messaggio, qualcosa di buffo, di inventato lì per lì, ma tutt'a un tratto si innervosì e riattaccò quasi precipitosa¬mente, con un tremito nelle mani, un'accelerazione nel respiro. Scosse la testa. Gesù Cristo. Si era vaccinato con quattro casi di omicidio di primo grado ed era lì a tremare come un sedicenne che non trova il coraggio di telefonare alla sua prima ragazza.
Ripose la foto e cercò di immaginare che cosa stesse facendo Kate in quel preciso istante. Probabilmente era ancora in ufficio a ponderare su quanti anni sottrarre alla vita di qualcuno.
Poi pensò a Luther. Chissà che proprio in quel momento non fosse sul lato sbagliato della porta della casa di qualcuno. O magari non stesse uscendo in quel mentre con l'ennesimo sacco di titoli al portatore appeso a una spalla.
Che coppia, Luther e Kate Whitney. Così diversi e così simili. Una coppia di persone professionalmente impegnate come non gli era mai capitato di trovare, ma in due mondi completamente diversi. Quell'ultima sera, dopo che Kate era uscita dalla sua vita, era andato da Luther a dirgli addio davanti a un'ultima birra. Si erano seduti nel bel giardino a guardare la clematide e l'edera strette al muro di mattoni, in un profumo di lillà e rose che li avvolgeva denso come una rete.
Luther l'aveva presa bene, gli aveva rivolto qualche domanda e gli aveva fatto gli auguri. Non sempre le cose andavano a fini¬re bene, Luther lo sapeva come chiunque altro, ma quella sera, andandosene, Jack aveva notato un luccichio nei suoi occhi, prima che la porta si chiudesse su quella parte della sua vita.
Si decise finalmente a spegnere la luce e chiuse gli occhi con la consapevolezza che incombeva su di lui un altro domani. Il suo scrigno del tesoro, il colpo gobbo che capita una volta sola nella vita, gli si era avvicinato di un altro giorno. Non era una considerazione che favorisse il sonno.
3
Guardandoli attraverso il finto specchio, Luther considerò che facevano una gran bella coppia. Era una considerazione a spro¬posito in quelle circostanze, ma non per questo meno valida. Lui era alto, di bell'aspetto, un quarantenne molto distinto. Lei non doveva aver compiuto da molto i vent'anni, con capelli va¬porosi e dorati, un bel visetto ovale, due profondi occhioni az¬zurri che in quel momento contemplavano amorevolmente l'elegante prestanza dell'uomo. Lui le sfiorò la pelle vellutata della guancia; lei gli posò le labbra nel palmo.
L'uomo riempì due bicchieri da una bottiglia che aveva por¬tato con sé. Ne porse uno alla donna. Dopo il tintinnio del brindisi, guardandosi con fermezza negli occhi, lui scolò il suo bicchiere in un colpo solo, mentre lei sorseggiava appena. Posa¬ti i bicchieri, si abbracciarono al centro della stanza. Le mani di lui le scivolarono lungo la schiena e poi risalirono sulle spalle scoperte, abbronzate, atletiche. Le afferrò le braccia e si chinò per baciarla sul collo.
Luther distolse lo sguardo, imbarazzato dal trovarsi a fare da spettatore a quell'intimità altrui. Era un sentimento strano da provare, quand'era ancora in così grave pericolo di essere sco¬perto, ma non era tanto vecchio da rimanere insensibile alla te¬nerezza, alla passione, che lentamente prendevano il sopravven¬to davanti ai suoi occhi.
Quando li rialzò, non poté non sorridere. Stavano ballando, volteggiando adagio per la stanza. Lui era evidentemente molto più esperto di lei, ma la guidò con dolcezza in passi semplici che li condussero fino al letto.
L'uomo si interruppe per riempire il bicchiere, che scolò di nuovo in un attimo. Aveva svuotato la bottiglia. Quando prese di nuovo la donna fra le braccia, lei gli si appoggiò contro, gli sbottonò la giacca, cominciò a sciogliergli il nodo della cravat¬ta. Lui trovò la cerniera del suo vestito e lentamente la abbassò. La guaina nera scivolò a terra. La donna indossava un paio di slip neri e calze nere autoreggenti, ma niente reggiseno.
Aveva quel tipo di corpo che rende istantaneamente gelose le donne che non ce l'hanno, con tutte le curve al posto giusto e una vita che Luther avrebbe potuto cingere con le due mani. Quando gli si mise di profilo per togliersi le calze, Luther vide che i suoi seni erano rigogliosi e rotondi. Le gambe erano slan¬ciate e scolpite da molte ore di tennis e aerobica.
L'uomo si spogliò rapidamente e, indossando solo i boxer, si sedette sulla sponda del letto a guardarla sbocciare senza fretta dagli ultimi indumenti. Aveva un sedere rotondo e sodo, di un biancore che spiccava in contrasto con la perfetta abbronzatu¬ra. Quando si fu tolta anche l'ultimo capo, sulle labbra di lui si dischiuse un sorriso. Denti bianchi, regolari. Nonostante quello che beveva, i suoi occhi erano limpidi e attenti.
Lei contraccambiò il sorriso, avvicinandoglisi. Lui la prese per le braccia, l'attirò a sé. Lei gli si strofinò contro il torace.
Di nuovo Luther cominciò a distogliere lo sguardo, deside¬rando più che mai che quel momento si concludesse alla svelta e che se ne andassero. Gli sarebbero bastati solo pochi minuti per tornare all'automobile e archiviare quella notte nella memoria come un'esperienza assolutamente unica, per quanto potenzial¬mente disastrosa.
Fu allora che lo vide ghermire con impeto le natiche della donna e poi schiaffeggiargliele ripetutamente. Non potendo trattenere una smorfia, quasi che avvertisse lui stesso il dolore, vide la pelle che, da bianca, sotto i colpi reiterati diventava luci¬da e rossa. Ma forse la donna aveva bevuto troppo per sentire il dolore, o provava gusto a quel tipo di attenzione fisica, perché il suo sorriso non vacillò. Luther avvertì una stretta alla bocca dello stomaco quando vide le dita dell'uomo affondare nelle carni morbide di lei.
Mentre lui le lambiva il seno con la lingua, lei gli affondò le dita nei capelli e gli si insinuò tra le gambe. Chiuse gli occhi, con la bocca sempre atteggiata a un sorriso beato e la testa ro¬vesciata all'indietro. Poi li riaprì e gli si attaccò alla bocca.
Le dita forti di lui risalirono dalle natiche torturate a massag¬giarle dolcemente la schiena. Tutt'a un tratto affondarono di nuovo nelle carni suscitandole una smorfia. La donna indietreg¬giò con un sorriso esitante, e lo costrinse a fermarsi prendendo¬gli le mani. Lui trasferì la propria attenzione al seno, le succhiò i capezzoli. Lei chiuse di nuovo gli occhi e il suo respiro si tra¬sformò in un mugolio sommesso. Lui risalì con la bocca al suo collo. Aveva gli occhi spalancati, guardava dritto verso la pol¬trona su cui era seduto Luther, senza poter sospettare la sua presenza.
Luther lo fissò, fissò quegli occhi, e non gli piacque ciò che vide. Pozze di tenebra cerchiate di rosso, come un pianeta sini¬stro visto attraverso le lenti di un telescopio. Gli venne il dub¬bio che la donna nuda fosse alla mercé di qualcosa non così de¬licato, non così amorevole come gli era sembrato di credere.
Divenuta impaziente, la donna spinse l'amante sul letto. Gli si mise a cavalcioni, offrendo a Luther una visuale da tergo che avrebbe dovuto essere riservata al suo ginecologo e a suo mari¬to. Si alzò sulle ginocchia, ma lui, con un movimento repentino ed energico, la buttò giù e la sormontò, afferrandole le gambe e alzandogliele fino a tenergliele perpendicolari al letto.
La sua mossa successiva fece sussultare Luther nel suo nascon¬diglio. Le serrò il collo tra le mani e la sollevò di peso, spingendo¬si la testa di lei tra le gambe. L'azione era stata così inaspettata che, con la bocca a non più di un paio di centimetri da lui, la don¬na si lasciò sfuggire un gemito roco. Allora lui rise e la lasciò ri¬cadere. Momentaneamente disorientata, lei riuscì finalmente ad abbozzare un sorriso alzandosi sui gomiti sotto di lui, che impu¬gnò con una mano il pene eretto, mentre con l'altra le spalancava le gambe. Sotto il suo sguardo spiritato, lei attese placida di acco¬glierlo.
Ma invece di tuffarsi tra le sue gambe, lui le ghermì i seni e glie¬li strizzò, evidentemente un po' troppo forte, perché Luther udì un guaito di dolore, e subito dopo la donna schiaffeggiò il suo amante. Lui la lasciò andare e le restituì il manrovescio, con catti¬veria. Una goccia di sangue le affiorò all'angolo della bocca e le scivolò sul labbro carnoso e imbellettato.
— Fottuto bastardo. — La donna abbandonò il letto per se¬dersi sul pavimento a tastarsi la bocca, assaggiando il sapore del proprio sangue in un momento di lucidità tra i fumi dell'alcol. Le prime parole che Luther aveva sentito pronunciare di¬stintamente in tutta la notte lo colpirono come una mazzata. Si alzò e si avvicinò al falso specchio.
L'uomo sogghignava. Luther fremette nel vedere quell'espres¬sione sul suo volto: più che una smorfia umana era il ringhio di una belva che si appresta a uccidere.
— Fottuto bastardo — ripeté lei, a voce un po' più bassa, im¬pastando un po' le sillabe. Quando fece per alzarsi, lui le ag¬guantò un braccio e glielo torse, facendola ricadere pesante¬mente a terra. Poi si sedette sul letto a guardarla, con aria di trionfo.
Luther, con il respiro corto, stava in piedi davanti al falso specchio, stringendo e rilasciando meccanicamente i pugni, e sperando che le altre persone stessero per riapparire. Per un at¬timo il suo sguardo si posò sul telecomando rimasto sulla pol¬trona, poi tornò sulla stanza.
La donna aveva ripreso lentamente fiato e si stava rialzando. Non c'era più niente di romantico nel suo stato d'animo, Luther lo vedeva dal modo in cui si muoveva adesso, vigile e diffidente. Il mutamento, il lampo di collera che le brillò negli occhi azzurri, doveva essere sfuggito al suo compagno, altri¬menti non si sarebbe alzato e non le avrebbe teso una mano, che lei accettò.
Il sorriso sulle labbra dell'uomo scomparve di colpo alla pre¬cisa ginocchiata che ricevette all'inguine. Si piegò in due, per¬dendo all'istante l'erezione, quindi si accartocciò sul pavimento ansimando, senza gridare, mentre lei recuperava gli slip e se li infilava.
Di sorpresa lui la prese per una caviglia e la fece cadere con gli slip appena sopra le ginocchia.
— Puttana schifosa — rantolò senza mollarle la caviglia, cer¬cando anzi di trascinarla verso di sé.
Lei scalciò, lo colpì alla cassa toracica, ripetutamente, senza però riuscire a indurlo a mollare.
— Troietta di merda — ansimò lui.
All'intonazione di minaccia che udì in quelle parole, Luther reagì avvicinandosi al vetro e posandovi sopra una mano, come per volerla allungare oltre e bloccare l'uomo, obbligarlo a libe¬rare la donna.
Lo vide alzarsi faticosamente e l'espressione che gli lesse negli occhi gli fece provare un brivido tremendo.
Lo vide afferrare la donna per il collo.
Fugati in un sol colpo i fumi dell'alcol, la donna ritrovò tutta la sua presenza di spirito. I suoi occhi, ora colmi di terrore, guizzavano a destra e a sinistra mentre la pressione delle mani di lui aumentava cominciando a toglierle il respiro. Gli artigliò le braccia, scavandovi graffi profondi.
Luther vide il sangue sgorgare dalla pelle lacerata, ma non per questo lui allentò la presa.
La donna cercò di scalciare, dibattendosi, ma il suo aggresso¬re era troppo forte per lei, troppo pesante.
Di nuovo Luther guardò il telecomando. Avrebbe potuto aprire lo sportello segreto. Avrebbe potuto intervenire, farlo smettere, ma le sue gambe non si mossero. Fissava impotente attraverso il vetro, con la fronte madida di sudore, il respiro contratto in movimenti convulsi del torace. Appoggiò entrambe le mani al falso specchio.
Smise di respirare nel momento in cui vide la donna lanciare una fulminea occhiata al comodino. Poi la vide agire con estre¬ma rapidità, afferrare il tagliacarte e menando alla cieca affon¬dare la lama nel braccio del suo aggressore.
L'uomo grugnì di dolore e la lasciò andare per stringersi il braccio rosso di sangue. Per un terribile istante lui si guardò la ferita, quasi incredulo che quella donna potesse avergli provo¬cato uno squarcio simile.
Poi rialzò gli occhi e Luther ebbe l'impressione di sentirsi vi¬brare nel corpo il suo ringhio omicida prima ancora che gli fos¬se sfuggito dalle labbra.
Vide l'uomo colpire. Mai aveva assistito a un atto di tale bru¬talità nei confronti di una donna. All'impatto di quel pugno con la carne morbida, un getto di sangue le schizzò dal naso e dalla bocca.
Forse fu per tutto l'alcol che lei aveva in corpo, ma il colpo che normalmente avrebbe tramortito chiunque ebbe su di lei un effetto corroborante. Ritrovate inaspettatamente le forze, riuscì a rialzarsi sulle gambe. Quando si voltò verso lo specchio, Luther vide l'orrore dipingersi sul viso di lei nel contemplare la selvaggia devastazione della sua bellezza. Con gli occhi spalan¬cati per lo stupore si toccò il naso tumefatto, con un dito si ta¬stò i denti ora allentati. Era irriconoscibile. Il suo inimitabile sorriso era perduto.
Si girò verso l'uomo, e Luther le vide i muscoli della schiena irrigidirsi come pezzi di legno. Con imprevedibile rapidità gli sferrò un nuovo calcio all'inguine. Sopraffatto dalla nausea, in¬debolito dal nuovo contrattacco, l'uomo si accasciò, rotolò sul¬la schiena e cominciò a gemere, schiacciandosi le ginocchia con¬tro lo stomaco e proteggendosi i genitali con la mano.
Con il volto rosso di sangue e occhi in cui nel volgere di un attimo il buio dello spavento aveva lasciato il posto a una luce omicida, la donna si lasciò cadere sulle ginocchia accanto a lui e alzò il tagliacarte.
Luther afferrò il telecomando, tornò alla porta e posò il dito sul pulsante.
Ma l'uomo, nell'istante in cui capì che la sua vita stava per es¬sere spezzata dalla lama che calava verso il suo petto, urlò con quanto fiato aveva in corpo. Il grido non rimase inascoltato.
Paralizzato, Luther spostò lo sguardo sulla porta della came¬ra da letto che si spalancava.
Due uomini fecero irruzione con le armi spianate, entrambi con i capelli tagliati a spazzola ed entrambi dotati di un fisico possente, chiaramente intuibile nonostante giacca e cravatta. Prima che Luther avesse il tempo di reagire, valutarono le circo¬stanze e presero la loro decisione.
Le loro pistole fecero fuoco simultaneamente.
Seduta al tavolo del suo ufficio, Kate Whitney riesaminò per l'ultima volta l'incartamento.
L'accusato aveva quattro precedenti e in altre sei occasioni era stato arrestato senza essere incriminato, solo perché i testi¬moni avevano avuto troppa paura per parlare o erano finiti in qualche cassonetto. Quell'uomo era una bomba a orologeria pronta a esplodere sulla prossima vittima, sicuramente una donna, come tutte le precedenti.
L'incriminazione attuale era di omicidio con rapina e violen¬za sessuale. Secondo le leggi della Virginia era prevista la pena capitale e questa volta Kate era decisa ad andare fino in fondo. Non aveva mai chiesto la pena di morte, ma se c'era qualcuno che la meritava l'aveva trovato, e le autorità giudiziarie dello Stato non avrebbero avuto scrupoli ad autorizzarla. Perché concedergli la vita quando lui aveva crudelmente e selvaggia¬mente preso quella di una studentessa diciannovenne il cui solo errore era stato di recarsi a un supermercato in pieno giorno a comperare un paio di calze e di scarpe?
Kate si sfregò gli occhi, prese un elastico dal mucchietto che aveva sulla scrivania e si raccolse i capelli alla buona in una co¬da di cavallo. Considerò il suo piccolo e modesto ufficio. C'era¬no schedari come una muraglia contro tutte le pareti, e per la milionesima volta si domandò se sarebbe mai stato possibile ar¬ginare la malvagità umana. Ovvio che no: tutt'al più la situa¬zione si sarebbe aggravata, e lei non poteva fare più di quanto già stava facendo per arrestare quel fiume di sangue. Avrebbe cominciato con l'esecuzione di Roger Simmons Jr., ventidue an¬ni, il criminale più sadico e sanguinario che le fosse capitato in una carriera ancora breve, ma durante la quale aveva già dovu¬to trattare con un esercito di delinquenti. Kate ricordava come l'aveva guardata quel giorno in tribunale. Il suo era stato un at¬teggiamento totalmente privo di rimorso, di sentimenti, di qualsivoglia traccia di un'emozione positiva. Era anche un volto pri¬vo di speranza, un'impressione confermata dal racconto di un'infanzia che sembrava un romanzo dell'orrore. Ma quello non era un problema di sua competenza. Presumibilmente era l'unico che non la riguardasse.
Kate scosse la testa e controllò l'ora: mezzanotte passata. Andò a versarsi dell'altro caffè, sentendo che cominciava a ve¬nirle meno la concentrazione. L'ultimo assistente aveva lasciato l'ufficio ormai da cinque ore. Da tre se n'erano andati quelli delle pulizie. Senza scarpe, percorse il corridoio per andare in cucina. Ci fosse stato Charlie Manson in circolazione, per lei avrebbe rappresentato un caso di ordinaria amministrazione; l'eccesso maniacale di un dilettante, a confronto dei mostri d'oggi.
Con la tazza di caffè in mano, tornò in ufficio e indugiò a osservare la propria immagine riflessa nella finestra. Il suo era un lavoro per cui la bellezza fisica aveva scarsa importanza; diavo¬lo, era più di un anno che non usciva con un uomo. Ma non poté distogliere gli occhi: era alta e slanciata, forse un po' trop¬po magra in qualche punto, ma l'abitudine di correre sei chilo¬metri ogni giorno le era rimasta, mentre era andato scemando il contenuto calorico della sua dieta. Si sosteneva più che altro con caffè cattivo e cracker, anche se aveva limitato le sigarette a due al giorno e sperava che con un po' di fortuna sarebbe riu¬scita a smettere del tutto.
Si sentiva in colpa per come abusava del proprio corpo impo¬nendogli ritmi stressanti di lavoro da un caso all'altro, da un orrore all'altro, ma che cosa avrebbe dovuto fare? Abbandona¬re la partita perché non somigliava a una donna da copertina di Cosmopolitan? Si consolava pensando che il mestiere di quelle ragazze era mostrarsi belle e in piena forma ventiquattr'ore al giorno, mentre il suo era garantire che le persone che violavano la legge, che facevano del male al prossimo, fossero punite. Da qualunque punto di vista volesse considerare la questione, lei usava la propria vita in un modo molto più produttivo.
Si passò una mano fra i capelli. Aveva bisogno di un parruc¬chiere, ma dove trovare il tempo? Grazie al cielo il suo viso era ancora relativamente al riparo dai segni di quel fardello sempre più gravoso. A ventinove anni, dopo averne trascorsi quattro lavorando diciannove ore al giorno e vivendo la tensione di in¬numerevoli processi penali, poteva rallegrarsi di non ritrovarsi precocemente invecchiata. Sospirò pensando che probabilmen¬te non sarebbe durata così a lungo. Al college lei era stata una graziosa calamita che faceva girare la testa, la causa di improv¬visi batticuori e di sudori freddi. Apprestandosi però a entrare nella trentina, capiva che ciò che aveva dato per scontato per tanti anni, ciò che di fatto aveva persino deriso in tante occa¬sioni, non l'avrebbe accompagnata ancora per molto. Come tante altre cose a cui l'abitudine toglie ogni aspetto di straordi¬narietà, la capacità di zittire un'aula semplicemente facendovi ingresso era una dote di cui sapeva che avrebbe patito la man¬canza.
Che il suo aspetto non si fosse deteriorato in quegli ultimi an¬ni era un fenomeno degno di nota, considerato quanto poco aveva fatto per conservarlo. Potenza di geni speciali, evidente¬mente, e doveva considerarsi fortunata per quello, ma poi ri¬pensò a suo padre e concluse subito che dal punto di vista gene¬tico aveva poco di cui rallegrarsi. Un uomo che rubava agli altri e poi aveva la pretesa di condurre una vita normale. Un uomo che aveva ingannato tutti indistintamente, comprese moglie e figlia. Un uomo che era inutile andare a cercare quando ci fosse stato bisogno di lui.
Tornò a sedersi al tavolo, bevve un sorso di caffè caldo, vi ag¬giunse altro zucchero e osservò l'incartamento di Simmons mentre mescolava il suo nero tonico notturno.
Sollevò il ricevitore e chiamò casa per controllare se c'erano messaggi. Ne trovò cinque, due da parte di altri avvocati, uno di un poliziotto che avrebbe chiamato a testimoniare contro Simmons e uno di un detective della procura che aveva la bella abitudine di telefonarle alle ore più disparate con informazioni perlopiù inutili. Avrebbe fatto bene a cambiare numero di te¬lefono. L'ultima chiamata era priva di messaggi, ma prima che lo sconosciuto riagganciasse, il nastro aveva registrato un respi¬ro molto sommesso, un suono nel quale le parve di avvertire qualche parola indistinta. C'era qualcosa di familiare, ma nulla che potesse aiutarla a riconoscere chi aveva telefonato. Qualcu¬no che non aveva di meglio da fare.
Il caffè le scorse nelle vene e il dossier di Simmons riprese il suo posto di preminenza. Kate alzò gli occhi al suo piccolo scaf¬fale di libreria. Sul ripiano più alto c'era una vecchia foto, in cui lei era ritratta all'età di dieci anni insieme a sua madre, ora de¬funta. Dalla foto era stato tagliato via Luther Whitney. Un grande vuoto vicino a madre e figlia. Un grande niente.
— Cristo Gesù! — Il Presidente degli Stati Uniti si alzò a sedere. Con una mano si copriva i genitali inerti e martoriati, mentre con l'altra stringeva il tagliacarte che pochi istanti prima era sul punto di diventare lo strumento della sua morte. Ora non era più sporco solo del proprio sangue. — Cristo Gesù, Bill, che cazzo hai combinato? L'hai ammazzata! — L'oggetto delle sue invettive si chinò per aiutarlo a rialzarsi, mentre il compagno controllava le condizioni della donna: un esame del tutto formale, considerato che due proiettili di grosso calibro le avevano fatto saltare il cervello.
— Mi dispiace, signore, non c'è stato tempo. Sono spiacente.
Dopo aver servito per otto anni nella polizia statale del Maryland, Bill Burton era agente dei servizi segreti da dodici, e uno dei suoi proiettili aveva appena stecchito una splendida donna. Alla faccia del duro addestramento, stava tremando co¬me uno scolaretto appena svegliatosi da un incubo.
Aveva già ucciso in servizio, un incidente imprevisto durante un normale controllo stradale, ma la sua vittima era un recidi¬vo, animato da un odio maniacale per gli agenti in divisa, che gli aveva puntato addosso una Glock semiautomatica con la precisa intenzione di staccargli la testa dalle spalle.
Burton guardò il piccolo corpo nudo riverso al suolo e gli venne da vomitare. Lo soccorse Tim Collin, il suo partner, pren¬dendolo per un braccio. Burton deglutì e fece un cenno di as¬senso. Avrebbe superato il momentaccio.
Aiutarono a rialzarsi Alan J. Richmond, quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti, eroe e leader per una nazione intera, giovani, adulti e anziani, ma in quel momento semplice¬mente un uomo nudo e ubriaco. Il Presidente si girò verso di lo¬ro e sul suo volto l'orrore iniziale si sciolse finalmente negli ef¬fetti dell'alcol che aveva ingerito. — È morta? — Lo chiese con la lingua un po' legata e gli occhi che gli ballavano nelle orbite come se avessero rotto gli ormeggi.
— Sì, signore — dichiarò prontamente Collin. Non si lascia¬va senza risposta la domanda di un Presidente, ubriaco o no.
Burton stava prendendo tempo per rimettersi in sesto. Guardò di nuovo la donna, poi alzò gli occhi sul Presidente. Quello era il loro lavoro, proteggere il Presidente, a qualunque costo. Per quanto sciagurata, la sua vita non poteva finire certo in quel modo, sgozzato come una bestia per mano di una putta¬nella piena di alcol.
Le labbra del Presidente si incurvarono in qualcosa di simile a un sorriso, anche se in seguito non fu così che lo rammentaro¬no Collin e Burton. Il Presidente fece per rialzarsi.
— Dove sono i miei vestiti? — chiese.
— Qui, signore. — Ormai ripresosi, Burton si bloccò mentre stava per raccoglierli. Erano pieni di macchie. Qualsiasi cosa in tutta la stanza era macchiata. Macchiata della donna.
— Avanti, dannazione, tiratemi su, mettetemi in ordine. Ho da tenere un discorso per qualcuno, non so dove, non è vero? — Emise una risata stridula. Burton guardò Collin e Collin guardò Burton. Entrambi guardarono il Presidente che sveniva sul letto.
Al momento delle deflagrazioni, Gloria Russell, Capo dello Staff presidenziale, si trovava in bagno al pianterreno, quanto più lon¬tano le era riuscito di arrivare da quella stanza.
Aveva accompagnato il Presidente in molti di quei convegni, ma invece di abituarvisi, ogni volta ne era più disgustata di quella precedente. Immaginare il suo principale, l'uomo più po¬tente sulla faccia della Terra, a letto con tutte quelle prostitute d'alto rango, quelle cortigiane della politica, le era inaccettabi¬le. Non potendolo capire, aveva quasi imparato a ignorarlo. Quasi.
Si era risistemata i collant, aveva afferrato la borsa e spalan¬cato la porta, si era precipitata in fondo al corridoio e nono¬stante i tacchi alti aveva salito i gradini due alla volta. Quando raggiunse la porta della camera da letto, fu trattenuta dall'agen¬te Burton.
— Signora, glielo sconsiglio, non è un bello spettacolo.
Si sbarazzò di lui con una spinta, ma subito dopo si bloccò. Il suo primo impulso fu di correre via, giù per le scale, tuffarsi nella limousine. Andarsene, abbandonare lo Stato, lasciare quel paese sventurato. Non provava pietà per Christy Sullivan, che aveva voluto farsi scopare dal Presidente. Da due anni era il suo chiodo fisso. Ebbene, certe volte non ottieni quello che desideri, certe altre ottieni molto di più.
Si calmò e si rivolse all'agente Collin.
— Che cosa diavolo è successo?
Tim Collin era giovane, un duro devoto all'uomo che aveva l'incarico di proteggere. Era stato addestrato per dare la vita pur di difendere quella del Presidente, e non c'era ombra di dubbio che se quel momento fosse giunto lui lo avrebbe fatto. Erano trascorsi molti anni da quando aveva affrontato un ag¬gressore nel parcheggio di un centro commerciale, dove l'allora candidato presidenziale Alan Richmond era intervenuto per un comizio. Non gli aveva dato nemmeno il tempo di estrarre del tutto la pistola e, prima che chiunque altro potesse reagire, aveva già immobilizzato l'aspirante assassino sul piazzale asfal¬tato. Collin aveva una sola missione nella vita, proteggere Alan Richmond.
Gli ci volle un minuto per riferire sinteticamente alla Russell quanto era successo. Burton confermò con un cenno solenne del capo.
— O lui o lei, signora Russell. Non c'era scelta. — Burton lanciò istintivamente un'occhiata al Presidente, ancora riverso sul letto, ignaro di tutto. Gli avevano coperto con un lenzuolo le parti più strategiche del corpo.
— Volete dirmi che non avevate sentito niente? Nessun ru¬more sospetto, nessun indizio di un atto violento? — Indicò la stanza sottosopra.
I due agenti si guardarono in faccia. Avevano sentito molti rumori provenire dalle camere da letto in cui si recava il loro principale, rumori che in certi casi si sarebbero potuti collegare ad atti violenti, in altri no. Ma ne erano sempre usciti tutti sani e salvi.
— Niente di insolito — spiegò Burton — poi abbiamo sentito il Presidente che gridava e siamo entrati. La lama di quel coltel¬lo non poteva essere a più di dieci centimetri dal suo petto. Solo con un proiettile avremmo potuto fare in tempo.
Burton si raddrizzò in tutta la sua statura e la guardò dritto negli occhi. Lui e Collin avevano fatto il loro dovere e non sa¬rebbe stata quella donna a criticare il loro operato. Non avreb¬bero accettato alcuna responsabilità per quanto era accaduto.
— Come? C'era un coltello qui dentro? — sbottò lei fissan¬dolo incredula.
— Dipendesse da me — rispose Burton — metterei il veto su queste... queste gitarelle. Il più delle volte non ci lascia control¬lare niente. Non abbiamo potuto perquisire la stanza. È il Presi¬dente, signora — tenne ad aggiungere per precauzione, come se bastasse a giustificare qualsiasi cosa. E con la Russell di solito funzionava, fatto di cui Burton era più che consapevole.
La donna osservò la stanza con attenzione. Quando aveva risposto all'invito di Alan Richmond in gara per la presidenza, lei era docente di ruolo in scienze politiche a Stanford, già con una certa notorietà a livello nazionale. Lui era dotato di una forza travolgente, tutti volevano saltare sul suo carro.
Gloria Russell adesso era Capo dello Staff presidenziale, con serie prospettive di diventare Segretario di Stato se Richmond avesse ottenuto un secondo mandato, cosa su cui chiunque sa¬rebbe stato pronto a scommettere a occhi chiusi. Chissà, forse c'era in vista un'accoppiata Richmond-Russell. Finora il bino¬mio aveva funzionato splendidamente, con lei nel ruolo di stra¬tega e lui di abile condottiero. Ogni giorno che passava il loro futuro diventava più fulgido. Ma ora? Ora lei aveva per le mani un cadavere e un Presidente ubriaco, fra le mura di una villa in cui non avrebbe dovuto esserci nessuno.
Sentì che il treno su cui fino a quel momento aveva beata¬mente viaggiato si era fermato bruscamente. Invece no, non si sarebbe lasciata sopraffare, non avrebbe mandato tutto all'aria per quel mucchietto di spazzatura umana. Mai e poi mai!
— Vuole che chiami la polizia adesso, signora? — domandò Burton.
La Russell lo guardò come se fosse ammattito. — Burton, la¬sci che le ricordi che il nostro compito è proteggere gli interessi del Presidente in qualunque circostanza e niente, assolutamente niente, ha la precedenza su questo. È chiaro?
— Signora, la donna è morta. Io credo che dovremmo...
— Infatti, Burton. Lei e Collin avete sparato a quella donna e adesso lei è morta. — Le sue parole rimasero sospese nell'aria. Collin si passò il pollice sui polpastrelli mentre la sua mano an¬dava istintivamente alla fondina. Guardò la defunta signora Sullivan come se potesse resuscitarla con la buona volontà.
Burton inarcò le spalle muscolose e si avvicinò impercettibil¬mente alla Russell, in modo che la differenza di statura risaltas¬se al massimo.
— Se noi non avessimo sparato, il Presidente sarebbe morto. E questo è il nostro lavoro. Badare all'incolumità del Presidente.
— Le do nuovamente ragione, Burton. E ora che avete evita¬to la sua morte, come intendete spiegare alla polizia e alla mo¬glie del Presidente e ai vostri superiori e agli avvocati e agli or¬gani di informazione e al Congresso e ai mercati finanziari e alla nazione e al resto di tutto questo dannato mondo che cosa ci faceva il Presidente qui? E come pensereste di illustrare le cir¬costanze che hanno obbligato lei e l'agente Collin a uccidere la moglie di uno degli uomini più ricchi e influenti degli Stati Uni¬ti? Perché se chiamate la polizia, se chiamate una persona qualsiasi, è esattamente questo che dovrete fare. Ora, se siete pronti ad accettare la piena responsabilità di queste conseguenze, allo¬ra là c'è il telefono. Non ha che da chiamare.
Burton cambiò colore in viso. Indietreggiò di un passo; in quel momento la sua prestanza fisica non gli serviva a niente. Collin, come paralizzato, faceva da spettatore allo scontro. Non aveva mai sentito nessuno parlare in quel modo a Bill Bur¬ton, un bisonte che avrebbe potuto spezzare il collo della Russell con una placida flessione del braccio.
Burton tornò a fissare il cadavere. Come spiegare la faccenda in maniera che tutti ne uscissero puliti? La risposta era sempli¬ce: non si poteva.
La Russell lo stava scrutando in volto. Burton rialzò gli oc¬chi, ma le resistette solo per un attimo. Lei sorrise senza malani¬mo e annuì. Aveva vinto.
— Vada a fare del caffè, e ne faccia tanto — gli ordinò, com¬piacendosi del temporaneo ribaltamento dei ruoli. — Poi vada a piazzarsi alla porta d'ingresso a fermare eventuali visitatori inaspettati.
— Collin, lei vada al furgone ad avvertire Johnson e Varney. Non scenda in particolari, per ora si limiti a dire che c'è stato un incidente, ma che il Presidente è sano e salvo. Niente di più. E che stiano all'erta. Capito? La chiamerò se sarà il caso. Per adesso ho bisogno di pensare.
Burton e Collin uscirono senza fiatare. Per l'addestramento che avevano ricevuto, nessuno dei due avrebbe potuto ignorare ordini impartiti in tono così autorevole, e Burton in particolare era ben contento di non dover prendere iniziative in quelle cir¬costanze. Nemmeno se l'avessero pagato a peso d'oro.
Luther non si era più mosso da quando le pallottole avevano scoperchiato il cranio della donna. Non ne aveva il coraggio. Il trauma iniziale era finalmente passato, ma i suoi occhi conti¬nuavano a posarsi su quello che restava di un essere umano che fino a poco prima sprizzava vita ed energie. In tanti anni di car¬riera criminale gli era capitato solo una volta di veder uccidere una persona, un pedofilo alla terza condanna che aveva avuto la spina dorsale troncata dalla lama di un coltello a serramani¬co di un altro detenuto. Ma le emozioni che provava adesso erano del tutto diverse, come se fosse l'unico passeggero di una nave entrata in un porto straniero, al quale tutto era sconosciu¬to e poco comprensibile. Un qualsiasi rumore in quel momento poteva essergli fatale, ma non poté evitare di tornare a sedersi lentamente, perché le gambe non gli reggevano più.
Guardò la Russell aggirarsi per la camera da letto, chinarsi sulla donna uccisa senza toccarla, raccogliere il tagliacarte te¬nendolo con un fazzoletto per la punta della lama. La Russell fissò a lungo l'oggetto che per poco non era costato la vita al suo principale e che aveva avuto un ruolo di primo piano nella morte di una seconda persona. Lo infilò con cautela nella pro-pria borsetta di pelle, che appoggiò sul comodino, e ripose il fazzoletto in tasca. Il suo sguardo tornò brevemente sulle forme contratte di quella che era stata Christine Sullivan.
Gloria Russell non poteva non ammirare Richmond per co¬me conduceva le sue attività collaterali. Tutte le sue "amiche" erano donne di elevata posizione sociale, tutte sposate. Questo lo metteva al riparo dalla possibilità che la sua condotta adulte¬rina finisse sulle pagine di qualche giornale scandalistico: le donne che si portava a letto avevano da perdere almeno quanto lui e se ne rendevano perfettamente conto.
Già, la stampa. La Russell sorrise. Era un'epoca in cui la vita del Presidente veniva costantemente esaminata sotto le lenti di un microscopio. Non poteva andare in bagno, fumare un sigaro o ruttare senza che la nazione sapesse come e quando. O alme¬no così la nazione credeva. E questo scaturiva soprattutto dalla sopravvalutazione degli organi di informazione e della loro abi¬lità nello spigolare anche gli aspetti più reconditi di qualsiasi avvenimento. Non si rendeva conto invece, la gente, che sebbe¬ne con il passare degli anni l'ufficio della presidenza avesse per¬so parte del suo enorme potere di fronte a problemi planetari ormai ingigantiti oltre le possibilità di intervento di un'unica persona, il Presidente era pur sempre attorniato da persone as¬solutamente leali ed estremamente capaci. Erano persone la cui perizia nell'esercizio delle attività clandestine apparteneva a un'altra categoria rispetto a quella di scadenti giornalisti ram¬panti, per i quali andare a fondo di una notizia che faceva scal¬pore significava tempestare di domande insulse qualche parla¬mentare che non chiedeva di meglio per guadagnarsi un passaggio nel telegiornale locale. La verità era che, se così desi¬derava, il Presidente Alan Richmond avrebbe potuto muoversi senza timore che qualcuno riuscisse a sapere dove andava. Sa¬rebbe potuto persino scomparire per tutto il tempo che avesse voluto, per quanto inopportuno potesse essere per qualsiasi personaggio politico. I suoi privilegi erano tutti riconducibili a un unico comune denominatore: i servizi segreti.
Erano i migliori tra i migliori, un'élite di professionisti la cui provata esperienza era una garanzia assoluta, come risultava anche dall'organizzazione di quest'ultima attività presidenziale.
Christy Sullivan era uscita poco dopo mezzogiorno dal suo salone di bellezza a nordovest della città. Aveva percorso a pie¬di un isolato, era entrata nell'atrio di uno stabile e dopo mezzo minuto ne era uscita sotto una mantella con cappuccio che le arrivava alle caviglie, e con un paio di occhiali scuri a nascon¬derle gli occhi. Sempre a piedi aveva percorso alcuni altri isola¬ti, poi aveva preso la linea rossa per il Metro Center. Uscita dal Metro aveva proseguito a piedi per due isolati ed era entrata in un vicolo tra due edifici in via di demolizione. Due minuti do¬po, dallo stesso vicolo era uscita un'automobile con i finestrini oscurati. Al volante c'era Collin. Christy Sullivan era seduta di dietro. Era poi rimasta al riparo in un luogo sicuro in compa¬gnia di Bill Burton fino al momento in cui, ormai di notte, il Presidente aveva potuto raggiungerla.
Se per il convegno segreto era stata scelta proprio la villa dei Sullivan era perché, paradossalmente, la residenza di campagna di sua proprietà era esattamente l'ultimo posto al mondo dove ci si sarebbe aspettati di trovare Christy Sullivan. E la Russell sapeva anche che sarebbe stata completamente disabitata e pro¬tetta solo da un sistema d'allarme che non sarebbe stato loro di alcun intralcio.
Gloria Russell si sedette e chiuse gli occhi. Sì, in quella casa aveva con sé due dei migliori elementi dei servizi segreti ma, per la prima volta, quello era un fatto che turbava il Capo dello Staff. Era stato il Presidente in persona a scegliere proprio quei quattro agenti, tra il centinaio circa che aveva a disposi¬zione, per la scorta di quella notte. Erano sicuramente più che fidati e preparati a ogni evenienza, avevano puntualmente ser¬vito il Presidente tenendo la bocca ben chiusa, ubbidendo sen¬za riserve. Fino a quella sera il debole del Presidente Richmond per le donne sposate non aveva dato origine a problemi di sor¬ta. Ora la minaccia che incombeva su tutti loro era più che evi¬dente. La Russell scosse la testa e si costrinse a pensare a un piano d'azione.
Luther la stava studiando. Aveva un viso intelligente, di una bellezza che lasciava trasparire un carattere volitivo. Gli pareva quasi di vedere il lavorio della sua mente, rispecchiato nel con¬tinuo corrugarsi e rilassarsi della sua fronte. Passò molto tempo senza che nient'altro di lei si muovesse, poi Gloria Russell aprì di colpo gli occhi e prese a muoversi per la camera esaminando meticolosamente ogni cosa.
Luther si ritrasse involontariamente quando lo sguardo della donna passò su di lui come il fascio di un riflettore nel cortile di una prigione. Quindi la vide soffermarsi a osservare il letto. Per un lungo minuto guardò l'uomo che dormiva, finché le spuntò un'espressione che Luther non riuscì a decifrare. Era qualcosa che stava a metà tra un sorriso e una smorfia.
La Russell si alzò, si avvicinò al letto e scrutò il Presidente. L'Uomo del Popolo, come la gente amava pensare. Un grand'uomo, destinato ai libri di storia. Non sembrava così grande in quel momento. Era disteso solo per metà sul letto, a gambe aperte, i piedi penzoloni a sfiorare il pavimento, in una posizione a dir po¬co singolare per una persona senza un cencio addosso.
La donna indugiò a guardarlo, soffermandosi su certi punti, attardandosi in un modo che lasciava Luther perplesso, consi¬derato quello che c'era lì per terra. Prima che Gloria Russell entrasse nella stanza e che affrontasse Burton, Luther si era aspettato di udire in pochi minuti le sirene e di ritrovarsi ad as¬sistere a un'irruzione di poliziotti e agenti della squadra inve¬stigativa, medici legali e forse anche un brulicare di consulenti politici e addetti stampa della presidenza, per non dire delle colonne di veicoli dei mass media a intasare il viale davanti alla villa. Invece no, evidentemente quella donna aveva in mente qualcos'altro.
Luther aveva visto Gloria Russell alla Cnn e in trasmissioni delle altre emittenti nazionali, oltre che un'infinità di volte sui giornali. Il suo era un volto che rimaneva impresso, con un lun¬go naso aquilino tra zigomi alti, tipici di una discendenza cherokee. Aveva capelli corvini che le scendevano lisci a sfiorarle le spalle e occhi grandi, di un azzurro così scuro da ricordare gli abissi dell'oceano, due profondità dense di insidie per gli sprov¬veduti e gli ingenui.
Luther cambiò con cautela posizione nella sua poltrona. Ve¬dere quella donna pontificare su questioni politiche d'attualità davanti a un imponente caminetto della Casa Bianca era una cosa, vederla aggirarsi in una stanza dove si trovavano un cada¬vere e, ubriaco e nudo, il capo della nazione più potente del mondo, era tutt'altro paio di maniche. Era uno spettacolo al quale Luther avrebbe preferito non dover assistere, ma dal qua¬le era magneticamente attratto.
La Russell lanciò un'occhiata alla porta, attraversò rapida¬mente la stanza, estrasse di nuovo il fazzoletto e chiuse a chia¬ve. Tornò lesta al letto e di nuovo indugiò a osservare il Presi¬dente. Allungò una mano e Luther istintivamente sussultò, ma lei stava solo accarezzando una guancia dell'uomo addormen¬tato. Luther si rilassò, tornando però a irrigidirsi quando la ma¬no di lei scese al petto a soffermarsi sulla folta peluria, per poi scendere sul ventre piatto, che si sollevava e ridiscendeva nel re¬spiro regolare del sonno.
Poi la mano scese ancora e fece lentamente scivolare il len¬zuolo verso il basso, lasciandolo cadere a terra, e si posò infine sul bassoventre. La Russell lanciò un'ulteriore occhiata alla porta, quindi si inginocchiò di fronte al Presidente. A questo punto Luther dovette chiudere gli occhi. A differenza del padro¬ne di casa, non apprezzava quel particolare hobby di spettatore.
Trascorsero alcuni lunghi minuti, prima che Luther riaprisse gli occhi. Adesso Gloria Russell si stava sfilando i collant, che posò con cura su una sedia. Poi montò con cautela sul Presiden¬te addormentato.
Luther chiuse di nuovo gli occhi. Sentì cigolare il letto e si domandò se lo si sentisse anche dabbasso. Probabilmente no, date le dimensioni della villa, ma anche se così fosse stato, che cosa avrebbero potuto fare?
Dieci minuti dopo, Luther udì un breve grugnito sfuggire dal¬le labbra di lui, e un gemito sommesso da quelle di lei. Tuttavia Luther continuò a tenere gli occhi chiusi. Non sapeva bene per¬ché. Sembrava però derivargli da uno strano miscuglio di sem¬plice paura e di disgusto per l'altrui disprezzo dimostrato nei confronti della donna morta.
Quando finalmente riaprì gli occhi, la Russell lo stava fissan¬do. Per un momento gli si fermò il cuore nel petto, prima che il cervello lo rassicurasse sul fatto che non poteva vederlo. La guardò infilarsi rapidamente i collant e riapplicarsi il rossetto davanti allo specchio, con pochi gesti precisi.
Aveva un sorrisetto sulle labbra, e un rossore diffuso sulle guance. Sembrava più giovane. Luther guardò il Presidente. Era ripiombato in un sonno profondo: con tutta probabilità la sua mente aveva archiviato la ventina di minuti appena trascorsi co¬me un sogno straordinariamente realistico e piacevole. Luther tornò a guardare la Russell.
Era più che mai inquietante vedere quella donna che gli sorri¬deva così direttamente, in quella stanza di morte, senza sapere che lui era lì. In quel volto c'era potere, e nei suoi occhi un'espres¬sione che Luther aveva già visto una volta in quella stanza. Anche quella donna era pericolosa.
— Voglio che questo posto sia completamente sterilizzato, ec¬cetto lei. — La Russell indicò la defunta signora Sullivan. — Un momento, anzi. Le avrà probabilmente messo le mani dapper¬tutto. Burton, voglio che me la esamini centimetro per centimetro e che faccia scomparire qualunque cosa abbia il sospetto che non appartenga a lei. Poi le rimetta gli abiti addosso.
Burton si infilò i guanti e si mise all'opera.
Seduto di fianco al Presidente, Collin gli versò di forza in go¬la un'altra tazza di caffè. Avrebbe contribuito a schiarirgli la mente, ma solo il trascorrere del tempo gli avrebbe restituito la completa lucidità. La Russell si sedette a fianco e prese una mano del Presidente fra le proprie. Adesso era vestito e sufficientemente in ordine, per quanto ancora spettinato. Gli avevano bendato alla meglio la ferita al braccio. Godeva di un'eccellente salute e sarebbe guarito in fretta.
— Signor Presidente? Alan? Alan? — La Russell gli prese la testa tra le mani e la girò verso di sé.
Aveva forse sentore di che cosa gli aveva fatto? Ne dubitava. Qualche ora prima lui aveva tradito un bisogno praticamente incontenibile di fare l'amore, la voglia sfrenata di penetrare una donna. E lei gli aveva ceduto il proprio corpo, senza domande. Tecnicamente aveva commesso un atto di violenza carnale. In concreto era sicura di aver realizzato un sogno condiviso da molti maschi. Pazienza se lui non serbava alcun ricordo di quanto era avvenuto, nessuna traccia del suo sacrificio. In ogni caso, ora avrebbe saputo con certezza che cosa lei aveva inten¬zione di fare per lui.
Gli occhi del Presidente stentavano a metterla a fuoco. Collin gli massaggiò il collo. Si stava riprendendo. La Russell control¬lò l'ora: le due. Dovevano rientrare. Lo schiaffeggiò in viso, non troppo forte ma abbastanza da risvegliare la sua attenzio¬ne. Avvertì la tensione nei muscoli di Collin. Gesù, com'erano miopi quei gorilla.
— Alan, ci hai fatto l'amore?
— Cosa...
— Avete scopato?
— Come... No, non credo. Non ricor...
— Gli dia dell'altro caffè, glielo pompi in gola se è necessa¬rio, ma me lo rimetta in sesto. — Collin annuì e si preparò a eseguire l'ordine, mentre la Russell si avvicinava a Burton, le cui mani inguantate stavano esaminando con perizia ogni centimetro della defunta signora Sullivan.
Burton aveva partecipato a numerose indagini di polizia, e sapeva esattamente dove e che cosa doveva cercare un buon in¬vestigatore. Non aveva mai previsto di doversi servire della sua professionalità per un insabbiamento, ma non aveva mai nem¬meno lontanamente immaginato che sarebbe potuto accadere qualcosa del genere.
Si guardò intorno, considerando mentalmente quali altre zo¬ne della casa avrebbe dovuto perquisire, in quali altre stanze i due potessero essere passati. Non si poteva fare niente per i segni che la donna aveva sul collo e per le altre tracce, visibili so¬lo al microscopio, che senza dubbio avrebbero rinvenuto in al¬tri punti del suo corpo. Nessuna contromisura avrebbe potuto evitare che il medico legale li rilevasse. D'altra parte era invero-simile che i segni di una colluttazione venissero fatti risalire al Presidente, a meno che la polizia avesse ritenuto il Presidente un indiziato, ipotesi più che mai irrealistica.
La contraddizione di un tentato strangolamento seguito da un decesso provocato da armi da fuoco era un enigma da la¬sciare all'immaginazione dei funzionari di polizia.
Fatte queste riflessioni, Burton cominciò a tirare gli slip su per le gambe della morta. Si sentì battere un dito sulla spalla.
— La controlli.
Burton alzò gli occhi. Fece per dire qualcosa.
— La controlli! — Il cipiglio della Russell era il medesimo che Burton le aveva visto rivolgere un milione di volte ai vari funzio¬nari della Casa Bianca. Avevano tutti un sacro terrore di lei. Lui non ne era intimorito, ma era abbastanza sveglio da pararsi il cu¬lo quando c'era la Russell nei paraggi. Fece come gli era stato or¬dinato. Poi riposizionò il corpo esattamente come quando era stramazzato sul pavimento. Riferì con un breve cenno negativo del capo.
— Sicuro? — La Russell era poco convinta, anche se dal suo interludio con il Presidente aveva dedotto che con tutta probabi¬lità non c'era stata penetrazione, o in caso contrario non aveva comunque eiaculato. Potevano però esserci delle tracce. C'era da rabbrividire al pensiero di che cosa erano in grado di determina¬re ormai partendo da un campione di dimensioni infinitesime.
— Non sono un ginecologo, dannazione. Non ho visto niente e se ci fosse stato qualcosa credo che me ne sarei accorto, però non vado in giro con un microscopio in tasca.
La Russell dovette accontentarsi. C'erano ancora un mucchio di cose da fare e non avevano molto tempo.
— Johnson e Varney hanno detto niente?
Collin rialzò la testa. Stava assistendo il Presidente, intento a mandar giù la sua quarta tazza di caffè. — Si stanno doman¬dando che cosa diavolo è successo, se è questo che intende.
— Non gli avrà raccontato...
— Solo quello che mi ha detto di dire lei, signora — tagliò corto lui. — Sono ottimi elementi, al seguito del Presidente fin dai tempi della campagna elettorale. Non faranno niente che possa inguaiarlo, okay?
La Russell lo ricambiò con un sorriso. Un bravo ragazzo, neanche da buttar via, ma soprattutto un membro leale della cerchia più stretta intorno al Presidente. Le sarebbe stato molto utile. Era Burton a preoccuparla. Gloria però sapeva di poter contare su un asso nella manica: erano stati lui e Collin a pre¬mere il grilletto, forse nel rispetto delle consegne ricevute, ma chi poteva assicurarlo? C'erano dentro fino al collo anche loro.
Luther osservava il terzetto in azione vergognandosi un po' dell'ammirazione che provava, date le circostanze. Erano in gamba, metodici, precisi, attenti, non si lasciavano sfuggire il minimo particolare. Non c'era grande differenza tra i rappre¬sentanti della legge devoti alla propria missione e i criminali professionisti, abilità tecnica e competenza erano molto simili, cambiava solo il fine per cui venivano applicate. Ma è appunto il fine a determinare il giudizio, non è vero?
Ora la donna, distesa sul pavimento esattamente là dov'era caduta, era stata completamente rivestita. Collin stava finendo di pulirle le unghie. Sotto ciascuna aveva iniettato una soluzio¬ne detergente che adesso stava risucchiando con una piccola si¬ringa, così da eliminare eventuali frammenti di pelle o altro che potesse incriminare il Presidente.
Il letto era stato rifatto con biancheria fresca e le lenzuola sporche erano finite in una sacca che avrebbe avuto come desti¬nazione finale un inceneritore. Collin aveva già perlustrato tut¬to il pianterreno.
Tutto quello che avevano toccato, salvo che per un unico og¬getto, era stato debitamente ripulito. Ora Burton stava passan¬do l'aspirapolvere sulla moquette. Sarebbe stato lui l'ultimo ad andarsene, camminando a ritroso e cancellando puntigliosa¬mente ogni loro traccia.
Poco prima Luther li aveva visti saccheggiare la camera da letto. Non aveva saputo trattenersi dal sorridere avendo imme¬diatamente intuito qual era il loro proposito: fingere un inci¬dente nel corso di un furto. La collana era finita in un sacchetto con tutti gli anelli. L'idea era di far credere che la giovane don¬na fosse stata uccisa da un ladro sorpreso a rubare in casa sua, e nessuno poteva immaginare che a due metri da loro c'era un topo di appartamenti in carne e ossa che li stava guardando e ascoltando.
Un testimone oculare!
Luther non era mai stato testimone oculare di un furto se non quelli commessi da lui stesso. Un criminale prova un odio naturale per i testimoni oculari. Se le persone in quella camera avessero saputo che Luther si trovava lì, l'avrebbero ucciso all'istante; non c'erano dubbi. Un vecchio delinquente, con tre pene detentive alle spalle, era un sacrificio modesto per la sal¬vezza dell'Uomo del Popolo.
Ancora intorpidito, il Presidente si alzò e con l'aiuto di Burton si diresse lentamente fuori dalla stanza. La Russell li guardò al¬lontanarsi senza far caso alla frenetica ricerca di Collin. Alla fi¬ne, gli occhi attenti dell'uomo si fermarono sulla borsa della Russell appoggiata sul comodino, da cui spuntava il manico del tagliacarte. Con l'aiuto di un sacchetto di plastica, Collin estras¬se l'oggetto e si apprestò a pulirlo. Luther trasalì involontaria-mente vedendo la Russell che gli afferrava la mano.
— Non lo faccia, Collin.
Collin non era scaltro come Burton, e meno che mai possede¬va il talento strategico della Russell. Rimase perplesso.
— Ma questo è pieno di impronte del Presidente, signora. E ci sono anche quelle della tizia, più macchie di quell'altra roba, se mi capisce. Il manico è di cuoio, si è inzuppato.
— Agente Collin, sono stata assunta dal Presidente come suo responsabile tattico e strategico. Quella che a lei può sembrare un'iniziativa del tutto logica, dal mio punto di vista richiede un esame molto più approfondito, e finché non sarà completata un'analisi accurata della situazione, lei non pulirà quel tagliacar¬te. Lo metterà in un contenitore adeguato e lo consegnerà a me.
Collin fu sul punto di protestare, ma desistette sotto lo sguar¬do minaccioso della Russell. Ripose come gli era stato richiesto il tagliacarte in una busta, e la porse alla donna.
— Faccia attenzione, signora Russell.
— Faccio sempre attenzione, Tim.
Gli rivolse un altro sorriso. Lui contraccambiò. Non l'aveva mai chiamato per nome. Collin si domandò se lei se ne fosse ac¬corta. Si rendeva anche conto, e non per la prima volta, che il Capo dello Staff era una donna molto attraente.
— Sì, signora — e cominciò a riporre l'attrezzatura.
— Tim?
Collin le rivolse lo sguardo. La Russell gli si avvicinò, lo guardò dritto negli occhi e gli parlò a voce bassa. Collin ebbe persino la sensazione che fosse un po' imbarazzata.
— Tim, ci troviamo di fronte a una situazione decisamente straordinaria. Ho bisogno di tempo per orientarmi. Mi capisci?
Collin annuì. — Che sia straordinaria è fuori discussione. Mi si sono drizzati i capelli in testa quando ho visto quella lama che stava per spaccare il cuore al Presidente.
Lei gli toccò il braccio. Le sue unghie erano sorprendente¬mente lunghe e perfettamente curate. Nell'altra mano reggeva la busta con il tagliacarte. — Questo deve restare tra noi, Tim. D'accordo? Presidente escluso. Escluso anche Burton.
— Non so...
Lei gli strinse la mano. — Tim, ho veramente bisogno del tuo appoggio, questa volta. Il Presidente non ha idea di che cosa sia successo e ho l'impressione che, ora come ora, Burton non stia affrontando l'emergenza con tutta la razionalità del caso. Ho bi¬sogno di qualcuno di cui fidarmi. Ho bisogno di te, Tim. È una questione troppo delicata. Questo lo capisci anche tu, no? Non te lo chiederei se non pensassi che sei perfettamente all'altezza.
Lui sorrise al complimento e affrontò il suo sguardo.
— Va bene, signora Russell. Come vuole lei.
Mentre Collin terminava il suo lavoro, la Russell osservò la lama insanguinata che per così poco non aveva messo fine alle sue ambizioni politiche. Se il Presidente fosse rimasto ucciso, non sarebbe stato possibile insabbiare un bel niente. Già, insab¬biare: che brutta parola. Però era un'operazione sovente neces¬saria nel mondo dell'alta politica. Rabbrividì al pensiero di quali sarebbero potuti essere i titoli: IL PRESIDENTE TROVATO MORTO NELLA CAMERA DA LETTO DI UN AMICO INTIMO. LA MOGLIE DELL'AMICO INDIZIATA DELL'OMICIDIO. LA DIRIGENZA DEL PARTITO CHIEDE LA TESTA DEL CAPO DELLO STAFF, GLORIA RUSSELL. Ma non era andata così. E così non sarebbe andata.
L'oggetto che teneva nella mano valeva più di una montagna di plutonio, più dell'intera produzione di petrolio dell'Arabia Saudita.
Con un'arma come quella in suo possesso, chissà... magari addirittura il binomio Russell-Richmond? Le si aprivano possi¬bilità assolutamente infinite.
Sorrise e ripose la busta nella borsetta.
L'urlo fece voltare di scatto la testa a Luther. Una fitta di dolore gli attraversò il collo e solo a fatica trattenne un gemito.
Il Presidente era rientrato di corsa. Aveva gli occhi strabuzza¬ti, ma era ancora mezzo ubriaco. Il ricordo di quelle ultime ore gli si era riacceso nella mente con la forza d'urto di un Boeing 747 che gli fosse atterrato sulla testa.
Burton lo seguiva ansimando. Il Presidente si lanciò sul cada¬vere. Gloria appoggiò la borsetta sul comodino, e insieme a Collin lo intercettò a metà strada.
— Dio del cielo! È morta! L'ho uccisa. Oh, Signore Iddio, aiutami. L'ho uccisa! — gridò e poi singhiozzò e poi gridò di nuovo. Cercò di forzare il blocco che lo ostacolava, ma era an¬cora troppo debole. Burton lo tirò indietro.
Poi in un impeto convulso il Presidente si sbarazzò delle loro braccia, e lanciandosi in avanti rovinò contro il muro, finì ad¬dosso al comodino e infine si accasciò sul pavimento, accartoc¬ciandosi in posizione fetale a piagnucolare accanto alla donna con la quale quella notte aveva avuto intenzione di fare l'amore.
Luther provò sincero ribrezzo. Si massaggiò il collo scuoten¬do lentamente la testa. L'incredibile susseguirsi degli avveni¬menti di quella notte cominciava a diventargli insopportabile.
Il Presidente si rialzò muovendosi con cautela. Dall'espressio¬ne, c'era da ritenere che Burton la pensasse più o meno come Luther, ma l'agente non aprì bocca. Collin sollecitò con uno sguardo istruzioni da parte della Russell, che si rallegrò intima¬mente dell'implicito passaggio di poteri.
— Gloria?
— Sì, Alan?
Luther aveva notato come la Russell aveva contemplato il ta¬gliacarte. Lui sapeva qualcosa che nessun altro in quella stanza sapeva.
— Non ci saranno conseguenze? Fai che vada tutto a posto, Gloria. Ti prego. Oh Dio, Gloria!
Lei gli posò la mano sulla spalla, in un gesto di rassicurazio¬ne simile a quelli che aveva ripetuto per centinaia di migliaia di chilometri di campagna elettorale. — È tutto sotto controllo, Alan. Ho messo tutto sotto controllo.
Il Presidente era ancora troppo ubriaco per cogliere il signifi¬cato delle sue parole, ma Gloria non se ne curò.
Burton si premette l'auricolare e ascoltò attentamente per qualche istante. Poi si girò verso la Russell.
— È meglio che alziamo i tacchi. Varney dice che sta arrivan¬do un'auto di pattuglia.
— Il sistema d'allarme...? — cominciò Gloria in tono ansioso.
Burton scosse la testa. — Probabilmente è una normale ispe¬zione di una guardia giurata, ma se vede qualcosa... — Non eb¬be bisogno di aggiungere altro.
In un quartiere come quello allontanarsi dal luogo del delitto a bordo di una limousine era senz'altro la miglior copertura possibile. La Russell poté solo complimentarsi con se stessa per aver preso l'abitudine di noleggiare macchinoni senza autista per le piccole scorribande del suo Presidente. Anche se qualcu¬no li avesse notati, i nomi sui registri erano tutti falsi, deposito cauzionale e tariffa venivano pagati in contanti e l'automobile veniva riconsegnata dopo poche ore. La transazione avveniva in maniera totalmente indiretta e il veicolo veniva completa¬mente sterilizzato prima della riconsegna. Se la polizia avesse indagato lungo quella pista, cosa peraltro altamente improbabi¬le, si sarebbe ritrovata in un vicolo cieco.
— Via! — ordinò Gloria, con la voce ora lievemente alterata dalla preoccupazione.
Aiutarono il Presidente a rimettersi in piedi. La Russell uscì con lui. Collin prese i sacchi. Poi si fermò di colpo.
Luther deglutì.
Collin si voltò, recuperò la borsetta della Russell dal comodi¬no e uscì.
Burton accese il piccolo aspirapolvere, finì di passarlo sulla moquette, spense la luce e richiuse la porta.
L'ambiente di Luther ripiombò nelle tenebre.
Era la prima volta che si ritrovava solo in quella stanza con il cadavere della giovane donna. Tutti gli altri avevano fatto in fretta ad abituarsi al corpo insanguinato riverso sul pavimento, scavalcandolo o passandovi attorno come evitando un qualsiasi oggetto inanimato; ma per Luther non era così, lui non si era per niente abituato ad avere la morte a un paio di metri di di¬stanza.
Non poteva più vedere gli abiti sporchi di sangue e il corpo esanime che li indossava, ma sapeva che erano lì. "Una putta¬na imbottita di soldi" era probabilmente l'epitaffio che l'opi¬nione pubblica avrebbe messo in circolazione. Sì, aveva tradito suo marito, ma a parte il sospetto che a lui non sarebbe impor¬tato un bel niente, non aveva comunque meritato una morte come quella. Luther aveva assistito alla scena con i propri oc¬chi ed era assolutamente certo che lui l'avrebbe uccisa: se non fosse stato per la fulminea reazione della donna, il Presidente l'avrebbe ammazzata.
Luther non si sentiva di biasimare gli uomini dei servizi se¬greti, che avevano un incarico e l'avevano svolto secondo le consegne. Quella donna aveva scelto l'uomo sbagliato per un tentativo di omicidio nel furore del momento. Forse era meglio così. Se la sua mano fosse stata appena più veloce o la reazione degli agenti appena più lenta, lei avrebbe poi passato il resto dei suoi giorni in galera. Oppure poteva anche essere giustiziata per aver ucciso un Presidente.
Luther si sedette in poltrona. Aveva le gambe stanche. Si sforzò di rilassarsi. Presto avrebbe preso il largo e avrebbe avu¬to bisogno di energie fisiche per correre.
Aveva parecchio su cui riflettere, dal momento che involonta¬riamente stavano incastrando Luther Whitney come indiziato numero uno in quello che senza dubbio era destinato a essere considerato un delitto macabro e scellerato. Data la posizione sociale della vittima, per trovare l'assassino sarebbe sceso in campo un largo schieramento di forze, ma mai e poi mai avreb¬bero cercato la risposta all'enigma al numero 1600 di Pennsylvania Avenue. Nossignori, avrebbero provato altrove e, per quanto lungimiranti potessero essere le precauzioni prese da Luther, non si poteva escludere che sarebbero arrivati fino a lui. Era in gamba, molto in gamba, ma non aveva mai dovuto lotta¬re contro il tipo di forze che sarebbero state sguinzagliate alla ricerca dell'autore di quel delitto.
Rivisitò velocemente il piano che lo aveva portato lì quella notte. Non trovò difetti evidenti, ma di solito sono proprio i meno appariscenti a fregarti. Deglutì, strinse e distese ripetutamente le dita, allungò le gambe, fece tutto quanto era in suo po¬tere per calmarsi. Una cosa alla volta. Ancora non era uscito da quella casa. Molte cose sarebbero potute andare storte, e senza dubbio almeno un paio non avrebbero funzionato per il verso giusto.
Avrebbe atteso ancora due minuti. Contò i secondi, immagi¬nando che il Presidente e il suo seguito avrebbero sicuramente aspettato di conoscere i movimenti dell'auto di ronda prima di partire.
Aprì la borsa. Dentro c'erano molti degli oggetti contenuti nella cassaforte. Si era quasi dimenticato di essersi recato lì per rubare e di averlo fatto. La sua automobile era parcheggiata a parecchie centinaia di metri. Ringraziò Iddio di aver smesso di fumare da parecchio tempo: avrebbe avuto bisogno di tutta la capacità polmonare che aveva a disposizione. Quanti erano gli agenti dei servizi segreti con i quali avrebbe dovuto battersi? Almeno quattro. Merda!
Lo specchio si aprì lentamente e Luther uscì in camera da letto. Premette per l'ultima volta il pulsante del telecomando, che poi lasciò cadere sulla poltrona mentre lo sportello si ri¬chiudeva.
Il suo sguardo andò alla finestra. Aveva previsto l'eventualità di servirsene come via di fuga alternativa e nella borsa aveva portato una matassa di trenta metri di resistentissima fune di nylon, lungo la quale aveva stretto un nodo a intervalli di quin¬dici centimetri.
Si tenne a debita distanza dal cadavere, attento a non pestare nessuna delle macchie rosse la cui posizione aveva memorizza¬to. Lanciò una sola occhiata al corpo di Christine Sullivan. Im¬possibile riportarla in vita. Ora il suo problema era conservare la propria.
Si avvicinò al comodino e vi infilò dietro la mano.
Con la punta delle dita trovò la busta di plastica. Urtando il mobile, il Presidente aveva rovesciato la borsetta di Gloria Russell e la busta di plastica e l'oggetto di immenso valore che con¬teneva erano scivolati dietro il comodino.
Luther tastò la lama del tagliacarte attraverso la plastica pri¬ma di riporre la busta nella sua sacca. Poi raggiunse velocemen¬te la finestra e spiò fuori. La limousine e il furgone erano anco¬ra al loro posto. Brutto segno.
Riattraversò la stanza, estrasse la matassa della fune, ne legò un'estremità a una gamba della massiccia cassettiera e la sro¬tolò procedendo in direzione dell'altra finestra, dalla quale si sarebbe calato sul lato opposto della villa, quello nascosto dalla strada. Aprì la finestra lentamente, pregando che i binari fosse¬ro ben lubrificati, e venne esaudito.
Lasciò cadere la fune all'esterno e la guardò srotolarsi lungo la superficie di mattoni.
Gloria Russell contemplò la facciata imponente. Lì dietro c'erano soldi nel senso più concreto del termine, soldi e una posizione sociale che Christine Sullivan non meritava. Se li era conquistati con le tette, un modo sapiente di sculettare e una pittoresca volgarità nel parlare che aveva misteriosamente ispi¬rato il vecchio Walter Sullivan, risvegliando in lui emozioni ri¬maste sepolte nelle involuzioni di una personalità complicata. Di lì a sei mesi lui non avrebbe più sentito la sua mancanza, e il suo mondo di ultraconsolidati poteri e ricchezza avrebbe continuato per la sua strada.
Poi le venne un colpo.
Aveva già riaperto lo sportello della limousine, che Collin la trattenne per un braccio. Le mostrò la borsetta di pelle che lei aveva comperato per cento dollari a Georgetown ma che ora aveva un valore incalcolabile. La Russell tornò ad appoggiarsi allo schienale e riprese fiato. Sorrise a Collin, quasi arrossendo.
Il Presidente, in uno stato quasi catatonico, non si accorse di nulla.
Poi la Russell guardò nella borsetta, tanto per sicurezza, e re¬stò a bocca aperta. Frugò freneticamente nei pochi effetti perso¬nali. Dovette fare appello a tutta la sua forza di volontà per non mettersi a strillare come un'indemoniata. Alzò occhi dilatati dall'orrore sul giovane agente dei servizi segreti. Il tagliacarte non c'era. Doveva essere rimasto in casa.
Collin risalì precipitosamente le scale, inseguito da un Burton più confuso che mai.
Luther era a metà del muro esterno quando li udì arrivare.
Ancora tre metri.
Fecero irruzione in camera da letto.
Due metri.
Giusto un attimo di sbigottimento quando i due agenti vide¬ro la fune, e Burton si era già tuffato verso la finestra.
Un metro ancora e Luther mollò la presa, cadendo pesante¬mente sul terreno.
Burton si affacciò. Collin spostò il comodino con un calcio: niente. Raggiunse Burton alla finestra. Luther era già scompar¬so dietro l'angolo. Burton fece per calarsi a sua volta, ma Collin lo fermò. Avrebbero fatto più in fretta ridiscendendo le scale.
Si catapultarono fuori dalla porta.
Luther arrancava tra i filari di granoturco senza più preoccupar¬si delle tracce che lasciava dietro di sé, guidato solo dall'istinto di sopravvivenza. La sacca lo rallentava un po', ma aveva faticato troppo in quegli ultimi mesi per accontentarsi di andarsene a ma¬ni vuote.
Sbucò con l'impeto di un'esplosione dalla copertura dei fusti e dovette affrontare il tratto più pericoloso della sua fuga: cento metri allo scoperto. Ma la luna era scomparsa dietro una coltre di nuvole e non c'erano lampioni in campagna. Vestito di nero com'era, sarebbe stato quasi impossibile avvistarlo. Tuttavia, al buio l'occhio umano individua più facilmente i movimenti, e lui si stava muovendo più veloce che poteva.
I due agenti si fermarono per un momento al furgone. Quando ripartirono di corsa, si era aggiunto anche l'agente Varney.
Gloria Russell abbassò il finestrino e li guardò scomparire, sbi¬gottita. Persino il Presidente si era rianimato un po', ma lei si af¬frettò a calmarlo, aiutandolo a scivolare di nuovo nel suo torpore.
Collin e Burton inforcarono gli occhiali a raggi infrarossi e la loro visuale si trasformò all'istante in una sorta di videogame. Le fonti di calore apparivano in gradazioni di rosso, in un ri¬quadro che per il resto era color verde scuro.
L'agente Travis Varney, alto e allampanato e solo vagamente conscio di quello che stava succedendo, li precedeva. Correva con le movenze naturali del mezzofondista che era stato ai tem¬pi del college.
Da tre anni nei servizi segreti, Varney era scapolo, completa¬mente dedito alla professione, e vedeva in Burton una figura paterna sostitutiva del genitore rimasto ucciso in Vietnam. Sta¬vano cercando qualcuno che aveva fatto qualcosa in quella ca¬sa. Qualcosa che riguardava il Presidente e pertanto riguardava anche lui. Poteva solo provare pietà per la persona a cui stava dando la caccia, se l'avesse scovata.
Luther sentiva i rumori degli uomini che lo braccavano. Si era¬no riavuti più velocemente di quanto avesse sperato. Il suo van¬taggio andava diminuendo, ma forse sarebbe bastato lo stesso. Avevano commesso un grave errore a non usare il furgone per rincorrerlo. Dovevano pur aver considerato che avesse un qual¬che mezzo di trasporto, ed era improbabile che fosse arrivato in elicottero. Ma Luther fu loro riconoscente che non fossero così smaliziati come avrebbero dovuto, altrimenti difficilmente avrebbe visto sorgere il sole dell'indomani.
Nel bosco, prese una scorciatoia che aveva scorto durante il suo ultimo sopralluogo. Gli fruttò un minuto buono. Respirava in rantoli serrati, come una scarica di mitragliatrice. Gli abiti gli pesavano addosso come piombo; gli sembrava che le gambe si muovessero al rallentatore, come nell'incubo di un bambino.
Finalmente uscì dagli alberi, vide l'automobile e ringraziò se stesso di aver preventivamente fatto manovra.
Cento metri dietro di lui, una fonte di calore diversa da Varney apparve infine nei visori di Burton e Collin. Un uomo in corsa, a gambe levate. Entrambi portarono la mano alla fondina ascel¬lare. A una distanza come quella le loro pistole sarebbero servi¬te a poco, ma non era il momento di preoccuparsene.
Al rombo di un motore che veniva avviato, Burton e Collin moltiplicarono l'impeto della loro furia come se fossero sospin¬ti da un ciclone.
Varney era ancora davanti a loro, spostato sulla sinistra. Si sarebbe trovato in una posizione più vantaggiosa per fare fuo¬co, ma avrebbe sparato? Qualcosa diceva ai suoi compagni che non lo avrebbe fatto: non rientrava nel suo addestramento fare fuoco contro una persona in fuga che non rappresentava una minaccia immediata all'uomo che aveva giurato di proteggere. Comunque Varney non poteva sapere che in gioco c'era qualco¬sa di più della vita di una persona, che un'intera istituzione non sarebbe più stata la stessa, per non parlare di due agenti dei ser¬vizi segreti assolutamente certi di non aver fatto niente di male, ma abbastanza intelligenti da capire che sarebbero stati schiac¬ciati sotto il peso di una responsabilità tremenda.
Spronato da queste riflessioni, Burton, che non era mai stato un granché come podista, riuscì ad accelerare, costringendo il più giovane Collin ad arrancare per stargli dietro. Ma era trop¬po tardi, e Burton lo sapeva. Cominciò a rallentare prima anco¬ra che la macchina schizzasse via con la furia di una tigre asse¬tata di sangue. In pochi istanti era già a duecento metri giù per la strada.
Burton si fermò, si abbassò su un ginocchio e puntò la pisto¬la, ma riuscì solo a vedere il polverone sollevato dal veicolo in fuga. Poi scomparvero anche i fanalini di coda e il bersaglio svanì del tutto.
Burton si girò verso Collin, fermo vicino a lui a guardarlo dall'alto. Solo allora cominciò a delinearsi nella sua mente il senso di quanto era avvenuto negli ultimi minuti. Si rialzò len¬tamente, riponendo la pistola. Si tolse gli occhiali. Collin fece lo stesso.
Si guardarono.
Burton risucchiò aria nei polmoni. Gli tremavano le gambe e le braccia. Il suo corpo stava infine reagendo allo sforzo appena sostenuto, ora che aveva smesso di scorrergli adrenalina nelle vene. Era davvero tutto finito?
Arrivò Varney al trotto. Burton non era così stanco da non notare con una punta di invidia e una certa misura di orgoglio che il giovane agente non aveva nemmeno il fiato corto. Si sarebbe impegnato perché Varney e Johnson non avessero a pati¬re con loro le conseguenze dell'accaduto. Non se lo meritavano.
I responsabili sarebbero stati lui e Collin, e nessun altro. Gli dispiaceva sinceramente per Collin, ma non vedeva alternative. Poi Varney parlò e le previsioni per il futuro passarono dal buio più totale a un baluginio di speranza.
— Ho preso il numero di targa, capo.
— Dove diavolo era? — Gloria Russell si guardava intorno in¬credula, ferma al centro della camera da letto. — Dove? Era sotto il letto, maledizione?
Cercò di fulminare Burton con lo sguardo. L'intruso non era rimasto nascosto sotto il letto, né in alcuno dei guardaroba. Burton aveva esaminato ogni angolo della stanza quando l'ave¬va "sterilizzata", e lo ribadì alla Russell con fermezza.
Burton osservò di nuovo la fune e poi la finestra aperta. — Ge¬sù, neanche ci avesse guardati dall'inizio alla fine. Sapeva esatta¬mente quando era venuto il momento buono per battersela. — Si guardò intorno, quasi temendo che potessero esserci altri spioni. Il suo sguardo sostò sullo specchio, si spostò, si fermò e tornò in¬dietro.
Abbassò gli occhi sulla moquette davanti allo specchio.
Aveva passato e ripassato l'aspirapolvere in quel punto fino a renderlo perfettamente uniforme. La moquette, il cui pelo era co¬munque folto e di prima qualità, era cresciuto di almeno mezzo centimetro se non più, a forza di spazzolarlo. E nessuno ci era più camminato sopra da quando erano rientrati nella stanza.
Eppure adesso, chinandosi, scorgeva tracce confuse di orme. Non le aveva notate subito perché ora tutto quel tratto di mo¬quette era schiacciato, come sotto la pressione di un oggetto in movimento... Si infilò i guanti, corse allo specchio e cominciò a ti¬rare e tastare tutt'intorno. Gridò a Collin di trovargli degli utensi¬li, mentre la Russell lo guardava sconcertata.
Burton inserì il piede di porco più o meno a metà larghezza sotto il bordo dello specchio e spinse con tutte le forze, aiutato da Collin. La serratura non era molto resistente, poiché la con¬cezione della cassaforte si basava soprattutto sul trucco dello specchio.
Si udì uno scricchiolio, poi un rumore di strappo e uno schiocco e lo sportello si aprì.
Burton entrò di slancio, subito seguito da Collin. Sulla parete c'era un interruttore. Accesa la luce, gli uomini si guardarono intorno.
La Russell sbirciò all'interno e vide la poltrona. Quando si girò, il suo sguardo si paralizzò sul lato interno della porta a specchio. Vedeva perfettamente il letto. Il letto dove solo poco prima... Si massaggiò le tempie per arrestare un'improvvisa fit¬ta di dolore che le attraversò il cranio.
Un falso specchio.
Tornò a girarsi e si trovò con gli occhi in quelli di Burton, che a sua volta stava guardando attraverso lo specchio. La sua bat¬tuta con la quale aveva accennato alla sensazione che qualcuno li avesse spiati si era rivelata profetica.
Rivolse alla Russell una smorfia di impotenza. — Dev'essere stato lì fin da prima. Tutto quel dannato tempo. Roba da mat¬ti. — Guardò gli scaffali vuoti dentro la cassaforte. — Deve aver portato via della roba. Probabilmente denaro contante e titoli al portatore.
— E chi se ne frega! — esplose la Russell, puntando il dito al¬lo specchio. — Quell'uomo ha visto e sentito tutto e voi ve lo siete lasciati scappare!
— Abbiamo il numero di targa. — Collin sperava di guada¬gnarsi un altro sorriso. Ma non gli riuscì.
— E allora? Pensate forse che se ne starà buono a casa sua ad aspettare che andiamo a bussare alla sua porta?
La Russell si sedette sul letto. Lasciò passare una momenta¬nea vertigine. Se lo sconosciuto era rimasto per tutto il tempo nascosto là dietro, aveva visto tutto. Scosse la testa. Una situa¬zione brutta, peraltro controllabile, si era improvvisamente tra¬sformata in un disastro incomprensibile e totalmente fuori del suo controllo. Soprattutto in considerazione di quanto le aveva riferito Collin quando erano entrati in camera da letto.
Quel figlio di puttana aveva preso il tagliacarte! Impronte, sangue, una pista larga come un'autostrada che portava dritto alla Casa Bianca.
Ripensò a poco prima, quando era salita a cavalcioni del Pre¬sidente, e con un moto istintivo si strinse la giacca intorno al corpo. A un tratto le aveva preso il voltastomaco. Si aggrappò a uno dei montanti del letto.
Collin uscì dalla cassaforte. — Non dimentichiamo che non è che stesse facendo qualcosa di molto lecito, nascosto qui den¬tro — commentò. — Può finire in un guaio colossale se va alla polizia. — Era una riflessione a cui era giunto mentre esamina¬va il vano segreto.
Avrebbe fatto meglio a pensare di più.
La Russell dominava a fatica il forte senso di vomito. — Non ha bisogno di esporsi per trarre profitto da quello che sa, Col¬lin. Ha mai sentito parlare del telefono, dannazione? Probabil¬mente sta chiamando il Washington Post in questo preciso istante. Maledizione! Poi toccherà ai giornali scandalistici e pri¬ma della fine della settimana lo vedremo in televisione, ripreso con i lineamenti sfocati su qualche piccola isola dove sarà anda¬to a vivere il resto dei suoi giorni felice e contento. E ricco. Poi arriverà il libro e per finire un bel film. Merda!
Immaginò un certo pacchetto che arrivava alla sede del Post o al J. Edgar Hoover Building o all'ufficio del procuratore gene¬rale degli Stati Uniti o a quello del capogruppo di minoranza al Senato, tutte possibili destinazioni che promettevano il massi¬mo danno politico, per non parlare delle ripercussioni di carat¬tere legale.
Nel biglietto d'accompagnamento ci sarebbe stato il gentile invito a confrontare le impronte e il sangue con quelli del Presi¬dente degli Stati Uniti. L'avrebbero preso come uno scherzo, ma avrebbero controllato lo stesso. Certo che lo avrebbero fatto. Le impronte digitali di Richmond erano a disposizione. Il Dna sarebbe stato il medesimo. Poi avrebbero trovato il corpo della donna, avrebbero esaminato il suo sangue e tutti loro sarebbero stati schiacciati da una montagna di domande alle quali non avrebbero saputo dare risposta.
Erano morti, tutti morti. E quel bastardo se n'era stato sedu¬to là dietro ad aspettare il suo momento senza sapere che stava per fare il colpo della sua vita. Ben altro che un miserevole pu¬gno di dollari. No, avrebbe abbattuto nientemeno che un Presi¬dente degli Stati Uniti. Lo avrebbe disintegrato aldilà di ogni possibilità di redenzione. Quante volte era dato a un comune mortale di arrivare a tanto? Bernstein e Woodward erano diventati superuomini. Ma il Watergate era una bazzecola in con¬fronto.
La Russell raggiunse il bagno appena in tempo. Burton os¬servò il cadavere, poi alzò gli occhi su Collin. Non dissero niente. Entrambi ascoltavano l'accelerare improvviso del proprio batti¬to cardiaco via via che l'enormità della situazione calava su di lo¬ro come una pietra tombale. Non riuscendo a pensare a cos'altro fare, riposero diligentemente le attrezzature, mentre la Russell si svuotava lo stomaco. In meno di un'ora erano ripartiti.
La porta si richiuse silenziosa alle sue spalle.
Luther calcolava di avere a disposizione un paio di giorni al massimo, forse meno. Arrischiò ad accendere una luce ed esa¬minò rapidamente il soggiorno con lo sguardo.
La sua vita era passata da una quasi normalità, se così la si voleva chiamare, alle tinte fosche di un film dell'orrore.
Si tolse lo zaino, spense la luce e si avvicinò alla finestra.
Niente, tutto tranquillo. Fuggire da quella casa era stata l'espe¬rienza più terrificante della sua vita, peggio che essere attaccato da nordcoreani urlanti. Gli tremavano ancora le mani. Durante tutto il tragitto era stato come se i fanali di tutti i veicoli che incro¬ciava gli si piantassero in faccia cercando di strappargli il suo col¬pevole segreto. Due volte lo avevano sorpassato automobili della polizia, facendogli sprizzare il sudore dalla fronte e bloccandogli la respirazione.
L'automobile era tornata al parcheggio di veicoli confiscati da cui l'aveva presa "in prestito". La targa non li avrebbe por¬tati da nessuna parte, ma avrebbero potuto trovare altre vie per risalire fino a lui.
Dubitava che fossero riusciti a vederlo bene. Anche in quel caso, potevano essersi fatta solo un'idea generica di statura e corporatura. Età, razza e fisionomia erano ancora un mistero per loro, e senza quei punti di riferimento indispensabili sareb¬bero rimasti a brancolare nel buio. Avendo poi corso come un indemoniato, Luther aveva probabilmente dato l'impressione di essere molto più giovane. Restava un solo problema da risolve¬re, e su quello aveva meditato mentre tornava a casa. Per ora si affrettò a infilare in due borsoni tutto quello che gli riuscì degli ultimi trent'anni della sua vita; in quell'abitazione non avrebbe fatto più ritorno.
L'indomani mattina avrebbe chiuso i conti bancari; calcolava di mettere assieme abbastanza da poter raggiungere una loca¬lità molto, molto lontana. Aveva corso i suoi bravi rischi, nella sua lunga vita, forse anche più spesso di quanto avrebbe dovu¬to. Ma se si trattava di scegliere tra mettersi contro il Presidente degli Stati Uniti e scomparire, la decisione era bell'e che presa.
Il bottino di quella sera era al sicuro. Tre mesi di lavoro per un colpo le cui conseguenze avrebbero potuto costargli la vita. Chiuse la porta a chiave e scomparve nella notte.
La camera da letto padronale si trovava al secondo piano, raggiungibile da un ascensore in fondo al corridoio di destra, ma Luther preferì usare le scale: meno si affidava a congegni di cui non aveva il controllo assoluto, meglio era. Trovarsi blocca¬to per settimane in una cabina d'ascensore non rientrava nel programma.
Guardò il rivelatore all'angolo del soffitto, ora felicemente ad¬dormentato con la sua bocca rettangolare che quasi sembrava at¬teggiata a un sorriso, quindi salì le scale.
La porta della camera da letto non era chiusa a chiave. Mise subito in funzione la sua lampada da lavoro anabbagliante, a bassa potenza, e si concesse qualche attimo per guardarsi attor¬no. L'oscurità era rotta dal riverbero verde di un secondo pan¬nello di controllo, montato accanto alla porta.
La villa era di recente costruzione, Luther aveva controllato in tribunale ed era persino riuscito ad avere accesso a una serie di planimetrie presso l'ufficio di pianificazione urbanistica; le dimensioni non comuni avevano infatti richiesto un'autorizza¬zione speciale da parte delle autorità locali, come se queste avessero mai potuto ostacolare i cittadini benestanti nella rea¬lizzazione dei loro desideri.
Luther non aveva riscontrato sorprese. Era una costruzione grande e solida, che valeva fino all'ultimo centesimo i milioni di dollari pagati in contanti dal suo proprietario.
In verità, Luther l'aveva già visitata una volta, in pieno gior¬no, in mezzo ad altre persone. Si era trovato proprio in quella stanza e aveva visto quello che doveva vedere. Era il motivo per cui si trovava lì adesso.
Sovrastato da una modanatura ornamentale di quindici centimetri, si chinò presso il gigantesco letto a baldacchino. Di fianco al letto c'era un comodino. Sul comodino un piccolo orologio d'argento, il più recente bestseller sentimentale e un tagliacarte d'antiquariato, argentato e con una grossa impugna¬tura rivestita in pelle.
Tutto era grandioso, tutto costoso. C'erano tre guardaroba dietro altrettante porte, ciascuno grande quanto il soggiorno di Luther. Due contenevano effetti femminili, indumenti, scarpe, borsette e tutti gli altri accessori per i quali si voglia razional¬mente o irrazionalmente spendere denaro. Luther osservò le fo¬tografie incorniciate sul comodino e considerò con una punta di riprovazione i poco più di vent'anni della "piccola donna" con¬fronto ai settanta suonati del marito.
C'erano molti tipi di lotterie al mondo, e non tutte statali.
Alcune delle fotografie mettevano nel massimo risalto le mi¬sure della padrona di casa, e un rapido esame del guardaroba rivelò che i suoi gusti nel vestire volgevano decisamente al pac¬chiano.
Luther alzò gli occhi sullo specchio a figura intera e ne stu¬diò la sontuosa cornice intagliata. Poi ne esaminò i lati. Era massiccio, elegante, e dava l'impressione di essere incassato nel muro, ma lui sapeva dei cardini accuratamente nascosti nella nicchia retrostante, a una spanna dal lato superiore e da quello inferiore.
Tornò a osservare la superficie riflettente. Luther aveva il vantaggio di essersi imbattuto in un oggetto simile un paio di anni prima, sebbene non avesse in programma di forzarlo. Ma non si ignora un secondo uovo d'oro solo perché si è già messo al sicuro il primo, così l'aveva forzato e gli aveva fruttato cin¬quantamila dollari. Dietro quest'altro specchio calcolava di tro¬vare un tesoro dieci volte superiore.
Ricorrendo all'uso di un piede di porco Luther avrebbe potu¬to forzare senza problemi la serratura nascosta nella cornice dello specchio, ma avrebbe sprecato tempo prezioso. E, soprat¬tutto, avrebbe lasciato sul posto segni evidenti dello scasso. Sebbene fosse previsto che la villa sarebbe rimasta vuota per al¬cune settimane ancora, non si poteva mai dire. No, quando se ne sarebbe andato non sarebbe rimasta alcuna traccia del suo passaggio, anche se i proprietari, al loro rientro, avrebbero potuto lasciar passare un po' di tempo prima di controllare la cassaforte. In ogni caso, Luther non era costretto a ricorrere alle maniere forti.
Si avvicinò al televisore con megaschermo situato nella parte dell'ampia camera allestita a salotto, con poltrone gemelle rico¬perte in cintz e uno spazioso tavolo basso. Osservò i tre teleco¬mandi. Uno era quello della TV, uno era per il videoregistratore e il terzo era quello che avrebbe ridotto del novanta per cento le sue fatiche notturne. Tutti portavano il nome del rispettivo pro¬duttore e a guardarli superficialmente sembravano uguali, ma un rapido esperimento dimostrò che solo due azionavano gli elettrodomestici corrispondenti e uno no.
Tornò dall'altra parte della stanza, puntò il telecomando verso lo specchio e premette il pulsante rosso situato più in basso. Nor¬malmente avrebbe avviato la registrazione di un nastro, invece quella sera, in quella stanza, stava aprendo la banca di casa per metterla a disposizione del suo unico, fortunato cliente.
Luther osservò lo sportello che si apriva dolcemente e silen¬ziosamente sui cardini in lega, che non avevano bisogno di ma¬nutenzione. Per abitudine ormai consolidata, ripose il teleco¬mando esattamente dove l'aveva trovato, quindi prese dallo zaino una sacca ripiegata ed entrò nel forziere.
Alla luce della torcia, osservò stupito la poltrona al centro di un vano di circa due metri per due. Su un bracciolo c'era un te¬lecomando identico a quello che aveva appena usato, evidente¬mente una precauzione nel caso di rimanere chiusi lì dentro per sbaglio. Poi il suo sguardo si spostò sugli scaffali.
Per prima cosa fece razzia del denaro contante, ordinatamen¬te suddiviso in mazzette, quindi toccò ad alcuni particolari astucci che non custodivano affatto gioielli. Luther contò obbligazioni e altri titoli negoziabili per un valore di circa duecento¬mila dollari. Poi due piccole scatole di monete antiche e un'al¬tra di francobolli, tra i quali uno con l'immagine capovolta che lo fece deglutire a vuoto. Esclusi i documenti legali e le azioni nominali, che per lui non avevano alcun valore, la sua rapida stima si fermò intorno ai due milioni di dollari.
Si guardò intorno ancora una volta, attento a non tralasciare dal suo inventario nemmeno il più remoto angolino. Le pareti erano spesse e dovevano essere a prova di incendio, secondo le più avanzate tecniche di costruzione. La stanzetta blindata non era tuttavia ermetica, perché l'aria era fresca. Ci si sarebbe po¬tuti trattenere per giorni.
La limousine procedeva ad andatura sostenuta seguita dal fur¬gone. Entrambi i conducenti erano abbastanza esperti da guida¬re a quella velocità senza bisogno della luce dei fanali.
Nello spazioso abitacolo posteriore della limousine viaggia¬vano un uomo e due donne, una delle quali, quasi del tutto ubriaca, si adoperava come meglio riusciva per spogliare se stessa e il passeggero, eludendo i pacati sforzi difensivi della sua vittima.
L'altra donna, seduta in faccia a loro, mostrava di ignorare quel ridicolo spettacolo sottolineato da risolini infantili e un grande ansimare, ma in realtà seguiva fin nei particolari i con¬torcimenti della coppia. Apparentemente il suo sguardo era po¬sato sulla grande agenda che teneva aperta sulle ginocchia e sulla quale appunti e appuntamenti si rubavano spazio per cer¬care l'attenzione dell'uomo che le sedeva di fronte, e che in quel momento, approfittando della tregua concessagli dalla sua compagna per sfilarsi le scarpe con i tacchi a spillo, si stava versando di nuovo da bere. La sua resistenza era straordinaria: era in grado di bere il doppio di quanto già aveva consumato in quella sera senza lasciar poi trasparire alcun segno esteriore, nessun incespicamento nel parlare o impedimento nelle funzio¬ni motorie, che sarebbero stati fatali in una persona nella sua posizione.
Lei non poteva fare a meno di ammirarlo, capace com'era di coniugare le sue ossessioni e gli aspetti più rudi del suo caratte¬re con un'immagine esteriore di purezza, forza, normalità e, contemporaneamente, grandezza. Non c'era donna in America che non fosse innamorata di lui, giovane, di mezza età o anzia¬na; affascinata dalla virilità classica della sua bellezza, dalla sensazione di immensa sicurezza che trasmetteva e anche da ciò che rappresentava per tutte loro. E lui aveva ripagato tanta am¬mirazione con una passione che, sebbene mal riposta, l'aveva sbalordita.
Purtroppo tanta generosità non aveva mai trovato la strada per arrivare a lei, a dispetto dei suoi mirati sottintesi, dei con¬tatti fisici prolungati un attimo di troppo, degli stratagemmi con cui faceva in modo di incontrarlo già nelle prime ore del mattino quando era in grado di presentare il meglio di sé, delle allusioni erotiche che insinuava nel corso delle loro riunioni strategiche. Ma finché non fosse arrivato quel momento, un momento che lei sapeva sarebbe sicuramente arrivato, avrebbe seguitato a coltivare la virtù della pazienza.
Guardò dal finestrino. Stava andando per le lunghe, stravolge¬va l'ordine prestabilito delle cose. Fece una smorfia di disgusto.
Luther udì i veicoli che imboccavano il viale d'accesso.
Strisciò verso la finestra e seguì la direzione dei veicoli che gi¬ravano l'angolo della villa per portarsi dove non sarebbero stati visibili dal viale d'accesso. Contò quattro persone che scende¬vano dalla limousine, e una dal furgone. Rifletté rapidamente su chi potessero essere. Troppo pochi perché fossero i proprietari; troppi perché fossero venuti solo per un controllo. Non riusciva a distinguere in faccia nessuno di loro. Per un momen¬to si domandò se l'ironia della sorte avesse voluto che la villa fosse svaligiata due volte nella stessa notte, ma la coincidenza era troppo clamorosa. Nel suo, come in molti altri lavori, le percentuali giocavano un ruolo essenziale e in ogni caso non era verosimile che dei criminali si recassero vestiti da sera in corteo sul luogo dove effettuare il colpo.
Meditò alacremente ascoltando i rumori che gli giungevano presumibilmente dal retro della villa. Impiegò non più di un se¬condo per stabilire che la via della ritirata gli era preclusa e per determinare quali contromisure prendere.
Afferrò la borsa e attivò il sistema di sicurezza dal pannello della camera da letto, benedicendo la buona memoria che gli aveva fatto ricordare con precisione la sequenza dei numeri. Quindi tornò rapido nella cassaforte, chiudendosi accurata¬mente la porta alle spalle. Andò a rannicchiarsi nell'angolo più lontano e si rassegnò ad aspettare.
Imprecò contro la sfortuna, dopo che tutto era proceduto co¬sì bene. Poi scrollò con forza la testa per riprendersi dal malu¬more e si costrinse a respirare con regolarità. Era come volare, più a lungo lo facevi, più crescevano le probabilità che qualcosa andasse storto. Non avrebbe potuto fare altro che aspettare, e sperare che nessuno dei nuovi arrivati avesse necessità di effet¬tuare un deposito nella banca privata che lo stava attualmente ospitando.
Ci furono uno scoppio di risa e poi un sordo rimbombo di voci trafitto dallo stridulo ronzio del sistema d'allarme, che ri¬suonò come il sibilo di un jet che gli passasse sopra la testa: do¬vevano aver fatto qualche confusione con il codice d'accesso. Mentre gli si imperlava la fronte di sudore, Luther visse un atti¬mo di profondo turbamento al pensiero che partisse l'allarme, facendo accorrere i poliziotti che avrebbero preteso di esamina¬re ogni centimetro della villa, a partire da quella piccola tana.
Si chiese come avrebbe reagito sentendo lo specchio ruotare sui cardini, colpito dalla luce che lo abbagliava senza la minima possibilità di mancarlo. Poi i volti sconosciuti che guardavano dentro, le pistole spianate, la lettura dei suoi diritti. Gli venne quasi da ridere. Intrappolato come un topo, senza scampo. Era¬no quasi trent'anni che non fumava, ma mai come in quel mo¬mento provò il bisogno di una sigaretta. Posò silenziosamente la borsa e si sedette per terra allungando adagio le gambe in maniera che non gli si addormentassero.
Passi pesanti sulla scala di quercia. Chiunque fossero, non si preoccupavano che qualcuno sapesse della loro presenza lì, la qual cosa poteva essere giudicata allo stesso modo un bene o un male. Quattro persone di certo, forse cinque. Svoltarono a sini¬stra e procedettero dalla sua parte.
La porta della camera da letto si aprì con un cigolio sommes¬so. Luther ricostruì mentalmente i propri movimenti. Tutto era stato rimesso a posto. Aveva toccato solo il telecomando, che aveva ricollocato esattamente sul rettangolo privo di polvere. Ora distingueva solo tre voci, una maschile e due femminili. Una delle donne doveva aver bevuto troppo, l'altra era tutta ef¬ficienza. Poco dopo la signora Efficienza tolse il disturbo, la porta fu richiusa, ma non a chiave, e l'uomo restò solo in com¬pagnia della signora Gluglu. Dov'erano finiti gli altri? Dov'era andata la signora Efficienza? Continuavano a giungergli risoli¬ni. Passi che si avvicinavano allo specchio. Si fece più piccolo che poté nel suo angolo, nella speranza che la poltrona gli facesse da scudo, ben sapendo di non poter in alcun modo ren¬dersi invisibile.
Poi un'esplosione di luce lo accecò momentaneamente ed egli trasalì per il folgorante trasformarsi del suo piccolo mondo da nero come l'inchiostro a fulgido come un mezzogiorno in pieno sole. Batté rapidamente le palpebre per abituare gli occhi alla nuova intensità della luce e le sue pupille passarono in pochi se¬condi dalla dilatazione massima al minimo diaframma. Ma non ci fu nessun grido, nessun volto, nessuna pistola.
Lasciò trascorrere un intero minuto, poi sbirciò da dietro la poltrona e fu un secondo trauma: la porta della cassaforte era scomparsa ed egli stava guardando direttamente nella camera da letto. Per poco non cadde all'indietro, mentre tutt'a un trat¬to capiva la funzione della poltrona.
Riconobbe entrambe le persone che si trovavano in camera da letto: aveva già visto la donna quella stessa sera in fotogra¬fia, era la mogliettina con gusti da prostituta nel vestire.
Conosceva invece l'uomo per un motivo completamente di¬verso: senza dubbio non era il padrone di quella casa. Scosse lentamente la testa per lo stupore, emettendo il fiato che aveva trattenuto. Un tremito gli colse le mani e dovette resistere a un conato di vomito mentre osservava la scena.
Il dorso dello specchio che nascondeva l'accesso alla cas¬saforte era trasparente, e con la luce accesa all'esterno e l'oscu¬rità nel piccolo ambiente era come trovarsi davanti a un gigan¬tesco schermo televisivo.
Poi la vide e per un istante gli si serrò la gola: la collana di diamanti della donna. Il suo occhio esperto la valutò a un mini¬mo di duecentomila dollari, giusto la sorta di ninnolo che d'abi¬tudine si riporrebbe nella cassaforte di casa prima di andare a coricarsi. I suoi polmoni ripresero la loro funzionalità solo quando la vide togliersi il gioiello e abbandonarlo con noncu¬ranza sul pavimento.
Tranquillizzatosi, Luther si rialzò e si accomodò lentamente in poltrona. Dunque era da lì che il vecchio spiava la sua donni¬na che si faceva sbattere da una processione di giovani stalloni, magari impiegati al salario minimo o aggrappati alla libertà tra¬mite il fragile appiglio di un permesso di soggiorno. Ma questa notte l'ospite era di ben altra classe.
Si guardò intorno, tese l'orecchio per catturare i rumori degli altri della comitiva, ma che cosa avrebbe potuto mai fare? In più di trent'anni di attività ladresca, non gli era mai capitato niente di simile, perciò decise di fare l'unica cosa che poteva. Con non più di un paio di centimetri di vetro a separarlo dalla totale rovina, sprofondò un po' di più nella morbida pelle della poltrona e attese.
2
A tre isolati dalla mole bianca del Campidoglio, Jack Graham aprì la porta di casa, lasciò cadere il soprabito per terra e andò dritto al frigorifero. Con la lattina di birra in mano, si buttò sul vecchio divano in soggiorno. Bevve un sorso contemplando con un'occhiata l'ambiente angusto. Una bella differenza con il po¬sto che aveva appena lasciato. Trattenne la birra in bocca per qualche istante, prima di inghiottirla. Gli si contrassero breve-mente i muscoli della mascella squadrata, quindi si rilasciaro¬no. Il tarlo del dubbio smise a poco a poco di tormentarlo, ma avrebbe ricominciato a farsi sentire, come sempre.
Un altro pranzo importante con Jennifer, la sua promessa sposa, i genitori di lei e una rappresentanza della loro cerchia di conoscenze mondane e di lavoro. Evidentemente la gente a quel livello non frequentava semplici amici, tutti servivano a una funzione precisa e l'insieme dava un valore superiore alla som¬ma delle parti. Quanto meno, tale era l'intento, che non coinci¬deva necessariamente con l'opinione di Jack in proposito.
Industria e finanza erano ben rappresentate da nomi di cui Jack leggeva sul Wall Street Journal prima di immergersi nella pagina sportiva per sapere come stavano andando gli 'Skins o i Bullets. Poi c'erano i politici, schierati in forze a rastrellare voti futuri e dollari attuali. Il gruppo era completato dagli onnipre¬senti avvocati, fra i quali lui stesso, il luminare medico di turno in onore della tradizione, e un paio di esponenti di categorie so¬ciali di pubblico interesse, a dimostrare la solidarietà delle per-sone di potere con i cittadini comuni.
Jack finì la birra e accese la TV. Si tolse le scarpe, e le calze a rombi da quaranta dollari che gli aveva regalato la fidanzata fi¬nirono senza cerimonie appese al paralume. A darle corda, pre¬sto o tardi l'avrebbe ridotto in un paio di bretelle da duecento dollari con abbinata cravatta dipinta a mano. Merda! Si sfregò le dita dei piedi e considerò seriamente una seconda birra. La TV non riusciva a catturare il suo interesse. Si ravviò una folta ciocca di capelli bruni che gli era caduta sugli occhi e si concen-trò per l'ennesima volta su dove fosse stata catapultata la sua vita, a una velocità che non gli sembrava molto diversa da quel¬la di una navetta spaziale.
Era venuta la limousine aziendale ad accompagnare lui e Jennifer Baldwin a casa di lei, nella zona nordovest di Washington, dove con tutta probabilità si sarebbe trasferito dopo le nozze: lei detestava l'abitazione di lui. Mancavano sei mesi alle nozze, ovvero un batter d'occhi, secondo il punto di vista di una sposa, e lui se ne stava seduto lì in preda a seri ripensamenti.
Jennifer Ryce Baldwin era dotata di una bellezza folgorante, tale da far girare la testa tanto alle donne quanto agli uomini. Era anche intelligente e raffinata, il patrimonio familiare che aveva alle spalle era di quelli che contano e si era messa in testa di sposare Jack. Suo padre era a capo di una delle più grandi so¬cietà immobiliari della nazione, con interessi un po' dappertut¬to distribuiti con successo in centri commerciali, palazzi per uf-fici, emittenti radiofoniche, quartieri residenziali. Il bisnonno paterno era stato uno dei primi magnati industriali del Midwest e sua madre proveniva da una famiglia che un tempo era stata proprietaria di una notevole fetta del centro di Boston. Gli dei avevano sorriso precocemente e spesso a Jennifer Baldwin. Fra gli amici e i conoscenti di Jack, non ce n'era uno che non lo in¬vidiasse a morte.
Cambiò posizione e prese a massaggiarsi una spalla, cercando di sciogliere un inizio di crampo. Non faceva ginnastica da una settimana. Anche a trentadue anni il suo fisico, per una statura di quasi un metro e novanta, conservava la solidità che gli aveva fatto da dote durante tutto il liceo, quando era già un uomo in mezzo ai ragazzi in quasi tutti gli sport praticati, e al college, do¬ve in condizioni di competizione molto più dure era ugualmente riuscito a emergere come lottatore nella categoria dei massimi, guadagnandosi un posto in prima squadra negli All-Academic. Quei successi gli avevano aperto le porte della scuola di legge all'università della Virginia, dove si era laureato fra i primi del suo corso e da dove era passato direttamente al ruolo di difenso¬re d'ufficio del Distretto di Columbia.
Tutti i suoi compagni avevano colto al volo le occasioni of¬ferte dai grandi studi legali e successivamente si erano rifatti vi¬vi a turno, offrendogli i numeri telefonici di psichiatri che avrebbero potuto aiutarlo a guarire dal suo colpo di follia. Sor¬rise e prese la seconda birra. Adesso il frigorifero era vuoto.
Il primo anno da difensore d'ufficio era stato duro per Jack e durante l'apprendistato erano state più le cause perse di quelle vinte. Con il passare del tempo, però, aveva imparato a trattare casi via via più complessi, e mentre consumava su di essi ener¬gia giovanile, talento innato e buonsenso la situazione cominciò a cambiare.
Poi strapazzò in aula le prime persone importanti.
Si era scoperto nato per quella parte, così forte nel controinterrogatorio quanto lo era stato nel mettere al tappeto avversari più grossi di lui. Era rispettato e veniva apprezzato come un avvocato, per quanto possibile.
Poi aveva conosciuto Jennifer, vicepresidente alla Baldwin Enterprises, responsabile del settore Sviluppo e Marketing. Donna dai modi dinamici, aveva l'abilità supplementare di far sentire importanti i suoi interlocutori: le loro opinioni venivano ascoltate, anche se non necessariamente accolte. Era una donna bella che per fare carriera non aveva bisogno di affidarsi solo al proprio aspetto fisico.
Volendo guardare dietro l'avvenenza, c'era molto di più. O così sembrava. E Jack sarebbe stato qualcosa di meno di un es¬sere umano se non avesse provato attrazione per lei, tanto più che Jennifer aveva mostrato fin dal principio che era contrac¬cambiato. Mostrandosi debitamente colpita dalla sua dedizione nella difesa dei diritti dell'accusato, a poco a poco Jennifer ave¬va convinto Jack di aver ormai dato il suo generoso contributo alla causa dei poveri, degli sciocchi e degli sfortunati, inducen¬dolo a chiedersi se non fosse venuto il momento di pensare a sé e al proprio futuro, un futuro al quale non le sarebbe dispiaciu¬to partecipare. Quando finalmente lui aveva lasciato l'avvoca¬tura d'ufficio, gli amici della procura gli avevano organizzato un congedo con tutti i crismi, e dalla loro esuberanza forse lui avrebbe dovuto subito dedurre che erano ancora molti i poveri, gli sciocchi e gli sfortunati che avrebbero avuto bisogno di lui. Non prevedeva di ritrovare mai più le stesse emozioni provate nell'esercizio dell'avvocatura d'ufficio, persuaso com'era che esperienze come quella si fanno una volta sola nella vita, senza possibilità di repliche. Era tempo di mettersi in cammino, anche i ragazzini come Jack Graham dovevano crescere prima o poi. Forse era semplicemente giunto il suo momento.
Spense la TV, prese un sacchetto di noccioline e andò in ca¬mera da letto, scavalcando le montagne di indumenti da lavare che si erano accumulate davanti alla porta. Ecco perché a Jennifer non piaceva casa sua, l'aveva ridotta a un porcile. Ma lo an¬gustiava di più l'assoluta certezza che anche se fosse stata im¬macolata, lei avrebbe rifiutato di viverci. Tanto per cominciare, era nel quartiere sbagliato. Sì, era a Capitol Hill, ma non nella parte nobile, e nemmeno nelle sue vicinanze.
Poi c'era il problema delle dimensioni. La residenza di città in cui lei avrebbe vissuto doveva essere sui cinquecento metri qua¬drati, escludendo l'alloggio per la collaboratrice domestica e il box doppio per la sua Jaguar e una Range Rover nuova di zec¬ca, come se un abitante di Washington, con le sue strade soffo¬cate dal traffico, avesse bisogno di un veicolo in grado di ar¬rampicarsi in verticale fino in cima a una montagna di seimila metri.
Lui aveva quattro locali, contando il bagno. Si spogliò e si buttò sul letto. Dall'altra parte della stanza, sulla piccola targa che aveva tenuto in ufficio fino al giorno in cui aveva comincia¬to a provare imbarazzo a guardarla, c'era l'annuncio del suo in¬gresso allo studio legale Patton, Shaw & Lord. La PS&L era la prima società di consulenza legale in diritto societario tra quelle operanti nella capitale. Rappresentava centinaia di blue chip tra cui l'azienda del suo promesso suocero, un assetto multimilio¬nario del quale ci si aspettava da Jack un consolidamento pres¬so lo studio e che, in cambio, gli avrebbe garantito una quota come socio al prossimo consiglio di amministrazione. Una par¬tecipazione alla PS&L equivaleva, in media, a qualcosa come mezzo milione di dollari l'anno. Erano bazzecole per i Baldwin, d'altra parte lui non era un Baldwin. Non ancora.
Si infilò sotto la coperta: la coibentazione dell'edificio lascia¬va molto a desiderare. Mandò giù un paio di aspirine con il re¬sto di una Coca-Cola rimasta sul comodino, poi si guardò in¬torno. La sua stanza era piena di roba e di altrettanto disordine. Gli ricordava quella in cui era cresciuto. Era un ricordo affet¬tuoso, amichevole. Così doveva essere un ambiente domestico, un posto in cui i bambini avessero sempre la possibilità di gri-dare e correre da una stanza all'altra in cerca di nuove avventu¬re, nuovi oggetti da fracassare.
Ecco un altro problema con Jennifer: lei aveva dichiarato senza tergiversazioni che il rumore di piedini in corsa era un progetto lontano nel tempo e tutt'altro che sicuro. Al primo po¬sto, nella sua mente e nel suo cuore, c'era la carriera nell'azien¬da paterna, conseguenza di un'ambizione forse superiore anche alla sua.
Jack si girò su un fianco e cercò di addormentarsi. Il vento fe¬ce tintinnare il vetro della finestra e lui guardò in quella direzio¬ne. Cercò di distogliere subito gli occhi, poi con un che di rasse¬gnato si arrese, posando lo sguardo sulla scatola.
Conteneva parte della sua collezione di vecchi trofei e premi vinti al liceo e al college. Ma non era a quelli che stava pensan¬do. Nella semioscurità allungò il braccio per prendere la foto, ebbe un attimo di esitazione, poi si decise.
La tolse dalla scatola. Era diventato quasi un rituale. Non aveva mai dovuto temere che la fidanzata scoprisse quell'ogget¬to particolare perché si rifiutava di trattenersi nella sua camera da letto per più di un minuto. Quando finivano tra le lenzuola era a casa di lei, dove Jack contemplava l'affresco del vasto sof¬fitto condiviso da cavalieri e fanciulle mentre Jennifer si abban¬donava al proprio piacere fino al momento in cui crollava sul letto al suo fianco e lasciava che fosse lui a mettersi disopra. Le variazioni sul tema avvenivano nella casa di campagna, dove i soffitti erano ancora più alti e gli affreschi provenivano da chis¬sà quale chiesa romana del Tredicesimo secolo, cosicché lui ave¬va l'impressione che fosse Dio stesso a guardarlo cavalcato dal¬la splendida e nudissima Jennifer Ryce Baldwin, a rischio di meritarsi il castigo eterno per quei pochi momenti di piacere carnale.
La donna della foto aveva lucidi capelli castani che si arricciavano leggermente sulle punte delle ciocche. Guardando il suo sorriso, Jack ricordò il giorno in cui l'aveva fotografata.
Erano usciti per una gita in bicicletta nelle campagne della contea di Albemarle. Lui aveva appena cominciato la scuola di legge; lei era al secondo anno di college alla Mr. Jefferson's University. Era solo il loro terzo appuntamento, ma era come se fossero stati insieme da sempre.
Kate Whitney.
Pronunciò adagio il suo nome. Con la punta del dito ridise¬gnò senza accorgersene la curva del suo sorriso, toccò la fosset¬ta solitaria che aveva appena sopra la guancia sinistra e che fa¬ceva apparire il suo viso lievemente asimmetrico. Gli zigomi a mandorla e un naso sbarazzino sopra un paio di labbra sensua¬li. La linea del mento era marcata, segno evidente di cocciutag¬gine. La mano di Jack risalì a fermarsi all'altezza dei grandi oc-chi, sempre pieni di malizia.
Poi Jack si girò sulla schiena e si posò la fotografia sul petto, tenendola alzata in modo che Kate lo guardasse dritto negli oc¬chi. Non poteva pensare a lei senza rivedere mentalmente suo padre, senza ricordare il suo sorriso sornione e la sua sferzante ironia.
Spesso era andato a trovare Luther Whitney nella sua casetta a schiera in un quartiere di Arlington che aveva visto tempi mi¬gliori. Passavano ore a bere birra e a raccontare storie, con Luther soprattutto nella parte di narratore e Jack in quella di ascoltatore.
Kate non andava mai a trovare suo padre e lui non cercava mai di contattarla. Jack aveva scoperto chi era quasi per caso e, contro il volere di Kate, aveva preteso di conoscerlo. Era raro che le labbra di lei non fossero incurvate in un sorriso, ma suo padre era un argomento sul quale non sorrideva mai.
Dopo la laurea, si erano trasferiti a Washington, dove Kate si era iscritta alla scuola di legge di Georgetown. All'inizio la loro vita insieme era stata un idillio e Kate aveva assistito ai suoi pri¬mi processi, quando lui si sforzava di controllare i brontolii del¬lo stomaco e il tremito della voce, cercando di ricordare a quale tavolo doveva sedersi. Ma con il crescere della gravità dei cri¬mini di cui erano accusati i suoi clienti, l'entusiasmo di Kate era diminuito.
Si erano lasciati quando lui era ancora nel primo anno di ap¬prendistato.
Le ragioni erano semplici: Kate non capiva perché avesse scelto di rappresentare persone che violavano la legge e non tol¬lerava la simpatia che lui provava per suo padre.
Nell'ultimo scampolo di vita insieme, Jack ricordava di esser¬si trovato in quella stessa stanza a domandarle, scongiurarla, di non lasciarlo. Ma non c'era stato niente da fare ed erano passa¬ti quattro anni, durante i quali non l'aveva né vista né sentita.
Sapeva che aveva trovato lavoro alla procura di Alexandria, in Virginia, dove senza dubbio non perdeva occasione di schiaf¬fare dietro le sbarre qualche suo ex cliente per aver violato le leggi di quello Stato. Per il resto, Kate Whitney per lui era di¬ventata una perfetta sconosciuta.
Ma mentre giaceva a letto a contemplare quel sorriso che gli diceva milioni di cose che mai aveva trovato sulle labbra della donna che avrebbe dovuto sposare di lì a sei mesi, Jack si do¬mandava se Kate gli sarebbe rimasta per sempre sconosciuta; se la propria vita era destinata a diventare molto più complicata di quanto avesse immaginato. Sollevò il ricevitore del telefono e compose un numero.
Quattro squilli e udì la voce. Aveva un'inflessione che non ri¬cordava, o forse era nuova. Dopo il segnale acustico cominciò a lasciare il messaggio, qualcosa di buffo, di inventato lì per lì, ma tutt'a un tratto si innervosì e riattaccò quasi precipitosa¬mente, con un tremito nelle mani, un'accelerazione nel respiro. Scosse la testa. Gesù Cristo. Si era vaccinato con quattro casi di omicidio di primo grado ed era lì a tremare come un sedicenne che non trova il coraggio di telefonare alla sua prima ragazza.
Ripose la foto e cercò di immaginare che cosa stesse facendo Kate in quel preciso istante. Probabilmente era ancora in ufficio a ponderare su quanti anni sottrarre alla vita di qualcuno.
Poi pensò a Luther. Chissà che proprio in quel momento non fosse sul lato sbagliato della porta della casa di qualcuno. O magari non stesse uscendo in quel mentre con l'ennesimo sacco di titoli al portatore appeso a una spalla.
Che coppia, Luther e Kate Whitney. Così diversi e così simili. Una coppia di persone professionalmente impegnate come non gli era mai capitato di trovare, ma in due mondi completamente diversi. Quell'ultima sera, dopo che Kate era uscita dalla sua vita, era andato da Luther a dirgli addio davanti a un'ultima birra. Si erano seduti nel bel giardino a guardare la clematide e l'edera strette al muro di mattoni, in un profumo di lillà e rose che li avvolgeva denso come una rete.
Luther l'aveva presa bene, gli aveva rivolto qualche domanda e gli aveva fatto gli auguri. Non sempre le cose andavano a fini¬re bene, Luther lo sapeva come chiunque altro, ma quella sera, andandosene, Jack aveva notato un luccichio nei suoi occhi, prima che la porta si chiudesse su quella parte della sua vita.
Si decise finalmente a spegnere la luce e chiuse gli occhi con la consapevolezza che incombeva su di lui un altro domani. Il suo scrigno del tesoro, il colpo gobbo che capita una volta sola nella vita, gli si era avvicinato di un altro giorno. Non era una considerazione che favorisse il sonno.
3
Guardandoli attraverso il finto specchio, Luther considerò che facevano una gran bella coppia. Era una considerazione a spro¬posito in quelle circostanze, ma non per questo meno valida. Lui era alto, di bell'aspetto, un quarantenne molto distinto. Lei non doveva aver compiuto da molto i vent'anni, con capelli va¬porosi e dorati, un bel visetto ovale, due profondi occhioni az¬zurri che in quel momento contemplavano amorevolmente l'elegante prestanza dell'uomo. Lui le sfiorò la pelle vellutata della guancia; lei gli posò le labbra nel palmo.
L'uomo riempì due bicchieri da una bottiglia che aveva por¬tato con sé. Ne porse uno alla donna. Dopo il tintinnio del brindisi, guardandosi con fermezza negli occhi, lui scolò il suo bicchiere in un colpo solo, mentre lei sorseggiava appena. Posa¬ti i bicchieri, si abbracciarono al centro della stanza. Le mani di lui le scivolarono lungo la schiena e poi risalirono sulle spalle scoperte, abbronzate, atletiche. Le afferrò le braccia e si chinò per baciarla sul collo.
Luther distolse lo sguardo, imbarazzato dal trovarsi a fare da spettatore a quell'intimità altrui. Era un sentimento strano da provare, quand'era ancora in così grave pericolo di essere sco¬perto, ma non era tanto vecchio da rimanere insensibile alla te¬nerezza, alla passione, che lentamente prendevano il sopravven¬to davanti ai suoi occhi.
Quando li rialzò, non poté non sorridere. Stavano ballando, volteggiando adagio per la stanza. Lui era evidentemente molto più esperto di lei, ma la guidò con dolcezza in passi semplici che li condussero fino al letto.
L'uomo si interruppe per riempire il bicchiere, che scolò di nuovo in un attimo. Aveva svuotato la bottiglia. Quando prese di nuovo la donna fra le braccia, lei gli si appoggiò contro, gli sbottonò la giacca, cominciò a sciogliergli il nodo della cravat¬ta. Lui trovò la cerniera del suo vestito e lentamente la abbassò. La guaina nera scivolò a terra. La donna indossava un paio di slip neri e calze nere autoreggenti, ma niente reggiseno.
Aveva quel tipo di corpo che rende istantaneamente gelose le donne che non ce l'hanno, con tutte le curve al posto giusto e una vita che Luther avrebbe potuto cingere con le due mani. Quando gli si mise di profilo per togliersi le calze, Luther vide che i suoi seni erano rigogliosi e rotondi. Le gambe erano slan¬ciate e scolpite da molte ore di tennis e aerobica.
L'uomo si spogliò rapidamente e, indossando solo i boxer, si sedette sulla sponda del letto a guardarla sbocciare senza fretta dagli ultimi indumenti. Aveva un sedere rotondo e sodo, di un biancore che spiccava in contrasto con la perfetta abbronzatu¬ra. Quando si fu tolta anche l'ultimo capo, sulle labbra di lui si dischiuse un sorriso. Denti bianchi, regolari. Nonostante quello che beveva, i suoi occhi erano limpidi e attenti.
Lei contraccambiò il sorriso, avvicinandoglisi. Lui la prese per le braccia, l'attirò a sé. Lei gli si strofinò contro il torace.
Di nuovo Luther cominciò a distogliere lo sguardo, deside¬rando più che mai che quel momento si concludesse alla svelta e che se ne andassero. Gli sarebbero bastati solo pochi minuti per tornare all'automobile e archiviare quella notte nella memoria come un'esperienza assolutamente unica, per quanto potenzial¬mente disastrosa.
Fu allora che lo vide ghermire con impeto le natiche della donna e poi schiaffeggiargliele ripetutamente. Non potendo trattenere una smorfia, quasi che avvertisse lui stesso il dolore, vide la pelle che, da bianca, sotto i colpi reiterati diventava luci¬da e rossa. Ma forse la donna aveva bevuto troppo per sentire il dolore, o provava gusto a quel tipo di attenzione fisica, perché il suo sorriso non vacillò. Luther avvertì una stretta alla bocca dello stomaco quando vide le dita dell'uomo affondare nelle carni morbide di lei.
Mentre lui le lambiva il seno con la lingua, lei gli affondò le dita nei capelli e gli si insinuò tra le gambe. Chiuse gli occhi, con la bocca sempre atteggiata a un sorriso beato e la testa ro¬vesciata all'indietro. Poi li riaprì e gli si attaccò alla bocca.
Le dita forti di lui risalirono dalle natiche torturate a massag¬giarle dolcemente la schiena. Tutt'a un tratto affondarono di nuovo nelle carni suscitandole una smorfia. La donna indietreg¬giò con un sorriso esitante, e lo costrinse a fermarsi prendendo¬gli le mani. Lui trasferì la propria attenzione al seno, le succhiò i capezzoli. Lei chiuse di nuovo gli occhi e il suo respiro si tra¬sformò in un mugolio sommesso. Lui risalì con la bocca al suo collo. Aveva gli occhi spalancati, guardava dritto verso la pol¬trona su cui era seduto Luther, senza poter sospettare la sua presenza.
Luther lo fissò, fissò quegli occhi, e non gli piacque ciò che vide. Pozze di tenebra cerchiate di rosso, come un pianeta sini¬stro visto attraverso le lenti di un telescopio. Gli venne il dub¬bio che la donna nuda fosse alla mercé di qualcosa non così de¬licato, non così amorevole come gli era sembrato di credere.
Divenuta impaziente, la donna spinse l'amante sul letto. Gli si mise a cavalcioni, offrendo a Luther una visuale da tergo che avrebbe dovuto essere riservata al suo ginecologo e a suo mari¬to. Si alzò sulle ginocchia, ma lui, con un movimento repentino ed energico, la buttò giù e la sormontò, afferrandole le gambe e alzandogliele fino a tenergliele perpendicolari al letto.
La sua mossa successiva fece sussultare Luther nel suo nascon¬diglio. Le serrò il collo tra le mani e la sollevò di peso, spingendo¬si la testa di lei tra le gambe. L'azione era stata così inaspettata che, con la bocca a non più di un paio di centimetri da lui, la don¬na si lasciò sfuggire un gemito roco. Allora lui rise e la lasciò ri¬cadere. Momentaneamente disorientata, lei riuscì finalmente ad abbozzare un sorriso alzandosi sui gomiti sotto di lui, che impu¬gnò con una mano il pene eretto, mentre con l'altra le spalancava le gambe. Sotto il suo sguardo spiritato, lei attese placida di acco¬glierlo.
Ma invece di tuffarsi tra le sue gambe, lui le ghermì i seni e glie¬li strizzò, evidentemente un po' troppo forte, perché Luther udì un guaito di dolore, e subito dopo la donna schiaffeggiò il suo amante. Lui la lasciò andare e le restituì il manrovescio, con catti¬veria. Una goccia di sangue le affiorò all'angolo della bocca e le scivolò sul labbro carnoso e imbellettato.
— Fottuto bastardo. — La donna abbandonò il letto per se¬dersi sul pavimento a tastarsi la bocca, assaggiando il sapore del proprio sangue in un momento di lucidità tra i fumi dell'alcol. Le prime parole che Luther aveva sentito pronunciare di¬stintamente in tutta la notte lo colpirono come una mazzata. Si alzò e si avvicinò al falso specchio.
L'uomo sogghignava. Luther fremette nel vedere quell'espres¬sione sul suo volto: più che una smorfia umana era il ringhio di una belva che si appresta a uccidere.
— Fottuto bastardo — ripeté lei, a voce un po' più bassa, im¬pastando un po' le sillabe. Quando fece per alzarsi, lui le ag¬guantò un braccio e glielo torse, facendola ricadere pesante¬mente a terra. Poi si sedette sul letto a guardarla, con aria di trionfo.
Luther, con il respiro corto, stava in piedi davanti al falso specchio, stringendo e rilasciando meccanicamente i pugni, e sperando che le altre persone stessero per riapparire. Per un at¬timo il suo sguardo si posò sul telecomando rimasto sulla pol¬trona, poi tornò sulla stanza.
La donna aveva ripreso lentamente fiato e si stava rialzando. Non c'era più niente di romantico nel suo stato d'animo, Luther lo vedeva dal modo in cui si muoveva adesso, vigile e diffidente. Il mutamento, il lampo di collera che le brillò negli occhi azzurri, doveva essere sfuggito al suo compagno, altri¬menti non si sarebbe alzato e non le avrebbe teso una mano, che lei accettò.
Il sorriso sulle labbra dell'uomo scomparve di colpo alla pre¬cisa ginocchiata che ricevette all'inguine. Si piegò in due, per¬dendo all'istante l'erezione, quindi si accartocciò sul pavimento ansimando, senza gridare, mentre lei recuperava gli slip e se li infilava.
Di sorpresa lui la prese per una caviglia e la fece cadere con gli slip appena sopra le ginocchia.
— Puttana schifosa — rantolò senza mollarle la caviglia, cer¬cando anzi di trascinarla verso di sé.
Lei scalciò, lo colpì alla cassa toracica, ripetutamente, senza però riuscire a indurlo a mollare.
— Troietta di merda — ansimò lui.
All'intonazione di minaccia che udì in quelle parole, Luther reagì avvicinandosi al vetro e posandovi sopra una mano, come per volerla allungare oltre e bloccare l'uomo, obbligarlo a libe¬rare la donna.
Lo vide alzarsi faticosamente e l'espressione che gli lesse negli occhi gli fece provare un brivido tremendo.
Lo vide afferrare la donna per il collo.
Fugati in un sol colpo i fumi dell'alcol, la donna ritrovò tutta la sua presenza di spirito. I suoi occhi, ora colmi di terrore, guizzavano a destra e a sinistra mentre la pressione delle mani di lui aumentava cominciando a toglierle il respiro. Gli artigliò le braccia, scavandovi graffi profondi.
Luther vide il sangue sgorgare dalla pelle lacerata, ma non per questo lui allentò la presa.
La donna cercò di scalciare, dibattendosi, ma il suo aggresso¬re era troppo forte per lei, troppo pesante.
Di nuovo Luther guardò il telecomando. Avrebbe potuto aprire lo sportello segreto. Avrebbe potuto intervenire, farlo smettere, ma le sue gambe non si mossero. Fissava impotente attraverso il vetro, con la fronte madida di sudore, il respiro contratto in movimenti convulsi del torace. Appoggiò entrambe le mani al falso specchio.
Smise di respirare nel momento in cui vide la donna lanciare una fulminea occhiata al comodino. Poi la vide agire con estre¬ma rapidità, afferrare il tagliacarte e menando alla cieca affon¬dare la lama nel braccio del suo aggressore.
L'uomo grugnì di dolore e la lasciò andare per stringersi il braccio rosso di sangue. Per un terribile istante lui si guardò la ferita, quasi incredulo che quella donna potesse avergli provo¬cato uno squarcio simile.
Poi rialzò gli occhi e Luther ebbe l'impressione di sentirsi vi¬brare nel corpo il suo ringhio omicida prima ancora che gli fos¬se sfuggito dalle labbra.
Vide l'uomo colpire. Mai aveva assistito a un atto di tale bru¬talità nei confronti di una donna. All'impatto di quel pugno con la carne morbida, un getto di sangue le schizzò dal naso e dalla bocca.
Forse fu per tutto l'alcol che lei aveva in corpo, ma il colpo che normalmente avrebbe tramortito chiunque ebbe su di lei un effetto corroborante. Ritrovate inaspettatamente le forze, riuscì a rialzarsi sulle gambe. Quando si voltò verso lo specchio, Luther vide l'orrore dipingersi sul viso di lei nel contemplare la selvaggia devastazione della sua bellezza. Con gli occhi spalan¬cati per lo stupore si toccò il naso tumefatto, con un dito si ta¬stò i denti ora allentati. Era irriconoscibile. Il suo inimitabile sorriso era perduto.
Si girò verso l'uomo, e Luther le vide i muscoli della schiena irrigidirsi come pezzi di legno. Con imprevedibile rapidità gli sferrò un nuovo calcio all'inguine. Sopraffatto dalla nausea, in¬debolito dal nuovo contrattacco, l'uomo si accasciò, rotolò sul¬la schiena e cominciò a gemere, schiacciandosi le ginocchia con¬tro lo stomaco e proteggendosi i genitali con la mano.
Con il volto rosso di sangue e occhi in cui nel volgere di un attimo il buio dello spavento aveva lasciato il posto a una luce omicida, la donna si lasciò cadere sulle ginocchia accanto a lui e alzò il tagliacarte.
Luther afferrò il telecomando, tornò alla porta e posò il dito sul pulsante.
Ma l'uomo, nell'istante in cui capì che la sua vita stava per es¬sere spezzata dalla lama che calava verso il suo petto, urlò con quanto fiato aveva in corpo. Il grido non rimase inascoltato.
Paralizzato, Luther spostò lo sguardo sulla porta della came¬ra da letto che si spalancava.
Due uomini fecero irruzione con le armi spianate, entrambi con i capelli tagliati a spazzola ed entrambi dotati di un fisico possente, chiaramente intuibile nonostante giacca e cravatta. Prima che Luther avesse il tempo di reagire, valutarono le circo¬stanze e presero la loro decisione.
Le loro pistole fecero fuoco simultaneamente.
Seduta al tavolo del suo ufficio, Kate Whitney riesaminò per l'ultima volta l'incartamento.
L'accusato aveva quattro precedenti e in altre sei occasioni era stato arrestato senza essere incriminato, solo perché i testi¬moni avevano avuto troppa paura per parlare o erano finiti in qualche cassonetto. Quell'uomo era una bomba a orologeria pronta a esplodere sulla prossima vittima, sicuramente una donna, come tutte le precedenti.
L'incriminazione attuale era di omicidio con rapina e violen¬za sessuale. Secondo le leggi della Virginia era prevista la pena capitale e questa volta Kate era decisa ad andare fino in fondo. Non aveva mai chiesto la pena di morte, ma se c'era qualcuno che la meritava l'aveva trovato, e le autorità giudiziarie dello Stato non avrebbero avuto scrupoli ad autorizzarla. Perché concedergli la vita quando lui aveva crudelmente e selvaggia¬mente preso quella di una studentessa diciannovenne il cui solo errore era stato di recarsi a un supermercato in pieno giorno a comperare un paio di calze e di scarpe?
Kate si sfregò gli occhi, prese un elastico dal mucchietto che aveva sulla scrivania e si raccolse i capelli alla buona in una co¬da di cavallo. Considerò il suo piccolo e modesto ufficio. C'era¬no schedari come una muraglia contro tutte le pareti, e per la milionesima volta si domandò se sarebbe mai stato possibile ar¬ginare la malvagità umana. Ovvio che no: tutt'al più la situa¬zione si sarebbe aggravata, e lei non poteva fare più di quanto già stava facendo per arrestare quel fiume di sangue. Avrebbe cominciato con l'esecuzione di Roger Simmons Jr., ventidue an¬ni, il criminale più sadico e sanguinario che le fosse capitato in una carriera ancora breve, ma durante la quale aveva già dovu¬to trattare con un esercito di delinquenti. Kate ricordava come l'aveva guardata quel giorno in tribunale. Il suo era stato un at¬teggiamento totalmente privo di rimorso, di sentimenti, di qualsivoglia traccia di un'emozione positiva. Era anche un volto pri¬vo di speranza, un'impressione confermata dal racconto di un'infanzia che sembrava un romanzo dell'orrore. Ma quello non era un problema di sua competenza. Presumibilmente era l'unico che non la riguardasse.
Kate scosse la testa e controllò l'ora: mezzanotte passata. Andò a versarsi dell'altro caffè, sentendo che cominciava a ve¬nirle meno la concentrazione. L'ultimo assistente aveva lasciato l'ufficio ormai da cinque ore. Da tre se n'erano andati quelli delle pulizie. Senza scarpe, percorse il corridoio per andare in cucina. Ci fosse stato Charlie Manson in circolazione, per lei avrebbe rappresentato un caso di ordinaria amministrazione; l'eccesso maniacale di un dilettante, a confronto dei mostri d'oggi.
Con la tazza di caffè in mano, tornò in ufficio e indugiò a osservare la propria immagine riflessa nella finestra. Il suo era un lavoro per cui la bellezza fisica aveva scarsa importanza; diavo¬lo, era più di un anno che non usciva con un uomo. Ma non poté distogliere gli occhi: era alta e slanciata, forse un po' trop¬po magra in qualche punto, ma l'abitudine di correre sei chilo¬metri ogni giorno le era rimasta, mentre era andato scemando il contenuto calorico della sua dieta. Si sosteneva più che altro con caffè cattivo e cracker, anche se aveva limitato le sigarette a due al giorno e sperava che con un po' di fortuna sarebbe riu¬scita a smettere del tutto.
Si sentiva in colpa per come abusava del proprio corpo impo¬nendogli ritmi stressanti di lavoro da un caso all'altro, da un orrore all'altro, ma che cosa avrebbe dovuto fare? Abbandona¬re la partita perché non somigliava a una donna da copertina di Cosmopolitan? Si consolava pensando che il mestiere di quelle ragazze era mostrarsi belle e in piena forma ventiquattr'ore al giorno, mentre il suo era garantire che le persone che violavano la legge, che facevano del male al prossimo, fossero punite. Da qualunque punto di vista volesse considerare la questione, lei usava la propria vita in un modo molto più produttivo.
Si passò una mano fra i capelli. Aveva bisogno di un parruc¬chiere, ma dove trovare il tempo? Grazie al cielo il suo viso era ancora relativamente al riparo dai segni di quel fardello sempre più gravoso. A ventinove anni, dopo averne trascorsi quattro lavorando diciannove ore al giorno e vivendo la tensione di in¬numerevoli processi penali, poteva rallegrarsi di non ritrovarsi precocemente invecchiata. Sospirò pensando che probabilmen¬te non sarebbe durata così a lungo. Al college lei era stata una graziosa calamita che faceva girare la testa, la causa di improv¬visi batticuori e di sudori freddi. Apprestandosi però a entrare nella trentina, capiva che ciò che aveva dato per scontato per tanti anni, ciò che di fatto aveva persino deriso in tante occa¬sioni, non l'avrebbe accompagnata ancora per molto. Come tante altre cose a cui l'abitudine toglie ogni aspetto di straordi¬narietà, la capacità di zittire un'aula semplicemente facendovi ingresso era una dote di cui sapeva che avrebbe patito la man¬canza.
Che il suo aspetto non si fosse deteriorato in quegli ultimi an¬ni era un fenomeno degno di nota, considerato quanto poco aveva fatto per conservarlo. Potenza di geni speciali, evidente¬mente, e doveva considerarsi fortunata per quello, ma poi ri¬pensò a suo padre e concluse subito che dal punto di vista gene¬tico aveva poco di cui rallegrarsi. Un uomo che rubava agli altri e poi aveva la pretesa di condurre una vita normale. Un uomo che aveva ingannato tutti indistintamente, comprese moglie e figlia. Un uomo che era inutile andare a cercare quando ci fosse stato bisogno di lui.
Tornò a sedersi al tavolo, bevve un sorso di caffè caldo, vi ag¬giunse altro zucchero e osservò l'incartamento di Simmons mentre mescolava il suo nero tonico notturno.
Sollevò il ricevitore e chiamò casa per controllare se c'erano messaggi. Ne trovò cinque, due da parte di altri avvocati, uno di un poliziotto che avrebbe chiamato a testimoniare contro Simmons e uno di un detective della procura che aveva la bella abitudine di telefonarle alle ore più disparate con informazioni perlopiù inutili. Avrebbe fatto bene a cambiare numero di te¬lefono. L'ultima chiamata era priva di messaggi, ma prima che lo sconosciuto riagganciasse, il nastro aveva registrato un respi¬ro molto sommesso, un suono nel quale le parve di avvertire qualche parola indistinta. C'era qualcosa di familiare, ma nulla che potesse aiutarla a riconoscere chi aveva telefonato. Qualcu¬no che non aveva di meglio da fare.
Il caffè le scorse nelle vene e il dossier di Simmons riprese il suo posto di preminenza. Kate alzò gli occhi al suo piccolo scaf¬fale di libreria. Sul ripiano più alto c'era una vecchia foto, in cui lei era ritratta all'età di dieci anni insieme a sua madre, ora de¬funta. Dalla foto era stato tagliato via Luther Whitney. Un grande vuoto vicino a madre e figlia. Un grande niente.
— Cristo Gesù! — Il Presidente degli Stati Uniti si alzò a sedere. Con una mano si copriva i genitali inerti e martoriati, mentre con l'altra stringeva il tagliacarte che pochi istanti prima era sul punto di diventare lo strumento della sua morte. Ora non era più sporco solo del proprio sangue. — Cristo Gesù, Bill, che cazzo hai combinato? L'hai ammazzata! — L'oggetto delle sue invettive si chinò per aiutarlo a rialzarsi, mentre il compagno controllava le condizioni della donna: un esame del tutto formale, considerato che due proiettili di grosso calibro le avevano fatto saltare il cervello.
— Mi dispiace, signore, non c'è stato tempo. Sono spiacente.
Dopo aver servito per otto anni nella polizia statale del Maryland, Bill Burton era agente dei servizi segreti da dodici, e uno dei suoi proiettili aveva appena stecchito una splendida donna. Alla faccia del duro addestramento, stava tremando co¬me uno scolaretto appena svegliatosi da un incubo.
Aveva già ucciso in servizio, un incidente imprevisto durante un normale controllo stradale, ma la sua vittima era un recidi¬vo, animato da un odio maniacale per gli agenti in divisa, che gli aveva puntato addosso una Glock semiautomatica con la precisa intenzione di staccargli la testa dalle spalle.
Burton guardò il piccolo corpo nudo riverso al suolo e gli venne da vomitare. Lo soccorse Tim Collin, il suo partner, pren¬dendolo per un braccio. Burton deglutì e fece un cenno di as¬senso. Avrebbe superato il momentaccio.
Aiutarono a rialzarsi Alan J. Richmond, quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti, eroe e leader per una nazione intera, giovani, adulti e anziani, ma in quel momento semplice¬mente un uomo nudo e ubriaco. Il Presidente si girò verso di lo¬ro e sul suo volto l'orrore iniziale si sciolse finalmente negli ef¬fetti dell'alcol che aveva ingerito. — È morta? — Lo chiese con la lingua un po' legata e gli occhi che gli ballavano nelle orbite come se avessero rotto gli ormeggi.
— Sì, signore — dichiarò prontamente Collin. Non si lascia¬va senza risposta la domanda di un Presidente, ubriaco o no.
Burton stava prendendo tempo per rimettersi in sesto. Guardò di nuovo la donna, poi alzò gli occhi sul Presidente. Quello era il loro lavoro, proteggere il Presidente, a qualunque costo. Per quanto sciagurata, la sua vita non poteva finire certo in quel modo, sgozzato come una bestia per mano di una putta¬nella piena di alcol.
Le labbra del Presidente si incurvarono in qualcosa di simile a un sorriso, anche se in seguito non fu così che lo rammentaro¬no Collin e Burton. Il Presidente fece per rialzarsi.
— Dove sono i miei vestiti? — chiese.
— Qui, signore. — Ormai ripresosi, Burton si bloccò mentre stava per raccoglierli. Erano pieni di macchie. Qualsiasi cosa in tutta la stanza era macchiata. Macchiata della donna.
— Avanti, dannazione, tiratemi su, mettetemi in ordine. Ho da tenere un discorso per qualcuno, non so dove, non è vero? — Emise una risata stridula. Burton guardò Collin e Collin guardò Burton. Entrambi guardarono il Presidente che sveniva sul letto.
Al momento delle deflagrazioni, Gloria Russell, Capo dello Staff presidenziale, si trovava in bagno al pianterreno, quanto più lon¬tano le era riuscito di arrivare da quella stanza.
Aveva accompagnato il Presidente in molti di quei convegni, ma invece di abituarvisi, ogni volta ne era più disgustata di quella precedente. Immaginare il suo principale, l'uomo più po¬tente sulla faccia della Terra, a letto con tutte quelle prostitute d'alto rango, quelle cortigiane della politica, le era inaccettabi¬le. Non potendolo capire, aveva quasi imparato a ignorarlo. Quasi.
Si era risistemata i collant, aveva afferrato la borsa e spalan¬cato la porta, si era precipitata in fondo al corridoio e nono¬stante i tacchi alti aveva salito i gradini due alla volta. Quando raggiunse la porta della camera da letto, fu trattenuta dall'agen¬te Burton.
— Signora, glielo sconsiglio, non è un bello spettacolo.
Si sbarazzò di lui con una spinta, ma subito dopo si bloccò. Il suo primo impulso fu di correre via, giù per le scale, tuffarsi nella limousine. Andarsene, abbandonare lo Stato, lasciare quel paese sventurato. Non provava pietà per Christy Sullivan, che aveva voluto farsi scopare dal Presidente. Da due anni era il suo chiodo fisso. Ebbene, certe volte non ottieni quello che desideri, certe altre ottieni molto di più.
Si calmò e si rivolse all'agente Collin.
— Che cosa diavolo è successo?
Tim Collin era giovane, un duro devoto all'uomo che aveva l'incarico di proteggere. Era stato addestrato per dare la vita pur di difendere quella del Presidente, e non c'era ombra di dubbio che se quel momento fosse giunto lui lo avrebbe fatto. Erano trascorsi molti anni da quando aveva affrontato un ag¬gressore nel parcheggio di un centro commerciale, dove l'allora candidato presidenziale Alan Richmond era intervenuto per un comizio. Non gli aveva dato nemmeno il tempo di estrarre del tutto la pistola e, prima che chiunque altro potesse reagire, aveva già immobilizzato l'aspirante assassino sul piazzale asfal¬tato. Collin aveva una sola missione nella vita, proteggere Alan Richmond.
Gli ci volle un minuto per riferire sinteticamente alla Russell quanto era successo. Burton confermò con un cenno solenne del capo.
— O lui o lei, signora Russell. Non c'era scelta. — Burton lanciò istintivamente un'occhiata al Presidente, ancora riverso sul letto, ignaro di tutto. Gli avevano coperto con un lenzuolo le parti più strategiche del corpo.
— Volete dirmi che non avevate sentito niente? Nessun ru¬more sospetto, nessun indizio di un atto violento? — Indicò la stanza sottosopra.
I due agenti si guardarono in faccia. Avevano sentito molti rumori provenire dalle camere da letto in cui si recava il loro principale, rumori che in certi casi si sarebbero potuti collegare ad atti violenti, in altri no. Ma ne erano sempre usciti tutti sani e salvi.
— Niente di insolito — spiegò Burton — poi abbiamo sentito il Presidente che gridava e siamo entrati. La lama di quel coltel¬lo non poteva essere a più di dieci centimetri dal suo petto. Solo con un proiettile avremmo potuto fare in tempo.
Burton si raddrizzò in tutta la sua statura e la guardò dritto negli occhi. Lui e Collin avevano fatto il loro dovere e non sa¬rebbe stata quella donna a criticare il loro operato. Non avreb¬bero accettato alcuna responsabilità per quanto era accaduto.
— Come? C'era un coltello qui dentro? — sbottò lei fissan¬dolo incredula.
— Dipendesse da me — rispose Burton — metterei il veto su queste... queste gitarelle. Il più delle volte non ci lascia control¬lare niente. Non abbiamo potuto perquisire la stanza. È il Presi¬dente, signora — tenne ad aggiungere per precauzione, come se bastasse a giustificare qualsiasi cosa. E con la Russell di solito funzionava, fatto di cui Burton era più che consapevole.
La donna osservò la stanza con attenzione. Quando aveva risposto all'invito di Alan Richmond in gara per la presidenza, lei era docente di ruolo in scienze politiche a Stanford, già con una certa notorietà a livello nazionale. Lui era dotato di una forza travolgente, tutti volevano saltare sul suo carro.
Gloria Russell adesso era Capo dello Staff presidenziale, con serie prospettive di diventare Segretario di Stato se Richmond avesse ottenuto un secondo mandato, cosa su cui chiunque sa¬rebbe stato pronto a scommettere a occhi chiusi. Chissà, forse c'era in vista un'accoppiata Richmond-Russell. Finora il bino¬mio aveva funzionato splendidamente, con lei nel ruolo di stra¬tega e lui di abile condottiero. Ogni giorno che passava il loro futuro diventava più fulgido. Ma ora? Ora lei aveva per le mani un cadavere e un Presidente ubriaco, fra le mura di una villa in cui non avrebbe dovuto esserci nessuno.
Sentì che il treno su cui fino a quel momento aveva beata¬mente viaggiato si era fermato bruscamente. Invece no, non si sarebbe lasciata sopraffare, non avrebbe mandato tutto all'aria per quel mucchietto di spazzatura umana. Mai e poi mai!
— Vuole che chiami la polizia adesso, signora? — domandò Burton.
La Russell lo guardò come se fosse ammattito. — Burton, la¬sci che le ricordi che il nostro compito è proteggere gli interessi del Presidente in qualunque circostanza e niente, assolutamente niente, ha la precedenza su questo. È chiaro?
— Signora, la donna è morta. Io credo che dovremmo...
— Infatti, Burton. Lei e Collin avete sparato a quella donna e adesso lei è morta. — Le sue parole rimasero sospese nell'aria. Collin si passò il pollice sui polpastrelli mentre la sua mano an¬dava istintivamente alla fondina. Guardò la defunta signora Sullivan come se potesse resuscitarla con la buona volontà.
Burton inarcò le spalle muscolose e si avvicinò impercettibil¬mente alla Russell, in modo che la differenza di statura risaltas¬se al massimo.
— Se noi non avessimo sparato, il Presidente sarebbe morto. E questo è il nostro lavoro. Badare all'incolumità del Presidente.
— Le do nuovamente ragione, Burton. E ora che avete evita¬to la sua morte, come intendete spiegare alla polizia e alla mo¬glie del Presidente e ai vostri superiori e agli avvocati e agli or¬gani di informazione e al Congresso e ai mercati finanziari e alla nazione e al resto di tutto questo dannato mondo che cosa ci faceva il Presidente qui? E come pensereste di illustrare le cir¬costanze che hanno obbligato lei e l'agente Collin a uccidere la moglie di uno degli uomini più ricchi e influenti degli Stati Uni¬ti? Perché se chiamate la polizia, se chiamate una persona qualsiasi, è esattamente questo che dovrete fare. Ora, se siete pronti ad accettare la piena responsabilità di queste conseguenze, allo¬ra là c'è il telefono. Non ha che da chiamare.
Burton cambiò colore in viso. Indietreggiò di un passo; in quel momento la sua prestanza fisica non gli serviva a niente. Collin, come paralizzato, faceva da spettatore allo scontro. Non aveva mai sentito nessuno parlare in quel modo a Bill Bur¬ton, un bisonte che avrebbe potuto spezzare il collo della Russell con una placida flessione del braccio.
Burton tornò a fissare il cadavere. Come spiegare la faccenda in maniera che tutti ne uscissero puliti? La risposta era sempli¬ce: non si poteva.
La Russell lo stava scrutando in volto. Burton rialzò gli oc¬chi, ma le resistette solo per un attimo. Lei sorrise senza malani¬mo e annuì. Aveva vinto.
— Vada a fare del caffè, e ne faccia tanto — gli ordinò, com¬piacendosi del temporaneo ribaltamento dei ruoli. — Poi vada a piazzarsi alla porta d'ingresso a fermare eventuali visitatori inaspettati.
— Collin, lei vada al furgone ad avvertire Johnson e Varney. Non scenda in particolari, per ora si limiti a dire che c'è stato un incidente, ma che il Presidente è sano e salvo. Niente di più. E che stiano all'erta. Capito? La chiamerò se sarà il caso. Per adesso ho bisogno di pensare.
Burton e Collin uscirono senza fiatare. Per l'addestramento che avevano ricevuto, nessuno dei due avrebbe potuto ignorare ordini impartiti in tono così autorevole, e Burton in particolare era ben contento di non dover prendere iniziative in quelle cir¬costanze. Nemmeno se l'avessero pagato a peso d'oro.
Luther non si era più mosso da quando le pallottole avevano scoperchiato il cranio della donna. Non ne aveva il coraggio. Il trauma iniziale era finalmente passato, ma i suoi occhi conti¬nuavano a posarsi su quello che restava di un essere umano che fino a poco prima sprizzava vita ed energie. In tanti anni di car¬riera criminale gli era capitato solo una volta di veder uccidere una persona, un pedofilo alla terza condanna che aveva avuto la spina dorsale troncata dalla lama di un coltello a serramani¬co di un altro detenuto. Ma le emozioni che provava adesso erano del tutto diverse, come se fosse l'unico passeggero di una nave entrata in un porto straniero, al quale tutto era sconosciu¬to e poco comprensibile. Un qualsiasi rumore in quel momento poteva essergli fatale, ma non poté evitare di tornare a sedersi lentamente, perché le gambe non gli reggevano più.
Guardò la Russell aggirarsi per la camera da letto, chinarsi sulla donna uccisa senza toccarla, raccogliere il tagliacarte te¬nendolo con un fazzoletto per la punta della lama. La Russell fissò a lungo l'oggetto che per poco non era costato la vita al suo principale e che aveva avuto un ruolo di primo piano nella morte di una seconda persona. Lo infilò con cautela nella pro-pria borsetta di pelle, che appoggiò sul comodino, e ripose il fazzoletto in tasca. Il suo sguardo tornò brevemente sulle forme contratte di quella che era stata Christine Sullivan.
Gloria Russell non poteva non ammirare Richmond per co¬me conduceva le sue attività collaterali. Tutte le sue "amiche" erano donne di elevata posizione sociale, tutte sposate. Questo lo metteva al riparo dalla possibilità che la sua condotta adulte¬rina finisse sulle pagine di qualche giornale scandalistico: le donne che si portava a letto avevano da perdere almeno quanto lui e se ne rendevano perfettamente conto.
Già, la stampa. La Russell sorrise. Era un'epoca in cui la vita del Presidente veniva costantemente esaminata sotto le lenti di un microscopio. Non poteva andare in bagno, fumare un sigaro o ruttare senza che la nazione sapesse come e quando. O alme¬no così la nazione credeva. E questo scaturiva soprattutto dalla sopravvalutazione degli organi di informazione e della loro abi¬lità nello spigolare anche gli aspetti più reconditi di qualsiasi avvenimento. Non si rendeva conto invece, la gente, che sebbe¬ne con il passare degli anni l'ufficio della presidenza avesse per¬so parte del suo enorme potere di fronte a problemi planetari ormai ingigantiti oltre le possibilità di intervento di un'unica persona, il Presidente era pur sempre attorniato da persone as¬solutamente leali ed estremamente capaci. Erano persone la cui perizia nell'esercizio delle attività clandestine apparteneva a un'altra categoria rispetto a quella di scadenti giornalisti ram¬panti, per i quali andare a fondo di una notizia che faceva scal¬pore significava tempestare di domande insulse qualche parla¬mentare che non chiedeva di meglio per guadagnarsi un passaggio nel telegiornale locale. La verità era che, se così desi¬derava, il Presidente Alan Richmond avrebbe potuto muoversi senza timore che qualcuno riuscisse a sapere dove andava. Sa¬rebbe potuto persino scomparire per tutto il tempo che avesse voluto, per quanto inopportuno potesse essere per qualsiasi personaggio politico. I suoi privilegi erano tutti riconducibili a un unico comune denominatore: i servizi segreti.
Erano i migliori tra i migliori, un'élite di professionisti la cui provata esperienza era una garanzia assoluta, come risultava anche dall'organizzazione di quest'ultima attività presidenziale.
Christy Sullivan era uscita poco dopo mezzogiorno dal suo salone di bellezza a nordovest della città. Aveva percorso a pie¬di un isolato, era entrata nell'atrio di uno stabile e dopo mezzo minuto ne era uscita sotto una mantella con cappuccio che le arrivava alle caviglie, e con un paio di occhiali scuri a nascon¬derle gli occhi. Sempre a piedi aveva percorso alcuni altri isola¬ti, poi aveva preso la linea rossa per il Metro Center. Uscita dal Metro aveva proseguito a piedi per due isolati ed era entrata in un vicolo tra due edifici in via di demolizione. Due minuti do¬po, dallo stesso vicolo era uscita un'automobile con i finestrini oscurati. Al volante c'era Collin. Christy Sullivan era seduta di dietro. Era poi rimasta al riparo in un luogo sicuro in compa¬gnia di Bill Burton fino al momento in cui, ormai di notte, il Presidente aveva potuto raggiungerla.
Se per il convegno segreto era stata scelta proprio la villa dei Sullivan era perché, paradossalmente, la residenza di campagna di sua proprietà era esattamente l'ultimo posto al mondo dove ci si sarebbe aspettati di trovare Christy Sullivan. E la Russell sapeva anche che sarebbe stata completamente disabitata e pro¬tetta solo da un sistema d'allarme che non sarebbe stato loro di alcun intralcio.
Gloria Russell si sedette e chiuse gli occhi. Sì, in quella casa aveva con sé due dei migliori elementi dei servizi segreti ma, per la prima volta, quello era un fatto che turbava il Capo dello Staff. Era stato il Presidente in persona a scegliere proprio quei quattro agenti, tra il centinaio circa che aveva a disposi¬zione, per la scorta di quella notte. Erano sicuramente più che fidati e preparati a ogni evenienza, avevano puntualmente ser¬vito il Presidente tenendo la bocca ben chiusa, ubbidendo sen¬za riserve. Fino a quella sera il debole del Presidente Richmond per le donne sposate non aveva dato origine a problemi di sor¬ta. Ora la minaccia che incombeva su tutti loro era più che evi¬dente. La Russell scosse la testa e si costrinse a pensare a un piano d'azione.
Luther la stava studiando. Aveva un viso intelligente, di una bellezza che lasciava trasparire un carattere volitivo. Gli pareva quasi di vedere il lavorio della sua mente, rispecchiato nel con¬tinuo corrugarsi e rilassarsi della sua fronte. Passò molto tempo senza che nient'altro di lei si muovesse, poi Gloria Russell aprì di colpo gli occhi e prese a muoversi per la camera esaminando meticolosamente ogni cosa.
Luther si ritrasse involontariamente quando lo sguardo della donna passò su di lui come il fascio di un riflettore nel cortile di una prigione. Quindi la vide soffermarsi a osservare il letto. Per un lungo minuto guardò l'uomo che dormiva, finché le spuntò un'espressione che Luther non riuscì a decifrare. Era qualcosa che stava a metà tra un sorriso e una smorfia.
La Russell si alzò, si avvicinò al letto e scrutò il Presidente. L'Uomo del Popolo, come la gente amava pensare. Un grand'uomo, destinato ai libri di storia. Non sembrava così grande in quel momento. Era disteso solo per metà sul letto, a gambe aperte, i piedi penzoloni a sfiorare il pavimento, in una posizione a dir po¬co singolare per una persona senza un cencio addosso.
La donna indugiò a guardarlo, soffermandosi su certi punti, attardandosi in un modo che lasciava Luther perplesso, consi¬derato quello che c'era lì per terra. Prima che Gloria Russell entrasse nella stanza e che affrontasse Burton, Luther si era aspettato di udire in pochi minuti le sirene e di ritrovarsi ad as¬sistere a un'irruzione di poliziotti e agenti della squadra inve¬stigativa, medici legali e forse anche un brulicare di consulenti politici e addetti stampa della presidenza, per non dire delle colonne di veicoli dei mass media a intasare il viale davanti alla villa. Invece no, evidentemente quella donna aveva in mente qualcos'altro.
Luther aveva visto Gloria Russell alla Cnn e in trasmissioni delle altre emittenti nazionali, oltre che un'infinità di volte sui giornali. Il suo era un volto che rimaneva impresso, con un lun¬go naso aquilino tra zigomi alti, tipici di una discendenza cherokee. Aveva capelli corvini che le scendevano lisci a sfiorarle le spalle e occhi grandi, di un azzurro così scuro da ricordare gli abissi dell'oceano, due profondità dense di insidie per gli sprov¬veduti e gli ingenui.
Luther cambiò con cautela posizione nella sua poltrona. Ve¬dere quella donna pontificare su questioni politiche d'attualità davanti a un imponente caminetto della Casa Bianca era una cosa, vederla aggirarsi in una stanza dove si trovavano un cada¬vere e, ubriaco e nudo, il capo della nazione più potente del mondo, era tutt'altro paio di maniche. Era uno spettacolo al quale Luther avrebbe preferito non dover assistere, ma dal qua¬le era magneticamente attratto.
La Russell lanciò un'occhiata alla porta, attraversò rapida¬mente la stanza, estrasse di nuovo il fazzoletto e chiuse a chia¬ve. Tornò lesta al letto e di nuovo indugiò a osservare il Presi¬dente. Allungò una mano e Luther istintivamente sussultò, ma lei stava solo accarezzando una guancia dell'uomo addormen¬tato. Luther si rilassò, tornando però a irrigidirsi quando la ma¬no di lei scese al petto a soffermarsi sulla folta peluria, per poi scendere sul ventre piatto, che si sollevava e ridiscendeva nel re¬spiro regolare del sonno.
Poi la mano scese ancora e fece lentamente scivolare il len¬zuolo verso il basso, lasciandolo cadere a terra, e si posò infine sul bassoventre. La Russell lanciò un'ulteriore occhiata alla porta, quindi si inginocchiò di fronte al Presidente. A questo punto Luther dovette chiudere gli occhi. A differenza del padro¬ne di casa, non apprezzava quel particolare hobby di spettatore.
Trascorsero alcuni lunghi minuti, prima che Luther riaprisse gli occhi. Adesso Gloria Russell si stava sfilando i collant, che posò con cura su una sedia. Poi montò con cautela sul Presiden¬te addormentato.
Luther chiuse di nuovo gli occhi. Sentì cigolare il letto e si domandò se lo si sentisse anche dabbasso. Probabilmente no, date le dimensioni della villa, ma anche se così fosse stato, che cosa avrebbero potuto fare?
Dieci minuti dopo, Luther udì un breve grugnito sfuggire dal¬le labbra di lui, e un gemito sommesso da quelle di lei. Tuttavia Luther continuò a tenere gli occhi chiusi. Non sapeva bene per¬ché. Sembrava però derivargli da uno strano miscuglio di sem¬plice paura e di disgusto per l'altrui disprezzo dimostrato nei confronti della donna morta.
Quando finalmente riaprì gli occhi, la Russell lo stava fissan¬do. Per un momento gli si fermò il cuore nel petto, prima che il cervello lo rassicurasse sul fatto che non poteva vederlo. La guardò infilarsi rapidamente i collant e riapplicarsi il rossetto davanti allo specchio, con pochi gesti precisi.
Aveva un sorrisetto sulle labbra, e un rossore diffuso sulle guance. Sembrava più giovane. Luther guardò il Presidente. Era ripiombato in un sonno profondo: con tutta probabilità la sua mente aveva archiviato la ventina di minuti appena trascorsi co¬me un sogno straordinariamente realistico e piacevole. Luther tornò a guardare la Russell.
Era più che mai inquietante vedere quella donna che gli sorri¬deva così direttamente, in quella stanza di morte, senza sapere che lui era lì. In quel volto c'era potere, e nei suoi occhi un'espres¬sione che Luther aveva già visto una volta in quella stanza. Anche quella donna era pericolosa.
— Voglio che questo posto sia completamente sterilizzato, ec¬cetto lei. — La Russell indicò la defunta signora Sullivan. — Un momento, anzi. Le avrà probabilmente messo le mani dapper¬tutto. Burton, voglio che me la esamini centimetro per centimetro e che faccia scomparire qualunque cosa abbia il sospetto che non appartenga a lei. Poi le rimetta gli abiti addosso.
Burton si infilò i guanti e si mise all'opera.
Seduto di fianco al Presidente, Collin gli versò di forza in go¬la un'altra tazza di caffè. Avrebbe contribuito a schiarirgli la mente, ma solo il trascorrere del tempo gli avrebbe restituito la completa lucidità. La Russell si sedette a fianco e prese una mano del Presidente fra le proprie. Adesso era vestito e sufficientemente in ordine, per quanto ancora spettinato. Gli avevano bendato alla meglio la ferita al braccio. Godeva di un'eccellente salute e sarebbe guarito in fretta.
— Signor Presidente? Alan? Alan? — La Russell gli prese la testa tra le mani e la girò verso di sé.
Aveva forse sentore di che cosa gli aveva fatto? Ne dubitava. Qualche ora prima lui aveva tradito un bisogno praticamente incontenibile di fare l'amore, la voglia sfrenata di penetrare una donna. E lei gli aveva ceduto il proprio corpo, senza domande. Tecnicamente aveva commesso un atto di violenza carnale. In concreto era sicura di aver realizzato un sogno condiviso da molti maschi. Pazienza se lui non serbava alcun ricordo di quanto era avvenuto, nessuna traccia del suo sacrificio. In ogni caso, ora avrebbe saputo con certezza che cosa lei aveva inten¬zione di fare per lui.
Gli occhi del Presidente stentavano a metterla a fuoco. Collin gli massaggiò il collo. Si stava riprendendo. La Russell control¬lò l'ora: le due. Dovevano rientrare. Lo schiaffeggiò in viso, non troppo forte ma abbastanza da risvegliare la sua attenzio¬ne. Avvertì la tensione nei muscoli di Collin. Gesù, com'erano miopi quei gorilla.
— Alan, ci hai fatto l'amore?
— Cosa...
— Avete scopato?
— Come... No, non credo. Non ricor...
— Gli dia dell'altro caffè, glielo pompi in gola se è necessa¬rio, ma me lo rimetta in sesto. — Collin annuì e si preparò a eseguire l'ordine, mentre la Russell si avvicinava a Burton, le cui mani inguantate stavano esaminando con perizia ogni centimetro della defunta signora Sullivan.
Burton aveva partecipato a numerose indagini di polizia, e sapeva esattamente dove e che cosa doveva cercare un buon in¬vestigatore. Non aveva mai previsto di doversi servire della sua professionalità per un insabbiamento, ma non aveva mai nem¬meno lontanamente immaginato che sarebbe potuto accadere qualcosa del genere.
Si guardò intorno, considerando mentalmente quali altre zo¬ne della casa avrebbe dovuto perquisire, in quali altre stanze i due potessero essere passati. Non si poteva fare niente per i segni che la donna aveva sul collo e per le altre tracce, visibili so¬lo al microscopio, che senza dubbio avrebbero rinvenuto in al¬tri punti del suo corpo. Nessuna contromisura avrebbe potuto evitare che il medico legale li rilevasse. D'altra parte era invero-simile che i segni di una colluttazione venissero fatti risalire al Presidente, a meno che la polizia avesse ritenuto il Presidente un indiziato, ipotesi più che mai irrealistica.
La contraddizione di un tentato strangolamento seguito da un decesso provocato da armi da fuoco era un enigma da la¬sciare all'immaginazione dei funzionari di polizia.
Fatte queste riflessioni, Burton cominciò a tirare gli slip su per le gambe della morta. Si sentì battere un dito sulla spalla.
— La controlli.
Burton alzò gli occhi. Fece per dire qualcosa.
— La controlli! — Il cipiglio della Russell era il medesimo che Burton le aveva visto rivolgere un milione di volte ai vari funzio¬nari della Casa Bianca. Avevano tutti un sacro terrore di lei. Lui non ne era intimorito, ma era abbastanza sveglio da pararsi il cu¬lo quando c'era la Russell nei paraggi. Fece come gli era stato or¬dinato. Poi riposizionò il corpo esattamente come quando era stramazzato sul pavimento. Riferì con un breve cenno negativo del capo.
— Sicuro? — La Russell era poco convinta, anche se dal suo interludio con il Presidente aveva dedotto che con tutta probabi¬lità non c'era stata penetrazione, o in caso contrario non aveva comunque eiaculato. Potevano però esserci delle tracce. C'era da rabbrividire al pensiero di che cosa erano in grado di determina¬re ormai partendo da un campione di dimensioni infinitesime.
— Non sono un ginecologo, dannazione. Non ho visto niente e se ci fosse stato qualcosa credo che me ne sarei accorto, però non vado in giro con un microscopio in tasca.
La Russell dovette accontentarsi. C'erano ancora un mucchio di cose da fare e non avevano molto tempo.
— Johnson e Varney hanno detto niente?
Collin rialzò la testa. Stava assistendo il Presidente, intento a mandar giù la sua quarta tazza di caffè. — Si stanno doman¬dando che cosa diavolo è successo, se è questo che intende.
— Non gli avrà raccontato...
— Solo quello che mi ha detto di dire lei, signora — tagliò corto lui. — Sono ottimi elementi, al seguito del Presidente fin dai tempi della campagna elettorale. Non faranno niente che possa inguaiarlo, okay?
La Russell lo ricambiò con un sorriso. Un bravo ragazzo, neanche da buttar via, ma soprattutto un membro leale della cerchia più stretta intorno al Presidente. Le sarebbe stato molto utile. Era Burton a preoccuparla. Gloria però sapeva di poter contare su un asso nella manica: erano stati lui e Collin a pre¬mere il grilletto, forse nel rispetto delle consegne ricevute, ma chi poteva assicurarlo? C'erano dentro fino al collo anche loro.
Luther osservava il terzetto in azione vergognandosi un po' dell'ammirazione che provava, date le circostanze. Erano in gamba, metodici, precisi, attenti, non si lasciavano sfuggire il minimo particolare. Non c'era grande differenza tra i rappre¬sentanti della legge devoti alla propria missione e i criminali professionisti, abilità tecnica e competenza erano molto simili, cambiava solo il fine per cui venivano applicate. Ma è appunto il fine a determinare il giudizio, non è vero?
Ora la donna, distesa sul pavimento esattamente là dov'era caduta, era stata completamente rivestita. Collin stava finendo di pulirle le unghie. Sotto ciascuna aveva iniettato una soluzio¬ne detergente che adesso stava risucchiando con una piccola si¬ringa, così da eliminare eventuali frammenti di pelle o altro che potesse incriminare il Presidente.
Il letto era stato rifatto con biancheria fresca e le lenzuola sporche erano finite in una sacca che avrebbe avuto come desti¬nazione finale un inceneritore. Collin aveva già perlustrato tut¬to il pianterreno.
Tutto quello che avevano toccato, salvo che per un unico og¬getto, era stato debitamente ripulito. Ora Burton stava passan¬do l'aspirapolvere sulla moquette. Sarebbe stato lui l'ultimo ad andarsene, camminando a ritroso e cancellando puntigliosa¬mente ogni loro traccia.
Poco prima Luther li aveva visti saccheggiare la camera da letto. Non aveva saputo trattenersi dal sorridere avendo imme¬diatamente intuito qual era il loro proposito: fingere un inci¬dente nel corso di un furto. La collana era finita in un sacchetto con tutti gli anelli. L'idea era di far credere che la giovane don¬na fosse stata uccisa da un ladro sorpreso a rubare in casa sua, e nessuno poteva immaginare che a due metri da loro c'era un topo di appartamenti in carne e ossa che li stava guardando e ascoltando.
Un testimone oculare!
Luther non era mai stato testimone oculare di un furto se non quelli commessi da lui stesso. Un criminale prova un odio naturale per i testimoni oculari. Se le persone in quella camera avessero saputo che Luther si trovava lì, l'avrebbero ucciso all'istante; non c'erano dubbi. Un vecchio delinquente, con tre pene detentive alle spalle, era un sacrificio modesto per la sal¬vezza dell'Uomo del Popolo.
Ancora intorpidito, il Presidente si alzò e con l'aiuto di Burton si diresse lentamente fuori dalla stanza. La Russell li guardò al¬lontanarsi senza far caso alla frenetica ricerca di Collin. Alla fi¬ne, gli occhi attenti dell'uomo si fermarono sulla borsa della Russell appoggiata sul comodino, da cui spuntava il manico del tagliacarte. Con l'aiuto di un sacchetto di plastica, Collin estras¬se l'oggetto e si apprestò a pulirlo. Luther trasalì involontaria-mente vedendo la Russell che gli afferrava la mano.
— Non lo faccia, Collin.
Collin non era scaltro come Burton, e meno che mai possede¬va il talento strategico della Russell. Rimase perplesso.
— Ma questo è pieno di impronte del Presidente, signora. E ci sono anche quelle della tizia, più macchie di quell'altra roba, se mi capisce. Il manico è di cuoio, si è inzuppato.
— Agente Collin, sono stata assunta dal Presidente come suo responsabile tattico e strategico. Quella che a lei può sembrare un'iniziativa del tutto logica, dal mio punto di vista richiede un esame molto più approfondito, e finché non sarà completata un'analisi accurata della situazione, lei non pulirà quel tagliacar¬te. Lo metterà in un contenitore adeguato e lo consegnerà a me.
Collin fu sul punto di protestare, ma desistette sotto lo sguar¬do minaccioso della Russell. Ripose come gli era stato richiesto il tagliacarte in una busta, e la porse alla donna.
— Faccia attenzione, signora Russell.
— Faccio sempre attenzione, Tim.
Gli rivolse un altro sorriso. Lui contraccambiò. Non l'aveva mai chiamato per nome. Collin si domandò se lei se ne fosse ac¬corta. Si rendeva anche conto, e non per la prima volta, che il Capo dello Staff era una donna molto attraente.
— Sì, signora — e cominciò a riporre l'attrezzatura.
— Tim?
Collin le rivolse lo sguardo. La Russell gli si avvicinò, lo guardò dritto negli occhi e gli parlò a voce bassa. Collin ebbe persino la sensazione che fosse un po' imbarazzata.
— Tim, ci troviamo di fronte a una situazione decisamente straordinaria. Ho bisogno di tempo per orientarmi. Mi capisci?
Collin annuì. — Che sia straordinaria è fuori discussione. Mi si sono drizzati i capelli in testa quando ho visto quella lama che stava per spaccare il cuore al Presidente.
Lei gli toccò il braccio. Le sue unghie erano sorprendente¬mente lunghe e perfettamente curate. Nell'altra mano reggeva la busta con il tagliacarte. — Questo deve restare tra noi, Tim. D'accordo? Presidente escluso. Escluso anche Burton.
— Non so...
Lei gli strinse la mano. — Tim, ho veramente bisogno del tuo appoggio, questa volta. Il Presidente non ha idea di che cosa sia successo e ho l'impressione che, ora come ora, Burton non stia affrontando l'emergenza con tutta la razionalità del caso. Ho bi¬sogno di qualcuno di cui fidarmi. Ho bisogno di te, Tim. È una questione troppo delicata. Questo lo capisci anche tu, no? Non te lo chiederei se non pensassi che sei perfettamente all'altezza.
Lui sorrise al complimento e affrontò il suo sguardo.
— Va bene, signora Russell. Come vuole lei.
Mentre Collin terminava il suo lavoro, la Russell osservò la lama insanguinata che per così poco non aveva messo fine alle sue ambizioni politiche. Se il Presidente fosse rimasto ucciso, non sarebbe stato possibile insabbiare un bel niente. Già, insab¬biare: che brutta parola. Però era un'operazione sovente neces¬saria nel mondo dell'alta politica. Rabbrividì al pensiero di quali sarebbero potuti essere i titoli: IL PRESIDENTE TROVATO MORTO NELLA CAMERA DA LETTO DI UN AMICO INTIMO. LA MOGLIE DELL'AMICO INDIZIATA DELL'OMICIDIO. LA DIRIGENZA DEL PARTITO CHIEDE LA TESTA DEL CAPO DELLO STAFF, GLORIA RUSSELL. Ma non era andata così. E così non sarebbe andata.
L'oggetto che teneva nella mano valeva più di una montagna di plutonio, più dell'intera produzione di petrolio dell'Arabia Saudita.
Con un'arma come quella in suo possesso, chissà... magari addirittura il binomio Russell-Richmond? Le si aprivano possi¬bilità assolutamente infinite.
Sorrise e ripose la busta nella borsetta.
L'urlo fece voltare di scatto la testa a Luther. Una fitta di dolore gli attraversò il collo e solo a fatica trattenne un gemito.
Il Presidente era rientrato di corsa. Aveva gli occhi strabuzza¬ti, ma era ancora mezzo ubriaco. Il ricordo di quelle ultime ore gli si era riacceso nella mente con la forza d'urto di un Boeing 747 che gli fosse atterrato sulla testa.
Burton lo seguiva ansimando. Il Presidente si lanciò sul cada¬vere. Gloria appoggiò la borsetta sul comodino, e insieme a Collin lo intercettò a metà strada.
— Dio del cielo! È morta! L'ho uccisa. Oh, Signore Iddio, aiutami. L'ho uccisa! — gridò e poi singhiozzò e poi gridò di nuovo. Cercò di forzare il blocco che lo ostacolava, ma era an¬cora troppo debole. Burton lo tirò indietro.
Poi in un impeto convulso il Presidente si sbarazzò delle loro braccia, e lanciandosi in avanti rovinò contro il muro, finì ad¬dosso al comodino e infine si accasciò sul pavimento, accartoc¬ciandosi in posizione fetale a piagnucolare accanto alla donna con la quale quella notte aveva avuto intenzione di fare l'amore.
Luther provò sincero ribrezzo. Si massaggiò il collo scuoten¬do lentamente la testa. L'incredibile susseguirsi degli avveni¬menti di quella notte cominciava a diventargli insopportabile.
Il Presidente si rialzò muovendosi con cautela. Dall'espressio¬ne, c'era da ritenere che Burton la pensasse più o meno come Luther, ma l'agente non aprì bocca. Collin sollecitò con uno sguardo istruzioni da parte della Russell, che si rallegrò intima¬mente dell'implicito passaggio di poteri.
— Gloria?
— Sì, Alan?
Luther aveva notato come la Russell aveva contemplato il ta¬gliacarte. Lui sapeva qualcosa che nessun altro in quella stanza sapeva.
— Non ci saranno conseguenze? Fai che vada tutto a posto, Gloria. Ti prego. Oh Dio, Gloria!
Lei gli posò la mano sulla spalla, in un gesto di rassicurazio¬ne simile a quelli che aveva ripetuto per centinaia di migliaia di chilometri di campagna elettorale. — È tutto sotto controllo, Alan. Ho messo tutto sotto controllo.
Il Presidente era ancora troppo ubriaco per cogliere il signifi¬cato delle sue parole, ma Gloria non se ne curò.
Burton si premette l'auricolare e ascoltò attentamente per qualche istante. Poi si girò verso la Russell.
— È meglio che alziamo i tacchi. Varney dice che sta arrivan¬do un'auto di pattuglia.
— Il sistema d'allarme...? — cominciò Gloria in tono ansioso.
Burton scosse la testa. — Probabilmente è una normale ispe¬zione di una guardia giurata, ma se vede qualcosa... — Non eb¬be bisogno di aggiungere altro.
In un quartiere come quello allontanarsi dal luogo del delitto a bordo di una limousine era senz'altro la miglior copertura possibile. La Russell poté solo complimentarsi con se stessa per aver preso l'abitudine di noleggiare macchinoni senza autista per le piccole scorribande del suo Presidente. Anche se qualcu¬no li avesse notati, i nomi sui registri erano tutti falsi, deposito cauzionale e tariffa venivano pagati in contanti e l'automobile veniva riconsegnata dopo poche ore. La transazione avveniva in maniera totalmente indiretta e il veicolo veniva completa¬mente sterilizzato prima della riconsegna. Se la polizia avesse indagato lungo quella pista, cosa peraltro altamente improbabi¬le, si sarebbe ritrovata in un vicolo cieco.
— Via! — ordinò Gloria, con la voce ora lievemente alterata dalla preoccupazione.
Aiutarono il Presidente a rimettersi in piedi. La Russell uscì con lui. Collin prese i sacchi. Poi si fermò di colpo.
Luther deglutì.
Collin si voltò, recuperò la borsetta della Russell dal comodi¬no e uscì.
Burton accese il piccolo aspirapolvere, finì di passarlo sulla moquette, spense la luce e richiuse la porta.
L'ambiente di Luther ripiombò nelle tenebre.
Era la prima volta che si ritrovava solo in quella stanza con il cadavere della giovane donna. Tutti gli altri avevano fatto in fretta ad abituarsi al corpo insanguinato riverso sul pavimento, scavalcandolo o passandovi attorno come evitando un qualsiasi oggetto inanimato; ma per Luther non era così, lui non si era per niente abituato ad avere la morte a un paio di metri di di¬stanza.
Non poteva più vedere gli abiti sporchi di sangue e il corpo esanime che li indossava, ma sapeva che erano lì. "Una putta¬na imbottita di soldi" era probabilmente l'epitaffio che l'opi¬nione pubblica avrebbe messo in circolazione. Sì, aveva tradito suo marito, ma a parte il sospetto che a lui non sarebbe impor¬tato un bel niente, non aveva comunque meritato una morte come quella. Luther aveva assistito alla scena con i propri oc¬chi ed era assolutamente certo che lui l'avrebbe uccisa: se non fosse stato per la fulminea reazione della donna, il Presidente l'avrebbe ammazzata.
Luther non si sentiva di biasimare gli uomini dei servizi se¬greti, che avevano un incarico e l'avevano svolto secondo le consegne. Quella donna aveva scelto l'uomo sbagliato per un tentativo di omicidio nel furore del momento. Forse era meglio così. Se la sua mano fosse stata appena più veloce o la reazione degli agenti appena più lenta, lei avrebbe poi passato il resto dei suoi giorni in galera. Oppure poteva anche essere giustiziata per aver ucciso un Presidente.
Luther si sedette in poltrona. Aveva le gambe stanche. Si sforzò di rilassarsi. Presto avrebbe preso il largo e avrebbe avu¬to bisogno di energie fisiche per correre.
Aveva parecchio su cui riflettere, dal momento che involonta¬riamente stavano incastrando Luther Whitney come indiziato numero uno in quello che senza dubbio era destinato a essere considerato un delitto macabro e scellerato. Data la posizione sociale della vittima, per trovare l'assassino sarebbe sceso in campo un largo schieramento di forze, ma mai e poi mai avreb¬bero cercato la risposta all'enigma al numero 1600 di Pennsylvania Avenue. Nossignori, avrebbero provato altrove e, per quanto lungimiranti potessero essere le precauzioni prese da Luther, non si poteva escludere che sarebbero arrivati fino a lui. Era in gamba, molto in gamba, ma non aveva mai dovuto lotta¬re contro il tipo di forze che sarebbero state sguinzagliate alla ricerca dell'autore di quel delitto.
Rivisitò velocemente il piano che lo aveva portato lì quella notte. Non trovò difetti evidenti, ma di solito sono proprio i meno appariscenti a fregarti. Deglutì, strinse e distese ripetutamente le dita, allungò le gambe, fece tutto quanto era in suo po¬tere per calmarsi. Una cosa alla volta. Ancora non era uscito da quella casa. Molte cose sarebbero potute andare storte, e senza dubbio almeno un paio non avrebbero funzionato per il verso giusto.
Avrebbe atteso ancora due minuti. Contò i secondi, immagi¬nando che il Presidente e il suo seguito avrebbero sicuramente aspettato di conoscere i movimenti dell'auto di ronda prima di partire.
Aprì la borsa. Dentro c'erano molti degli oggetti contenuti nella cassaforte. Si era quasi dimenticato di essersi recato lì per rubare e di averlo fatto. La sua automobile era parcheggiata a parecchie centinaia di metri. Ringraziò Iddio di aver smesso di fumare da parecchio tempo: avrebbe avuto bisogno di tutta la capacità polmonare che aveva a disposizione. Quanti erano gli agenti dei servizi segreti con i quali avrebbe dovuto battersi? Almeno quattro. Merda!
Lo specchio si aprì lentamente e Luther uscì in camera da letto. Premette per l'ultima volta il pulsante del telecomando, che poi lasciò cadere sulla poltrona mentre lo sportello si ri¬chiudeva.
Il suo sguardo andò alla finestra. Aveva previsto l'eventualità di servirsene come via di fuga alternativa e nella borsa aveva portato una matassa di trenta metri di resistentissima fune di nylon, lungo la quale aveva stretto un nodo a intervalli di quin¬dici centimetri.
Si tenne a debita distanza dal cadavere, attento a non pestare nessuna delle macchie rosse la cui posizione aveva memorizza¬to. Lanciò una sola occhiata al corpo di Christine Sullivan. Im¬possibile riportarla in vita. Ora il suo problema era conservare la propria.
Si avvicinò al comodino e vi infilò dietro la mano.
Con la punta delle dita trovò la busta di plastica. Urtando il mobile, il Presidente aveva rovesciato la borsetta di Gloria Russell e la busta di plastica e l'oggetto di immenso valore che con¬teneva erano scivolati dietro il comodino.
Luther tastò la lama del tagliacarte attraverso la plastica pri¬ma di riporre la busta nella sua sacca. Poi raggiunse velocemen¬te la finestra e spiò fuori. La limousine e il furgone erano anco¬ra al loro posto. Brutto segno.
Riattraversò la stanza, estrasse la matassa della fune, ne legò un'estremità a una gamba della massiccia cassettiera e la sro¬tolò procedendo in direzione dell'altra finestra, dalla quale si sarebbe calato sul lato opposto della villa, quello nascosto dalla strada. Aprì la finestra lentamente, pregando che i binari fosse¬ro ben lubrificati, e venne esaudito.
Lasciò cadere la fune all'esterno e la guardò srotolarsi lungo la superficie di mattoni.
Gloria Russell contemplò la facciata imponente. Lì dietro c'erano soldi nel senso più concreto del termine, soldi e una posizione sociale che Christine Sullivan non meritava. Se li era conquistati con le tette, un modo sapiente di sculettare e una pittoresca volgarità nel parlare che aveva misteriosamente ispi¬rato il vecchio Walter Sullivan, risvegliando in lui emozioni ri¬maste sepolte nelle involuzioni di una personalità complicata. Di lì a sei mesi lui non avrebbe più sentito la sua mancanza, e il suo mondo di ultraconsolidati poteri e ricchezza avrebbe continuato per la sua strada.
Poi le venne un colpo.
Aveva già riaperto lo sportello della limousine, che Collin la trattenne per un braccio. Le mostrò la borsetta di pelle che lei aveva comperato per cento dollari a Georgetown ma che ora aveva un valore incalcolabile. La Russell tornò ad appoggiarsi allo schienale e riprese fiato. Sorrise a Collin, quasi arrossendo.
Il Presidente, in uno stato quasi catatonico, non si accorse di nulla.
Poi la Russell guardò nella borsetta, tanto per sicurezza, e re¬stò a bocca aperta. Frugò freneticamente nei pochi effetti perso¬nali. Dovette fare appello a tutta la sua forza di volontà per non mettersi a strillare come un'indemoniata. Alzò occhi dilatati dall'orrore sul giovane agente dei servizi segreti. Il tagliacarte non c'era. Doveva essere rimasto in casa.
Collin risalì precipitosamente le scale, inseguito da un Burton più confuso che mai.
Luther era a metà del muro esterno quando li udì arrivare.
Ancora tre metri.
Fecero irruzione in camera da letto.
Due metri.
Giusto un attimo di sbigottimento quando i due agenti vide¬ro la fune, e Burton si era già tuffato verso la finestra.
Un metro ancora e Luther mollò la presa, cadendo pesante¬mente sul terreno.
Burton si affacciò. Collin spostò il comodino con un calcio: niente. Raggiunse Burton alla finestra. Luther era già scompar¬so dietro l'angolo. Burton fece per calarsi a sua volta, ma Collin lo fermò. Avrebbero fatto più in fretta ridiscendendo le scale.
Si catapultarono fuori dalla porta.
Luther arrancava tra i filari di granoturco senza più preoccupar¬si delle tracce che lasciava dietro di sé, guidato solo dall'istinto di sopravvivenza. La sacca lo rallentava un po', ma aveva faticato troppo in quegli ultimi mesi per accontentarsi di andarsene a ma¬ni vuote.
Sbucò con l'impeto di un'esplosione dalla copertura dei fusti e dovette affrontare il tratto più pericoloso della sua fuga: cento metri allo scoperto. Ma la luna era scomparsa dietro una coltre di nuvole e non c'erano lampioni in campagna. Vestito di nero com'era, sarebbe stato quasi impossibile avvistarlo. Tuttavia, al buio l'occhio umano individua più facilmente i movimenti, e lui si stava muovendo più veloce che poteva.
La camera da letto padronale si trovava al secondo piano, raggiungibile da un ascensore in fondo al corridoio di destra, ma Luther preferì usare le scale: meno si affidava a congegni di cui non aveva il controllo assoluto, meglio era. Trovarsi blocca¬to per settimane in una cabina d'ascensore non rientrava nel programma.
Guardò il rivelatore all'angolo del soffitto, ora felicemente ad¬dormentato con la sua bocca rettangolare che quasi sembrava at¬teggiata a un sorriso, quindi salì le scale.
La porta della camera da letto non era chiusa a chiave. Mise subito in funzione la sua lampada da lavoro anabbagliante, a bassa potenza, e si concesse qualche attimo per guardarsi attor¬no. L'oscurità era rotta dal riverbero verde di un secondo pan¬nello di controllo, montato accanto alla porta.
La villa era di recente costruzione, Luther aveva controllato in tribunale ed era persino riuscito ad avere accesso a una serie di planimetrie presso l'ufficio di pianificazione urbanistica; le dimensioni non comuni avevano infatti richiesto un'autorizza¬zione speciale da parte delle autorità locali, come se queste avessero mai potuto ostacolare i cittadini benestanti nella rea¬lizzazione dei loro desideri.
Luther non aveva riscontrato sorprese. Era una costruzione grande e solida, che valeva fino all'ultimo centesimo i milioni di dollari pagati in contanti dal suo proprietario.
In verità, Luther l'aveva già visitata una volta, in pieno gior¬no, in mezzo ad altre persone. Si era trovato proprio in quella stanza e aveva visto quello che doveva vedere. Era il motivo per cui si trovava lì adesso.
Sovrastato da una modanatura ornamentale di quindici centimetri, si chinò presso il gigantesco letto a baldacchino. Di fianco al letto c'era un comodino. Sul comodino un piccolo orologio d'argento, il più recente bestseller sentimentale e un tagliacarte d'antiquariato, argentato e con una grossa impugna¬tura rivestita in pelle.
Tutto era grandioso, tutto costoso. C'erano tre guardaroba dietro altrettante porte, ciascuno grande quanto il soggiorno di Luther. Due contenevano effetti femminili, indumenti, scarpe, borsette e tutti gli altri accessori per i quali si voglia razional¬mente o irrazionalmente spendere denaro. Luther osservò le fo¬tografie incorniciate sul comodino e considerò con una punta di riprovazione i poco più di vent'anni della "piccola donna" con¬fronto ai settanta suonati del marito.
C'erano molti tipi di lotterie al mondo, e non tutte statali.
Alcune delle fotografie mettevano nel massimo risalto le mi¬sure della padrona di casa, e un rapido esame del guardaroba rivelò che i suoi gusti nel vestire volgevano decisamente al pac¬chiano.
Luther alzò gli occhi sullo specchio a figura intera e ne stu¬diò la sontuosa cornice intagliata. Poi ne esaminò i lati. Era massiccio, elegante, e dava l'impressione di essere incassato nel muro, ma lui sapeva dei cardini accuratamente nascosti nella nicchia retrostante, a una spanna dal lato superiore e da quello inferiore.
Tornò a osservare la superficie riflettente. Luther aveva il vantaggio di essersi imbattuto in un oggetto simile un paio di anni prima, sebbene non avesse in programma di forzarlo. Ma non si ignora un secondo uovo d'oro solo perché si è già messo al sicuro il primo, così l'aveva forzato e gli aveva fruttato cin¬quantamila dollari. Dietro quest'altro specchio calcolava di tro¬vare un tesoro dieci volte superiore.
Ricorrendo all'uso di un piede di porco Luther avrebbe potu¬to forzare senza problemi la serratura nascosta nella cornice dello specchio, ma avrebbe sprecato tempo prezioso. E, soprat¬tutto, avrebbe lasciato sul posto segni evidenti dello scasso. Sebbene fosse previsto che la villa sarebbe rimasta vuota per al¬cune settimane ancora, non si poteva mai dire. No, quando se ne sarebbe andato non sarebbe rimasta alcuna traccia del suo passaggio, anche se i proprietari, al loro rientro, avrebbero potuto lasciar passare un po' di tempo prima di controllare la cassaforte. In ogni caso, Luther non era costretto a ricorrere alle maniere forti.
Si avvicinò al televisore con megaschermo situato nella parte dell'ampia camera allestita a salotto, con poltrone gemelle rico¬perte in cintz e uno spazioso tavolo basso. Osservò i tre teleco¬mandi. Uno era quello della TV, uno era per il videoregistratore e il terzo era quello che avrebbe ridotto del novanta per cento le sue fatiche notturne. Tutti portavano il nome del rispettivo pro¬duttore e a guardarli superficialmente sembravano uguali, ma un rapido esperimento dimostrò che solo due azionavano gli elettrodomestici corrispondenti e uno no.
Tornò dall'altra parte della stanza, puntò il telecomando verso lo specchio e premette il pulsante rosso situato più in basso. Nor¬malmente avrebbe avviato la registrazione di un nastro, invece quella sera, in quella stanza, stava aprendo la banca di casa per metterla a disposizione del suo unico, fortunato cliente.
Luther osservò lo sportello che si apriva dolcemente e silen¬ziosamente sui cardini in lega, che non avevano bisogno di ma¬nutenzione. Per abitudine ormai consolidata, ripose il teleco¬mando esattamente dove l'aveva trovato, quindi prese dallo zaino una sacca ripiegata ed entrò nel forziere.
Alla luce della torcia, osservò stupito la poltrona al centro di un vano di circa due metri per due. Su un bracciolo c'era un te¬lecomando identico a quello che aveva appena usato, evidente¬mente una precauzione nel caso di rimanere chiusi lì dentro per sbaglio. Poi il suo sguardo si spostò sugli scaffali.
Per prima cosa fece razzia del denaro contante, ordinatamen¬te suddiviso in mazzette, quindi toccò ad alcuni particolari astucci che non custodivano affatto gioielli. Luther contò obbligazioni e altri titoli negoziabili per un valore di circa duecento¬mila dollari. Poi due piccole scatole di monete antiche e un'al¬tra di francobolli, tra i quali uno con l'immagine capovolta che lo fece deglutire a vuoto. Esclusi i documenti legali e le azioni nominali, che per lui non avevano alcun valore, la sua rapida stima si fermò intorno ai due milioni di dollari.
Si guardò intorno ancora una volta, attento a non tralasciare dal suo inventario nemmeno il più remoto angolino. Le pareti erano spesse e dovevano essere a prova di incendio, secondo le più avanzate tecniche di costruzione. La stanzetta blindata non era tuttavia ermetica, perché l'aria era fresca. Ci si sarebbe po¬tuti trattenere per giorni.
La limousine procedeva ad andatura sostenuta seguita dal fur¬gone. Entrambi i conducenti erano abbastanza esperti da guida¬re a quella velocità senza bisogno della luce dei fanali.
Nello spazioso abitacolo posteriore della limousine viaggia¬vano un uomo e due donne, una delle quali, quasi del tutto ubriaca, si adoperava come meglio riusciva per spogliare se stessa e il passeggero, eludendo i pacati sforzi difensivi della sua vittima.
L'altra donna, seduta in faccia a loro, mostrava di ignorare quel ridicolo spettacolo sottolineato da risolini infantili e un grande ansimare, ma in realtà seguiva fin nei particolari i con¬torcimenti della coppia. Apparentemente il suo sguardo era po¬sato sulla grande agenda che teneva aperta sulle ginocchia e sulla quale appunti e appuntamenti si rubavano spazio per cer¬care l'attenzione dell'uomo che le sedeva di fronte, e che in quel momento, approfittando della tregua concessagli dalla sua compagna per sfilarsi le scarpe con i tacchi a spillo, si stava versando di nuovo da bere. La sua resistenza era straordinaria: era in grado di bere il doppio di quanto già aveva consumato in quella sera senza lasciar poi trasparire alcun segno esteriore, nessun incespicamento nel parlare o impedimento nelle funzio¬ni motorie, che sarebbero stati fatali in una persona nella sua posizione.
Lei non poteva fare a meno di ammirarlo, capace com'era di coniugare le sue ossessioni e gli aspetti più rudi del suo caratte¬re con un'immagine esteriore di purezza, forza, normalità e, contemporaneamente, grandezza. Non c'era donna in America che non fosse innamorata di lui, giovane, di mezza età o anzia¬na; affascinata dalla virilità classica della sua bellezza, dalla sensazione di immensa sicurezza che trasmetteva e anche da ciò che rappresentava per tutte loro. E lui aveva ripagato tanta am¬mirazione con una passione che, sebbene mal riposta, l'aveva sbalordita.
Purtroppo tanta generosità non aveva mai trovato la strada per arrivare a lei, a dispetto dei suoi mirati sottintesi, dei con¬tatti fisici prolungati un attimo di troppo, degli stratagemmi con cui faceva in modo di incontrarlo già nelle prime ore del mattino quando era in grado di presentare il meglio di sé, delle allusioni erotiche che insinuava nel corso delle loro riunioni strategiche. Ma finché non fosse arrivato quel momento, un momento che lei sapeva sarebbe sicuramente arrivato, avrebbe seguitato a coltivare la virtù della pazienza.
Guardò dal finestrino. Stava andando per le lunghe, stravolge¬va l'ordine prestabilito delle cose. Fece una smorfia di disgusto.
Luther udì i veicoli che imboccavano il viale d'accesso.
Strisciò verso la finestra e seguì la direzione dei veicoli che gi¬ravano l'angolo della villa per portarsi dove non sarebbero stati visibili dal viale d'accesso. Contò quattro persone che scende¬vano dalla limousine, e una dal furgone. Rifletté rapidamente su chi potessero essere. Troppo pochi perché fossero i proprietari; troppi perché fossero venuti solo per un controllo. Non riusciva a distinguere in faccia nessuno di loro. Per un momen¬to si domandò se l'ironia della sorte avesse voluto che la villa fosse svaligiata due volte nella stessa notte, ma la coincidenza era troppo clamorosa. Nel suo, come in molti altri lavori, le percentuali giocavano un ruolo essenziale e in ogni caso non era verosimile che dei criminali si recassero vestiti da sera in corteo sul luogo dove effettuare il colpo.
Meditò alacremente ascoltando i rumori che gli giungevano presumibilmente dal retro della villa. Impiegò non più di un se¬condo per stabilire che la via della ritirata gli era preclusa e per determinare quali contromisure prendere.
Afferrò la borsa e attivò il sistema di sicurezza dal pannello della camera da letto, benedicendo la buona memoria che gli aveva fatto ricordare con precisione la sequenza dei numeri. Quindi tornò rapido nella cassaforte, chiudendosi accurata¬mente la porta alle spalle. Andò a rannicchiarsi nell'angolo più lontano e si rassegnò ad aspettare.
Imprecò contro la sfortuna, dopo che tutto era proceduto co¬sì bene. Poi scrollò con forza la testa per riprendersi dal malu¬more e si costrinse a respirare con regolarità. Era come volare, più a lungo lo facevi, più crescevano le probabilità che qualcosa andasse storto. Non avrebbe potuto fare altro che aspettare, e sperare che nessuno dei nuovi arrivati avesse necessità di effet¬tuare un deposito nella banca privata che lo stava attualmente ospitando.
Ci furono uno scoppio di risa e poi un sordo rimbombo di voci trafitto dallo stridulo ronzio del sistema d'allarme, che ri¬suonò come il sibilo di un jet che gli passasse sopra la testa: do¬vevano aver fatto qualche confusione con il codice d'accesso. Mentre gli si imperlava la fronte di sudore, Luther visse un atti¬mo di profondo turbamento al pensiero che partisse l'allarme, facendo accorrere i poliziotti che avrebbero preteso di esamina¬re ogni centimetro della villa, a partire da quella piccola tana.
Si chiese come avrebbe reagito sentendo lo specchio ruotare sui cardini, colpito dalla luce che lo abbagliava senza la minima possibilità di mancarlo. Poi i volti sconosciuti che guardavano dentro, le pistole spianate, la lettura dei suoi diritti. Gli venne quasi da ridere. Intrappolato come un topo, senza scampo. Era¬no quasi trent'anni che non fumava, ma mai come in quel mo¬mento provò il bisogno di una sigaretta. Posò silenziosamente la borsa e si sedette per terra allungando adagio le gambe in maniera che non gli si addormentassero.
Passi pesanti sulla scala di quercia. Chiunque fossero, non si preoccupavano che qualcuno sapesse della loro presenza lì, la qual cosa poteva essere giudicata allo stesso modo un bene o un male. Quattro persone di certo, forse cinque. Svoltarono a sini¬stra e procedettero dalla sua parte.
La porta della camera da letto si aprì con un cigolio sommes¬so. Luther ricostruì mentalmente i propri movimenti. Tutto era stato rimesso a posto. Aveva toccato solo il telecomando, che aveva ricollocato esattamente sul rettangolo privo di polvere. Ora distingueva solo tre voci, una maschile e due femminili. Una delle donne doveva aver bevuto troppo, l'altra era tutta ef¬ficienza. Poco dopo la signora Efficienza tolse il disturbo, la porta fu richiusa, ma non a chiave, e l'uomo restò solo in com¬pagnia della signora Gluglu. Dov'erano finiti gli altri? Dov'era andata la signora Efficienza? Continuavano a giungergli risoli¬ni. Passi che si avvicinavano allo specchio. Si fece più piccolo che poté nel suo angolo, nella speranza che la poltrona gli facesse da scudo, ben sapendo di non poter in alcun modo ren¬dersi invisibile.
Poi un'esplosione di luce lo accecò momentaneamente ed egli trasalì per il folgorante trasformarsi del suo piccolo mondo da nero come l'inchiostro a fulgido come un mezzogiorno in pieno sole. Batté rapidamente le palpebre per abituare gli occhi alla nuova intensità della luce e le sue pupille passarono in pochi se¬condi dalla dilatazione massima al minimo diaframma. Ma non ci fu nessun grido, nessun volto, nessuna pistola.
Lasciò trascorrere un intero minuto, poi sbirciò da dietro la poltrona e fu un secondo trauma: la porta della cassaforte era scomparsa ed egli stava guardando direttamente nella camera da letto. Per poco non cadde all'indietro, mentre tutt'a un trat¬to capiva la funzione della poltrona.
Riconobbe entrambe le persone che si trovavano in camera da letto: aveva già visto la donna quella stessa sera in fotogra¬fia, era la mogliettina con gusti da prostituta nel vestire.
Conosceva invece l'uomo per un motivo completamente di¬verso: senza dubbio non era il padrone di quella casa. Scosse lentamente la testa per lo stupore, emettendo il fiato che aveva trattenuto. Un tremito gli colse le mani e dovette resistere a un conato di vomito mentre osservava la scena.
Il dorso dello specchio che nascondeva l'accesso alla cas¬saforte era trasparente, e con la luce accesa all'esterno e l'oscu¬rità nel piccolo ambiente era come trovarsi davanti a un gigan¬tesco schermo televisivo.
Poi la vide e per un istante gli si serrò la gola: la collana di diamanti della donna. Il suo occhio esperto la valutò a un mini¬mo di duecentomila dollari, giusto la sorta di ninnolo che d'abi¬tudine si riporrebbe nella cassaforte di casa prima di andare a coricarsi. I suoi polmoni ripresero la loro funzionalità solo quando la vide togliersi il gioiello e abbandonarlo con noncu¬ranza sul pavimento.
Tranquillizzatosi, Luther si rialzò e si accomodò lentamente in poltrona. Dunque era da lì che il vecchio spiava la sua donni¬na che si faceva sbattere da una processione di giovani stalloni, magari impiegati al salario minimo o aggrappati alla libertà tra¬mite il fragile appiglio di un permesso di soggiorno. Ma questa notte l'ospite era di ben altra classe.
Si guardò intorno, tese l'orecchio per catturare i rumori degli altri della comitiva, ma che cosa avrebbe potuto mai fare? In più di trent'anni di attività ladresca, non gli era mai capitato niente di simile, perciò decise di fare l'unica cosa che poteva. Con non più di un paio di centimetri di vetro a separarlo dalla totale rovina, sprofondò un po' di più nella morbida pelle della poltrona e attese.
2
A tre isolati dalla mole bianca del Campidoglio, Jack Graham aprì la porta di casa, lasciò cadere il soprabito per terra e andò dritto al frigorifero. Con la lattina di birra in mano, si buttò sul vecchio divano in soggiorno. Bevve un sorso contemplando con un'occhiata l'ambiente angusto. Una bella differenza con il po¬sto che aveva appena lasciato. Trattenne la birra in bocca per qualche istante, prima di inghiottirla. Gli si contrassero breve-mente i muscoli della mascella squadrata, quindi si rilasciaro¬no. Il tarlo del dubbio smise a poco a poco di tormentarlo, ma avrebbe ricominciato a farsi sentire, come sempre.
Un altro pranzo importante con Jennifer, la sua promessa sposa, i genitori di lei e una rappresentanza della loro cerchia di conoscenze mondane e di lavoro. Evidentemente la gente a quel livello non frequentava semplici amici, tutti servivano a una funzione precisa e l'insieme dava un valore superiore alla som¬ma delle parti. Quanto meno, tale era l'intento, che non coinci¬deva necessariamente con l'opinione di Jack in proposito.
Industria e finanza erano ben rappresentate da nomi di cui Jack leggeva sul Wall Street Journal prima di immergersi nella pagina sportiva per sapere come stavano andando gli 'Skins o i Bullets. Poi c'erano i politici, schierati in forze a rastrellare voti futuri e dollari attuali. Il gruppo era completato dagli onnipre¬senti avvocati, fra i quali lui stesso, il luminare medico di turno in onore della tradizione, e un paio di esponenti di categorie so¬ciali di pubblico interesse, a dimostrare la solidarietà delle per-sone di potere con i cittadini comuni.
Jack finì la birra e accese la TV. Si tolse le scarpe, e le calze a rombi da quaranta dollari che gli aveva regalato la fidanzata fi¬nirono senza cerimonie appese al paralume. A darle corda, pre¬sto o tardi l'avrebbe ridotto in un paio di bretelle da duecento dollari con abbinata cravatta dipinta a mano. Merda! Si sfregò le dita dei piedi e considerò seriamente una seconda birra. La TV non riusciva a catturare il suo interesse. Si ravviò una folta ciocca di capelli bruni che gli era caduta sugli occhi e si concen-trò per l'ennesima volta su dove fosse stata catapultata la sua vita, a una velocità che non gli sembrava molto diversa da quel¬la di una navetta spaziale.
Era venuta la limousine aziendale ad accompagnare lui e Jennifer Baldwin a casa di lei, nella zona nordovest di Washington, dove con tutta probabilità si sarebbe trasferito dopo le nozze: lei detestava l'abitazione di lui. Mancavano sei mesi alle nozze, ovvero un batter d'occhi, secondo il punto di vista di una sposa, e lui se ne stava seduto lì in preda a seri ripensamenti.
Jennifer Ryce Baldwin era dotata di una bellezza folgorante, tale da far girare la testa tanto alle donne quanto agli uomini. Era anche intelligente e raffinata, il patrimonio familiare che aveva alle spalle era di quelli che contano e si era messa in testa di sposare Jack. Suo padre era a capo di una delle più grandi so¬cietà immobiliari della nazione, con interessi un po' dappertut¬to distribuiti con successo in centri commerciali, palazzi per uf-fici, emittenti radiofoniche, quartieri residenziali. Il bisnonno paterno era stato uno dei primi magnati industriali del Midwest e sua madre proveniva da una famiglia che un tempo era stata proprietaria di una notevole fetta del centro di Boston. Gli dei avevano sorriso precocemente e spesso a Jennifer Baldwin. Fra gli amici e i conoscenti di Jack, non ce n'era uno che non lo in¬vidiasse a morte.
Cambiò posizione e prese a massaggiarsi una spalla, cercando di sciogliere un inizio di crampo. Non faceva ginnastica da una settimana. Anche a trentadue anni il suo fisico, per una statura di quasi un metro e novanta, conservava la solidità che gli aveva fatto da dote durante tutto il liceo, quando era già un uomo in mezzo ai ragazzi in quasi tutti gli sport praticati, e al college, do¬ve in condizioni di competizione molto più dure era ugualmente riuscito a emergere come lottatore nella categoria dei massimi, guadagnandosi un posto in prima squadra negli All-Academic. Quei successi gli avevano aperto le porte della scuola di legge all'università della Virginia, dove si era laureato fra i primi del suo corso e da dove era passato direttamente al ruolo di difenso¬re d'ufficio del Distretto di Columbia.
Tutti i suoi compagni avevano colto al volo le occasioni of¬ferte dai grandi studi legali e successivamente si erano rifatti vi¬vi a turno, offrendogli i numeri telefonici di psichiatri che avrebbero potuto aiutarlo a guarire dal suo colpo di follia. Sor¬rise e prese la seconda birra. Adesso il frigorifero era vuoto.
Il primo anno da difensore d'ufficio era stato duro per Jack e durante l'apprendistato erano state più le cause perse di quelle vinte. Con il passare del tempo, però, aveva imparato a trattare casi via via più complessi, e mentre consumava su di essi ener¬gia giovanile, talento innato e buonsenso la situazione cominciò a cambiare.
Poi strapazzò in aula le prime persone importanti.
Si era scoperto nato per quella parte, così forte nel controinterrogatorio quanto lo era stato nel mettere al tappeto avversari più grossi di lui. Era rispettato e veniva apprezzato come un avvocato, per quanto possibile.
Poi aveva conosciuto Jennifer, vicepresidente alla Baldwin Enterprises, responsabile del settore Sviluppo e Marketing. Donna dai modi dinamici, aveva l'abilità supplementare di far sentire importanti i suoi interlocutori: le loro opinioni venivano ascoltate, anche se non necessariamente accolte. Era una donna bella che per fare carriera non aveva bisogno di affidarsi solo al proprio aspetto fisico.
Volendo guardare dietro l'avvenenza, c'era molto di più. O così sembrava. E Jack sarebbe stato qualcosa di meno di un es¬sere umano se non avesse provato attrazione per lei, tanto più che Jennifer aveva mostrato fin dal principio che era contrac¬cambiato. Mostrandosi debitamente colpita dalla sua dedizione nella difesa dei diritti dell'accusato, a poco a poco Jennifer ave¬va convinto Jack di aver ormai dato il suo generoso contributo alla causa dei poveri, degli sciocchi e degli sfortunati, inducen¬dolo a chiedersi se non fosse venuto il momento di pensare a sé e al proprio futuro, un futuro al quale non le sarebbe dispiaciu¬to partecipare. Quando finalmente lui aveva lasciato l'avvoca¬tura d'ufficio, gli amici della procura gli avevano organizzato un congedo con tutti i crismi, e dalla loro esuberanza forse lui avrebbe dovuto subito dedurre che erano ancora molti i poveri, gli sciocchi e gli sfortunati che avrebbero avuto bisogno di lui. Non prevedeva di ritrovare mai più le stesse emozioni provate nell'esercizio dell'avvocatura d'ufficio, persuaso com'era che esperienze come quella si fanno una volta sola nella vita, senza possibilità di repliche. Era tempo di mettersi in cammino, anche i ragazzini come Jack Graham dovevano crescere prima o poi. Forse era semplicemente giunto il suo momento.
Spense la TV, prese un sacchetto di noccioline e andò in ca¬mera da letto, scavalcando le montagne di indumenti da lavare che si erano accumulate davanti alla porta. Ecco perché a Jennifer non piaceva casa sua, l'aveva ridotta a un porcile. Ma lo an¬gustiava di più l'assoluta certezza che anche se fosse stata im¬macolata, lei avrebbe rifiutato di viverci. Tanto per cominciare, era nel quartiere sbagliato. Sì, era a Capitol Hill, ma non nella parte nobile, e nemmeno nelle sue vicinanze.
Poi c'era il problema delle dimensioni. La residenza di città in cui lei avrebbe vissuto doveva essere sui cinquecento metri qua¬drati, escludendo l'alloggio per la collaboratrice domestica e il box doppio per la sua Jaguar e una Range Rover nuova di zec¬ca, come se un abitante di Washington, con le sue strade soffo¬cate dal traffico, avesse bisogno di un veicolo in grado di ar¬rampicarsi in verticale fino in cima a una montagna di seimila metri.
Lui aveva quattro locali, contando il bagno. Si spogliò e si buttò sul letto. Dall'altra parte della stanza, sulla piccola targa che aveva tenuto in ufficio fino al giorno in cui aveva comincia¬to a provare imbarazzo a guardarla, c'era l'annuncio del suo in¬gresso allo studio legale Patton, Shaw & Lord. La PS&L era la prima società di consulenza legale in diritto societario tra quelle operanti nella capitale. Rappresentava centinaia di blue chip tra cui l'azienda del suo promesso suocero, un assetto multimilio¬nario del quale ci si aspettava da Jack un consolidamento pres¬so lo studio e che, in cambio, gli avrebbe garantito una quota come socio al prossimo consiglio di amministrazione. Una par¬tecipazione alla PS&L equivaleva, in media, a qualcosa come mezzo milione di dollari l'anno. Erano bazzecole per i Baldwin, d'altra parte lui non era un Baldwin. Non ancora.
Si infilò sotto la coperta: la coibentazione dell'edificio lascia¬va molto a desiderare. Mandò giù un paio di aspirine con il re¬sto di una Coca-Cola rimasta sul comodino, poi si guardò in¬torno. La sua stanza era piena di roba e di altrettanto disordine. Gli ricordava quella in cui era cresciuto. Era un ricordo affet¬tuoso, amichevole. Così doveva essere un ambiente domestico, un posto in cui i bambini avessero sempre la possibilità di gri-dare e correre da una stanza all'altra in cerca di nuove avventu¬re, nuovi oggetti da fracassare.
Ecco un altro problema con Jennifer: lei aveva dichiarato senza tergiversazioni che il rumore di piedini in corsa era un progetto lontano nel tempo e tutt'altro che sicuro. Al primo po¬sto, nella sua mente e nel suo cuore, c'era la carriera nell'azien¬da paterna, conseguenza di un'ambizione forse superiore anche alla sua.
Jack si girò su un fianco e cercò di addormentarsi. Il vento fe¬ce tintinnare il vetro della finestra e lui guardò in quella direzio¬ne. Cercò di distogliere subito gli occhi, poi con un che di rasse¬gnato si arrese, posando lo sguardo sulla scatola.
Conteneva parte della sua collezione di vecchi trofei e premi vinti al liceo e al college. Ma non era a quelli che stava pensan¬do. Nella semioscurità allungò il braccio per prendere la foto, ebbe un attimo di esitazione, poi si decise.
La tolse dalla scatola. Era diventato quasi un rituale. Non aveva mai dovuto temere che la fidanzata scoprisse quell'ogget¬to particolare perché si rifiutava di trattenersi nella sua camera da letto per più di un minuto. Quando finivano tra le lenzuola era a casa di lei, dove Jack contemplava l'affresco del vasto sof¬fitto condiviso da cavalieri e fanciulle mentre Jennifer si abban¬donava al proprio piacere fino al momento in cui crollava sul letto al suo fianco e lasciava che fosse lui a mettersi disopra. Le variazioni sul tema avvenivano nella casa di campagna, dove i soffitti erano ancora più alti e gli affreschi provenivano da chis¬sà quale chiesa romana del Tredicesimo secolo, cosicché lui ave¬va l'impressione che fosse Dio stesso a guardarlo cavalcato dal¬la splendida e nudissima Jennifer Ryce Baldwin, a rischio di meritarsi il castigo eterno per quei pochi momenti di piacere carnale.
La donna della foto aveva lucidi capelli castani che si arricciavano leggermente sulle punte delle ciocche. Guardando il suo sorriso, Jack ricordò il giorno in cui l'aveva fotografata.
Erano usciti per una gita in bicicletta nelle campagne della contea di Albemarle. Lui aveva appena cominciato la scuola di legge; lei era al secondo anno di college alla Mr. Jefferson's University. Era solo il loro terzo appuntamento, ma era come se fossero stati insieme da sempre.
Kate Whitney.
Pronunciò adagio il suo nome. Con la punta del dito ridise¬gnò senza accorgersene la curva del suo sorriso, toccò la fosset¬ta solitaria che aveva appena sopra la guancia sinistra e che fa¬ceva apparire il suo viso lievemente asimmetrico. Gli zigomi a mandorla e un naso sbarazzino sopra un paio di labbra sensua¬li. La linea del mento era marcata, segno evidente di cocciutag¬gine. La mano di Jack risalì a fermarsi all'altezza dei grandi oc-chi, sempre pieni di malizia.
Poi Jack si girò sulla schiena e si posò la fotografia sul petto, tenendola alzata in modo che Kate lo guardasse dritto negli oc¬chi. Non poteva pensare a lei senza rivedere mentalmente suo padre, senza ricordare il suo sorriso sornione e la sua sferzante ironia.
Spesso era andato a trovare Luther Whitney nella sua casetta a schiera in un quartiere di Arlington che aveva visto tempi mi¬gliori. Passavano ore a bere birra e a raccontare storie, con Luther soprattutto nella parte di narratore e Jack in quella di ascoltatore.
Kate non andava mai a trovare suo padre e lui non cercava mai di contattarla. Jack aveva scoperto chi era quasi per caso e, contro il volere di Kate, aveva preteso di conoscerlo. Era raro che le labbra di lei non fossero incurvate in un sorriso, ma suo padre era un argomento sul quale non sorrideva mai.
Dopo la laurea, si erano trasferiti a Washington, dove Kate si era iscritta alla scuola di legge di Georgetown. All'inizio la loro vita insieme era stata un idillio e Kate aveva assistito ai suoi pri¬mi processi, quando lui si sforzava di controllare i brontolii del¬lo stomaco e il tremito della voce, cercando di ricordare a quale tavolo doveva sedersi. Ma con il crescere della gravità dei cri¬mini di cui erano accusati i suoi clienti, l'entusiasmo di Kate era diminuito.
Si erano lasciati quando lui era ancora nel primo anno di ap¬prendistato.
Le ragioni erano semplici: Kate non capiva perché avesse scelto di rappresentare persone che violavano la legge e non tol¬lerava la simpatia che lui provava per suo padre.
Nell'ultimo scampolo di vita insieme, Jack ricordava di esser¬si trovato in quella stessa stanza a domandarle, scongiurarla, di non lasciarlo. Ma non c'era stato niente da fare ed erano passa¬ti quattro anni, durante i quali non l'aveva né vista né sentita.
Sapeva che aveva trovato lavoro alla procura di Alexandria, in Virginia, dove senza dubbio non perdeva occasione di schiaf¬fare dietro le sbarre qualche suo ex cliente per aver violato le leggi di quello Stato. Per il resto, Kate Whitney per lui era di¬ventata una perfetta sconosciuta.
Ma mentre giaceva a letto a contemplare quel sorriso che gli diceva milioni di cose che mai aveva trovato sulle labbra della donna che avrebbe dovuto sposare di lì a sei mesi, Jack si do¬mandava se Kate gli sarebbe rimasta per sempre sconosciuta; se la propria vita era destinata a diventare molto più complicata di quanto avesse immaginato. Sollevò il ricevitore del telefono e compose un numero.
Quattro squilli e udì la voce. Aveva un'inflessione che non ri¬cordava, o forse era nuova. Dopo il segnale acustico cominciò a lasciare il messaggio, qualcosa di buffo, di inventato lì per lì, ma tutt'a un tratto si innervosì e riattaccò quasi precipitosa¬mente, con un tremito nelle mani, un'accelerazione nel respiro. Scosse la testa. Gesù Cristo. Si era vaccinato con quattro casi di omicidio di primo grado ed era lì a tremare come un sedicenne che non trova il coraggio di telefonare alla sua prima ragazza.
Ripose la foto e cercò di immaginare che cosa stesse facendo Kate in quel preciso istante. Probabilmente era ancora in ufficio a ponderare su quanti anni sottrarre alla vita di qualcuno.
Poi pensò a Luther. Chissà che proprio in quel momento non fosse sul lato sbagliato della porta della casa di qualcuno. O magari non stesse uscendo in quel mentre con l'ennesimo sacco di titoli al portatore appeso a una spalla.
Che coppia, Luther e Kate Whitney. Così diversi e così simili. Una coppia di persone professionalmente impegnate come non gli era mai capitato di trovare, ma in due mondi completamente diversi. Quell'ultima sera, dopo che Kate era uscita dalla sua vita, era andato da Luther a dirgli addio davanti a un'ultima birra. Si erano seduti nel bel giardino a guardare la clematide e l'edera strette al muro di mattoni, in un profumo di lillà e rose che li avvolgeva denso come una rete.
Luther l'aveva presa bene, gli aveva rivolto qualche domanda e gli aveva fatto gli auguri. Non sempre le cose andavano a fini¬re bene, Luther lo sapeva come chiunque altro, ma quella sera, andandosene, Jack aveva notato un luccichio nei suoi occhi, prima che la porta si chiudesse su quella parte della sua vita.
Si decise finalmente a spegnere la luce e chiuse gli occhi con la consapevolezza che incombeva su di lui un altro domani. Il suo scrigno del tesoro, il colpo gobbo che capita una volta sola nella vita, gli si era avvicinato di un altro giorno. Non era una considerazione che favorisse il sonno.
3
Guardandoli attraverso il finto specchio, Luther considerò che facevano una gran bella coppia. Era una considerazione a spro¬posito in quelle circostanze, ma non per questo meno valida. Lui era alto, di bell'aspetto, un quarantenne molto distinto. Lei non doveva aver compiuto da molto i vent'anni, con capelli va¬porosi e dorati, un bel visetto ovale, due profondi occhioni az¬zurri che in quel momento contemplavano amorevolmente l'elegante prestanza dell'uomo. Lui le sfiorò la pelle vellutata della guancia; lei gli posò le labbra nel palmo.
L'uomo riempì due bicchieri da una bottiglia che aveva por¬tato con sé. Ne porse uno alla donna. Dopo il tintinnio del brindisi, guardandosi con fermezza negli occhi, lui scolò il suo bicchiere in un colpo solo, mentre lei sorseggiava appena. Posa¬ti i bicchieri, si abbracciarono al centro della stanza. Le mani di lui le scivolarono lungo la schiena e poi risalirono sulle spalle scoperte, abbronzate, atletiche. Le afferrò le braccia e si chinò per baciarla sul collo.
Luther distolse lo sguardo, imbarazzato dal trovarsi a fare da spettatore a quell'intimità altrui. Era un sentimento strano da provare, quand'era ancora in così grave pericolo di essere sco¬perto, ma non era tanto vecchio da rimanere insensibile alla te¬nerezza, alla passione, che lentamente prendevano il sopravven¬to davanti ai suoi occhi.
Quando li rialzò, non poté non sorridere. Stavano ballando, volteggiando adagio per la stanza. Lui era evidentemente molto più esperto di lei, ma la guidò con dolcezza in passi semplici che li condussero fino al letto.
L'uomo si interruppe per riempire il bicchiere, che scolò di nuovo in un attimo. Aveva svuotato la bottiglia. Quando prese di nuovo la donna fra le braccia, lei gli si appoggiò contro, gli sbottonò la giacca, cominciò a sciogliergli il nodo della cravat¬ta. Lui trovò la cerniera del suo vestito e lentamente la abbassò. La guaina nera scivolò a terra. La donna indossava un paio di slip neri e calze nere autoreggenti, ma niente reggiseno.
Aveva quel tipo di corpo che rende istantaneamente gelose le donne che non ce l'hanno, con tutte le curve al posto giusto e una vita che Luther avrebbe potuto cingere con le due mani. Quando gli si mise di profilo per togliersi le calze, Luther vide che i suoi seni erano rigogliosi e rotondi. Le gambe erano slan¬ciate e scolpite da molte ore di tennis e aerobica.
L'uomo si spogliò rapidamente e, indossando solo i boxer, si sedette sulla sponda del letto a guardarla sbocciare senza fretta dagli ultimi indumenti. Aveva un sedere rotondo e sodo, di un biancore che spiccava in contrasto con la perfetta abbronzatu¬ra. Quando si fu tolta anche l'ultimo capo, sulle labbra di lui si dischiuse un sorriso. Denti bianchi, regolari. Nonostante quello che beveva, i suoi occhi erano limpidi e attenti.
Lei contraccambiò il sorriso, avvicinandoglisi. Lui la prese per le braccia, l'attirò a sé. Lei gli si strofinò contro il torace.
Di nuovo Luther cominciò a distogliere lo sguardo, deside¬rando più che mai che quel momento si concludesse alla svelta e che se ne andassero. Gli sarebbero bastati solo pochi minuti per tornare all'automobile e archiviare quella notte nella memoria come un'esperienza assolutamente unica, per quanto potenzial¬mente disastrosa.
Fu allora che lo vide ghermire con impeto le natiche della donna e poi schiaffeggiargliele ripetutamente. Non potendo trattenere una smorfia, quasi che avvertisse lui stesso il dolore, vide la pelle che, da bianca, sotto i colpi reiterati diventava luci¬da e rossa. Ma forse la donna aveva bevuto troppo per sentire il dolore, o provava gusto a quel tipo di attenzione fisica, perché il suo sorriso non vacillò. Luther avvertì una stretta alla bocca dello stomaco quando vide le dita dell'uomo affondare nelle carni morbide di lei.
Mentre lui le lambiva il seno con la lingua, lei gli affondò le dita nei capelli e gli si insinuò tra le gambe. Chiuse gli occhi, con la bocca sempre atteggiata a un sorriso beato e la testa ro¬vesciata all'indietro. Poi li riaprì e gli si attaccò alla bocca.
Le dita forti di lui risalirono dalle natiche torturate a massag¬giarle dolcemente la schiena. Tutt'a un tratto affondarono di nuovo nelle carni suscitandole una smorfia. La donna indietreg¬giò con un sorriso esitante, e lo costrinse a fermarsi prendendo¬gli le mani. Lui trasferì la propria attenzione al seno, le succhiò i capezzoli. Lei chiuse di nuovo gli occhi e il suo respiro si tra¬sformò in un mugolio sommesso. Lui risalì con la bocca al suo collo. Aveva gli occhi spalancati, guardava dritto verso la pol¬trona su cui era seduto Luther, senza poter sospettare la sua presenza.
Luther lo fissò, fissò quegli occhi, e non gli piacque ciò che vide. Pozze di tenebra cerchiate di rosso, come un pianeta sini¬stro visto attraverso le lenti di un telescopio. Gli venne il dub¬bio che la donna nuda fosse alla mercé di qualcosa non così de¬licato, non così amorevole come gli era sembrato di credere.
Divenuta impaziente, la donna spinse l'amante sul letto. Gli si mise a cavalcioni, offrendo a Luther una visuale da tergo che avrebbe dovuto essere riservata al suo ginecologo e a suo mari¬to. Si alzò sulle ginocchia, ma lui, con un movimento repentino ed energico, la buttò giù e la sormontò, afferrandole le gambe e alzandogliele fino a tenergliele perpendicolari al letto.
La sua mossa successiva fece sussultare Luther nel suo nascon¬diglio. Le serrò il collo tra le mani e la sollevò di peso, spingendo¬si la testa di lei tra le gambe. L'azione era stata così inaspettata che, con la bocca a non più di un paio di centimetri da lui, la don¬na si lasciò sfuggire un gemito roco. Allora lui rise e la lasciò ri¬cadere. Momentaneamente disorientata, lei riuscì finalmente ad abbozzare un sorriso alzandosi sui gomiti sotto di lui, che impu¬gnò con una mano il pene eretto, mentre con l'altra le spalancava le gambe. Sotto il suo sguardo spiritato, lei attese placida di acco¬glierlo.
Ma invece di tuffarsi tra le sue gambe, lui le ghermì i seni e glie¬li strizzò, evidentemente un po' troppo forte, perché Luther udì un guaito di dolore, e subito dopo la donna schiaffeggiò il suo amante. Lui la lasciò andare e le restituì il manrovescio, con catti¬veria. Una goccia di sangue le affiorò all'angolo della bocca e le scivolò sul labbro carnoso e imbellettato.
— Fottuto bastardo. — La donna abbandonò il letto per se¬dersi sul pavimento a tastarsi la bocca, assaggiando il sapore del proprio sangue in un momento di lucidità tra i fumi dell'alcol. Le prime parole che Luther aveva sentito pronunciare di¬stintamente in tutta la notte lo colpirono come una mazzata. Si alzò e si avvicinò al falso specchio.
L'uomo sogghignava. Luther fremette nel vedere quell'espres¬sione sul suo volto: più che una smorfia umana era il ringhio di una belva che si appresta a uccidere.
— Fottuto bastardo — ripeté lei, a voce un po' più bassa, im¬pastando un po' le sillabe. Quando fece per alzarsi, lui le ag¬guantò un braccio e glielo torse, facendola ricadere pesante¬mente a terra. Poi si sedette sul letto a guardarla, con aria di trionfo.
Luther, con il respiro corto, stava in piedi davanti al falso specchio, stringendo e rilasciando meccanicamente i pugni, e sperando che le altre persone stessero per riapparire. Per un at¬timo il suo sguardo si posò sul telecomando rimasto sulla pol¬trona, poi tornò sulla stanza.
La donna aveva ripreso lentamente fiato e si stava rialzando. Non c'era più niente di romantico nel suo stato d'animo, Luther lo vedeva dal modo in cui si muoveva adesso, vigile e diffidente. Il mutamento, il lampo di collera che le brillò negli occhi azzurri, doveva essere sfuggito al suo compagno, altri¬menti non si sarebbe alzato e non le avrebbe teso una mano, che lei accettò.
Il sorriso sulle labbra dell'uomo scomparve di colpo alla pre¬cisa ginocchiata che ricevette all'inguine. Si piegò in due, per¬dendo all'istante l'erezione, quindi si accartocciò sul pavimento ansimando, senza gridare, mentre lei recuperava gli slip e se li infilava.
Di sorpresa lui la prese per una caviglia e la fece cadere con gli slip appena sopra le ginocchia.
— Puttana schifosa — rantolò senza mollarle la caviglia, cer¬cando anzi di trascinarla verso di sé.
Lei scalciò, lo colpì alla cassa toracica, ripetutamente, senza però riuscire a indurlo a mollare.
— Troietta di merda — ansimò lui.
All'intonazione di minaccia che udì in quelle parole, Luther reagì avvicinandosi al vetro e posandovi sopra una mano, come per volerla allungare oltre e bloccare l'uomo, obbligarlo a libe¬rare la donna.
Lo vide alzarsi faticosamente e l'espressione che gli lesse negli occhi gli fece provare un brivido tremendo.
Lo vide afferrare la donna per il collo.
Fugati in un sol colpo i fumi dell'alcol, la donna ritrovò tutta la sua presenza di spirito. I suoi occhi, ora colmi di terrore, guizzavano a destra e a sinistra mentre la pressione delle mani di lui aumentava cominciando a toglierle il respiro. Gli artigliò le braccia, scavandovi graffi profondi.
Luther vide il sangue sgorgare dalla pelle lacerata, ma non per questo lui allentò la presa.
La donna cercò di scalciare, dibattendosi, ma il suo aggresso¬re era troppo forte per lei, troppo pesante.
Di nuovo Luther guardò il telecomando. Avrebbe potuto aprire lo sportello segreto. Avrebbe potuto intervenire, farlo smettere, ma le sue gambe non si mossero. Fissava impotente attraverso il vetro, con la fronte madida di sudore, il respiro contratto in movimenti convulsi del torace. Appoggiò entrambe le mani al falso specchio.
Smise di respirare nel momento in cui vide la donna lanciare una fulminea occhiata al comodino. Poi la vide agire con estre¬ma rapidità, afferrare il tagliacarte e menando alla cieca affon¬dare la lama nel braccio del suo aggressore.
L'uomo grugnì di dolore e la lasciò andare per stringersi il braccio rosso di sangue. Per un terribile istante lui si guardò la ferita, quasi incredulo che quella donna potesse avergli provo¬cato uno squarcio simile.
Poi rialzò gli occhi e Luther ebbe l'impressione di sentirsi vi¬brare nel corpo il suo ringhio omicida prima ancora che gli fos¬se sfuggito dalle labbra.
Vide l'uomo colpire. Mai aveva assistito a un atto di tale bru¬talità nei confronti di una donna. All'impatto di quel pugno con la carne morbida, un getto di sangue le schizzò dal naso e dalla bocca.
Forse fu per tutto l'alcol che lei aveva in corpo, ma il colpo che normalmente avrebbe tramortito chiunque ebbe su di lei un effetto corroborante. Ritrovate inaspettatamente le forze, riuscì a rialzarsi sulle gambe. Quando si voltò verso lo specchio, Luther vide l'orrore dipingersi sul viso di lei nel contemplare la selvaggia devastazione della sua bellezza. Con gli occhi spalan¬cati per lo stupore si toccò il naso tumefatto, con un dito si ta¬stò i denti ora allentati. Era irriconoscibile. Il suo inimitabile sorriso era perduto.
Si girò verso l'uomo, e Luther le vide i muscoli della schiena irrigidirsi come pezzi di legno. Con imprevedibile rapidità gli sferrò un nuovo calcio all'inguine. Sopraffatto dalla nausea, in¬debolito dal nuovo contrattacco, l'uomo si accasciò, rotolò sul¬la schiena e cominciò a gemere, schiacciandosi le ginocchia con¬tro lo stomaco e proteggendosi i genitali con la mano.
Con il volto rosso di sangue e occhi in cui nel volgere di un attimo il buio dello spavento aveva lasciato il posto a una luce omicida, la donna si lasciò cadere sulle ginocchia accanto a lui e alzò il tagliacarte.
Luther afferrò il telecomando, tornò alla porta e posò il dito sul pulsante.
Ma l'uomo, nell'istante in cui capì che la sua vita stava per es¬sere spezzata dalla lama che calava verso il suo petto, urlò con quanto fiato aveva in corpo. Il grido non rimase inascoltato.
Paralizzato, Luther spostò lo sguardo sulla porta della came¬ra da letto che si spalancava.
Due uomini fecero irruzione con le armi spianate, entrambi con i capelli tagliati a spazzola ed entrambi dotati di un fisico possente, chiaramente intuibile nonostante giacca e cravatta. Prima che Luther avesse il tempo di reagire, valutarono le circo¬stanze e presero la loro decisione.
Le loro pistole fecero fuoco simultaneamente.
Seduta al tavolo del suo ufficio, Kate Whitney riesaminò per l'ultima volta l'incartamento.
L'accusato aveva quattro precedenti e in altre sei occasioni era stato arrestato senza essere incriminato, solo perché i testi¬moni avevano avuto troppa paura per parlare o erano finiti in qualche cassonetto. Quell'uomo era una bomba a orologeria pronta a esplodere sulla prossima vittima, sicuramente una donna, come tutte le precedenti.
L'incriminazione attuale era di omicidio con rapina e violen¬za sessuale. Secondo le leggi della Virginia era prevista la pena capitale e questa volta Kate era decisa ad andare fino in fondo. Non aveva mai chiesto la pena di morte, ma se c'era qualcuno che la meritava l'aveva trovato, e le autorità giudiziarie dello Stato non avrebbero avuto scrupoli ad autorizzarla. Perché concedergli la vita quando lui aveva crudelmente e selvaggia¬mente preso quella di una studentessa diciannovenne il cui solo errore era stato di recarsi a un supermercato in pieno giorno a comperare un paio di calze e di scarpe?
Kate si sfregò gli occhi, prese un elastico dal mucchietto che aveva sulla scrivania e si raccolse i capelli alla buona in una co¬da di cavallo. Considerò il suo piccolo e modesto ufficio. C'era¬no schedari come una muraglia contro tutte le pareti, e per la milionesima volta si domandò se sarebbe mai stato possibile ar¬ginare la malvagità umana. Ovvio che no: tutt'al più la situa¬zione si sarebbe aggravata, e lei non poteva fare più di quanto già stava facendo per arrestare quel fiume di sangue. Avrebbe cominciato con l'esecuzione di Roger Simmons Jr., ventidue an¬ni, il criminale più sadico e sanguinario che le fosse capitato in una carriera ancora breve, ma durante la quale aveva già dovu¬to trattare con un esercito di delinquenti. Kate ricordava come l'aveva guardata quel giorno in tribunale. Il suo era stato un at¬teggiamento totalmente privo di rimorso, di sentimenti, di qualsivoglia traccia di un'emozione positiva. Era anche un volto pri¬vo di speranza, un'impressione confermata dal racconto di un'infanzia che sembrava un romanzo dell'orrore. Ma quello non era un problema di sua competenza. Presumibilmente era l'unico che non la riguardasse.
Kate scosse la testa e controllò l'ora: mezzanotte passata. Andò a versarsi dell'altro caffè, sentendo che cominciava a ve¬nirle meno la concentrazione. L'ultimo assistente aveva lasciato l'ufficio ormai da cinque ore. Da tre se n'erano andati quelli delle pulizie. Senza scarpe, percorse il corridoio per andare in cucina. Ci fosse stato Charlie Manson in circolazione, per lei avrebbe rappresentato un caso di ordinaria amministrazione; l'eccesso maniacale di un dilettante, a confronto dei mostri d'oggi.
Con la tazza di caffè in mano, tornò in ufficio e indugiò a osservare la propria immagine riflessa nella finestra. Il suo era un lavoro per cui la bellezza fisica aveva scarsa importanza; diavo¬lo, era più di un anno che non usciva con un uomo. Ma non poté distogliere gli occhi: era alta e slanciata, forse un po' trop¬po magra in qualche punto, ma l'abitudine di correre sei chilo¬metri ogni giorno le era rimasta, mentre era andato scemando il contenuto calorico della sua dieta. Si sosteneva più che altro con caffè cattivo e cracker, anche se aveva limitato le sigarette a due al giorno e sperava che con un po' di fortuna sarebbe riu¬scita a smettere del tutto.
Si sentiva in colpa per come abusava del proprio corpo impo¬nendogli ritmi stressanti di lavoro da un caso all'altro, da un orrore all'altro, ma che cosa avrebbe dovuto fare? Abbandona¬re la partita perché non somigliava a una donna da copertina di Cosmopolitan? Si consolava pensando che il mestiere di quelle ragazze era mostrarsi belle e in piena forma ventiquattr'ore al giorno, mentre il suo era garantire che le persone che violavano la legge, che facevano del male al prossimo, fossero punite. Da qualunque punto di vista volesse considerare la questione, lei usava la propria vita in un modo molto più produttivo.
Si passò una mano fra i capelli. Aveva bisogno di un parruc¬chiere, ma dove trovare il tempo? Grazie al cielo il suo viso era ancora relativamente al riparo dai segni di quel fardello sempre più gravoso. A ventinove anni, dopo averne trascorsi quattro lavorando diciannove ore al giorno e vivendo la tensione di in¬numerevoli processi penali, poteva rallegrarsi di non ritrovarsi precocemente invecchiata. Sospirò pensando che probabilmen¬te non sarebbe durata così a lungo. Al college lei era stata una graziosa calamita che faceva girare la testa, la causa di improv¬visi batticuori e di sudori freddi. Apprestandosi però a entrare nella trentina, capiva che ciò che aveva dato per scontato per tanti anni, ciò che di fatto aveva persino deriso in tante occa¬sioni, non l'avrebbe accompagnata ancora per molto. Come tante altre cose a cui l'abitudine toglie ogni aspetto di straordi¬narietà, la capacità di zittire un'aula semplicemente facendovi ingresso era una dote di cui sapeva che avrebbe patito la man¬canza.
Che il suo aspetto non si fosse deteriorato in quegli ultimi an¬ni era un fenomeno degno di nota, considerato quanto poco aveva fatto per conservarlo. Potenza di geni speciali, evidente¬mente, e doveva considerarsi fortunata per quello, ma poi ri¬pensò a suo padre e concluse subito che dal punto di vista gene¬tico aveva poco di cui rallegrarsi. Un uomo che rubava agli altri e poi aveva la pretesa di condurre una vita normale. Un uomo che aveva ingannato tutti indistintamente, comprese moglie e figlia. Un uomo che era inutile andare a cercare quando ci fosse stato bisogno di lui.
Tornò a sedersi al tavolo, bevve un sorso di caffè caldo, vi ag¬giunse altro zucchero e osservò l'incartamento di Simmons mentre mescolava il suo nero tonico notturno.
Sollevò il ricevitore e chiamò casa per controllare se c'erano messaggi. Ne trovò cinque, due da parte di altri avvocati, uno di un poliziotto che avrebbe chiamato a testimoniare contro Simmons e uno di un detective della procura che aveva la bella abitudine di telefonarle alle ore più disparate con informazioni perlopiù inutili. Avrebbe fatto bene a cambiare numero di te¬lefono. L'ultima chiamata era priva di messaggi, ma prima che lo sconosciuto riagganciasse, il nastro aveva registrato un respi¬ro molto sommesso, un suono nel quale le parve di avvertire qualche parola indistinta. C'era qualcosa di familiare, ma nulla che potesse aiutarla a riconoscere chi aveva telefonato. Qualcu¬no che non aveva di meglio da fare.
Il caffè le scorse nelle vene e il dossier di Simmons riprese il suo posto di preminenza. Kate alzò gli occhi al suo piccolo scaf¬fale di libreria. Sul ripiano più alto c'era una vecchia foto, in cui lei era ritratta all'età di dieci anni insieme a sua madre, ora de¬funta. Dalla foto era stato tagliato via Luther Whitney. Un grande vuoto vicino a madre e figlia. Un grande niente.
— Cristo Gesù! — Il Presidente degli Stati Uniti si alzò a sedere. Con una mano si copriva i genitali inerti e martoriati, mentre con l'altra stringeva il tagliacarte che pochi istanti prima era sul punto di diventare lo strumento della sua morte. Ora non era più sporco solo del proprio sangue. — Cristo Gesù, Bill, che cazzo hai combinato? L'hai ammazzata! — L'oggetto delle sue invettive si chinò per aiutarlo a rialzarsi, mentre il compagno controllava le condizioni della donna: un esame del tutto formale, considerato che due proiettili di grosso calibro le avevano fatto saltare il cervello.
— Mi dispiace, signore, non c'è stato tempo. Sono spiacente.
Dopo aver servito per otto anni nella polizia statale del Maryland, Bill Burton era agente dei servizi segreti da dodici, e uno dei suoi proiettili aveva appena stecchito una splendida donna. Alla faccia del duro addestramento, stava tremando co¬me uno scolaretto appena svegliatosi da un incubo.
Aveva già ucciso in servizio, un incidente imprevisto durante un normale controllo stradale, ma la sua vittima era un recidi¬vo, animato da un odio maniacale per gli agenti in divisa, che gli aveva puntato addosso una Glock semiautomatica con la precisa intenzione di staccargli la testa dalle spalle.
Burton guardò il piccolo corpo nudo riverso al suolo e gli venne da vomitare. Lo soccorse Tim Collin, il suo partner, pren¬dendolo per un braccio. Burton deglutì e fece un cenno di as¬senso. Avrebbe superato il momentaccio.
Aiutarono a rialzarsi Alan J. Richmond, quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti, eroe e leader per una nazione intera, giovani, adulti e anziani, ma in quel momento semplice¬mente un uomo nudo e ubriaco. Il Presidente si girò verso di lo¬ro e sul suo volto l'orrore iniziale si sciolse finalmente negli ef¬fetti dell'alcol che aveva ingerito. — È morta? — Lo chiese con la lingua un po' legata e gli occhi che gli ballavano nelle orbite come se avessero rotto gli ormeggi.
— Sì, signore — dichiarò prontamente Collin. Non si lascia¬va senza risposta la domanda di un Presidente, ubriaco o no.
Burton stava prendendo tempo per rimettersi in sesto. Guardò di nuovo la donna, poi alzò gli occhi sul Presidente. Quello era il loro lavoro, proteggere il Presidente, a qualunque costo. Per quanto sciagurata, la sua vita non poteva finire certo in quel modo, sgozzato come una bestia per mano di una putta¬nella piena di alcol.
Le labbra del Presidente si incurvarono in qualcosa di simile a un sorriso, anche se in seguito non fu così che lo rammentaro¬no Collin e Burton. Il Presidente fece per rialzarsi.
— Dove sono i miei vestiti? — chiese.
— Qui, signore. — Ormai ripresosi, Burton si bloccò mentre stava per raccoglierli. Erano pieni di macchie. Qualsiasi cosa in tutta la stanza era macchiata. Macchiata della donna.
— Avanti, dannazione, tiratemi su, mettetemi in ordine. Ho da tenere un discorso per qualcuno, non so dove, non è vero? — Emise una risata stridula. Burton guardò Collin e Collin guardò Burton. Entrambi guardarono il Presidente che sveniva sul letto.
Al momento delle deflagrazioni, Gloria Russell, Capo dello Staff presidenziale, si trovava in bagno al pianterreno, quanto più lon¬tano le era riuscito di arrivare da quella stanza.
Aveva accompagnato il Presidente in molti di quei convegni, ma invece di abituarvisi, ogni volta ne era più disgustata di quella precedente. Immaginare il suo principale, l'uomo più po¬tente sulla faccia della Terra, a letto con tutte quelle prostitute d'alto rango, quelle cortigiane della politica, le era inaccettabi¬le. Non potendolo capire, aveva quasi imparato a ignorarlo. Quasi.
Si era risistemata i collant, aveva afferrato la borsa e spalan¬cato la porta, si era precipitata in fondo al corridoio e nono¬stante i tacchi alti aveva salito i gradini due alla volta. Quando raggiunse la porta della camera da letto, fu trattenuta dall'agen¬te Burton.
— Signora, glielo sconsiglio, non è un bello spettacolo.
Si sbarazzò di lui con una spinta, ma subito dopo si bloccò. Il suo primo impulso fu di correre via, giù per le scale, tuffarsi nella limousine. Andarsene, abbandonare lo Stato, lasciare quel paese sventurato. Non provava pietà per Christy Sullivan, che aveva voluto farsi scopare dal Presidente. Da due anni era il suo chiodo fisso. Ebbene, certe volte non ottieni quello che desideri, certe altre ottieni molto di più.
Si calmò e si rivolse all'agente Collin.
— Che cosa diavolo è successo?
Tim Collin era giovane, un duro devoto all'uomo che aveva l'incarico di proteggere. Era stato addestrato per dare la vita pur di difendere quella del Presidente, e non c'era ombra di dubbio che se quel momento fosse giunto lui lo avrebbe fatto. Erano trascorsi molti anni da quando aveva affrontato un ag¬gressore nel parcheggio di un centro commerciale, dove l'allora candidato presidenziale Alan Richmond era intervenuto per un comizio. Non gli aveva dato nemmeno il tempo di estrarre del tutto la pistola e, prima che chiunque altro potesse reagire, aveva già immobilizzato l'aspirante assassino sul piazzale asfal¬tato. Collin aveva una sola missione nella vita, proteggere Alan Richmond.
Gli ci volle un minuto per riferire sinteticamente alla Russell quanto era successo. Burton confermò con un cenno solenne del capo.
— O lui o lei, signora Russell. Non c'era scelta. — Burton lanciò istintivamente un'occhiata al Presidente, ancora riverso sul letto, ignaro di tutto. Gli avevano coperto con un lenzuolo le parti più strategiche del corpo.
— Volete dirmi che non avevate sentito niente? Nessun ru¬more sospetto, nessun indizio di un atto violento? — Indicò la stanza sottosopra.
I due agenti si guardarono in faccia. Avevano sentito molti rumori provenire dalle camere da letto in cui si recava il loro principale, rumori che in certi casi si sarebbero potuti collegare ad atti violenti, in altri no. Ma ne erano sempre usciti tutti sani e salvi.
— Niente di insolito — spiegò Burton — poi abbiamo sentito il Presidente che gridava e siamo entrati. La lama di quel coltel¬lo non poteva essere a più di dieci centimetri dal suo petto. Solo con un proiettile avremmo potuto fare in tempo.
Burton si raddrizzò in tutta la sua statura e la guardò dritto negli occhi. Lui e Collin avevano fatto il loro dovere e non sa¬rebbe stata quella donna a criticare il loro operato. Non avreb¬bero accettato alcuna responsabilità per quanto era accaduto.
— Come? C'era un coltello qui dentro? — sbottò lei fissan¬dolo incredula.
— Dipendesse da me — rispose Burton — metterei il veto su queste... queste gitarelle. Il più delle volte non ci lascia control¬lare niente. Non abbiamo potuto perquisire la stanza. È il Presi¬dente, signora — tenne ad aggiungere per precauzione, come se bastasse a giustificare qualsiasi cosa. E con la Russell di solito funzionava, fatto di cui Burton era più che consapevole.
La donna osservò la stanza con attenzione. Quando aveva risposto all'invito di Alan Richmond in gara per la presidenza, lei era docente di ruolo in scienze politiche a Stanford, già con una certa notorietà a livello nazionale. Lui era dotato di una forza travolgente, tutti volevano saltare sul suo carro.
Gloria Russell adesso era Capo dello Staff presidenziale, con serie prospettive di diventare Segretario di Stato se Richmond avesse ottenuto un secondo mandato, cosa su cui chiunque sa¬rebbe stato pronto a scommettere a occhi chiusi. Chissà, forse c'era in vista un'accoppiata Richmond-Russell. Finora il bino¬mio aveva funzionato splendidamente, con lei nel ruolo di stra¬tega e lui di abile condottiero. Ogni giorno che passava il loro futuro diventava più fulgido. Ma ora? Ora lei aveva per le mani un cadavere e un Presidente ubriaco, fra le mura di una villa in cui non avrebbe dovuto esserci nessuno.
Sentì che il treno su cui fino a quel momento aveva beata¬mente viaggiato si era fermato bruscamente. Invece no, non si sarebbe lasciata sopraffare, non avrebbe mandato tutto all'aria per quel mucchietto di spazzatura umana. Mai e poi mai!
— Vuole che chiami la polizia adesso, signora? — domandò Burton.
La Russell lo guardò come se fosse ammattito. — Burton, la¬sci che le ricordi che il nostro compito è proteggere gli interessi del Presidente in qualunque circostanza e niente, assolutamente niente, ha la precedenza su questo. È chiaro?
— Signora, la donna è morta. Io credo che dovremmo...
— Infatti, Burton. Lei e Collin avete sparato a quella donna e adesso lei è morta. — Le sue parole rimasero sospese nell'aria. Collin si passò il pollice sui polpastrelli mentre la sua mano an¬dava istintivamente alla fondina. Guardò la defunta signora Sullivan come se potesse resuscitarla con la buona volontà.
Burton inarcò le spalle muscolose e si avvicinò impercettibil¬mente alla Russell, in modo che la differenza di statura risaltas¬se al massimo.
— Se noi non avessimo sparato, il Presidente sarebbe morto. E questo è il nostro lavoro. Badare all'incolumità del Presidente.
— Le do nuovamente ragione, Burton. E ora che avete evita¬to la sua morte, come intendete spiegare alla polizia e alla mo¬glie del Presidente e ai vostri superiori e agli avvocati e agli or¬gani di informazione e al Congresso e ai mercati finanziari e alla nazione e al resto di tutto questo dannato mondo che cosa ci faceva il Presidente qui? E come pensereste di illustrare le cir¬costanze che hanno obbligato lei e l'agente Collin a uccidere la moglie di uno degli uomini più ricchi e influenti degli Stati Uni¬ti? Perché se chiamate la polizia, se chiamate una persona qualsiasi, è esattamente questo che dovrete fare. Ora, se siete pronti ad accettare la piena responsabilità di queste conseguenze, allo¬ra là c'è il telefono. Non ha che da chiamare.
Burton cambiò colore in viso. Indietreggiò di un passo; in quel momento la sua prestanza fisica non gli serviva a niente. Collin, come paralizzato, faceva da spettatore allo scontro. Non aveva mai sentito nessuno parlare in quel modo a Bill Bur¬ton, un bisonte che avrebbe potuto spezzare il collo della Russell con una placida flessione del braccio.
Burton tornò a fissare il cadavere. Come spiegare la faccenda in maniera che tutti ne uscissero puliti? La risposta era sempli¬ce: non si poteva.
La Russell lo stava scrutando in volto. Burton rialzò gli oc¬chi, ma le resistette solo per un attimo. Lei sorrise senza malani¬mo e annuì. Aveva vinto.
— Vada a fare del caffè, e ne faccia tanto — gli ordinò, com¬piacendosi del temporaneo ribaltamento dei ruoli. — Poi vada a piazzarsi alla porta d'ingresso a fermare eventuali visitatori inaspettati.
— Collin, lei vada al furgone ad avvertire Johnson e Varney. Non scenda in particolari, per ora si limiti a dire che c'è stato un incidente, ma che il Presidente è sano e salvo. Niente di più. E che stiano all'erta. Capito? La chiamerò se sarà il caso. Per adesso ho bisogno di pensare.
Burton e Collin uscirono senza fiatare. Per l'addestramento che avevano ricevuto, nessuno dei due avrebbe potuto ignorare ordini impartiti in tono così autorevole, e Burton in particolare era ben contento di non dover prendere iniziative in quelle cir¬costanze. Nemmeno se l'avessero pagato a peso d'oro.
Luther non si era più mosso da quando le pallottole avevano scoperchiato il cranio della donna. Non ne aveva il coraggio. Il trauma iniziale era finalmente passato, ma i suoi occhi conti¬nuavano a posarsi su quello che restava di un essere umano che fino a poco prima sprizzava vita ed energie. In tanti anni di car¬riera criminale gli era capitato solo una volta di veder uccidere una persona, un pedofilo alla terza condanna che aveva avuto la spina dorsale troncata dalla lama di un coltello a serramani¬co di un altro detenuto. Ma le emozioni che provava adesso erano del tutto diverse, come se fosse l'unico passeggero di una nave entrata in un porto straniero, al quale tutto era sconosciu¬to e poco comprensibile. Un qualsiasi rumore in quel momento poteva essergli fatale, ma non poté evitare di tornare a sedersi lentamente, perché le gambe non gli reggevano più.
Guardò la Russell aggirarsi per la camera da letto, chinarsi sulla donna uccisa senza toccarla, raccogliere il tagliacarte te¬nendolo con un fazzoletto per la punta della lama. La Russell fissò a lungo l'oggetto che per poco non era costato la vita al suo principale e che aveva avuto un ruolo di primo piano nella morte di una seconda persona. Lo infilò con cautela nella pro-pria borsetta di pelle, che appoggiò sul comodino, e ripose il fazzoletto in tasca. Il suo sguardo tornò brevemente sulle forme contratte di quella che era stata Christine Sullivan.
Gloria Russell non poteva non ammirare Richmond per co¬me conduceva le sue attività collaterali. Tutte le sue "amiche" erano donne di elevata posizione sociale, tutte sposate. Questo lo metteva al riparo dalla possibilità che la sua condotta adulte¬rina finisse sulle pagine di qualche giornale scandalistico: le donne che si portava a letto avevano da perdere almeno quanto lui e se ne rendevano perfettamente conto.
Già, la stampa. La Russell sorrise. Era un'epoca in cui la vita del Presidente veniva costantemente esaminata sotto le lenti di un microscopio. Non poteva andare in bagno, fumare un sigaro o ruttare senza che la nazione sapesse come e quando. O alme¬no così la nazione credeva. E questo scaturiva soprattutto dalla sopravvalutazione degli organi di informazione e della loro abi¬lità nello spigolare anche gli aspetti più reconditi di qualsiasi avvenimento. Non si rendeva conto invece, la gente, che sebbe¬ne con il passare degli anni l'ufficio della presidenza avesse per¬so parte del suo enorme potere di fronte a problemi planetari ormai ingigantiti oltre le possibilità di intervento di un'unica persona, il Presidente era pur sempre attorniato da persone as¬solutamente leali ed estremamente capaci. Erano persone la cui perizia nell'esercizio delle attività clandestine apparteneva a un'altra categoria rispetto a quella di scadenti giornalisti ram¬panti, per i quali andare a fondo di una notizia che faceva scal¬pore significava tempestare di domande insulse qualche parla¬mentare che non chiedeva di meglio per guadagnarsi un passaggio nel telegiornale locale. La verità era che, se così desi¬derava, il Presidente Alan Richmond avrebbe potuto muoversi senza timore che qualcuno riuscisse a sapere dove andava. Sa¬rebbe potuto persino scomparire per tutto il tempo che avesse voluto, per quanto inopportuno potesse essere per qualsiasi personaggio politico. I suoi privilegi erano tutti riconducibili a un unico comune denominatore: i servizi segreti.
Erano i migliori tra i migliori, un'élite di professionisti la cui provata esperienza era una garanzia assoluta, come risultava anche dall'organizzazione di quest'ultima attività presidenziale.
Christy Sullivan era uscita poco dopo mezzogiorno dal suo salone di bellezza a nordovest della città. Aveva percorso a pie¬di un isolato, era entrata nell'atrio di uno stabile e dopo mezzo minuto ne era uscita sotto una mantella con cappuccio che le arrivava alle caviglie, e con un paio di occhiali scuri a nascon¬derle gli occhi. Sempre a piedi aveva percorso alcuni altri isola¬ti, poi aveva preso la linea rossa per il Metro Center. Uscita dal Metro aveva proseguito a piedi per due isolati ed era entrata in un vicolo tra due edifici in via di demolizione. Due minuti do¬po, dallo stesso vicolo era uscita un'automobile con i finestrini oscurati. Al volante c'era Collin. Christy Sullivan era seduta di dietro. Era poi rimasta al riparo in un luogo sicuro in compa¬gnia di Bill Burton fino al momento in cui, ormai di notte, il Presidente aveva potuto raggiungerla.
Se per il convegno segreto era stata scelta proprio la villa dei Sullivan era perché, paradossalmente, la residenza di campagna di sua proprietà era esattamente l'ultimo posto al mondo dove ci si sarebbe aspettati di trovare Christy Sullivan. E la Russell sapeva anche che sarebbe stata completamente disabitata e pro¬tetta solo da un sistema d'allarme che non sarebbe stato loro di alcun intralcio.
Gloria Russell si sedette e chiuse gli occhi. Sì, in quella casa aveva con sé due dei migliori elementi dei servizi segreti ma, per la prima volta, quello era un fatto che turbava il Capo dello Staff. Era stato il Presidente in persona a scegliere proprio quei quattro agenti, tra il centinaio circa che aveva a disposi¬zione, per la scorta di quella notte. Erano sicuramente più che fidati e preparati a ogni evenienza, avevano puntualmente ser¬vito il Presidente tenendo la bocca ben chiusa, ubbidendo sen¬za riserve. Fino a quella sera il debole del Presidente Richmond per le donne sposate non aveva dato origine a problemi di sor¬ta. Ora la minaccia che incombeva su tutti loro era più che evi¬dente. La Russell scosse la testa e si costrinse a pensare a un piano d'azione.
Luther la stava studiando. Aveva un viso intelligente, di una bellezza che lasciava trasparire un carattere volitivo. Gli pareva quasi di vedere il lavorio della sua mente, rispecchiato nel con¬tinuo corrugarsi e rilassarsi della sua fronte. Passò molto tempo senza che nient'altro di lei si muovesse, poi Gloria Russell aprì di colpo gli occhi e prese a muoversi per la camera esaminando meticolosamente ogni cosa.
Luther si ritrasse involontariamente quando lo sguardo della donna passò su di lui come il fascio di un riflettore nel cortile di una prigione. Quindi la vide soffermarsi a osservare il letto. Per un lungo minuto guardò l'uomo che dormiva, finché le spuntò un'espressione che Luther non riuscì a decifrare. Era qualcosa che stava a metà tra un sorriso e una smorfia.
La Russell si alzò, si avvicinò al letto e scrutò il Presidente. L'Uomo del Popolo, come la gente amava pensare. Un grand'uomo, destinato ai libri di storia. Non sembrava così grande in quel momento. Era disteso solo per metà sul letto, a gambe aperte, i piedi penzoloni a sfiorare il pavimento, in una posizione a dir po¬co singolare per una persona senza un cencio addosso.
La donna indugiò a guardarlo, soffermandosi su certi punti, attardandosi in un modo che lasciava Luther perplesso, consi¬derato quello che c'era lì per terra. Prima che Gloria Russell entrasse nella stanza e che affrontasse Burton, Luther si era aspettato di udire in pochi minuti le sirene e di ritrovarsi ad as¬sistere a un'irruzione di poliziotti e agenti della squadra inve¬stigativa, medici legali e forse anche un brulicare di consulenti politici e addetti stampa della presidenza, per non dire delle colonne di veicoli dei mass media a intasare il viale davanti alla villa. Invece no, evidentemente quella donna aveva in mente qualcos'altro.
Luther aveva visto Gloria Russell alla Cnn e in trasmissioni delle altre emittenti nazionali, oltre che un'infinità di volte sui giornali. Il suo era un volto che rimaneva impresso, con un lun¬go naso aquilino tra zigomi alti, tipici di una discendenza cherokee. Aveva capelli corvini che le scendevano lisci a sfiorarle le spalle e occhi grandi, di un azzurro così scuro da ricordare gli abissi dell'oceano, due profondità dense di insidie per gli sprov¬veduti e gli ingenui.
Luther cambiò con cautela posizione nella sua poltrona. Ve¬dere quella donna pontificare su questioni politiche d'attualità davanti a un imponente caminetto della Casa Bianca era una cosa, vederla aggirarsi in una stanza dove si trovavano un cada¬vere e, ubriaco e nudo, il capo della nazione più potente del mondo, era tutt'altro paio di maniche. Era uno spettacolo al quale Luther avrebbe preferito non dover assistere, ma dal qua¬le era magneticamente attratto.
La Russell lanciò un'occhiata alla porta, attraversò rapida¬mente la stanza, estrasse di nuovo il fazzoletto e chiuse a chia¬ve. Tornò lesta al letto e di nuovo indugiò a osservare il Presi¬dente. Allungò una mano e Luther istintivamente sussultò, ma lei stava solo accarezzando una guancia dell'uomo addormen¬tato. Luther si rilassò, tornando però a irrigidirsi quando la ma¬no di lei scese al petto a soffermarsi sulla folta peluria, per poi scendere sul ventre piatto, che si sollevava e ridiscendeva nel re¬spiro regolare del sonno.
Poi la mano scese ancora e fece lentamente scivolare il len¬zuolo verso il basso, lasciandolo cadere a terra, e si posò infine sul bassoventre. La Russell lanciò un'ulteriore occhiata alla porta, quindi si inginocchiò di fronte al Presidente. A questo punto Luther dovette chiudere gli occhi. A differenza del padro¬ne di casa, non apprezzava quel particolare hobby di spettatore.
Trascorsero alcuni lunghi minuti, prima che Luther riaprisse gli occhi. Adesso Gloria Russell si stava sfilando i collant, che posò con cura su una sedia. Poi montò con cautela sul Presiden¬te addormentato.
Luther chiuse di nuovo gli occhi. Sentì cigolare il letto e si domandò se lo si sentisse anche dabbasso. Probabilmente no, date le dimensioni della villa, ma anche se così fosse stato, che cosa avrebbero potuto fare?
Dieci minuti dopo, Luther udì un breve grugnito sfuggire dal¬le labbra di lui, e un gemito sommesso da quelle di lei. Tuttavia Luther continuò a tenere gli occhi chiusi. Non sapeva bene per¬ché. Sembrava però derivargli da uno strano miscuglio di sem¬plice paura e di disgusto per l'altrui disprezzo dimostrato nei confronti della donna morta.
Quando finalmente riaprì gli occhi, la Russell lo stava fissan¬do. Per un momento gli si fermò il cuore nel petto, prima che il cervello lo rassicurasse sul fatto che non poteva vederlo. La guardò infilarsi rapidamente i collant e riapplicarsi il rossetto davanti allo specchio, con pochi gesti precisi.
Aveva un sorrisetto sulle labbra, e un rossore diffuso sulle guance. Sembrava più giovane. Luther guardò il Presidente. Era ripiombato in un sonno profondo: con tutta probabilità la sua mente aveva archiviato la ventina di minuti appena trascorsi co¬me un sogno straordinariamente realistico e piacevole. Luther tornò a guardare la Russell.
Era più che mai inquietante vedere quella donna che gli sorri¬deva così direttamente, in quella stanza di morte, senza sapere che lui era lì. In quel volto c'era potere, e nei suoi occhi un'espres¬sione che Luther aveva già visto una volta in quella stanza. Anche quella donna era pericolosa.
— Voglio che questo posto sia completamente sterilizzato, ec¬cetto lei. — La Russell indicò la defunta signora Sullivan. — Un momento, anzi. Le avrà probabilmente messo le mani dapper¬tutto. Burton, voglio che me la esamini centimetro per centimetro e che faccia scomparire qualunque cosa abbia il sospetto che non appartenga a lei. Poi le rimetta gli abiti addosso.
Burton si infilò i guanti e si mise all'opera.
Seduto di fianco al Presidente, Collin gli versò di forza in go¬la un'altra tazza di caffè. Avrebbe contribuito a schiarirgli la mente, ma solo il trascorrere del tempo gli avrebbe restituito la completa lucidità. La Russell si sedette a fianco e prese una mano del Presidente fra le proprie. Adesso era vestito e sufficientemente in ordine, per quanto ancora spettinato. Gli avevano bendato alla meglio la ferita al braccio. Godeva di un'eccellente salute e sarebbe guarito in fretta.
— Signor Presidente? Alan? Alan? — La Russell gli prese la testa tra le mani e la girò verso di sé.
Aveva forse sentore di che cosa gli aveva fatto? Ne dubitava. Qualche ora prima lui aveva tradito un bisogno praticamente incontenibile di fare l'amore, la voglia sfrenata di penetrare una donna. E lei gli aveva ceduto il proprio corpo, senza domande. Tecnicamente aveva commesso un atto di violenza carnale. In concreto era sicura di aver realizzato un sogno condiviso da molti maschi. Pazienza se lui non serbava alcun ricordo di quanto era avvenuto, nessuna traccia del suo sacrificio. In ogni caso, ora avrebbe saputo con certezza che cosa lei aveva inten¬zione di fare per lui.
Gli occhi del Presidente stentavano a metterla a fuoco. Collin gli massaggiò il collo. Si stava riprendendo. La Russell control¬lò l'ora: le due. Dovevano rientrare. Lo schiaffeggiò in viso, non troppo forte ma abbastanza da risvegliare la sua attenzio¬ne. Avvertì la tensione nei muscoli di Collin. Gesù, com'erano miopi quei gorilla.
— Alan, ci hai fatto l'amore?
— Cosa...
— Avete scopato?
— Come... No, non credo. Non ricor...
— Gli dia dell'altro caffè, glielo pompi in gola se è necessa¬rio, ma me lo rimetta in sesto. — Collin annuì e si preparò a eseguire l'ordine, mentre la Russell si avvicinava a Burton, le cui mani inguantate stavano esaminando con perizia ogni centimetro della defunta signora Sullivan.
Burton aveva partecipato a numerose indagini di polizia, e sapeva esattamente dove e che cosa doveva cercare un buon in¬vestigatore. Non aveva mai previsto di doversi servire della sua professionalità per un insabbiamento, ma non aveva mai nem¬meno lontanamente immaginato che sarebbe potuto accadere qualcosa del genere.
Si guardò intorno, considerando mentalmente quali altre zo¬ne della casa avrebbe dovuto perquisire, in quali altre stanze i due potessero essere passati. Non si poteva fare niente per i segni che la donna aveva sul collo e per le altre tracce, visibili so¬lo al microscopio, che senza dubbio avrebbero rinvenuto in al¬tri punti del suo corpo. Nessuna contromisura avrebbe potuto evitare che il medico legale li rilevasse. D'altra parte era invero-simile che i segni di una colluttazione venissero fatti risalire al Presidente, a meno che la polizia avesse ritenuto il Presidente un indiziato, ipotesi più che mai irrealistica.
La contraddizione di un tentato strangolamento seguito da un decesso provocato da armi da fuoco era un enigma da la¬sciare all'immaginazione dei funzionari di polizia.
Fatte queste riflessioni, Burton cominciò a tirare gli slip su per le gambe della morta. Si sentì battere un dito sulla spalla.
— La controlli.
Burton alzò gli occhi. Fece per dire qualcosa.
— La controlli! — Il cipiglio della Russell era il medesimo che Burton le aveva visto rivolgere un milione di volte ai vari funzio¬nari della Casa Bianca. Avevano tutti un sacro terrore di lei. Lui non ne era intimorito, ma era abbastanza sveglio da pararsi il cu¬lo quando c'era la Russell nei paraggi. Fece come gli era stato or¬dinato. Poi riposizionò il corpo esattamente come quando era stramazzato sul pavimento. Riferì con un breve cenno negativo del capo.
— Sicuro? — La Russell era poco convinta, anche se dal suo interludio con il Presidente aveva dedotto che con tutta probabi¬lità non c'era stata penetrazione, o in caso contrario non aveva comunque eiaculato. Potevano però esserci delle tracce. C'era da rabbrividire al pensiero di che cosa erano in grado di determina¬re ormai partendo da un campione di dimensioni infinitesime.
— Non sono un ginecologo, dannazione. Non ho visto niente e se ci fosse stato qualcosa credo che me ne sarei accorto, però non vado in giro con un microscopio in tasca.
La Russell dovette accontentarsi. C'erano ancora un mucchio di cose da fare e non avevano molto tempo.
— Johnson e Varney hanno detto niente?
Collin rialzò la testa. Stava assistendo il Presidente, intento a mandar giù la sua quarta tazza di caffè. — Si stanno doman¬dando che cosa diavolo è successo, se è questo che intende.
— Non gli avrà raccontato...
— Solo quello che mi ha detto di dire lei, signora — tagliò corto lui. — Sono ottimi elementi, al seguito del Presidente fin dai tempi della campagna elettorale. Non faranno niente che possa inguaiarlo, okay?
La Russell lo ricambiò con un sorriso. Un bravo ragazzo, neanche da buttar via, ma soprattutto un membro leale della cerchia più stretta intorno al Presidente. Le sarebbe stato molto utile. Era Burton a preoccuparla. Gloria però sapeva di poter contare su un asso nella manica: erano stati lui e Collin a pre¬mere il grilletto, forse nel rispetto delle consegne ricevute, ma chi poteva assicurarlo? C'erano dentro fino al collo anche loro.
Luther osservava il terzetto in azione vergognandosi un po' dell'ammirazione che provava, date le circostanze. Erano in gamba, metodici, precisi, attenti, non si lasciavano sfuggire il minimo particolare. Non c'era grande differenza tra i rappre¬sentanti della legge devoti alla propria missione e i criminali professionisti, abilità tecnica e competenza erano molto simili, cambiava solo il fine per cui venivano applicate. Ma è appunto il fine a determinare il giudizio, non è vero?
Ora la donna, distesa sul pavimento esattamente là dov'era caduta, era stata completamente rivestita. Collin stava finendo di pulirle le unghie. Sotto ciascuna aveva iniettato una soluzio¬ne detergente che adesso stava risucchiando con una piccola si¬ringa, così da eliminare eventuali frammenti di pelle o altro che potesse incriminare il Presidente.
Il letto era stato rifatto con biancheria fresca e le lenzuola sporche erano finite in una sacca che avrebbe avuto come desti¬nazione finale un inceneritore. Collin aveva già perlustrato tut¬to il pianterreno.
Tutto quello che avevano toccato, salvo che per un unico og¬getto, era stato debitamente ripulito. Ora Burton stava passan¬do l'aspirapolvere sulla moquette. Sarebbe stato lui l'ultimo ad andarsene, camminando a ritroso e cancellando puntigliosa¬mente ogni loro traccia.
Poco prima Luther li aveva visti saccheggiare la camera da letto. Non aveva saputo trattenersi dal sorridere avendo imme¬diatamente intuito qual era il loro proposito: fingere un inci¬dente nel corso di un furto. La collana era finita in un sacchetto con tutti gli anelli. L'idea era di far credere che la giovane don¬na fosse stata uccisa da un ladro sorpreso a rubare in casa sua, e nessuno poteva immaginare che a due metri da loro c'era un topo di appartamenti in carne e ossa che li stava guardando e ascoltando.
Un testimone oculare!
Luther non era mai stato testimone oculare di un furto se non quelli commessi da lui stesso. Un criminale prova un odio naturale per i testimoni oculari. Se le persone in quella camera avessero saputo che Luther si trovava lì, l'avrebbero ucciso all'istante; non c'erano dubbi. Un vecchio delinquente, con tre pene detentive alle spalle, era un sacrificio modesto per la sal¬vezza dell'Uomo del Popolo.
Ancora intorpidito, il Presidente si alzò e con l'aiuto di Burton si diresse lentamente fuori dalla stanza. La Russell li guardò al¬lontanarsi senza far caso alla frenetica ricerca di Collin. Alla fi¬ne, gli occhi attenti dell'uomo si fermarono sulla borsa della Russell appoggiata sul comodino, da cui spuntava il manico del tagliacarte. Con l'aiuto di un sacchetto di plastica, Collin estras¬se l'oggetto e si apprestò a pulirlo. Luther trasalì involontaria-mente vedendo la Russell che gli afferrava la mano.
— Non lo faccia, Collin.
Collin non era scaltro come Burton, e meno che mai possede¬va il talento strategico della Russell. Rimase perplesso.
— Ma questo è pieno di impronte del Presidente, signora. E ci sono anche quelle della tizia, più macchie di quell'altra roba, se mi capisce. Il manico è di cuoio, si è inzuppato.
— Agente Collin, sono stata assunta dal Presidente come suo responsabile tattico e strategico. Quella che a lei può sembrare un'iniziativa del tutto logica, dal mio punto di vista richiede un esame molto più approfondito, e finché non sarà completata un'analisi accurata della situazione, lei non pulirà quel tagliacar¬te. Lo metterà in un contenitore adeguato e lo consegnerà a me.
Collin fu sul punto di protestare, ma desistette sotto lo sguar¬do minaccioso della Russell. Ripose come gli era stato richiesto il tagliacarte in una busta, e la porse alla donna.
— Faccia attenzione, signora Russell.
— Faccio sempre attenzione, Tim.
Gli rivolse un altro sorriso. Lui contraccambiò. Non l'aveva mai chiamato per nome. Collin si domandò se lei se ne fosse ac¬corta. Si rendeva anche conto, e non per la prima volta, che il Capo dello Staff era una donna molto attraente.
— Sì, signora — e cominciò a riporre l'attrezzatura.
— Tim?
Collin le rivolse lo sguardo. La Russell gli si avvicinò, lo guardò dritto negli occhi e gli parlò a voce bassa. Collin ebbe persino la sensazione che fosse un po' imbarazzata.
— Tim, ci troviamo di fronte a una situazione decisamente straordinaria. Ho bisogno di tempo per orientarmi. Mi capisci?
Collin annuì. — Che sia straordinaria è fuori discussione. Mi si sono drizzati i capelli in testa quando ho visto quella lama che stava per spaccare il cuore al Presidente.
Lei gli toccò il braccio. Le sue unghie erano sorprendente¬mente lunghe e perfettamente curate. Nell'altra mano reggeva la busta con il tagliacarte. — Questo deve restare tra noi, Tim. D'accordo? Presidente escluso. Escluso anche Burton.
— Non so...
Lei gli strinse la mano. — Tim, ho veramente bisogno del tuo appoggio, questa volta. Il Presidente non ha idea di che cosa sia successo e ho l'impressione che, ora come ora, Burton non stia affrontando l'emergenza con tutta la razionalità del caso. Ho bi¬sogno di qualcuno di cui fidarmi. Ho bisogno di te, Tim. È una questione troppo delicata. Questo lo capisci anche tu, no? Non te lo chiederei se non pensassi che sei perfettamente all'altezza.
Lui sorrise al complimento e affrontò il suo sguardo.
— Va bene, signora Russell. Come vuole lei.
Mentre Collin terminava il suo lavoro, la Russell osservò la lama insanguinata che per così poco non aveva messo fine alle sue ambizioni politiche. Se il Presidente fosse rimasto ucciso, non sarebbe stato possibile insabbiare un bel niente. Già, insab¬biare: che brutta parola. Però era un'operazione sovente neces¬saria nel mondo dell'alta politica. Rabbrividì al pensiero di quali sarebbero potuti essere i titoli: IL PRESIDENTE TROVATO MORTO NELLA CAMERA DA LETTO DI UN AMICO INTIMO. LA MOGLIE DELL'AMICO INDIZIATA DELL'OMICIDIO. LA DIRIGENZA DEL PARTITO CHIEDE LA TESTA DEL CAPO DELLO STAFF, GLORIA RUSSELL. Ma non era andata così. E così non sarebbe andata.
L'oggetto che teneva nella mano valeva più di una montagna di plutonio, più dell'intera produzione di petrolio dell'Arabia Saudita.
Con un'arma come quella in suo possesso, chissà... magari addirittura il binomio Russell-Richmond? Le si aprivano possi¬bilità assolutamente infinite.
Sorrise e ripose la busta nella borsetta.
L'urlo fece voltare di scatto la testa a Luther. Una fitta di dolore gli attraversò il collo e solo a fatica trattenne un gemito.
Il Presidente era rientrato di corsa. Aveva gli occhi strabuzza¬ti, ma era ancora mezzo ubriaco. Il ricordo di quelle ultime ore gli si era riacceso nella mente con la forza d'urto di un Boeing 747 che gli fosse atterrato sulla testa.
Burton lo seguiva ansimando. Il Presidente si lanciò sul cada¬vere. Gloria appoggiò la borsetta sul comodino, e insieme a Collin lo intercettò a metà strada.
— Dio del cielo! È morta! L'ho uccisa. Oh, Signore Iddio, aiutami. L'ho uccisa! — gridò e poi singhiozzò e poi gridò di nuovo. Cercò di forzare il blocco che lo ostacolava, ma era an¬cora troppo debole. Burton lo tirò indietro.
Poi in un impeto convulso il Presidente si sbarazzò delle loro braccia, e lanciandosi in avanti rovinò contro il muro, finì ad¬dosso al comodino e infine si accasciò sul pavimento, accartoc¬ciandosi in posizione fetale a piagnucolare accanto alla donna con la quale quella notte aveva avuto intenzione di fare l'amore.
Luther provò sincero ribrezzo. Si massaggiò il collo scuoten¬do lentamente la testa. L'incredibile susseguirsi degli avveni¬menti di quella notte cominciava a diventargli insopportabile.
Il Presidente si rialzò muovendosi con cautela. Dall'espressio¬ne, c'era da ritenere che Burton la pensasse più o meno come Luther, ma l'agente non aprì bocca. Collin sollecitò con uno sguardo istruzioni da parte della Russell, che si rallegrò intima¬mente dell'implicito passaggio di poteri.
— Gloria?
— Sì, Alan?
Luther aveva notato come la Russell aveva contemplato il ta¬gliacarte. Lui sapeva qualcosa che nessun altro in quella stanza sapeva.
— Non ci saranno conseguenze? Fai che vada tutto a posto, Gloria. Ti prego. Oh Dio, Gloria!
Lei gli posò la mano sulla spalla, in un gesto di rassicurazio¬ne simile a quelli che aveva ripetuto per centinaia di migliaia di chilometri di campagna elettorale. — È tutto sotto controllo, Alan. Ho messo tutto sotto controllo.
Il Presidente era ancora troppo ubriaco per cogliere il signifi¬cato delle sue parole, ma Gloria non se ne curò.
Burton si premette l'auricolare e ascoltò attentamente per qualche istante. Poi si girò verso la Russell.
— È meglio che alziamo i tacchi. Varney dice che sta arrivan¬do un'auto di pattuglia.
— Il sistema d'allarme...? — cominciò Gloria in tono ansioso.
Burton scosse la testa. — Probabilmente è una normale ispe¬zione di una guardia giurata, ma se vede qualcosa... — Non eb¬be bisogno di aggiungere altro.
In un quartiere come quello allontanarsi dal luogo del delitto a bordo di una limousine era senz'altro la miglior copertura possibile. La Russell poté solo complimentarsi con se stessa per aver preso l'abitudine di noleggiare macchinoni senza autista per le piccole scorribande del suo Presidente. Anche se qualcu¬no li avesse notati, i nomi sui registri erano tutti falsi, deposito cauzionale e tariffa venivano pagati in contanti e l'automobile veniva riconsegnata dopo poche ore. La transazione avveniva in maniera totalmente indiretta e il veicolo veniva completa¬mente sterilizzato prima della riconsegna. Se la polizia avesse indagato lungo quella pista, cosa peraltro altamente improbabi¬le, si sarebbe ritrovata in un vicolo cieco.
— Via! — ordinò Gloria, con la voce ora lievemente alterata dalla preoccupazione.
Aiutarono il Presidente a rimettersi in piedi. La Russell uscì con lui. Collin prese i sacchi. Poi si fermò di colpo.
Luther deglutì.
Collin si voltò, recuperò la borsetta della Russell dal comodi¬no e uscì.
Burton accese il piccolo aspirapolvere, finì di passarlo sulla moquette, spense la luce e richiuse la porta.
L'ambiente di Luther ripiombò nelle tenebre.
Era la prima volta che si ritrovava solo in quella stanza con il cadavere della giovane donna. Tutti gli altri avevano fatto in fretta ad abituarsi al corpo insanguinato riverso sul pavimento, scavalcandolo o passandovi attorno come evitando un qualsiasi oggetto inanimato; ma per Luther non era così, lui non si era per niente abituato ad avere la morte a un paio di metri di di¬stanza.
Non poteva più vedere gli abiti sporchi di sangue e il corpo esanime che li indossava, ma sapeva che erano lì. "Una putta¬na imbottita di soldi" era probabilmente l'epitaffio che l'opi¬nione pubblica avrebbe messo in circolazione. Sì, aveva tradito suo marito, ma a parte il sospetto che a lui non sarebbe impor¬tato un bel niente, non aveva comunque meritato una morte come quella. Luther aveva assistito alla scena con i propri oc¬chi ed era assolutamente certo che lui l'avrebbe uccisa: se non fosse stato per la fulminea reazione della donna, il Presidente l'avrebbe ammazzata.
Luther non si sentiva di biasimare gli uomini dei servizi se¬greti, che avevano un incarico e l'avevano svolto secondo le consegne. Quella donna aveva scelto l'uomo sbagliato per un tentativo di omicidio nel furore del momento. Forse era meglio così. Se la sua mano fosse stata appena più veloce o la reazione degli agenti appena più lenta, lei avrebbe poi passato il resto dei suoi giorni in galera. Oppure poteva anche essere giustiziata per aver ucciso un Presidente.
Luther si sedette in poltrona. Aveva le gambe stanche. Si sforzò di rilassarsi. Presto avrebbe preso il largo e avrebbe avu¬to bisogno di energie fisiche per correre.
Aveva parecchio su cui riflettere, dal momento che involonta¬riamente stavano incastrando Luther Whitney come indiziato numero uno in quello che senza dubbio era destinato a essere considerato un delitto macabro e scellerato. Data la posizione sociale della vittima, per trovare l'assassino sarebbe sceso in campo un largo schieramento di forze, ma mai e poi mai avreb¬bero cercato la risposta all'enigma al numero 1600 di Pennsylvania Avenue. Nossignori, avrebbero provato altrove e, per quanto lungimiranti potessero essere le precauzioni prese da Luther, non si poteva escludere che sarebbero arrivati fino a lui. Era in gamba, molto in gamba, ma non aveva mai dovuto lotta¬re contro il tipo di forze che sarebbero state sguinzagliate alla ricerca dell'autore di quel delitto.
Rivisitò velocemente il piano che lo aveva portato lì quella notte. Non trovò difetti evidenti, ma di solito sono proprio i meno appariscenti a fregarti. Deglutì, strinse e distese ripetutamente le dita, allungò le gambe, fece tutto quanto era in suo po¬tere per calmarsi. Una cosa alla volta. Ancora non era uscito da quella casa. Molte cose sarebbero potute andare storte, e senza dubbio almeno un paio non avrebbero funzionato per il verso giusto.
Avrebbe atteso ancora due minuti. Contò i secondi, immagi¬nando che il Presidente e il suo seguito avrebbero sicuramente aspettato di conoscere i movimenti dell'auto di ronda prima di partire.
Aprì la borsa. Dentro c'erano molti degli oggetti contenuti nella cassaforte. Si era quasi dimenticato di essersi recato lì per rubare e di averlo fatto. La sua automobile era parcheggiata a parecchie centinaia di metri. Ringraziò Iddio di aver smesso di fumare da parecchio tempo: avrebbe avuto bisogno di tutta la capacità polmonare che aveva a disposizione. Quanti erano gli agenti dei servizi segreti con i quali avrebbe dovuto battersi? Almeno quattro. Merda!
Lo specchio si aprì lentamente e Luther uscì in camera da letto. Premette per l'ultima volta il pulsante del telecomando, che poi lasciò cadere sulla poltrona mentre lo sportello si ri¬chiudeva.
Il suo sguardo andò alla finestra. Aveva previsto l'eventualità di servirsene come via di fuga alternativa e nella borsa aveva portato una matassa di trenta metri di resistentissima fune di nylon, lungo la quale aveva stretto un nodo a intervalli di quin¬dici centimetri.
Si tenne a debita distanza dal cadavere, attento a non pestare nessuna delle macchie rosse la cui posizione aveva memorizza¬to. Lanciò una sola occhiata al corpo di Christine Sullivan. Im¬possibile riportarla in vita. Ora il suo problema era conservare la propria.
Si avvicinò al comodino e vi infilò dietro la mano.
Con la punta delle dita trovò la busta di plastica. Urtando il mobile, il Presidente aveva rovesciato la borsetta di Gloria Russell e la busta di plastica e l'oggetto di immenso valore che con¬teneva erano scivolati dietro il comodino.
Luther tastò la lama del tagliacarte attraverso la plastica pri¬ma di riporre la busta nella sua sacca. Poi raggiunse velocemen¬te la finestra e spiò fuori. La limousine e il furgone erano anco¬ra al loro posto. Brutto segno.
Riattraversò la stanza, estrasse la matassa della fune, ne legò un'estremità a una gamba della massiccia cassettiera e la sro¬tolò procedendo in direzione dell'altra finestra, dalla quale si sarebbe calato sul lato opposto della villa, quello nascosto dalla strada. Aprì la finestra lentamente, pregando che i binari fosse¬ro ben lubrificati, e venne esaudito.
Lasciò cadere la fune all'esterno e la guardò srotolarsi lungo la superficie di mattoni.
Gloria Russell contemplò la facciata imponente. Lì dietro c'erano soldi nel senso più concreto del termine, soldi e una posizione sociale che Christine Sullivan non meritava. Se li era conquistati con le tette, un modo sapiente di sculettare e una pittoresca volgarità nel parlare che aveva misteriosamente ispi¬rato il vecchio Walter Sullivan, risvegliando in lui emozioni ri¬maste sepolte nelle involuzioni di una personalità complicata. Di lì a sei mesi lui non avrebbe più sentito la sua mancanza, e il suo mondo di ultraconsolidati poteri e ricchezza avrebbe continuato per la sua strada.
Poi le venne un colpo.
Aveva già riaperto lo sportello della limousine, che Collin la trattenne per un braccio. Le mostrò la borsetta di pelle che lei aveva comperato per cento dollari a Georgetown ma che ora aveva un valore incalcolabile. La Russell tornò ad appoggiarsi allo schienale e riprese fiato. Sorrise a Collin, quasi arrossendo.
Il Presidente, in uno stato quasi catatonico, non si accorse di nulla.
Poi la Russell guardò nella borsetta, tanto per sicurezza, e re¬stò a bocca aperta. Frugò freneticamente nei pochi effetti perso¬nali. Dovette fare appello a tutta la sua forza di volontà per non mettersi a strillare come un'indemoniata. Alzò occhi dilatati dall'orrore sul giovane agente dei servizi segreti. Il tagliacarte non c'era. Doveva essere rimasto in casa.
Collin risalì precipitosamente le scale, inseguito da un Burton più confuso che mai.
Luther era a metà del muro esterno quando li udì arrivare.
Ancora tre metri.
Fecero irruzione in camera da letto.
Due metri.
Giusto un attimo di sbigottimento quando i due agenti vide¬ro la fune, e Burton si era già tuffato verso la finestra.
Un metro ancora e Luther mollò la presa, cadendo pesante¬mente sul terreno.
Burton si affacciò. Collin spostò il comodino con un calcio: niente. Raggiunse Burton alla finestra. Luther era già scompar¬so dietro l'angolo. Burton fece per calarsi a sua volta, ma Collin lo fermò. Avrebbero fatto più in fretta ridiscendendo le scale.
Si catapultarono fuori dalla porta.
Luther arrancava tra i filari di granoturco senza più preoccupar¬si delle tracce che lasciava dietro di sé, guidato solo dall'istinto di sopravvivenza. La sacca lo rallentava un po', ma aveva faticato troppo in quegli ultimi mesi per accontentarsi di andarsene a ma¬ni vuote.
Sbucò con l'impeto di un'esplosione dalla copertura dei fusti e dovette affrontare il tratto più pericoloso della sua fuga: cento metri allo scoperto. Ma la luna era scomparsa dietro una coltre di nuvole e non c'erano lampioni in campagna. Vestito di nero com'era, sarebbe stato quasi impossibile avvistarlo. Tuttavia, al buio l'occhio umano individua più facilmente i movimenti, e lui si stava muovendo più veloce che poteva.