venerdì 12 aprile 2019


PURITY
Jonathan Franzen

Un commento al libro
Purity non è altro che la storia di una famiglia, che all’inizio non sa nemmeno di esserlo; ed è probabilmente il libro migliore di Franzen, nella traduzione esemplare di Silvia Pareschi. La qualità della scrittura di Jonathan Franzen è indiscutibile, il suo talento impressionante e ancora di più con la consapevolezza della sua ambizione.
In  Purity si incarna in una meravigliosa capacità di allestire una commedia umana come avrebbero potuto fare duecento anni fa Charles Dickens o Honoré de Balzac. Nessun grande scrittore, del resto, può evitare di essere anche un moralista.
I protagonisti di Purity hanno tutti almeno una cosa in comune: a nessuno piace come va il mondo, lo vorrebbero rivoltare dalla testa ai piedi, purificarlo, ma poi sono loro stessi a essere i primi a sbagliare in continuazione, a comportarsi come dei disastri ambulanti, soggiogati da sensi di colpa e ansie da prestazione di cui nemmeno loro capiscono bene l’origine, in grado di produrre dolori a ogni passo senza rendersi conto delle loro responsabilità.
La prima di questi goffi idealisti è proprio colei che dà il titolo al romanzo, Purity, detta Pip, 22 anni, figlia brillante e nevrotica, di una donna single negli Stati Uniti suburbani, che l’ha cresciuta colmandola di un amore accudente ma pieno di buchi.
Troppe responsabilità gravano sulle giovani spalle di Purity Tyler: un debito universitario di centotrentamila dollari che il suo pessimo lavoro da promotrice telefonica non potrà mai ripagare, una madre lunatica, ipocondriaca e del tutto priva di senso pratico, e nessun padre con
cui condividere i due carichi. L’incontro fortuito con una bellissima e indecifrabile attivista tedesca nella casa di Oakland che Pip occupa con
altri squatter le offre un’inattesa possibilità di fuggire da tutto questo: uno
stage (retribuito!) presso la sede sudamericana del Sunlight Project,
l’organizzazione clandestina che divulga via rete notizie riservate sui traffici di mezzo mondo. Accettando, Purity potrà contribuire alla pulizia
del pianeta gettando luce sui misteri dei potenti, e allo stesso tempo, perché
no, carpire informazioni sull’identità di suo padre, che la madre si rifiuta da sempre di rivelare, per indurlo a metter mano al portafogli.
E poi potrà conoscere il mitico Andreas Wolf, ispiratore e leader carismatico del Progetto. Wolf è finito sotto i riflettori durante l’attacco a
Normannenstraße del 1990, che ha scoperchiato gli altarini della Stasi e di
un intero sistema, e da quel momento la sua ascesa verso l’Olimpo dei leaker piú scomodi è stata inarrestabile. A differenza del collega e rivale Julian Assange, Wolf vorrebbe fare della purezza il suo marchio di fabbrica («Wiki era sporca: c’è gente che è morta a causa di Wiki»); come lui, tuttavia, esprime il rapporto instabile e complicato che lega potere e
segreti. Oscuri e nefasti sono quelli che si nascondono nel passato di Andreas, in una Ddr pre-caduta del Muro; oscura e ambigua è la sua
tensione verso la nuova arrivata Pip. Il contatto con il leader segnerà per lei l’inizio di un viaggio di formazione alla scoperta di suo padre e di sua madre, della stoffa morale di cui sono fatti quelli che ama, del lato oscuro dietro a ogni luce.
L’autore di Le correzioni e Libertà dilata il tempo e lo spazio della sua narrazione – la Germania Est degli anni Ottanta, Philadelphia, Oakland, Denver, la Bolivia di oggi –, espande la galleria dei personaggi e moltiplica i protagonisti, diversifica le insidie con cui si devono misurare – dalla potenziale distruttività del ruolo genitoriale alla schiavitú dell’immagine, dalla corruttibilità delle idee forti alla guerra fra i sessi –, e restituisce una grande opera di inedita ambizione e irresistibile pathos.

PURITY

LUNEDÍ.

    – Oh, micetta, come sono contenta di sentire la tua voce, – disse la madre della ragazza al telefono. – Il corpo mi tradisce di nuovo. A volte penso che la mia vita sia solo una lunga serie di tradimenti corporali.

    – Non è cosí per tutti? – disse la ragazza, Pip. Ultimamente chiamava la madre a metà della pausa pranzo alla Renewable Solutions. Ciò le procurava un po’ di sollievo dalla sensazione di non essere adatta a quell’impiego, di avere un impiego al quale nessuno poteva essere adatto, o di essere una persona inadatta a qualunque tipo di impiego; e poi, dopo venti minuti, poteva dire con sincerità di dover tornare al lavoro.

    – La mia palpebra sinistra sta cadendo, – spiegò sua madre. – È come se ci fosse un peso che la tira giú, tipo un piombino da pesca o qualcosa del genere.

    – Proprio adesso?

    – Va e viene. Chissà, forse ho la paralisi di Bell.

    – Qualunque cosa sia la paralisi di Bell, sono sicura che non ce l’hai.

    – Come fai a essere cosí sicura, micetta, se non sai neanche cos’è?

    – Non saprei… forse perché non avevi neanche il morbo di Basedow? L’ipertiroidismo? Il melanoma?

    Non che le piacesse prendere in giro sua madre. Ma i loro rapporti erano inquinati dall’azzardo morale, un’utile espressione che Pip aveva imparato al corso di economia del college. Nel sistema economico di sua madre, lei era una banca troppo grande per poter fallire, un’impiegata troppo indispensabile per poter essere licenziata per cattiva condotta. Anche alcuni suoi amici di Oakland avevano genitori problematici, ma riuscivano comunque a parlarci tutti i giorni senza eccessive manifestazioni di stranezza, perché persino i piú problematici avevano risorse che non si limitavano al loro unico discendente. Nel mondo di sua madre, invece, esisteva solo Pip.

    – Be’, oggi non credo di poter andare al lavoro, – disse sua madre. – Il mio Proponimento è l’unica cosa che mi permette di sopravvivere là dentro, e non posso sintonizzarmi sul Proponimento quando ho un piombino da pesca invisibile che mi tira giú la palpebra.

    – Mamma, non puoi metterti ancora in malattia. Non siamo neanche a luglio. E se poi ti viene davvero l’influenza, o qualcos’altro?

    – E intanto tutti si chiedono perché una vecchia con mezza faccia che le cade sulla spalla sta lí a infilare la spesa nei sacchetti. Non hai idea di quanto invidi il tuo box in ufficio. La sua invisibilità.

    – Non idealizziamo il box, – disse Pip.

    – È questa la cosa terribile dei corpi. Sono visibili, troppo visibili.

    La madre di Pip, benché cronicamente depressa, non era pazza. Era riuscita a conservare il posto di cassiera al New Leaf Community Market di Felton per piú di dieci anni, e bastava che Pip abbandonasse il proprio modo di pensare e si sottomettesse a quello materno per comprendere perfettamente ciò che le stava dicendo. L’unica decorazione sulle pareti grigie del box di Pip era un adesivo da paraurti: ALMENO LA GUERRA CONTRO L’AMBIENTE STA ANDANDO BENE. I box dei suoi colleghi erano tappezzati di foto e ritagli, ma anche Pip capiva il fascino dell’invisibilità. Inoltre si aspettava che la licenziassero da un momento all’altro, perciò non aveva senso cercare di ambientarsi.

    – Hai pensato a come vuoi non-festeggiare il tuo non-compleanno? – chiese a sua madre.

    – Francamente, mi piacerebbe starmene a letto tutto il giorno con la testa sotto le coperte. Non mi serve un non-compleanno per ricordarmi che sto invecchiando. Me lo ricorda già la mia palpebra.

    – Che ne dici se preparo una torta e vengo a portartela e ce la mangiamo? Mi sembri un po’ piú depressa del solito.

    – Quando sono con te non mi deprimo.

    – Ah, peccato che non sono disponibile sotto forma di pillola. Ce la fai ad affrontare una torta alla stevia?

    – Non saprei. La stevia mi fa una strana reazione chimica in bocca. Nella mia esperienza una papilla gustativa non la freghi.

    – Anche lo zucchero ha un retrogusto, – disse Pip, malgrado sapesse che era inutile discutere.

    – Lo zucchero ha un retrogusto acido che non crea problemi alla papilla gustativa, che è fatta per registrare l’acidità senza indugiarci sopra. La papilla gustativa non deve passare cinque ore a segnalare «sapore strano, sapore strano!», come mi è successo l’unica volta che ho provato una bevanda alla stevia.

    – Ma io sto dicendo che anche l’acidità persiste.

    – Non va affatto bene che una papilla gustativa continui a segnalare un sapore strano cinque ore dopo che hai bevuto una bevanda dolcificata. Lo sai che se fumi metanfetamina anche solo una volta, tutte le proprietà chimiche del tuo cervello si alterano per sempre? Ecco, questo è l’effetto che mi fa la stevia.

    – Guarda che non sono qui che mi ciuccio una pipetta da crack, se è quello che stai cercando di dire.

    – Sto dicendo che non mi serve una torta.

    – No, troverò un altro tipo di torta. Scusa se ne ho proposta una che per te è veleno.

    – Non ho detto che è veleno. Solo che la stevia mi fa una strana…

    – Reazione chimica in bocca, sí.

    – Micetta, mangerò qualunque torta mi porterai, non morirò per un po’ di zucchero raffinato, non volevo farti arrabbiare. Tesoro, ti prego.

    Nessuna telefonata era completa prima che ciascuna delle due avesse reso infelice l’altra. Il problema, agli occhi di Pip – l’essenza dello svantaggio che si portava dietro; la presumibile causa della sua incapacità di riuscire in qualunque cosa –, era che lei amava sua madre. La compativa; soffriva con lei; gioiva nel sentire la sua voce; provava un’inquietante attrazione asessuata per il suo corpo; era attenta persino all’equilibrio chimico della sua bocca; desiderava che fosse piú felice; detestava farla arrabbiare; la sentiva cara. Quello era l’enorme blocco di granito al centro della sua vita, la fonte della rabbia e del sarcasmo che rivolgeva non solo contro sua madre, ma anche, in maniera sempre piú controproducente, contro oggetti meno appropriati. Quando Pip si arrabbiava, non ce l’aveva davvero con sua madre, ma con il blocco di granito.

    Aveva otto o nove anni quando le era venuto di chiedere perché nella loro casetta, tra i boschi di sequoie vicino a Felton, si festeggiasse solo il suo compleanno. Sua madre le aveva risposto di non avere un compleanno: per lei l’unico che contava era quello di Pip. Ma Pip aveva continuato a insistere, finché sua madre aveva acconsentito a festeggiare il solstizio d’estate con una torta che avrebbero chiamato di non-compleanno. Questo aveva poi sollevato la questione dell’età che sua madre si rifiutava di rivelare, dicendo solo, con un sorriso adatto alla formulazione di un koan: – Sono abbastanza vecchia per essere tua madre.

    – No, ma quanti anni hai davvero?

    – Guarda le mie mani, – aveva risposto sua madre. – Se ti eserciti, puoi imparare a indovinare l’età di una donna dalle mani.

    E cosí – per la prima volta, apparentemente – Pip aveva guardato le mani di sua madre. La pelle del dorso non era rosea e opaca come la sua. Era come se le ossa e le vene stessero risalendo verso la superficie; come se la pelle fosse acqua che si ritirava, rivelando sagome sommerse sul fondale di un porto. La sua chioma, benché folta e lunghissima, conteneva ciocche di capelli grigi e secchi, mentre la pelle alla base della gola sembrava una pesca un po’ troppo matura. Quella notte Pip non era riuscita a dormire per la paura che sua madre morisse presto. Era stato il primo presentimento del blocco di granito.

    Da allora aveva cominciato a desiderare ardentemente che sua madre avesse un uomo, o in generale una qualunque altra persona che l’amasse. Nel corso degli anni la lista dei potenziali candidati aveva annoverato la vicina di casa Linda, anche lei madre single e anche lei studentessa di sanscrito; il macellaio del New Leaf, Ernie, anche lui vegano; la pediatra Vanessa Tong, che esprimeva la sua potente cotta per la madre di Pip tentando di interessarla al birdwatching; e Sonny, il tuttofare con la barba da montanaro che approfittava di qualunque lavoro di manutenzione per dissertare sullo stile di vita degli antichi indiani Pueblo. Tutte quelle brave persone della San Lorenzo Valley avevano scorto nella madre di Pip ciò che Pip stessa, da ragazzina, aveva visto con orgoglio: una sorta di ineffabile grandezza. Non occorre scrivere per essere poeti, non occorre creare qualcosa per essere artisti. Il Proponimento spirituale di sua madre era in sé una specie di arte: un’arte dell’invisibilità. Prima che Pip compisse dodici anni, in casa loro non c’era mai stato un televisore né un computer; la principale fonte d’informazioni di sua madre era il «Santa Cruz Sentinel», che leggeva per il piccolo piacere quotidiano di farsi sconcertare dal mondo. Tutto questo, di per sé, non era cosí insolito per la San Lorenzo Valley. Il problema era che la madre di Pip trasudava la timida convinzione della propria grandezza, o quantomeno si comportava come se un tempo fosse stata davvero una persona speciale, in un passato pre-Pip di cui si rifiutava categoricamente di parlare. Non era tanto offesa quanto mortificata dal fatto che la vicina Linda potesse paragonare suo figlio Damian, quel cacciatore di rane adenoideo, alla sua unica e perfetta Pip. Immaginava che il macellaio ci sarebbe rimasto malissimo se gli avesse detto che per lei puzzava di carne anche dopo essersi lavato; si rendeva la vita difficile cercando di schivare gli inviti di Vanessa Tong, anziché ammettere semplicemente di avere paura degli uccelli; e ogni volta che l’alto pick-up di Sonny imboccava il loro vialetto, mandava Pip ad aprirgli mentre lei usciva dal retro e scappava nel bosco. Se poteva concedersi il lusso di fare tanto la schizzinosa era solo grazie a Pip. Lo aveva ribadito molte volte, senza mezzi termini: Pip era l’unica persona che superava l’esame, l’unica che lei amava.

    Tutto questo, naturalmente, era diventato fonte di violento imbarazzo quando Pip era entrata nell’adolescenza. Ma ormai era troppo impegnata a odiare e punire sua madre per valutare i danni che la sprovvedutezza materna stava infliggendo alle sue prospettive future. Nessuno le aveva detto che, se voleva fare qualcosa di buono nel mondo, forse non era un’ottima idea laurearsi con un debito studentesco di centotrentamila dollari. Nessuno l’aveva avvertita che la cifra a cui prestare attenzione durante il colloquio con Igor, il responsabile della promozione alla Renewable Solutions, non erano i «trenta o quarantamila dollari» di provvigioni che Pip, a sentir lui, avrebbe guadagnato nel primo anno, bensí lo stipendio base di ventunmila dollari che le veniva offerto; o che un venditore persuasivo come Igor poteva anche essere bravo a vendere lavori di merda a ventunenni ignare.

    – A proposito del fine settimana, – disse Pip con voce dura. – Devo avvisarti che voglio parlare di una cosa di cui non ti piace parlare.

    Sua madre fece una risatina che voleva essere accattivante, per mostrarsi indifesa. – C’è solo una cosa di cui non mi piace parlare con te.

    – Bene, e io voglio parlare proprio di quella. Perciò ritieniti avvisata.

    Sua madre non rispose. A Felton la nebbia doveva essersi ormai dissolta, quella nebbia che ogni giorno sua madre vedeva scomparire con rammarico, perché rivelava un mondo luminoso al quale lei non voleva appartenere. Preferiva praticare il suo Proponimento al riparo delle mattine grigie. Ora invece la luce del sole filtrava tra i minuscoli aghi delle sequoie tingendosi di verde e oro, e il caldo estivo s’insinuava oltre le finestre a zanzariera della veranda e raggiungeva il letto che Pip aveva requisito per proteggere la sua privacy adolescenziale, relegando sua madre su una brandina nella stanza principale finché, quando lei era partita per il college, sua madre non se lo era ripreso. Probabilmente in quel momento era sul letto a praticare il suo Proponimento. In tal caso non avrebbe piú parlato se non direttamente interpellata; non avrebbe fatto altro che respirare.

    – Non ce l’ho con te, – disse Pip. – Non ho intenzione di andarmene. Ma ho bisogno di soldi, e tu non ne hai, e io non ne ho, e c’è solo un posto dove posso andare a cercarli. C’è solo una persona che almeno in teoria mi deve qualcosa. Perciò ne parleremo.

    – Micetta, – disse sua madre in tono triste, – tu sai che non lo farò. Mi rincresce che tu abbia bisogno di soldi, però qui la questione non è se mi piace o non mi piace, ma se posso o non posso. E io non posso, perciò dovremo pensare a qualcos’altro.

    Pip si accigliò. Di tanto in tanto sentiva il bisogno di divincolarsi dalla camicia di forza delle circostanze in cui si trovava da due anni, per vedere se magari le maniche cedevano un po’. E ogni volta la ritrovava stretta come prima. Sempre in debito di centotrentamila dollari, sempre l’unica consolazione di sua madre. Il modo immediato e totale in cui era rimasta intrappolata, nell’istante stesso in cui erano terminati i quattro anni di libertà del college, era piuttosto notevole; lo avrebbe trovato deprimente, se si fosse potuta permettere di deprimersi.

    – Okay, ora metto giú, – disse nel telefono. – Tu preparati per andare al lavoro. Probabilmente l’occhio ti dà fastidio perché dormi poco. A volte succede anche a me, quando non dormo.

    – Davvero? – disse sua madre in tono ansioso. – Ce l’hai anche tu?

    Pur sapendo che avrebbe prolungato la telefonata, e forse reso necessario estendere la discussione alle malattie ereditarie, e sicuramente richiesto una grande quantità di bugie, Pip decise che per sua madre era meglio pensare all’insonnia che alla paralisi di Bell, se non altro perché, come Pip le faceva presente da anni senza alcun esito, per l’insonnia esistevano delle medicine. Ma il risultato fu che quando Igor fece capolino nel suo box, all’1,22, Pip era ancora al telefono.

    – Mamma, scusami, devo andare, ciao, – disse, e riagganciò.

    Igor le puntava addosso lo Sguardo. Era un russo biondo e ingiustamente bello, con una barba che attirava le carezze, e secondo Pip l’unico motivo plausibile per cui non l’aveva ancora licenziata era che gli piaceva pensare di scoparsela, e tuttavia era sicura che, se mai fossero arrivati a quel punto, lei si sarebbe sentita immediatamente umiliata, perché Igor non era solo bello, ma aveva anche un bellissimo stipendio, mentre lei non aveva altro che problemi. Ed era sicura che lo sapeva anche lui.

    – Scusa, – gli disse. – Scusa, ho sforato di sette minuti. Mia madre ha un problema di salute –. Rifletté per un istante. – Anzi, no, ritiro le scuse. Quante possibilità avrei avuto di ottenere una risposta positiva in un lasso di tempo di sette minuti?

    – Ho l’aria di volerti rimproverare? – disse Igor, battendo le ciglia.

    – Be’, allora cosa ci fai qui? Perché mi fissi?

    – Ho pensato che magari ti piacerebbe giocare a Venti Domande.

    – Penso di no.

    – Tu cerchi di indovinare cosa voglio da te, e io limiterò le mie risposte a un innocuo sí o no. Sia messo a verbale: se non è sí o no non vale.

    – Vuoi che ti faccia causa per molestie sessuali?

    Igor scoppiò in una risata gongolante. – Questo è un no! Ti restano diciannove domande.

    – Non sto scherzando. Secondo una mia amica che studia giurisprudenza, potrei farti causa semplicemente per aver creato una certa atmosfera.

    – Questa non è una domanda.

    – Come faccio a spiegarti che non lo trovo affatto divertente?

    – Solo domande sí/no, per favore.

    – Gesú Cristo. Vattene.

    – Preferisci parlare dei tuoi risultati di maggio?

    – Vattene! Ora mi metto al telefono.

    Quando Igor se ne andò, Pip aprí l’elenco delle chiamate sul computer, gli lanciò un’occhiata disgustata e lo ridusse di nuovo a icona. In quattro dei ventidue mesi in cui aveva lavorato per la Renewable Solutions era riuscita ad arrivare penultima anziché ultima sulla lavagna dove venivano annotati i «punti promozione» suoi e dei colleghi. Forse non a caso, quattro su ventidue erano piú o meno le volte in cui si guardava allo specchio e vedeva una persona carina, invece di una persona che se fosse stata un’altra sarebbe anche stata carina, ma che, siccome era lei, non lo era. Aveva decisamente ereditato alcuni dei difetti fisici di sua madre, ma almeno poteva addurre a conferma la sua esperienza con i ragazzi. Molti erano attratti da lei, ma alla fine erano pochi quelli che non pensavano di aver commesso un errore. Igor cercava di risolvere quel mistero ormai da due anni. La osservava in continuazione, proprio come lei si osservava allo specchio: «Ieri sembrava bella, eppure…»

    Da qualche parte, al college, Pip aveva raccattato l’idea – la sua mente era come un palloncino carico di elettricità statica, che attirava qualunque idea gli fluttuasse accanto – che il massimo della civilizzazione fosse trascorrere la domenica mattina in un caffè a leggere una copia cartacea dell’edizione domenicale del «New York Times». Era diventato il suo rito settimanale, e in effetti, quale che fosse l’origine dell’idea, la domenica mattina era il momento in cui si sentiva piú civilizzata. Non importava se era rimasta fuori a bere fino a tardi: alle otto comprava il «NYT», andava da Peet’s Coffee, ordinava uno scone e un cappuccino doppio, occupava il suo tavolo preferito nell’angolo e si dimenticava felicemente di se stessa per qualche ora.

    L’inverno precedente, da Peet’s, aveva notato un bel ragazzo magrolino che aveva il suo stesso rito domenicale. Nel giro di qualche settimana, invece di leggere le notizie, aveva cominciato a domandarsi che impressione gli facesse mentre leggeva, e se fosse il caso di alzare lo sguardo e sorprenderlo a osservarla, finché non si era resa conto che doveva trovare un nuovo caffè oppure rivolgergli la parola. Quando aveva incrociato di nuovo il suo sguardo aveva azzardato un cenno d’invito, cosí stridente e affettato che la sua immediata efficacia l’aveva sconcertata. Il ragazzo era andato dritto da lei con una proposta audace: visto che erano lí contemporaneamente tutte le settimane, potevano condividere lo stesso giornale e salvare un albero.

    – E se entrambi volessimo leggere la stessa sezione? – disse Pip, con una certa ostilità.

    – Tu eri qui prima di me, – rispose il ragazzo, – perciò avresti la precedenza –. Poi era passato a lamentarsi del fatto che i suoi genitori, residenti a College Station, in Texas, avevano la dispendiosa abitudine di comprare due copie del «NYT» della domenica per evitare di disputarsi le sezioni.

    Pip, come un cane che conosce esclusivamente il proprio nome e cinque semplici parole del linguaggio umano, sentí solo che il ragazzo veniva da una normale famiglia con due genitori e soldi da sprecare. – Ma questo è l’unico momento della settimana che dedico interamente a me stessa, – disse.

    – Scusa, – rispose il ragazzo, indietreggiando. – Mi era sembrato che volessi dirmi qualcosa.

    Pip non riusciva a non essere ostile con i ragazzi della sua età che si interessavano a lei. In parte perché l’unica persona al mondo di cui si fidava era sua madre. Dalle esperienze delle superiori e del college aveva già imparato che piú il ragazzo era gentile, e piú entrambi avrebbero sofferto quando si fosse reso conto che Pip era molto piú incasinata di quanto la sua gentilezza gli aveva fatto credere. Però non aveva ancora imparato a non desiderare che qualcuno fosse gentile con lei. I ragazzi meno gentili erano particolarmente abili a percepire quel desiderio e ad approfittarsene. Di conseguenza non poteva fidarsi né di quelli gentili né di quelli meno gentili, e per giunta non era molto brava a distinguere gli uni dagli altri finché non ci si trovava a letto.

    – Magari possiamo prendere un caffè un altro giorno, – disse al ragazzo. – Che non sia la domenica mattina.

    – Certo, – rispose lui, dubbioso.

    – Perché adesso che abbiamo parlato non serve che continuiamo a guardarci. Possiamo leggere ciascuno il proprio giornale, come i tuoi genitori.

    – A proposito, mi chiamo Jason.

    – E io Pip. E adesso che ci siamo presentati, non serve davvero piú che continuiamo a guardarci. Io potrò pensare, oh, è solo Jason, e tu potrai pensare, oh, è solo Pip.

    Lui aveva riso. Saltò fuori che si era laureato in matematica a Stanford e stava vivendo il sogno di ogni studente di matematica: lavorava per una fondazione che promuoveva la conoscenza dell’aritmetica sul territorio nazionale, e nel frattempo cercava di scrivere un manuale che sperava rivoluzionasse l’insegnamento della statistica. Pip uscí due volte con lui, e si trovò tanto bene da pensare che fosse meglio portarselo a letto prima che uno dei due soffrisse. Se avesse aspettato troppo, Jason avrebbe scoperto che lei era un guazzabuglio di debiti e obblighi e sarebbe scappato a gambe levate. Oppure sarebbe stata costretta a dirgli che i suoi sentimenti piú profondi erano riservati a un uomo maturo, che non solo non credeva nel denaro – nel senso della valuta statunitense e del suo possesso – ma aveva anche una moglie.

    Cosí, per non essere del tutto reticente, raccontò a Jason del suo «lavoro» extra come volontaria per il disarmo nucleare, un argomento sul quale lui, benché non facesse quel «lavoro», sembrava molto piú ferrato di lei, tanto che Pip diventò leggermente ostile. Per fortuna Jason era un gran chiacchierone, un entusiasta di Philip K. Dick, di Breaking Bad, delle lontre marine e dei puma, della matematica applicata alla vita quotidiana e soprattutto del suo metodo geometrico di statistica pedagogica, che sapeva spiegare talmente bene da renderlo quasi comprensibile a Pip. La terza volta che si videro, in un ristorantino asiatico dove le era toccato fingere di non avere fame perché lo stipendio di quel mese non le era ancora stato accreditato, Pip si trovò a un bivio: rischiare l’amicizia oppure rifugiarsi nella sicurezza del sesso occasionale.

    Fuori dal ristorante, circondata dalla nebbiolina e dal silenzio della domenica sera in Telegraph Avenue, Pip si fece avanti e Jason rispose con fervore. Mentre gli si stringeva contro avvertí i gorgoglii del proprio stomaco; sperò che lui non li sentisse.

    – Vuoi che andiamo a casa tua? – gli mormorò all’orecchio.

    Jason disse di no, purtroppo c’era sua sorella in visita.

    Alla parola sorella, il cuore di Pip si strinse per l’ostilità. Non avendo fratelli né sorelle propri, mal sopportava le esigenze e la potenziale solidarietà di quelli altrui; la loro normalità di famiglia nucleare, il loro patrimonio ereditario di intimità.

    – Possiamo andare a casa mia, – disse, un po’ contrariata. Ed era cosí intenta a pensare male della sorella che l’aveva soppiantata nella camera da letto di Jason (e per estensione anche nel suo cuore, benché Pip non morisse dalla voglia di entrarci), cosí irritata da quella situazione mentre camminava mano nella mano con lui lungo Telegraph Avenue, che solo quando si trovò davanti alla porta si ricordò che non potevano andare a casa sua.

    – Oh, – disse. – Oh. Puoi aspettare un secondo fuori mentre sistemo una faccenda?

    – Um, certo, – rispose Jason.

    Gli diede un bacio riconoscente, seguito da dieci minuti di strusciate e pomiciate davanti alla porta, e mentre sprofondava nel piacere di farsi toccare da un ragazzo pulito ed estremamente abile, un sonoro brontolio di stomaco intervenne a distoglierla.

    – Un secondo, okay? – disse.

    – Hai fame?

    – No! Anzi, forse all’improvviso sí, un pochino. Ma al ristorante non l’avevo.

    Infilò la chiave nella serratura ed entrò. Il coinquilino schizofrenico, Dreyfuss, stava guardando una partita di pallacanestro in soggiorno insieme al coinquilino disabile, Ramón, su un televisore recuperato tra i rifiuti e dotato di un convertitore analogico-digitale che un terzo coinquilino, Stephen, quello di cui Pip era piú o meno innamorata, aveva ottenuto con un baratto concluso in strada. Il corpo di Dreyfuss, gonfio per i farmaci che fino a quel momento aveva preso diligentemente, riempiva una poltrona bassa recuperata tra i rifiuti.

    – Pip, Pip, – gridò Ramón, – Pip, cosa fai adesso, hai detto che mi aiutavi con il voccabilario, vuoi aiutarmi adesso?

    Pip si portò un dito alle labbra, e Ramón si tappò la bocca con le mani.

    – Eh, già, – disse piano Dreyfuss. – Non vuole far sapere a nessuno che è qui. E perché mai? Non sarà perché in cucina ci sono le spie tedesche? Uso la parola spie in senso lato, naturalmente, anche se forse non del tutto improprio, visto che il gruppo di studio sul disarmo nucleare di Oakland conta circa trentacinque membri, dei quali Pip e Stephen non sono certo i piú essenziali, eppure la casa che i tedeschi hanno scelto di onorare con coscienziosità e invadenza fin troppo germaniche, da quasi una settimana ormai, è la nostra. Un fatto curioso, degno di considerazione.

    – Dreyfuss, – sibilò Pip, avvicinandoglisi per non dover alzare la voce.

    Dreyfuss intrecciò placidamente le dita grasse sopra la pancia e continuò a parlare con Ramón, che non si stancava mai di ascoltarlo. – Può essere che Pip voglia evitare di parlare con le spie tedesche? Forse soprattutto stasera? Visto che ha portato a casa un giovanotto con il quale è rimasta a osculare sulla veranda per circa un quarto d’ora?

    – Sei tu la spia, – sussurrò Pip, furiosa. – Detesto quando mi spii.

    – Lei detesta quando osservo cose che nessuna persona intelligente potrebbe fare a meno di notare, – spiegò Dreyfuss a Ramón. – Osservare ciò che è sotto gli occhi di tutti non è spiare, Ramón. E forse è quello che stanno facendo anche i tedeschi. Ciò che caratterizza una spia, però, è il movente, e qui, Pip… – Si girò verso di lei. – Qui ti consiglierei di chiederti cosa ci fanno in casa nostra quegli invadenti e coscienziosi tedeschi.

    – Non hai smesso di prendere le medicine, vero? – sussurrò Pip.

    – Osculare, Ramón. Ecco una bella parola per te.

    – Chevvuol dire?

    – Diamine, vuol dire pomiciare. Avvinghiare le labbra. Cogliere i baci alla radice.

    – Pip, mi aiuti con il voccabilario?

    – Credo che stasera abbia altri programmi, amico mio.

    – Tesoro, no, non adesso, – sussurrò Pip a Ramón, e poi aggiunse, rivolta a Dreyfuss: – I tedeschi sono qui perché li abbiamo invitati, perché avevamo spazio. Però hai ragione, non dovete dirgli che sono tornata.

    – Cosa ne pensi, Ramón? – disse Dreyfuss. – L’aiutiamo? Lei non intende aiutarti con il vocabolario.

    – Oh, Cristo santo. Aiutalo tu. Sei tu che hai un vocabolario enorme.

    Dreyfuss si girò di nuovo verso Pip, fissandola con uno sguardo tutto intelletto e niente sentimento. Era come se i farmaci riuscissero a controllare il suo disturbo tanto da impedirgli di massacrare la gente per strada con uno spadone, ma non tanto da cancellargli quel pensiero dagli occhi. Stephen le aveva assicurato che guardava tutti nello stesso modo, ma Pip continuava a pensare che, se un giorno Dreyfuss avesse smesso di prendere le medicine, sarebbe stata lei quella che avrebbe rincorso con lo spadone o chissà che altro, quella che avrebbe incolpato dei problemi del mondo, del complotto contro di lui; e per giunta era convinta che non fosse del tutto fuori strada a proposito della sua falsità.

    – Questi tedeschi e il loro spionaggio mi disgustano, – disse Dreyfuss. – Il loro primo pensiero quando entrano in una casa è come fare a impadronirsene.

    – Sono attivisti per la pace, Dreyfuss. Hanno smesso di voler conquistare il mondo tipo settant’anni fa.

    – Voglio che tu e Stephen li mandiate via.

    – Okay! Lo faremo! Piú tardi. Domani.

    – I tedeschi non ci piacciono, vero Ramón?

    – Ci piace quando siamo solo noi cinque, tipo famiiia, – disse Ramón.

    – Be’… non come una famiglia. Non proprio. No. Ciascuno di noi ha la propria famiglia, vero Pip?

    Dreyfuss la guardò di nuovo negli occhi, uno sguardo eloquente, astuto, senza alcun calore umano: o forse era semplicemente privo di desiderio? Forse, se non fosse stato per il sesso, ogni uomo l’avrebbe guardata con la stessa insensibilità? Si avvicinò a Ramón e gli appoggiò le mani sulle spalle grasse e cadenti. – Ramón, tesoro, stasera ho da fare, – gli disse. – Ma domani sarò a casa tutta la sera. Okay?

    – Okay, – rispose Ramón, fidandosi totalmente di lei.

    Pip tornò di corsa all’ingresso per far entrare Jason, che si stava soffiando nelle mani a coppa. Mentre passavano per il soggiorno, Ramón si tappò di nuovo la bocca con le mani, mimando il suo impegno al silenzio, mentre Dreyfuss guardava imperturbabile la pallacanestro. In quella casa erano tantissime le cose che Jason poteva vedere e pochissime quelle che Pip voleva che vedesse, e Dreyfuss e Ramón avevano entrambi un odore, Dreyfuss di lievito, Ramón di urina, a cui gli ospiti, a differenza di Pip, non erano abituati. Salí le scale rapidamente, in punta di piedi, sperando che Jason capisse che doveva sbrigarsi e non fare rumore. Da dietro una porta chiusa al primo piano le giunsero le cadenze familiari di Stephen e sua moglie che si criticavano a vicenda.

    Nella sua cameretta al secondo piano guidò Jason verso il materasso senza accendere la luce, perché non voleva che vedesse quanto era povera. Era spaventosamente povera, però aveva le lenzuola pulite; era ricca di pulizia. Quando aveva traslocato in quella stanza, un anno prima, aveva strofinato ogni centimetro di pavimento e davanzale con un detersivo disinfettante spray, e quando i topi erano venuti a trovarla aveva imparato da Stephen che per tenerli lontani occorreva chiudere ogni possibile punto di accesso con lana d’acciaio, e poi aveva di nuovo pulito il pavimento. Ma quando, dopo aver sfilato la maglietta dalle spalle ossute di Jason ed essersi lasciata svestire e coinvolgere in diversi piacevoli preliminari, si ricordò che i preservativi erano nel beauty case che prima di uscire aveva lasciato nel bagno al pianterreno perché i tedeschi avevano occupato quello che usava di solito, la sua pulizia diventò un altro svantaggio. Diede un bacetto all’erezione nettamente circoncisa di Jason, mormorando: «Scusa un secondo, torno subito», poi afferrò un accappatoio che finí di sistemarsi addosso solo a metà dell’ultima rampa di scale, quando si rese conto di non aver spiegato a Jason dove stava andando.

    – Cazzo, – disse, fermandosi sulle scale. Non c’era niente in Jason che facesse pensare a una promiscuità sfrenata, e lei possedeva una ricetta ancora valida per la pillola del giorno dopo, e in quel momento le sembrava che il sesso fosse l’unica cosa della sua vita che le riusciva discretamente bene; tuttavia doveva tentare di mantenersi pulita. Si sentí invadere dall’autocommiserazione, dalla convinzione che solo per lei il sesso si rivelasse pieno di impicci logistici, un pesce saporito con un mucchio di piccole spine. Dietro di lei, dietro la porta della camera matrimoniale, la moglie di Stephen stava alzando la voce sull’argomento della vanità morale.

    – Accetto il rischio della vanità morale, – la interruppe Stephen, – quando l’alternativa è sottoscrivere un piano divino che immiserisce quattro miliardi di persone.

    – Questa è l’essenza della vanità morale! – esultò la moglie.

    La voce di Stephen scatenò in Pip un desiderio piú profondo di quello che provava per Jason, facendole rapidamente concludere che nel suo caso non si trattava di vanità morale, quanto piuttosto di scarsa autostima morale, visto che l’uomo che voleva davvero non era quello che era decisa a scoparsi in quel momento. Scese al pianterreno in punta di piedi, superando il materiale da costruzione recuperato tra i rifiuti e ammassato in corridoio. In cucina la tedesca, Annagret, stava parlando in tedesco. Pip schizzò in bagno, si cacciò nella tasca dell’accappatoio un blister da tre preservativi, sbirciò fuori dalla porta e subito ritirò la testa. Annagret era ferma sulla soglia della cucina.

    Annagret era una bellezza dagli occhi scuri e dalla voce gradevole, che contraddiceva i pregiudizi di Pip sulla bruttezza del tedesco e sugli occhi azzurri di chi lo parlava. Lei e il suo ragazzo, Martin, erano in vacanza negli slum americani, in teoria per promuovere la loro organizzazione internazionale per i diritti degli squatter e creare legami con il movimento antinucleare americano, ma soprattutto, a quanto pareva, per fotografarsi a vicenda nei ghetti davanti a ottimistici murales. Il martedí precedente, durante una cena comunitaria alla quale Pip era stata costretta a partecipare perché era di turno ai fornelli, la moglie di Stephen aveva attaccato briga con Annagret sulla questione del programma nucleare di Israele. La moglie di Stephen era una di quelle donne che facevano pesare alle altre la loro bellezza (il fatto che non facesse pesare niente a Pip, e che con lei cercasse invece di essere materna, confermava l’opinione non grandiosa di Pip sul proprio aspetto), e la naturale avvenenza di Annagret, piú accentuata che rovinata dal barbaro taglio di capelli e dai numerosi piercing alle sopracciglia, la irritava a tal punto che aveva cominciato a dire cose palesemente false su Israele. Visto che quello era l’unico argomento legato al disarmo che Pip conosceva bene, perché ne aveva appena parlato in una relazione per il gruppo di studio, e visto che era anche gelosissima della moglie di Stephen, si era lanciata in un eloquente compendio di cinque minuti sulle prove della capacità nucleare di Israele.

    Annagret era rimasta assurdamente affascinata. Dichiarandosi «supercolpita» da Pip, l’aveva allontanata dagli altri per condurla in soggiorno, dove si erano sedute sul divano per una lunga chiacchierata fra donne. C’era qualcosa di irresistibile in quelle attenzioni, e quando Annagret aveva cominciato a parlare del famoso fuorilegge del web Andreas Wolf, che lei conosceva di persona, e a dire che Pip era proprio il tipo di giovane di cui il Sunlight Project di Wolf aveva bisogno, e a insistere perché Pip lasciasse quel terribile lavoro sottopagato e facesse domanda per uno degli stage retribuiti offerti dal Sunlight Project, e a sostenere che molto probabilmente per ottenere uno di quegli stage le sarebbe bastato rispondere a un «questionario» formale che lei stessa poteva sottoporle prima di partire, Pip si era sentita cosí lusingata – cosí desiderata – che aveva promesso di rispondere al questionario. A quel punto stava bevendo vino scadente da quattro ore.

    Il mattino dopo, da sobria, si era pentita della promessa. Andreas Wolf, colpito da svariati mandati di cattura europei e americani per reati informatici e spionaggio, gestiva il suo Progetto dal Sudamerica, e ovviamente era escluso che Pip abbandonasse sua madre per trasferirsi in Sudamerica. Inoltre, benché alcuni dei suoi amici considerassero Wolf un eroe e lei fosse moderatamente affascinata dall’idea che la segretezza era oppressione e la trasparenza libertà, Pip non era una persona politicamente impegnata; piú che altro andava dietro a Stephen, cimentandosi nella politica con la stessa incostanza con cui si cimentava nell’esercizio fisico. Inoltre, il Sunlight Project e il fervore con cui Annagret ne aveva parlato le ricordavano un po’ una setta. E poi, come sarebbe senz’altro emerso dal questionario, Pip non era affatto intelligente e informata come i suoi cinque minuti di discorso su Israele l’avevano fatta sembrare. Cosí aveva evitato i tedeschi fino a quella mattina, quando, mentre usciva per andare a leggere il «NYT» della domenica insieme a Jason, aveva trovato un biglietto di Annagret, scritto in un tono cosí ferito da indurla a lasciarle a sua volta un biglietto davanti alla porta, in cui le prometteva che quella sera avrebbe parlato con lei.

    E adesso, con lo stomaco che continuava a segnalare il vuoto, aspettava che un’alterazione nel flusso delle parole in tedesco indicasse che Annagret non era piú sulla soglia della cucina. Due volte, come un cane che sorprende una conversazione tra umani, le sembrò di sentire il proprio nome. Se fosse riuscita a connettere sarebbe entrata risolutamente in cucina, avrebbe annunciato che aveva compagnia e non poteva fare il questionario, e sarebbe tornata di sopra. Ma aveva una fame terribile, e il sesso stava diventando un’idea sempre piú astratta.

    Finalmente sentí dei passi, una sedia che sfregava sul pavimento della cucina. Si precipitò fuori dal bagno, ma l’orlo dell’accappatoio si impigliò in qualcosa. In un chiodo che spuntava da un pezzo di legno recuperato tra i rifiuti. Mentre si scansava saltellando dal mucchio di legna che le franava addosso, sentí la voce di Annagret nel corridoio alle sue spalle.

    – Pip? Pip, ti cercavo per tre giorni!

    Pip, girandosi, la vide venire avanti.

    – Ciao, sí, scusa, – disse, riammucchiando in fretta la legna. – Ora non posso. Ho… Ti va bene domani?

    – No, – rispose Annagret, sorridendo, – vieni ora. Vieni, vieni, come hai promesso.

    – Um –. La sua mente non riusciva a stabilire le priorità. In cucina, dove c’erano i tedeschi, c’erano anche i cornflakes e il latte. Sarebbe stato cosí terribile se avesse mandato giú qualcosa prima di tornare da Jason? Non sarebbe forse stata piú efficace, piú reattiva ed energica, se prima avesse mangiato un po’ di cornflakes? – Aspetta, devo correre di sopra un secondo, – disse. – Un secondo, okay? Torno subito, promesso.
    – No, vieni, vieni. Vieni ora. Ci vogliono solo pochi minuti, dieci minuti. Vedrai, è divertente, è solo una formalità che dobbiamo seguire. Vieni. Ti aspettavamo per tutta la sera. Tu vieni a farlo ora, ja?
    Mentre la bella Annagret le faceva cenno di seguirla, Pip capí cosa intendeva Dreyfuss parlando dei tedeschi; eppure ricevere ordini le dava sollievo. E poi ormai era rimasta da basso cosí a lungo che sarebbe stato sgradevole salire a implorare Jason di portare ancora pazienza, e la sua vita era già cosí piena di sgradevolezze che la strategia migliore era quella di ritardare il piú possibile il momento di incontrarle, anche quando il ritardo aumentava le probabilità che al momento dell’incontro fossero ancora piú sgradevoli.
piú sgradevoli.

    – Cara Pip, – disse Annagret accarezzandole i capelli, quando Pip si sedette al tavolo della cucina davanti a una grande ciotola di cornflakes, non proprio dell’umore adatto a farsi toccare i capelli. – Grazie di fare questo per me.

    – Basta che ci sbrighiamo, okay?

    – Sí, vedrai. È solo una formalità che dobbiamo seguire. Mi ricordi tanto me stessa alla tua età, quando avevo bisogno di uno scopo nella vita.

    A Pip non piacque quella frase. – Okay, – rispose. – Scusa la domanda, ma il Sunlight Project è una specie di culto?

    – Culto? – Martin, seduto a capotavola, tutto barba lunga e kefiah palestinese al collo, scoppiò a ridere. – Culto della personalità, magari.

    – Ist doch Quatsch, du, – ribatté Annagret con un certo fervore. – Also wirklich.

    – Come, scusa? – chiese Pip.

    – Ho detto che sono tutte cazzate, quello che lui dice. Il Progetto è il contrario di un culto. Si basa su onestà, verità, trasparenza, libertà. I governi con il culto della personalità sono quelli che lo odiano.

    – Ma il Progetto ha un leader molto carits-metico, – ribatté Martin.

    – Carismatico? – disse Pip.

    – Carismatico. L’ho pronunciato come aritsmetico. Andreas Wolf è molto carismatico –. Martin rise di nuovo. – Quasi da manuale: come usare la parola carismatico in una frase. «Andreas Wolf è molto carismatico». La frase è chiarissima, il significato si capisce subito. Lui è la definizione stessa della parola.

    Martin stava provocando Annagret, la quale sembrava infastidita; e Pip capí, o credette di capire, che in passato Annagret era andata a letto con Andreas Wolf. Aveva almeno dieci anni piú di Pip, forse quindici. Da una cartelletta di plastica semitrasparente, un articolo da ufficio di aspetto europeo, prese alcuni fogli leggermente piú lunghi e stretti di quelli americani.

    – Allora sei una specie di selezionatrice? – chiese Pip. – Vai in giro con il questionario?

    – Sí, ho l’autorità, – rispose Annagret. – Anzi, non autorità, noi rifiutiamo l’autorità. Sono una delle persone che fanno questo per il gruppo.

    – È per questo che sei venuta negli Stati Uniti? Per reclutare personale?

    – Annagret è un’esperta di multitasking, – disse Martin, con un sorriso ammirato e al contempo provocatorio.

    Annagret gli disse di lasciarle sole, e Martin si diresse verso il soggiorno, ancora serenamente ignaro, a quanto pareva, del fatto che Dreyfuss non lo voleva tra i piedi. Pip colse l’occasione per versarsi un’altra ciotola di cereali; almeno il problema del sostentamento era risolto.

    – Io e Martin abbiamo una buona relazione, a parte la sua gelosia, – spiegò Annagret.

    – Di cosa è geloso? – chiese Pip, mentre mangiava. – Di Andreas Wolf?

    Annagret scosse la testa. – Io e Andreas siamo stati intimi per molto tempo, ma è stato alcuni anni prima che conoscessi Martin.

    – Dovevi essere molto giovane.

    – Martin è geloso delle mie amiche. Niente minaccia piú un uomo tedesco, anche un uomo bravo, di due donne che sono amiche alle sue spalle. Per lui è un grande turbamento, come un errore nell’ordine del mondo. Crede che possiamo scoprire tutti i suoi segreti e rubargli il potere, o non avere piú bisogno di lui. Anche tu hai questo problema?

    – Io tendo a essere la parte gelosa della coppia, temo.

    – Be’, è per questo che Martin è geloso di internet, perché è cosí che comunico con le amiche. Ho tante amiche che non conosco di persona, vere amiche. E-mail, social media, forum. So che ogni tanto Martin guarda roba pornografica, tra noi non ci sono segreti, e se non la guardasse sarebbe probabilmente l’unico in Germania; secondo me la pornografia online era studiata per gli uomini tedeschi, perché amano stare soli e controllare tutto e hanno fantasie di potere. Ma lui dice che la guarda solo perché io ho tante amiche su internet.

    – Questa naturalmente potrebbe essere pornografia da donne, – disse Pip.

    – No. Lo pensi solo perché sei giovane e magari non hai tanto bisogno di amicizia.

    – E allora non ti viene mai in mente di andare con le ragazze?

    – In Germania le cose vanno molto male fra uomini e donne, – fu la risposta di Annagret, che in qualche modo equivaleva a un no.

    – Stavo solo cercando di dire che internet è perfetto per soddisfare bisogni a distanza. Maschili e femminili.

    – Ma il bisogno di amicizia delle donne viene davvero soddisfatto da internet, non è una fantasia. E siccome Andreas capisce il potere di internet, la sua importanza per le donne, Martin è geloso anche di lui: per questo, non perché in passato eravamo intimi.

    – D’accordo. Ma se Andreas è un leader carismatico, allora è un uomo di potere, perciò dal tuo punto di vista dovrebbe essere uguale a tutti gli altri uomini.

    Annagret scosse la testa. – La cosa fantastica di Andreas è che riconosce che internet è il piú grande strumento di verità. E cosa ci dice? Che tutto nella società ruota intorno alle donne, non agli uomini. Tutti gli uomini guardano foto di donne, e tutte le donne comunicano con altre donne.

    – Mi sembra che dimentichi il porno gay e i video di animali, – disse Pip. – Ma magari adesso possiamo fare il questionario? C’è tipo un ragazzo di sopra che mi aspetta, ed è per questo che ho addosso solo un accappatoio senza niente sotto, casomai te lo stessi chiedendo.

    – Adesso? Di sopra? – Annagret era allarmata.

    – Credevo che fosse un questionario veloce.

    – Non può tornare un’altra sera?

    – Vorrei proprio evitarlo, se possibile.

    – Allora vai a dirgli che ti servono solo pochi minuti, dieci minuti, con un’amica. Cosí per una volta non devi essere tu la parte gelosa.

    A quel punto Annagret le fece l’occhiolino, cosa che a Pip sembrò una vera prodezza, visto che a lei l’occhiolino, in quanto opposto del sarcasmo, non veniva bene.

    – Ti conviene prendermi finché ci sono, – le disse.

    Annagret le assicurò che non c’erano risposte giuste o sbagliate, e questo secondo Pip non poteva essere vero, perché se non c’erano risposte sbagliate a cosa serviva il questionario? Ma la bellezza di Annagret era rassicurante. Seduta al tavolo di fronte a lei, Pip aveva la sensazione di sostenere un colloquio per diventare Annagret.

    – Quale di questi superpoteri preferiresti avere? – lesse Annagret. – Volare, essere invisibile, leggere nel pensiero o fermare il tempo per tutti tranne che per te?

    – Leggere nel pensiero, – rispose Pip.

    – Questa è una buona risposta, anche se non ci sono risposte giuste.

    Il sorriso di Annagret era caldo e avvolgente. Pip rimpiangeva ancora il college, dove era brava nei test.

    – Per favore, giustifica la tua scelta, – lesse Annagret.

    – Perché non mi fido della gente, – disse Pip. – Persino mia madre, di cui mi fido, non mi dice delle cose, cose molto importanti, e sarebbe bello avere un modo per scoprirle senza che lei debba rivelarmele. Cosí saprei quello che voglio sapere, ma lei potrebbe stare tranquilla. E poi, con tutti gli altri, letteralmente tutti, non so mai cosa pensano di me, e non sono molto brava a indovinarlo. Perciò sarebbe bello potermi tuffare nella loro testa, tipo per un paio di secondi, e controllare che sia tutto a posto, tanto per essere sicura che non stiano pensando malissimo di me a mia insaputa, e poi potrei fidarmi di loro. Non me ne approfitterei o roba del genere. Solo che è dura non fidarsi mai degli altri. Devo sempre sforzarmi di capire cosa vogliono da me. Alla lunga è molto faticoso.

    – Oh, Pip, è quasi inutile continuare. Quello che stai dicendo è fantastico.

    – Davvero? – rispose Pip, con un sorriso triste. – Vedi, però anche adesso mi sto chiedendo perché lo dici. Forse vuoi solo che continui a fare il questionario. Se è per questo, mi sto anche chiedendo perché ci tieni tanto che lo faccia.

    – Di me ti puoi fidare. È solo perché ti trovo speciale.

    – Vedi, ma neanche questo ha senso, perché io non ho proprio niente di speciale. Ne so ben poco di armi nucleari, sapevo di Israele solo per caso. Non mi fido di te proprio per niente. Non mi fido di te. Non mi fido della gente –. Si sentiva la faccia in fiamme. – Ora bisogna davvero che torni di sopra. Mi dispiace lasciare solo il mio amico.

    Annagret avrebbe dovuto cogliere il segnale e lasciarla andare, o almeno scusarsi per averla trattenuta, ma a quanto pareva Annagret (forse era una caratteristica tedesca?) non era molto brava a cogliere i segnali. – Dobbiamo seguire la formalità, – disse. – È solo una formalità, ma dobbiamo seguirla –. Le diede un buffetto e una carezza sulla mano. – Faremo in fretta.

    Pip si chiedeva perché Annagret continuasse a toccarla.

    – I tuoi amici stanno scomparendo. Non rispondono al telefono, agli sms e ai messaggi su Facebook. Parli con i loro capi, che dicono di non averli visti al lavoro. Parli con i loro genitori, che si dicono molto preoccupati. Vai alla polizia, e lí ti dicono che stanno indagando, e che i tuoi amici stanno bene ma ora abitano in altre città. Dopo un po’, tutti i tuoi amici sono spariti. Allora cosa fai? Aspetti di sparire a tua volta, cosí potrai scoprire cosa è successo ai tuoi amici? Cerchi di indagare? Scappi?

    – Spariscono solo i miei amici? – chiese Pip. – Le strade sono ancora piene di persone della mia età che non sono miei amici?

    – Sí.

    – Sinceramente, credo che se mi succedesse una cosa del genere andrei dallo psichiatra.

    – Ma la psichiatra va alla polizia e scopre che è tutto vero.

    – Be’, almeno avrei un’amica: la psichiatra.

    – Ma poi scompare anche lei.

    – Questo è uno scenario assolutamente paranoico. Sembra uscito dalla testa di Dreyfuss.

    – Aspetti, indaghi o scappi?

    – Oppure mi uccido. Va bene se mi uccido?

    – Non ci sono risposte sbagliate.

    – Probabilmente andrei a vivere con mia madre. Non la perderei di vista un istante. E se scomparisse comunque, probabilmente mi ucciderei, perché a quel punto sarebbe ovvio che conoscermi non fa bene alla salute.

    Annagret sorrise di nuovo. – Eccellente.

    – Cosa?

    – Stai andando benissimo, Pip –. Si sporse in avanti e le posò le mani caldissime sulle guance.

    – Dire che mi ucciderei è la risposta giusta?

    Annagret allontanò le mani. – Non ci sono risposte sbagliate.

    – Cosí faccio un po’ fatica a essere contenta di andare bene.

    – Quale delle seguenti cose hai fatto senza il permesso del proprietario: entrare in un account e-mail, leggere messaggi su uno smartphone, rovistare tra i file di un computer, leggere un diario, esaminare documenti privati, ascoltare una conversazione privata quando qualcuno ti chiama per sbaglio al telefono, ottenere informazioni su una persona con l’inganno, appoggiare l’orecchio a una parete o una porta per ascoltare una conversazione, e cosí via.

    Pip si accigliò. – Posso saltare una domanda?

    – Puoi fidarti di me –. Annagret le toccò di nuovo la mano. – È meglio se rispondi.

    Pip, dopo un momento di esitazione, confessò: – Ho letto ogni foglio di carta che appartiene a mia madre. Se avesse un diario lo avrei letto, ma non ce l’ha. Se avesse un account e-mail ci sarei entrata. Ho frugato in tutti i database online che sono riuscita a trovare. Non sono contenta di averlo fatto, ma lei non vuole rivelarmi chi è mio padre, non vuole rivelarmi dove sono nata, non vuole neppure rivelarmi il suo vero nome. Dice che lo fa per proteggermi, ma io credo che il pericolo sia solo nella sua testa.

    – Queste sono cose che devi sapere, – disse Annagret in tono grave.

    – Sí.

    – Hai il diritto di saperle.

    – Sí.

    – Capisci che il Sunlight Project potrebbe aiutarti a scoprirle?

    Il cuore di Pip accelerò i battiti, in parte perché effettivamente non ci aveva pensato, e quella possibilità le faceva paura, ma soprattutto perché sentiva che stava partendo una vera seduzione, di cui le carezze di Annagret erano state solo il preludio. Ritirò la mano e si strinse le braccia intorno al corpo, nervosa.

    – Credevo che il Progetto si occupasse di segreti aziendali e nazionali.

    – Sí, certo. Ma il Progetto ha molte risorse.

    – Allora potrei, tipo, scrivere al Progetto per chiedere le informazioni che cerco?

    Annagret scosse la testa. – Non è un’agenzia d’investigazioni private.

    – Però, se andassi laggiú per uno stage…

    – Sí, certo.

    – Be’, interessante.

    – Qualcosa su cui riflettere, ja?

    – Ja-ha, – rispose Pip.

    – Stai viaggiando in un paese straniero, – lesse Annagret, – e una notte la polizia viene nella tua camera d’albergo e ti arresta per spionaggio, anche se non sei una spia. Ti portano al commissariato. Ti dicono che puoi fare una telefonata che loro ascolteranno. Ti avvertono che chiunque chiamerai sarà automaticamente sospettato di spionaggio. Chi chiami?

    – Stephen, – rispose Pip.

    Sulla faccia di Annagret comparve un’ombra di delusione. – Questo Stephen? Questo qui?

    – Sí, cosa c’è di male?

    – Perdonami, ma credevo che avresti detto tua madre. Finora l’hai nominata in tutte le tue risposte. È l’unica persona di cui ti fidi.

    – Ma quella è fiducia in senso profondo, – disse Pip. – Mia madre impazzirebbe dalla preoccupazione, e poi non ha idea di come funziona il mondo e non saprebbe a chi rivolgersi per aiutarmi. Stephen lo saprebbe senz’altro.

    – Io lo trovo un po’ debole.

    – Cosa?

    – Lo trovo debole. È sposato con quella persona rabbiosa, dominatrice.

    – Sí, lo so, è un matrimonio sfortunato… credimi, lo so.

    – Provi qualcosa per lui! – disse Annagret, costernata.

    – Sí, e allora?

    – Be’, non me l’hai detto. Noi ci dicevamo tutto, sul divano, e non mi hai detto questo.

    – Tu non mi hai detto che andavi a letto con Andreas Wolf!

    – Andreas è un personaggio pubblico. Devo stare attenta. Ed è stato molti anni fa.

    – Da come parli di lui, sembra che ci torneresti in un batter d’occhio.

    – Pip, ti prego, – disse Annagret, afferrandole le mani. – Non litighiamo. Non sapevo che provassi qualcosa per Stephen. Scusami.

    Ma la ferita inflitta dalla parola debole faceva sempre piú male, e Pip inorridiva al pensiero di quante informazioni personali aveva già regalato a una donna cosí sicura della propria bellezza da riempirsi la faccia di metallo e tranciarsi i capelli (cosí sembrava) con le forbici da giardino. Pip, che non aveva motivo di sentirsi cosí sicura, sottrasse le mani alla presa di Annagret, si alzò e sbatté la ciotola di cereali nel lavandino. – Adesso vado di sopra…

    – No, abbiamo ancora sei domande…

    – Perché è ovvio che non andrò in Sudamerica, e non mi fido per niente di te, ma proprio per niente, e allora perché tu e il tuo ragazzo masturbatore non andate a L.A. a scroccare ospitalità a qualcun altro, cosí potrai proporre il tuo questionario a qualcuno che ha una cotta per un uomo piú forte di Stephen? Non ti voglio piú in casa nostra, e non ti vogliono neppure gli altri. Se avessi un po’ di rispetto per me, avresti capito che non volevo neanche venire qui adesso.

    – Pip, per favore, aspetta, mi dispiace tanto –. Annagret sembrava sinceramente addolorata. – Non dobbiamo piú fare nessuna domanda…

    – Credevo fosse una formalità che dovevamo seguire. Dovevamo, dovevamo. Dio, come sono stupida.

    – No, sei molto intelligente. Per me sei fantastica. Forse la tua vita ruota un po’ troppo intorno agli uomini, un pochino, in questo momento.

    Pip sgranò gli occhi, sbalordita da quel nuovo insulto.

    – Forse hai bisogno di un’amica un po’ piú grande, ma che una volta era come te.

    – Tu non sei mai stata come me, – disse Pip.

    – Invece sí. Siediti, per favore, ja? Parla con me.

    La voce di Annagret era cosí suadente e autorevole, e il suo insulto aveva gettato una luce cosí umiliante sulla presenza di Jason in camera sua, che Pip per poco non le ubbidí. Ma quando era presa dalla sfiducia verso gli altri le diventava fisicamente intollerabile rimanere in loro presenza. Scappò in corridoio, sentendo lo stridio di una sedia alle sue spalle e la voce di Annagret che la chiamava.

    Si fermò sul pianerottolo del primo piano, fremente di rabbia. Stephen era un debole? Lei pensava troppo agli uomini? Ma che bello. Questo sí che mi fa sentire bene.

    Dietro la porta di Stephen, la lite coniugale era cessata. Pip si avvicinò quatta quatta, allontanandosi dal rumore della pallacanestro al piano di sotto, e si mise in ascolto. Poco dopo sentí cigolare le molle del letto, e poi un inconfondibile sospiro mugolante, e capí che Annagret aveva ragione, che Stephen era un debole, era veramente un debole; eppure non c’era niente di male in una scopata fra marito e moglie. Sentirla e immaginarla e rimanerne esclusa la riempí di una desolazione che aveva un solo modo per alleviare.

    Salí gli ultimi gradini a due per volta, come se risparmiando cinque secondi potesse compensare mezz’ora di assenza. Davanti alla porta assunse un’espressione di imbarazzato dispiacere, un’espressione che aveva usato mille volte con sua madre, sempre con ottimi risultati. Aprí la porta e infilò dentro la testa, calandosi nella parte.

    Le luci erano accese e Jason era seduto sul bordo del letto, rivestito, concentrato a scrivere un messaggio.

    – Psst, – gli fece Pip. – Sei arrabbiatissimo con me?

    Lui scosse la testa. – È solo che ho detto a mia sorella che sarei tornato a casa alle undici.

    La parola sorella cancellò quasi del tutto il dispiacere dalla faccia di Pip, ma tanto Jason non la stava guardando. Entrò nella stanza, gli si sedette accanto e lo toccò. – Non sono ancora le undici, no?

    – Sono le undici e venti.

    Gli mise la testa sulla spalla e le mani intorno al braccio. Sentí i suoi muscoli contrarsi mentre digitava. – Scusami, – gli disse. – Non posso spiegarti cos’è successo. Cioè, potrei, ma non voglio.

    – Non devi spiegarmi niente. Un po’ lo sapevo, comunque.

    – Cosa sapevi?

    – Niente. Lascia perdere.

    – No, ma cosa? Cosa sapevi?

    Lui smise di digitare e fissò il pavimento. – Non sono del tutto normale neanch’io. Ma relativamente parlando…

    – Voglio fare normalmente l’amore con te. Possiamo ancora farlo? Anche solo per mezz’ora? Puoi dire a tua sorella che arriverai un po’ tardi.

    – Ascolta. Pip –. Si accigliò. – A proposito, è il tuo vero nome?

    – È cosí che mi faccio chiamare.

    – Eppure quando lo pronuncio non mi sembra di parlare davvero con te. Non so… «Pip». «Pip». Non sembra… non so…
    Pip, l’espressione ormai priva di qualunque traccia di dispiacere, staccò le mani da lui. Sapeva di dover evitare una scenata, ma non ce la fece. Riuscí solo a tenere bassa la voce.
    – Okay, – disse. – E cosí non ti piace il mio nome. Cos’altro non ti piace di me?
    – Oh, andiamo. Sei tu che mi hai lasciato quassú per un’ora. Piú di un’ora.
    – Giusto. Mentre tua sorella ti stava aspettando.
    Ripetere la parola sorella fu come buttare un fiammifero dentro un forno pieno di gas, pieno di quella rabbia pronta a divampare che Pip si portava appresso tutti i giorni; sentí una specie di sfrigolio dentro la testa.
    – Sul serio, – disse, con il cuore che batteva all’impazzata, – già che ci sei puoi dirmi tutto quello che non ti piace di me, visto che evidentemente non scoperemo, visto che non sono abbastanza normale, anche se magari potresti aiutarmi a capire cos’ho di tanto anormale.
    – Ehi, andiamo, – disse Jason. – Avrei potuto andarmene.
    Il suo tono di superiorità infiammò una sacca di gas piú ampia e diffusa, un combustibile politico che era filtrato in lei da sua madre, da alcune docenti del college, da certi film comici grossolani e ora anche da Annagret: la coscienza dell’ingiustizia di quella che una docente aveva chiamato l’anisotropia dei rapporti tra i sessi, per cui i ragazzi potevano mascherare i loro desideri oggettivanti con il linguaggio dei sentimenti, mentre le ragazze giocavano al gioco sessuale dei ragazzi a proprio rischio e pericolo, fesse se diventavano oggetti e vittime se non lo diventavano.
    – Non mi sembrava di darti fastidio quando ti tenevo l’uccello in bocca, – disse Pip.
    – Non ce l’ho messo io, – rispose Jason. – E non c’è rimasto per molto.
    – No, perché sono dovuta andare di sotto a prendere un preservativo, in modo che potessi mettermelo dentro.
    – Wow. Allora è tutta colpa mia?
    Attraverso una cortina di fiamme, o di sangue ribollente, le cadde lo sguardo sul dispositivo portatile di Jason.
    – Ehi! – gridò lui.
    Pip saltò in piedi e corse in fondo alla stanza con il dispositivo in mano.
    – Ehi, non puoi leggere, – urlò Jason, rincorrendola.
    – Sí che posso!
    – No, non puoi, non è giusto. Ehi, ehi, fermati!
    Pip s’incuneò sotto la scrivania da bambino che costituiva il suo unico pezzo d’arredamento, girandosi verso la parete e agganciando la sua gamba a quella della scrivania. Jason cercò di tirarla fuori prendendola per la cintura dell’accappatoio, ma non ci riuscí, e sembrava restio a usare maniere piú forti. – Che razza di squilibrata sei? – disse. – Cosa stai facendo?
    Pip sfiorò lo schermo con dita tremanti.
    Vediamoci al sfmoma alle 4.
    – Cazzo, cazzo, cazzo, – diceva Jason, camminando avanti e indietro alle spalle di Pip. – Cosa stai facendo?
    Continuando a toccare lo schermo, Pip trovò lo scambio precedente.
    Coitus interruptus maximus! 62 min e continua!!
    Almeno è fica?
    Faccia carina corpo fantastico.
    Definisci fantastico. Tette?

    8+
    Vale l’attesa direi.
    Posso darti il suo num se ti piacciono strane.
    68 min!
    Si accasciò su un fianco, appoggiò a terra il dispositivo e lo spinse verso Jason. La rabbia si smorzò bruscamente come era esplosa, lasciandosi dietro un dolore livido.
    – Certi miei amici parlano cosí, – disse Jason. – Non significa niente.
    – Per favore, vattene, – gli rispose con voce flebile.
    – Ricominciamo da capo. Non possiamo, tipo, riavviare il programma? Mi dispiace tanto.
    Le mise una mano sulla spalla, ma Pip si ritrasse e lui la tolse.
    – Okay, però sentiamoci domani, okay? – le disse. – Era chiaramente la serata sbagliata per entrambi.
    – Adesso vattene, per favore.
La Renewable Solutions non produceva, non costruiva e non installava niente. Piuttosto, a seconda del tempo normativo (non clima ma tempo, perché, come il tempo atmosferico, cambiava da una stagione all’altra e a volte addirittura da un’ora all’altra), «allegava», «mediava», «catturava», «valutava», «forniva al cliente». In teoria, era tutto molto encomiabile. L’America immetteva troppo carbonio nell’atmosfera, le energie rinnovabili potevano migliorare la situazione, il governo federale e quelli statali escogitavano sempre nuovi incentivi fiscali, le imprese di pubblici servizi avevano reazioni che andavano dall’indifferenza al moderato entusiasmo all’idea di rinverdire la propria immagine, una percentuale gradevolmente non trascurabile delle famiglie e delle aziende californiane era disposta a pagare un sovrapprezzo per un’elettricità piú pulita, e quel sovrapprezzo, moltiplicato per molte migliaia e sommato al denaro che affluiva da Washington e Sacramento, una volta sottratta la parte spettante alle aziende che effettivamente producevano o installavano roba, bastava per pagare quindici stipendi alla Renewable Solutions e placare i capitalisti di ventura che la finanziavano. Anche le parole in voga nell’azienda erano buone: collettivo, comunità, cooperativo. E Pip voleva fare qualcosa di buono, se non altro per mancanza di altre aspirazioni. Da sua madre aveva imparato l’importanza di dare un significato morale alla propria vita, e al college aveva imparato a sentirsi angosciata e colpevole per gli insostenibili modelli di consumo del paese. Il suo problema alla Renewable Solutions era che non riusciva mai a capire cosa stesse vendendo, anche quando trovava qualcuno disposto a comprare, e appena cominciava a capirlo veniva mandata a vendere qualcos’altro.

    All’inizio – e quella, ripensandoci a posteriori, era stata la sua mansione piú comprensibile – aveva venduto contratti per l’acquisto di energia a piccole e medie imprese, finché una nuova legge statale non aveva abolito la scandalosa fettina di guadagno che andava in tasca alla Renewable Solutions. Poi aveva reclutato nuclei famigliari in distretti potenzialmente serviti da energie rinnovabili; ogni nucleo famigliare fruttava alla Renewable Solutions un premio, pagato da oscuri agenti terzi che avevano creato un mercato dei futures presumibilmente redditizio. Poi aveva condotto un’«indagine» fra gli abitanti di centri progressisti, per misurare il loro interesse in un aumento delle tasse o in un ritocco del bilancio municipale in vista di una conversione alle rinnovabili; quando Pip aveva fatto notare che i normali cittadini non avevano basi concrete per rispondere alle domande dell’«indagine», Igor le aveva risposto che non doveva mai, in nessun caso, ammetterlo con gli intervistati, perché le risposte positive valevano soldi non solo per le aziende che producevano roba, ma anche per gli oscuri agenti terzi e il loro mercato dei futures. Pip era sul punto di licenziarsi quando il valore delle risposte era diminuito e lei era stata spostata ai certificati verdi. C’era rimasta per sei settimane relativamente piacevoli, finché non era stato scoperto un errore nel modello di business. Adesso era da aprile che cercava distretti amministrativi della South Bay disposti a fondare microcollettivi di recupero energetico.

    I suoi colleghi del reparto promozione dovevano rifilare le stesse balle, naturalmente. Il motivo per cui ci riuscivano meglio di lei era che accettavano ogni nuovo «prodotto» senza tentare di comprenderlo. Pronunciavano il discorsetto promozionale con entusiasmo, anche se era ridicolo e/o senza senso, e poi, se un potenziale cliente aveva difficoltà a capire il «prodotto», non ammettevano esplicitamente che sí, era difficile da capire, non si sforzavano in buonafede di spiegare il complicato ragionamento che ci stava dietro, ma continuavano semplicemente a ripetere il loro discorsetto scritto. Quella evidentemente era la via del successo, e ciò per Pip rappresentava una doppia delusione, perché non solo si sentiva punita per aver usato il cervello, ma ogni mese riceveva la dimostrazione che in media i consumatori della Bay Area rispondevano meglio a un discorsetto meccanico e pressoché insensato che a una venditrice benintenzionata che cercava di aiutarli a comprendere l’offerta. Le sue doti sembravano meno sprecate solo quando le veniva permesso di lavorare sulla promozione diretta via e-mail e social media, perché, essendo cresciuta senza televisione, aveva buone competenze linguistiche.

    Quel giorno, un lunedí, Pip stava molestando telefonicamente i numerosi ultrasessantacinquenni di una zona residenziale nella contea di Santa Clara chiamata Rancho Ancho, che non usavano i social media e non avevano risposto al bombardamento e-mail dell’azienda. I microcollettivi funzionavano solo se sostenuti dalla stragrande maggioranza della comunità, e non si poteva mandare un organizzatore comunitario finché non si otteneva un tasso di risposte del cinquanta per cento; fino a quel momento, malgrado il lavoro svolto, Pip non avrebbe guadagnato nessun «punto promozione».

    Si mise le cuffie e si costrinse a guardare di nuovo l’elenco delle chiamate, maledicendo la Pip che un’ora addietro, prima di pranzo, aveva scelto i nomi da chiamare lasciando GUTTENSCHWERDER, ALOYSIUS e BUTCAVAGE, DENNIS per dopo pranzo. Pip odiava i nomi difficili, perché un errore di pronuncia scatenava l’immediata ostilità del cliente, ma schiacciò coraggiosamente il tasto Chiamata. In casa Butcavage, una voce maschile rispose con un brusco pronto.

    – Saaalve, – disse Pip, con una pronuncia strascicata e sensuale in cui aveva imparato a introdurre un tono di scusa, di mutuo disagio sociale. – Sono Pip Tyler, della Renewable Solutions, e la chiamo a proposito di una mail che le abbiamo inviato qualche settimana fa. Parlo con il signor Butcavage?

    – Bucavaj, – la corresse bruscamente l’uomo.

    – Mi scusi tanto, signor Bucavaj.

    – Di che si tratta?

    – Si tratta di risparmiare sulla sua bolletta dell’elettricità, di aiutare il pianeta, e di ottenere la sua giusta quota di agevolazioni fiscali per il risparmio energetico, – rispose Pip, anche se a dire il vero il risparmio sulla bolletta era ipotetico, l’energia di recupero era controversa dal punto di vista ambientale, e lei non avrebbe fatto quella telefonata se la Renewable Solutions e i suoi partner avessero avuto intenzione di elargire ai consumatori una grossa fetta delle agevolazioni fiscali.

    – Non mi interessa, – disse il signor Butcavage.

    – Be’, sa, – insistette Pip, – parecchi suoi vicini sono molto interessati alla formazione di un collettivo. Potrebbe chiedere un po’ in giro e sentire cosa ne pensano.

    – Non parlo con i miei vicini.

    – Be’, no, certo, non sto dicendo che deve parlarci se non vuole. Ma il motivo del loro interesse è che oggi i membri della sua comunità possono collaborare per ottenere un’energia piú pulita e piú economica, oltre ad autentiche agevolazioni fiscali.

    Uno dei precetti di Igor era che ogni telefonata in cui le parole piú pulita, piú economica e agevolazioni fiscali venivano ripetute almeno cinque volte si sarebbe conclusa con una risposta positiva.

    – Cos’è che vendete? – disse il signor Butcavage, in tono un po’ meno brusco.

    – Oh, non l’ho chiamata per venderle qualcosa, – mentí Pip. – Stiamo cercando di organizzare il sostegno delle comunità per una cosa chiamata energia di recupero. È un modo piú pulito, piú economico e fiscalmente vantaggioso per risolvere due dei maggiori problemi della sua comunità. Sto parlando dell’alto costo dell’energia e dello smaltimento dei rifiuti solidi. Possiamo aiutarla a bruciare la sua spazzatura ad alte temperature e immettere l’elettricità direttamente nella rete, con un risparmio potenzialmente significativo per lei e con un autentico beneficio per il pianeta. Posso spiegarle meglio come funziona?

    – Dove vuole andare a parare? – disse il signor Butcavage.

    – Come, scusi?

    – Qualcuno la paga per telefonarmi mentre tento di fare un pisolino. Cosa ci ricavano?

    – Be’, in pratica siamo dei facilitatori. Probabilmente lei e i suoi vicini non avete il tempo o le competenze per organizzare da soli un microcollettivo di recupero energetico, e potreste perdere l’occasione di ottenere elettricità piú pulita e piú economica oltre a certe agevolazioni fiscali. Noi e i nostri partner abbiamo l’esperienza e le capacità per garantirvi una maggiore indipendenza energetica.

    – Sí, ma lei chi la paga?

    – Be’, come forse saprà, i progetti sulle energie rinnovabili possono attingere a un’enorme quantità di fondi governativi. Noi tratteniamo una parte di quei fondi per coprire i costi, e distribuiamo alla sua comunità il resto del denaro.

    – In pratica vengo tassato per finanziare questi progetti, e forse un po’ di quei soldi mi tornano indietro.

    – È un’osservazione interessante, – disse Pip. – Ma in realtà è un po’ piú complicato. In molti casi lei non paga nessuna tassa per finanziare il progetto. E tuttavia gode, potenzialmente, delle agevolazioni fiscali, e ottiene anche un’energia piú pulita e piú economica.

    – Bruciando la mia spazzatura.

    – Sí, con una nuova tecnologia veramente incredibile. Superpulita, supereconomica –. C’era un modo per ripetere agevolazioni fiscali? Durante le telefonate Pip temeva sempre di raggiungere quello che Igor chiamava il punto di pressione, e ora le sembrava di averlo raggiunto con il signor Butcavage. Prese fiato e disse: – È una cosa di cui potrebbe interessarle sapere di piú?

    Il signor Butcavage borbottò qualcosa tipo «bruciare la mia spazzatura», e le chiuse il telefono in faccia.

    – Va’ al diavolo, – disse Pip al telefono muto. Poi si dispiacque. Non solo il signor Butcavage le aveva fatto delle domande ragionevoli, ma aveva anche un nome infelice e nessun amico nel quartiere. Probabilmente era una persona sola come sua madre, e Pip provava un’insopprimibile compassione per chiunque le ricordasse sua madre.

    Poiché sua madre non guidava, e poiché non aveva bisogno di un documento d’identità in un paesino come Felton, e poiché il posto piú lontano da Felton che avesse mai raggiunto era il centro di Santa Cruz, il suo unico documento ufficiale era la tessera della previdenza sociale intestata a Penelope Tyler (nessun secondo nome). Per ottenerla con un nome assunto da adulta, sua madre doveva aver presentato un certificato di nascita falso, oppure l’originale del suo vero certificato di nascita insieme alla documentazione legale riguardante il cambio di nome. Pip aveva setacciato ripetutamente gli oggetti personali di sua madre senza trovare né un documento del genere né la chiave di una cassetta di sicurezza, e questo l’aveva indotta a concludere che avesse distrutto i documenti, o che li avesse sotterrati subito dopo aver ricevuto il nuovo numero di previdenza sociale. Qualche tribunale di contea doveva avere il registro con il cambio di nome, ma negli Stati Uniti c’erano tante contee, poche delle quali mettevano i registri online, e Pip non avrebbe neppure saputo da quale zona di fuso orario cominciare. Aveva inserito ogni combinazione di parole immaginabile in ogni motore di ricerca commerciale e non aveva ottenuto altro che un’acuta consapevolezza dei limiti dei motori di ricerca.

    Da piccola si era accontentata di vaghe spiegazioni, ma a undici anni le sue domande erano diventate cosí insistenti che sua madre aveva accettato di raccontarle «l’intera» storia. Una volta aveva un altro nome e un’altra vita, le aveva detto, in uno stato che non era la California, ed era sposata con un uomo che – come aveva scoperto solo dopo la nascita di Pip – era incline alla violenza. Sapeva farle male con astuzia, senza lasciare il segno, e le infliggeva violenze psicologiche ancora peggiori di quelle fisiche. Ben presto era diventata prigioniera dei suoi maltrattamenti, e forse sarebbe rimasta con lui finché non l’avesse uccisa se, vedendolo infuriarsi per i pianti della piccola Pip, non avesse cominciato a temere anche per lei. Aveva cercato di scappare con Pip, ma lui le aveva trovate, le aveva inflitto nuove violenze psicologiche e aveva riportato tutt’e due a casa. Lui aveva amici potenti nella comunità, e lei, non potendo dimostrare che la maltrattava, sapeva che in caso di divorzio suo marito avrebbe ottenuto l’affidamento congiunto di Pip. Cosa che non poteva permettere. Aveva sposato una persona pericolosa e poteva rassegnarsi al proprio errore, ma non poteva mettere a rischio la figlia. Cosí una notte, mentre il marito era via per lavoro, aveva fatto le valigie, era salita su un autobus e aveva portato Pip in un ricovero per donne maltrattate in un altro stato. Le donne che gestivano il ricovero l’avevano aiutata ad assumere una nuova identità e a ottenere un certificato di nascita falso per Pip. Poi era salita su un altro autobus e si era rifugiata sulle Santa Cruz Mountains, dove una persona poteva essere quello che diceva di essere.

    – L’ho fatto per proteggerti, – le aveva detto. – E adesso che ti ho raccontato la storia, devi proteggere te stessa e non raccontarla a nessun altro. Conosco tuo padre. So quanto deve essersi infuriato quando mi sono ribellata e ti ho tolta a lui. E so che, se scoprisse dove sei, verrebbe a toglierti a me.
A undici anni Pip era una credulona. Sua madre aveva una cicatrice lunga e sottile sulla fronte che risaltava quando arrossiva, e i suoi incisivi superiori erano distanziati e avevano un colore diverso dagli altri denti. Pip era talmente sicura che suo padre le avesse spaccato la faccia, e le dispiaceva talmente per lei, che non le aveva neppure chiesto se fosse andata davvero cosí. Per un po’ la paura del padre le aveva impedito di dormire da sola. La madre, soffocandola di abbracci nel suo letto, le aveva assicurato che non aveva niente da temere purché non raccontasse a nessuno quel segreto, e la credulità di Pip era cosí assoluta, la sua paura cosí reale, che aveva tenuto il segreto fino agli anni ribelli dell’adolescenza. A quel punto lo aveva svelato a due amiche, costringendole a giurare di non dirlo a nessuno, e durante il college lo aveva svelato ad altre ancora.

    Una di queste amiche, Ella, una ragazza della contea di Marin che era stata istruita in casa, l’aveva guardata in modo strano. – Ma pensa un po’, – aveva detto. – Mi sembra di aver già sentito questa storia. Una scrittrice delle mie parti l’ha raccontata quasi uguale nella sua autobiografia.

    La scrittrice si chiamava Candida Lawrence (anch’esso un nome falso, secondo Ella), e dopo aver scovato una copia dell’autobiografia, Pip aveva scoperto che era stata pubblicata qualche anno prima che sua madre le raccontasse «l’intera» storia. La storia di Lawrence, pur non essendo identica, era cosí simile che Pip si era precipitata a Felton in preda a una rabbia gelida, piena di sospetti e accuse. Ed ecco la cosa veramente strana: quando si era scagliata contro sua madre, Pip si era sentita violenta come il padre assente, e sua madre si era raggomitolata su se stessa come la persona maltrattata ed emotivamente prigioniera che diceva di essere stata durante il matrimonio, e cosí, nell’atto stesso di attaccare l’intera storia, Pip ne aveva in pratica confermato la fondamentale plausibilità. Sua madre era scoppiata in singhiozzi rivoltanti e l’aveva implorata di essere buona, poi era corsa singhiozzando verso la libreria e aveva preso una copia dell’autobiografia di Lawrence da uno scaffale di manuali di auto-aiuto dove Pip non l’avrebbe mai notata. Gliel’aveva cacciata in mano come una specie di offerta sacrificale, dicendo che in quegli anni le era stata di enorme consolazione, che l’aveva letta tre volte e aveva letto anche altri libri di Lawrence, perché sapere che almeno un’altra donna aveva subíto sofferenze analoghe alle sue e ne era uscita forte e integra la faceva sentire meno sola nella vita che aveva scelto. – La storia che ti ho raccontato è vera, – aveva gridato. – Non saprei come raccontarti una storia piú vera e tenerti comunque al sicuro.

    – Stai dicendo – aveva risposto Pip con calma e fredda aggressività – che esiste una storia piú vera, ma non mi terrebbe «al sicuro»?

    – No! Stai travisando le mie parole, ti ho detto la verità e devi credermi. Sei tutto quello che ho al mondo! – Sua madre piangeva e ansimava come una grossa bambina in preda a una crisi di nervi, scuotendo la massa di capelli grigi e vaporosi che liberava dalle trecce al rientro dal lavoro.

    – Per la cronaca, – aveva detto Pip, con una calma ancora piú letale, – avevi o non avevi letto il libro di Lawrence quando mi hai raccontato la tua storia?

    – Oh! Oh! Oh! Sto cercando di tenerti al sicuro!

    – Per la cronaca, mamma: stai mentendo anche su questo?

    – Oh! Oh!

    Sua madre aveva agitato spasticamente le mani intorno alla testa, come se si preparasse ad afferrarne i pezzi quando fosse esplosa. Pip aveva provato il chiaro impulso di schiaffeggiarla, e poi di farle male in modi astutamente invisibili. – Be’, non sta funzionando, – aveva detto. – Non sono al sicuro. Non sei riuscita a tenermi al sicuro –. Poi aveva preso lo zaino ed era uscita, percorrendo il ripido vialetto verso Lompico Road sotto le sequoie stoicamente immobili. Alle sue spalle sentiva sua madre chiamare «Micetta» con gemiti pietosi. I vicini dovevano aver pensato che avesse perso un gatto.
A Pip non importava niente di «arrivare a conoscere» suo padre, sua madre le bastava e le avanzava, ma riteneva che lui le dovesse dei soldi. I centotrentamila dollari del suo debito studentesco erano molti meno di quelli che aveva risparmiato non mantenendola e non mandandola al college. Naturalmente poteva darsi che non intendesse sborsare dei soldi per una figlia di cui non aveva potuto godere l’«uso», e che non gli offriva neppure alcun «uso» futuro. Ma considerando l’isteria e l’ipocondria di sua madre, Pip poteva immaginarlo come un uomo fondamentalmente perbene dal quale sua madre aveva tirato fuori il peggio e che adesso era pacificamente sposato con un’altra, e che forse sarebbe stato contento e grato di sapere che la figlia perduta era viva; grato abbastanza da mettere mano al portafogli. In caso di necessità, Pip era anche disposta a offrire modeste concessioni, qualche telefonata o e-mail ogni tanto, una cartolina di Natale una volta all’anno, l’amicizia su Facebook. A ventitre anni aveva superato da un pezzo l’età dell’affidamento; aveva poco da perdere e tanto da guadagnare. Le servivano solo il nome e la data di nascita di suo padre. Ma sua madre custodiva quelle informazioni come se fossero un organo vitale che Pip stesse cercando di strapparle dal corpo.

    Quando il suo lungo e sconfortante pomeriggio di telefonate a Rancho Ancho ebbe finalmente termine, alle sei, Pip salvò gli elenchi delle chiamate, si mise lo zaino in spalla e il casco da bici in testa e tentò di sgattaiolare davanti all’ufficio di Igor senza farsi abbordare.
    – Pip, due parole, per favore, – disse la voce di Igor.
    Indietreggiò lentamente per permettergli di vederla dalla scrivania. Lo Sguardo le scivolò lungo i seni, che a quel punto potevano anche avere due giganteschi 8 stampati sopra, e si fermò sulle gambe. Pip ebbe la netta sensazione che gli sembrassero un sudoku incompiuto. Le guardava con il cipiglio preoccupato di chi cercasse di risolvere un problema.
    – Cosa c’è, – gli disse.
    Igor alzò lo sguardo sulla sua faccia. – A che punto siamo con Rancho Ancho?
    – Ho avuto delle buone risposte. Al momento siamo al trentasette per cento, piú o meno.
    Igor ciondolò la testa da una parte all’altra, alla russa, con aria vaga. – Vorrei farti una domanda. Ti piace lavorare qui?
    – Mi stai chiedendo se preferirei essere licenziata?
    – Stiamo pensando di riorganizzarci, – disse Igor. – Potresti avere l’occasione di mettere a frutto altre capacità.

    – Santo cielo. «Altre capacità»? Stai proprio creando una certa atmosfera.

    – Saranno due anni il primo di agosto, se non sbaglio. Sei una ragazza intelligente. Quanto tempo concediamo all’esperimento della promozione?

    – Non sta a me decidere, no?

    Igor scrollò di nuovo la testa. – Hai ambizioni? Progetti?

    – Sai, se non mi avessi fatto quello scherzo delle Venti Domande, mi sarebbe piú facile prendere sul serio questa qui.

    Lui fece schioccare la lingua. – Sei proprio arrabbiata.

    – O stanca. E se fossi solo stanca? Posso andare adesso?

    – Non so perché, ma mi piaci, – disse Igor. – Vorrei vederti fare strada.

    Pip non si fermò ad ascoltare altro. Nell’ingresso, le sue tre colleghe del settore promozione stavano indossando le scarpette da corsa per il loro jogging tra amiche del lunedí sera. Erano donne sulla quarantina, con un marito e in due casi anche figli, e non ci volevano superpoteri per indovinare cosa pensavano di Pip: era quella lagnosa, quella deludente, la Giovane Privilegiata, la calamita fresca per lo Sguardo di Igor, quella che approfittava dell’indulgenza del capo in modo moralmente azzardato, quella senza foto di bambini nel box. Pip concordava con la maggior parte di quei giudizi – probabilmente nessuna di loro avrebbe potuto essere altrettanto maleducata con Igor senza venire licenziata –, eppure si sentiva offesa perché non l’avevano mai invitata a fare jogging con loro.

    – Com’è andata la giornata, Pip? – le chiese una delle colleghe.

    – Non saprei –. Provò a pensare a qualcosa di non lagnoso da dire. – Qualcuna di voi ha per caso una buona ricetta per una torta vegana con farina integrale e non troppo zucchero?

    Le donne la fissarono.

    – Eh, lo so, – disse Pip.

    – È un po’ come organizzare una festa dove non si beve, non si mangiano dolci e non si balla, – disse un’altra.

    – Il burro è vegano? – chiese la terza.

    – No, è animale, – rispose la prima.

    – Ma il ghi. Il ghi non è solo grasso senza solidi del latte?

    – Grasso animale, grasso animale.

    – Okay, grazie, – disse Pip. – Buona corsa.

    Mentre scendeva le scale verso la rastrelliera delle biciclette, ebbe la netta sensazione che ridessero alle sue spalle. Chiedere una ricetta non era moneta corrente nel regno femminile? A dire il vero, però, stava esaurendo anche le scorte di amiche della sua età. Era ancora apprezzata nei gruppi numerosi per il suo sarcasmo relativamente amaro, ma nel campo delle amicizie a due non riusciva a interessarsi ai tweet e ai post e alle innumerevoli foto delle ragazze felici, nessuna delle quali capiva perché vivesse in una casa occupata, e non era abbastanza amara per le ragazze infelici, le autodistruttive, quelle con i tatuaggi aggressivi e i cattivi genitori. Si sentiva sulla buona strada per diventare una persona senza amici come sua madre, e Annagret aveva ragione: questo la rendeva troppo interessata al cromosoma Y. Senza dubbio i quattro mesi di astinenza dopo l’episodio con Jason erano stati deprimenti.