mercoledì 3 aprile 2019



PARADOSSI TERMINALI

Estratto da "L'arte del romanzo"
Milan Kundera
[...]Questi romanzieri scoprono, ... come, nelle condizioni dei
“paradossi terminali”, tutte le categorie esistenziali cambino  improvvisamente di senso [...]

Le  conferenze  in  cui  Husserl  parlò  della  crisi  dell'Europa  e  prospettò  la  possibilità  della  scomparsa  dell'umanità europea furono il suo testamento filosofico. Le tenne in due capitali dell'Europa centrale. Questa coincidenza è profondamente significativa: proprio in quella stessa Europa centrale, infatti, per la prima volta nel corso della sua storia moderna, l'Occidente poté assistere alla morte dell'Occidente, o, più precisamente, all'amputazione di una parte di sé, quando Varsavia, Budapest e Praga furono inghiottite dall'imperò russo. La causa di questa sventura fu la prima guerra mondiale, che, scatenata dall'imperò degli Asburgo, provocò la fine di questo stesso imperò e compromise per sempre l'equilibrio di un'Europa indebolita.
Ebbe così fine l'ultima età tranquilla, l'età in cui l'uomo aveva da combattere solo i mostri della propria anima, l'età di Joyce e di Proust. Nei romanzi di Kafka, di Hašek, di Musil, di Broch, il mostro viene dal di fuori e si chiama Storia; non assomiglia  più  al  treno  degli  avventurieri;  è  impersonale,  ingovernabile,  incalcolabile,  inintelligibile  -  e  nessuno  può sfuggirgli. È il momento (all'indomani della guerra del '14-'18) in cui la pleiade dei grandi romanzieri centroeuropei intravide, toccò con mano, colse, i  paradossi terminali dei Tempi moderni.
Non  bisogna  però  leggere  i  loro  romanzi  come  una  profezia  sociale  e  politica,  come  un'anticipazione  di  Orwell!
Quello che ci dice Orwell avrebbe potuto essere detto altrettanto bene (anzi, molto meglio) in un saggio o in un pamphlet.
Questi romanzieri scoprono, invece, “quello che solo un romanzo può scoprire”: mostrano come, nelle condizioni dei
“paradossi terminali”, tutte le categorie esistenziali cambino  improvvisamente di senso:  che cos'è l'  avventura   se  la  libertà d'azione di un K. è totalmente illusoria? Che cos'è l'  avvenire  se gli intellettuali dell'  Uomo senza qualità non hanno il benché minimo sospetto della guerra che, domani stesso, spazzerà via le loro vite? Che cos'è il  delitto se lo Huguenau di Broch non solo non ha rimorsi, ma addirittura dimentica il delitto che ha commesso? E se l'unico grande romanzo comico di quest'epoca, quello di Hašek, ha come sfondo la guerra, che cos'è successo al  comico? Dov'è la differenza fra  privato e  pubblico, se K. non viene  mai  lasciato  solo,  nemmeno  nel  suo  letto  d'amore,  dai  due  inviati  del  castello?  E  che  cos'è  allora  la   solitudine?  Un fardello,  un'angoscia,  una  maledizione,  come  hanno  voluto  farci  credere,  o  invece  il  valore  più  prezioso,  continuamente schiacciato dalla collettività onnipresente?
I periodi della storia del romanzo sono assai lunghi (non hanno niente a che vedere con i febbrili cambiamenti delle mode)  e  sono  caratterizzati  dall'aspetto  o  dagli  aspetti  dell'essere  che  il  romanzo  pone  in  primo  piano.  Ad  esempio,  le possibilità insite nella scoperta flaubertiana della quotidianità furono pienamente sviluppate solo settant'anni più tardi, nella gigantesca opera di James Joyce. Il periodo inaugurato, cinquant'anni fa, dalla pleiade dei romanzieri centroeuropei (periodo dei paradossi terminali) mi sembra tutt'altro che concluso.