IL PONTE SULLA DRINA
Ivo Andric
Traduzione di Bruno Meriggi.
Titolo dell'opera originale: "Na Drini Cuprija". Prima Edizione Dicembre 1960.
Mondadori Editore.
Capitoli 1,2,3
1.
Per la maggior parte del suo corso il fiume Drina s'apre la strada attraverso anguste gole tra scoscese montagne o attraverso profondi canon dai fianchi a picco. Soltanto in alcuni tratti le sue sponde si allargano in aperte pianure per formare, su una o su entrambe le rive, distese solatie, in parte piane, in parte ondulate, atte a essere lavorate e abitate. Un ampliamento di questo genere si trova anche qui, presso Vishegrad, nel punto in cui la Drina scaturisce con un'improvvisa svolta dalla profonda e stretta gola formata dai Massi di Butko e dai monti di Uzavnica. La curva della Drina è oltremodo angusta e le montagne ai due lati sono talmente ripide e ravvicinate che sembrano un massiccio compatto, dal quale il fiume scaturisce come da una cupa muraglia. Ma qui le montagne si allargano improvvisamente in un anfiteatro irregolare, il cui diametro, nel punto piùampio, non supera la quindicina di chilometri in linea d'aria.
In questo luogo in cui la Drina sembra sgorgare con tutto il peso della sua massa d'acqua, verde e schiumosa, da una catena ininterrotta di nere e ripide alture, si scorge un grande ponte di pietra, d'armonica fattura, con undici arcate ad ampio raggio. Questo ponte somiglia a una base dalla quale si apre a ventaglio tutta una pianura ondulata, con la cittadina di Vishegrad, i suoi dintorni, e le borgate distese sulla fascia delle colline, una pianura coperta di campi, di pascoli e di piantagioni di prugni, intersecata da siepi e quasi spruzzata di boschi cedui e di rade macchie d'abeti. In tal modo, guardando dal fondo del panorama, sembra che dalle ampie arcate del candido ponte scorra e si spanda non soltanto la verde Drina, ma anche tutta questa estensione, solatia e coltivata, con tutto quello che vi si trova e il cielo meridionale sopra.
Sulla sponda destra del fiume, iniziando proprio all'altezza del ponte, si trova la parte piùgrossa della città col mercato turco, in parte sul piano, in parte sui pendii delle colline. All'altra estremità del ponte, lungo la riva sinistra, si estende Maluhino Polje, un sobborgo sparpagliato attorno alla strada che conduce a Sarajevo. E così il ponte, congiungendo le due estremità della strada per Sarajevo, unisce la città al suo sobborgo.
Quando si dice "unisce", É esattamente come dire che il sole sorge al mattino affinché‚ noi uomini possiamo vedere intorno a noi e svolgere gli affari che ci stanno a cuore e tramonta sul far della sera per consentirci di dormire e di riposare dalle fatiche del giorno. Questo grande ponte di pietra, preziosa costruzione di singolare bellezza, quale non posseggono neppure cittadine assai piùricche e frequentate ("Come questo in tutto l'impero ce ne sono soltanto altri due", si diceva nei tempi antichi), É infatti l'unico mezzo di comunicazione stabile e sicuro in tutto il medio ed alto corso della Drina e costituisce un anello indispensabile sulla strada che congiunge la Bosnia con la Serbia e, oltre la Serbia, piùin là, con le rimanenti contrade dell'impero turco, fino a Istanbul. E la cittadina col suo sobborgo altro non É se non uno di quei centri abitati che debbono incessantemente svilupparsi sugli importanti nodi di comunicazione e su entrambi i lati dei grandi ponti.
E così anche qui, con l'andar del tempo, le case si sono raccolte a sciame e si sono moltiplicati gli edifici alle due estremità del ponte. La cittadina ha tratto vita da esso e da esso É cresciuta come dalla sua indistruttibile radice.
Affinché‚ si veda chiaramente e si comprenda l'immagine della città e si comprenda bene la natura dei suoi rapporti col ponte, occorre dire che in essa esiste anche un altro ponte, così come esiste anche un altro fiume. E' il fiume Rzav col suo ponte di legno. Proprio al limite della città il Rzav sbocca nella Drina, sicch‚ il centro e la maggior parte di Vishegrad si trovano su una lingua di terra sabbiosa tra i due corsi d'acqua, l'uno grande e l'altro piccolo, che qui si uniscono, e la sparsa periferia si estende sugli altri due lati dei fiumi, sulla riva sinistra della Drina e su quella destra del Rzav. Una città sull'acqua. Ma bench‚ esistano un altro fiume e un altro ponte, quando si dice "sul ponte" non si intende mai quello sul Rzav, semplice costruzione di legno priva di qualsiasi bellezza e di storia, destinato a consentire il transito ai cittadini e al loro bestiame, ma ci si riferisce sempre e unicamente al ponte di pietra sulla Drina. Il ponte É lungo circa duecentocinquanta passi e largo una decina, tranne che al centro, dove É ampliato mediante due terrazzi perfettamente identici, uno su ciascun lato della carreggiata, che gli fanno raggiungere una larghezza doppia. E' questa la parte che si chiama "porta", e qui, sul pilastro centrale, che in alto si allarga, su entrambi i lati si trovano delle sporgenze, sì che, a sinistra e a destra della carreggiata, poggiano sulla base due terrazzi, i quali, con linea ardita ed armonica, si protendono nello spazio oltre la struttura principale del ponte, al disopra dell'acqua rumorosa e verde che scorre in basso. Sono lunghi quasi cinque passi e alti altrettanto, recinti da un parapetto di pietra, così come lo É il ponte in tutta la sua lunghezza, ma altrimenti aperti e non riparati. Il terrazzo di destra, venendo dalla città, si chiama "sofà". Vi si accede salendo due gradini, ed É orlato di sedili cui il parapetto funge da spalliera, e sia i gradini che i sedili ed il parapetto sono tutti della medesima pietra chiara. Il terrazzo di sinistra, dinanzi al sofà, É identico, ma É vuoto, senza sedili. Al centro del suo parapetto il muro si eleva al disopra dell'altezza di un uomo; in esso, nella parte superiore, É situata una targa di marmo bianco sulla quale É incisa una ricca iscrizione turca, un "tarih", con un cronogramma che, in tredici versi, indica il nome del costruttore del ponte e l'anno della costruzione. In basso, sul muro, sgorga una fontanella: un sottile zampillo d'acqua che sbocca dalla gola di un drago di pietra. Su questo terrazzo ha aperto bottega un caffettiere con le sue cuccume, le tazze, e il braciere sempre acceso, e, per mezzo di un ragazzo, serve il caffÉ agli avventori del sofà, sull'altro lato della strada. Questa É la "porta".
Sul ponte e sulla "porta", attorno ad esso o in relazione ad esso, scorre e si evolve, come vedremo, la vita degli abitanti della cittadina. In tutti i racconti che riguardano eventi personali, familiari o collettivi, si possono sempre sentire le parole "sul ponte". Ed infatti sul ponte della Drina si svolgono le prime passeggiate infantili e i primi giuochi dei bambini. I figli dei cristiani nati sulla riva sinistra della Drina attraversano il ponte fin dai loro primi giorni di vita, dato che già la prima domenica vengono portati in chiesa per il battesimo. Ma anche tutti gli altri bambini, anche quelli che nascono sulla sponda destra e i musulmani, che non vengono affatto battezzati, trascorrono la maggior parte della fanciullezza in prossimità del ponte, come hanno fatto, un tempo, i loro padri e i loro nonni, pescando pesci accanto ad esso oppure cacciando piccioni sotto le sue volte. Fin dai primi anni di vita i loro occhi si abituano alle armoniose linee di quella grande costruzione di pietra chiara porosa, tagliata regolarmente e senza il minimo difetto. Conoscono tutte le rotondità e le incavature magistralmente disegnate, nonch‚ tutti i racconti e le leggende connessi con l'origine e la costruzione del ponte, nelle quali si mescolano e si intrecciano in un bizzarro e inestricabile intrigo la fantasia e la realtà, la verità e il sogno. E tutte queste cose sanno da sempre, inconsciamente, come se le avessero portate al mondo con s‚, allo stesso modo che conoscono le preghiere, bench‚ non ricordino da chi le hanno apprese e quando le hanno sentite per la prima volta. Sanno che il ponte É stato eretto dal gran visir Mehmed Pascià, nato a Sokolovici, un villaggio che si trova laggiù su una delle montagne che cingono il ponte e la città. Soltanto un visir avrebbe potuto procurare tutto quello che occorreva per costruire un simile durevole miracolo di pietra. (Il visir É qualcosa di stupendo, solido, terribile e confuso nella coscienza dei ragazzi. ) L'ha edificato Rade l'Architetto, che avrebbe dovuto vivere centinaia d'anni se avesse veramente costruito tutto ciò che si trova di bello e di duraturo nelle terre serbe, maestro leggendario e in realtà anonimo che ogni massa si immagina e desidera, poichéé‚ non le piace di ricordare molte cose e di essere debitrice a molte persone, neppure nello spirito. Sanno che la costruzione É stata osteggiata dallo spirito del fiume, così come sempre e ovunque qualcuno ha contrastato ogni nuova costruzione, e che lo spirito stesso durante la notte distruggeva quel che si faceva di giorno. Questo accadde finchéé‚ "qualcosa" parlò dall'acqua, consigliando a Rade l'Architetto di trovare due fanciulli, gemelli, fratello e sorella, Stoja e Ostoja, e di murarli dentro il pilastro centrale del ponte. Subito ebbe inizio la ricerca di questi fanciulli per tutta la Bosnia. Venne promessa una ricompensa a chi li avesse scovati e portati.
Alla fine i soldati trovarono in uno sperduto villaggio due gemelli, ancora poppanti, e li rapirono, forti del potere del visir; ma quando li trascinarono via la loro mamma non volle separarsi da loro, e, tra lamenti e pianti, insensibile agli improperi e alle percosse, se ne venne dietro a loro fino a Vishegrad. Qui riuscì a farsi largo tra la gente e si presentò all'Architetto.
I bambini vennero murati perchéé‚ non era possibile fare altrimenti, ma l'Architetto, stando a quel che si racconta, si impietosì e lasciò nei pilastri delle aperture attraverso le quali l'infelice madre potè‚ allattare le sue creature sacrificate. Sono proprio quelle finestre cieche finemente disegnate, strette come feritoie, nelle quali adesso nidificano i colombi selvatici. In ricordo di questo episodio, già da centinaia di anni, cola dal muro il latte materno, cioÉ quei rivoletti bianchi e sottili che, in un determinato periodo dell'anno, sgorgano dalle giunture compatte lasciando indelebili tracce sulla pietra. (Lo spettacolo del latte muliebre suscita nella coscienza dei ragazzi qualcosa che le É fin troppo vicino e nauseante e, al tempo stesso, confuso e misterioso come i visir e gli architetti, qualcosa che sconcerta i bambini e li respinge. ) Quelle incrostazioni lattee sulle colonne vengono grattate e vendute come polveri terapeutiche per le donne che non hanno latte dopo il parto.
Nel pilastro centrale del ponte, sotto la "porta", si trova un'apertura più grande, uno stretto e lungo uscio privo di battenti, simile a una gigantesca feritoia. Nel pilastro, si racconta, c'É una grande stanza, un'oscura sala in cui vive Arapin il moro. Lo sanno tutti i bambini, nei cui sogni e nelle cui fandonie il misterioso personaggio svolge una parte importante. Si crede che colui al quale egli appare debba morire. Neppure un bimbo, finora, l'ha visto, poiché‚ i bimbi non muoiono. Ma una notte l'ha scorto Hamid, il facchino dagli occhi iniettati di sangue, asmatico e continuamente ubriaco o svanito, ed É morto la stessa notte, qui accanto al muro. A dire il vero era tanto ubriaco che non capiva più niente, e pernottò sul ponte, all'aria aperta, con una temperatura di quindici sotto zero. Spesso i ragazzi, dalla riva, osservano quell'apertura buia come un abisso che atterrisce eppure attrae. Si mettono d'accordo così: debbono guardare senza batter ciglio, e il primo che vede qualcosa deve lanciare un grido. Fissano quell'ampia fessura tenebrosa tremando per la curiosità e per la paura, finché‚ a qualche ragazzo anemico non sembra che l'apertura, al pari di una tenda nera, si metta a oscillare e a muoversi, oppure finché‚ qualcuno, in vena di scherzare e privo di scrupoli (ce n'É sempre uno così), non esclama "Arapin!" e non comincia a simulare una fuga. Questo guasta il giuoco e suscita delusione e malcontento in coloro che si dilettano di trastullarsi con la fantasia, detestano le spiritosaggini e credono che, guardando attentamente, si potrebbe davvero arrivare a vedere qualcosa. Nella notte, durante il sonno, molti di loro lottano e si battono disperatamente con Arapin del ponte finché‚ la mamma non li sveglia liberandoli così da un sogno tormentoso. E mentre dà loro da bere acqua fredda ("per scacciare la paura") e li costringe a pronunciare il nome di Dio, essi già dormono nuovamente, spossati dai giuochi della giornata trascorsa, col sonno pesante dei bambini, nel quale le paure non possono ancora svilupparsi e durare a lungo.
Oltre il ponte, controcorrente, sulla ripida sponda di calcare grigio, dall'uno e dall'altro lato, si scorgono incavature circolari, sempre a due a due, a intervalli regolari, come se sulla pietra fossero impresse le impronte degli zoccoli di un cavallo di grandezza sovrannaturale; scendono giù dal Vecchio Castello, digradano lungo la roccia fino al fiume e ricompaiono sulla riva opposta, simili a pustole di lebbra sparse sulla terra bruna e tra le piante.
I ragazzi che d'estate per tutto il giorno pescano pesciolini lungo quelle rive pietrose, sanno che sono orme di tempi remoti e di antichi guerrieri, quando vivevano grandi eroi, la pietra era ancora immatura e tenera come la terra, e i cavalli, al pari dei guerrieri, erano di statura gigantesca. Per i ragazzi serbi quelle sono le orme degli zoccoli di Sharac, risalenti al tempo in cui Marko Kraljevic era prigioniero su al Vecchio Castello, donde scappò per fuggire giù per la montagna e oltre la Drina, sulla quale allora non c'era ancora il ponte. I ragazzi turchi, invece, sanno che non É stato Marko Kraljevic n‚ avrebbe potuto esserlo (quando mai un bastardo di cristiano avrebbe avuto tale forza e un tale cavallo!), ma Djerzelez Alija sulla sua cavalla alata, che, come É noto, disprezzava traghetti e traghettatori e saltava i fiumi come ruscelletti. Su questo argomento non disputano neppure, a tal punto sia gli uni che gli altri sono convinti dell'esattezza della propria opinione. E non si sa di nessuno che sia mai riuscito a far mutare idea a un altro n‚ di alcuno che abbia abbandonato la propria convinzione.
In quelle buche circolari, larghe e profonde come ciotole di discreta grandezza, si conserva a lungo l'acqua piovana, come in vasi di pietra. Queste fosse, ripiene di tiepida acqua, vengon chiamate pozzi dai ragazzi, che in esse mettono, gli uni e gli altri, senza distinzione di opinioni, i pesciolini, ghiozzi e lasche, catturati con l'amo.
Sulla riva sinistra, da un lato, subito oltre la strada, c'É un poggio alquanto grosso, di terra, ma di una terra dura, grigia e pietrificata. Su di esso non cresce e non fiorisce niente al difuori di un'erbetta dura e spinosa come filo d'acciaio. Il poggio É la meta e il confine di tutti i giuochi infantili intorno al ponte. Questo luogo, una volta, si chiamava la Tomba di Radisav. Si racconta che questi fu un capo serbo, un uomo potente. Quando il visir Mehmed Pascià si propose di costruire un ponte sulla Drina e spedì la sua gente, tutti si sottomisero e accettarono la corv‚; si ribellò soltanto questo Radisav, che sollevò il popolo e mandò a dire al visir che rinunciasse al lavoro, perché‚ non avrebbe eretto un ponte sulla Drina facilmente come pensava. E il visir ebbe effettivamente il suo filo da torcere prima di potersi impadronire di Radisav, dato che questi era un eroe fuor del comune, e non c'erano n‚ fucili n‚ sciabole che potessero colpirlo, n‚ corde n‚ catene che potessero avvincerlo; tutto egli strappava come filo, dato che aveva con s‚ un potente talismano. E chi sa che cosa sarebbe accaduto e se avrebbe mai il visir costruito il ponte, se non ci fosse stato uno dei suoi uomini, saggio ed esperto, che corruppe e tentò di far parlare un servo di Radisav. Accadde così che sorpresero Radisav e lo strangolarono durante il sonno, dopo averlo legato con corde di seta, poiché‚ soltanto contro la seta il suo talismano era inefficace. Le nostre donne credono che ci sia una notte, in tutto l'anno, in cui si può vedere un bianco splendore scender giù dal cielo proprio su quel poggio. Ed É una notte d'autunno, tra l'Assunzione e la Natività di Maria Vergine. Ma i ragazzi che, credano o no alla leggenda, sono stati lasciati di vedetta presso le finestre che guardano verso la Tomba di Radisav, non sono mai riusciti a scorgere il fuoco celeste, perché‚ sempre prima di mezzanotte li ha vinti il sonno. Al contrario, alcuni viaggiatori che non pensavano a questa storia hanno visto come un bianco chiarore sul poggio al disopra del ponte, tornando di notte in città.
I turchi della cittadina, dal canto loro, raccontano da tempi remoti che in quel posto É morto da martire un derviscio chiamato shehù Turhanija, che fu un grande eroe e difese lì il passaggio sulla Drina da una banda di infedeli. E se in quel luogo non c'É n‚ un cippo sepolcrale n‚ un mausoleo, ciò É proprio per un desiderio del derviscio, che ha voluto essere sepolto senza alcuna lapide o segno distintivo affinché‚ non si sapesse che si trova colà. Se mai in futuro vi passerà qualche esercito d'infedeli, egli sorgerà da quella collinetta e li fermerà, come ha già fatto una volta, sì che non possano proseguire oltre il ponte di Vishegrad. In compenso, il cielo stesso illumina talvolta col suo splendore il poggio.
In tal modo la vita dei ragazzi della cittadina si svolge sotto il ponte e attorno a esso, tra inutili giuochi e fantasie infantili. E fin dai primi anni dell'adolescenza ci si trasferisce sopra il ponte, dove i sogni giovanili trovano altro alimento e altre sfere d'interessi, ma dove cominciano già anche le preoccupazioni, le lotte e il penoso stento della vita.
Sul ponte e vicino al ponte sbocciano i primi sogni d'amore, avvengono i primi incontri casuali, i primi approcci e sussurri. Qui si svolgono anche i primi lavori e gli affari, i litigi e gli accordi, gli appuntamenti e le attese. Qui, lungo il parapetto di pietra del ponte, vengono messi in vendita le prime ciliege e i meloni, i "salep" (1) del mattino e il pane caldo. Ma qui si raccolgono pure i mendicanti, gli storpi e i tignosi, così come i giovani e i sani che desiderano farsi vedere o vedere qualcuno, o come tutti coloro che hanno da mettere in mostra qualche frutto, qualche abito o qualche arma speciale. Vengono spesso a sedersi qui uomini maturi e ragguardevoli per discorrere intorno alle cose pubbliche e alle faccende d'interesse collettivo, ma ancora piùspesso i giovincelli che non hanno mente ad altro che ai canti e agli scherzi. In occasione di grandi eventi e di storiche trasformazioni É qui che vengono esposti appelli e proclami (sul muro sopraelevato, al disotto della targa marmorea con l'iscrizione turca e al disopra della fontana), ma qui, fino al 1878, venivano anche impiccate o impalate le teste di tutti coloro che, per un qualsiasi motivo, erano giustiziati, e le esecuzioni, in questa cittadina di frontiera, specialmente negli anni turbolenti, furono frequenti e in certi tempi, come vedremo, perfino quotidiane. Non possono attraversare il ponte n‚ cortei nuziali n‚ funerali senza che ci si fermi alla "porta". Qui, di solito, i convitati alle nozze si preparano e si mettono in fila prima di andare al mercato. Se sono tempi tranquilli e quieti si passano a turno la "rakija" (2) e cantano, danzano il "kolo" (3), e spesso si trattengono molto più a lungo del previsto. E durante i funerali, coloro che portano il defunto lo depongono un po' per riposarsi, proprio qui alla "porta", dove del resto egli ha trascorso buona parte della vita.
La "porta" É il punto piùimportante del ponte, così come il ponte É la parte piùimportante della cittadina, o, come scrisse nel suo diario un viaggiatore turco che venne ottimamente ospitato dai vishegradesi, "la porta É il cuore del ponte, che É il cuore di questa cittadina, che a ognuno deve restare nel cuore". Essa dimostra quanto gli architetti di un tempo, dei quali le antiche storie raccontano che ebbero a combattere con gli spiriti e con portenti di ogni genere, e che dovettero murare vivi dei fanciulli, avessero sviluppato il senso non solo della stabilità e della bellezza della costruzione, ma anche dell'utilità e della comodità che da quella costruzione avrebbero tratto pure i piùremoti discendenti. E quando uno ha conosciuto bene la vita locale e ha ben riflettuto, deve dire a se stesso che in verità sono pochi in Bosnia coloro che hanno le occasioni e i piaceri che possono toccare sulla "porta" a ciascuno degli abitanti della città, anche al piùmisero
Si capisce che la stagione invernale non entra neppure in conto, perché‚ d'inverno il ponte viene attraversato soltanto da chi vi É costretto, e questi allunga il passo e piega la testa sotto il freddo vento che soffia ininterrotto sul fiume. Allora, É chiaro, nessuno si ferma sui terrazzi aperti della "porta". Ma in ogni altra stagione dell'anno la "porta" É una vera e propria manna per i ragazzi e per gli adulti. Ogni abitante del luogo, in ogni ora del giorno e della notte, può andare alla "porta" e sedersi sul sofà, oppure indugiare nelle vicinanze per trattare affari o per chiacchierare. Germogliato ed elevato fino a una quindicina di metri dal fiume verde e rumoroso, quel sofà di pietra É sospeso nello spazio, al disopra dell'acqua, in mezzo a montagne verdescuro che lo cingono da tre lati, col cielo e le nuvole o le stelle in alto, e con una vista aperta lungo il fiume che sembra un angusto anfiteatro chiuso, in fondo, da monti azzurri. Quanti visir e ricconi ci sono al mondo, che possano esporre la loro gioia o i loro affanni, il loro diletto o il loro passatempo in un posto come questo? Pochi, molto pochi. E quanti di noi, nel corso dei secoli e di generazione in generazione, se ne sono stati seduti qui in attesa dell'aurora o della preghiera serale oppure durante le ore notturne, quando, con un moto impercettibile, tutta la volta stellata si sposta al disopra delle nostre teste! Molti e molti di noi sono stati seduti qui, col capo poggiato sul gomito, o adagiati sulla liscia pietra squadrata, e, dinanzi all'eterno gioco delle luci sulle montagne e delle nuvole in cielo, hanno dipanato le fila, sempre le stesse, e sempre imbrogliate in maniera diversa, dei destini della nostra città. Qualcuno, molto tempo fa, asserì (era uno straniero, bisogna riconoscerlo, e parlava scherzando) che questa "porta" ha influito sulla sorte della cittadina e sul carattere stesso dei suoi abitanti. In queste interminabili sedute, affermò il forestiero, occorre cercare la chiave per spiegare l'inclinazione di molti cittadini alla meditazione e alle fantasticherie, e uno dei motivi principali di quella malinconica tranquillità per cui sono conosciuti gli abitanti di Vishegrad.
In ogni caso, non si può negare che i vishegradesi, fin dagli antichi tempi, in confronto con gli abitanti di altre località, hanno avuto fama di essere uomini sventati, inclini ai piaceri e dalle mani bucate. La loro cittadina si trova in una posizione favorevole, i villaggi circostanti sono fertili e ricchi, e il denaro, a dire il vero, passa in abbondanza per Vishegrad, ma non ci si ferma a lungo. E se si trova qualche risparmiatore, che pensa alla propria casa ed É immune da passioni, É senza dubbio un immigrato; ma l'acqua e l'aria di Vishegrad hanno tali proprietà che i suoi figli nascono con le mani aperte e con le dita distese, e, soggiacendo al generale contagio di prodigalità e di spensieratezza, vivono col motto: "Altro giorno, altro guadagno".
Si racconta che il vecchio Novak, allorché‚, esausto, dové‚ ritirarsi e abbandonare il brigantaggio sulla Romanija, così ammaestrasse il giovane Grujica, quando questi dové‚ sostituirlo:
®Quando tendi un'imboscata osserva bene chi É il viandante che avanza. Se vedi che cavalca pavoneggiandosi e indossa un rosso panciotto, e ha guaine d'argento e uose bianche, allora é uno di Foca. Attacca subito, poiché‚ questo é carico di bottino, addosso e nelle bisacce. Se vedi un viandante vestito miseramente: uno col capo chino e piegato sul cavallo come se andasse a mendicare, attacca pure, É uno di Rogatica. Sono tutti così: spilorci e dimessi, ma pieni di quattrini. Ma se vedi un tipo originale: uno che ha incrociato le gambe sulla sella, suona la mandola e canta a voce alta, allora non attaccare e non sporcarti le mani invano, ma lascialo passare, quel miserabile; É uno di
Vishegrad, e non ha niente, perché‚ con lui i soldi non durano.¯ Tutto questo starebbe a confermare l'opinione dello straniero di cui s'É parlato più sopra. D'altro canto É difficile dire esattamente fino a qual punto questa opinione sia esatta. Come in faccende analoghe, pure in questo caso non É facile discernere quale sia la causa e quale la conseguenza. E' stata proprio la "porta" che ha conferito il loro carattere agli abitanti della cittadina, oppure, al contrario, essa É stata concepita secondo il loro animo e il loro intendimento, e costruita per loro, per le loro esigenze e per le loro abitudini? Domanda superflua e vana. Non esistono costruzioni casuali, staccate dall'ambiente umano dal quale sono sorte, e dalle esigenze, dai desideri e dagli intendimenti degli uomini, allo stesso modo che non esistono linee arbitrarie e forme non motivate nell'architettura. E la genesi e la vita di ogni grande, bella e utile costruzione, come il suo rapporto con l'abitato nel quale É sorta, spesso portano con s‚ complessi drammi e misteriose storie. In ogni caso, una cosa É certa: tra la vita della gente della cittadina e questo ponte sussiste un intimo, secolare legame. I loro destini sono talmente intrecciati gli uni agli altri, che non si possono n‚ pensare n‚ raccontare separatamente Per tale ragione la narrazione della nascita e delle vicende del ponte É, al tempo stesso, la narrazione della vita della città e della gente che la abita, di generazione in generazione, allo stesso modo che attraverso tutti i racconti concernenti la città penetra furtiva anche la linea del ponte di pietra dalle undici arcate, con la sua "porta" nel mezzo, a guisa di corona.
NOTE.
1. Bevanda turca calda e dolce. (Nota del Traduttore)
2. Acquavite. (Nota del Traduttore)
3. Caratteristica danza circolare slava. (Nota del Traduttore)
2.
Adesso ci conviene tornare ai tempi in cui, in questo luogo, non c'era neppure l'ombra di un ponte, tanto meno di un ponte qual É quello attuale.
Forse già in quegli antichi tempi qualche viandante, passando da quel luogo, stanco e zuppo di pioggia, avrà desiderato che, in virtù di un miracolo, un ponte si inarcasse sopra il fiume ampio e fragoroso, sì da consentirgli di giungere più facilmente e più celermente alla meta. Infatti non c'É dubbio che gli uomini, da quando hanno cominciato a esistere e a transitarvi, superando gli ostacoli del cammino, hanno pensato alla possibilità di aprire un passaggio in questo posto, allo stesso modo che, da che mondo É mondo, i viaggiatori sognano una buona strada, una compagnia fidata e un caldo alloggio. Succede, però, che non qualsiasi uomo possa nutrire desideri fecondi, e che non tutti i pensieri siano accompagnati dalla volontà e dall'energia necessarie per tradurre in atto i desideri.
La prima parvenza del ponte destinato a sorgere balenò, naturalmente ancora del tutto vaga e nebulosa, nella fantasia di un ragazzo decenne del vicino villaggio di Sokolovici, un mattino dell'anno 1516, quando egli venne condotto qua nel corso di un viaggio che lo doveva portare dal suo paese natio alla lontana Istanbul, splendida e terribile. Allora questa stessa Drina, verde e impetuoso fiume montano "che spesso si intorbida", passava per di qua, corrodendo le sponde nude e deserte, rocciose e sabbiose che la fiancheggiano. La cittadina esisteva anche allora, ma aveva forme e dimensioni diverse da quelle odierne. Sulla sponda destra del fiume, in cima all'erto colle dove adesso sono le macerie, era ben conservato un vecchio castello, una ramificata fortificazione risalente al tempo del rigoglio del regno di Bosnia, con le sue torri, le casematte e i bastioni, opera di uno dei potenti magnati di Pavlovici. Sui pendii, al disotto di questo castello, e sotto la sua protezione, sorgevano i centri cristiani di Mejdan e Bikavac, nonch‚ la frazione di Dushtche, quasi completamente turcizzata. Giù nella pianura, tra la Drina e il Rzav, dove poi si sarebbe sviluppata la città vera e propria, c'erano soltanto i campi dei vishegradesi, tagliati da una strada lungo la quale si trovavano una locanda turca all'antica, di legno, alcuni mulini ad acqua e qualche casupola.
Là dove la Drina taglia la strada c'era il famoso "traghetto di Vishegrad", un nero vecchio battello, con sopra un traghettatore burbero e neghittoso, di nome Jamak, dal quale, quando era sveglio, era più difficile farsi sentire di quanto non fosse destare un altro immerso in un profondissimo sonno. Era un uomo di statura gigantesca e di forza non comune, ma malandato a causa di numerose guerre nelle quali s'era coperto di gloria. Aveva un solo occhio, un solo orecchio ed una sola gamba (l'altra ce l'aveva di legno). Così conciato, senza mai salutare e senza mai sorridere, trasportava merci e viaggiatori, col suo fare lunatico e capriccioso, lentamente e disordinatamente, ma in modo onesto e sicuro, sì che nei racconti si parlava tanto della sua fidatezza e della sua onestà quanto della sua lentezza e dei suoi estri. Coi viaggiatori che traghettava non voleva n‚ parlare n‚ avere rapporti. I soldi di rame dovuti per il trasporto, la gente li buttava sul fondo della nera barca, e lì rimanevano per tutto il giorno in mezzo alla sabbia e all'acqua; soltanto la sera il traghettatore li raccoglieva indolentemente con la ciotola di legno che gli serviva per togliere l'acqua dal battello, e se li portava nella sua casupola sulla riva.
Il traghetto funzionava solamente quando il corso e l'altezza del fiume erano regolari o appena un po' superiori alla norma, ma bastava che l'acqua si intorbidasse e salisse oltre un certo livello perché‚ Jamak si trascinasse via la sua goffa imbarcazione per assicurarla con solidi legami in una insenatura: allora la Drina diventava invalicabile come il più grande dei mari. Jamak, in quei casi, diveniva sordo anche dall'orecchio buono, oppure semplicemente se ne andava verso il Castello per lavorare al suo campo. Per tutto il giorno, allora, si potevano scorgere sull'altra sponda i viaggiatori in arrivo dalla Bosnia, i quali se ne stavano disperati sulla riva rocciosa, donde, intirizziti e zuppi di pioggia, guardavano invano la barca ed il traghettatore e, di tanto in tanto, lanciavano prolungate invocazioni al disopra del fiume torbido e furioso.
®Ooooh, Jamaaaak!¯
Nessuno rispondeva, nessuno si mostrava fintantoch‚ l'acqua non decresceva; ma era lo stesso Jamak che, con lo sguardo torvo, implacabile, senza ascoltare obiezioni e senza fornire spiegazioni, stabiliva quale dovesse essere il momento opportuno.
La cittadina, che in quel tempo, appunto, era ancora un piccolo borgo angusto, si trovava sulla riva destra della Drina, su per i declivi dell'erto poggio, sovrastata dalle rovine dell'antica fortezza, perché‚ allora non possedeva neppure il perimetro e l'aspetto che assunse soltanto in seguito, dopo che il ponte venne costruito e le comunicazioni e i traffici si furono sviluppati.
Quel giorno di novembre giunse alla riva sinistra del fiume una lunga teoria di cavalli carichi, e si fermò per trascorrervi la notte. L'"aga" (1) dei giannizzeri, con la sua scorta armata, se ne tornava a Istanbul dopo aver raccolto tra i villaggi della Bosnia orientale un certo numero di bambini cristiani come "tributo di sangue".
Erano già trascorsi sei mesi dall'ultima riscossione di questo tributo di sangue, così che questa volta la cernita era stata facile e abbondante; senza difficoltà era stato trovato il numero richiesto di ragazzi sani, svegli e prestanti tra i dieci e i quindici anni, sebbene molti genitori avessero nascosto i loro figli nel bosco, o avessero insegnato loro a simulare l'imbecillità oppure a zoppicare, li avessero rivestiti di stracci e li avessero lasciati nel sudiciume, al solo fine di salvarli dalla requisizione dell'"aga". Alcuni avevano perfino mutilato a posta le proprie creature, tagliando loro un dito della mano.
I ragazzi selezionati erano stati fatti proseguire sui piccoli cavalli bosniaci, in lunga fila. Su ogni cavallo c'erano due canestri intrecciati, del tipo di quelli che si adoperano per la frutta, uno a ogni fianco, e in ogni canestro era stato posto un ragazzo con un piccolo pacco e una forma di focaccia, ultime cose portate dalla casa paterna. Da questi canestri, che oscillavano e scricchiolavano in maniera uniforme, sbirciavano i volti freschi e impauriti dei ragazzi rapiti. Alcuni guardavano tranquillamente, oltre le groppe dei cavalli, quanto più fosse possibile in lontananza il paese natìo, altri mangiavano e piangevano nello stesso tempo, altri ancora dormivano, la testa appoggiata al basto.
A una certa distanza dagli ultimi cavalli di quella inconsueta carovana avanzavano, sparpagliati e ansimanti, diversi genitori o parenti di quei ragazzi che venivano condotti via per sempre, destinati a essere circoncisi in una terra straniera, a essere turcizzati e, avendo dimenticato la propria fede, il proprio paese e la propria origine, a trascorrere la vita nei reparti dei giannizzeri o in qualche altro servizio superiore dell'impero. Erano per lo pi— donne, soprattutto madri, nonne e sorelle dei ragazzi portati via. Quando si avvicinavano troppo, i cavalieri dell'"aga" le disperdevano a colpi di frusta, avventando contro di loro i cavalli con alte grida. Esse, allora, si disperdevano e si nascondevano nel bosco che fiancheggiava la strada, ma dopo poco si raggruppavano nuovamente dietro al corteo e si sforzavano di raggiungere ancora una volta con gli occhi lagrimosi, al disopra delle ceste, le teste dei bambini che venivano loro strappati. Particolarmente tenaci e irrefrenabili erano le madri: correvano, con spedito calpestìo, senza guardare dove mettevano i piedi, nudi i petti, scarmigliate, dimentiche di tutto intorno a s‚, lamentandosi e dolendosi come per un morto; altre, uscite fuori di senno, gemevano, urlavano come si sentissero lacerare l'utero nei dolori del parto, e, accecate dal pianto, andavano a cadere proprio sotto le fruste dei cavalieri, e ad ogni colpo di frusta replicavano con una domanda insensata: ®Dove lo portate? Dove me lo portate?¯. Alcune tentavano di chiamare distintamente il proprio figlio e di dargli ancora qualcosa di s‚, quanto può essere contenuto in due parole, un'ultima raccomandazione o un avvertimento per il viaggio.
®Rade, figlio mio, non dimenticare tua madre...¯
®Ilija! Ilija! Ilija!¯ gridava un'altra donna, cercando disperatamente con gli occhi la nota, cara testa, e ripetendo quel grido incessantemente, come volesse scolpire nella memoria del ragazzo quel nome che, soltanto qualche giorno dopo, gli sarebbe stato tolto per sempre.
Ma il cammino era lungo, la terra dura, il corpo debole, e gli ottomani forti e spietati. A poco a poco quelle donne rimanevano indietro e, spossate dal gran camminare, cacciate dalle frustate, chi prima chi dopo, rinunciavano alla disperata fatica. Qui, al traghetto di Vishegrad, dovevano fermarsi anche le piùostinate, perché‚ sul battello non le prendevano e non era possibile passare attraverso l'acqua. Potevano sedere quietamente sulla sponda e piangere, dato che nessuno le cacciava pi—. Qui aspettavano come pietrificate e insensibili alla fame, alla sete e al freddo, finché‚ vedevano ancora una volta sull'altra riva del fiume la lunga teoria di cavalli e di cavalieri che si dirigevano verso Dobrun, e in quella fila avvertivano ancora una volta la presenza della propria creatura che spariva dai loro occhi.
Quel giorno di novembre, in una di quelle numerose ceste, se ne stava silenzioso, guardandosi intorno con gli occhi asciutti, un ragazzo di dieci anni dal volto scuro, proveniente da Sokolici alta. Nella mano intirizzita e arrossata stringeva un piccolo temperino ricurvo, col quale distrattamente intagliava l'orlo della sua cesta, ma al tempo stesso osservava tutto quel che era intorno. Nella sua mente si impressero la riva rocciosa, coperta di salici radi, spogli e desolatamente grigi, il deforme traghettatore ed il cadente mulino ad acqua, pieno di ragnatele e di correnti d'aria, in cui dovettero pernottare prima che tutti attraversassero la torbida Drina, sulla quale gracchiavano le cornacchie. Come un malessere fisico in qualche parte del suo corpo ù una nera striscia che, per un secondo o due, di tanto in tanto gli fendesse il petto in due provocando un forte doloreù il ragazzo assorbì il ricordo di quel luogo in cui la strada si spezzava, dove le disperazioni e gli sconforti della miseria si addensavano per depositarsi sulle rocciose sponde del fiume attraverso il quale si passava con difficoltà, a caro prezzo e con grande rischio. Era quello il ricettacolo delle dolorose ferite della regione, anche per altri versi aspra e povera, dove la tribolazione diveniva manifesta ed evidente, dove l'uomo era arrestato dalla superiore forza degli elementi e, vergognoso per la propria impotenza, era costretto a vedere e a contemplare piùchiaramente le sue e le altrui sventure e arretratezze.
Tutto questo era in quel fastidio fisico che si impresse nel ragazzo in quel giorno di novembre e che in seguito non lo abbandonò mai completamente, bench‚ egli mutasse vita e fede, nome e patria. Quel che divenne poi il ragazzo della cesta lo narrano tutte le storie in tutte le lingue, ed É conosciuto piùnel vasto mondo che qui da noi. Col tempo egli divenne un giovane e valoroso dignitario alla corte del sultano, poi "kapudan pascià" (2), quindi genero dell'imperatore, condottiero e statista di fama mondiale, Mehmed Pascià Sokoli, che in tre continenti combatt‚ guerre per lo pi— vittoriose e ingrandì i confini dell'impero turco, lo rese sicuro all'esterno e, col buon governo, lo consolidò all'interno. Per oltre sessanta anni servì tre sultani, provò nel buono e nel cattivo quel che soltanto pochi ed eletti provano, e si erse ad altezze di potere e di autorità a noi ignote, dove solo pochi di loro giungono e rimangono. Quest'uomo nuovo, sorto in terra straniera, dove neppure col pensiero possiamo accompagnarlo, dov‚ dimenticare tutto quel che aveva lasciato nel paese dal quale un tempo lo avevano portato via. Indubbiamente dimenticò anche il passaggio sulla Drina sotto Vishegrad; la deserta sponda sulla quale i viaggiatori tremavano per il freddo e per l'incertezza, il lento battello tarlato, il mostruoso traghettatore e le cornacchie fameliche sopra la torbida acqua. Ma il senso di fastidio derivante da questo insieme di cose non gli scomparve mai del tutto. Al contrario, con l'andare degli anni e con l'avvicinarsi della vecchiaia, venne manifestandosi sempre più di frequente: sempre la stessa striscia nera che passava attraverso il petto e lo trafiggeva con quel particolare dolore, ben noto fin dal tempo dell'infanzia e nettamente diverso da tutte le pene e i dolori aggiunti poi dalla vita. Con gli occhi serrati, il visir aspettava allora che la nera lama passasse, e si placasse il dolore. In uno di questi momenti gli venne di pensare che avrebbe potuto liberarsi da quel fastidio se avesse cancellato il traghetto sulla lontana Drina, sul quale si ammucchiavano e si depositavano ininterrottamente miserie e disgrazie di ogni specie, gettando un ponte tra le sponde scoscese e sulla cattiva acqua che scorreva in mezzo a esse, congiungendo i due capi della strada là interrotta, e legando in tal modo per sempre e saldamente la Bosnia con l'Oriente, il luogo della sua origine coi luoghi della sua vita. Così egli fu il primo che, per un istante, di sotto le palpebre chiuse, vide la solida e snella sagoma del grande ponte di pietra che sarebbe sorto in quel luogo.
Già in quell'anno ebbe inizio, per ordine e a spese del visir, la costruzione del grande ponte sulla Drina. I lavori durarono cinque anni. Dovette essere quella un'epoca straordinariamente vivace e importante per la cittadina e per tutta la regione, piena di trasformazioni e di eventi piccoli e grandi. Ma, fatto strano, nella cittadina, la quale per secoli ha ricordato e raccontato avvenimenti di ogni sorta, e anche di quelli appena indirettamente connessi col ponte, non si sono conservati molti particolari circa l'esecuzione dei lavori per quell'opera.
Il popolo rammenta e racconta solo quello che può comprendere e che riesce a trasformare in leggenda. Tutto il resto gli scorre accanto senza lasciare una traccia profonda, con la muta indifferenza degli anonimi fenomeni naturali, non eccita la sua fantasia e non si ferma nel suo ricordo. Questa faticosa e lunga costruzione fu per esso un lavoro altrui e a spese altrui. Soltanto quando, come frutto di quello sforzo, apparve all'improvviso il grande ponte, la gente cominciò a rammentare i particolari e a ornare l'origine di quel ponte concreto, ben costruito e durevole, con racconti fantastici, che essa stessa, a sua volta, sapeva abilmente costruire e ricordare a lungo.
NOTE
1. "Signore" in turco. (Nota del Traduttore)
2. Comandante supremo della flotta, grande ammiraglio. (Nota del Traduttore) 3.
La primavera dell'anno in cui il visir decise di effettuare la costruzione, giunsero nella cittadina i suoi uomini col seguito per approntare tutto l'occorrente per il ponte. Erano in molti con cavalli, carriaggi, vari strumenti e tende. La loro apparizione suscitò paura e turbamento nella piccola città e nei villaggi circostanti, specialmente tra i cristiani.
A capo di questa comitiva c'era Abidaga, il principale uomo di fiducia del visir per la costruzione del ponte, e con lui era Tosun "efendija" (1), l'Architetto. (Di questo Abidaga fin da prima si parlava come di un uomo privo di scrupoli, oltremodo implacabile e severo.) Quando si furono sistemati nelle tende sotto Mejdan, Abidaga convocò per una riunione i rappresentanti delle autorità locali e tutti i turchi pi— ragguardevoli. Non si discusse molto, perché‚ parlò soltanto uno, vale a dire Abidaga. Le persone convenute si trovarono dinanzi un uomo grosso, dal volto rubizzo come quello di un malato e dagli occhi verdi, avvolto in un ricco costume di Istanbul, con una barbetta rossiccia e i baffoni stranamente piegati in alto alla maniera ungherese. Il discorso che quest'uomo veemente tenne alle persone radunate, le sorprese ancor piùdel suo aspetto.
®Con ogni probabilità, prima che io giungessi, vi sono pervenute voci sul mio conto, e io so che queste voci non possono essere n‚ belle n‚ piacevoli. Verosimilmente avrete sentito dire che esigo lavoro e obbedienza da ognuno, che colpisco e ammazzo chiunque non lavora come si deve e non obbedisce senza sollevare obiezioni, che non so cosa significhi "non É possibile" e "non c'É", che con me anche per una parola di poco conto ci si giuoca la testa, insomma che sono un uomo sanguinario e malvagio. Desidero dirvi che queste voci non sono n‚ inventate n‚ esagerate. Sotto il mio tiglio, in verità, non c'É ombra. Questa fama me la sono acquistata durante lunghi anni di servizio, eseguendo con dedizione gli ordini del gran visir. Confidando in Dio, condurrò a termine anche questo lavoro per il quale sono stato mandato, e quando, terminato il lavoro, me ne andrò di qui, spero che mi precederà una fama ancora peggiore e piùfosca di quella che vi É giunta.¯
Dopo questo inconsueto preambolo, che tutti ascoltarono in silenzio e con gli occhi bassi, Abidaga spiegò ai presenti che si trattava di erigere un'opera di grande rilievo quale non possedevano neppure paesi piùricchi; i lavori sarebbero durati cinque, forse perfino sei anni, ma in ogni caso la volontà del visir sarebbe stata eseguita scrupolosamente per filo e per segno. Detto questo, accennò alle prime necessità e ai lavori preliminari ed espose quanto si aspettava dai turchi del luogo ed esigeva dai cristiani.
Accanto a lui sedeva Tosun "efendija", un cristiano islamizzato di corporatura minuta, pallido e giallo, nato in una delle isole greche, architetto, il quale, per ordine di Mehmed Pascià, aveva costruito molte opere pie a Istanbul. Era tranquillo e indifferente, come non sentisse o non comprendesse il discorso di Abidaga. Guardava fissamente le proprie mani e solo di tanto in tanto sollevava gli occhi. In questi momenti si potevano vedere le sue grandi pupille nere di uno splendore vellutato, belle pupille miopi di un uomo che badava solo al proprio lavoro, senza scorgere, percepire o comprendere altro della vita e del mondo.
I convenuti uscirono agitati e depressi dall'angusta e rovente tenda, notando come il sudore colasse loro di sotto le nuove vesti di festa e come in ciascuno di loro fossero penetrati, rapidi e irresistibili, terrori e ansie.
Quel che ora s'era abbattuto sulla cittadina e sull'intera regione era una grande, inspiegabile sventura della quale non si riusciva a scorgere la fine. Dapprima cominciò il taglio del bosco e il trasporto del legname. Furono tanti i tronchi che transitarono sulle due sponde della Drina, che la gente per lungo tempo ritenne che il ponte sarebbe stato costruito di legno. Poi seguirono i lavori sul terreno, lo scavo, quindi la trivellazione della riva pietrosa. La maggior parte di questi lavori venne eseguita mediante corv‚. E così si arrivò fino all'autunno inoltrato, quando i lavori vennero temporaneamente interrotti, essendo stata completata la prima fase costruttiva. Tutto ciò avveniva sotto il controllo di Abidaga e sotto il suo lungo randello verde che passò anche nelle canzoni. Se egli infatti con quel randello indicava qualcuno che perdeva tempo e non lavorava come si conveniva, il malcapitato era subito afferrato dai soldati, che lo bastonavano sul posto, gli versavano addosso acqua mentre era tutto insanguinato e svenuto, e infine lo rimandavano al lavoro. Quando, in autunno inoltrato, lasciò la cittadina, Abidaga convocò di nuovo i capi e gli anziani e disse loro che andava a trascorrere l'inverno in un altro luogo, ma che il suo occhio rimaneva là. Tutti sarebbero stati responsabili per ogni cosa. Se fosse risultato che qualcosa era stato danneggiato tra i lavori eseguiti o che era stata sottratta anche una sola assicella del legname ammassato, avrebbe imposto una multa a tutta la città. Quando gli fecero notare che qualche guasto avrebbe potuto essere provocato anche dall'inondazione, rispose con voce fredda e senza esitare che quella era la loro regione, e che quindi erano loro anche il fiume e i danni da esso arrecati. Per tutto l'inverno gli abitanti della cittadina vigilarono il materiale e badarono ai lavori come a un occhio della loro testa. Con la primavera riapparvero Abidaga e Tosun "efendija", ma apparvero anche gli scalpellini dalmati che il popolino chiamava i "maestri romani". All'inizio erano circa trenta, guidati da un certo mastro Antonije, un cristiano di Dulcigno. Era questi un uomo alto e bello, dagli occhi grandi, dallo sguardo ardito, dal naso aquilino, dai capelli bruni che gli scendevano sulle spalle, vestito signorilmente, secondo la moda occidentale. Suo aiutante era un moro, un vero moro, un giovane allegro che tutta la cittadina e tutti gli addetti ai lavori chiamarono Arapin.
Se l'anno precedente, a giudicare dall'enorme quantità di legname, era sembrato che Abidaga avesse intenzione di erigere un ponte di legno, adesso tutti ritennero che egli volesse erigere una nuova Istanbul là sulla Drina. Cominciò ora il trasporto della pietra dalle miniere dei monti presso Banja, a un'ora di cammino dalla città.
L'anno successivo vicino al traghetto di Vishegrad spuntò una singolare primavera. Accanto a tutto quello che germoglia e fiorisce ogni anno in quella stagione, nacque dalla terra tutto un villaggio di capanne; si formarono nuovi sentieri e accessi all'acqua; si sparsero ovunque carriaggi trainati da buoi e cavalli da tiro. La gente di Mejdan e di Okolishte osservava come ogni giorno, al pari di un campo seminato, giù vicino al fiume, cresceva l'enorme massa di uomini, di bestie e di materiale da costruzione di ogni tipo.
Sulla ripida sponda lavoravano i maestri scalpellini. L'intera zona acquistò il colore giallognolo della polvere di pietra. E un po' pi— in là, sulla piana sabbiosa, preparavano la calce spenta i lavoratori giornalieri del luogo, i quali si muovevano veloci, laceri e bianchi, attraverso il candido fumo che si sollevava alto dal calcare. Le strade erano ingombre di carri sovraccarichi e il traghetto lavorava tutto il giorno, trasportando da una riva all'altra materiale, assistenti e operai. Guazzando nella torbida acqua primaverile fino alla cintola, operai specializzati conficcavano travi e pali e costruivano graticci impastati d'argilla destinati a dividere il corso del fiume.
Tutto questo osservava la gente che, fino ad allora, aveva vissuto tranquilla nella sua piccola città sparpagliata sui pendii accanto al traghetto. E sarebbe andata bene se si fosse limitata a osservare, ma quei lavori assumevano un volume e un ritmo tali che attraevano nel loro turbine tutto quel che c'era, di vivo e di morto, non solo nella cittadina ma anche in una vasta zona circostante. Il secondo anno il numero degli operai crebbe fino a raggiungere una cifra corrispondente a tutti gli abitanti maschi della città. Tutti i carri, tutti i cavalli e i buoi lavoravano soltanto per il ponte. Tutto quanto poteva strisciare e rotolare veniva preso e messo all'opera, talvolta a pagamento, talvolta per forza, col sistema della corv‚. Il denaro circolava piùdi prima, ma il rincaro dei prezzi e la carenza di merce aumentavano con un ritmo piùrapido dell'incremento dei quattrini, così che questi, quando giungevano nelle mani di qualcuno, avevano già perduto la metà del valore. Per la gente del luogo, conseguenze ancora peggiori del rincaro e della penuria provocarono l'irrequietezza, il disordine e l'incertezza che si riversarono adesso sulla cittadina per effetto dell'assembramento di tanti lavoratori giunti da ogni dove.
Nonostante tutta la severità di Abidaga, erano frequenti le risse tra operai e le ruberie negli orti e nei cortili. Le donne musulmane dovevano coprirsi il volto anche quando uscivano nel cortile, poiché‚ da ogni luogo poteva giungere lo sguardo di quegli innumerevoli lavoratori, forestieri o locali; e i turchi della città si attenevano scrupolosamente alle prescrizioni dell'Islam, tanto piùche erano tutti turchi di recente data e in mezzo a loro non c'era quasi nessuno che non ricordasse un padre o un nonno cristiano o da poco turcizzato. Per tutto questo i piùanziani tra coloro che osservavano la legge turca disapprovavano apertamente e volgevano le spalle a quella confusa calca di operai, di bestiame da tiro, di legname, di terra e di pietra che si estendeva e si imbrogliava sempre piùsu entrambi i lati del traghetto e che, scavando e ampliandosi, cominciava a raggiungere anche i loro vicoli, i loro cortili e i loro giardini.
All'inizio tutti quanti erano stati orgogliosi della grande opera che il visir doveva erigere nella loro contrada. Ma allora non sapevano ancora quel che ora vedevano: che quella superba costruzione richiedeva tanta confusione e inquietudine, tanta fatica e tante spese. E' bello, avevano pensato, appartenere alla vera fede che impera, É bello avere un conterraneo che É visir a Istanbul, e ancora piùbello É concepire un solido e prezioso ponte sul fiume, ma quello che adesso succedeva non era affatto piacevole. La loro città s'era trasformata in un inferno, in una tregenda di attività incomprensibili, di fumo, di polvere, di grida e di baraonda. Gli anni passavano, i lavori si ampliavano e si sviluppavano, ma non se ne vedeva n‚ la fine n‚ il senso. A tutto rassomigliava quella costruzione, tranne che a un ponte.
Così pensavano i turchi della città recentemente passati alla fede islamica, e, quando si trovavano a quattr'occhi, ammettevano che tutto era andato loro di traverso ed era rimasto sullo stomaco: il dominio, l'orgoglio e la gloria futura; e così si scrollavano di dosso il pensiero del ponte e del visir, e di niente altro pregavano Iddio se non di liberarli da quella sciagura e di rendere a loro e alle loro case la pace di un tempo e la tranquillità di una vita modesta, accanto all'antiquato traghetto del fiume.
La storia era venuta a noia ai turchi, ed era venuta a noia specialmente ai cristiani di tutta la contrada di Vishegrad, soltanto che ai cristiani nessuno rivolgeva domande, n‚ essi potevano palesare il loro malcontento. Ed ecco che correva il terzo anno da che si era cominciato a lavorare alla nuova costruzione con corv‚, con lavori personali, con cavalli e con buoi. E questo facevano non solamente i cristiani locali, ma anche quelli di tre distretti circostanti. Ovunque i soldati a cavallo di Abidaga catturavano i cristiani delle campagne e anche quelli delle città, e li costringevano a lavorare al ponte. Di solito sorprendevano le loro vittime nel sonno e le acchiappavano come pulcini. Per la Bosnia intera i viaggiatori consigliavano coloro che incontravano per strada a non andare verso la Drina, perché‚ chiunque trovassero lo prendevano, senza chiedergli chi fosse n‚ dove andasse, e lo costringevano a pagare il proprio riscatto col lavoro di almeno qualche giorno. I cristiani delle città si riscattavano corrompendo i soldati con regali. Quelli dei villaggi cercavano di fuggire nel bosco, ma i soldati immediatamente prendevano dalle loro case gli ostaggi, spesso anche donne, al posto dei giovani fuggiti.
E' questo il terzo autunno che la gente sgobba presso il ponte, e non c'É alcun sintomo dal quale risulti che il lavoro vada avanti e che si avvicini la fine di questa tribolazione. L'autunno É già al colmo; sono cadute le foglie, le strade hanno ricevuto le prime spruzzate di pioggia, la Drina s'É ingrossata e intorbidita, i nudi campi di stoppie sono pieni di lente cornacchie. Ma Abidaga non interrompe i lavori. Sotto lo scialbo sole novembrino i contadini trascinano legna e pietrame, guazzano a piedi nudi o con le cioce insanguinate nella strada fangosa, sudano per la fatica e tremano per il freddo vento, si stringono addosso i loro rustici calzoni neri, pieni di nuovi buchi e di vecchie toppe, legano i lembi lacerati della loro unica camicia, annerita dalla pioggia, dal fango e dal fumo, che tuttavia non osano lavare perché‚ nell'acqua si spappolerebbe tutta in minuti filacci. Su tutti É sospeso il randello verde di Abidaga, poiché‚ questi va a ispezionare la cava di Banja e tutti i lavori intorno al ponte, pi— volte al giorno. E' adirato e astioso contro tutti, perché‚ i giorni passano e l'impresa non progredisce così velocemente come avrebbe voluto. Con la sua pesante pelliccia russa e i suoi alti stivali, rosso in viso, si arrampica tra le impalcature dei pilastri che già si ergono sull'acqua, entra nelle fucine, nei depositi e nelle capanne degli operai, e aggredisce tutti, l'uno dopo l'altro, i sorveglianti e gli imprenditori.
®Le giornate sono brevi. Sempre piùbrevi! Oh, figli di cagna, non sapete far altro che mangiare il pane a ufo!¯
Strilla tanto, come se fosse loro colpa il fatto che il sole spunta tardi e tramonta presto. E quando scende il crepuscolo, l'inesorabile disperato crepuscolo di Vishegrad, quando le erte montagne si stringono attorno alla cittadina e cala rapidamente la notte, profonda e sorda come se fosse l'ultima, la furia di Abidaga raggiunge il suo culmine; e, non avendo piùqualcuno su cui sfogarsi, egli si strugge da solo e non può dormire al pensiero di tanti lavori che languono e di tanta gente che se ne sta inerte e perde il suo tempo. Allora digrigna i denti. Manda a chiamare i sorveglianti e si ingegna di trovare qualche sistema per potere, a partire dall'indomani, impiegare meglio la giornata e sfruttare piùrazionalmente i lavoratori adibiti all'impresa.
Nel frattempo la gente dorme nelle capanne e nei tuguri, si riposa e ristora le proprie energie. Ma non tutti dormono, anche essi sanno stare svegli, per loro conto e a loro modo.
In un vasto e asciutto tugurio arde il fuoco nel mezzo, pi— propriamente finisce di bruciare, perché‚ di esso É rimasta soltanto la brace che cova in quell'ambiente semibuio. L'intero locale É pieno di fumo e di pesante puzzo acidulo proveniente dai vestiti bagnati, dalle cioce e dalla traspirazione di una trentina di corpi umani. Sono tutti lavoratori a corv‚, contadini dei dintorni, cristiani, poveri servi della gleba. Sono tutti fangosi, zuppi, esausti e preoccupati. Li sfibra quel lavoro non retribuito e disperato, mentre i loro campi, lass— nei villaggi, aspettano invano l'aratura autunnale. La maggior parte di loro É ancora sveglia. Fanno asciugare le pezze da piedi accanto al fuoco, ricuciono le cioce, oppure si limitano a guardare la brace. In mezzo a loro si trova, chi sa come, un montenegrino, sorpreso dai soldati per la strada, che sgobba già da qualche giorno, sebbene vada continuamente dicendo e dimostrando a tutti che ciò lo amareggia molto e che questo genere di lavoro non gli fa onore. Adesso s'É radunata attorno a lui la maggior parte di coloro che sono svegli, e specialmente i piùgiovani. Da una profonda tasca della sua veste grigia il montenegrino estrae le "gusle" (2), poco appariscenti e piccole come il palmo di una mano, e un corto archetto. Uno dei contadini esce dal tugurio e si mette di sentinella, per avvertire se arriva qualche turco. Tutti osservano il montenegrino come se lo vedessero adesso per la prima volta e fissano le "gusle" che spariscono nelle sue grandi mani. Egli si piega; le "gusle" gli stanno in grembo e ne regge col mento la cima, unge di resina la corda e soffia nell'archetto; ora ogni cosa É umida e stiepidita. E mentre l'uomo esegue tutte queste piccole azioni, sicuro di s‚ e tranquillo come se fosse solo al mondo, gli altri lo guardano immobili. Finalmente risuona la prima nota, aspra e diseguale. L'emozione aumenta. Il montenegrino accorda il suo strumento e comincia ad emettere la propria voce attraverso il naso, completando con essa il suono delle "gusle". Tutto si fonde armonicamente e tutto preannuncia una strana storia. E a un certo momento, dopo che ha alla meglio aggiustato la sua voce sulle "gusle", il cantore getta davvero indietro la testa, tutt'a un tratto, con vigore ed alterigia, così che il pomo d'Adamo gli si staglia sul magro collo e il profilo acuto gli sfavilla nel chiarore. Poi emette un suono smorzato e prolungato: "Aaaa aaaaaa!", e subito continua con tono chiaro e tripudiante:
Beve il vino Stevan, il re serbo, a Prizren, città mansueta. son con lui gli anziani patriarchi: son con lui quattro patriarchi, nove vescovi sono in mezzo a loro, e venti visir da tre code equine, e in fila i nobili di Serbia. Passa il vino Mijajlo il dispensiere, e fa luce la sorella Kandosija con le pietre preziose del seno...
I contadini si accalcano sempre piùvicino al "guslar", ma senza fare il minimo rumore; non si sente neppure il loro respiro. Tutti battono le ciglia, stupiti e abbagliati. Per le schiene passano brividi, le spine dorsali si rizzano, i petti si gonfiano, gli occhi brillano, le dita delle mani si allargano e si contraggono, i muscoli delle mascelle si irrigidiscono. Il montenegrino ricama e arricchisce il suo canto sempre piùvelocemente, rendendolo sempre piùbello e ardito, e quella gente bagnata, ormai scossa dal sonno, rapita e insensibile a tutto il resto, segue la canzone come se fosse il proprio destino, pi— bello e luminoso.
Tra tanti lavoratori forzati c'era anche un certo Radisav di Unishte, piccolo villaggio subito sopra la città. Piuttosto basso, dal volto scuro e dagli occhi irrequieti, curvo sulla cintura, camminava rapido allargando le gambe e dondolando la testa e le spalle ora a sinistra ora a destra, ora a sinistra ora a destra, come se stacciasse la farina. Non era n‚ tanto povero quanto sembrava n‚ tanto rozzo quanto fingeva d'essere. Era della famiglia degli Heraci, i quali possedevano buona terra e avevano la casa piena di maschi, ma durante gli ultimi quarant'anni quasi tutto il loro villaggio aveva abbracciato la fede islamica, sì che si sentivano molto oppressi e isolati. E così piccolo, acquattito e frettoloso, questo Radisav durante le notti autunnali andava "stacciando" da un tugurio all'altro, entrava di soppiatto, intrufolandosi come un punteruolo tra i contadini, e si metteva a parlare sottovoce con questo o con quello. I suoi discorsi avevano, in sostanza, questo tenore:
®Fratelli, ora ne abbiamo abbastanza, e bisogna che ci difendiamo. Vedete da soli che questa costruzione ci esaurirà e ci sfibrerà. Anche i nostri figli saranno costretti a sgobbare per il ponte, se pure resteremo in vita. Questo lavoro si fa per mandarci in rovina, non per altro. Il ponte non serve ai poveracci e ai cristiani, ma ai turchi; noi n‚ mettiamo in campo eserciti n‚ traffichiamo; e il traghetto per noi É sufficiente. Così ci siamo accordati per andare, nel cuore della notte, ad abbattere e a danneggiare tutto quel che si può di quanto É fabbricato e costruito, e per spargere la voce che la "vila" (3) distrugge ciò che si fa e non vuole concedere il ponte alla Drina. Vedremo se ciò gioverà a qualcosa. Altri mezzi non abbiamo, e qualcosa occorre fare.¯
Come sempre accade, ci furono alcuni, pusillanimi e diffidenti, che considerarono inutile questa idea, poiché‚ i forti e astuti turchi non si sarebbero lasciati distogliere dal loro proposito, e pensarono che fosse necessario continuare a prestare il proprio lavoro finché‚ Dio avesse voluto, per non cadere dalla padella nella brace. Ma vi furono anche di quelli che ritennero che era sempre meglio fare qualcosa piuttosto che seguitare ad arrabattarsi attendendo che cadesse di dosso fin l'ultimo cencio di vestito e l'ultima rimanenza di energia a causa del duro lavoro e dello scarso pane di Abidaga; che occorreva seguire chiunque pensasse di arrivare a una qualche via d'uscita.
Furono in sostanza i giovani, ma a loro si unirono anche uomini posati, ammogliati, padri di famiglia, che acconsentirono, senza grande passione e senza avventatezza, dicendo con aria preoccupata: ®Andiamo dunque a demolirlo, accidenti a lui, prima che mandi in rovina tutti noi. E se neanche questo gioverà...¯.
E a questo punto scrollarono la mano con disperata risolutezza. Così, in quei primi giorni d'autunno, dapprima tra gli operai, poi nella cittadina, si sparse la voce che la "vila" della Drina intralciava i lavori per il ponte, distruggendo e abbattendo notte tempo ciò che si edificava di giorno, e che la costruzione non sarebbe giunta ad effetto. Contemporaneamente cominciarono davvero a verificarsi di notte misteriosi danni nei punti protetti da argini, e in seguito anche nei lavori di muratura. Gli utensili che fino ad allora gli operai avevano lasciato sui pilastri finali, di cui era iniziata la costruzione, cominciarono a perdersi e a scomparire, le opere sul terreno presero a crollare e a disfarsi.
La voce che sarebbe stato impossibile ultimare il ponte si sparse per largo tratto, diffusa da turchi e da cristiani, acquistando sempre pi— l'aspetto di una salda convinzione. I cristiani esultavano, sempre sottovoce, sempre in maniera impercettibile e di soppiatto, ma con tutto il cuore. Anche i turchi del luogo, che prima avevano guardato con orgoglio alla costruzione del visir, cominciarono ad ammiccare e a scrollare le mani con aria sprezzante. Molti cristiani rinnegati che, avendo mutato fede, non avevano trovato quello che si aspettavano, ma avevano continuato ad avere magri pasti e ad andare in giro coi gomiti rotti, ascoltavano e riferivano con diletto i racconti sul grande insuccesso e provavano un'amara soddisfazione nel constatare che neppure i visir potevano attuare tutto quello che si proponevano. Si diceva già che i maestri forestieri s'apprestavano alla partenza e che il ponte non sarebbe sorto là dove non era mai stato e dove non si sarebbe dovuto cominciare a fabbricare. Tutte queste voci si confusero e presto si sparsero tra la gente.
Il popolo inventa facilmente le storie e le sparge in fretta, e la realtà si mescola stranamente in un inestricabile groviglio con le storie stesse. I contadini che di notte ascoltavano il "guslar" raccontavano che la "vila" la quale distruggeva le opere eseguite, aveva fatto sapere ad Abidaga che non avrebbe smesso di arrecar danni finché‚ non fossero stati murati nelle fondamenta due gemelli, fratello e sorella, di nome Stoja e Ostoja. E molti giurarono di aver visto i soldati cercare nei villaggi questi due fanciulli. (I soldati, in realtà, eseguivano perlustrazioni, non già per cercare i bimbi, ma perché‚, per ordine di Abidaga, andavano a origliare e a interrogare la gente per identificare gli ignoti che danneggiavano il ponte.) In quel tempo accadde che, in un villaggio presso Vishegrad, restò incinta una ragazza muta e deficiente, un'orfana che prestava servizio presso una famiglia estranea, e neppure lei volle o seppe dire per colpa di chi. Era un evento raro e immemorabile che una fanciulla, e per di piùuna come quella, restasse incinta, e che poi il padre rimanesse sconosciuto. La cosa si riseppe in un vasto raggio. Proprio in quei giorni la ragazza partorì in un tugurio due gemelli, i quali nacquero entrambi morti. Le donne del villaggio l'aiutarono nel parto che fu straordinariamente difficile, e subito seppellirono i bambini in una piantagione di prugni. Già al terzo giorno, questa donna che non era destinata a essere madre s'alzò e si mise a cercare per tutto il villaggio le sue creature. Invano tentarono di spiegarle che i bimbi erano nati morti ed erano stati sepolti. Per liberarsi dalle sue continue domande le dissero, o meglio, le spiegarono con cenni, che i figli erano stati portati nella cittadina, là dove i turchi costruivano il ponte. E così, debole e sconsolata, la ragazza se ne andò nella città e cominciò a cercare intorno alle impalcature e al cantiere, fissando negli occhi gli uomini con aria spaurita e domandando notizie dei bimbi con incomprensibili brontolìi. La gente la guardava con stupore o la cacciava, affinché‚ non disturbasse il lavoro. Accorgendosi che non comprendevano che cosa volesse, ella si sbottonava la rozza camicia da contadina e mostrava i seni, doloranti e turgidi, i cui capezzoli cominciavano ormai a scoppiare e a sanguinare a causa del latte che premeva irresistibilmente. Nessuno sapeva come poterla aiutare e come spiegarle che le sue creature non erano state murate nel ponte, perché‚, a ogni parola buona e assicurazione, a ogni ingiuria e minaccia, rispondeva con un penoso brontolìo e si metteva a investigare in ogni angolo con occhiate penetranti e diffidenti. Alla fine smisero di cacciarla via e la lasciarono bighellonare vicino al cantiere, girandole attorno con penosa compassione. I cuochi le davano la polenta destinata agli operai che era rimasta attaccata in fondo alle caldaie. Le affibbiarono il nome di Ilinka la matta, e così la chiamò l'intera città. Perfino Abidaga le passava vicino senza protestare, girando superstiziosamente la testa, e ordinava che le regalassero qualcosa. Così visse, pazza tranquilla, vicino alla costruzione. Insieme con lei rimase anche il racconto dei turchi che avevano murato nel ponte i bambini. Alcuni ci credevano, altri no, ma tutti lo riferivano e lo diffondevano.
I danni intanto continuarono a verificarsi, a volte minori, a volte maggiori, e nel medesimo tempo si sparsero sempre piùinsistenti le voci secondo le quali le "vile" non concedevano il ponte sulla Drina. Abidaga era su tutte le furie. Gli coceva che si fosse trovato qualcuno il quale, nonostante la sua proverbiale severità, da lui coltivata come particolare motivo d'orgoglio, avesse osato compiere qualcosa contro la sua opera ed i suoi propositi. E poi gli facevano schifo quei vishegradesi, musulmani e cristiani, che erano lenti e inetti al lavoro, ma pronti ai sogghigni e al disprezzo, e sapevano così bene trovare parole beffarde e deleterie per tutto quello che non comprendevano o non riuscivano a fare. Stabilì le sentinelle su entrambi i lati del fiume. I danni ai lavori sul terreno, adesso, cessarono, ma quelli nell'acqua continuarono. Soltanto nelle notti di luna non si verificavano guasti. Questa circostanza rafforzò in Abidaga, il quale non credeva nelle "vile", la convinzione che quella "vila" non fosse invisibile e che non scendesse dall'alto. Per lungo tempo non aveva voluto, non aveva potuto credere a coloro che gli dicevano che si trattava di un'astuzia contadinesca, ma adesso si convinceva sempre piùche era proprio così. E ciò lo rendeva ancora piùfurioso. Nello stesso tempo, tuttavia, egli sapeva bene che doveva starsene tranquillo e nascondere la sua collera, se voleva vigilare e catturare quel fastidioso insetto e infrangere al piùpresto e nella maniera piùcompleta le dicerie relative agli spiriti e all'abbandono dei lavori per il ponte, che potevano divenire pericolose. Chiamò dunque il capo dei soldati, un uomo di Plevlje che era cresciuto a
Istanbul, un tipo pallido e di poca salute.
Questi due individui si facevano istintivamente ribrezzo l'un l'altro, ma nel medesimo tempo si attiravano e si scontravano incessantemente. Tra loro, infatti, si tesseva e ondeggiava di continuo un'incomprensibile sensazione di odio, di repulsione, di terrore e di diffidenza. Abidaga, che con nessuno era tenero e affabile, dinanzi a questo pallido cristiano rinnegato manifestava apertamente il suo disgusto. Tutto quello che egli faceva o diceva irritava Abidaga, inducendolo a rimproverarlo e a umiliarlo. E quanto piùil plevljese si umiliava e si mostrava docile e zelante, tanto piùaumentava il disgusto di Abidaga. Fin dal primo giorno, a sua volta, il capo dei soldati aveva provato diffidenza e una tremenda paura nei riguardi di Abidaga. Col passar del tempo questo orrore s'era trasformato in un tormentoso incubo che non l'abbandonava mai. A ogni passo, a ogni movimento, spesso anche durante il sonno, egli pensava: che dirà di questo, Abidaga? Invano s'era sforzato di conquistarne la grazia e di contentarlo. Tutto quel che veniva da lui era accolto da Abidaga con indignazione. E questo incomprensibile odio sconcertava e confondeva il plevljese rendendolo ancora piùrigido e maldestro. Egli credeva che, a causa di Abidaga, un giorno o l'altro avrebbe perduto non soltanto il pane e la posizione, ma anche la testa. Pertanto viveva in continuo allarme e passava da un abbattimento mortale a un febbrile e crudele fervore. Quando adesso, pallido e rigido, si trovò dinanzi ad
Abidaga, questi gli disse con voce soffocata dall'ira:
®Stammi a sentire, zucca vuota, tu sei esperto di questi maiali, conosci la loro lingua e le loro astuzie, eppure non sei in grado di trovare quel manigoldo che s'É messo in testa di danneggiare l'impresa del visir. Ciò dipende dal fatto che sei una canaglia come loro, soltanto che c'É stata una canaglia ancora peggiore di te che t'ha nominato capo, e nessuno ha saputo pagarti come meriti. Ma lo farò io, se non l'ha fatto nessun altro. Sappi che ti sbatterò per terra in modo che di te non resti l'ombra che possiede il piùpiccolo filo d'erba. Se entro tre giorni non cesserà ogni genere di guasti e di danni ai lavori, se non mi acchiapperai il colpevole e non metterai a tacere tutte le folli chiacchiere sulle "vile" e sulla cessazione dei lavori, ti impalerò vivo sulla piùalta impalcatura in modo che la gente ti veda e, guardando te, si metta paura e si faccia venire il senno in testa. Te lo giuro per la vita e per la fede, con un giuramento che non si fa alla leggera. Oggi É giovedì, hai tempo fino a domenica. E ora vattene a quel diavolo che t'ha fatto capitarmi tra i piedi. Vattene! Via!¯
Anche senza il giuramento il plevljese avrebbe creduto alla minaccia di Abidaga, perché‚ pure nel sonno tremava al solo pensare alla sua voce ed al suo sguardo. Adesso lo prese uno dei suoi convulsi accessi di terror panico e subito si mise disperatamente al lavoro. Radunò tutti i suoi uomini e, passando all'improvviso dalla mortale inerzia alla furibonda collera, prese a ingiuriarli.
®Ciechi! Fannulloni!¯ urlò il plevljese come se lo impalassero vivo, fissando in viso ciascuno dei soldati. ®E' forse così che si fa la guardia e si vigila sul benessere dell'impero? Quando si tratta di andare ai paioli siete tutti veloci e vi movete, ma quando si tratta di scattare per il servizio vi si fermano le gambe e vi scompare il senno. E a causa vostra mi si avvampa la faccia. Ma con me non poltrirete pi—! Sappiate che di quelle impalcature farò una macelleria di soldati! A nessuno di voi rimarrà la testa se entro due giorni questo disastro non finirà e se non agguanterete e massacrerete quei briganti. Avete ancora due giorni di vita, ve lo giuro per la fede e il Corano!¯
Gridò a lungo in questa maniera, ed alla fine, non sapendo cos'altro potesse dire e in qual modo potesse minacciarli, sputò in faccia a tutti loro, l'uno dopo l'altro. Quando si fu sfogato e liberato dall'oppressione della paura che lo aveva lasciato cedendo il posto alla collera, immediatamente si mise al lavoro con disperata energia. Trascorse la notte perlustrando la riva insieme coi suoi ragazzi. A un certo momento sembrò loro che qualcosa battesse contro la parte dell'impalcatura che era maggiormente protesa verso il fiume e si precipitarono là. Sentirono ancora il rumore di una tavola che rotolava, e quello di una pietra che si staccava e cadeva in acqua, ma quando furono sul posto trovarono in realtà l'impalcatura rotta ed il muro rovinato, ma nessuna traccia dei colpevoli. Dinanzi a quello spettrale vuoto i soldati tremarono per l'umidità notturna e il superstizioso spavento. Si chiamarono l'un l'altro, spalancarono gli occhi verso l'oscurità, agitarono le fiaccole accese, ma tutto fu vano. Il danno era stato nuovamente provocato e quelli che l'avevano fatto non vennero n‚ catturati n‚ massacrati, come se fossero stati veramente creature invisibili.
La notte successiva il plevljese preparò meglio l'agguato. Appostò alcuni uomini anche sull'altra riva. Quando scese l'oscurità nascose i soldati nelle impalcature, fino al limite estremo, ed egli stesso, con due uomini, salì su una barca che, col favore delle tenebre aveva fatto accostare, senza che nessuno se ne accorgesse, alla sponda sinistra. Di là, con alcuni colpi di remi, avrebbero potuto raggiungere uno dei due pilastri iniziati. E così avrebbero potuto attaccare l'insetto dannoso da due lati, in modo da sbarrargli la fuga, a meno che non si fosse trattato di un essere alato o subacqueo. Tutta quella lunga e fredda notte il plevljese la trascorse nella barca, coperto di pelli di pecora e tormentato dai piùcupi pensieri, rimuginando continuamente la medesima idea: avrebbe veramente Abidaga posto in atto la sua minaccia e gli avrebbe davvero tolto la vita, che, accanto a un simile capo, non era neppure vita, ma solo timore e tormento? Ma lungo tutto il cantiere non si udì il minimo rumore, tranne il monotono sciacquìo e il mormorìo dell'acqua invisibile. E così albeggiò e il plevljese, in tutto il corpo irrigidito, sentì che la vita gli si oscurava e gli si accorciava.
La notte successiva, che era ormai la terza e ultima, ci furono la stessa veglia, le stesse disposizioni, lo stesso atterrito origliare. Era trascorsa la mezzanotte. Il plevljese era stato preso da una mortale indifferenza. A un tratto si sentì un leggiero sciabordìo, e poi, piùforte, un sordo colpo contro le travi di quercia conficcate nel fiume sulle quali poggiavano le impalcature. Da quella direzione risonò un aspro sibilo. Ma la barca del plevljese s'era già mossa. Ritto in piedi, egli sgranava gli occhi verso le tenebre, agitava le mani ed esclamava con voce rauca:
®Rema, rema! Forzaaa!¯
Gli uomini assonnati remavano vigorosamente, ma la forte corrente centrale del fiume li prese un po' prima del necessario. Invece di approdare presso l'impalcatura vennero trascinati dall'acqua cui non potevano sfuggire, e sarebbero stati trasportati lontano se qualcosa all'improvviso non li avesse fermati.
In mezzo alla rapida, dove non c'erano n‚ pali n‚ impalcature, la loro barca andò a sbattere contro un pesante corpo legnoso che mandò un suono sordo. Questo li arrestò. Soltanto adesso si accorsero che lass—, tra le tavole, i loro compagni lottavano contro qualcuno. I soldati, tutti figli di islamizzati delle nostre terre, gridavano ad una sola voce; nell'oscurità si incrociavano le loro esclamazioni frammentarie ed incomprensibili:
®Tienilo, non lo lasciare!¯
®Kahriman, qua!¯
®Sono io, sono io!¯
In mezzo a queste esclamazioni si sentì sciabordare nell'acqua qualcosa che poteva essere un oggetto pesante o un corpo umano. Il plevljese rimase per qualche istante senza sapere assolutamente dove si trovasse e che cosa stesse accadendo, ma, appena si fu ripreso un poco, assicurò un gancio di ferro, fissato su una lunga pertica, alle travi contro le quali aveva sbattuto e prese a far avanzare la barca sull'acqua, avvicinandosi sempre piùall'impalcatura. Ora era già presso i pali di quercia e, rinfrancato, urlava a squarciagola:
®Una torcia, accendete una torcia! Datemi una fune!¯
Dapprima nessuno gli rispose, ma poi, dopo molte grida tra le quali non si sentì n‚ si pot‚ capire niente, s'accese in alto una piccola fiaccola, che brillò con luce incerta e tremolante. Quel primo guizzo lass— disorientò gli occhi e mescolò in un agitato vortice uomini e oggetti con le loro ombre e con i riflessi rossi sull'acqua. Ma un'altra fiaccola si accese nella mano di qualcuno. Adesso il chiarore si diffuse e gli uomini cominciarono a radunarsi e a riconoscersi. Tutto ben presto si sbrogliò e si chiarì.
Tra la barca del plevljese e l'impalcatura si trovava una zattera di tre travi in tutto; solo sulla parte anteriore c'era un remo, un vero remo di zattera, appena un po' piùcorto e fino. La zattera era legata con una treccia di nocciuolo a uno dei pali sotto l'impalcatura e resisteva alla forte corrente che le sciabordava attorno spingendola in giù col suo impeto. I soldati che erano in alto aiutarono il loro comandante a passare attraverso la zattera e a salire fino a loro. Tutti erano trafelati e spauriti. Sulle tavole c'era un contadino cristiano legato. Si vedeva che il petto gli si alzava in fretta e con ritmo ansimante, e gli occhi sbarrati mostravano le sclerotiche atterrite.
Il più anziano dei quattro soldati spiegò al plevljese con aria agitata che avevano fatto la guardia nascosti in vari punti, e quando avevano sentito nell'oscurità il rumore di un remo avevano pensato che fosse la barca del comandante, ma erano stati così furbi da non manifestare la loro presenza e da aspettare per vedere che cosa sarebbe successo. Avevano così visto due contadini che si avvicinavano di soppiatto ai pali e legavano con difficoltà la zattera. Li avevano lasciati salire e, quando li avevano avuti in mezzo a loro, li avevano attaccati coi bastoni, e, dopo averli atterrati, avevano cominciato a legarli. Quello che era stato tramortito dai colpi ricevuti sulla testa lo avevano legato facilmente, ma il secondo, fingendo di essere stordito, era guizzato via come un pesce, e, scivolando lungo le tavole, si era buttato in acqua.
A questo punto il soldato si fermò impaurito, ma il plevljese cominciò ad urlare:
®Chi l'ha lasciato fuggire? Ditemi chi l'ha lasciato fuggire, altrimenti vi farò a pezzi tutti!¯
I giovani tacevano e battevano le ciglia al rosso chiarore delle fiaccole tremolanti, e il plevljese si girava intorno come cercando nel buio il colpevole, e intanto li ingiuriava anche peggio di quanto non avesse mai fatto di giorno. Ma tutt'a un tratto trasalì, si chinò sul contadino legato come su un prezioso tesoro e, tutto fremente, cominciò a sibilare tra i denti con una voce sottile e piagnucolosa: ®Vigilate questo, vigilatelo bene! Ah, figli di puttana, se me lo lasciate scappare, sappiate che la vostra testa É bell'e andata!¯ I soldati si misero in agitazione attorno al contadino; dalla sponda, lungo l'impalcatura, accorsero altri due. Il plevljese impartì gli ordini, ammonendo che bisognava legarlo meglio e tenerlo pi— saldamente. Così lo trasportarono pian piano e con ogni cautela, come un cadavere, fino alla riva. Il plevljese li seguì, senza badare dove metteva i piedi e non staccando mai lo sguardo dal prigioniero. E ad ogni passo gli sembrava di crescere, di cominciare a vivere appena ora.
Sulla sponda cominciarono ad accendersi e a spuntare come spighe nuove fiaccole. Il contadino catturato venne portato in una delle casupole degli operai dove fu acceso il fuoco, e legato a un palo con corde e con catene prese da una fucina. Era Radisav di Unishte in carne e ossa.
Il plevljese si calmò un poco, non strillò n‚ ingiuriò, ma non riuscì a trovar pace in nessun posto. Inviò i soldati lungo la riva per cercare il secondo contadino che era saltato in acqua, bench‚ fosse chiaro che, con quella nottata oscura, a meno che non fosse affogato, nessuno avrebbe potuto raggiungerlo n‚ catturarlo. Dette anche altre disposizioni di vario genere, uscì, tornò di nuovo, ebbro di emozione. Cominciò anche ad interrogare il contadino legato, ma poi smise. Tutto quello che faceva, in complesso, serviva solo ad arginare e a nascondere la sua inquietudine, dato che in realtà non pensava che a una cosa: aspettare Abidaga. E non dovette aspettarlo a lungo. Fatto il primo sonno, Abidaga, secondo la sua abitudine, subito dopo mezzanotte s'era destato, e, non potendo piùriaddormentarsi, s'era accostato alla finestra e s'era messo a guardare nell'oscurità. Dal suo balcone a Bikavac, di giorno, si vedeva la valle del fiume e tutto il cantiere con le casupole, i mulini, i tuguri e lo spazio scavato e ingombro all'intorno. Ora, nelle tenebre, egli intuiva la presenza di tutto questo e pensava amaramente che il lavoro proseguiva con lentezza e fatica, e che qualche notizia di questo stato di cose, prima o poi, sarebbe arrivata alle orecchie del visir. Di ciò si sarebbe certamente occupato qualcuno. Se nessun altro lo avesse fatto, ci avrebbe pensato quel glabro, freddo e sornione Tosun "efendija". E allora avrebbe potuto cadere in disgrazia presso il visir. Proprio per questo non riusciva a dormire, e, quando si addormentava, tremava anche nel sonno. Quel che mangiava gli pareva veleno, gli uomini per lui erano cattivi, la vita gli era odiosa se soltanto pensava a questo. La disgrazia significava essere allontanato dal visir, essere deriso di nascosto dagli amici (oh, tutto tranne che questo!), non essere più nessuno e niente, essere un cencio e un furfante non soltanto agli occhi altrui, ma anche ai propri occhi. Significava perdere il patrimonio faticosamente accumulato, oppure, anche conservandolo, rosicchiarlo di soppiatto, lontano da Istanbul, chi sa dove in esilio, in un'oscura provincia, dimenticato, superfluo, ridicolo, miserabile. No, questo poi no! Meglio non veder piùil sole e non respirar piùl'aria! Allora sarebbe stato cento volte meglio non essere nessuno e non possedere niente!... Ecco, era questo il pensiero che gli tornava di continuo e che per alcune volte al giorno gli rivoltava il sangue, sì da farlo premere dolorosamente alla testa e alle tempie, e che non lo abbandonava mai del tutto, ma gli rimaneva sempre come un nero sedimento. Questa, per lui, sarebbe stata la disgrazia, e la disgrazia poteva venire ogni giorno e in ogni momento, perché‚ tutti lavoravano affinché‚ giungesse, ed egli solo lavorava in direzione opposta e si difendeva; dunque egli solo contro tutti e contro ogni cosa. E ciò durava ormai da una quindicina d'anni, da quando era diventato ragguardevole e influente, da quando il visir aveva cominciato ad affidargli grandi e importanti imprese. E chi poteva sopportare questo pensiero? Chi poteva dormire e conservare la calma?
Bench‚ fosse fredda e umida quella notte autunnale, Abidaga aprì la finestra e guardò nelle tenebre, poiché‚ gli sembrava di soffocare nell'ambiente chiuso. Fu allora che notò che sulle impalcature e lungo la riva si accendevano e si movevano delle luci. Quando vide che crescevano continuamente, pensò che dovette essere successo qualcosa di inconsueto, si vestì e svegliò il suo servitore. Così giunse dinanzi al tugurio illuminato proprio nel momento in cui il plevljese non sapeva piùcome imprecare, a chi dare ordini, e, insomma, che cosa fare per ingannare il tempo.
L'inatteso arrivo di Abidaga lo confuse del tutto. Aveva tanto atteso quell'istante, e ora che era giunto non sapeva sfruttarlo come si era proposto. Balbettò qualcosa nella sua agitazione e si dimenticò del contadino legato. Abidaga si limitò a guardare con aria sprezzante al disopra della sua testa e subito si avviò verso il prigioniero. Nella casupola avevano ravvivato il fuoco sì che anche il piùlontano cantuccio risultava illuminato, e i soldati aggiungevano ceppi di continuo.
Abidaga si fermò dinanzi al contadino legato, del quale era molto pi— alto. Tutti aspettavano qualche sua parola, ed egli, invece, pensava: ecco con chi ho da battermi e da lottare, ecco da chi dipendono la mia posizione e il mio destino, da questo abietto e idiota rinnegato di plevljese, e dalla incomprensibile, ostinata malvagità e caparbietà di quello stolto cristiano. Poi trasalì e cominciò a impartire ordini e a interrogare il contadino.
Il tugurio si riempì di soldati, fuori si sentirono le voci dei sovrintendenti e degli operai destati. Abidaga fece le sue domande tramite il plevljese.
Sulle prime, Radisav asserì che lui e un altro giovane avevano deciso di fuggire e per questo avevano preparato una piccola zattera ed avevano navigato lungo il fiume. Quando gli fecero notare l'assoluta insensatezza di una simile affermazione, dato che in una notte oscura non si può navigare lungo un fiume impetuoso, pieno di mulinelli, di scogli e di secche, e dato che chi ha intenzione di scappare non s'arrampica sulle impalcature e non rovina il lavoro, tacque e poi disse bruscamente:
®Bene, tutto É nelle vostre mani, fate quel che sapete.¯
®Eh, ora vedrai quel che sappiamo fare¯ replicò vivacemente Abidaga.
I soldati sciolsero le catene e denudarono il torace del contadino, quindi gettarono le catene nel fuoco che ormai avvampava e aspettarono. Poiché‚ le catene stesse erano fuligginose, si insudiciarono tutte le mani e lasciarono ovunque tracce nere, sul corpo seminudo del prigioniero e su se stessi. Quando il ferro fu quasi rovente, venne Merdgian lo Zingaro e, con lunghe tenaglie, afferrò un capo della fila di anelli mentre un soldato prese l'altra estremità.
Il plevljese tradusse la frase di Abidaga.
®Avanti. ora dicci la verità vera.¯
®Che cosa dovrei dirvi? Voi tutto potete e tutto sapete.¯
I due uomini portarono avanti le catene e le passarono attorno all'ampio, lanuginoso petto del contadino. I peli abbruciacchiati cominciarono a sfrigolare. Al prigioniero si contrasse la bocca, si inturgidirono le vene del collo, saltaron fuori le costole e i muscoli dell'addome presero a contorcersi e a muoversi come accade quando uno vomita. Lo sventurato gem‚ di dolore, tese le corde che lo avvincevano e invano si tirò indietro e si sforzò di ridurre il contatto del corpo col ferro rovente. Batt‚ le ciglia e strinse gli occhi. Alla fine allontanarono da lui le catene.
®Questo, tanto per cominciare. Non É meglio che parli spontaneamente?¯ Il contadino si limitò a soffiare attraverso il naso continuò a tacere.
®Dicci chi era quello che stava con te!¯
®Si chiamava Jovan, ma non so di quale famiglia e di quale villaggio sia.¯
Portarono nuovamente le catene, i peli e la pelle bruciati ricominciarono a sfrigolare. Tossendo per il fumo e spasimando per i dolori, il contadino prese a dire frasi monche.
S'erano messi d'accordo, soltanto loro due, per demolire quel che veniva costruito sul ponte. Così avevano pensato che occorresse fare, e così avevano fatto. Nessun altro ne sapeva niente e nessun altro aveva partecipato. Le prime volte erano venuti dalla riva, ai vari punti, ed erano riusciti bene; ma, quando s'erano accorti che c'erano guardie tra le impalcature e sulle sponde, avevano pensato di fare una zattera di tre pali e di avvicinarsi così al cantiere, non visti, dalla parte del fiume. Questo era accaduto tre giorni prima. Fin dalla prima notte c'era mancato poco che li prendessero. A mala pena se l'erano svignata. Perciò, la notte successiva non avevano neppure tentato. E quella notte, quando avevano provato di nuovo, alla zattera era successo quel che era successo.
®Questo É tutto. Così É stato e così abbiamo fatto, e ora voi fate quel che spetta a voi.¯
®Oh, no, non faremo niente, ma tu, invece, dicci chi vi ha spinti a questo! Altrimenti le sofferenze che hai patito finora non sono niente rispetto a quelle che verranno.¯
®Fate quel che vi pare.¯
Allora venne Merdgian il fabbro con le tenaglie, si inginocchiò accanto all'uomo legato e cominciò a strappargli le unghie dai piedi. Stringendo i denti, il contadino taceva, ma uno strano tremore che, pur così legato, gli scoteva il corpo fino alla cintura, palesava che il dolore doveva essere eccezionale. A un certo momento il prigioniero lasciò colare attraverso i denti qualche suono indistinto. Il plevljese, che spiava le sue parole ed i suoi movimenti ed aspettava ansiosamente una qualche confessione, fece cenno allo zingaro di smettere e subito si avvicinò:
®Come? Cosa dici?¯
®Niente. Dico che perdete il vostro tempo a torturarmi.¯
®Di', chi ti ha spinto?¯
®Ma chi deve avermi spinto? Il diavolo!¯
®Il diavolo?¯
®Il diavolo, certo, quello che vi ha indotti a venir qua e a costruire il ponte.¯
Il contadino aveva parlato a voce bassa, ma con tono forte e deciso.
Il diavolo! Strana parola, pronunciata così amaramente e in una situazione tanto inconsueta. Il diavolo! C'É di mezzo anche lui, pensò il plevljese, standosene adesso con la testa abbassata, quasi fosse il prigioniero a interrogarlo, e non il contrario. Quest'unica parola lo colse sul vivo in un punto sensibile e gli risollevò all'improvviso ogni preoccupazione e ogni timore in tutta la loro intensità e in tutta la loro grandezza, come se non fossero stati eliminati dalla cattura del colpevole. Forse tutta quella faccenda, insieme con Abidaga, la costruzione del ponte e quel pazzo contadino, era soltanto opera del demonio. Il diavolo! Era forse questa l'unica cosa che si doveva temere? Il plevljese ebbe un tremito e trasalì. In realtà lo scosse la voce di Abidaga, tonante e adirata.
®E allora? Ti vien la voglia di dormire, furfante?¯ urlò Abidaga, colpendo con la corta frusta di cuoio il gambale del suo stivale destro.
Lo zingaro si inginocchiò di nuovo, tenendo in mano le tenaglie, e, coi suoi occhi neri e luminosi, guardò in alto con aria spaurita e umile l'imponente mole di Abidaga. I soldati attizzarono il fuoco che anche da solo aveva divampato. Tutto l'ambiente splendeva, caldo e luminoso. Il luogo che, quando era stato sorpreso dall'oscurità della notte, era solo una misera e trascurabile costruzione, era adesso cresciuto all'improvviso, s'era ampliato e trasformato. Nel tugurio e intorno ad esso dominavano una trepida animazione e un solenne silenzio, come sempre accade nei luoghi nei quali si ricerca la verità, si torturano uomini o avvengono eventi fatali. Abidaga, il plevljese e il prigioniero si movevano e parlavano come attori, e tutti gli altri camminavano in punta di piedi, con gli occhi bassi, non dicendo niente fuorch‚ quel che era necessario, e anche in questo caso parlando sottovoce. Dentro di s‚, ciascuno avrebbe voluto non essere in quel posto, a fare quel lavoro; e poiché‚ ciò non era possibile, ciascuno riduceva la propria voce e limitava i propri movimenti, per restare almeno in tale misura lontano da quella faccenda.
Vedendo che l'interrogatorio procedeva lento e non prometteva alcun frutto, Abidaga se ne uscì dalla casupola con un movimento di insofferenza e lanciando sonore maledizioni. Gli saltellò dietro il plevljese, seguito dai soldati.
Fuori albeggiava. Il sole non era ancora comparso, ma tutto il panorama era chiaro. In mezzo alle gole dei monti si scorgevano le nuvole, distese in lunghe fasce paonazze, e, tra le nuvole, appariva il cielo chiaro e limpido, quasi di color verde. Sulla terra umida erano sparpagliati cumuli di bassa nebbia dalla quale spuntavano le chiome degli alberi da frutto, dal fogliame rado e giallo. Sempre battendo lo scudiscio contro lo stivale, Abidaga impartì le disposizioni: si seguitasse a interrogare il colpevole, specialmente sui favoreggiatori, ma non lo si torturasse oltre misura con tormenti che lo stremassero; si apprestasse quanto era necessario per impalarlo vivo a mezzogiorno, sull'ultima impalcatura, nella posizione pi— elevata, in modo che potessero vederlo tutta la città e tutti i lavoratori da entrambi i lati del fiume; Merdgian preparasse tutto, e il banditore andasse a gridare nei rioni: a mezzogiorno, sul ponte, il popolo avrebbe potuto vedere che cosa capitava a coloro che intralciavano la costruzione del ponte, sull'una e sull'altra sponda doveva radunarsi tutta la popolazione maschile, turchi e cristiani, vecchi e bambini.
Il giorno che spuntava era domenica. Di domenica si lavorava come in qualsiasi altro giorno, ma quella domenica perfino i sorveglianti erano distratti. Soltanto a giorno pieno si diffuse la notizia della cattura del colpevole, della tortura e del supplizio che avrebbe avuto luogo a mezzogiorno. L'atmosfera sommessa e palpitante passò dal tugurio a tutto lo spazio intorno al cantiere. Gli operai forzati lavoravano in silenzio, ciascuno evitava di guardare gli altri negli occhi e badava al lavoro che aveva dinanzi, come se quello fosse l'inizio e la fine del mondo.
Già un'ora prima di mezzogiorno i cittadini, per lo più turchi, si radunarono su un piccolo pianoro vicino al ponte. I ragazzi salirono su alti blocchi di pietra non lavorata che si trovavano sul luogo. Gli operai sciamarono attorno alle lunghe e strette tavole dove si distribuiva il pane che consentiva loro di non morire. Mentre masticavano, guardavano silenziosi e atterriti intorno a s‚. Poco dopo comparve Abidaga, accompagnato da Tosun "efendija", da mastro Antonije e da alcuni altri turchi ragguardevoli. Tutti si fermarono su un rialzo inclinato del terreno tra il ponte e la casupola nella quale si trovava il condannato. Abidaga andò ancora una volta al tugurio dove gli venne annunziato che tutto era pronto: lì c'era il palo di quercia, lungo circa quattro "arshin" (4), appuntito a dovere, ricoperto in cima di ferro battuto, con una punta sottile ed aguzza, e tutto spalmato ben bene di sego; sull'impalcatura erano state inchiodate le travi tra le quali sarebbe stato fissato ed incastrato il palo, la mazza di legno che sarebbe servita a conficcare l'asta, le corde e tutto il resto.
Il plevljese era confuso, aveva il volto terreo e gli occhi arrossati. Neppure adesso pot‚ sostenere lo sguardo di fuoco di Abidaga. ®Senti, tu, se non sarà tutto come dev'essere e se mi renderai ridicolo al cospetto della gente, non comparitemi davanti agli occhi n‚ tu n‚ quello sterco di zingaro; vi affogherò nella Drina, come cuccioli ciechi.¯
Poi, volgendosi verso lo zingaro spaventato, aggiunse in tono pi— mite:
®Avrai sei grossi per il lavoro, e altri sei se vivrà fino al tramonto. E ora pensaci tu.¯
Dalla moschea principale, presso il mercato, s'udì l'acuta e chiara voce dell'imano. Ci fu un po' di animazione in mezzo alla gente ammassata, e poco dopo s'aprì la porta del tugurio. Dieci soldati si disposero su due file, cinque da ogni lato. In mezzo a loro c'era Radisav, scalzo e a capo scoperto; lesto e curvo come sempre, ma non allargava le gambe camminando; invece procedeva a piccoli passi in modo strano, quasi saltando sui piedi mutilati che, al posto delle unghie, avevano dei buchi sanguinolenti; sulla spalla portava il lungo palo bianco appuntito. Seguivano Merdgian con altri due zingari che lo avrebbero aiutato nell'esecuzione della sentenza. Tutt'a un tratto apparve il plevljese, sul suo cavallo baio, e si mise in testa al corteo, che doveva percorrere in tutto un centinaio di passi fino alle prime impalcature.
Gli astanti sporgevano le teste e si sollevavano sulle punte dei piedi per vedere l'uomo che aveva ordito la congiura e la resistenza e aveva demolito alcuni pezzi del ponte. Tutti restarono sorpresi per l'aspetto misero e insignificante di quell'uomo che avevano immaginato del tutto diverso. Naturalmente nessuno di loro sapeva perché‚ saltellasse in modo così buffo e perché‚ traballasse da un piede all'altro, e nessuno scorse bene le ustioni provocate dalle catene che gli erano spuntate attorno al petto come grosse albicocche, sulle quali gli avevano passata la camicia e una specie di veste. Per questo sembrò a tutti troppo miserabile e incapace di fare quello per cui ora lo conducevano al patibolo. Soltanto il lungo palo bianco conferiva all'insieme una certa sinistra grandezza e attirava su di s‚ tutti gli sguardi.
Arrivati al luogo in cui cominciavano i lavori sul terreno lungo la sponda, il plevljese smontò e, con gesto solenne e pomposo, consegnò le briglie a un servitore, poi scomparve insieme con gli altri per l'erta strada fangosa diretta verso l'acqua. Poco dopo la gente pot‚ vederli apparire nel medesimo ordine sulle impalcature, e salire lentamente e con cautela. Sugli stretti passaggi di travi e assi i soldati circondavano completamente e stringevano in mezzo a loro Radisav, per evitare che si buttasse nel fiume. Così avanzarono a stento e salirono sempre piùin su, finché‚ non raggiunsero l'estremità della costruzione. Qui, sopra l'acqua, c'era uno spazio pavimentato, ampio come una stanza di media grandezza. In questo spazio, come su una scena elevata, presero posto Radisav, il plevljese ed i tre zingari, mentre gli altri soldati rimasero sparsi nelle impalcature circostanti.
Quelli che erano sul pianoro si spostarono e cambiarono posizione. Un centinaio di passi li divideva da quelle tavole, così che potevano vedere ogni uomo e ogni movimento, ma non potevano sentire le voci e non distinguevano i particolari. Coloro che stavano sulla riva sinistra, popolino ed operai, distavano dalla scena tre volte tanto, e si agitavano e si tendevano ancor pi—, per poter meglio sentire e vedere. Ma non c'era verso di udire niente, e ciò che si scorse sembrò, dapprima, troppo monotono e privo d'interesse, e, alla fine, divenne invece così spaventoso che tutti volsero la testa e molti se ne andarono in fretta a casa, pentendosi di esser venuti.
Quando ordinarono a Radisav di stendersi, egli esitò un momento, poi, senza guardare gli zingari ed i soldati, come non ci fossero stati, si avvicinò al plevljese, con aria quasi confidenziale, quasi fosse stato un pari suo, e gli disse con voce bassa e cupa:
®Ascolta, per questo e per l'altro mondo, abbi pietà e trafiggimi, ch‚ non debba soffrire come un cane.¯
Il plevljese sussultò e gridò contro di lui come difendendosi da quel modo di parlare troppo confidenziale:
®Via, "Vlah" (5)! Sei forse tanto prode da rovinare l'impero e poi vieni qui ad implorare in nome di Dio come una donnicciola? Avrai quel che É stato stabilito e che ti sei meritato.¯
Radisav curvò ancor piùla testa, e gli zingari gli si avvicinarono e cominciarono a togliergli la veste e la camicia. Sul petto apparvero le ferite delle catene, che avevano formato vesciche e s'erano arrossate. Senza dire nient'altro, il contadino si distese come gli era stato ordinato, col viso rivolto in giù. Gli zingari gli furon sopra e gli legarono anzitutto le mani dietro la schiena, poi assicurarono una corda a ogni piede, all'altezza del malleolo. Infine tirarono ciascuno dal suo lato e gli divaricarono ampliamente le gambe. Intanto Merdgian aveva deposto il palo su due corti pezzi di legno di forma cilindrica, in modo che la sua cima giungesse in mezzo alle gambe del condannato. Poi estrasse dalla cintola un corto e largo coltello, si inginocchiò accanto all'uomo sdraiato e si chinò su di lui per tagliargli il panno dei calzoni in mezzo alle cosce e per allargare l'apertura attraverso la quale il palo sarebbe penetrato dentro al suo corpo. Questa parte del lavoro del boia, la piùorrenda di tutte, rimase per fortuna invisibile per gli spettatori. Si vide soltanto che il corpo legato sussultava alla breve ed impercettibile coltellata, si alzava fino all'altezza della cintola come se stesse per sollevarsi, ma poi ricadeva con un colpo sordo sulle tavole. Quando ebbe finito quell'operazione, lo zingaro balzò indietro, prese da terra la mazza di legno e cominciò a picchiare con essa sulla parte inferiore del palo, che era ottusa, con colpi leggeri e moderati. Tra un colpo e l'altro si fermava un po' e guardava dapprima il corpo nel quale conficcava il palo, e poi i due zingari, esortandoli a tirare lentamente e in modo uniforme. Il corpo del contadino dalle gambe divaricate si contraeva da solo; ad ogni mazzata la spina dorsale gli si inarcava e si curvava, ma le corde lo tiravano e lo raddrizzavano. Su entrambe le sponde il silenzio era tanto grande che si distingueva nettamente ogni colpo e l'eco che rimbalzava da qualche punto della riva scoscesa. I piùvicini potevano sentire come l'uomo battesse con la fronte contro la tavola, e inoltre un secondo suono inconsueto; ma non era n‚ un gemito n‚ un grido n‚ un rantolo, e neppure una qualche voce umana, era tutto quel corpo disteso e tormentato che diffondeva dal suo interno come uno stridore ed un ghigno, simili al rumore dello steccato che viene compresso o del legno che si spacca. Ogni due colpi lo zingaro andava fino al corpo sdraiato, vi si portava sopra, esaminava se il palo procedeva nella direzione giusta, e, dopo essersi assicurato che non era stato vulnerato nessuno degli organi pi— vitali, tornava indietro e ricominciava il suo lavoro.
Tutto questo si vedeva male e si sentiva ancora peggio dalla riva, eppure a tutti tremavano le gambe, impallidivano i volti e si congelavano le dita delle mani.
A un certo momento i battiti cessarono. Merdgian aveva visto che, in cima alla scapola destra, i muscoli si erano tesi e la pelle si era sollevata. S'avvicinò e tagliò celermente quella protuberanza con due incisioni a forma di croce. Sgorgò fuori del sangue biancastro, dapprima lentamente, poi sempre piùforte. Ancora due o tre colpi, leggeri e cauti, e infine dal punto inciso cominciò a venir fuori l'estremità del palo, ricoperta di ferro battuto. Batt‚ ancora per un po', finché‚ la punta non raggiunse l'altezza dell'orecchio destro. L'uomo era stato infilzato al palo come un agnello allo spiedo, solo che la punta non gli usciva dalla bocca, ma dalla schiena, e non era stato leso in modo grave n‚ all'intestino, n‚ al cuore, n‚ ai polmoni. Ora Merdgian buttò via la mazza e si avvicinò. Contemplò quel corpo immobile, osservando il sangue che sgorgava dai punti nei quali il palo era entrato e uscito e si raccoglieva in piccole pozze sulle travi. I due zingari rivoltarono sul dorso il corpo irrigidito e cominciarono a legargli i piedi in fondo al palo. Intanto Merdgian guardava se l'uomo era ancora vivo ed esaminava attentamente quel volto che era divenuto tutt'a un tratto gonfio, piùlargo e pi— grosso. Gli occhi erano spalancati e irrequieti, ma le palpebre stavano immobili, la bocca era aperta e le labbra s'erano irrigidite in una smorfia convulsa; sotto di esse biancheggiavano i denti serrati. L'uomo non riusciva più a dominare i singoli muscoli facciali; per questo il suo volto rassomigliava a una maschera. Ma il cuore batteva debolmente, e i polmoni lavoravano con un respiro breve e accelerato. I due zingari presero a sollevarlo come una bestia allo spiedo. Merdgian urlò loro di fare attenzione, in modo da non scuotere il corpo; ed egli stesso venne ad aiutarli. Fissarono tra le due travi la parte inferiore, piùgrossa, del palo, e fermarono il tutto con grossi chiodi, poi indietro, alla stessa altezza, puntellarono con una corta stecca che venne anch'essa inchiodata sia al palo che a una trave dell'impalcatura.
Quando anche questo fu fatto, gli zingari si allontanarono furtivi e raggiunsero i soldati, mentre sullo spazio vuoto restò solo, a un'altezza di due "arshin", ritto, impettito e nudo fino alla cintola, l'uomo sul palo. Di lontano si aveva soltanto la sensazione che il suo corpo fosse attraversato dal palo al quale erano legate per i malleoli le gambe, mentre le mani erano legate dietro la schiena. Per questo alla gente sembrava come una statua sospesa per aria, proprio all'estremità dell'impalcatura, in alto sopra il fiume.
Per entrambe le sponde passò un rumorìo, poi ci fu un ondeggiamento tra la folla. Qualcuno piegò lo sguardo, qualcuno si affrettò verso casa, senza volgere la testa. La maggior parte dei presenti guardava in silenzio quella figura umana protesa nello spazio, irrigidita in una posizione non naturale e dritta. L'orrore agghiacciava loro le viscere, e i loro piedi intirizzivano, ma non riuscivano a muoversi n‚ a distogliere lo sguardo da quello spettacolo. E in mezzo a questa folla spaventata s'apriva la strada Ilinka la pazza; fissava ognuno negli occhi, cercando di cogliere uno sguardo nel quale leggere e scoprire dove si trovavano i suoi figli sacrificati e sepolti. Allora il plevljese, Merdgian ed altri due soldati si riaccostarono al condannato e lo osservarono da vicino. Lungo il palo colava solo un debole rivolo di sangue. L'uomo era vivo e cosciente. L'inguine gli si alzava ed abbassava, le vene del collo battevano, gli occhi roteavano lenti e senza posa. Attraverso i denti stretti erompeva un ringhio prolungato, nel quale si distinguevano con difficoltà singole parole: ®Turchi, turchi...¯ rantolava l'uomo dal palo ®turchi sul ponte... possiate crepare come cani... morire come cani!...¯
Gli zingari radunarono i loro strumenti e tutti, insieme col plevljese e coi soldati, si incamminarono sull'impalcatura verso la riva. La gente indietreggiò davanti a essi e cominciò a disperdersi. Soltanto i ragazzi, dall'alto pietrame e dagli alberi spogli, aspettavano ancora qualcosa e, non sapendo quando sarebbe giunta la fine e se già fosse abbastanza, erano curiosi di vedere che cosa sarebbe accaduto ancora a quello strano uomo sospeso sulle acque come si fosse fermato in un salto.
Il plevljese venne da Abidaga e gli annunciò che tutto era stato eseguito precisamente e bene e che il condannato era ancora vivo e aveva l'aria di poter continuare a vivere, dato che gli organi interni non erano stati lesi. Abidaga non gli rispose n‚ lo degnò di uno sguardo, soltanto agitò la mano perché‚ gli portassero il cavallo, e cominciò ad accomiatarsi da Tosun "efendija" e da mastro Antonije. Ora ognuno si disperdeva. Dal mercato, si sentì il banditore che gridava dando l'annuncio dell'avvenuta esecuzione e ammonendo che una pena eguale, e anche peggiore, attendeva chiunque si fosse comportato nello stesso modo.
Il plevljese rimase dubbioso sul pianoro che all'improvviso era divenuto vuoto. Un servitore gli avvicinava il cavallo e i soldati attendevano ordini. Si rese conto che doveva pur dire qualcosa, ma non pot‚ parlare a causa della forte agitazione che adesso cominciò a svilupparsi dentro di lui e a gonfiarlo, come se stesse sul punto di spiccare il volo. Soltanto ora si rese perfettamente conto di tutto quello cui prima, indaffarato per l'esecuzione della condanna, non aveva potuto pensare. Appena adesso rammentò la minaccia di Abidaga, che lo avrebbe fatto impalare vivo se non fosse riuscito a catturare il colpevole. Era sfuggito a quella sciagura, ma per un pelo, all'ultimo istante. Colui che stava laggiù, sull'impalcatura, aveva cercato con tutte le sue forze, di notte, subdolamente, di fare in modo che ciò accadesse davvero. Ed ecco che invece era successo il contrario. E la vista stessa di quell'uomo, ancora vivo, così alzato e proteso sopra il fiume, lo riempiva, al tempo stesso, di raccapriccio e di una certa dolorosa gioia per il fatto che quella sorte non era toccata a lui e che il suo corpo era intatto, libero e capace di muoversi. A quel pensiero irresistibili brividi di fuoco gli si diffusero dal petto e gli raggiunsero le gambe, le braccia, costringendolo a muoversi, a ridere e a parlare, come per convincere se stesso che era sano, che poteva spostarsi a suo piacimento, che parlava e rideva rumorosamente, che se voleva poteva cantare, e non ringhiare dal palo inverosimili maledizioni, attendendo la morte come l'unica fortuna che ancora potesse capitargli. Le mani gli si movevano da sole, da soli i piedi si mettevano a ballare, da sola la bocca gli si apriva erompendo in una convulsa risata e riversando copiose parole:
®Ah, ah, ah! Radisav, "vila" dei monti, perché‚ ti sei irrigidito così? Perché‚ non continui a scalzare il ponte? Perché‚ ringhi e soffochi? Intona un canto, "vila"! Balla, "vila"!¯
Sorpresi e confusi, i soldati guardavano come il loro capo ballava e come, cantando e sbuffando, soffocava per le risa, per le strambe parole e per la schiuma bianca che sempre piùgli sgorgava alle estremità delle labbra. Anche il suo cavallo baio gli lanciava di sbieco sguardi impauriti.
NOTE.
1. Titolo turco per le persone istruite. (Nota del Traduttore)
2. Piccolo violino col quale il "guslar" accompagna i suoi canti.
(Nota del Traduttore)
3. Spirito o demone femminile del fiume. (Nota del Traduttore)
4. Misura turca di lunghezza = 66,7 centimetri. (Nota del Traduttore)
5. Termine turco spregiativo per i cristiani. (Nota del Traduttore)