martedì 30 aprile 2019



IL PONTE SULLA DRINA
Ivo Andric
Traduzione di Bruno Meriggi.
Titolo dell'opera originale: "Na Drini Cuprija". Prima Edizione Dicembre 1960.
Mondadori Editore.

Capitoli 1,2,3
    1.

    Per la maggior parte del suo corso il fiume  Drina  s'apre  la  strada     attraverso  anguste  gole  tra scoscese montagne o attraverso profondi     canon dai fianchi a picco.  Soltanto in alcuni tratti le sue sponde si     allargano in aperte pianure per formare, su una o su entrambe le rive,     distese  solatie,  in  parte piane,  in parte ondulate,  atte a essere     lavorate e abitate.  Un ampliamento di questo genere  si  trova  anche     qui,  presso  Vishegrad,  nel  punto  in  cui  la Drina scaturisce con     un'improvvisa svolta dalla profonda e stretta gola formata  dai  Massi     di  Butko  e  dai monti di Uzavnica.  La curva della Drina è oltremodo     angusta e le montagne ai due lati sono talmente ripide  e  ravvicinate     che sembrano un massiccio compatto, dal quale il fiume scaturisce come     da una cupa muraglia.  Ma qui le montagne si allargano improvvisamente     in un anfiteatro irregolare, il cui diametro, nel punto piùampio, non     supera la quindicina di chilometri in linea d'aria.
    In questo luogo in cui la Drina sembra  sgorgare  con  tutto  il  peso     della sua massa d'acqua, verde e schiumosa, da una catena ininterrotta     di  nere  e  ripide  alture,  si  scorge  un  grande  ponte di pietra,     d'armonica fattura,  con undici arcate ad ampio raggio.  Questo  ponte     somiglia  a una base dalla quale si apre a ventaglio tutta una pianura     ondulata, con la cittadina di Vishegrad, i suoi dintorni, e le borgate     distese sulla fascia delle colline,  una pianura coperta di campi,  di     pascoli  e  di  piantagioni  di  prugni,  intersecata da siepi e quasi     spruzzata di boschi cedui e di rade  macchie  d'abeti.  In  tal  modo,     guardando  dal  fondo del panorama,  sembra che dalle ampie arcate del     candido ponte scorra e si spanda non soltanto la verde Drina, ma anche     tutta questa estensione, solatia e coltivata,  con tutto quello che vi     si trova e il cielo meridionale sopra.
    Sulla  sponda  destra  del  fiume,  iniziando  proprio all'altezza del     ponte, si trova la parte piùgrossa della città col mercato turco,  in     parte  sul  piano,  in  parte  sui  pendii  delle  colline.  All'altra     estremità del ponte,  lungo la  riva  sinistra,  si  estende  Maluhino     Polje,  un  sobborgo  sparpagliato  attorno  alla strada che conduce a     Sarajevo. E così il ponte,  congiungendo le due estremità della strada     per Sarajevo, unisce la città al suo sobborgo.
    Quando si dice "unisce",  É esattamente come dire che il sole sorge al     mattino affinché‚ noi uomini possiamo vedere intorno a noi  e  svolgere     gli  affari  che  ci  stanno a cuore e tramonta sul far della sera per     consentirci di dormire e di riposare dalle fatiche del giorno.  Questo     grande  ponte  di pietra,  preziosa costruzione di singolare bellezza,     quale non posseggono neppure cittadine assai piùricche e  frequentate     ("Come  questo  in  tutto l'impero ce ne sono soltanto altri due",  si     diceva nei tempi antichi),  É infatti l'unico mezzo  di  comunicazione     stabile  e  sicuro  in  tutto  il  medio  ed  alto corso della Drina e     costituisce un anello indispensabile sulla  strada  che  congiunge  la     Bosnia con la Serbia e,  oltre la Serbia,  piùin là, con le rimanenti     contrade dell'impero turco,  fino a Istanbul.  E la cittadina col  suo     sobborgo  altro  non  É  se non uno di quei centri abitati che debbono     incessantemente svilupparsi sugli importanti nodi di  comunicazione  e     su entrambi i lati dei grandi ponti.
    E  così anche qui,  con l'andar del tempo,  le case si sono raccolte a     sciame e si sono moltiplicati  gli  edifici  alle  due  estremità  del     ponte.  La cittadina ha tratto vita da esso e da esso É cresciuta come     dalla sua indistruttibile radice.
    Affinché‚ si veda chiaramente e si comprenda l'immagine della  città  e     si comprenda bene la natura dei suoi rapporti col ponte,  occorre dire     che in essa esiste anche un altro ponte,  così come  esiste  anche  un     altro  fiume.  E'  il  fiume  Rzav col suo ponte di legno.  Proprio al     limite della città il Rzav sbocca nella Drina,  sicch‚ il centro e  la     maggior  parte di Vishegrad si trovano su una lingua di terra sabbiosa     tra i due corsi d'acqua,  l'uno grande e l'altro piccolo,  che qui  si     uniscono,  e  la  sparsa periferia si estende sugli altri due lati dei     fiumi,  sulla riva sinistra della Drina e su quella destra  del  Rzav.     Una  città  sull'acqua.  Ma  bench‚ esistano un altro fiume e un altro     ponte,  quando si dice "sul ponte" non si intende mai quello sul Rzav,     semplice costruzione di legno priva di qualsiasi bellezza e di storia,     destinato a consentire il transito ai cittadini e al loro bestiame, ma     ci si riferisce sempre e unicamente al ponte di pietra sulla Drina.     Il  ponte  É  lungo  circa duecentocinquanta passi e largo una decina,     tranne  che  al  centro,   dove  É  ampliato  mediante  due   terrazzi     perfettamente identici, uno su ciascun lato della carreggiata, che gli     fanno  raggiungere  una  larghezza  doppia.  E' questa la parte che si     chiama "porta", e qui, sul pilastro centrale,  che in alto si allarga,     su entrambi i lati si trovano delle sporgenze,  sì che, a sinistra e a     destra della carreggiata,  poggiano sulla base due terrazzi,  i quali,     con  linea  ardita  ed  armonica,  si protendono nello spazio oltre la     struttura principale del ponte, al disopra dell'acqua rumorosa e verde     che  scorre  in  basso.   Sono  lunghi  quasi  cinque  passi  e   alti     altrettanto,  recinti  da  un  parapetto di pietra,  così come lo É il     ponte in tutta la sua lunghezza,  ma altrimenti aperti e non riparati.     Il terrazzo di destra,  venendo dalla città,  si chiama "sofà".  Vi si     accede salendo due gradini,  ed É orlato di sedili  cui  il  parapetto     funge da spalliera,  e sia i gradini che i sedili ed il parapetto sono     tutti della medesima pietra chiara.  Il terrazzo di sinistra,  dinanzi     al  sofà,  É  identico,  ma É vuoto,  senza sedili.  Al centro del suo     parapetto il muro si eleva al disopra  dell'altezza  di  un  uomo;  in     esso, nella parte superiore, É situata una targa di marmo bianco sulla     quale  É  incisa  una  ricca  iscrizione  turca,  un  "tarih",  con un     cronogramma che, in tredici versi,  indica il nome del costruttore del     ponte  e  l'anno  della costruzione.  In basso,  sul muro,  sgorga una     fontanella: un sottile zampillo d'acqua che sbocca dalla  gola  di  un     drago  di pietra.  Su questo terrazzo ha aperto bottega un caffettiere     con le sue cuccume,  le tazze,  e il braciere sempre  acceso,  e,  per     mezzo  di  un  ragazzo,  serve  il  caffÉ  agli  avventori  del  sofà,     sull'altro lato della strada. Questa É la "porta".
    Sul ponte e sulla "porta",  attorno ad esso o in  relazione  ad  esso,     scorre  e  si  evolve,  come  vedremo,  la  vita  degli abitanti della     cittadina.  In tutti  i  racconti  che  riguardano  eventi  personali,     familiari  o  collettivi,  si  possono  sempre  sentire le parole "sul     ponte".  Ed infatti  sul  ponte  della  Drina  si  svolgono  le  prime     passeggiate  infantili  e  i  primi  giuochi dei bambini.  I figli dei     cristiani nati sulla riva sinistra della Drina attraversano  il  ponte     fin  dai  loro  primi  giorni di vita,  dato che già la prima domenica     vengono portati in chiesa per il battesimo.  Ma anche tutti gli  altri     bambini,  anche  quelli che nascono sulla sponda destra e i musulmani,     che non vengono affatto battezzati, trascorrono la maggior parte della     fanciullezza in prossimità del ponte,  come hanno fatto,  un tempo,  i     loro  padri  e  i  loro  nonni,  pescando pesci accanto ad esso oppure     cacciando piccioni sotto le sue volte.  Fin dai primi anni di  vita  i     loro   occhi  si  abituano  alle  armoniose  linee  di  quella  grande     costruzione di pietra chiara porosa,  tagliata regolarmente e senza il     minimo   difetto.   Conoscono  tutte  le  rotondità  e  le  incavature     magistralmente disegnate,  nonch‚  tutti  i  racconti  e  le  leggende     connessi  con  l'origine  e  la costruzione del ponte,  nelle quali si     mescolano e si intrecciano in un bizzarro e inestricabile  intrigo  la     fantasia e la realtà,  la verità e il sogno. E tutte queste cose sanno     da sempre,  inconsciamente,  come se le avessero portate al mondo  con     s‚,  allo stesso modo che conoscono le preghiere, bench‚ non ricordino     da chi le hanno apprese e quando le hanno sentite per la prima volta.     Sanno che il ponte É stato eretto dal gran visir Mehmed Pascià, nato a     Sokolovici, un villaggio che si trova laggiù su una delle montagne che     cingono il  ponte  e  la  città.  Soltanto  un  visir  avrebbe  potuto     procurare  tutto quello che occorreva per costruire un simile durevole     miracolo  di  pietra.  (Il  visir  É  qualcosa  di  stupendo,  solido,     terribile e confuso nella coscienza dei ragazzi. ) L'ha edificato Rade     l'Architetto,  che  avrebbe  dovuto  vivere centinaia d'anni se avesse     veramente costruito tutto ciò che si trova  di  bello  e  di  duraturo     nelle  terre  serbe,  maestro leggendario e in realtà anonimo che ogni     massa si immagina e desidera,  poichéé‚ non le piace di ricordare  molte     cose  e  di  essere debitrice a molte persone,  neppure nello spirito.     Sanno che la costruzione É stata osteggiata dallo spirito  del  fiume,     così  come  sempre  e  ovunque  qualcuno  ha  contrastato  ogni  nuova     costruzione, e che lo spirito stesso durante la notte distruggeva quel     che si faceva  di  giorno.  Questo  accadde  finchéé‚  "qualcosa"  parlò     dall'acqua, consigliando a Rade l'Architetto di trovare due fanciulli,     gemelli,  fratello e sorella,  Stoja e Ostoja,  e di murarli dentro il     pilastro centrale del ponte.  Subito ebbe inizio la ricerca di  questi     fanciulli per tutta la Bosnia.  Venne promessa una ricompensa a chi li     avesse scovati e portati.
    Alla fine i soldati trovarono in uno sperduto villaggio  due  gemelli,     ancora poppanti,  e li rapirono, forti del potere del visir; ma quando     li trascinarono via la loro mamma non volle separarsi da loro, e,  tra     lamenti  e pianti,  insensibile agli improperi e alle percosse,  se ne     venne dietro a loro fino a Vishegrad.  Qui riuscì a farsi largo tra la     gente e si presentò all'Architetto.
    I bambini vennero murati perchéé‚ non era possibile fare altrimenti,  ma     l'Architetto, stando a quel che si racconta, si impietosì e lasciò nei     pilastri delle aperture attraverso  le  quali  l'infelice  madre  potè‚     allattare  le  sue creature sacrificate.  Sono proprio quelle finestre     cieche finemente disegnate, strette come feritoie,  nelle quali adesso     nidificano i colombi selvatici.  In ricordo di questo episodio, già da     centinaia di anni, cola dal muro il latte materno, cioÉ quei rivoletti     bianchi e sottili che,  in un determinato periodo dell'anno,  sgorgano     dalle giunture compatte lasciando indelebili tracce sulla pietra.  (Lo     spettacolo del latte muliebre  suscita  nella  coscienza  dei  ragazzi     qualcosa  che  le É fin troppo vicino e nauseante e,  al tempo stesso,     confuso e misterioso come i  visir  e  gli  architetti,  qualcosa  che     sconcerta i bambini e li respinge. ) Quelle incrostazioni lattee sulle     colonne  vengono  grattate  e vendute come polveri terapeutiche per le     donne che non hanno latte dopo il parto.
    Nel  pilastro  centrale  del  ponte,   sotto  la  "porta",   si  trova     un'apertura  più grande,  uno stretto e lungo uscio privo di battenti,     simile a una gigantesca feritoia. Nel pilastro,  si racconta,  c'É una     grande  stanza,  un'oscura  sala in cui vive Arapin il moro.  Lo sanno     tutti i bambini,  nei cui sogni e nelle  cui  fandonie  il  misterioso     personaggio  svolge una parte importante.  Si crede che colui al quale     egli appare debba morire. Neppure un bimbo, finora, l'ha visto, poiché‚     i bimbi non muoiono. Ma una notte l'ha scorto Hamid, il facchino dagli     occhi iniettati di sangue, asmatico e continuamente ubriaco o svanito,     ed É morto la stessa notte,  qui accanto al muro.  A dire il vero  era     tanto  ubriaco  che  non  capiva  più niente,  e  pernottò sul ponte,     all'aria aperta, con una temperatura di quindici sotto zero.  Spesso i     ragazzi,  dalla riva, osservano quell'apertura buia come un abisso che     atterrisce eppure attrae.  Si mettono d'accordo così: debbono guardare     senza  batter  ciglio,  e  il primo che vede qualcosa deve lanciare un     grido. Fissano quell'ampia fessura tenebrosa tremando per la curiosità     e per la paura,  finché‚ a  qualche  ragazzo  anemico  non  sembra  che     l'apertura,  al  pari  di  una  tenda  nera,  si metta a oscillare e a     muoversi,  oppure finché‚ qualcuno,  in vena di scherzare  e  privo  di     scrupoli  (ce  n'É  sempre  uno  così),  non  esclama  "Arapin!" e non     comincia a simulare una  fuga.  Questo  guasta  il  giuoco  e  suscita     delusione e malcontento in coloro che si dilettano di trastullarsi con     la  fantasia,  detestano  le  spiritosaggini e credono che,  guardando     attentamente,  si potrebbe davvero arrivare a vedere  qualcosa.  Nella     notte,   durante  il  sonno,  molti  di  loro  lottano  e  si  battono     disperatamente con Arapin del ponte finché‚ la  mamma  non  li  sveglia     liberandoli  così  da  un  sogno tormentoso.  E mentre dà loro da bere     acqua fredda ("per scacciare la paura") e li costringe  a  pronunciare     il  nome  di  Dio,  essi già dormono nuovamente,  spossati dai giuochi     della giornata trascorsa, col sonno pesante dei bambini,  nel quale le     paure non possono ancora svilupparsi e durare a lungo.
    Oltre il ponte, controcorrente, sulla ripida sponda di calcare grigio,     dall'uno e dall'altro lato, si scorgono incavature circolari, sempre a     due  a  due,  a  intervalli  regolari,  come  se  sulla pietra fossero     impresse  le  impronte  degli  zoccoli  di  un  cavallo  di  grandezza     sovrannaturale;  scendono giù dal Vecchio Castello, digradano lungo la     roccia fino al fiume  e  ricompaiono  sulla  riva  opposta,  simili  a     pustole di lebbra sparse sulla terra bruna e tra le piante.
    I  ragazzi  che  d'estate per tutto il giorno pescano pesciolini lungo     quelle rive pietrose, sanno che sono orme di tempi remoti e di antichi     guerrieri, quando vivevano grandi eroi,  la pietra era ancora immatura     e tenera come la terra,  e i cavalli,  al pari dei guerrieri, erano di     statura gigantesca.  Per i ragazzi serbi quelle  sono  le  orme  degli     zoccoli  di  Sharac,  risalenti  al  tempo  in cui Marko Kraljevic era     prigioniero su al Vecchio Castello,  donde scappò per fuggire giù  per     la  montagna e oltre la Drina,  sulla quale allora non c'era ancora il     ponte. I ragazzi turchi, invece, sanno che non É stato Marko Kraljevic     n‚ avrebbe potuto esserlo (quando mai un bastardo di cristiano avrebbe     avuto tale forza e un tale cavallo!),  ma Djerzelez  Alija  sulla  sua     cavalla alata, che, come É noto, disprezzava traghetti e traghettatori     e saltava i fiumi come ruscelletti.  Su questo argomento non disputano     neppure,  a tal  punto  sia  gli  uni  che  gli  altri  sono  convinti     dell'esattezza della propria opinione.  E non si sa di nessuno che sia     mai riuscito a far mutare idea a un  altro  n‚  di  alcuno  che  abbia     abbandonato la propria convinzione.
    In quelle buche circolari,  larghe e profonde come ciotole di discreta     grandezza,  si conserva a lungo  l'acqua  piovana,  come  in  vasi  di     pietra.  Queste fosse, ripiene di tiepida acqua, vengon chiamate pozzi     dai ragazzi,  che  in  esse  mettono,  gli  uni  e  gli  altri,  senza     distinzione di opinioni, i pesciolini, ghiozzi e lasche, catturati con     l'amo.
    Sulla riva sinistra, da un lato, subito oltre la strada, c'É un poggio     alquanto  grosso,   di  terra,   ma  di  una  terra  dura,   grigia  e     pietrificata.  Su di esso non cresce e non fiorisce niente al  difuori     di un'erbetta dura e spinosa come filo d'acciaio.  Il poggio É la meta     e il confine di tutti i giuochi infantili  intorno  al  ponte.  Questo     luogo,  una  volta,  si chiamava la Tomba di Radisav.  Si racconta che     questi fu un capo serbo,  un uomo  potente.  Quando  il  visir  Mehmed     Pascià  si  propose  di  costruire un ponte sulla Drina e spedì la sua     gente,  tutti si  sottomisero  e  accettarono  la  corv‚;  si  ribellò     soltanto questo Radisav, che sollevò il popolo e mandò a dire al visir     che  rinunciasse  al lavoro,  perché‚ non avrebbe eretto un ponte sulla     Drina facilmente come pensava.  E il visir ebbe effettivamente il  suo     filo  da  torcere  prima  di potersi impadronire di Radisav,  dato che     questi era un eroe fuor  del  comune,  e  non  c'erano  n‚  fucili  n‚     sciabole  che  potessero  colpirlo,  n‚  corde n‚ catene che potessero     avvincerlo;  tutto egli strappava come filo,  dato che aveva con s‚ un     potente talismano. E chi sa che cosa sarebbe accaduto e se avrebbe mai     il  visir  costruito  il  ponte,  se  non  ci fosse stato uno dei suoi     uomini,  saggio ed esperto,  che corruppe e tentò di  far  parlare  un     servo   di   Radisav.   Accadde  così  che  sorpresero  Radisav  e  lo     strangolarono durante il sonno,  dopo averlo legato con corde di seta,     poiché‚  soltanto  contro  la seta il suo talismano era inefficace.  Le     nostre donne credono che ci sia una notte, in tutto l'anno,  in cui si     può  vedere  un bianco splendore scender giù dal cielo proprio su quel     poggio.  Ed É una notte d'autunno,  tra l'Assunzione e la Natività  di     Maria  Vergine.  Ma  i ragazzi che,  credano o no alla leggenda,  sono     stati lasciati di vedetta presso le finestre  che  guardano  verso  la     Tomba  di Radisav,  non sono mai riusciti a scorgere il fuoco celeste,     perché‚ sempre prima di mezzanotte li ha vinti il sonno.  Al contrario,     alcuni  viaggiatori che non pensavano a questa storia hanno visto come     un bianco chiarore sul poggio al disopra del ponte,  tornando di notte     in città.
    I turchi della cittadina,  dal canto loro,  raccontano da tempi remoti     che in quel posto É morto  da  martire  un  derviscio  chiamato  shehù     Turhanija,  che fu un grande eroe e difese lì il passaggio sulla Drina     da una banda di infedeli.  E se in quel luogo  non  c'É  n‚  un  cippo     sepolcrale  n‚  un  mausoleo,  ciò  É  proprio  per  un  desiderio del     derviscio,  che ha voluto essere sepolto senza alcuna lapide  o  segno     distintivo affinché‚ non si sapesse che si trova colà. Se mai in futuro     vi  passerà  qualche  esercito  d'infedeli,  egli  sorgerà  da  quella     collinetta e li fermerà,  come ha già fatto  una  volta,  sì  che  non     possano proseguire oltre il ponte di Vishegrad.  In compenso, il cielo     stesso illumina talvolta col suo splendore il poggio.
    In tal modo la vita dei ragazzi della cittadina  si  svolge  sotto  il     ponte  e attorno a esso,  tra inutili giuochi e fantasie infantili.  E     fin dai primi anni dell'adolescenza ci si trasferisce sopra il  ponte,     dove   i   sogni  giovanili  trovano  altro  alimento  e  altre  sfere     d'interessi, ma dove cominciano già anche le preoccupazioni,  le lotte     e il penoso stento della vita.
    Sul ponte e vicino al ponte sbocciano i primi sogni d'amore, avvengono     i primi incontri casuali, i primi approcci e sussurri. Qui si svolgono     anche  i  primi  lavori  e  gli  affari,  i litigi e gli accordi,  gli     appuntamenti e le attese. Qui, lungo il parapetto di pietra del ponte,     vengono messi in vendita le prime ciliege e i meloni,  i  "salep"  (1)     del  mattino e il pane caldo.  Ma qui si raccolgono pure i mendicanti,     gli storpi e i tignosi,  così come i giovani e i sani  che  desiderano     farsi  vedere  o  vedere  qualcuno,  o  come tutti coloro che hanno da     mettere in  mostra  qualche  frutto,  qualche  abito  o  qualche  arma     speciale.  Vengono  spesso a sedersi qui uomini maturi e ragguardevoli     per discorrere intorno alle cose pubbliche e alle faccende d'interesse     collettivo,  ma ancora piùspesso i giovincelli che non hanno mente ad     altro che ai canti e agli scherzi.  In occasione di grandi eventi e di     storiche trasformazioni É qui che vengono esposti appelli  e  proclami     (sul   muro   sopraelevato,   al  disotto  della  targa  marmorea  con     l'iscrizione turca e al disopra della fontana), ma qui,  fino al 1878,     venivano anche impiccate o impalate le teste di tutti coloro che,  per     un qualsiasi motivo,  erano giustiziati,  e le esecuzioni,  in  questa     cittadina  di  frontiera,  specialmente negli anni turbolenti,  furono     frequenti e in certi tempi, come vedremo, perfino quotidiane.     Non possono attraversare il ponte n‚ cortei nuziali n‚ funerali  senza     che ci si fermi alla "porta".  Qui,  di solito, i convitati alle nozze     si preparano e si mettono in fila prima di andare al mercato.  Se sono     tempi  tranquilli  e  quieti  si  passano  a  turno  la "rakija" (2) e     cantano,  danzano il "kolo" (3),  e spesso si trattengono molto più  a     lungo  del  previsto.  E  durante  i  funerali,  coloro che portano il     defunto lo depongono un po' per riposarsi,  proprio qui alla  "porta",     dove del resto egli ha trascorso buona parte della vita.
    La  "porta" É il punto piùimportante del ponte,  così come il ponte É     la parte piùimportante della  cittadina,  o,  come  scrisse  nel  suo     diario  un  viaggiatore  turco  che  venne  ottimamente  ospitato  dai     vishegradesi, "la porta É il cuore del ponte, che É il cuore di questa     cittadina, che a ognuno deve restare nel cuore".  Essa dimostra quanto     gli architetti di un tempo, dei quali le antiche storie raccontano che     ebbero  a combattere con gli spiriti e con portenti di ogni genere,  e     che dovettero murare vivi dei fanciulli,  avessero sviluppato il senso     non solo della stabilità e della bellezza della costruzione,  ma anche     dell'utilità e della comodità  che  da  quella  costruzione  avrebbero     tratto pure i piùremoti discendenti.  E quando uno ha conosciuto bene     la vita locale e ha ben riflettuto,  deve dire  a  se  stesso  che  in     verità  sono pochi in Bosnia coloro che hanno le occasioni e i piaceri     che possono toccare sulla "porta"  a  ciascuno  degli  abitanti  della     città, anche al piùmisero
    Si  capisce  che  la  stagione  invernale  non entra neppure in conto,     perché‚ d'inverno il ponte viene attraversato  soltanto  da  chi  vi  É     costretto,  e questi allunga il passo e piega la testa sotto il freddo     vento che soffia ininterrotto sul fiume. Allora, É chiaro,  nessuno si     ferma  sui  terrazzi  aperti della "porta".  Ma in ogni altra stagione     dell'anno la "porta" É una vera e propria manna per i  ragazzi  e  per     gli  adulti.  Ogni abitante del luogo,  in ogni ora del giorno e della     notte,  può andare alla "porta" e sedersi sul sofà,  oppure  indugiare     nelle  vicinanze per trattare affari o per chiacchierare.  Germogliato     ed elevato fino a una quindicina di metri dal fiume verde e  rumoroso,     quel sofà di pietra É sospeso nello spazio,  al disopra dell'acqua, in     mezzo a montagne verdescuro che lo cingono da tre lati, col cielo e le     nuvole o le stelle in alto,  e con una vista aperta lungo il fiume che     sembra un angusto anfiteatro chiuso, in fondo, da monti azzurri.     Quanti  visir e ricconi ci sono al mondo,  che possano esporre la loro     gioia o i loro affanni,  il loro diletto o il loro  passatempo  in  un     posto come questo?  Pochi, molto pochi. E quanti di noi, nel corso dei     secoli e di generazione in generazione, se ne sono stati seduti qui in     attesa dell'aurora o della preghiera  serale  oppure  durante  le  ore     notturne,  quando, con un moto impercettibile, tutta la volta stellata     si sposta al disopra delle nostre teste!  Molti e molti  di  noi  sono     stati  seduti  qui,  col  capo  poggiato sul gomito,  o adagiati sulla     liscia pietra squadrata, e,  dinanzi all'eterno gioco delle luci sulle     montagne  e delle nuvole in cielo,  hanno dipanato le fila,  sempre le     stesse,  e sempre imbrogliate in maniera diversa,  dei  destini  della     nostra  città.  Qualcuno,  molto tempo fa,  asserì (era uno straniero,     bisogna riconoscerlo,  e parlava scherzando)  che  questa  "porta"  ha     influito  sulla  sorte della cittadina e sul carattere stesso dei suoi     abitanti.  In queste  interminabili  sedute,  affermò  il  forestiero,     occorre  cercare  la  chiave  per  spiegare  l'inclinazione  di  molti     cittadini alla meditazione e alle fantasticherie,  e  uno  dei  motivi     principali  di quella malinconica tranquillità per cui sono conosciuti     gli abitanti di Vishegrad.
    In ogni caso, non si può negare che i vishegradesi,  fin dagli antichi     tempi,  in  confronto con gli abitanti di altre località,  hanno avuto     fama di essere uomini  sventati,  inclini  ai  piaceri  e  dalle  mani     bucate.  La  loro  cittadina  si trova in una posizione favorevole,  i     villaggi circostanti sono fertili e ricchi,  e il denaro,  a  dire  il     vero, passa in abbondanza per Vishegrad, ma non ci si ferma a lungo. E     se  si  trova qualche risparmiatore,  che pensa alla propria casa ed É     immune da passioni,  É senza dubbio un immigrato;  ma l'acqua e l'aria     di Vishegrad hanno tali proprietà che i suoi figli nascono con le mani     aperte e con le dita distese,  e,  soggiacendo al generale contagio di     prodigalità e di spensieratezza,  vivono  col  motto:  "Altro  giorno,     altro guadagno".
    Si racconta che il vecchio Novak,  allorché‚, esausto, dové‚ ritirarsi e     abbandonare il  brigantaggio  sulla  Romanija,  così  ammaestrasse  il     giovane Grujica, quando questi dové‚ sostituirlo:
    ®Quando tendi un'imboscata osserva bene chi É il viandante che avanza.     Se vedi che cavalca pavoneggiandosi e indossa un rosso panciotto, e ha     guaine d'argento e uose bianche, allora é uno di Foca. Attacca subito,     poiché‚ questo é carico di bottino, addosso e nelle bisacce. Se vedi un     viandante  vestito  miseramente:  uno  col  capo  chino  e piegato sul     cavallo come se andasse a mendicare, attacca pure,  É uno di Rogatica.     Sono tutti così: spilorci e dimessi, ma pieni di quattrini. Ma se vedi     un  tipo originale: uno che ha incrociato le gambe sulla sella,  suona     la mandola e canta a voce alta,  allora non attaccare e non  sporcarti     le  mani  invano,  ma  lascialo  passare,  quel  miserabile;  É uno di
    Vishegrad, e non ha niente, perché‚ con lui i soldi non durano.¯     Tutto questo starebbe a confermare l'opinione dello straniero  di  cui     s'É parlato più sopra. D'altro canto É difficile dire esattamente fino     a  qual  punto questa opinione sia esatta.  Come in faccende analoghe,     pure in questo caso non É facile discernere quale sia la causa e quale     la conseguenza.  E' stata proprio la "porta" che ha conferito il  loro     carattere agli abitanti della cittadina,  oppure, al contrario, essa É     stata concepita secondo il  loro  animo  e  il  loro  intendimento,  e     costruita  per  loro,  per  le  loro esigenze e per le loro abitudini?     Domanda superflua e vana.  Non esistono costruzioni casuali,  staccate     dall'ambiente  umano  dal  quale  sono  sorte,  e dalle esigenze,  dai     desideri e dagli intendimenti degli uomini,  allo stesso modo che  non     esistono linee arbitrarie e forme non motivate nell'architettura. E la     genesi  e la vita di ogni grande,  bella e utile costruzione,  come il     suo rapporto con l'abitato nel quale É sorta,  spesso portano  con  s‚     complessi drammi e misteriose storie.  In ogni caso, una cosa É certa:     tra la vita della gente della cittadina e  questo  ponte  sussiste  un     intimo,  secolare legame. I loro destini sono talmente intrecciati gli     uni  agli  altri,   che  non  si  possono  n‚  pensare  n‚  raccontare     separatamente  Per  tale  ragione  la narrazione della nascita e delle     vicende del ponte É,  al tempo stesso,  la narrazione della vita della     città e della gente che la abita,  di generazione in generazione, allo     stesso modo che attraverso  tutti  i  racconti  concernenti  la  città     penetra  furtiva  anche  la  linea  del  ponte  di pietra dalle undici     arcate, con la sua "porta" nel mezzo, a guisa di corona.


    NOTE.

1. Bevanda turca calda e dolce. (Nota del Traduttore)
2. Acquavite. (Nota del Traduttore)
3. Caratteristica danza circolare slava. (Nota del Traduttore)














    2.

    Adesso ci conviene tornare ai tempi in cui, in questo luogo, non c'era     neppure l'ombra di un ponte,  tanto meno di un  ponte  qual  É  quello     attuale.
    Forse già in quegli antichi tempi qualche viandante,  passando da quel     luogo, stanco e zuppo di pioggia, avrà desiderato che,  in virtù di un     miracolo,  un ponte si inarcasse sopra il fiume ampio e fragoroso,  sì     da consentirgli di giungere più facilmente e più celermente alla meta.     Infatti non c'É dubbio che gli uomini,  da quando hanno  cominciato  a     esistere  e a transitarvi,  superando gli ostacoli del cammino,  hanno     pensato alla possibilità di aprire un passaggio in questo posto,  allo     stesso modo che, da che mondo É mondo, i viaggiatori sognano una buona     strada,  una compagnia fidata e un caldo alloggio.  Succede, però, che     non qualsiasi uomo possa nutrire desideri fecondi,  e che non tutti  i     pensieri  siano  accompagnati  dalla volontà e dall'energia necessarie     per tradurre in atto i desideri.
    La prima parvenza del ponte destinato a sorgere  balenò,  naturalmente     ancora del tutto vaga e nebulosa, nella fantasia di un ragazzo decenne     del vicino villaggio di Sokolovici,  un mattino dell'anno 1516, quando     egli venne condotto qua nel corso di un viaggio che lo doveva  portare     dal suo paese natio alla lontana Istanbul, splendida e terribile.     Allora  questa  stessa  Drina,  verde  e  impetuoso fiume montano "che     spesso si intorbida", passava per di qua,  corrodendo le sponde nude e     deserte,  rocciose  e  sabbiose  che  la  fiancheggiano.  La cittadina     esisteva anche allora,  ma aveva forme e dimensioni diverse da  quelle     odierne.  Sulla  sponda destra del fiume,  in cima all'erto colle dove     adesso sono le macerie,  era ben conservato un vecchio  castello,  una     ramificata fortificazione risalente al tempo del rigoglio del regno di     Bosnia,  con le sue torri, le casematte e i bastioni, opera di uno dei     potenti magnati  di  Pavlovici.  Sui  pendii,  al  disotto  di  questo     castello,  e sotto la sua protezione,  sorgevano i centri cristiani di     Mejdan e Bikavac, nonch‚ la frazione di Dushtche,  quasi completamente     turcizzata.  Giù  nella pianura,  tra la Drina e il Rzav,  dove poi si     sarebbe sviluppata la città vera e propria,  c'erano soltanto i  campi     dei  vishegradesi,  tagliati da una strada lungo la quale si trovavano     una locanda turca all'antica,  di legno,  alcuni  mulini  ad  acqua  e     qualche casupola.
    Là  dove  la  Drina  taglia  la  strada  c'era il famoso "traghetto di     Vishegrad",  un nero vecchio  battello,  con  sopra  un  traghettatore     burbero e neghittoso,  di nome Jamak,  dal quale,  quando era sveglio,     era più difficile farsi sentire di quanto non fosse destare  un  altro     immerso in un profondissimo sonno. Era un uomo di statura gigantesca e     di  forza  non  comune,  ma malandato a causa di numerose guerre nelle     quali s'era coperto di gloria. Aveva un solo occhio,  un solo orecchio     ed una sola gamba (l'altra ce l'aveva di legno).  Così conciato, senza     mai salutare e senza mai sorridere,  trasportava merci e  viaggiatori,     col suo fare lunatico e capriccioso, lentamente e disordinatamente, ma     in  modo  onesto e sicuro,  sì che nei racconti si parlava tanto della     sua fidatezza e della sua onestà quanto della sua lentezza e dei  suoi     estri.  Coi viaggiatori che traghettava non voleva n‚ parlare n‚ avere     rapporti. I soldi di rame dovuti per il trasporto, la gente li buttava     sul fondo della nera barca,  e lì rimanevano per tutto  il  giorno  in     mezzo  alla  sabbia e all'acqua;  soltanto la sera il traghettatore li     raccoglieva indolentemente con la ciotola di legno che gli serviva per     togliere l'acqua dal battello,  e se li  portava  nella  sua  casupola     sulla riva.
    Il  traghetto  funzionava  solamente  quando  il corso e l'altezza del     fiume erano regolari o appena un po' superiori alla norma,  ma bastava     che  l'acqua  si  intorbidasse e salisse oltre un certo livello perché‚     Jamak si trascinasse via la sua goffa imbarcazione per assicurarla con     solidi  legami  in  una  insenatura:   allora   la   Drina   diventava     invalicabile  come  il  più grande  dei  mari.  Jamak,  in quei casi,     diveniva sordo anche dall'orecchio buono,  oppure semplicemente se  ne     andava  verso  il  Castello  per  lavorare al suo campo.  Per tutto il     giorno,  allora,  si potevano scorgere sull'altra sponda i viaggiatori     in  arrivo  dalla  Bosnia,  i quali se ne stavano disperati sulla riva     rocciosa, donde, intirizziti e zuppi di pioggia,  guardavano invano la     barca ed il traghettatore e,  di tanto in tanto, lanciavano prolungate     invocazioni al disopra del fiume torbido e furioso.
    ®Ooooh, Jamaaaak!¯
    Nessuno  rispondeva,  nessuno  si  mostrava  fintantoch‚  l'acqua  non     decresceva;  ma  era  lo  stesso  Jamak  che,  con  lo  sguardo torvo,     implacabile,  senza ascoltare obiezioni e senza  fornire  spiegazioni,     stabiliva quale dovesse essere il momento opportuno.
    La cittadina,  che in quel tempo, appunto, era ancora un piccolo borgo     angusto,  si trovava sulla riva destra della Drina,  su per i  declivi     dell'erto poggio, sovrastata dalle rovine dell'antica fortezza, perché‚     allora  non  possedeva  neppure  il  perimetro e l'aspetto che assunse     soltanto  in  seguito,   dopo  che  il  ponte  venne  costruito  e  le     comunicazioni e i traffici si furono sviluppati.
    Quel  giorno di novembre giunse alla riva sinistra del fiume una lunga     teoria di cavalli carichi,  e si  fermò  per  trascorrervi  la  notte.     L'"aga" (1) dei giannizzeri, con la sua scorta armata, se ne tornava a     Istanbul  dopo  aver raccolto tra i villaggi della Bosnia orientale un     certo numero di bambini cristiani come "tributo di sangue".
    Erano già trascorsi sei mesi dall'ultima riscossione di questo tributo     di sangue,  così che questa  volta  la  cernita  era  stata  facile  e     abbondante;  senza difficoltà era stato trovato il numero richiesto di     ragazzi sani,  svegli e prestanti tra  i  dieci  e  i  quindici  anni,     sebbene  molti  genitori  avessero nascosto i loro figli nel bosco,  o     avessero insegnato loro a simulare l'imbecillità oppure  a  zoppicare,     li avessero rivestiti di stracci e li avessero lasciati nel sudiciume,     al solo fine di salvarli dalla requisizione dell'"aga". Alcuni avevano     perfino  mutilato a posta le proprie creature,  tagliando loro un dito     della mano.
    I ragazzi selezionati erano stati fatti proseguire sui piccoli cavalli     bosniaci,  in  lunga  fila.  Su  ogni  cavallo  c'erano  due  canestri     intrecciati,  del tipo di quelli che si adoperano per la frutta, uno a     ogni fianco,  e in ogni canestro era stato posto  un  ragazzo  con  un     piccolo pacco e una forma di focaccia,  ultime cose portate dalla casa     paterna.  Da questi canestri,  che oscillavano  e  scricchiolavano  in     maniera uniforme,  sbirciavano i volti freschi e impauriti dei ragazzi     rapiti.  Alcuni  guardavano  tranquillamente,   oltre  le  groppe  dei     cavalli,  quanto  più fosse  possibile  in lontananza il paese natìo,     altri  mangiavano  e  piangevano  nello  stesso  tempo,  altri  ancora     dormivano, la testa appoggiata al basto.
    A  una  certa  distanza  dagli  ultimi  cavalli  di  quella inconsueta     carovana avanzavano,  sparpagliati e  ansimanti,  diversi  genitori  o     parenti  di  quei  ragazzi  che  venivano  condotti  via  per  sempre,     destinati a  essere  circoncisi  in  una  terra  straniera,  a  essere     turcizzati e,  avendo dimenticato la propria fede,  il proprio paese e     la propria origine,  a trascorrere la vita nei reparti dei giannizzeri     o  in  qualche altro servizio superiore dell'impero.  Erano per lo pi—     donne,  soprattutto madri,  nonne e sorelle dei ragazzi  portati  via.     Quando si avvicinavano troppo,  i cavalieri dell'"aga" le disperdevano     a colpi di frusta, avventando contro di loro i cavalli con alte grida.     Esse,  allora,  si  disperdevano  e  si  nascondevano  nel  bosco  che     fiancheggiava  la  strada,  ma  dopo  poco si raggruppavano nuovamente     dietro al corteo e si sforzavano di raggiungere ancora una  volta  con     gli occhi lagrimosi,  al disopra delle ceste, le teste dei bambini che     venivano loro strappati.  Particolarmente tenaci e irrefrenabili erano     le  madri:  correvano,  con  spedito  calpestìo,  senza  guardare dove     mettevano i piedi,  nudi i petti,  scarmigliate,  dimentiche di  tutto     intorno  a  s‚,  lamentandosi  e  dolendosi come per un morto;  altre,     uscite fuori di senno, gemevano,  urlavano come si sentissero lacerare     l'utero  nei  dolori  del parto,  e,  accecate dal pianto,  andavano a     cadere proprio sotto le fruste dei  cavalieri,  e  ad  ogni  colpo  di     frusta  replicavano con una domanda insensata: ®Dove lo portate?  Dove     me lo portate?¯. Alcune tentavano di chiamare distintamente il proprio     figlio e di dargli ancora qualcosa di s‚,  quanto può essere contenuto     in  due  parole,  un'ultima  raccomandazione  o un avvertimento per il     viaggio.
    ®Rade, figlio mio, non dimenticare tua madre...¯
    ®Ilija! Ilija! Ilija!¯ gridava un'altra donna, cercando disperatamente     con  gli  occhi  la  nota,   cara  testa,   e  ripetendo  quel   grido     incessantemente,  come volesse scolpire nella memoria del ragazzo quel     nome che,  soltanto qualche giorno dopo,  gli sarebbe stato tolto  per     sempre.
    Ma  il  cammino  era  lungo,  la  terra dura,  il corpo debole,  e gli     ottomani forti e spietati.  A poco  a  poco  quelle  donne  rimanevano     indietro e,  spossate dal gran camminare, cacciate dalle frustate, chi     prima chi dopo, rinunciavano alla disperata fatica. Qui,  al traghetto     di  Vishegrad,  dovevano  fermarsi  anche le piùostinate,  perché‚ sul     battello non le prendevano e  non  era  possibile  passare  attraverso     l'acqua. Potevano sedere quietamente sulla sponda e piangere, dato che     nessuno   le  cacciava  pi—.   Qui  aspettavano  come  pietrificate  e     insensibili alla fame,  alla sete e al freddo,  finché‚ vedevano ancora     una  volta  sull'altra  riva del fiume la lunga teoria di cavalli e di     cavalieri che si dirigevano verso Dobrun, e in quella fila avvertivano     ancora una volta la presenza della propria creatura  che  spariva  dai     loro occhi.
    Quel giorno di novembre,  in una di quelle numerose ceste, se ne stava     silenzioso, guardandosi intorno con gli occhi asciutti,  un ragazzo di     dieci anni dal volto scuro,  proveniente da Sokolici alta.  Nella mano     intirizzita e arrossata stringeva un piccolo  temperino  ricurvo,  col     quale  distrattamente  intagliava l'orlo della sua cesta,  ma al tempo     stesso osservava tutto quel  che  era  intorno.  Nella  sua  mente  si     impressero  la  riva  rocciosa,  coperta  di  salici  radi,  spogli  e     desolatamente grigi,  il deforme traghettatore ed il cadente mulino ad     acqua,  pieno  di  ragnatele  e  di correnti d'aria,  in cui dovettero     pernottare prima che tutti attraversassero  la  torbida  Drina,  sulla     quale gracchiavano le cornacchie.  Come un malessere fisico in qualche     parte del suo corpo  ù una nera striscia che, per un secondo o due, di     tanto in tanto gli fendesse  il  petto  in  due  provocando  un  forte     doloreù  il  ragazzo assorbì il ricordo di quel luogo in cui la strada     si spezzava,  dove le disperazioni e gli sconforti  della  miseria  si     addensavano per depositarsi sulle rocciose sponde del fiume attraverso     il  quale  si  passava  con  difficoltà,  a  caro  prezzo e con grande     rischio.  Era  quello  il  ricettacolo  delle  dolorose  ferite  della     regione,  anche  per altri versi aspra e povera,  dove la tribolazione     diveniva manifesta  ed  evidente,  dove  l'uomo  era  arrestato  dalla     superiore forza degli elementi e, vergognoso per la propria impotenza,     era  costretto  a  vedere  e a contemplare piùchiaramente le sue e le     altrui sventure e arretratezze.
    Tutto questo era in quel fastidio fisico che si impresse  nel  ragazzo     in  quel  giorno  di  novembre  e  che in seguito non lo abbandonò mai     completamente, bench‚ egli mutasse vita e fede, nome e patria.     Quel che divenne poi il ragazzo della cesta lo narrano tutte le storie     in tutte le lingue,  ed É conosciuto piùnel vasto mondo  che  qui  da     noi.  Col  tempo  egli  divenne  un giovane e valoroso dignitario alla     corte  del  sultano,   poi  "kapudan  pascià"   (2),   quindi   genero     dell'imperatore,  condottiero  e  statista  di  fama mondiale,  Mehmed     Pascià Sokoli,  che in tre  continenti  combatt‚  guerre  per  lo  pi—     vittoriose  e  ingrandì  i  confini dell'impero turco,  lo rese sicuro     all'esterno e, col buon governo,  lo consolidò all'interno.  Per oltre     sessanta  anni  servì tre sultani,  provò nel buono e nel cattivo quel     che soltanto pochi ed eletti provano, e si erse ad altezze di potere e     di autorità  a  noi  ignote,  dove  solo  pochi  di  loro  giungono  e     rimangono.  Quest'uomo nuovo,  sorto in terra straniera,  dove neppure     col pensiero possiamo accompagnarlo,  dov‚ dimenticare tutto quel  che     aveva  lasciato  nel  paese dal quale un tempo lo avevano portato via.     Indubbiamente  dimenticò  anche  il  passaggio   sulla   Drina   sotto     Vishegrad;  la  deserta sponda sulla quale i viaggiatori tremavano per     il freddo e per l'incertezza, il lento battello tarlato,  il mostruoso     traghettatore e le cornacchie fameliche sopra la torbida acqua.  Ma il     senso di  fastidio  derivante  da  questo  insieme  di  cose  non  gli     scomparve mai del tutto.  Al contrario,  con l'andare degli anni e con     l'avvicinarsi della vecchiaia,  venne  manifestandosi  sempre  più di     frequente:  sempre  la  stessa striscia nera che passava attraverso il     petto e lo trafiggeva con quel particolare dolore,  ben noto  fin  dal     tempo  dell'infanzia  e nettamente diverso da tutte le pene e i dolori     aggiunti poi dalla vita.  Con gli occhi serrati,  il  visir  aspettava     allora che la nera lama passasse,  e si placasse il dolore.  In uno di     questi momenti gli venne di pensare che avrebbe  potuto  liberarsi  da     quel  fastidio  se avesse cancellato il traghetto sulla lontana Drina,     sul quale si ammucchiavano e si depositavano ininterrottamente miserie     e disgrazie di ogni specie, gettando un ponte tra le sponde scoscese e     sulla cattiva acqua che scorreva in mezzo a esse,  congiungendo i  due     capi  della  strada là interrotta,  e legando in tal modo per sempre e     saldamente la Bosnia con l'Oriente,  il luogo della  sua  origine  coi     luoghi della sua vita.  Così egli fu il primo che,  per un istante, di     sotto le palpebre chiuse,  vide la solida e snella sagoma  del  grande     ponte di pietra che sarebbe sorto in quel luogo.
    Già  in  quell'anno  ebbe inizio,  per ordine e a spese del visir,  la     costruzione del grande ponte sulla Drina.  I  lavori  durarono  cinque     anni.  Dovette  essere  quella  un'epoca  straordinariamente  vivace e     importante  per  la  cittadina  e  per  tutta  la  regione,  piena  di     trasformazioni e di eventi piccoli e grandi.  Ma,  fatto strano, nella     cittadina,  la quale per secoli ha ricordato e raccontato  avvenimenti     di  ogni  sorta,  e anche di quelli appena indirettamente connessi col     ponte, non si sono conservati molti particolari circa l'esecuzione dei     lavori per quell'opera.
    Il popolo rammenta e racconta solo quello che può  comprendere  e  che     riesce  a  trasformare in leggenda.  Tutto il resto gli scorre accanto     senza lasciare una traccia profonda,  con la muta  indifferenza  degli     anonimi  fenomeni naturali,  non eccita la sua fantasia e non si ferma     nel suo ricordo.  Questa faticosa e lunga costruzione fu per  esso  un     lavoro altrui e a spese altrui. Soltanto quando, come frutto di quello     sforzo,  apparve  all'improvviso il grande ponte,  la gente cominciò a     rammentare i particolari e a ornare l'origine di quel ponte  concreto,     ben costruito e durevole,  con racconti fantastici, che essa stessa, a     sua volta, sapeva abilmente costruire e ricordare a lungo.



    NOTE


1. "Signore" in turco. (Nota del Traduttore)
2. Comandante supremo della  flotta,  grande  ammiraglio.  (Nota  del     Traduttore)     3.

    La  primavera  dell'anno  in  cui  il  visir  decise  di effettuare la     costruzione,  giunsero nella cittadina i suoi uomini col  seguito  per     approntare  tutto  l'occorrente  per  il  ponte.  Erano  in  molti con     cavalli,  carriaggi,  vari strumenti  e  tende.  La  loro  apparizione     suscitò  paura  e  turbamento  nella  piccola  città  e  nei  villaggi     circostanti, specialmente tra i cristiani.
    A capo di questa comitiva c'era Abidaga, il principale uomo di fiducia     del visir per la costruzione del ponte, e con lui era Tosun "efendija"     (1), l'Architetto.  (Di questo Abidaga fin da prima si parlava come di     un uomo privo di scrupoli,  oltremodo implacabile e severo.) Quando si     furono sistemati nelle tende sotto Mejdan,  Abidaga  convocò  per  una     riunione  i  rappresentanti delle autorità locali e tutti i turchi pi—     ragguardevoli. Non si discusse molto, perché‚ parlò soltanto uno,  vale     a  dire  Abidaga.  Le  persone  convenute si trovarono dinanzi un uomo     grosso,  dal volto rubizzo come quello di  un  malato  e  dagli  occhi     verdi,  avvolto  in  un  ricco  costume di Istanbul,  con una barbetta     rossiccia e  i  baffoni  stranamente  piegati  in  alto  alla  maniera     ungherese.  Il  discorso  che  quest'uomo  veemente tenne alle persone     radunate, le sorprese ancor piùdel suo aspetto.
    ®Con ogni probabilità, prima che io giungessi,  vi sono pervenute voci     sul mio conto,  e io so che queste voci non possono essere n‚ belle n‚     piacevoli.  Verosimilmente avrete sentito  dire  che  esigo  lavoro  e     obbedienza da ognuno,  che colpisco e ammazzo chiunque non lavora come     si deve e non obbedisce senza sollevare obiezioni,  che  non  so  cosa     significhi  "non  É  possibile" e "non c'É",  che con me anche per una     parola di poco conto ci si giuoca la testa,  insomma che sono un  uomo     sanguinario  e  malvagio.  Desidero  dirvi che queste voci non sono n‚     inventate n‚ esagerate. Sotto il mio tiglio, in verità, non c'É ombra.     Questa fama me la sono acquistata durante  lunghi  anni  di  servizio,     eseguendo con dedizione gli ordini del gran visir.  Confidando in Dio,     condurrò a termine  anche  questo  lavoro  per  il  quale  sono  stato     mandato,  e quando, terminato il lavoro, me ne andrò di qui, spero che     mi precederà una fama ancora peggiore e piùfosca di quella che  vi  É     giunta.¯
    Dopo questo inconsueto preambolo,  che tutti ascoltarono in silenzio e     con gli occhi bassi,  Abidaga spiegò ai presenti che  si  trattava  di     erigere un'opera di grande rilievo quale non possedevano neppure paesi     piùricchi;  i lavori sarebbero durati cinque, forse perfino sei anni,     ma  in  ogni  caso  la  volontà  del  visir  sarebbe  stata   eseguita     scrupolosamente per filo e per segno. Detto questo, accennò alle prime     necessità  e  ai  lavori preliminari ed espose quanto si aspettava dai     turchi del luogo ed esigeva dai cristiani.
    Accanto a lui sedeva Tosun "efendija",  un  cristiano  islamizzato  di     corporatura minuta,  pallido e giallo, nato in una delle isole greche,     architetto,  il quale,  per ordine di Mehmed Pascià,  aveva  costruito     molte  opere pie a Istanbul.  Era tranquillo e indifferente,  come non     sentisse  o  non  comprendesse  il  discorso  di   Abidaga.   Guardava     fissamente  le  proprie  mani  e  solo di tanto in tanto sollevava gli     occhi. In questi momenti si potevano vedere le sue grandi pupille nere     di uno splendore vellutato,  belle pupille miopi di un uomo che badava     solo al proprio lavoro,  senza scorgere, percepire o comprendere altro     della vita e del mondo.
    I convenuti uscirono agitati e depressi dall'angusta e rovente  tenda,     notando come il sudore colasse loro di sotto le nuove vesti di festa e     come  in  ciascuno di loro fossero penetrati,  rapidi e irresistibili,     terrori e ansie.
    Quel che ora s'era abbattuto sulla cittadina e sull'intera regione era     una grande,  inspiegabile sventura  della  quale  non  si  riusciva  a     scorgere la fine. Dapprima cominciò il taglio del bosco e il trasporto     del legname.  Furono tanti i tronchi che transitarono sulle due sponde     della Drina, che la gente per lungo tempo ritenne che il ponte sarebbe     stato costruito di legno.  Poi seguirono  i  lavori  sul  terreno,  lo     scavo,  quindi la trivellazione della riva pietrosa.  La maggior parte     di questi lavori venne eseguita mediante corv‚.  E così si arrivò fino     all'autunno   inoltrato,   quando  i  lavori  vennero  temporaneamente     interrotti, essendo stata completata la prima fase costruttiva.     Tutto ciò avveniva sotto il controllo di Abidaga e sotto il suo  lungo     randello verde che passò anche nelle canzoni. Se egli infatti con quel     randello  indicava  qualcuno  che perdeva tempo e non lavorava come si     conveniva,  il malcapitato era subito afferrato dai  soldati,  che  lo     bastonavano  sul  posto,  gli versavano addosso acqua mentre era tutto     insanguinato e svenuto, e infine lo rimandavano al lavoro. Quando,  in     autunno  inoltrato,  lasciò  la cittadina,  Abidaga convocò di nuovo i     capi e gli anziani e disse loro che andava a trascorrere l'inverno  in     un  altro  luogo,  ma  che il suo occhio rimaneva là.  Tutti sarebbero     stati responsabili per ogni cosa.  Se fosse risultato che qualcosa era     stato  danneggiato  tra  i  lavori  eseguiti o che era stata sottratta     anche una sola assicella del legname ammassato,  avrebbe  imposto  una     multa  a  tutta la città.  Quando gli fecero notare che qualche guasto     avrebbe potuto essere provocato anche  dall'inondazione,  rispose  con     voce  fredda  e  senza  esitare che quella era la loro regione,  e che     quindi erano loro anche il fiume e i danni da esso arrecati.     Per  tutto  l'inverno  gli  abitanti  della  cittadina  vigilarono  il     materiale e badarono ai lavori come a un occhio della loro testa.  Con     la primavera riapparvero Abidaga  e  Tosun  "efendija",  ma  apparvero     anche  gli  scalpellini  dalmati  che  il popolino chiamava i "maestri     romani".  All'inizio erano circa trenta,  guidati da un  certo  mastro     Antonije,  un cristiano di Dulcigno.  Era questi un uomo alto e bello,     dagli occhi grandi,  dallo sguardo  ardito,  dal  naso  aquilino,  dai     capelli bruni che gli scendevano sulle spalle,  vestito signorilmente,     secondo la moda occidentale.  Suo aiutante era un moro,  un vero moro,     un  giovane  allegro  che  tutta  la  cittadina e tutti gli addetti ai     lavori chiamarono Arapin.
    Se l'anno precedente, a giudicare dall'enorme quantità di legname, era     sembrato che Abidaga avesse intenzione di erigere un ponte  di  legno,     adesso  tutti ritennero che egli volesse erigere una nuova Istanbul là     sulla Drina.  Cominciò ora il trasporto della pietra dalle miniere dei     monti presso Banja, a un'ora di cammino dalla città.
    L'anno   successivo  vicino  al  traghetto  di  Vishegrad  spuntò  una     singolare primavera.  Accanto a tutto quello che germoglia e  fiorisce     ogni anno in quella stagione, nacque dalla terra tutto un villaggio di     capanne;  si formarono nuovi sentieri e accessi all'acqua; si sparsero     ovunque carriaggi trainati da buoi e cavalli  da  tiro.  La  gente  di     Mejdan e di Okolishte osservava come ogni giorno,  al pari di un campo     seminato, giù vicino al fiume,  cresceva l'enorme massa di uomini,  di     bestie e di materiale da costruzione di ogni tipo.
    Sulla  ripida  sponda lavoravano i maestri scalpellini.  L'intera zona     acquistò il colore giallognolo della polvere di pietra.  E un po'  pi—     in là,  sulla piana sabbiosa, preparavano la calce spenta i lavoratori     giornalieri del luogo, i quali si muovevano veloci,  laceri e bianchi,     attraverso  il  candido  fumo  che  si sollevava alto dal calcare.  Le     strade erano ingombre di carri sovraccarichi e il  traghetto  lavorava     tutto  il  giorno,  trasportando  da  una  riva  all'altra  materiale,     assistenti e operai.  Guazzando nella torbida acqua  primaverile  fino     alla  cintola,  operai  specializzati  conficcavano  travi  e  pali  e     costruivano graticci impastati d'argilla destinati a dividere il corso     del fiume.
    Tutto questo osservava la gente che,  fino ad  allora,  aveva  vissuto     tranquilla  nella sua piccola città sparpagliata sui pendii accanto al     traghetto. E sarebbe andata bene se si fosse limitata a osservare,  ma     quei  lavori  assumevano  un volume e un ritmo tali che attraevano nel     loro turbine tutto quel che c'era, di vivo e di morto,  non solo nella     cittadina  ma anche in una vasta zona circostante.  Il secondo anno il     numero degli operai crebbe fino a raggiungere una cifra corrispondente     a tutti gli abitanti maschi  della  città.  Tutti  i  carri,  tutti  i     cavalli e i buoi lavoravano soltanto per il ponte. Tutto quanto poteva     strisciare  e  rotolare  veniva  preso  e messo all'opera,  talvolta a     pagamento,  talvolta per forza,  col sistema della  corv‚.  Il  denaro     circolava piùdi prima, ma il rincaro dei prezzi e la carenza di merce     aumentavano  con  un  ritmo  piùrapido dell'incremento dei quattrini,     così che questi, quando giungevano nelle mani di qualcuno, avevano già     perduto la metà del valore. Per la gente del luogo, conseguenze ancora     peggiori del rincaro e della penuria provocarono  l'irrequietezza,  il     disordine e l'incertezza che si riversarono adesso sulla cittadina per     effetto  dell'assembramento  di  tanti lavoratori giunti da ogni dove.
    Nonostante tutta la severità di Abidaga,  erano frequenti le risse tra     operai  e  le  ruberie  negli  orti e nei cortili.  Le donne musulmane     dovevano coprirsi il volto anche quando uscivano nel  cortile,  poiché‚     da  ogni  luogo  poteva  giungere  lo  sguardo  di quegli innumerevoli     lavoratori, forestieri o locali;  e i turchi della città si attenevano     scrupolosamente  alle  prescrizioni  dell'Islam,  tanto  piùche erano     tutti turchi di recente data e in mezzo a loro non c'era quasi nessuno     che non ricordasse un padre o un nonno cristiano o da poco turcizzato.     Per tutto questo i piùanziani tra coloro  che  osservavano  la  legge     turca  disapprovavano  apertamente  e  volgevano  le  spalle  a quella     confusa calca di operai, di bestiame da tiro,  di legname,  di terra e     di  pietra  che si estendeva e si imbrogliava sempre piùsu entrambi i     lati del  traghetto  e  che,  scavando  e  ampliandosi,  cominciava  a     raggiungere anche i loro vicoli, i loro cortili e i loro giardini.
    All'inizio  tutti quanti erano stati orgogliosi della grande opera che     il visir doveva erigere nella loro contrada.  Ma allora  non  sapevano     ancora   quel   che  ora  vedevano:  che  quella  superba  costruzione     richiedeva tanta confusione  e  inquietudine,  tanta  fatica  e  tante     spese.  E'  bello,  avevano  pensato,  appartenere  alla vera fede che     impera, É bello avere un conterraneo che É visir a Istanbul,  e ancora     piùbello É concepire un solido e prezioso ponte sul fiume,  ma quello     che adesso succedeva non era affatto piacevole.  La loro  città  s'era     trasformata   in   un   inferno,   in   una   tregenda   di   attività     incomprensibili, di fumo, di polvere, di grida e di baraonda. Gli anni     passavano,  i lavori si ampliavano e si sviluppavano,  ma  non  se  ne     vedeva  n‚  la  fine  n‚  il  senso.   A  tutto  rassomigliava  quella     costruzione, tranne che a un ponte.
    Così pensavano i turchi della città  recentemente  passati  alla  fede     islamica, e, quando si trovavano a quattr'occhi, ammettevano che tutto     era  andato loro di traverso ed era rimasto sullo stomaco: il dominio,     l'orgoglio e la gloria futura;  e così  si  scrollavano  di  dosso  il     pensiero  del ponte e del visir,  e di niente altro pregavano Iddio se     non di liberarli da quella sciagura e di rendere a loro  e  alle  loro     case  la  pace  di  un  tempo  e  la tranquillità di una vita modesta,     accanto all'antiquato traghetto del fiume.
    La storia  era  venuta  a  noia  ai  turchi,  ed  era  venuta  a  noia     specialmente ai cristiani di tutta la contrada di Vishegrad,  soltanto     che ai cristiani nessuno rivolgeva domande,  n‚ essi potevano palesare     il  loro malcontento.  Ed ecco che correva il terzo anno da che si era     cominciato a lavorare alla nuova costruzione  con  corv‚,  con  lavori     personali,  con cavalli e con buoi.  E questo facevano non solamente i     cristiani locali,  ma  anche  quelli  di  tre  distretti  circostanti.     Ovunque  i  soldati a cavallo di Abidaga catturavano i cristiani delle     campagne e anche quelli delle città,  e li costringevano a lavorare al     ponte.  Di  solito  sorprendevano  le  loro  vittime  nel  sonno  e le     acchiappavano  come  pulcini.  Per  la  Bosnia  intera  i  viaggiatori     consigliavano coloro che incontravano per strada a non andare verso la     Drina,  perché‚ chiunque trovassero lo prendevano, senza chiedergli chi     fosse n‚ dove andasse, e lo costringevano a pagare il proprio riscatto     col lavoro di almeno  qualche  giorno.  I  cristiani  delle  città  si     riscattavano  corrompendo  i  soldati con regali.  Quelli dei villaggi     cercavano di fuggire nel bosco, ma i soldati immediatamente prendevano     dalle loro case gli ostaggi, spesso anche donne,  al posto dei giovani     fuggiti.
    E' questo il terzo autunno che la gente sgobba presso il ponte,  e non     c'É alcun sintomo dal quale risulti che il lavoro vada avanti e che si     avvicini la fine di questa tribolazione.  L'autunno É  già  al  colmo;     sono cadute le foglie,  le strade hanno ricevuto le prime spruzzate di     pioggia,  la Drina s'É ingrossata  e  intorbidita,  i  nudi  campi  di     stoppie  sono  pieni di lente cornacchie.  Ma Abidaga non interrompe i     lavori.  Sotto lo scialbo sole novembrino i contadini trascinano legna     e  pietrame,  guazzano  a piedi nudi o con le cioce insanguinate nella     strada fangosa, sudano per la fatica e tremano per il freddo vento, si     stringono addosso i loro rustici calzoni neri,  pieni di nuovi buchi e     di  vecchie  toppe,  legano i lembi lacerati della loro unica camicia,     annerita dalla pioggia,  dal fango e dal fumo,  che tuttavia non osano     lavare perché‚ nell'acqua si spappolerebbe tutta in minuti filacci.  Su     tutti É sospeso il randello verde  di  Abidaga,  poiché‚  questi  va  a     ispezionare  la  cava di Banja e tutti i lavori intorno al ponte,  pi—     volte al giorno.  E' adirato e astioso contro tutti,  perché‚ i  giorni     passano  e  l'impresa  non  progredisce  così velocemente come avrebbe     voluto.  Con la sua pesante pelliccia russa e  i  suoi  alti  stivali,     rosso in viso, si arrampica tra le impalcature dei pilastri che già si     ergono  sull'acqua,  entra nelle fucine,  nei depositi e nelle capanne     degli operai, e aggredisce tutti, l'uno dopo l'altro, i sorveglianti e     gli imprenditori.
    ®Le giornate sono brevi.  Sempre piùbrevi!  Oh,  figli di cagna,  non     sapete far altro che mangiare il pane a ufo!¯
    Strilla  tanto,  come  se fosse loro colpa il fatto che il sole spunta     tardi e tramonta presto. E quando scende il crepuscolo,  l'inesorabile     disperato  crepuscolo  di  Vishegrad,   quando  le  erte  montagne  si     stringono attorno alla cittadina e cala rapidamente la notte, profonda     e sorda come se fosse l'ultima,  la furia di Abidaga raggiunge il  suo     culmine;  e,  non avendo piùqualcuno su cui sfogarsi, egli si strugge     da solo e non può dormire al pensiero di tanti lavori che  languono  e     di  tanta  gente  che  se  ne sta inerte e perde il suo tempo.  Allora     digrigna i denti.  Manda a chiamare i sorveglianti  e  si  ingegna  di     trovare qualche sistema per potere, a partire dall'indomani, impiegare     meglio  la giornata e sfruttare piùrazionalmente i lavoratori adibiti     all'impresa.
    Nel frattempo la gente dorme nelle capanne e nei tuguri,  si riposa  e     ristora  le  proprie energie.  Ma non tutti dormono,  anche essi sanno     stare svegli, per loro conto e a loro modo.
    In  un  vasto  e  asciutto  tugurio  arde  il  fuoco  nel  mezzo,  pi—     propriamente finisce di bruciare, perché‚ di esso É rimasta soltanto la     brace che cova in quell'ambiente semibuio.  L'intero locale É pieno di     fumo e di pesante puzzo acidulo proveniente dai vestiti bagnati, dalle     cioce e dalla traspirazione di una trentina di corpi umani. Sono tutti     lavoratori a corv‚,  contadini dei dintorni,  cristiani,  poveri servi     della  gleba.  Sono tutti fangosi,  zuppi,  esausti e preoccupati.  Li     sfibra quel lavoro non retribuito e disperato,  mentre i  loro  campi,     lass— nei villaggi,  aspettano invano l'aratura autunnale.  La maggior     parte di loro É ancora sveglia.  Fanno asciugare  le  pezze  da  piedi     accanto al fuoco, ricuciono le cioce, oppure si limitano a guardare la     brace.  In  mezzo  a  loro  si  trova,  chi sa come,  un montenegrino,     sorpreso dai soldati per la strada,  che sgobba già da qualche giorno,     sebbene  vada  continuamente  dicendo e dimostrando a tutti che ciò lo     amareggia molto e che questo genere di lavoro non gli fa onore.     Adesso s'É radunata attorno a lui la maggior parte di coloro che  sono     svegli,  e specialmente i piùgiovani. Da una profonda tasca della sua     veste grigia il montenegrino estrae le "gusle" (2),  poco appariscenti     e  piccole  come  il palmo di una mano,  e un corto archetto.  Uno dei     contadini esce dal tugurio e si mette di sentinella,  per avvertire se     arriva  qualche  turco.  Tutti  osservano  il  montenegrino come se lo     vedessero  adesso  per  la  prima  volta  e  fissano  le  "gusle"  che     spariscono nelle sue grandi mani. Egli si piega; le "gusle" gli stanno     in  grembo  e  ne  regge col mento la cima,  unge di resina la corda e     soffia nell'archetto;  ora ogni cosa É umida e  stiepidita.  E  mentre     l'uomo  esegue tutte queste piccole azioni,  sicuro di s‚ e tranquillo     come  se  fosse  solo  al  mondo,  gli  altri  lo  guardano  immobili.     Finalmente  risuona  la  prima  nota,  aspra  e diseguale.  L'emozione     aumenta.  Il montenegrino accorda  il  suo  strumento  e  comincia  ad     emettere  la propria voce attraverso il naso,  completando con essa il     suono delle "gusle".  Tutto si fonde armonicamente e tutto preannuncia     una  strana  storia.  E  a  un certo momento,  dopo che ha alla meglio     aggiustato la  sua  voce  sulle  "gusle",  il  cantore  getta  davvero     indietro la testa, tutt'a un tratto, con vigore ed alterigia, così che     il  pomo d'Adamo gli si staglia sul magro collo e il profilo acuto gli     sfavilla nel chiarore.  Poi emette un  suono  smorzato  e  prolungato:     "Aaaa aaaaaa!", e subito continua con tono chiaro e tripudiante:

    Beve il vino Stevan, il re serbo,     a Prizren, città mansueta.     son con lui gli anziani patriarchi:     son con lui quattro patriarchi,     nove vescovi sono in mezzo a loro,     e venti visir da tre code equine,     e in fila i nobili di Serbia.     Passa il vino Mijajlo il dispensiere,     e fa luce la sorella Kandosija     con le pietre preziose del seno...

    I contadini si accalcano sempre piùvicino al "guslar",  ma senza fare     il minimo rumore; non si sente neppure il loro respiro.  Tutti battono     le ciglia,  stupiti e abbagliati.  Per le schiene passano brividi,  le     spine dorsali si rizzano, i petti si gonfiano, gli occhi brillano,  le     dita  delle  mani  si  allargano  e  si  contraggono,  i muscoli delle     mascelle si irrigidiscono. Il montenegrino ricama e arricchisce il suo     canto sempre piùvelocemente, rendendolo sempre piùbello e ardito,  e     quella gente bagnata,  ormai scossa dal sonno,  rapita e insensibile a     tutto il resto, segue la canzone come se fosse il proprio destino, pi—     bello e luminoso.
    Tra tanti lavoratori forzati c'era anche un certo Radisav di  Unishte,     piccolo  villaggio subito sopra la città.  Piuttosto basso,  dal volto     scuro e dagli occhi irrequieti, curvo sulla cintura,  camminava rapido     allargando  le  gambe e dondolando la testa e le spalle ora a sinistra     ora a destra,  ora a sinistra ora a  destra,  come  se  stacciasse  la     farina.  Non era n‚ tanto povero quanto sembrava n‚ tanto rozzo quanto     fingeva d'essere. Era della famiglia degli Heraci, i quali possedevano     buona terra e avevano la casa piena di maschi,  ma durante gli  ultimi     quarant'anni  quasi  tutto il loro villaggio aveva abbracciato la fede     islamica,  sì che si  sentivano  molto  oppressi  e  isolati.  E  così     piccolo,  acquattito  e  frettoloso,  questo  Radisav durante le notti     autunnali andava "stacciando" da  un  tugurio  all'altro,  entrava  di     soppiatto,  intrufolandosi  come  un punteruolo tra i contadini,  e si     metteva a parlare sottovoce con questo o con quello.  I suoi  discorsi     avevano, in sostanza, questo tenore:
    ®Fratelli,  ora  ne  abbiamo abbastanza,  e bisogna che ci difendiamo.     Vedete da soli che questa costruzione ci esaurirà e ci sfibrerà. Anche     i nostri figli saranno costretti a sgobbare  per  il  ponte,  se  pure     resteremo in vita. Questo lavoro si fa per mandarci in rovina, non per     altro.  Il ponte non serve ai poveracci e ai cristiani,  ma ai turchi;     noi n‚ mettiamo in campo eserciti n‚ traffichiamo;  e il traghetto per     noi É sufficiente. Così ci siamo accordati per andare, nel cuore della     notte,  ad abbattere e a danneggiare tutto quel che si può di quanto É     fabbricato e costruito,  e per spargere la  voce  che  la  "vila"  (3)     distrugge  ciò  che  si  fa e non vuole concedere il ponte alla Drina.     Vedremo se ciò gioverà a qualcosa. Altri mezzi non abbiamo, e qualcosa     occorre fare.¯
    Come sempre accade,  ci furono alcuni,  pusillanimi e diffidenti,  che     considerarono inutile questa idea,  poiché‚ i forti e astuti turchi non     si sarebbero lasciati distogliere dal loro proposito,  e pensarono che     fosse  necessario  continuare  a prestare il proprio lavoro finché‚ Dio     avesse voluto, per non cadere dalla padella nella brace.  Ma vi furono     anche  di  quelli  che  ritennero  che era sempre meglio fare qualcosa     piuttosto che seguitare ad  arrabattarsi  attendendo  che  cadesse  di     dosso fin l'ultimo cencio di vestito e l'ultima rimanenza di energia a     causa  del  duro lavoro e dello scarso pane di Abidaga;  che occorreva     seguire chiunque pensasse di arrivare  a  una  qualche  via  d'uscita.
    Furono  in  sostanza  i  giovani,  ma  a  loro si unirono anche uomini     posati,  ammogliati,  padri di  famiglia,  che  acconsentirono,  senza     grande  passione  e senza avventatezza,  dicendo con aria preoccupata:     ®Andiamo dunque a demolirlo,  accidenti a  lui,  prima  che  mandi  in     rovina tutti noi. E se neanche questo gioverà...¯.
    E a questo punto scrollarono la mano con disperata risolutezza.     Così,  in  quei primi giorni d'autunno,  dapprima tra gli operai,  poi     nella  cittadina,  si  sparse  la  voce  che  la  "vila"  della  Drina     intralciava  i  lavori  per il ponte,  distruggendo e abbattendo notte     tempo ciò che si edificava di giorno, e che la costruzione non sarebbe     giunta  ad  effetto.   Contemporaneamente   cominciarono   davvero   a     verificarsi di notte misteriosi danni nei punti protetti da argini,  e     in seguito anche nei lavori di muratura.  Gli  utensili  che  fino  ad     allora  gli  operai  avevano lasciato sui pilastri finali,  di cui era     iniziata la costruzione,  cominciarono a perdersi e a  scomparire,  le     opere sul terreno presero a crollare e a disfarsi.
    La  voce che sarebbe stato impossibile ultimare il ponte si sparse per     largo tratto, diffusa da turchi e da cristiani, acquistando sempre pi—     l'aspetto di una salda convinzione.  I  cristiani  esultavano,  sempre     sottovoce,  sempre  in  maniera impercettibile e di soppiatto,  ma con     tutto il cuore.  Anche i turchi del luogo,  che prima avevano guardato     con orgoglio alla costruzione del visir, cominciarono ad ammiccare e a     scrollare le mani con aria sprezzante.  Molti cristiani rinnegati che,     avendo mutato fede, non avevano trovato quello che si aspettavano,  ma     avevano continuato ad avere magri pasti e ad andare in giro coi gomiti     rotti,  ascoltavano  e  riferivano  con  diletto i racconti sul grande     insuccesso e  provavano  un'amara  soddisfazione  nel  constatare  che     neppure  i visir potevano attuare tutto quello che si proponevano.  Si     diceva già che i maestri forestieri s'apprestavano alla partenza e che     il ponte non sarebbe sorto là dove non era mai stato  e  dove  non  si     sarebbe dovuto cominciare a fabbricare. Tutte queste voci si confusero     e presto si sparsero tra la gente.
    Il  popolo  inventa  facilmente le storie e le sparge in fretta,  e la     realtà si mescola stranamente in un  inestricabile  groviglio  con  le     storie  stesse.  I  contadini  che  di  notte  ascoltavano il "guslar"     raccontavano che la "vila" la quale  distruggeva  le  opere  eseguite,     aveva  fatto sapere ad Abidaga che non avrebbe smesso di arrecar danni     finché‚ non fossero stati murati nelle fondamenta due gemelli, fratello     e sorella,  di nome Stoja e Ostoja.  E molti giurarono di aver visto i     soldati  cercare  nei  villaggi questi due fanciulli.  (I soldati,  in     realtà,  eseguivano perlustrazioni,  non già per cercare i  bimbi,  ma     perché‚, per ordine di Abidaga, andavano a origliare e a interrogare la     gente per identificare gli ignoti che danneggiavano il ponte.)     In  quel  tempo accadde che,  in un villaggio presso Vishegrad,  restò     incinta una ragazza muta e deficiente, un'orfana che prestava servizio     presso una famiglia estranea,  e neppure lei volle o  seppe  dire  per     colpa di chi.  Era un evento raro e immemorabile che una fanciulla,  e     per di piùuna come quella,  restasse incinta,  e  che  poi  il  padre     rimanesse sconosciuto.  La cosa si riseppe in un vasto raggio. Proprio     in quei giorni la ragazza partorì in un tugurio due gemelli,  i  quali     nacquero entrambi morti.  Le donne del villaggio l'aiutarono nel parto     che fu straordinariamente difficile,  e subito seppellirono i  bambini     in  una piantagione di prugni.  Già al terzo giorno,  questa donna che     non era destinata a essere madre s'alzò e si mise a cercare per  tutto     il  villaggio  le  sue  creature.  Invano tentarono di spiegarle che i     bimbi erano nati morti ed erano stati sepolti. Per liberarsi dalle sue     continue domande le dissero, o meglio, le spiegarono con cenni,  che i     figli   erano  stati  portati  nella  cittadina,   là  dove  i  turchi     costruivano il ponte.  E così,  debole e sconsolata,  la ragazza se ne     andò  nella  città  e cominciò a cercare intorno alle impalcature e al     cantiere,  fissando  negli  occhi  gli  uomini  con  aria  spaurita  e     domandando  notizie dei bimbi con incomprensibili brontolìi.  La gente     la guardava con stupore o la cacciava,  affinché‚  non  disturbasse  il     lavoro.  Accorgendosi che non comprendevano che cosa volesse,  ella si     sbottonava la rozza camicia da contadina e mostrava i seni,  doloranti     e  turgidi,  i  cui  capezzoli  cominciavano  ormai  a  scoppiare  e a     sanguinare a causa del latte che  premeva  irresistibilmente.  Nessuno     sapeva  come  poterla aiutare e come spiegarle che le sue creature non     erano  state  murate  nel  ponte,  perché‚,   a  ogni  parola  buona  e     assicurazione,  a  ogni ingiuria e minaccia,  rispondeva con un penoso     brontolìo e si metteva a  investigare  in  ogni  angolo  con  occhiate     penetranti  e  diffidenti.  Alla  fine  smisero  di cacciarla via e la     lasciarono bighellonare vicino  al  cantiere,  girandole  attorno  con     penosa  compassione.  I  cuochi  le  davano  la polenta destinata agli     operai  che  era  rimasta  attaccata  in  fondo   alle   caldaie.   Le     affibbiarono  il  nome  di Ilinka la matta,  e così la chiamò l'intera     città.  Perfino Abidaga le passava vicino  senza  protestare,  girando     superstiziosamente  la testa,  e ordinava che le regalassero qualcosa.     Così visse, pazza tranquilla, vicino alla costruzione. Insieme con lei     rimase anche il racconto dei turchi che avevano  murato  nel  ponte  i     bambini.  Alcuni ci credevano,  altri no,  ma tutti lo riferivano e lo     diffondevano.
    I danni intanto continuarono a verificarsi,  a volte minori,  a  volte     maggiori,  e  nel  medesimo tempo si sparsero sempre piùinsistenti le     voci secondo le quali le "vile" non concedevano il ponte sulla Drina.     Abidaga era su tutte  le  furie.  Gli  coceva  che  si  fosse  trovato     qualcuno  il  quale,  nonostante  la sua proverbiale severità,  da lui     coltivata come particolare motivo d'orgoglio,  avesse  osato  compiere     qualcosa  contro la sua opera ed i suoi propositi.  E poi gli facevano     schifo quei vishegradesi,  musulmani e cristiani,  che erano  lenti  e     inetti  al lavoro,  ma pronti ai sogghigni e al disprezzo,  e sapevano     così bene trovare parole beffarde e deleterie per tutto quello che non     comprendevano o non  riuscivano  a  fare.  Stabilì  le  sentinelle  su     entrambi  i  lati  del fiume.  I danni ai lavori sul terreno,  adesso,     cessarono, ma quelli nell'acqua continuarono.  Soltanto nelle notti di     luna  non  si  verificavano  guasti.  Questa  circostanza  rafforzò in     Abidaga, il quale non credeva nelle "vile",  la convinzione che quella     "vila"  non fosse invisibile e che non scendesse dall'alto.  Per lungo     tempo non aveva voluto,  non aveva potuto credere  a  coloro  che  gli     dicevano  che  si  trattava  di un'astuzia contadinesca,  ma adesso si     convinceva sempre piùche era proprio così.  E ciò lo  rendeva  ancora     piùfurioso. Nello stesso tempo, tuttavia, egli sapeva bene che doveva     starsene tranquillo e nascondere la sua collera,  se voleva vigilare e     catturare quel fastidioso insetto e infrangere al piùpresto  e  nella     maniera  piùcompleta le dicerie relative agli spiriti e all'abbandono     dei lavori per il ponte,  che  potevano  divenire  pericolose.  Chiamò     dunque  il  capo  dei soldati,  un uomo di Plevlje che era cresciuto a
    Istanbul, un tipo pallido e di poca salute.
    Questi due individui si facevano istintivamente ribrezzo l'un l'altro,     ma nel medesimo tempo si attiravano e si scontravano  incessantemente.     Tra   loro,   infatti,   si   tesseva   e   ondeggiava   di   continuo     un'incomprensibile sensazione di odio, di repulsione,  di terrore e di     diffidenza.  Abidaga, che con nessuno era tenero e affabile, dinanzi a     questo pallido cristiano  rinnegato  manifestava  apertamente  il  suo     disgusto.  Tutto  quello  che  egli  faceva o diceva irritava Abidaga,     inducendolo a rimproverarlo e a umiliarlo.  E quanto piùil  plevljese     si  umiliava  e  si mostrava docile e zelante,  tanto piùaumentava il     disgusto di Abidaga.  Fin dal primo giorno,  a sua volta,  il capo dei     soldati  aveva provato diffidenza e una tremenda paura nei riguardi di     Abidaga.  Col passar del tempo questo orrore s'era trasformato  in  un     tormentoso  incubo  che  non l'abbandonava mai.  A ogni passo,  a ogni     movimento,  spesso anche durante il sonno,  egli pensava: che dirà  di     questo,  Abidaga? Invano s'era sforzato di conquistarne la grazia e di     contentarlo.  Tutto quel che veniva da lui era accolto da Abidaga  con     indignazione.  E  questo incomprensibile odio sconcertava e confondeva     il plevljese rendendolo ancora piùrigido e  maldestro.  Egli  credeva     che,  a  causa  di  Abidaga,  un  giorno o l'altro avrebbe perduto non     soltanto il pane e la posizione, ma anche la testa. Pertanto viveva in     continuo allarme e passava da un abbattimento mortale a un febbrile  e     crudele fervore.  Quando adesso, pallido e rigido, si trovò dinanzi ad
    Abidaga, questi gli disse con voce soffocata dall'ira:
    ®Stammi a sentire,  zucca vuota,  tu sei  esperto  di  questi  maiali,     conosci  la loro lingua e le loro astuzie,  eppure non sei in grado di     trovare quel manigoldo che s'É messo in testa di danneggiare l'impresa     del visir.  Ciò dipende dal fatto che  sei  una  canaglia  come  loro,     soltanto  che  c'É  stata  una canaglia ancora peggiore di te che t'ha     nominato capo, e nessuno ha saputo pagarti come meriti. Ma lo farò io,     se non l'ha fatto nessun altro.  Sappi che ti sbatterò  per  terra  in     modo  che  di  te  non  resti l'ombra che possiede il piùpiccolo filo     d'erba.  Se entro tre giorni non cesserà ogni genere di  guasti  e  di     danni ai lavori,  se non mi acchiapperai il colpevole e non metterai a     tacere tutte le folli chiacchiere sulle "vile" e sulla cessazione  dei     lavori,  ti  impalerò  vivo  sulla piùalta impalcatura in modo che la     gente ti veda e,  guardando te,  si metta paura e si faccia venire  il     senno  in  testa.  Te  lo  giuro  per  la  vita e per la fede,  con un     giuramento che non si fa alla leggera. Oggi É giovedì,  hai tempo fino     a domenica.  E ora vattene a quel diavolo che t'ha fatto capitarmi tra     i piedi. Vattene! Via!¯
    Anche senza il giuramento il plevljese avrebbe creduto  alla  minaccia     di  Abidaga,  perché‚  pure  nel sonno tremava al solo pensare alla sua     voce ed al suo sguardo.  Adesso lo prese uno dei suoi convulsi accessi     di  terror  panico  e subito si mise disperatamente al lavoro.  Radunò     tutti i suoi uomini e,  passando all'improvviso dalla mortale  inerzia     alla furibonda collera, prese a ingiuriarli.
    ®Ciechi!  Fannulloni!¯  urlò il plevljese come se lo impalassero vivo,     fissando in viso ciascuno dei soldati.  ®E' forse così che  si  fa  la     guardia  e  si  vigila sul benessere dell'impero?  Quando si tratta di     andare ai paioli siete tutti veloci e vi movete,  ma quando si  tratta     di  scattare  per  il servizio vi si fermano le gambe e vi scompare il     senno.  E a causa vostra mi si  avvampa  la  faccia.  Ma  con  me  non     poltrirete pi—! Sappiate che di quelle impalcature farò una macelleria     di  soldati!  A  nessuno  di  voi rimarrà la testa se entro due giorni     questo disastro non finirà e se non agguanterete e  massacrerete  quei     briganti.  Avete ancora due giorni di vita,  ve lo giuro per la fede e     il Corano!¯
    Gridò a lungo in questa maniera,  ed alla fine,  non sapendo cos'altro     potesse  dire  e  in qual modo potesse minacciarli,  sputò in faccia a     tutti loro,  l'uno dopo l'altro.  Quando  si  fu  sfogato  e  liberato     dall'oppressione  della  paura  che lo aveva lasciato cedendo il posto     alla collera,  immediatamente si mise al lavoro con disperata energia.     Trascorse la notte perlustrando la riva insieme coi suoi ragazzi. A un     certo  momento  sembrò  loro  che  qualcosa  battesse  contro la parte     dell'impalcatura che era maggiormente protesa  verso  il  fiume  e  si     precipitarono  là.  Sentirono  ancora  il  rumore  di  una  tavola che     rotolava, e quello di una pietra che si staccava e cadeva in acqua, ma     quando furono sul posto trovarono in realtà l'impalcatura rotta ed  il     muro  rovinato,  ma  nessuna  traccia dei colpevoli.  Dinanzi a quello     spettrale vuoto i  soldati  tremarono  per  l'umidità  notturna  e  il     superstizioso spavento.  Si chiamarono l'un l'altro,  spalancarono gli     occhi verso l'oscurità,  agitarono le fiaccole  accese,  ma  tutto  fu     vano.  Il  danno era stato nuovamente provocato e quelli che l'avevano     fatto non vennero n‚ catturati n‚ massacrati,  come se  fossero  stati     veramente creature invisibili.
    La  notte  successiva  il plevljese preparò meglio l'agguato.  Appostò     alcuni uomini anche sull'altra riva. Quando scese l'oscurità nascose i     soldati nelle impalcature, fino al limite estremo, ed egli stesso, con     due uomini,  salì su una barca che,  col favore  delle  tenebre  aveva     fatto  accostare,  senza  che  nessuno  se ne accorgesse,  alla sponda     sinistra.  Di  là,   con  alcuni  colpi  di  remi,   avrebbero  potuto     raggiungere  uno  dei  due pilastri iniziati.  E così avrebbero potuto     attaccare l'insetto dannoso da due lati,  in  modo  da  sbarrargli  la     fuga, a meno che non si fosse trattato di un essere alato o subacqueo.     Tutta  quella  lunga  e  fredda  notte il plevljese la trascorse nella     barca,  coperto di pelli di pecora e tormentato dai piùcupi pensieri,     rimuginando  continuamente la medesima idea: avrebbe veramente Abidaga     posto in atto la sua minaccia e gli avrebbe  davvero  tolto  la  vita,     che,  accanto a un simile capo, non era neppure vita, ma solo timore e     tormento?  Ma lungo tutto il cantiere non si  udì  il  minimo  rumore,     tranne  il  monotono sciacquìo e il mormorìo dell'acqua invisibile.  E     così albeggiò e il plevljese, in tutto il corpo irrigidito,  sentì che     la vita gli si oscurava e gli si accorciava.
    La  notte  successiva,  che era ormai la terza e ultima,  ci furono la     stessa veglia, le stesse disposizioni,  lo stesso atterrito origliare.     Era  trascorsa  la  mezzanotte.  Il  plevljese  era stato preso da una     mortale indifferenza.  A un tratto si sentì un leggiero sciabordìo,  e     poi,  piùforte,  un sordo colpo contro le travi di quercia conficcate     nel fiume sulle quali poggiavano le impalcature.  Da quella  direzione     risonò  un  aspro  sibilo.  Ma la barca del plevljese s'era già mossa.     Ritto in piedi,  egli sgranava gli occhi verso le tenebre,  agitava le     mani ed esclamava con voce rauca:
    ®Rema, rema! Forzaaa!¯
    Gli  uomini  assonnati  remavano  vigorosamente,  ma la forte corrente     centrale del fiume li prese un po' prima  del  necessario.  Invece  di     approdare  presso  l'impalcatura vennero trascinati dall'acqua cui non     potevano sfuggire,  e sarebbero stati trasportati lontano se  qualcosa     all'improvviso non li avesse fermati.
    In mezzo alla rapida, dove non c'erano n‚ pali n‚ impalcature, la loro     barca  andò  a  sbattere  contro un pesante corpo legnoso che mandò un     suono sordo.  Questo li arrestò.  Soltanto  adesso  si  accorsero  che     lass—,  tra  le tavole,  i loro compagni lottavano contro qualcuno.  I     soldati,  tutti figli di islamizzati delle nostre terre,  gridavano ad     una  sola  voce;  nell'oscurità  si  incrociavano le loro esclamazioni     frammentarie ed incomprensibili:
    ®Tienilo, non lo lasciare!¯
    ®Kahriman, qua!¯
    ®Sono io, sono io!¯
    In  mezzo  a  queste  esclamazioni  si  sentì  sciabordare  nell'acqua     qualcosa che poteva essere un oggetto pesante o un corpo umano.     Il  plevljese  rimase  per  qualche istante senza sapere assolutamente     dove si trovasse e che cosa stesse accadendo, ma, appena si fu ripreso     un poco,  assicurò un gancio di ferro,  fissato su una lunga  pertica,     alle  travi  contro  le quali aveva sbattuto e prese a far avanzare la     barca sull'acqua,  avvicinandosi sempre piùall'impalcatura.  Ora  era     già presso i pali di quercia e, rinfrancato, urlava a squarciagola:
    ®Una torcia, accendete una torcia! Datemi una fune!¯
    Dapprima  nessuno gli rispose,  ma poi,  dopo molte grida tra le quali     non si sentì n‚ si pot‚ capire niente,  s'accese in alto  una  piccola     fiaccola,  che brillò con luce incerta e tremolante. Quel primo guizzo     lass— disorientò gli occhi e mescolò in un agitato  vortice  uomini  e     oggetti  con  le  loro  ombre  e  con i riflessi rossi sull'acqua.  Ma     un'altra fiaccola si accese nella mano di qualcuno. Adesso il chiarore     si diffuse e gli uomini cominciarono a  radunarsi  e  a  riconoscersi.     Tutto ben presto si sbrogliò e si chiarì.
    Tra  la  barca del plevljese e l'impalcatura si trovava una zattera di     tre travi in tutto; solo sulla parte anteriore c'era un remo,  un vero     remo di zattera, appena un po' piùcorto e fino. La zattera era legata     con  una  treccia  di  nocciuolo  a uno dei pali sotto l'impalcatura e     resisteva alla forte corrente che le sciabordava  attorno  spingendola     in  giù col suo impeto.  I soldati che erano in alto aiutarono il loro     comandante a passare attraverso la zattera e a  salire  fino  a  loro.     Tutti  erano  trafelati  e  spauriti.  Sulle tavole c'era un contadino     cristiano legato. Si vedeva che il petto gli si alzava in fretta e con     ritmo ansimante,  e  gli  occhi  sbarrati  mostravano  le  sclerotiche     atterrite.
    Il  più anziano  dei  quattro  soldati  spiegò  al plevljese con aria     agitata che avevano fatto la guardia nascosti in vari punti,  e quando     avevano sentito nell'oscurità il rumore di un remo avevano pensato che     fosse  la  barca  del  comandante,  ma  erano  stati così furbi da non     manifestare la loro presenza  e  da  aspettare  per  vedere  che  cosa     sarebbe successo. Avevano così visto due contadini che si avvicinavano     di soppiatto ai pali e legavano con difficoltà la zattera.  Li avevano     lasciati salire e, quando li avevano avuti in mezzo a loro, li avevano     attaccati coi bastoni, e, dopo averli atterrati,  avevano cominciato a     legarli.  Quello  che  era  stato  tramortito dai colpi ricevuti sulla     testa lo avevano legato facilmente, ma il secondo,  fingendo di essere     stordito,  era  guizzato  via  come un pesce,  e,  scivolando lungo le     tavole, si era buttato in acqua.
    A questo punto il soldato si fermò impaurito, ma il plevljese cominciò     ad urlare:
    ®Chi  l'ha  lasciato  fuggire?   Ditemi  chi  l'ha  lasciato  fuggire,     altrimenti vi farò a pezzi tutti!¯
    I  giovani  tacevano  e  battevano  le  ciglia al rosso chiarore delle     fiaccole tremolanti,  e il plevljese si girava intorno  come  cercando     nel buio il colpevole,  e intanto li ingiuriava anche peggio di quanto     non avesse mai fatto di giorno. Ma tutt'a un tratto trasalì,  si chinò     sul  contadino  legato  come su un prezioso tesoro e,  tutto fremente,     cominciò a sibilare tra i denti con una voce sottile e piagnucolosa:     ®Vigilate questo,  vigilatelo bene!  Ah,  figli di puttana,  se me  lo     lasciate scappare, sappiate che la vostra testa É bell'e andata!¯     I soldati si misero in agitazione attorno al contadino;  dalla sponda,     lungo l'impalcatura,  accorsero altri due.  Il plevljese  impartì  gli     ordini,   ammonendo   che  bisognava  legarlo  meglio  e  tenerlo  pi—     saldamente. Così lo trasportarono pian piano e con ogni cautela,  come     un cadavere,  fino alla riva. Il plevljese li seguì, senza badare dove     metteva i piedi e non staccando mai lo sguardo dal prigioniero.  E  ad     ogni  passo  gli  sembrava di crescere,  di cominciare a vivere appena     ora.
    Sulla sponda cominciarono ad accendersi e a spuntare come spighe nuove     fiaccole.  Il contadino catturato venne portato in una delle  casupole     degli  operai dove fu acceso il fuoco,  e legato a un palo con corde e     con catene prese da una fucina.     Era Radisav di Unishte in carne e ossa.
    Il plevljese si calmò un poco, non strillò n‚ ingiuriò,  ma non riuscì     a  trovar  pace  in  nessun  posto.  Inviò i soldati lungo la riva per     cercare il secondo contadino che era saltato in  acqua,  bench‚  fosse     chiaro che,  con quella nottata oscura, a meno che non fosse affogato,     nessuno avrebbe potuto raggiungerlo n‚ catturarlo.  Dette anche  altre     disposizioni di vario genere, uscì, tornò di nuovo, ebbro di emozione.     Cominciò anche ad interrogare il contadino legato, ma poi smise. Tutto     quello  che  faceva,  in  complesso,  serviva  solo  ad  arginare  e a     nascondere la sua inquietudine,  dato che in realtà non pensava che  a     una cosa: aspettare Abidaga. E non dovette aspettarlo a lungo.     Fatto il primo sonno,  Abidaga,  secondo la sua abitudine, subito dopo     mezzanotte s'era destato,  e,  non potendo piùriaddormentarsi,  s'era     accostato  alla  finestra e s'era messo a guardare nell'oscurità.  Dal     suo balcone a Bikavac, di giorno, si vedeva la valle del fiume e tutto     il cantiere con le casupole, i mulini,  i tuguri e lo spazio scavato e     ingombro all'intorno.  Ora, nelle tenebre, egli intuiva la presenza di     tutto questo  e  pensava  amaramente  che  il  lavoro  proseguiva  con     lentezza  e  fatica,  e  che  qualche notizia di questo stato di cose,     prima o poi,  sarebbe arrivata alle orecchie  del  visir.  Di  ciò  si     sarebbe certamente occupato qualcuno. Se nessun altro lo avesse fatto,     ci avrebbe pensato quel glabro,  freddo e sornione Tosun "efendija". E     allora avrebbe potuto cadere in disgrazia presso il visir. Proprio per     questo non riusciva a dormire,  e,  quando  si  addormentava,  tremava     anche nel sonno.  Quel che mangiava gli pareva veleno,  gli uomini per     lui erano cattivi,  la vita gli  era  odiosa  se  soltanto  pensava  a     questo.  La disgrazia significava essere allontanato dal visir, essere     deriso di nascosto dagli amici (oh,  tutto tranne  che  questo!),  non     essere  più nessuno  e  niente,  essere  un  cencio e un furfante non     soltanto agli occhi altrui,  ma anche  ai  propri  occhi.  Significava     perdere   il  patrimonio  faticosamente  accumulato,   oppure,   anche     conservandolo, rosicchiarlo di soppiatto, lontano da Istanbul,  chi sa     dove  in  esilio,  in  un'oscura  provincia,  dimenticato,  superfluo,     ridicolo, miserabile. No, questo poi no!  Meglio non veder piùil sole     e non respirar piùl'aria! Allora sarebbe stato cento volte meglio non     essere nessuno e non possedere niente!... Ecco, era questo il pensiero     che  gli  tornava  di  continuo  e  che per alcune volte al giorno gli     rivoltava il sangue,  sì da farlo premere dolorosamente alla  testa  e     alle tempie,  e che non lo abbandonava mai del tutto,  ma gli rimaneva     sempre come un nero sedimento.  Questa,  per  lui,  sarebbe  stata  la     disgrazia, e la disgrazia poteva venire ogni giorno e in ogni momento,     perché‚  tutti lavoravano affinché‚ giungesse,  ed egli solo lavorava in     direzione opposta e si difendeva;  dunque egli  solo  contro  tutti  e     contro  ogni  cosa.  E  ciò durava ormai da una quindicina d'anni,  da     quando era diventato ragguardevole e influente,  da  quando  il  visir     aveva  cominciato  ad  affidargli  grandi e importanti imprese.  E chi     poteva sopportare questo pensiero?  Chi poteva dormire e conservare la     calma?
    Bench‚  fosse  fredda e umida quella notte autunnale,  Abidaga aprì la     finestra e guardò nelle tenebre,  poiché‚  gli  sembrava  di  soffocare     nell'ambiente chiuso. Fu allora che notò che sulle impalcature e lungo     la  riva  si  accendevano  e  si movevano delle luci.  Quando vide che     crescevano continuamente,  pensò che dovette essere successo  qualcosa     di  inconsueto,  si  vestì  e  svegliò  il suo servitore.  Così giunse     dinanzi al tugurio illuminato proprio nel momento in cui il  plevljese     non sapeva piùcome imprecare, a chi dare ordini, e, insomma, che cosa     fare per ingannare il tempo.
    L'inatteso arrivo di Abidaga lo confuse del tutto.  Aveva tanto atteso     quell'istante,  e ora che era giunto non sapeva sfruttarlo come si era     proposto.  Balbettò  qualcosa  nella sua agitazione e si dimenticò del     contadino legato.  Abidaga si limitò a guardare con aria sprezzante al     disopra della sua testa e subito si avviò verso il prigioniero.     Nella  casupola avevano ravvivato il fuoco sì che anche il piùlontano     cantuccio risultava illuminato,  e i  soldati  aggiungevano  ceppi  di     continuo.
    Abidaga si fermò dinanzi al contadino legato,  del quale era molto pi—     alto. Tutti aspettavano qualche sua parola, ed egli, invece,  pensava:     ecco con chi ho da battermi e da lottare, ecco da chi dipendono la mia     posizione  e  il mio destino,  da questo abietto e idiota rinnegato di     plevljese, e dalla incomprensibile, ostinata malvagità e caparbietà di     quello stolto cristiano. Poi trasalì e cominciò a impartire ordini e a     interrogare il contadino.
    Il tugurio si riempì di  soldati,  fuori  si  sentirono  le  voci  dei     sovrintendenti  e  degli  operai destati.  Abidaga fece le sue domande     tramite il plevljese.
    Sulle prime,  Radisav asserì che lui e un altro giovane avevano deciso     di  fuggire  e  per  questo  avevano  preparato una piccola zattera ed     avevano navigato lungo il fiume.  Quando gli fecero notare  l'assoluta     insensatezza di una simile affermazione,  dato che in una notte oscura     non si può navigare lungo un fiume impetuoso,  pieno di mulinelli,  di     scogli  e  di  secche,  e  dato  che chi ha intenzione di scappare non     s'arrampica sulle impalcature e non rovina il  lavoro,  tacque  e  poi     disse bruscamente:
    ®Bene, tutto É nelle vostre mani, fate quel che sapete.¯
    ®Eh, ora vedrai quel che sappiamo fare¯ replicò vivacemente Abidaga.
    I  soldati  sciolsero  le catene e denudarono il torace del contadino,     quindi  gettarono  le  catene  nel  fuoco  che   ormai   avvampava   e     aspettarono.   Poiché‚   le   catene   stesse  erano  fuligginose,   si     insudiciarono tutte le mani e  lasciarono  ovunque  tracce  nere,  sul     corpo  seminudo  del  prigioniero  e su se stessi.  Quando il ferro fu     quasi rovente,  venne Merdgian lo  Zingaro  e,  con  lunghe  tenaglie,     afferrò  un  capo della fila di anelli mentre un soldato prese l'altra     estremità.
    Il plevljese tradusse la frase di Abidaga.
    ®Avanti. ora dicci la verità vera.¯
    ®Che cosa dovrei dirvi? Voi tutto potete e tutto sapete.¯
    I due uomini  portarono  avanti  le  catene  e  le  passarono  attorno     all'ampio,  lanuginoso  petto  del  contadino.  I peli abbruciacchiati     cominciarono a sfrigolare.  Al prigioniero si contrasse la  bocca,  si     inturgidirono le vene del collo, saltaron fuori le costole e i muscoli     dell'addome  presero a contorcersi e a muoversi come accade quando uno     vomita. Lo sventurato gem‚ di dolore, tese le corde che lo avvincevano     e invano si tirò indietro e si sforzò di ridurre il contatto del corpo     col ferro rovente.  Batt‚ le ciglia e strinse  gli  occhi.  Alla  fine     allontanarono da lui le catene.
    ®Questo, tanto per cominciare. Non É meglio che parli spontaneamente?¯     Il  contadino  si  limitò  a  soffiare  attraverso  il naso continuò a     tacere.
    ®Dicci chi era quello che stava con te!¯
    ®Si chiamava Jovan,  ma non so di quale famiglia e di quale  villaggio     sia.¯
    Portarono   nuovamente   le  catene,   i  peli  e  la  pelle  bruciati     ricominciarono a sfrigolare.  Tossendo per il fumo e spasimando per  i     dolori, il contadino prese a dire frasi monche.
    S'erano  messi  d'accordo,  soltanto  loro due,  per demolire quel che     veniva costruito sul ponte.  Così avevano pensato che occorresse fare,     e  così  avevano  fatto.  Nessun altro ne sapeva niente e nessun altro     aveva partecipato.  Le prime volte erano venuti dalla  riva,  ai  vari     punti,  ed erano riusciti bene; ma, quando s'erano accorti che c'erano     guardie tra le impalcature e sulle sponde, avevano pensato di fare una     zattera di tre pali e di avvicinarsi  così  al  cantiere,  non  visti,     dalla parte del fiume. Questo era accaduto tre giorni prima. Fin dalla     prima  notte  c'era  mancato  poco che li prendessero.  A mala pena se     l'erano svignata.  Perciò,  la notte successiva  non  avevano  neppure     tentato. E quella notte, quando avevano provato di nuovo, alla zattera     era successo quel che era successo.
    ®Questo  É  tutto.  Così É stato e così abbiamo fatto,  e ora voi fate     quel che spetta a voi.¯
    ®Oh, no, non faremo niente,  ma tu,  invece,  dicci chi vi ha spinti a     questo! Altrimenti le sofferenze che hai patito finora non sono niente     rispetto a quelle che verranno.¯
    ®Fate quel che vi pare.¯
    Allora  venne  Merdgian  il  fabbro  con  le tenaglie,  si inginocchiò     accanto all'uomo legato e cominciò a strappargli le unghie dai  piedi.     Stringendo  i denti,  il contadino taceva,  ma uno strano tremore che,     pur così legato, gli scoteva il corpo fino alla cintura,  palesava che     il dolore doveva essere eccezionale. A un certo momento il prigioniero     lasciò  colare  attraverso  i  denti  qualche  suono  indistinto.   Il     plevljese,  che spiava le sue parole ed i suoi movimenti ed  aspettava     ansiosamente  una  qualche  confessione,  fece  cenno  allo zingaro di     smettere e subito si avvicinò:
    ®Come? Cosa dici?¯
    ®Niente. Dico che perdete il vostro tempo a torturarmi.¯
    ®Di', chi ti ha spinto?¯
    ®Ma chi deve avermi spinto? Il diavolo!¯
    ®Il diavolo?¯
    ®Il diavolo, certo, quello che vi ha indotti a venir qua e a costruire     il ponte.¯
    Il contadino aveva parlato a voce bassa, ma con tono forte e deciso.
    Il diavolo!  Strana parola,  pronunciata  così  amaramente  e  in  una     situazione tanto inconsueta. Il diavolo! C'É di mezzo anche lui, pensò     il plevljese, standosene adesso con la testa abbassata, quasi fosse il     prigioniero a interrogarlo,  e non il contrario. Quest'unica parola lo     colse sul vivo in un punto sensibile e  gli  risollevò  all'improvviso     ogni  preoccupazione  e  ogni  timore  in tutta la loro intensità e in     tutta la loro grandezza,  come se non fossero  stati  eliminati  dalla     cattura  del  colpevole.  Forse  tutta  quella  faccenda,  insieme con     Abidaga, la costruzione del ponte e quel pazzo contadino, era soltanto     opera del demonio.  Il diavolo!  Era forse questa l'unica cosa che  si     doveva  temere?  Il plevljese ebbe un tremito e trasalì.  In realtà lo     scosse la voce di Abidaga, tonante e adirata.
    ®E allora?  Ti vien la voglia di  dormire,  furfante?¯  urlò  Abidaga,     colpendo  con  la  corta  frusta  di  cuoio il gambale del suo stivale     destro.
    Lo zingaro si inginocchiò di nuovo,  tenendo in mano le  tenaglie,  e,     coi  suoi  occhi  neri e luminosi,  guardò in alto con aria spaurita e     umile l'imponente mole di Abidaga.  I soldati attizzarono il fuoco che     anche  da  solo aveva divampato.  Tutto l'ambiente splendeva,  caldo e     luminoso. Il luogo che,  quando era stato sorpreso dall'oscurità della     notte,  era  solo  una  misera e trascurabile costruzione,  era adesso     cresciuto all'improvviso, s'era ampliato e trasformato.  Nel tugurio e     intorno  ad  esso  dominavano  una  trepida  animazione  e  un solenne     silenzio,  come sempre accade nei  luoghi  nei  quali  si  ricerca  la     verità,  si  torturano uomini o avvengono eventi fatali.  Abidaga,  il     plevljese e il prigioniero si movevano  e  parlavano  come  attori,  e     tutti  gli  altri camminavano in punta di piedi,  con gli occhi bassi,     non dicendo niente fuorch‚ quel che era necessario,  e anche in questo     caso  parlando  sottovoce.  Dentro di s‚,  ciascuno avrebbe voluto non     essere in quel posto,  a fare  quel  lavoro;  e  poiché‚  ciò  non  era     possibile,  ciascuno  riduceva  la  propria  voce  e limitava i propri     movimenti,  per restare  almeno  in  tale  misura  lontano  da  quella     faccenda.
    Vedendo  che  l'interrogatorio  procedeva lento e non prometteva alcun     frutto,  Abidaga se  ne  uscì  dalla  casupola  con  un  movimento  di     insofferenza  e  lanciando sonore maledizioni.  Gli saltellò dietro il     plevljese, seguito dai soldati.
    Fuori albeggiava.  Il sole  non  era  ancora  comparso,  ma  tutto  il     panorama  era  chiaro.  In  mezzo alle gole dei monti si scorgevano le     nuvole, distese in lunghe fasce paonazze, e,  tra le nuvole,  appariva     il  cielo  chiaro e limpido,  quasi di color verde.  Sulla terra umida     erano sparpagliati cumuli di bassa nebbia dalla  quale  spuntavano  le     chiome  degli  alberi  da frutto,  dal fogliame rado e giallo.  Sempre     battendo  lo  scudiscio  contro  lo  stivale,   Abidaga   impartì   le     disposizioni:  si seguitasse a interrogare il colpevole,  specialmente     sui favoreggiatori,  ma non lo si torturasse oltre misura con tormenti     che lo stremassero; si apprestasse quanto era necessario per impalarlo     vivo  a  mezzogiorno,  sull'ultima  impalcatura,  nella  posizione pi—     elevata,  in modo che potessero vederlo  tutta  la  città  e  tutti  i     lavoratori da entrambi i lati del fiume;  Merdgian preparasse tutto, e     il banditore andasse a gridare nei rioni: a mezzogiorno, sul ponte, il     popolo  avrebbe  potuto  vedere  che  cosa  capitava  a   coloro   che     intralciavano  la costruzione del ponte,  sull'una e sull'altra sponda     doveva radunarsi tutta la popolazione maschile,  turchi  e  cristiani,     vecchi e bambini.
    Il  giorno che spuntava era domenica.  Di domenica si lavorava come in     qualsiasi altro giorno,  ma quella  domenica  perfino  i  sorveglianti     erano  distratti.  Soltanto a giorno pieno si diffuse la notizia della     cattura del colpevole, della tortura e del supplizio che avrebbe avuto     luogo a mezzogiorno.  L'atmosfera  sommessa  e  palpitante  passò  dal     tugurio  a  tutto  lo  spazio intorno al cantiere.  Gli operai forzati     lavoravano in silenzio,  ciascuno evitava di guardare gli altri  negli     occhi  e  badava  al  lavoro  che aveva dinanzi,  come se quello fosse     l'inizio e la fine del mondo.
    Già un'ora prima di mezzogiorno i cittadini,  per lo  più turchi,  si     radunarono  su un piccolo pianoro vicino al ponte.  I ragazzi salirono     su alti blocchi di pietra non lavorata che si trovavano sul luogo. Gli     operai sciamarono  attorno  alle  lunghe  e  strette  tavole  dove  si     distribuiva  il  pane  che  consentiva  loro  di  non  morire.  Mentre     masticavano, guardavano silenziosi e atterriti intorno a s‚. Poco dopo     comparve Abidaga, accompagnato da Tosun "efendija", da mastro Antonije     e da alcuni altri turchi  ragguardevoli.  Tutti  si  fermarono  su  un     rialzo inclinato del terreno tra il ponte e la casupola nella quale si     trovava  il condannato.  Abidaga andò ancora una volta al tugurio dove     gli venne annunziato che  tutto  era  pronto:  lì  c'era  il  palo  di     quercia,  lungo  circa  quattro  "arshin"  (4),  appuntito  a  dovere,     ricoperto in cima di ferro battuto, con una punta sottile ed aguzza, e     tutto  spalmato  ben  bene  di  sego;   sull'impalcatura  erano  state     inchiodate  le  travi tra le quali sarebbe stato fissato ed incastrato     il palo, la mazza di legno che sarebbe servita a conficcare l'asta, le     corde e tutto il resto.
    Il plevljese era confuso, aveva il volto terreo e gli occhi arrossati.     Neppure adesso pot‚ sostenere lo sguardo di fuoco di Abidaga.     ®Senti,  tu,  se non sarà tutto  come  dev'essere  e  se  mi  renderai     ridicolo  al cospetto della gente,  non comparitemi davanti agli occhi     n‚ tu n‚ quello sterco di zingaro;  vi  affogherò  nella  Drina,  come     cuccioli ciechi.¯
    Poi,  volgendosi  verso  lo  zingaro spaventato,  aggiunse in tono pi—     mite:
    ®Avrai sei grossi per  il  lavoro,  e  altri  sei  se  vivrà  fino  al     tramonto. E ora pensaci tu.¯
    Dalla  moschea principale,  presso il mercato,  s'udì l'acuta e chiara     voce dell'imano.  Ci fu un po'  di  animazione  in  mezzo  alla  gente     ammassata,  e poco dopo s'aprì la porta del tugurio.  Dieci soldati si     disposero su due file,  cinque da ogni lato.  In mezzo  a  loro  c'era     Radisav,  scalzo e a capo scoperto;  lesto e curvo come sempre, ma non     allargava le gambe camminando;  invece procedeva a  piccoli  passi  in     modo  strano,  quasi  saltando sui piedi mutilati che,  al posto delle     unghie, avevano dei buchi sanguinolenti; sulla spalla portava il lungo     palo bianco appuntito. Seguivano Merdgian con altri due zingari che lo     avrebbero aiutato nell'esecuzione della  sentenza.  Tutt'a  un  tratto     apparve  il  plevljese,  sul  suo cavallo baio,  e si mise in testa al     corteo, che doveva percorrere in tutto un centinaio di passi fino alle     prime impalcature.
    Gli astanti sporgevano le teste e si sollevavano sulle punte dei piedi     per vedere l'uomo che aveva ordito la congiura e la resistenza e aveva     demolito  alcuni  pezzi  del  ponte.   Tutti  restarono  sorpresi  per     l'aspetto misero e insignificante di quell'uomo che avevano immaginato     del  tutto  diverso.   Naturalmente  nessuno  di  loro  sapeva  perché‚     saltellasse in modo così  buffo  e  perché‚  traballasse  da  un  piede     all'altro, e nessuno scorse bene le ustioni provocate dalle catene che     gli  erano  spuntate  attorno  al petto come grosse albicocche,  sulle     quali gli avevano passata la camicia e una specie di veste. Per questo     sembrò a tutti troppo miserabile e incapace di fare quello per cui ora     lo conducevano al patibolo.  Soltanto il lungo palo  bianco  conferiva     all'insieme una certa sinistra grandezza e attirava su di s‚ tutti gli     sguardi.
    Arrivati  al  luogo  in cui cominciavano i lavori sul terreno lungo la     sponda, il plevljese smontò e,  con gesto solenne e pomposo,  consegnò     le  briglie  a  un servitore,  poi scomparve insieme con gli altri per     l'erta strada fangosa diretta verso l'acqua.  Poco dopo la gente  pot‚     vederli  apparire  nel  medesimo  ordine  sulle impalcature,  e salire     lentamente e con cautela.  Sugli stretti passaggi di travi  e  assi  i     soldati  circondavano  completamente  e  stringevano  in  mezzo a loro     Radisav,  per evitare che si buttasse nel  fiume.  Così  avanzarono  a     stento e salirono sempre piùin su, finché‚ non raggiunsero l'estremità     della costruzione.  Qui,  sopra l'acqua, c'era uno spazio pavimentato,     ampio come una stanza di media grandezza.  In questo spazio,  come  su     una  scena  elevata,  presero  posto  Radisav,  il  plevljese ed i tre     zingari,  mentre gli altri soldati rimasero sparsi  nelle  impalcature     circostanti.
    Quelli che erano sul pianoro si spostarono e cambiarono posizione.  Un     centinaio di passi li divideva da quelle  tavole,  così  che  potevano     vedere  ogni uomo e ogni movimento,  ma non potevano sentire le voci e     non  distinguevano  i  particolari.  Coloro  che  stavano  sulla  riva     sinistra, popolino ed operai, distavano dalla scena tre volte tanto, e     si  agitavano  e  si  tendevano ancor pi—,  per poter meglio sentire e     vedere.  Ma non c'era verso di udire  niente,  e  ciò  che  si  scorse     sembrò,  dapprima,  troppo monotono e privo d'interesse, e, alla fine,     divenne invece così spaventoso che tutti volsero la testa e  molti  se     ne andarono in fretta a casa, pentendosi di esser venuti.
    Quando ordinarono a Radisav di stendersi,  egli esitò un momento, poi,     senza guardare gli zingari ed i soldati, come non ci fossero stati, si     avvicinò al plevljese, con aria quasi confidenziale, quasi fosse stato     un pari suo, e gli disse con voce bassa e cupa:
    ®Ascolta, per questo e per l'altro mondo, abbi pietà e trafiggimi, ch‚     non debba soffrire come un cane.¯
    Il plevljese sussultò e gridò contro di lui come difendendosi da  quel     modo di parlare troppo confidenziale:
    ®Via,  "Vlah"  (5)!  Sei  forse tanto prode da rovinare l'impero e poi     vieni qui ad implorare in nome di Dio come una donnicciola? Avrai quel     che É stato stabilito e che ti sei meritato.¯
    Radisav curvò ancor piùla testa,  e gli zingari gli si avvicinarono e     cominciarono  a togliergli la veste e la camicia.  Sul petto apparvero     le ferite  delle  catene,  che  avevano  formato  vesciche  e  s'erano     arrossate.  Senza  dire nient'altro,  il contadino si distese come gli     era stato ordinato,  col viso rivolto in giù.  Gli zingari  gli  furon     sopra  e  gli  legarono  anzitutto  le  mani  dietro  la schiena,  poi     assicurarono una corda a ogni piede, all'altezza del malleolo.  Infine     tirarono  ciascuno  dal  suo  lato  e  gli divaricarono ampliamente le     gambe.  Intanto Merdgian aveva deposto il palo su due corti  pezzi  di     legno di forma cilindrica,  in modo che la sua cima giungesse in mezzo     alle gambe del condannato. Poi estrasse dalla cintola un corto e largo     coltello,  si inginocchiò accanto all'uomo sdraiato e si chinò  su  di     lui  per  tagliargli  il  panno  dei calzoni in mezzo alle cosce e per     allargare l'apertura attraverso la quale  il  palo  sarebbe  penetrato     dentro al suo corpo.  Questa parte del lavoro del boia, la piùorrenda     di tutte,  rimase per fortuna invisibile per gli spettatori.  Si  vide     soltanto  che  il corpo legato sussultava alla breve ed impercettibile     coltellata,  si alzava fino all'altezza della cintola come  se  stesse     per  sollevarsi,  ma  poi  ricadeva  con  un colpo sordo sulle tavole.     Quando ebbe finito quell'operazione, lo zingaro balzò indietro,  prese     da terra la mazza di legno e cominciò a picchiare con essa sulla parte     inferiore del palo,  che era ottusa, con colpi leggeri e moderati. Tra     un colpo e l'altro si fermava un po' e guardava dapprima il corpo  nel     quale  conficcava il palo,  e poi i due zingari,  esortandoli a tirare     lentamente e in modo uniforme.  Il corpo  del  contadino  dalle  gambe     divaricate si contraeva da solo;  ad ogni mazzata la spina dorsale gli     si inarcava e si curvava,  ma le corde lo tiravano e lo raddrizzavano.     Su  entrambe le sponde il silenzio era tanto grande che si distingueva     nettamente ogni colpo e l'eco che rimbalzava da  qualche  punto  della     riva scoscesa.  I piùvicini potevano sentire come l'uomo battesse con     la fronte contro la tavola, e inoltre un secondo suono inconsueto;  ma     non era n‚ un gemito n‚ un grido n‚ un rantolo,  e neppure una qualche     voce umana,  era tutto quel corpo disteso e tormentato che  diffondeva     dal suo interno come uno stridore ed un ghigno, simili al rumore dello     steccato che viene compresso o del legno che si spacca. Ogni due colpi     lo  zingaro  andava  fino  al  corpo  sdraiato,  vi  si portava sopra,     esaminava se il palo procedeva nella direzione giusta, e, dopo essersi     assicurato che non  era  stato  vulnerato  nessuno  degli  organi  pi—     vitali, tornava indietro e ricominciava il suo lavoro.
    Tutto  questo  si  vedeva  male e si sentiva ancora peggio dalla riva,     eppure a  tutti  tremavano  le  gambe,  impallidivano  i  volti  e  si     congelavano le dita delle mani.
    A un certo momento i battiti cessarono.  Merdgian aveva visto che,  in     cima alla scapola destra,  i muscoli si erano tesi e la pelle  si  era     sollevata.  S'avvicinò e tagliò celermente quella protuberanza con due     incisioni a forma  di  croce.  Sgorgò  fuori  del  sangue  biancastro,     dapprima  lentamente,  poi  sempre piùforte.  Ancora due o tre colpi,     leggeri e cauti,  e infine dal punto inciso  cominciò  a  venir  fuori     l'estremità del palo,  ricoperta di ferro battuto. Batt‚ ancora per un     po',  finché‚ la punta non raggiunse  l'altezza  dell'orecchio  destro.     L'uomo  era stato infilzato al palo come un agnello allo spiedo,  solo     che la punta non gli usciva dalla bocca,  ma dalla schiena,  e non era     stato leso in modo grave n‚ all'intestino, n‚ al cuore, n‚ ai polmoni.     Ora  Merdgian  buttò via la mazza e si avvicinò.  Contemplò quel corpo     immobile,  osservando il sangue che sgorgava dai punti  nei  quali  il     palo  era  entrato  e  uscito  e si raccoglieva in piccole pozze sulle     travi.  I due zingari rivoltarono sul  dorso  il  corpo  irrigidito  e     cominciarono  a  legargli  i piedi in fondo al palo.  Intanto Merdgian     guardava se l'uomo era ancora  vivo  ed  esaminava  attentamente  quel     volto  che  era  divenuto  tutt'a  un  tratto gonfio,  piùlargo e pi—     grosso.  Gli occhi erano  spalancati  e  irrequieti,  ma  le  palpebre     stavano  immobili,  la bocca era aperta e le labbra s'erano irrigidite     in una  smorfia  convulsa;  sotto  di  esse  biancheggiavano  i  denti     serrati.  L'uomo  non  riusciva  più a  dominare  i  singoli  muscoli     facciali; per questo il suo volto rassomigliava a una maschera.  Ma il     cuore batteva debolmente,  e i polmoni lavoravano con un respiro breve     e accelerato.  I due zingari presero a sollevarlo come una bestia allo     spiedo. Merdgian urlò loro di fare attenzione, in modo da non scuotere     il corpo; ed egli stesso venne ad aiutarli. Fissarono tra le due travi     la  parte inferiore,  piùgrossa,  del palo,  e fermarono il tutto con     grossi chiodi, poi indietro, alla stessa altezza, puntellarono con una     corta stecca che venne anch'essa inchiodata sia  al  palo  che  a  una     trave dell'impalcatura.
    Quando  anche questo fu fatto,  gli zingari si allontanarono furtivi e     raggiunsero i  soldati,  mentre  sullo  spazio  vuoto  restò  solo,  a     un'altezza di due "arshin", ritto, impettito e nudo fino alla cintola,     l'uomo sul palo. Di lontano si aveva soltanto la sensazione che il suo     corpo fosse attraversato dal palo al quale erano legate per i malleoli     le  gambe,  mentre le mani erano legate dietro la schiena.  Per questo     alla  gente  sembrava  come  una  statua  sospesa  per  aria,  proprio     all'estremità dell'impalcatura, in alto sopra il fiume.
    Per  entrambe  le sponde passò un rumorìo,  poi ci fu un ondeggiamento     tra la folla.  Qualcuno piegò lo sguardo,  qualcuno si affrettò  verso     casa,  senza volgere la testa.  La maggior parte dei presenti guardava     in silenzio quella figura umana protesa nello  spazio,  irrigidita  in     una  posizione  non  naturale e dritta.  L'orrore agghiacciava loro le     viscere, e i loro piedi intirizzivano, ma non riuscivano a muoversi n‚     a distogliere lo sguardo da quello spettacolo.  E in  mezzo  a  questa     folla  spaventata  s'apriva la strada Ilinka la pazza;  fissava ognuno     negli occhi,  cercando di cogliere uno sguardo  nel  quale  leggere  e     scoprire dove si trovavano i suoi figli sacrificati e sepolti.     Allora il plevljese, Merdgian ed altri due soldati si riaccostarono al     condannato  e  lo osservarono da vicino.  Lungo il palo colava solo un     debole rivolo di sangue. L'uomo era vivo e cosciente. L'inguine gli si     alzava ed abbassava, le vene del collo battevano,  gli occhi roteavano     lenti  e  senza  posa.  Attraverso i denti stretti erompeva un ringhio     prolungato, nel quale si distinguevano con difficoltà singole parole:     ®Turchi,  turchi...¯ rantolava l'uomo dal palo  ®turchi  sul  ponte...     possiate crepare come cani... morire come cani!...¯
    Gli zingari radunarono i loro strumenti e tutti, insieme col plevljese     e  coi  soldati,  si incamminarono sull'impalcatura verso la riva.  La     gente indietreggiò davanti a essi e cominciò a disperdersi. Soltanto i     ragazzi, dall'alto pietrame e dagli alberi spogli,  aspettavano ancora     qualcosa  e,  non sapendo quando sarebbe giunta la fine e se già fosse     abbastanza, erano curiosi di vedere che cosa sarebbe accaduto ancora a     quello strano uomo sospeso sulle acque come si  fosse  fermato  in  un     salto.
    Il  plevljese  venne  da  Abidaga  e  gli annunciò che tutto era stato     eseguito precisamente e bene e che il condannato  era  ancora  vivo  e     aveva l'aria di poter continuare a vivere, dato che gli organi interni     non  erano  stati  lesi.  Abidaga  non  gli rispose n‚ lo degnò di uno     sguardo,  soltanto agitò la mano perché‚ gli portassero il  cavallo,  e     cominciò ad accomiatarsi da Tosun "efendija" e da mastro Antonije. Ora     ognuno si disperdeva.  Dal mercato,  si sentì il banditore che gridava     dando l'annuncio dell'avvenuta esecuzione e  ammonendo  che  una  pena     eguale, e anche peggiore, attendeva chiunque si fosse comportato nello     stesso modo.
    Il  plevljese  rimase  dubbioso  sul  pianoro  che  all'improvviso era     divenuto vuoto.  Un servitore gli avvicinava il cavallo  e  i  soldati     attendevano ordini. Si rese conto che doveva pur dire qualcosa, ma non     pot‚  parlare  a  causa  della  forte agitazione che adesso cominciò a     svilupparsi dentro di lui e a gonfiarlo,  come se stesse sul punto  di     spiccare  il  volo.  Soltanto ora si rese perfettamente conto di tutto     quello cui prima,  indaffarato per l'esecuzione  della  condanna,  non     aveva  potuto pensare.  Appena adesso rammentò la minaccia di Abidaga,     che lo avrebbe fatto impalare vivo se non fosse riuscito  a  catturare     il  colpevole.  Era  sfuggito  a  quella  sciagura,  ma  per  un pelo,     all'ultimo istante.  Colui che stava laggiù,  sull'impalcatura,  aveva     cercato  con tutte le sue forze,  di notte,  subdolamente,  di fare in     modo che ciò accadesse davvero.  Ed ecco che invece  era  successo  il     contrario. E la vista stessa di quell'uomo, ancora vivo, così alzato e     proteso sopra il fiume,  lo riempiva, al tempo stesso, di raccapriccio     e di una certa dolorosa gioia per il fatto che quella  sorte  non  era     toccata  a  lui  e  che  il suo corpo era intatto,  libero e capace di     muoversi.  A quel pensiero  irresistibili  brividi  di  fuoco  gli  si     diffusero   dal  petto  e  gli  raggiunsero  le  gambe,   le  braccia,     costringendolo a muoversi,  a ridere e a parlare,  come per convincere     se  stesso  che era sano,  che poteva spostarsi a suo piacimento,  che     parlava e rideva rumorosamente,  che se voleva poteva cantare,  e  non     ringhiare dal palo inverosimili maledizioni,  attendendo la morte come     l'unica fortuna che ancora potesse capitargli. Le mani gli si movevano     da sole, da soli i piedi si mettevano a ballare,  da sola la bocca gli     si  apriva  erompendo  in  una  convulsa  risata  e riversando copiose     parole:
    ®Ah, ah, ah! Radisav, "vila" dei monti, perché‚ ti sei irrigidito così?     Perché‚ non continui a scalzare il ponte?  Perché‚  ringhi  e  soffochi?     Intona un canto, "vila"! Balla, "vila"!¯
    Sorpresi  e confusi,  i soldati guardavano come il loro capo ballava e     come,  cantando e sbuffando,  soffocava per le risa,  per  le  strambe     parole  e  per  la  schiuma  bianca  che  sempre piùgli sgorgava alle     estremità delle labbra.  Anche il suo cavallo  baio  gli  lanciava  di     sbieco sguardi impauriti.


    NOTE.

1. Titolo turco per le persone istruite. (Nota del Traduttore)
2. Piccolo  violino  col  quale  il "guslar" accompagna i suoi canti.
    (Nota del Traduttore)
3. Spirito o demone femminile del fiume. (Nota del Traduttore)
4. Misura turca di lunghezza = 66,7 centimetri. (Nota del Traduttore)
5. Termine turco spregiativo per i cristiani. (Nota del Traduttore)