PERPLESSITÀ
Estratto da "Storie che danno da pensare"
Robert Walser
Come si rendono l’un l’altro confusa e difficile la vita, gli uomini. Come si sminuiscono l’un l’altro, come mirano a sospettarsi e a disonorarsi a vicenda. Come tutto succede, in fondo, solo per avere la meglio. Se trascurano di fare una certa cosa, la colpa è di fattori esterni, se commettono errori, non ne sono mai stati loro i responsabili. Il prossimo è sempre e soltanto un intralcio lungo il cammino, la propria persona è sempre quanto di meglio e più eccellente esista. Come ci si industria a camuffarsi intendendo fare del male. Quanto ci augureremmo, spesso, chiare e scoperte sgarbataggini! Il cuore batte, per lo meno, negli impeti di rabbia. È curioso quanto poco sul serio gli uomini si prendano l’un l’altro, come, assumendo un’aria di disprezzo, si trastullino con le cose più nobili, più preziose e significative. E come non si stanchino mai di mugugnare, come non gli venga mai in testa semplicemente di sperare che esista qualcosa di grande, di buono e onesto sulla terra. Che la terra meriti rispetto, non riescono mai a intuirlo, per quanto sia intuibile. Solo per i loro trastulli provano quel rispetto che si deve al mondo, a questa chiesa colma di maestà. Come prendono sul serio i peccati che commettono, come non hanno mai creduto, da quando sono adulti, che possa esistere qualcosa di più eccelso e più ragguardevole di loro stessi. Come continuano sempre a venerare ciò che non merita venerazione, l’antico vitello d’oro, il mostro privo di espressione, come credono indefessi all’inverosimile. Le stelle per loro non significano nulla, ritengono che siano faccende da bambini, ma loro, cosa sono loro se non dei bambini screanzati, smaniosi di quanto non si deve fare. Come sanno diffondere l’angoscia intorno a sé, pur nella consapevolezza d’essere loro stessi perennemente angosciati da un che di oscuro, insulso e torpido. Come desiderano in modo struggente di non fare mai stupidaggini, mentre proprio questo meschino desiderio è quanto di più sciocco si possa provare al mondo. Vogliono essere i più avveduti e sono i più miserabili che ci si possa immaginare. Un ladro ha commesso qualcosa, si è lasciato indurre a un’azione illecita e malvagia, loro invece non hanno mai commesso nulla, nulla di vile e disgustoso, né di buono e squisito, e hanno il saldo proposito di non intraprendere mai niente che possa suscitare scalpore. In effetti, danno adito a perplessità.
Come si sottovalutano nella gretta convinzione di valere più di un altro. In tutto candore si dicono persone colte, storcendo e arricciando il naso l’uno nei confronti dell’altro. Poveretti! Se sapessero quanto incolta e ignorante è la superbia, quanto scarsa è l’educazione di chi soggiace alla propria incapacità di giudicare se stesso. «Vieni, andiamo insieme a pentirci in un luogo che sia silenzioso, pentirci di tutte le prepotenze e le cattiverie che ci dominano e di cui non riusciamo a liberarci». Così parlerebbe una persona se avesse un’ombra di creanza. «Vuoi venire con me? Ne sorgerà un tempio, un tempio sacro e invisibile. Su, vieni. Vedrai, ti farà piacere e riscalderà il cuore ad ambedue». Così più o meno parlerebbe un uomo sensibile a un uomo altrettanto sensibile. Quanta barbarie in coloro i quali parlano di cultura, di tutto ciò che, pur eccellente e bello, per loro è destinato a rimanere sconosciuto finché non si risolveranno a metterlo in pratica. L’esercizio e l’azione, come sono lontani da loro. Parlano sempre, parlano e parlano e proprio così sprofondano vieppiù nella mezzanotte della grossolanità, perché solo l’agire è finezza, la chiacchiera è tetra e sudicia quanto l’inferno. Come sprecano il loro tempo, e il valore dell’esistenza nel suo fluire lieve e dorato, trascorrendo ore e ore in luoghi dove gli si fiaccano l’animo e gli orecchi a forza di parlare di cose su cui un uomo operoso e avveduto riflette e decide in quattro e quattr’otto. Si direbbe che, parlando, costoro intendano chiarirsi certi significati, ma non ci riusciranno mai. Anzi, non lo vogliono nemmeno, sanno perfettamente di abbandonarsi a una gran gozzoviglia di parole. Gozzovigliano, per l’appunto. Gozzovigliare però non può essere altro che nefandezza; un peccato commesso contro i propri genitori e i propri figli; un’ingiustizia commessa contro ogni essere vivente, un’atrocità commessa contro se stessi. Le notti, questi sacri templi nella vita, è indescrivibile quanto vengano svilite, disonorate, profanate da frasi del tipo: «Venga, andiamo ancora un momento lì e poi là!». La persona colta si sente in dovere di andare ancora lì e poi là, e perché mai lo faccia, questo davvero non lo sa nemmeno lei. Come sono sempre a caccia di piaceri che un negro ha in spregio, di svaghi su cui una donna calmucca scrolla le spalle piena di inimmaginabile disprezzo. Come s’indignano di fronte a chi pretenderebbe di vederli guardare un po’ tranquilli il trascorrere delle settimane, o accingersi in silenzio a un raccoglimento sensato e gradevole o – semplicemente – andare in chiesa. Oh insuperabile potenza di Dio, la Chiesa riesce a far dimenticare agli uomini gli orrori che essa ha sulla coscienza, e a indurli alla sottomissione. Un po’ alla volta tutte le vacuità, le odiosità e le insensibilità d’animo e di cuore di questo moderno mondo della chiacchiera vengono a saturazione.
E come soffrono poi. Bisogna aver vissuto in mezzo a loro, bisogna aver condiviso le stoltezze alle quali si abbandonano, e le cui fruste lusinghe non sanno rianimare né lo spirito né i sensi, per capire come soffrono. Il loro conforto consiste nel dare il tono al mondo. Che razza di consolazione. Il loro vanto è vedere il proprio nome sui giornali. Che razza di vanto. Il loro trionfo è stare al vertice di ciò che piace chiamar progresso. Che razza di conquista. E, subito accanto, si vedono questi uomini affaticati, vizzi, semivivi, queste donne piene di sentimento e con l’anima completamente divorata e distrutta da furiose e irrimediabili e quasi folli insoddisfazioni. Povere donne raffinate e svagate in sommo grado, uomini non meritevoli di invidia, esseri impoveriti. E ammettono, per lo meno a metà, di essersi impoveriti. Ma che cosa li ha resi così poveri? Sono delle care persone. Per davvero. Ma perché proprio loro sono così inattendibili, così di malumore, così avvizziti e corrucciati? Anche questo dà adito a riflessioni.
Gli spiriti e gli dèi non rivolgono più loro la parola. La loro vita poggia unicamente sul piacere e sulle scempiaggini dei sensi, mentre dovrebbe fondarsi sulla ragione e su solidi pensieri rivolti a qualcosa di più elevato. Pretende di basarsi su una volontà di ascesa, ma questo vano salire di gradino in gradino non è un giusto e rispettabile motivo e fondamento. All’ascesa dovrebbe associarsi in modo progressivo un che di nobile e valido, ma le cose non stanno affatto così, vero è il contrario: la frammentazione, la dispersione, il disfacimento. Lassù in alto non c’è più nulla. Alle regioni superiori è curiosamente vietato ogni ulteriore sviluppo. Non si va più in là, e quindi occore tornare indietro – anche questo dà adito a riflessioni.