DESTINO E VOLONTÀ
Estratto da “Il libro dei motti e delle riflessioni.”
Arthur Schnitzler
BUR
DESTINO E VOLONTÀ
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Guardati dal lasciarti coinvolgere in discussioni con gente troppo pronta a controbattere sfoderando argomenti pescati nel campo della metafisica o dell’inconscio. Sono i codardi del pensiero che, invece di ingaggiare con te una lotta ad armi pari alla luce del sole, preferiscono celarsi tra i cespugli dell’irresponsabilità e scagliare a sorpresa le frecce avvelenate di frasi fatte, paradossi e arroganze, e spacciano l’impenetrabilità che diffondono attorno a sé per illuminazione interiore, se non per stato di grazia.
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Senza il presupposto di un libero arbitrio saremmo costretti ad abbandonare tutte le nostre concezioni morali di colpa ed espiazione, di bontà e malvagità, di importanza e futilità, e a trovare definizioni alternative che senza l’aura di tentativi di valutazione estetici o etici esprimerebbero soltanto il rapporto di causalità. Ogni idea di responsabilità verrebbe bandita dal mondo, non ci sarebbe motivo di amare e di odiare, di premiare e di punire, di ammirare e di disprezzare, di perdonare e di vendicare, di essere fieri o vergognosi. Così non fu tanto un postulato morale e religioso dell’umanità a far subentrare come antagonista della causalità
il libero arbitrio, che è poi semplicemente la causalità imprigionata nell’individuo per la durata della sua esistenza, quanto piuttosto un postulato estetico, assolvendo il quale l’umanità è riuscita a sfuggire alla noia mortale di un mondo privo di responsabilità, come doveva naturalmente presupporlo una concezione strettamente deterministica. Secondo questa concezione, però, anche l’ipotesi di un libero arbitrio scaturisce dalla legge eternamente in vigore della causalità, così come alla fine anche l’idolo non varrebbe in quanto elemento contrapposto al divino, ma in quanto condizionato dalla divinità.
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Se seguiamo a ritroso un qualche fenomeno lungo tutti gli anelli della catena senza scoprire apparentemente in nessun punto un atto di libero arbitrio (visto che il libero atto di volontà non può essere altro che l’espressione della legge di causalità imprigionata nell’individuo), in questo modo arriviamo naturalmente al principio di tutte le cose. Ma nella nostra facoltà di immaginazione – perché dipende solo da questa – non riesce a penetrare l’idea che perlomeno allora (ed è un Allora che vale anche nell’infinito) non dovessero esserci state un certo numero di possibilità, foss’anche solo le due del Nulla e del Qualcosa. Se il nostro mondo, che ormai è come è, è l’unico possibile di tutti i mondi, prima che esistesse devono essersi date anche altre possibilità. «Allora» si è dunque operata una scelta. Al principio di tutte le cose deve aver agito un qualche elemento che secondo le leggi del nostro pensiero non possiamo che definire volontà, se non diamo la preferenza alla parola Dio. Ma se quella volta c’è stata una volontà, non si vede, anzi non si capisce perché non dovrebbe esserci stata sempre ed esserci
ancora. E se c’è sempre stata e c’è sempre e sempre ci sarà, non si vede e non si capisce perché non potrebbe e non vorrebbe agire in ciascun singolo uomo ad ogni secondo, quindi in ogni singolo caso la scelta è posta nelle nostre mani, quindi Dio come volontà è presente in noi costantemente.
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Il determinista pose al principio di tutte le cose l’inconcepibile, il miracolo. Ma è forse meno inconcepibile, meno miracolo, meno Dio, se questi fosse all’opera sempre e ovunque? Un Dio che dopo quell’immane inizio si fosse messo a riposo, fosse scomparso dal mondo perché ora tutto si muoveva automaticamente secondo la legge della causalità da lui creata, non sarebbe altrettanto prodigioso di un Dio che fosse rimasto, che continuasse ad agire ininterrottamente in ogni uomo, in ogni pensiero umano, in ogni moto della volontà umana? E poi, dove dovrebbe essere scomparso quel Dio dei deterministi? Che sia qui o che non ci sia più, rimane inconcepibile, rimane un miracolo, rimane Dio.
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Ci si può davvero immaginare un Dio che si sarebbe accontentato di creare semplicemente la legge di causalità, dopodiché, a partire da quel primo impulso con cui metteva in moto il mondo, gli avvenimenti successivi si sarebbero snodati con invariata predeterminazione? No, non si è reso le cose così facili: ha collocato nell’universo un avversario della sua stessa levatura, il libero arbitrio, che in ogni momento è pronto a misurarsi in duello con la causalità, e lo fa persino quando è convinto di doversi sottomettere umilmente a una decisione imperscrutabile.
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Senza la nostra fede nel libero arbitrio la terra sarebbe non soltanto teatro della più agghiacciante insensatezza, ma anche della noia più intollerabile. La mancanza di responsabilità vanifica qualsiasi esigenza etica che si sia appena affacciata alla coscienza; senza il senso di responsabilità l’Io non sarebbe più l’Io, la terra non sarebbe più lo scenario di tragedie e commedie recitate dagli individui, ma di una farsa stupida o triste tra istinti dominanti che si incarnano casualmente in un individuo o nell’altro.
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È strano il bisogno dell’uomo di cercare leggi più nascoste, più profonde, leggi metafisiche, anche nei casi in cui le ben note leggi eterne, ad esempio quella di causalità, bastano largamente per spiegare eventi prodigiosi. Insomma, la legge di causalità non gli sembra già abbastanza metafisica?
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Se la credenza nel dominio incontrastato della legge di causalità si dovesse affermare incondizionatamente, la conseguenza sarebbe un totale quietismo che a poco a poco porterebbe all’annientamento di qualsiasi dinamica interna della società umana. Un correttivo però è stato creato, nel senso che se un individuo, completamente pervaso dalla consapevolezza della causalità, volesse vivere seguendone i dettami ne sarebbe in ogni caso impedito dagli altri. Perché già nelle più elementari lotte per l’esistenza si vedrebbe costretto, anche là dove in base alla sua consapevolezza della causalità avesse deciso di non amare e di non odiare, ad agire comunque come se amasse e odiasse... semplicemente per istinto di sopravvivenza.
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Ogni «se», ogni congiuntivo in qualche modo cancella il mondo; eppure, in qualsiasi discorso filosofico non ci rimane altro che cancellare il mondo una dozzina di volte e ricostruirlo dalle fondamenta. Ogni nostra critica, anzi ogni nostro pensiero è sempre una nuova ribellione contro la causalità come legge suprema. Ma il libero arbitrio agisce soltanto per lo spazio di un secondo. Una volta compiuta la sua funzione, l’effetto che ha provocato viene inghiottito irrevocabilmente nella sfera dell’immodificabile, dell’ineludibile, dell’avvenuto, quindi del necessario.
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La cosiddetta sovracausalità di cui parlano i più recenti filosofi della storia non si differenzia minimamente, nella sua essenza, da quella causalità quotidiana che domina tutte le cose terrene. Sarebbe quasi altrettanto paradossale parlare di un sovratempo o di un sovraspazio all’interno dei quali si svolgono gli eventi della storia universale, contrapponendoli al tempo normale e allo spazio normale in cui accadono le altre cose. È solo un errore di osservazione o di ragionamento se gli avvenimenti storici ci sembrano sottostare a un’altra legge, più alta, rispetto alle vicende private e quotidiane. I primi hanno effetti più ampi, non cause più illustri delle seconde. Le fatalità inevitabili che crediamo di scoprire negli avvenimenti storici sono un’invenzione di chi osserva a posteriori.
Se nel 1813 Napoleone non fosse stato sconfitto e avesse fondato l’impero mondiale che sognava, oggi questo impero (se ancora esistesse) ci sembrerebbe appunto l’espressione di una necessità storica, proprio come oggi ci appare tale la nascita dell’impero romano.
Ogni attimo della nostra esistenza è il punto d’incrocio
di un’infinita molteplicità di concatenazioni causali, ma non tutti gli attimi sono egualmente significativi per il destino di ciascuno. È ben diverso trovarsi nella nostra sicura abitazione in tempo di pace o sull’oceano in tempesta o in un lazzaretto o su un campo di battaglia. Viviamo un momento fatidico quando le concatenazioni causali nel loro incrociarsi portano con sé pericoli maggiori e accresciute possibilità di morte.
Quanto più importante è l’individuo storico, tanto più spesso si troverà vicino a quei pericolosi punti d’incrocio, non solo per la violenza delle circostanze, ma anche per una sua inclinazione personale.
Dedurre dal fatto che fin dal principio del mondo un gran numero di civiltà hanno avuto un inizio molto simile alla nostra e hanno poi continuato a svilupparsi in maniera altrettanto simile, dedurre da questo fatto che anche la nostra civiltà è destinata a un prossimo declino, è senza dubbio lecito; ma sembra del tutto superfluo postulare su una base del genere il concetto di sovracausalità. L’identicità o quanto meno la somiglianza degli inizi, dello sviluppo, dei fenomeni concomitanti, persino della durata di diverse civiltà storiche si fonda semplicemente sul fatto che le leggi biologiche che regolano l’umanità restano sempre le stesse. Ma queste leggi, che proprio in base alle nostre esperienze sono altrettanto immutabili delle leggi poste a governo del corso degli astri, non hanno più niente a che fare con la causalità. Sono leggi naturali aprioristiche, possiamo chiamarle destino oppure Dio... ma perché sovracausalità, visto che appunto con la causalità non hanno proprio niente da spartire?
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Le esperienze vissute da un grand’uomo, per quanto irrilevanti possano sembrare, sono sempre simboli;
ciò che vive un uomo debole e malato è sempre un sintomo, per quanto poco abbia apparentemente a che fare con la sua debolezza o la sua malattia.
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È uno degli errori capitali di ogni considerazione storica il tentativo di circondare di un nembo di grandezza qualsiasi avvenimento, anche quello in sé più miserevole, quando le sue conseguenze siano di vasta portata; così un risultato che doveva verificarsi secondo la legge di causalità viene spacciato per espressione di un’idea aprioristica, e non semplicemente come necessità logica, ma come una cosiddetta necessità storica.
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Il fatto che in battaglia una certa pallottola colpisca un certo soldato, non ci apparirà mai aprioristicamente fatale. Considereremo invece fatale un evento del genere se quello stesso soldato cade non in combattimento, ma viene colpito da una pallottola vagante ad esempio mentre va a prendere l’acqua, o muore subito dopo l’armistizio o è l’ultimo caduto della guerra. In questi casi parliamo anche di sfortunate coincidenze, dal che già si può desumere che sorte e caso sono esattamente la stessa cosa, che «caso» è solo l’espressione più banale e «sorte» quella più patetica. Per il soldato poi, comunque sia morto, quella morte è stata in ogni caso una «sorte» e la pallottola «fatale», anche per sua moglie e i suoi figli.
Ma se la pallottola colpisce il generale o addirittura il comandante supremo, definiremo certo la circostanza non più come «caso», ma come «sorte» e, quali che possano esserne le conseguenze, come necessità storica. E non perché la traiettoria di questa pallottola
obbedisca a leggi diverse da quelle che di solito regolano le pallottole, ma perché la morte del generale o addirittura del comandante supremo scatena effetti più vasti di quanto abbia fatto o potuto fare la morte di migliaia di soldati semplici.
Eppure la pallottola che colpì quel soldato potrebbe essere stata la più fatale. (Se ad esempio la figlia o la fidanzata del soldato caduto uccidesse per vendetta il principe del paese.)
Insomma, non appena un evento – per quanto casuale possa essere apparso inizialmente – si innalza al rango di evento storico grazie a determinate e forse non prevedibili conseguenze, lo percepiremo come sorte, e a seconda dei casi anche come necessità storica; e per i mistici la pallottola che colpì il comandante supremo significherà già di per sé qualcosa di diverso rispetto alle centinaia di migliaia di altre pallottole sparate nel corso della guerra.
Eppure la morte del comandante è forse solo in apparenza più significativa della morte di quel semplice soldato. Già, nessuno può sapere se la morte di quell’ignoto soldato non lo riguardi personalmente più da vicino della morte del comandante. Perché, come poco possiamo seguire a ritroso nel passato tutte le concatenazioni della causalità, altrettanto poco siamo in grado di seguirne con gli occhi nel futuro anche una soltanto.
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La storia è un processo continuo. Va avanti anche nei cosiddetti periodi tranquilli, nei quali poco accade di ciò che potrebbe interessare alla gente. Il momento in cui la madre e il padre di Napoleone si incontrarono, non fu fatale nel senso più alto? E chi fu in grado già allora di percepire quell’attimo come destino? E mentre...
Goethe scriveva il Faust e Beethoven componeva l’Eroica, forse la storia non andava avanti proprio così, e in un senso ben più alto che durante le gloriose battaglie combattute da Napoleone?
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Si conosce la famosa frase di Napoleone: «Non esiste il destino, la politica è il destino». Frase altrettanto vera o falsa, altrettanto profonda o banale che se un attore affermasse: non esiste il destino, le condizioni del teatro sono il destino, o se un contadino dicesse: non esiste il destino, le condizioni del tempo sono il destino, ecc. Innegabilmente vero è solo che il politico di spicco è in grado di influenzare il destino degli uomini in misura molto più rilevante di quanto in genere possa farlo chi esercita altre professioni. Qui – come spesso accade – un’insulsaggine patetica è diventata un’espressione proverbiale.
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Cesare ha avuto vita più facile di Napoleone. Perché Cesare era Cesare e Napoleone recitava Napoleone... chiaro che nessuno avrebbe potuto recitarlo se non lui.
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Per quanto un destino possa apparire esteriormente concluso, rimane ancora attuale finché non lo abbiamo compreso del tutto. Solo quando ci sia diventato decifrabile abbiamo il diritto di definirlo trascorso.
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Dominio di sé, sete di conoscenza e spirito di sacrificio sono le uniche virtù reali tra tutte quelle che si è soliti definire così. Perché solo in esse è attiva la volontà.
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Ciò che fa presa su di noi come personalità è una specie di cupa nuvolaglia di possibilità addensata così grandiosamente attorno a una fronte che in ogni attimo potrebbe scaturirne un lampo fiammeggiante di realtà, per illuminare o per annientare.
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Nessuna azione, sia che abbia fallito sia che abbia avuto successo, può essere cancellata dal mondo. Anche la scure che è stata brandita e non ha colpito continua ad agire inarrestabilmente, seppure in maniera diversa e talvolta persino in un’altra direzione rispetto alle intenzioni di chi la brandiva; e può essere stata uno strumento di morte peggiore che se avesse colpito.
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Se hai conquistato l’isolamento interiore che ti predispone a poter affrontare la morte in ogni istante, allora sei diventato anche intimamente così ricco che persino nell’eternità non dovresti temere nessuna ora vuota.
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L’essere stati creati per concepire l’inconcepibile e per tollerare l’intollerabile, questo rende la nostra vita così dolorosa e al tempo stesso così inesauribilmente ricca.
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Ecco cosa tradisce sempre l’uomo insignificante: il fatto che, quando il destino ha già sudato sette camicie per trasformarlo in individuo, costui riesce comunque a salvarsi incarnandosi in un tipo.
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Che in tutti noi sia connaturata la consapevolezza dell’importanza della conservazione della specie, ma non della conservazione dell’individuo, anzi, che questa rispetto a quella appaia quasi inessenziale, si dimostra tra l’altro nel particolare rispetto che siamo soliti portare ai grandi amatori, mentre ad esempio consideriamo il crapulone con molto meno riguardo, trovandolo anzi ridicolo se non addirittura spregevole. E anche il sarcasmo che in genere si applica agli inetti in campo sessuale, espresso nei documenti letterari di tutte le epoche, sta a dimostrare la convinzione profonda, derivante da ragioni metafisiche, dell’importanza del talento sessuale. La cui totale assenza, com’è noto, ha spinto parecchia gente al suicidio, caso invece rarissimo in presenza di sensi di inferiorità intellettuale. Perché noi percepiamo, anzi agiamo simbolicamente molto più spesso di quanto si pensi.
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I momenti più felici della nostra vita sono quelli in cui avvertiamo la strana sensazione che sia n nostro potere ricominciare questa vita da capo e cancellare quella vissuta finora, con tutti i suoi dolori e i suoi errori, come un compito che adesso speriamo di scrivere meglio di quanto ci sia riuscito nella prima stesura. Ma anche se ne fossimo capaci, a cosa ci servirebbe? Le stesure precedenti ormai esistono e alla fine, davanti al giudice supremo, non sarà presente soltanto l’ultima, ma la nostra intera produzione, per essere esaminata e valutata
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Se ti perdi in una grotta, non scavare troppo freneticamente: potrebbe accadere che il soffitto ti crolli addosso,
proprio nel momento in cui intravedi la debole luminosità di un’uscita
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Quando scagli un sasso nell’acqua vedi oscillare solo i cerchi più vicini e pensi che gli effetti del tuo lancio si spengano nel gioco delle ultime onde. Oh, se invece pensassi che le vibrazioni si propagano ancora, sempre più lontano, attraverso l’intero globo terrestre, per tornare poi indietro, fino alla riva, al sasso, anzi alla tua mano che lo ha lanciato.
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E se ti cade in testa una tegola, sei proprio sicuro che in un certo senso non sia stata colpa tua? Non aver considerato la possibilità della caduta non è stata forse una mancanza di precauzione? E si può davvero escludere assolutamente che sia stato il tuo modo di camminare ad attirare la tegola? O infine non sei passato davanti alla casa dal cui tetto ti è caduta in testa già con l’intenzione inconscia di scuotere quell’edificio dalle fondamenta?
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Prendi una strada che sei solito percorrere regolarmente. Il tuo assassino, che ti odia da tempo, ti aspetta al varco e ti uccide. Noi diciamo allora che questo è accaduto per necessità.
Prendi una strada che finora non hai mai percorso. Nei pressi, qualcuno aspetta al varco qualcun altro con l’intenzione di assassinarlo; ti scambia per lui e ti uccide. Allora noi parliamo di casualità.
La necessità può in qualche modo essere ulteriormente potenziata dall’intenzione o dall’ostinazione: allora parliamo di sfida del destino.
La casualità può assumere forme ancora più strane, ad esempio tu percorri una strada assolutamente al di fuori del tuo itinerario normale e incontri un pazzo che viene anch’egli condotto verso di te da una bizzarra concatenazione, e che ti uccide.
E proprio là dove la casualità sembra del tutto assurda, dove mille strane coincidenze erano necessarie per provocare un certo evento del tutto inatteso, là noi abbiamo di nuovo la sensazione della fatalità.
A rigor di logica, dunque, destino e caso non sono mai contrapposti, ma sono perfettamente eguali e tanto più incontestabilmente identici quanto più elevato è il punto di osservazione dal quale consideriamo un evento.