mercoledì 11 ottobre 2017



UMANITÀ FRULLATA  
di Carlo Galli 
http://www.filosofia.it/archivio/index.php?option=com_content&view=article&id=107&Itemid=55
Detriti che viaggiano senza una direzione. E detriti che navigano dentro flussi a loro volta contraddittori. L’umanità “frullata”, priva di confini, costretta ad essere agitata. Oggi, non esiste alcuna cosa che non sia in movimento. Lo stesso Stato è stato travolto. Lo Stato ha avuto da sempre come suo obiettivo quello di fissare gli esseri umani sopra uno spazio. Ed ha sempre fatto ciò attraverso la funzione della cittadinanza. Tutto ciò oggi non funziona più. Oggi nasce una contraddizione clamorosa tra la potenza della mobilità e lo Stato. Stato che pretenderebbe ancora di poter garantire la fissazione, la stabilità. In sostanza: lo Stato moderno fin dai suoi albori ha funzionato trasformando l’umanità in cittadinanza. E trasformando quindi le differenze (con le cattive), cioè neutralizzando i conflitti, come ad esempio quello sorto fra protestanti e cattolici nella Guerra dei Trent’Anni. Il progetto moderno, insomma, era quello di spoliticizzare le differenze. E quello di abbattere le disuguaglianze.
Naturalmente: oggi nulla di tutto questo funziona più. Perché oggi i confini sono diventanti un po’ più che porosi. E la capacità dello Stato di governare il movimento non esiste più. Se il movimento lo si volesse governare davvero, entrerebbero subito in collisione i comportamenti dello Stato con l’idea di umanità. Lo stato dovrebbe assumere, cioè, dei comportamenti disumani. Inoltre, oggi è venuta anche meno la differenza tra “nemico” e “criminale”. Noi oggi facciamo delle guerre senza nemici; sono guerre a briganti e a popolazioni; dietro costoro non c’è uno Stato. Costoro non possono quindi essere dei nemici.
Possiamo dire che, oggi, l’umanità si presenta anche in forme degne di compassione. E tutti noi possiamo reagire a ciò secondo delle strategie che sono post-moderne. L’accoglienza. Ora, il bene più prezioso che la modernità politica ha inventato è la cittadinanza. La Cittadinanza col diritto politico di voto è addirittura l’essenza del “politico” moderno. Le banlieues francesi però hanno detto: questa essenza è inessenziale, noi non ce ne facciamo nulla di questa essenza…
Se è vero che questa è la situazione dell’età globale è anche vero che ci sono varie strategie e varie soluzioni che si tenta di mettere in atto per uscire da queste secche. Il problema posto dall’umanità multiculturale è questo: essa è il prodotto di logiche moderne e di una configurazione post-moderna dell’umanità. Ma oggi, le differenze non vengono eliminate, vengono mescolate. Per cui, il compito che la filosofia politica ha davanti oggi è quello di una duplice decostruzione: 1) occorre decostruire la metafisica occidentale, e 2) occorre decostruire le affermazioni delle varie identità culturali (che vanno viste non più come dei blocchi nei quali ci si deve assolutamente riconoscere).
Decostruire - in ambo i casi che ho detto - vuol dire: individuare dietro il relativismo dei valori un universalismo dei principi. Noi dobbiamo affermare che esiste comunque un principio universale: la persona. Ma non bisogna dire questo in modo cattolico. Il modo cattolico di dire le cose rimane ancora un modo essenzialistico! Non ci siamo, per quanto riguarda la modernità.
L’umanità multiculturale è fatta da persone non definibili come essenze ma piuttosto definibili come relazioni. Ed è fatta da persone che devono essere riconosciute nella loro complessità. Dal punto di vista filosofico: quel che sto affermando in questo momento è quel filone della filosofia che fa capo ad Hegel. E cioè alla lotta per il riconoscimento delle autocoscienze.
Da Hegel in poi, l’Io non è più un essenza ma è un altro. Il principio quindi che è in gioco in questo caso non è l’essenza, ma la lotta. È la contingenza».

IMPOSTORI DELLA TRASPARENZA
di Giuseppe De Filippi 
http://www.ilfoglio.it/magazine/2017/08/07/news/impostori-della-trasparenza-147743/
Questa amministrazione sarà tra-spa-ren-te”, scandisce il neo sindaco o il neo presidente o il neo qualcosa. L’omaggio è reso, l’attenzione cala. Non c’è più da aggiungere. La trasparenza è la nuova fissazione nazionale. Si è insediata al comando per demeriti altrui. Un sorpasso in frenata. Tra passioni deboli, politica fattiva sputtanata e derisa, grandi obiettivi smontati come se fossero un’olimpiade a Roma, c’è rimasta la povera, sciocca, trasparenza. Che poi sarebbe pure sbagliata la scelta della parola. A voler essere un bel po’ pedanti si dovrebbe dire che un’amministrazione trasparente, proprio per questa sua caratteristica, è un’amministrazione che non si vede, insomma il contrario di quello che si voleva affermare. Il pedante potrebbe attingere alla fisica, appassionarsi alle definizioni, alla specifica trasparenza naturale dell’acqua e dell’aria e soprattutto a quella faticosamente conquistata dal vetro. Quello sì fu un cambiamento storico, con le case dalle quali finalmente si riusciva a vedere un po’ fuori senza aprire le finestre, con la luce che riusciva a entrare. Un’innovazione che ha trasformato il modo di pensare le città e di convivere. Il primo materiale a basso costo con cui si riusciva a creare oggetti attraverso i quali si riusciva a vedere, per poi sviluppare ulteriormente l’idea e riuscire anche a modificare il modo in cui la luce attraversa la materia per riuscire a ingrandire immagini, ad avvicinare la visione di oggetti lontani, a correggere gli errori della vista. Un’epopea quella della trasparenza tra studio della fisica e applicazioni pratiche. Una storia ancora in sviluppo (tanto per dire le macchine che individuano le onde gravitazionali usano uno speciale rimbalzo della luce tra trasparenze gestite in modo accorto) di fronte alla quale, ma non è la prima volta, l’applicazione alla scena pubblica e politica diventa una copia ridicola e malinconica. Parola sbagliata, dicevamo. Quella giusta probabilmente sarebbe pubblicità. Ma ha i suoi problemi. Interrompe le emozioni, fa fare soldi, fa vendere merci, dà luogo a una sfida commerciale continua tra aziende. Insomma tutte cose che ai patiti della tra-spa-ren-za fanno orrore. Però resta che l’espressione giusta è “si dia pubblicità agli atti dell’amministrazione”, che poi vuol dire semplicemente attivarsi per rendere conoscibili atti che già sono pubblici. Con la trasparenza invece ci si affida a un, perlopiù inesistente, attivismo dei cittadini per essere informati. Insomma: la trasparenza fa trasparire tante cose ma non guida verso la loro comprensione, si avvicina all’idea di una rappresentazione totale e fedele della realtà ma nello stesso tempo, dicendo troppe cose, le rende altrettanto illeggibili e incomprensibili. E’ un’utopia e quindi tipicamente pericolosa. La conoscibilità non è la conoscenza, i tempi di vita, e anche quelli di una semplice giornata, sono contingentati.
Gli interessi, per fortuna, sono vari e poche persone preferirebbero leggere una delibera o magari il dibattito consiliare con cui ci si è arrivati anziché chiacchierare all’aperitivo o guardare lo sport in tv. Forse anche per questo leggi come quella che poi fatalmente è stata chiamata “trasparenza bancaria” non hanno prodotto grandi risultati, anzi vengono sbeffeggiate continuamente (e se non ci si cura dei propri interessi diretti, come quelli che riguardano risparmi e investimenti, pensate che succede con le delibere comunali), ma ormai la carta della norma intestata alla trasparenza, in ambito finanziario, è stata giocata, così il prossimo passo, per una normale inflazione terminologica, sarà quello dalla trasparenza all’educazione, alla formazione. E’ già partita l’iniziativa per la educazione finanziaria, che prevede, evidentemente, un ruolo pedagogico, attivo, e non più la semplice disponibilità dei dati e delle informazioni grazie alla scioccherella trasparenza. Dubitiamo che anche questo tentativo possa funzionare senza la collaborazione di chi deve informarsi, mentre il mondo bancario è stato travolto da un’ondata di opacità, percepita si potrebbe dire con il linguaggio di questi giorni, da cui faticosamente si sta riprendendo. Il racconto pubblico dei fatti bancari, la cacofonia delle voci coinvolte, l’opportunismo delle parti politiche, hanno fatto strame della già debolissima trasparenza, e forse davvero nel mondo finanziario, il primo nel quale l’espressione ha ottenuto sanzione legislativa, ci sono i primi segnali, ma molto netti, di ripensamento sull’efficacia della passione per la trasparenza.
E le vicende della finanza ci aiutano a fare qualche passo in più, si direbbe che potremmo fare un’operazione trasparenza sulla… trasparenza e rivelare, ma davvero lo sapevamo tutti, la quota non trascurabile di ipocrisia con cui viene applicata nella scena pubblica. Come ci ha mostrato il pedante citato prima la trasparenza di suo non rivela niente, semmai nasconde l’oggetto da cui la luce è attraversata. L’aria non la vediamo, e per dimostrarne l’esistenza e valutarne la caratteristiche materiali i primi fisici/filosofi hanno fatto anche una certa fatica. Allora sollevando l’ipocrisia si vede che a nessuno interessa la trasparenza in sé (quando si parli di politica, di potere, di gestione della cosa pubblica) ma a interessare è ciò che sta dietro, ciò che viene rilevato. Ma così si torna da capo. La trasparenza se ne sta lì buona e in primo piano tornano le ossessioni, i complotti. Non ciò che ci viene candidamente mostrato, ma ciò che vogliamo vedere. Il disvelamento è un imbroglio che con un giro tortuoso ci riporta alle nostre fissazioni. Così l’anti politico punterà sulla trasparenza per dire che finalmente ha visto come la politica sia guidata solo da torbidi interessi, da illegalità, da fame di potere fine a sé stesso. E lo farà anche virtualmente. Non c’è bisogno di esercitare davvero le famose operazioni trasparenza, saranno le congetture a ritenersi dimostrate a prescindere, perché lo sappiamo già che, se si levassero i veli imposti dal potere, ecco che tutto emergerebbe come lo abbiamo immaginato. Funziona meglio così, come arma preventiva, la trasparenza. Quando si tenta di applicarla attivamente le cose vanno a finire maluccio. Come nei famosi blitz dell’amministrazione Raggi nei luoghi del presunto malaffare, come quello indimenticabile della allora assessore Paola Muraro negli uffici dell’Ama (di cui era peraltro responsabile come assessore): trasparenza militante, con tanto di telecamerine e messa a disposizione delle immagini e degli scambi di frasi inquisitorie su Facebook. L’esito non fu un granché, Ama va avanti come sempre, il tritovagliatore tritovaglia, l’assessore è cambiato, l’attenzione intanto dai rifiuti si è spostata ai trasporti.
Torniamo alle banche. E’ proprio nel settore finanziario che la trasparenza fa il suo debutto in una definizione legislativa, l’intento era rivelare al cliente prima di tutto le questioni minori, ma potenzialmente e anche realmente, costose legate a servizi non comprensibili a prima vista addebitati per la banale tenuta del conto corrente. Il risultato di tutto questo trasparire è stata la produzione di gigantesche informative di altrettanto difficile lettura, mentre a scavare sotto e a togliere spazio ai tanti addebiti un po’ fantasiosi è stata certamente più la concorrenza della trasparenza e, ironicamente, lo ha fatto in buona parte attraverso la pubblicità (sì proprio quella che si paga). Ora il mondo finanziario tenta di correre ai ripari per la magagna peggiore, quella che riguarda non i banali servizi di sportello ma gli investimenti. Mentre regnava l’ossequio alla trasparenza sono avvenuti enormi sfracelli per gli investitori/risparmiatori. Con strascichi ben noti e accuse fino ai massimi responsabili politici. Accuse spesso opache, tutt’altro che trasparenti, ma fa niente. Il punto è che si è capito che, anche nel caso dei prodotti finanziari, l’ossessione per la trasparenza, per il dire tutto, non aiutava nessuno. I mitici prospetti informativi, zeppi di dati e di messe in guardia, producevano il rifiuto della lettura. E ora arriva la novità delle “informazioni chiave”, che saranno i nuovi strumenti di comunicazione per gli emittenti e le autorità di vigilanza. Meno trasparenza sciocca, è l’idea, più dati mirati per capire velocemente cosa ho davanti. Poi c’è la trasparenza di complemento, quella che nelle intestazioni di comitati vari, autorità, uffici, si accompagna alla legalità. Partiamo da Milano in una rassegna che più casuale non si potrebbe e troviamo Gherardo Colombo a presiedere il comitato per la legalità e la trasparenza. Passiamo all’Anac e troviamo proprio una divisione intitolata alla trasparenza, tratta ovviamente di dare pubblicità agli atti che riguardano appalti. Tanta trasparenza poca corruzione, è lo schema dell’Anac. Tutto bene ma ancora una volta si deve notare la ridondanza retorica della parola e anche la sua ridondanza applicativa. Far trasparire tutto è obiettivo da piano quinquennale, roba che non funziona, è la glasnost cui ti attacchi quando non c’è più niente da fare. Mentre ancora sarebbero mercato e concorrenza a regalare, tecnicamente regalare, informazioni e selezione delle migliori offerte. Andando avanti troviamo comitati per la trasparenza in quasi ogni comune e uffici dedicati in tutte le amministrazioni. Sindaci a caso: a Ladispoli, litorale romano, ecco il primo cittadino rivendicare un’amministrazione “onesta, leale e trasparente”, a Civita Castellana (Viterbo) durante indagini per questioni di parentado “la nostra amministrazione è trasparente”, a Montalto Uffugo (Cosenza) l’amministrazione “vuole essere condivisa, partecipata, attiva e trasparente”. E poi ancora Faenza, istigati dal blog di Beppe Grillo, ecco la giunta impegnarsi, come un giovane pioniere, per essere “più trasparente”. Così siamo dalle parti della propaganda politica. I meravigliosi streaming (con la recita che trasparentemente prendeva il posto del confronto tra gruppi), le case di vetro, la condivisione estrema. Senza ricordare però l’esperienza della finanza: nessuno vuole ore di streaming (equivalenti ma forse più mendaci ai giganteschi prospetti informativi), mentre molti vorrebbero le informazioni chiave, i pochi punti con cui identificare che è sulla scena pubblica. Tra la mercatista pubblicità (calunniata dai poeti ma dicevamo sarebbe la parola giusta per il quid che cerchiamo) e la scioccherella trasparenza si staglia la rigorosa (accademica? Seriosa?) conoscenza. Oggetto di una campagna mondiale da parte del Partito Radicale per inserire il diritto alla conoscenza tra quelli fondamentali dell’individuo.


Non c’è più la retorica della trasparenza, per cui ipocritamente basta levare il velo e tutti i mali si mostreranno, tanto in realtà già sapevamo tutto, ma c’è da difendere e rivendicare il diritto a conoscere, faticando e impegnandosi e applicando metodi rigorosi. Intanto però bisogna misurarsi con la ipocrita e subdola trasparenza. Ce ne sarà occasione a Seggiano, bel borgo alle pendici dell’Amiata, in una miniserie di incontri estivi in cui, proprio a me che stavo tentando di scriverne una critica, stasera alle 19 è stato affidato di guidare una discussione sul tema della trasparenza con due agguerrite argomentatrici come Veronica De Romanis e Milena Gabanelli. Il festival (definizione auto-ironica con understatement a rovescio) si chiama “Notizie dall’Amiata”, pescando fortunosamente una specie di taylormade tra i titoli di Eugenio Montale. A memoria, di trasparenza Montale non se ne era occupato e certamente la sua scrittura non era un omaggio all’immediato trasparire dei concetti, riuscendo però a dirci molto di più del pane al pane. C’è nella sua poesia, finita anche in un micidiale tema della maturità, un’“acqua limpida scorta per avventura” che rimanda al sorriso di un amico. E intanto limpida è più bello di trasparente ma poi alle limpidezze, come si è provato a dire, non si arriva per decreto o per volontà popolare ma “per avventura”. E dunque meglio non affidarsi alla limpidezza (la triste trasparenza è già archiviata) e prepararsi alla realtà, opaca e torbida che sia.

AMICI POTENZIALI
Di Gianfranco Giudice
Capita di incontrare persone nella vita con cui sentiamo che si potrebbe dire sempre qualcosa di più, ma poi non si dice mai. Anche l'altra persona sente la stessa cosa che sentiamo noi. Capiamo che parlando con queste persone proviamo un particolare piacere, stiamo bene, pur non essendo veri amici, ma poco più che conoscenti. Ci si dice spesso che magari un giorno ci vedremo a bere qualcosa assieme per chiacchierare con calma, non di corsa come sempre, ma poi quel giorno non arriva mai, non arriverà mai. Non c'è occasione, non c'è tempo, forse si ha paura di trovarlo, modificando abitudini consolidate della quotidianità, fonte di impagabili sicurezze. Nonostante ciò, avvertiamo che quando scambiamo qualche parola col nostro amico potenziale siamo contenti. Si potrebbe iniziare un lungo discorso, ci si potrebbe raccontare, perché capiamo che con quella persona particolare esiste un affetto naturale, spontaneo, fatto di sguardi che esprimono comprensione, simpatia immediata. Sono persone incontrate per caso nei luoghi che frequentiamo, colleghi di lavoro, magari un compagno di viaggio occasionale ogni mattina, oppure amici di amici. Se il filo del tempo si riavvolgesse, alcune di queste persone particolari capiamo che sarebbero diventate nostri amici. Ma oramai è troppo tardi, non si può più, sarebbe troppo impegnativo investire in una nuova relazione umana. Sono  occasioni perse sotto i nostri occhi, consapevoli che le stiamo perdendo irrimediabilmente. Eppure la vita è così, è proprio questo. È un insieme di occasioni casuali perdute per sempre, si salva qualche occasione che raccogliamo, non perché migliore di altre, solo perché l'abbiamo incrociata prima. Ogni lasciata non è persa. È quella che ritrovi ogni volta che ti ripassa accanto, proprio come l'amico potenziale.Resta comunque bello saperne gustare l'assaggio, contribuisce per un istante a dare senso alla nostra vita, il senso della condivisione possibile e necessaria per l'esistenza.

martedì 10 ottobre 2017



CHE GUEVARA
Di Emanuele GagliardI
Recensione.  Pedro Corzo. Che Guevara, missionario di violenza, Spirali, Milano 2009, 340 pp., € 18,00. 

Ernesto Guevara de la Serna (1928-1967), detto “Che” Gue- vara o semplicemente “El Che”: da oltre quarant’anni la sua faccia — basco sulle ventitré e sguardo oltre l’orizzonte —, si ritrova su poster, magliette, gadget, bottiglie di birra, sui tatuaggi esibiti da Diego Armando Maradona e da Mike Tyson. Da icona rivoluzionaria a logo pop, un po’ romantico, un po’ fricchettone, comunque un caso emblematico di marketing.
Per colmare l’abisso fra mito e realtà, si rivela quanto mai prezioso il volume di Pedro Corzo, tratto da un documentario dello stesso autore che è stato un successo televisivo negli Stati Uniti e che raccoglie oltre trenta testimonianze dirette di chi con “El Che” ha combattuto anco a anco. Ne emerge un uomo completamente differente dal mito che lo ha consacrato dopo la morte. San- guinario, pasionario della violenza, «un utile simbolo indesiderato», secondo la de nizione di Carlos Carralero, rifugiato politico cubano che dal 1995 vive in Italia, ove ha fonda- to L’Unione per le Libertà a Cuba. «Il nostro scopo — grazie alla editrice Spirali — è far scendere Castro dal suo infangato piedistallo prima che dica addio al mondo che ha tanto martirizzato», dichiara Carralero (pp. 7-8). 
Anche Pedro Corzo Nato è un ex prigioniero politico, entrato a soli diciannove anni nelle galere di Fidel Castro Ruz. Negli anni 1960 ha diretto il giornale illegale Adelante. Uscito da Cuba, è rimasto circa dieci anni in Venezuela, collaborando a varie pubblicazioni nazionali ed estere. Poi si è trasferito negli Stati Uniti, dove ha fondato il tabloid El Observador latinoamericano. Col- labora a varie pagine web e ha scritto diversi libri, fra cui Cuba. Cronología de la Lucha contra el Totalitarismo (2003), Mártires del Escambray (2007) e La porfía de la razón (2008). Ha prodotto vari documentari sulla storia cubana, come Guevara, anatomía de un mito (2005). Dal 1997 è presidente dell’Instituto de la Memoria Histórica contra el Totalitarismo, fondato allo scopo di recuperare la storia della lotta di quella parte della popolazione cubana che, dal 1959, si batte contro la dittatura comunista. 
I personaggi intervistati sono i più vari. Inizia Enrique Ros, autore di Ernesto Che Guevara: mito e realtà (2002), considerata l’inchiesta più completa sul guerrigliero argentino. «Guevara in gioventù [...] era un tipo indifferente, un bohémien, un avventuriero che non si interessava dei problemi del suo paese o dell’America Latina» (p. 19), racconta Ros. «Era un individuo insensibile di fronte al dolore altrui, [...] non aveva scrupoli ad ordinare l’assassinio di qualcuno quando questa morte poteva favorire i suoi progetti. Lo dimostrò nei mesi in cui fu al comando della fortezza della Cabaña [all’Avana]» (pp. 34-34).
«[...] era un fanatico politico», che riferiva tutto a Fidel Castro, aggiunge Lázaro Guerra, militante nei movimenti rivoluzionari cubani. «Sono stato testimone di un caso [...]. Stavamo prendendo un caffè in un locale di Città del Messico [...]. C’era una donna con in braccio un bambino che ci si avvicinò per chiedere l’ele- mosina. Io, com’ è logico, tirai fuori qualche moneta...», Guevara, invece, inveì: «“Che vada a farsi fottere, perché c... mette al mondo dei gli?”. Quell’espressione mi diede un’idea della personalità del Che, un perso- naggio al quale hanno messo l’aureola di uomo buono e solidale», mentre «[...] era una perfetta canaglia, un criminale» (pp. 73-74).
Jaime Costa è stato comandante dell’Ejército Rebelde e membro fon- datore del Movimiento 26 de Julio: «una volta catturammo un guajiro [...], un contadino che secondo le informazioni faceva il delatore per l’esercito di Batista [...]. Di solito mettevamo le persone che ci ispirava- no dubbi [...] circa il fatto che potes- sero collaborare con il nemico, in una grotta, a cui avevamo messo il nome di Puerto Malanga. [...]. Se poi ap- puravamo che erano davvero spie, gli facevamo un processo senza nessun riguardo e li fucilavamo. Quella volta, però, quell’uomo non venne mandato a Puerto Malanga [...]. Quelli che lo interrogarono giunsero alla conclu- sione che non c’era certezza che quel tipo fosse davvero un delatore [...]. In genere gli spioni, i delatori, nivano per confessare il proprio crimine e per giusti carsi e cercare il perdono, s’inventavano qualsiasi pretesto [...]. Questo invece non aveva ammesso as- solutamente nulla [...]. Fatto sta che nel bel mezzo della discussione [...] il Che tirò fuori il revolver e gli sparò un colpo in testa» (pp. 85-86).
«Aveva una superbia incontrollabile — attesta Augustín Alles Soberón, corrispondente della rivista Bohemia, che trascorse due mesi nella Sierra Maestra —, anche se a volte cercava di compiacere i cubani, e quando po- teva controllava la volgarità e l’atteg- giamento dispotico che erano i suoi tratti abituali». «Nella fortezza della Cabaña, Ernesto Guevara si fece cono- scere per quello che era [...] un uomo crudele e spietato e, se vogliamo, anche uno psicopatico» (p. 117). Sulle pro- ditorie fucilazioni ordinate dal Che nella fortezza della capitale cubana riferisce anche l’avvocato Napoleón Villaboa, pure lui membro del Movimiento 26 de JulioNel 1959 entra nelle Fuerzas Armadas Revolucionarias e viene inviato alla Cabaña in un organismo denominato Comisión Depuradora, «un organismo creato da Fidel Castro con il pretesto di ripulire le Forze armate di Cuba, anche se, in realtà, la commissione aveva l’unico scopo di instaurare il terrore rivoluzionario nell’isola per mezzo delle fucilazioni» (p. 170). Le pene capitali venivano comminate dopo processi-farsa. Infatti, «prima del processo si sapeva già quali condanne sarebbero state pronunciate. Guevara segnava personalmente, con una matita o con una penna, le persone che sarebbero state fucilate. In questo compito era assistito in molte occasioni da membri del Partito comunista» (p. 171). 
Il racconto conclusivo di Félix Ismael Rodríguez, ex ufficiale della Cia (Central Intelligence Agency), è elemento essenziale del volume: Rodríguez è l’ultimo cubano a vedere il Che vivo e descrive con puntualità le manovre per la cattura e gli ultimi istanti di vita del guerrillero. Sfata anche il mito di Guevara abile stratega: infatti in Bolivia «non scelse l’area giusta, poi comandò una guerrilla priva di comunicazioni, inoltre l’armamento era pessimo per la zona. [...] era come mandarli tutti alla morte» (p. 315). Castro lo aveva piantato, e il suo destino era perciò segnato: «La notte [...] del 7 ottobre [1967] la Quebrada del Yuro fu circondata con duecento uomini e il mattino successi- vo, cioè l’8 ottobre, incominciò l’avan- zata e iniziò lo scontro con la guerrilla del Che. In questa battaglia la maggior parte dei guerrilleros morirono, il Che cadde prigioniero insieme con Simón Cubas, conosciuto con il nome di Wil- lie, che stava aiutandolo a scappare» (pp. 318-319). Il 9 ottobre «verso le dodici e trenta, ora della Bolivia, arrivò un’insegnante di scuola con una radiolina in mano [...]. La maestra mi chiese: “Mio capitano, mio capitano, quando lo ammazzate?”. Ribattei: “Si- gnora, perché dice questo?”, e lei mi rispose: “È che abbiamo visto che si è fatto fotografare là fuori con lui e senta”, aggiunse indicando la radiolina, “la radio sta già dicendo che è morto per le ferite in battaglia”. Quando mi disse questo non mi rimase più alcun dubbio su quel che sarebbe successo. Gli ordini erano già stati dati dall’alto comando boliviano» (pp. 324-325).
Che Guevara missionario di violenza è uno strumento unico per la lotta alla disinformazione, di cui le sinistre sono maestre, e per comprendere che Fidel Castro ed Ernesto Guevara sono falsi miti. Il primo si è servito del secondo in quando gli è stato utile, poi lo ha abbandonato, dopo gli errori compiuti da ministro dell’Industria e da presidente del Banco Nacional e dopo le disfatte guerrigliere in Congo e in Bolivia. Guevara, inviso tanto a Washington quanto a Mosca per le sue tendenze filo-cinesi, continuò a fucilare cubani innocenti, sulla Sierra Maestra e nella prigione della Cabaña, e a mandare al macello centinaia di boliviani e congolesi nel nome di Castro, fino al giorno in cui viene catturato e giustiziato. Il 15 ottobre il tiranno cubano proclama tre giorni di lutto nazionale dando il via, con un’acuta strategia di mercato, alla creazione del mito che si rivelerà quanto mai redditizio, ancorché costruito sulla menzogna.
Emanuele Gagliardi 




Paolo Bo



 Invecchiare bene è trovare se stessi (U. Galimberti)
Se è vero che si invecchia per ragioni biologiche, è altrettanto vero che in Occidente si invecchia peggio che altrove per ragioni culturali. La nostra cultura ha connesso la vecchiaia all'improduttività, per cui chi non produce, stando alla gerarchla dei valori tipici delle società avanzate, è ridotto all'emarginazione, quando non all'insignificanza sociale. I costi sociali della vecchiaia, dalle pensioni all'assistenza, hanno generato una nuova lotta di classe, non più tra poveri e ricchi, ma tra vecchi che per non sentirsi emarginati non vogliono lasciare e giovani che non sanno da dove incominciare.
Se la vecchiaia per la nostra cultura è un tempo inutile, non aveva torto Indro Montanelli quando auspicava per sé l'eutanasia per restituire all'individuo la sua dignità nei confronti delle leggi indifferenti della natura. Ma se conveniamo con la tesi di James Hillman secondo il quale il fine dell'invecchiare non è quello di morire, ma di svelare il proprio carattere, che ha bisogno di un tempo lungo per apparire a noi stessi prima che agli altri in tutta la sua peculiarità, allora la vecchiaia diventa davvero interessante e rende a noi stessi giustizia di tutto il tempo della nostra vita durante il quale, per affermarci, ci siamo trascurati e, quando per caso ci incontravamo, fuggivamo da noi stessi come dal peggior nemico. La vecchiaia come una scoperta di sé e non come una ricerca spasmodica di una giovinezza ineluttabilmente perduta che, rincorsa, ci fa apparire patetici, oltre a svelare a tutti quelli che ci circondano come abbiamo imprigionato l'ultima parte della nostra vita all'idea diffusa dalla nostra cultura che celebra solo il mito della giovinezza. Questo, a parere di Hillman, è un grande danno anche per la società, perché: «Se la vecchiaia non mostra più la sua vulnerabilità dove reperire le ragioni della pietas, l'esigenza di sincerità, la richiesta di risposta su cui poggia la coesione sociale. La faccia del vecchio è un bene per il gruppo. E per il bene della società bisognerebbe proibire la chirurgia estetica, e considerare il lifting un crimine contro l'umanità».
Si dirà, va bene la scoperta di sé che abbiamo trascurato per tutta la vita, ma l'amore, che Freud considera la vera antitesi alla morte? Qui ci viene in soccorso Manlio Sgalambro, che nel suo Trattato dell'età, scrive: «L'eros scaturisce da ciò che sei, amico, non dalle fattezze del tuo sedere o delle tue spalle. Scaturisce dalla tua età che, non avendo più scopi, può capire finalmente che cos'è l'amore fine a se stesso. Una sessualità totale succede a una sessualità genitale. Qui l'amore raggiunge il proprio apice, che non è nella riproduzione a cui è legato l'animale di ogni specie, perché la specie non è niente, alcuni uomini sono tutto».
Se smontiamo le nostre idee troppo spesso vittime dell'Idea che la società ha diffuso sulla vecchiaia, persuadendoci e affliggendo l'ultima stagione della nostra vita, forse la vecchiaia può essere vissuta con il gusto della curiosità di scoprire chi siamo, dopo aver rimandato per tutta la vita questa scoperta, e di conoscere quella nuova forma d'amore che, come ci ricorda Ovidio: «la natura negò ai giovani», troppo presi dal gusto della conquista, che spesso risponde più alla propria gratificazione narcisistica che all'amore. 

domenica 8 ottobre 2017




S-CIANCOL (LIPPA)
Lo S-ciancol: in dialetto mantovano e' il nome del gioco  Lippa . Storia di un gioco.
Il gioco della “lippa” consiste nel far saltare un pezzo di legno appuntito alle sue due estremità, battendolo con un bastone e percuo­tendolo poi in volo per mandarlo il più lontano possibile. Ha fasi e regole che lo fanno considerare precursore del baseball: la base, il lancio, la presa, giocatore in difesa e in attacco, perdita della base....
Da dove deriva il nome?: Il nome sembra derivare dal caldeo  “halip”   e significa “lancio, getto”. L'origine orientale e' rafforzata dal fatto che il gioco e' ancora diffusissimo in India (chiamato gillidanda). 
Ha origini antiche: al Petrie Museum di Londra (museo di archeologia egizia), tra i tantissimi reperti sono conservati dei bastoncini di legno, alcuni dei quali appuntiti alle estremità e catalogate come  lippe. Da questa testimonianza potremmo collocare la sua lontana origine a circa 3500 anni fa. Ma poi  troviamo tracce in pitture all'interno di tombe etrusche e romane.
Lo troviamo in letteratura: ne parla John Steinbeck in La valle dell'Eden, a pag 33 edizione Mondadori: "L'affetto tra i ragazzi era cresciuto con gli anni. Può darsi che il sentimento di Charles fosse in parte disprezzo, comunque era un disprezzo protettivo. Una sera i ragazzi giocavano nel cortile a "peewee", un gioco nuovo per loro. Si metteva per terra un bastoncino appuntito e poi lo si colpiva vicino alla punta con una mazza. Il bastoncino volava per l'aria e poi con un altro colpo lo si faceva volare il più lontano possibile.
Adam non valeva molto, per i giochi. Ma a quel gioco lì, per qualche fortunato caso di occhio e di tempismo, batté il fratello. Per quattro volte fece volare il bastoncino più lontano di Charles. Fu una nuova esperienza per lui, e si sentì talmente inebriato da non avvertire lo stato d'animo del fratello, cosa di cui solitamente si preoccupava. La quinta volta che batté il bastoncino, questo volò via lontano ronzando come un'ape. Si voltò tutto contento verso Charles e agghiacciò a un tratto. L'odio che gli si leggeva in volto lo aveva spaventato. -Forse è stato solo un caso disse barbugliando; -scommetto che non ce la faccio una seconda volta."
Ma anche nel cinema: ricordiamo: "Guardie e ladri", con Totò e A. Fabrizi (IT. 1950), "I soliti ignoti" con Totò, M. Mastroianni, V. Gasman (IT. 1958), "Stanlio ed Onlio nel paese della meraviglie" (USA 1934), "Altrimenti ci arrabbiamo" con Bud Spencer e Terence Hill (USA 1974).








giovedì 5 ottobre 2017


A WHITER SHADE OF PALE 
Is the debut song by the British band Procol Harum, released 12 May 1967.... Harum - A Whiter Shade Of Pale Live 1968- This was John Lennon's favorite song on his jukebox at his home. They say he listened to it over and over. ... JamesAZieg

https://www.youtube.com/watch?v=valL7JWjVB4&sns=em




DECLINO DELLA SINISTRA
Enrico Mentana (Facebook)
"Nel Duemila la gran parte dell'Europa era governata dai partiti di centrosinistra: c'era Blair in Gran Bretagna, Schroeder in Germania, Jospin in Francia, D'Alema in Italia. Da Washington guardava con benevolenza il democratico Bill Clinton. Poi progressivamente la stella del socialismo europeo ha cominciato a offuscarsi, e anche le condizioni mondiali sono molto cambiate. Questo 2017 di importanti elezioni è stato l'anno della catastrofe per i socialisti olandesi (che hanno perso tre quarti degli elettori), per quelli francesi (umiliati dalle urne dopo aver governato per 4 anni) e ora per i socialdemocratici tedeschi, scesi ieri al minimo storico. Fra tre settimane tocca all'Austria, e i sondaggi fanno prevedere un esito simile. L'unico che pur avendo perso ha ottenuto comunque un buon risultato è stato Corbyn con i laburisti inglesi, cioè l'uomo più lontano dalla politica del Blair di 17 anni fa. Rispetto ad allora il solo D'Alema tra i premier è ancora in campo: ma come è noto ha cambiato partito, e paradossalmente  (ma non troppo) anche lui spera che il Pd italiano vada incontro alla stessa sorte degli altri partiti del socialismo europeo. A chi guarda agli eventi 'sine ira et studio' interessa semmai studiare la parabola dei movimenti socialisti, e la loro strutturale incapacità a reggere alle nuove domande di società in cui il welfare, l'invecchiamento e la globalizzazione hanno spostato parametri e esigenze della società, e la lunga fase di crisi ha  fatto arroccare proprio le fasce storicamente più disposte alla solidarietà e allo spirito di uguaglianza. I nuovi ultimi sono visti con sospetto e paura da coloro che si sono battuti per il miglioramento delle proprie condizioni di vita, e le nuove regole del gioco e paure fanno ora guardare con sospetto a sindacati e cooperative, le antiche cinghie di trasmissione dei partiti della sinistra. I quali hanno perso la capacità di indicare obiettivi più forti di quelli identitari e sovranisti, che stanno gonfiando le vele delle destre. Infine, ma non ultimo, il fenomeno generale del leaderismo e della personalizzazione della politica favorisce chi ha legittimamente il culto del capo, ma non certo chi eredita la storia dei movimenti di massa, e ha bisogno di un mondo diverso per cui battersi. Già, quale?"

mercoledì 4 ottobre 2017


INSODDISFAZIONE
(da Carlo Dossi. "Gocce d'inchiostro")
Era, nella città, l'ora, in cui i ciccajoli allùmano i lor lampioncini, e i mangia-malta appòstano i gatti, e i pòveri vergognosi di nani, dagli ampi mantelli, fanno la traversata dalla bottega alla casa. Gli ùltimi raggi di sole avèano arroventato una rastrelliera di casserole di rame, e si èran rinfranti in una di majòliche e vetri, e fatto brillare una fila di guantiere e cucchiài di ottone; dunque, è una cucina la scena; ed io aggiungo, cucina di un'osteria mezzo perduta tra i monti.
Nella quale, ora, l'ombra ha inghiottito un giòvane di sédici anni, seduto in un canto. Chi, verso le sei, la chiacchierava alla porta, avèalo visto a venire e ad entrare, lo schioppo a tracolla, un cane ai tacchi. Era, la giubba sua, frustagno, ma la fòdera, seta. E il giovanetto, di dove avèa pranzato non si era più mosso; insieme alle frutta, sopragiungèvan le tènebre.
Siano le benvenute! Sentìvasi stanco, forse. Scarpe di montanaro, nelle montagne, non bàstano. Allora, la ostina avèa deposte, inaccese, due stoppiniere dal piattel verde di latta sopra la tàvola, e, mentr'ei si stendeva, chiudendo gli occhi, su 'na panchetta di legno, zitta, era andata a sedere sulla predella del vasto camino e si appoggiava, come a dormire, contra uno stipite. Il bracco poi, lappata la sua scodella di pappa, e leccàtosi i baffì, già stàvasi accovacciato a pie' del padrone, i nottolini giù — di tutti e tre il solo che non facesse per finta.
Infatti, sotto palpèbra, il giòvane teneva lo sguardo fiso nella fanciulla. In confidenza, essa l'avèa turbato fin da principio, quando, con una di quelle voci soavi, di argento, che ricèrcan le vene, avèagli detto «buon dì», mentre, intorno alla voce, appariva il più bel gràppolo di giovinetta che mai. E, com'egli avèa voluto, per dare passata alla emozione che gl'imbragiava la gota, arrischiarsi a delle disinvolture, ajutando, ad esempio, l'ostina a dispiegar la tovaglia, a porre giù i tondi e i bicchieri, a cavar l'aqua dal pozzo, questa emozione era invece aumentata; così, egli avèa scelto un cibo per l'altro, bevuto aqua per vino… poi, si scottava, tagliava… Tènebre, oh benedette!
Ché, protetto da esse, Guido ora pasceva la vista nella fanciulla, aggruppata al camino, e illuminata, a tratti, dal chiaror di uno stizzo. Con gli occhi, il giovanetto accarezzava, ricarezzava il viso di lei malinconicamente inclinato, dai colori contadineschi ma dal profilo di dama, e la sua bocca da baci, e il mento dal «sigillo di Amore»; poi, si godeva a smarrire nei folti e castagnini capelli; poi, sostato all'orecchio sur il grassello incorallato, veniva giù giù con le volte più tonde per un vèrgine corpo, sciutto, sveltìssimo. E ritornava ai capelli, e vi scopriva un bottone di rosa. Oh felici le mani che ve l'avèano messo! Pur non èran le sue! e, sospirando, invidiava colùi del quale la giovinetta sognava.
Or, chi era colùi? Più di una volta, ella avèa arrossito, e non di certo pel calor della fiamma. La giovinetta sentiva la presenza di Guido; stava, dirèi, in una attesa vaga, che la mano di lui le frisasse la spalla; e desiosa e temente. Oh! com'egli era gentile! La ostina non poteva fuggire di confrontarlo con que' suòi rozzi paesani, che non venìvan da lei se non per pigliare la sbornia e attaccar delle liti, e le dicèvano brutte e villane parole, e le buffàvano in faccia il lor ributtante tabacco. Poi, quanto bello! (quì la ostina aggricchiava). Essa ancor lo vedeva con quel suo viso aperto, dal velluto di pesca, il sorriso che rischiarava, la pupilla azzurrina, buona come la stessa bontà. Ma lui era ricco, lui! essa lavava i piatti!
E lì, gonfi gli occhi, affisàvasi giù.
Momenti, per tutti e due, di un acuto languore; momenti fuor dagli spazi e dai tempi, in cui scorgèano, in una, migliaja di cose e di affetti a indefiniti contorni; momenti, che la mùsica solo — universal lingua — saprebbe narrare.
Il silenzio, profondo; il cielo, stellato.
E così stèttero… Quanto?… Non guardài l'orologio. So tuttavìa che sarèbberci stati molto e molto di più, se dalla chiesa vicina non fòsser piovuti sulla osteria, gravi, severi, lenti, ùndici tocchi.
Quella, era una voce che rassegnata diceva «il tempo passa». E taque.
Ma, quasi contemporaneamente, udissi un trach nella stanza. Tosto, il grido aspro del cùculo ripetè l'ora.
E questo, un corollario maligno alla sentenza del cainpanile. Parèa dicesse «dunque, svelti!». E, trach, l'usciolo si chiuse.
La giovinetta si alzò con premura. Venne alla tàvola, tòlsene una stoppiniera, e, tornata al camino, chinossi e l'accese.
Guido levò pure su. Prese la seconda bugìa, e, fàttosi presso alla bella, le dimandò con la voce lì lì per tremare «una càmera».
— Venga — disse in mezzo tono colèi; e precede' Guido. E, uno dietro dell'altro, salìrono una scaluccia, stretta; salìrono lentamente, come se in cima li attendesse la scure.
Senonché, ecco il primo ripiano.
E si fèrmano là. Guido china la candela di lui, intatta, verso l'accesa di lei; quanto agli sguardi, sono bassi di già, ché ciascuno si crede sotto quelli dell'altro.
Diàvolo di uno stoppino! non vuòi pigliare, eh? È Amore che ti filò? ti par di troppo anche una? Cert'è, che, adesso, i polsi dei due be' giovanetti non sono i propri per accèndere lumi.
Ma, infine, aah! ci rièscono. Le due fiammelle stanno un istante confuse, poi si distàccano. E anch'essi. Auguransi la buona notte (intantoché se la danno cattiva); lui, apre un uscio e scompare; lei ridiscende la scala.
E il bracco? Il bracco, navigato vecchione, che ride forse tra i denti, si allunga alla porta del suo arancino signore.
Pare, dei tre, l'ùnico soddisfatto.

martedì 3 ottobre 2017

JOSEPH-IGNACE GUILLOTIN 
Estratto da "Tempi glaciali"
Fred Vargas 
Einaudi
“Adamsberg accese la luce di parcheggio e si girò verso il comandante.
– Si ricorda della Rivoluzione? – domandò staccandosi una pallina di lappola dai pantaloni.
– Francese? Non c’ero ma me ne ricordo, sí.
– Meglio cosí, perché io invece no. Ma so che a un certo punto un ingegnere ha proposto di adottare la ghigliottina per i condannati a morte, perché tutti fossero giustiziati nello stesso modo e senza soffrire. All’epoca non si trattava di usarla per il Terrore.
– Non un ingegnere, ma un grande medico. Il dottor Guillotin.
– Ecco.
– Joseph-Ignace Guillotin.
– Come vuole.
– Che dapprima fu medico del conte di Provenza.
– Danglard, vuole che le disegni quel disegno, sí o no?
– Forza.
– A una certa data il re è ancora re. E non mi dica che si chiamava Luigi XVI, lo so. Durante una riunione Guillotin presenta la sua macchina. Dicono che ci fosse anche il re.
– Prima dell’agosto 1792, allora.
– Certo, Danglard.
Il comandante aggrottò le sopracciglia, e Adamsberg si accese una sigaretta stropicciata, offrendone una al suo vice. Le due braci brillarono nell’abitacolo silenzioso.
– Si potrebbe credere di essere soli al mondo, – disse Adamsberg sottovoce. – Dov’è la gente? Gli altri?
– Ci sono. Non stanno disegnando disegni sul ciglio della strada, tutto qui.
– Si dice, – riprese Adamsberg, – che il dottore abbia presentato un progetto di ghigliottina classica. Perché in realtà la ghigliottina esisteva già da un bel pezzo.
– Dal XVI secolo. Ma Guillotin l’aveva migliorata.
– Perché, com’era prima, la ghigliottina?
– Con una lama convessa.
– Quindi cosí, – disse Adamsberg disegnando sul parabrezza appannato due barre verticali e, fra le due, una linea a forma di mezzaluna.
– Cosí. Oppure con una lama dritta. E Guillotin ha ritenuto che una lama obliqua sarebbe stata molto piú efficace e rapida.
– Be’, non è quello che hanno detto a me. A me hanno detto che è stato il re, il quale si intendeva molto piú di meccanica che di politica, a prendere il disegno, esaminarlo, pensarci su e poi barrare la lama curva con un tratto obliquo, per indicare la sua modifica. È stato lui a trasformare la macchina, è stato lui a migliorarla.
Adamsberg aggiunse una linea trasversale al suo disegno sul parabrezza.
– Cosí.
Anche Danglard abbassò il finestrino e scosse fuori la cenere. Adamsberg staccò una seconda pallina di lappola. Se erano davvero sementi avrebbe potuto piantarle nel suo minuscolo giardino. La appoggiò sul cruscotto.
– Che cos’è questa storia? – domandò Danglard.
– Una storia, appunto, e non ho detto che sia vera. Dico che la raccontano. Che Luigi XVI avesse disegnato personalmente lo strumento perfetto che lo avrebbe decapitato.
Danglard era scontento, soffiava il fumo tra i denti.
– Dove l’ha letto?
– Non l’ho letto. Ricorda il vecchio erudito di place Edgar Quinet? È stato lui a raccontarmelo un giorno, disegnando la stessa cosa col dito sul tavolino umido, al caffè Vicking. Mi dispiace, Danglard, – aggiunse rimettendo in moto. – Non è un disonore non sapere qualcosa. Altrimenti io sguazzerei in un fiume di fango.”





Patriottismo
Il vecchio trucco del patriottismo porta male...
"La patria è un’idea paranoica, che funziona in relazione a una minaccia esterna, e la paranoia è una merce che si vende sempre facilmente. È facile entusiasmarsi con la patria. È facile credersi diversi dagli altri, è facile credersi migliori degli altri. È facile credere che tutti i mali vengano da quelli che si trovano più lontani, quelli che non sono nostri parenti, che non sono nostri vicini, che non sono dei nostri. È più comodo, più rassicurante: evita vari problemi ed evita soprattutto lo sforzo di dover pensare."
https://www.internazionale.it/opinione/martin-caparros/2017/09/29/referendum-catalogna-patria

domenica 1 ottobre 2017




CATALOGNA
di Franco Cazzaniga
Il principio della "volontà dei popoli" ha senso laddove una popolazione è stata oppressa o sfruttata da una potenza coloniale o da un invasore che ne ha conculcato i diritti. Ha senso in Kurdistan, ma non ha già più senso in India, e ne ha ancor meno in Europa. 
Siamo cittadini e individui, non membra di qualche corpo, ed è come cittadini e individui che godiamo dei nostri diritti.
Nei paesi democratici e liberali quelli che contano sono i diritti individuali, che non dipendono da luogo di residenza. Una Catalogna indipendente significa meno diritti in Catalogna per il residente di Madrid. Che quindi ha anche lui il diritto di dire la sua. 
Le uniche secessioni ammissibili sono quelle consensuali, come avvenne in Cecoslovacchia. E questo sul piano etico e dei diritti.
C'è anche il piano legale: la Costituzione spagnola non prevede la secessione (Costituzione che fu votata a maggioranza schiacciante anche in Catalogna), quindi prima di parlare di secessione va cambiata.
Ma c'è ancora di più: siamo in un contenente che vorrebbe integrarsi, nel quale gli Stati-Nazione hanno sempre meno senso e ne creiamo un altro? E dopo la Catalogna quale ancora? Costruiremo nuovi muri per dare spazio a qualche politico assetato di potere? Roba da folli: togliere libertà agli individui per compiacere un assurdo senso di appartenenza.
Il separatismo è la malattia senile del nazionalismo.
Sto leggendo che la Catalogna andava fatta esprimere, che poi i bambini si agitano e con le botte non si risolve niente.
Vorrei continuare a scherzarci sopra e dirvi che pure io e tutti i miei vicini abbiamo deciso di staccarci dal Comune di Forlì, così i fondi europei saranno nostri, ma preferisco postare il commento del mio amico, il Prof Franco Cazzaniga.

"Quello che mi stupisce, e che mi lascia molto perplesso anche fra gli amici, è che il punto di vista della legalità formale interessi così poco e che la preminenza del diritto degli individui su quello dei gruppi sia così facilmente calpestata.
Il referendum è puramente e semplicemente un atto illegale, e la Catalogna, popolo o non popolo è solo una regione della Spagna, non una colonia (che cosa accadde nel 1700 è irrilevante, quello che  è accaduto dopo la caduta del franchismo, invece, lo è), Senza contare il fatto che in un paese laico e liberale la "nazionalità", come la religione, non è un fattore di distinzione.
L'autonomia si discute all'interno del quadro istituzionale, non fuori: le costituzioni servono proprio a questo, non per essere usate e dismesse secondo l'opportunità politica.
Poi il separatismo può anche essere combattuto con argomenti altrettanto demagogici, minacce e promesse. Ma, a parte il fatto che per questa via i fossati si scavano e non si colmano, a noi che siamo spettatori, che cosa importa?

A me sembra molto più importante guardare la cosa con un po' più di distacco, ricordando che il "diritto alla secessione" tale non è. I diritti in un paese democratico li stabilisce la costituzione, non il "popolo sovrano", che è solo una figura retorica".


IL SIPARIO

Milan Kundera
Adelphi 2004

https://2000battute.wordpress.com/2012/10/03/il-sipario-milan-kundera/
"Tecnicamente questo è un saggio sull’arte del romanzo e una storia dell’arte del romanzo, ma è anche scritto da Milan Kundera, non un semplice saggio; sono pochissimi quelli che ancora sanno scrivere come lui e soprattutto quelli che ancora oggi, nel 2012, rimangono dei grandi scrittori del Novecento, con quelle radici Ottocentesche che profumano di arte in un mondo che inizia a correre verso un destino tumultuoso; radici però attraversate dalle cicatrici spesse del Novecento, grossi vermi carnosi che strisciano sotto l’epidermide di ogni ideale e quando escono alla luce stendono un velo di bava traslucida davanti allo sguardo.
L’uomo del Novecento ha memoria, è memoria; ricorda e crea impastando ricordi e immagini e riflessioni. L’uomo del Novecento è un uomo vecchio e un uomo libero.
La libertà di un giovane e la libertà di un vecchio, infatti, sono continenti che non si incontrano.

«Da giovane, sei forte in compagnia, da vecchio, in solitudine» diceva Goethe (il vecchio Goethe) in un epigramma.

e ancora
È così che vede il mondo un uomo adulto che ha alle spalle una grande esperienza della «natura umana» (che guarda la vita con la sensazione di rivedere pellicole cinematografiche già viste) e che, da tempo, ha smesso di prendere sul serio la serietà degli uomini.
Questo è un libro bellissimo, per chiunque ami i romanzi e l’arte del romanzo, per chiunque abbia amato quegli autori dei quali Kundera è figlio; quelli della grande tradizione mitteleuropea (definizione geopolitica che Kundera disdegna), Hermann Broch de I sonnambuli, Witold Gombrowicz di Ferdydurke e Robert Musil di Uomo senza qualità —sì lo so, ne ho appena parlato male commentando Tre donne, ma come ho scritto in quel commento, le Waterloo degli scrittori scivolano nell’oblio e solo i loro capolavori fanno la storia della letteratura—e da loro voglia risalire alle radici, Kafka, ancora prima Stifter, e poi ancora indietro verso la Francia, Flaubert, su in Russia dove scriveva Dostoevskij, ancora indietro lungo quelle radici lunghissime e frastagliate, verso Balzac e di nuovo su al Nord, a incontrare il grande vecchio Tolstoj e ancora indietro e indietro; l’arte del romanzo ha generato figli e discendenze, tutte partorite dalle parole dei predecessori e plasmati dal proprio tempo, ogni romanzo è figlio degli avi e del suo momento; Milan Kundera ripercorre questa linea di sangue che ha cambiato il volto degli uomini e del mondo scrivendo degli uomini e del mondo che hanno reso il romanzo quell’arte meravigliosa, fino ai primi, i capostipiti, i due dai quali tutti i romanzi discendono, quelli dalle cui penne prodigiose, poco meno di cinquecento anni fa, tutto è nato: François Rabelais col Gargantua e Pantagruel e Miguel de Cervantes colDon Chisciotte della Mancia.
Prima di loro il romanzo non esisteva. Prima c’erano solo le epopee e i versi.
Kundera ce la spiega così la grande differenza.

I personaggi romanzeschi non chiedono di essere ammirati per le loro virtù.

Chiedono di essere compresi, il che è completamente diverso. Gli eroi dell’epopea vincono o, se sono sconfitti, conservano sino all’ultimo respiro la loro grandezza. Don Chisciotte è sconfitto. E senza grandezza alcuna. Perché d’un tratto tutto è chiaro: la vita umana in quanto tale è una sconfitta. Di fronte all’ineluttabile sconfitta che chiamiamo vita non resta che cercare di comprenderla. In questo risiede la ragion d’essere dell’arte del romanzo.

Non si spaventi nessuno o si irrigidisca o qualche cosa d’altro se ho usato le parole “saggio” e “storia” per introdurre questo libro. Niente di più distante dal tomo aulico e barboso tipico degli studi letterari. Questo Il sipario è un racconto, avvincente e scritto in modo sublime: è il racconto della storia del Romanzo.
Il personaggio principale è lui, poi ci sono tutti gli altri, i grandi romanzieri, un po’ ve li ho citati, ma se ne incontrano ancora: Sterne, Joyce, Camus, Proust, passando perfino da Fellini, che anche se non c’entra coi romanzi c’entra con la libertà di espressione della propria arte, e pure Jaroslav Hašek con il suo unico grande libro Il buon soldato Sc’vèik.

Euripide non arrivava al punto di trovare comica la guerra di Troia. L’ha fatto un romanzo. Il soldato Švejk di Hašek aderisce così poco agli scopi della guerra che non li contesta neppure; non li conosce; non cerca di conoscerli. La guerra è spaventosa ma lui non la prende sul serio. Non si prende sul serio ciò che non ha senso. 
Milan Kundera racconta la storia dell’arte del romanzo rintracciando le svolte che ogni epoca o contesto ha impresso sul modo di scrivere in prosa, le invenzioni che hanno spalancato porte attraverso le quali la scrittura si è infilata con le generazioni successive, fino alla nuova porta e così via.
Per Kundera il romanzo non è un «genere letterario», “un ramo fra i rami di un albero.”

È impossibile capire il romanzo se gli si nega una sua specifica Musa, se non lo si considera un’arte sui generis, un’arte autonoma.
Kundera racconta e riflette in questo Il sipario, decora di luci l’arte del romanzo vista come una lunga e incessante marcia degli scrittori per andare «all’anima delle cose» attraverso le parole, via via aprendo nuovi squarci, svelando prospettive diverse, liberando la fantasia e rifiutando ogni canone interpretativo, il sipario della preinterpretazione, lo definisce lui.
Come con la storia del signor Engelbert, ambientata nel 1920 e scritta da Jaroslaw John, un romanziere cosiddetto minore, che è la condizione nella quale si trovano quasi tutti i romanzieri tranne pochissimi.
Nel suo romanzo, il signor Engelbert è ossessionato dal rumore dei «mostri a scoppio», quelle prime, poche automobili che avevano iniziato a circolare. È talmente ossessionato che inizia a fuggire, cerca scampo, sollievo in ogni dove, alla fine lo trova sui treni, cullato dallo sferragliare antico.
Con ciò il “modesto” Jaroslaw John ha strappato il sipario della preinterpretazione e ha svelato una verità. Anche un romanziere minore può essere un romanziere vero, come i grandi, perfino come Cervantes, come chi ha strappato sipari tanto vasti che neppure ci si rendeva conto della loro esistenza.

Bellobellissimo.
Ne possiamo dedurre una regola generale: la portata esistenziale di un fenomeno sociale si percepisce con la massima intensità non nel momento della sua espansione, ma quando è agli inizi, incomparabilmente più debole di quanto non sarà in futuro. Nietzche osserva che nel XVI secolo in nessun luogo al mondo la Chiesa era poco corrotta come in Germania, e che proprio per questo vi nacque la Riforma: infatti, solo «gli albori della corruzione erano sentiti come intollerabili». Paragonata a quella di oggi, la burocrazia dell’epoca di Kafka era un bambino innocente; eppure è stato Kafka a scoprirne la mostruosità, che da allora è diventata banale e non interessa più a nessuno. Durante gli anni Sessanta del XX secolo alcuni brillanti filosofi hanno sottoposto «la società dei consumi» a una critica che col trascorrere degli anni è stata superata dalla realtà in maniera così caricaturale che vi facciamo riferimento non senza un certo imbarazzo. Bisogna infatti ricordare un’altra regola generale: mentre la realtà si ripete senza alcuna vergogna, il pensiero, di fronte alla ripetizione della realtà, finisce sempre per tacere.


Nota: chi volesse un assaggio triplo-concentrato di quello che Kundera dice in questo libro può leggere (in inglese) il pezzo che scrisse per il New Yorker dell’8 gennaio 2007.