CHE GUEVARA
Di Emanuele GagliardI
Recensione. Pedro Corzo. Che Guevara, missionario di violenza, Spirali, Milano 2009, 340 pp., € 18,00.
Ernesto Guevara de la Serna (1928-1967), detto “Che” Gue- vara o semplicemente “El Che”: da oltre quarant’anni la sua faccia — basco sulle ventitré e sguardo oltre l’orizzonte —, si ritrova su poster, magliette, gadget, bottiglie di birra, sui tatuaggi esibiti da Diego Armando Maradona e da Mike Tyson. Da icona rivoluzionaria a logo pop, un po’ romantico, un po’ fricchettone, comunque un caso emblematico di marketing.
Per colmare l’abisso fra mito e realtà, si rivela quanto mai prezioso il volume di Pedro Corzo, tratto da un documentario dello stesso autore che è stato un successo televisivo negli Stati Uniti e che raccoglie oltre trenta testimonianze dirette di chi con “El Che” ha combattuto anco a anco. Ne emerge un uomo completamente differente dal mito che lo ha consacrato dopo la morte. San- guinario, pasionario della violenza, «un utile simbolo indesiderato», secondo la de nizione di Carlos Carralero, rifugiato politico cubano che dal 1995 vive in Italia, ove ha fonda- to L’Unione per le Libertà a Cuba. «Il nostro scopo — grazie alla editrice Spirali — è far scendere Castro dal suo infangato piedistallo prima che dica addio al mondo che ha tanto martirizzato», dichiara Carralero (pp. 7-8).
Anche Pedro Corzo Nato è un ex prigioniero politico, entrato a soli diciannove anni nelle galere di Fidel Castro Ruz. Negli anni 1960 ha diretto il giornale illegale Adelante. Uscito da Cuba, è rimasto circa dieci anni in Venezuela, collaborando a varie pubblicazioni nazionali ed estere. Poi si è trasferito negli Stati Uniti, dove ha fondato il tabloid El Observador latinoamericano. Col- labora a varie pagine web e ha scritto diversi libri, fra cui Cuba. Cronología de la Lucha contra el Totalitarismo (2003), Mártires del Escambray (2007) e La porfía de la razón (2008). Ha prodotto vari documentari sulla storia cubana, come Guevara, anatomía de un mito (2005). Dal 1997 è presidente dell’Instituto de la Memoria Histórica contra el Totalitarismo, fondato allo scopo di recuperare la storia della lotta di quella parte della popolazione cubana che, dal 1959, si batte contro la dittatura comunista.
Anche Pedro Corzo Nato è un ex prigioniero politico, entrato a soli diciannove anni nelle galere di Fidel Castro Ruz. Negli anni 1960 ha diretto il giornale illegale Adelante. Uscito da Cuba, è rimasto circa dieci anni in Venezuela, collaborando a varie pubblicazioni nazionali ed estere. Poi si è trasferito negli Stati Uniti, dove ha fondato il tabloid El Observador latinoamericano. Col- labora a varie pagine web e ha scritto diversi libri, fra cui Cuba. Cronología de la Lucha contra el Totalitarismo (2003), Mártires del Escambray (2007) e La porfía de la razón (2008). Ha prodotto vari documentari sulla storia cubana, come Guevara, anatomía de un mito (2005). Dal 1997 è presidente dell’Instituto de la Memoria Histórica contra el Totalitarismo, fondato allo scopo di recuperare la storia della lotta di quella parte della popolazione cubana che, dal 1959, si batte contro la dittatura comunista.
I personaggi intervistati sono i più vari. Inizia Enrique Ros, autore di Ernesto Che Guevara: mito e realtà (2002), considerata l’inchiesta più completa sul guerrigliero argentino. «Guevara in gioventù [...] era un tipo indifferente, un bohémien, un avventuriero che non si interessava dei problemi del suo paese o dell’America Latina» (p. 19), racconta Ros. «Era un individuo insensibile di fronte al dolore altrui, [...] non aveva scrupoli ad ordinare l’assassinio di qualcuno quando questa morte poteva favorire i suoi progetti. Lo dimostrò nei mesi in cui fu al comando della fortezza della Cabaña [all’Avana]» (pp. 34-34).
«[...] era un fanatico politico», che riferiva tutto a Fidel Castro, aggiunge Lázaro Guerra, militante nei movimenti rivoluzionari cubani. «Sono stato testimone di un caso [...]. Stavamo prendendo un caffè in un locale di Città del Messico [...]. C’era una donna con in braccio un bambino che ci si avvicinò per chiedere l’ele- mosina. Io, com’ è logico, tirai fuori qualche moneta...», Guevara, invece, inveì: «“Che vada a farsi fottere, perché c... mette al mondo dei gli?”. Quell’espressione mi diede un’idea della personalità del Che, un perso- naggio al quale hanno messo l’aureola di uomo buono e solidale», mentre «[...] era una perfetta canaglia, un criminale» (pp. 73-74).
Jaime Costa è stato comandante dell’Ejército Rebelde e membro fon- datore del Movimiento 26 de Julio: «una volta catturammo un guajiro [...], un contadino che secondo le informazioni faceva il delatore per l’esercito di Batista [...]. Di solito mettevamo le persone che ci ispirava- no dubbi [...] circa il fatto che potes- sero collaborare con il nemico, in una grotta, a cui avevamo messo il nome di Puerto Malanga. [...]. Se poi ap- puravamo che erano davvero spie, gli facevamo un processo senza nessun riguardo e li fucilavamo. Quella volta, però, quell’uomo non venne mandato a Puerto Malanga [...]. Quelli che lo interrogarono giunsero alla conclu- sione che non c’era certezza che quel tipo fosse davvero un delatore [...]. In genere gli spioni, i delatori, nivano per confessare il proprio crimine e per giusti carsi e cercare il perdono, s’inventavano qualsiasi pretesto [...]. Questo invece non aveva ammesso as- solutamente nulla [...]. Fatto sta che nel bel mezzo della discussione [...] il Che tirò fuori il revolver e gli sparò un colpo in testa» (pp. 85-86).
Jaime Costa è stato comandante dell’Ejército Rebelde e membro fon- datore del Movimiento 26 de Julio: «una volta catturammo un guajiro [...], un contadino che secondo le informazioni faceva il delatore per l’esercito di Batista [...]. Di solito mettevamo le persone che ci ispirava- no dubbi [...] circa il fatto che potes- sero collaborare con il nemico, in una grotta, a cui avevamo messo il nome di Puerto Malanga. [...]. Se poi ap- puravamo che erano davvero spie, gli facevamo un processo senza nessun riguardo e li fucilavamo. Quella volta, però, quell’uomo non venne mandato a Puerto Malanga [...]. Quelli che lo interrogarono giunsero alla conclu- sione che non c’era certezza che quel tipo fosse davvero un delatore [...]. In genere gli spioni, i delatori, nivano per confessare il proprio crimine e per giusti carsi e cercare il perdono, s’inventavano qualsiasi pretesto [...]. Questo invece non aveva ammesso as- solutamente nulla [...]. Fatto sta che nel bel mezzo della discussione [...] il Che tirò fuori il revolver e gli sparò un colpo in testa» (pp. 85-86).
«Aveva una superbia incontrollabile — attesta Augustín Alles Soberón, corrispondente della rivista Bohemia, che trascorse due mesi nella Sierra Maestra —, anche se a volte cercava di compiacere i cubani, e quando po- teva controllava la volgarità e l’atteg- giamento dispotico che erano i suoi tratti abituali». «Nella fortezza della Cabaña, Ernesto Guevara si fece cono- scere per quello che era [...] un uomo crudele e spietato e, se vogliamo, anche uno psicopatico» (p. 117). Sulle pro- ditorie fucilazioni ordinate dal Che nella fortezza della capitale cubana riferisce anche l’avvocato Napoleón Villaboa, pure lui membro del Movimiento 26 de Julio. Nel 1959 entra nelle Fuerzas Armadas Revolucionarias e viene inviato alla Cabaña in un organismo denominato Comisión Depuradora, «un organismo creato da Fidel Castro con il pretesto di ripulire le Forze armate di Cuba, anche se, in realtà, la commissione aveva l’unico scopo di instaurare il terrore rivoluzionario nell’isola per mezzo delle fucilazioni» (p. 170). Le pene capitali venivano comminate dopo processi-farsa. Infatti, «prima del processo si sapeva già quali condanne sarebbero state pronunciate. Guevara segnava personalmente, con una matita o con una penna, le persone che sarebbero state fucilate. In questo compito era assistito in molte occasioni da membri del Partito comunista» (p. 171).
Il racconto conclusivo di Félix Ismael Rodríguez, ex ufficiale della Cia (Central Intelligence Agency), è elemento essenziale del volume: Rodríguez è l’ultimo cubano a vedere il Che vivo e descrive con puntualità le manovre per la cattura e gli ultimi istanti di vita del guerrillero. Sfata anche il mito di Guevara abile stratega: infatti in Bolivia «non scelse l’area giusta, poi comandò una guerrilla priva di comunicazioni, inoltre l’armamento era pessimo per la zona. [...] era come mandarli tutti alla morte» (p. 315). Castro lo aveva piantato, e il suo destino era perciò segnato: «La notte [...] del 7 ottobre [1967] la Quebrada del Yuro fu circondata con duecento uomini e il mattino successi- vo, cioè l’8 ottobre, incominciò l’avan- zata e iniziò lo scontro con la guerrilla del Che. In questa battaglia la maggior parte dei guerrilleros morirono, il Che cadde prigioniero insieme con Simón Cubas, conosciuto con il nome di Wil- lie, che stava aiutandolo a scappare» (pp. 318-319). Il 9 ottobre «verso le dodici e trenta, ora della Bolivia, arrivò un’insegnante di scuola con una radiolina in mano [...]. La maestra mi chiese: “Mio capitano, mio capitano, quando lo ammazzate?”. Ribattei: “Si- gnora, perché dice questo?”, e lei mi rispose: “È che abbiamo visto che si è fatto fotografare là fuori con lui e senta”, aggiunse indicando la radiolina, “la radio sta già dicendo che è morto per le ferite in battaglia”. Quando mi disse questo non mi rimase più alcun dubbio su quel che sarebbe successo. Gli ordini erano già stati dati dall’alto comando boliviano» (pp. 324-325).
Che Guevara missionario di violenza è uno strumento unico per la lotta alla disinformazione, di cui le sinistre sono maestre, e per comprendere che Fidel Castro ed Ernesto Guevara sono falsi miti. Il primo si è servito del secondo in quando gli è stato utile, poi lo ha abbandonato, dopo gli errori compiuti da ministro dell’Industria e da presidente del Banco Nacional e dopo le disfatte guerrigliere in Congo e in Bolivia. Guevara, inviso tanto a Washington quanto a Mosca per le sue tendenze filo-cinesi, continuò a fucilare cubani innocenti, sulla Sierra Maestra e nella prigione della Cabaña, e a mandare al macello centinaia di boliviani e congolesi nel nome di Castro, fino al giorno in cui viene catturato e giustiziato. Il 15 ottobre il tiranno cubano proclama tre giorni di lutto nazionale dando il via, con un’acuta strategia di mercato, alla creazione del mito che si rivelerà quanto mai redditizio, ancorché costruito sulla menzogna.
Che Guevara missionario di violenza è uno strumento unico per la lotta alla disinformazione, di cui le sinistre sono maestre, e per comprendere che Fidel Castro ed Ernesto Guevara sono falsi miti. Il primo si è servito del secondo in quando gli è stato utile, poi lo ha abbandonato, dopo gli errori compiuti da ministro dell’Industria e da presidente del Banco Nacional e dopo le disfatte guerrigliere in Congo e in Bolivia. Guevara, inviso tanto a Washington quanto a Mosca per le sue tendenze filo-cinesi, continuò a fucilare cubani innocenti, sulla Sierra Maestra e nella prigione della Cabaña, e a mandare al macello centinaia di boliviani e congolesi nel nome di Castro, fino al giorno in cui viene catturato e giustiziato. Il 15 ottobre il tiranno cubano proclama tre giorni di lutto nazionale dando il via, con un’acuta strategia di mercato, alla creazione del mito che si rivelerà quanto mai redditizio, ancorché costruito sulla menzogna.
Emanuele Gagliardi
Paolo Bo