giovedì 24 aprile 2025

JORGE MARIO BERGOGLIO. UNA BIOGRAFIA INTELLETTUALE. DIALETTICA E MISTICA (Jacabook 2017) Massimo Borghesi

  


JORGE MARIO BERGOGLIO. UNA BIOGRAFIA INTELLETTUALE.  DIALETTICA E MISTICA 

 (Jacabook 2017)

Massimo Borghesi

La “semplicità” con cui si presenta papa Francesco è un punto d’arrivo che presuppone la complessità di un pensiero profondo e originale. Il filosofo Massimo Borghesi lo ricostruisce nelle sue radici, illuminando una personalità nella quale si coniugano esperienza pastorale, esperienza mistica e intellettuale.

Nel vasto panorama dei libri pubblicati su papa Francesco, uno in particolare si distingue per l’originalità dell’aspetto trattato: la genesi e lo sviluppo del suo pensiero. Il volume si intitola Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale. Dialettica e mistica (Jacabook 2017) e ne è autore Massimo Boghesi, ordinario di Filosofia morale all’Università di Perugia, che il 29 maggio 2018 sarà a Padova, alla Facoltà teologica del Triveneto, per dialogare con il teologo Roberto Repole sul tema Jorge Mario Bergoglio – Papa Francesco: la formazione, il pensiero, l’opera. Biografia intellettuale e sogno di una chiesa evangelica (vai alla notizia) – (leggi l’intervista al prof. Roberto Repole).

Lo abbiamo intervistato e ci ha spiegato come la simplicitas (“semplicità”) con cui si presenta papa Bergoglio sia un punto d’arrivo che presuppone la complessità di un pensiero profondo e originale, in una personalità nella quale si coniugano esperienza pastorale, esperienza mistica e intellettuale.

Professor Borghesi, c’è un pregiudizio, specie in ambiente ecclesiale e accademico, che grava sull’immagine di Bergoglio: che il suo pensiero sia troppo “semplice”, troppo poco fondato su un impianto teologico-filosofico.

Si tratta di un pregiudizio particolarmente forte tra i detrattori del papa, che si è trovato sulle spalle la difficile eredità di Benedetto XVI, uno dei grandi teologi del ‘900. Venendo dopo un pontificato fortemente marcato sul piano intellettuale lo stile pastorale di Bergoglio è apparso a molti come troppo “semplice”, non adeguato alle grandi sfide del mondo metropolitano, secolarizzato. Al papa venuto dall’altro capo del mondo si rimprovera, in Europa e negli Stati Uniti, di non essere “occidentale”, europeo, culturalmente preparato.


C’è, invece, un pensiero originale dal punto di vista teologico-filosofico? E qual è? 

Personalmente, prima di scrivere la mia “Biografia intellettuale” di Bergoglio, avevo letto alcuni testi di lui che mi avevano molto colpito. Tra questi alcuni discorsi della seconda metà degli anni ’70, allorché era giovane Provinciale dei gesuiti argentini. Ne avevo tratto una forte impressione. Ciò che mi aveva colpito era il “pensiero” che sorreggeva le sue argomentazioni. Bergoglio si rivolgeva ai suoi confratelli che soffrivano la dilacerazione di una situazione drammatica. L’Argentina di allora era retta dalla giunta militare che gestiva, con mani lorde di sangue, la repressione del fronte rivoluzionario dei Montoneros. Di fronte a questo conflitto la chiesa era profondamente divisa tra fautori del governo e quelli schierati con la rivoluzione. Per Bergoglio questa dilacerazione della società era uno scacco anche per la chiesa, che si era dimostrata incapace di unire il popolo.


Nell’Argentina degli anni Settanta Bergoglio aveva un ideale?

Il suo ideale era quello del cattolicesimo come coincidentia oppositorum, come superamento di quelle opposizioni che, radicalizzate, si trasformano in insanabili contraddizioni. Questo ideale era espresso da Bergoglio attraverso una sua filosofia, una concezione per la quale la legge che governa l’unità della chiesa, così come quella sociale e politica, è una legge basata su una dialettica “polare”, su un pensiero “agonico” che tiene uniti gli opposti senza cancellarli e ridurli forzatamente all’Uno. Molteplicità e unità costituivano i due poli di una tensione ineliminabile. Una tensione la cui soluzione era affidata, di volta in volta, alla potenza del Mistero divino che agisce nella storia. Questa prospettiva, che emergeva tra le righe dei discorsi del giovane Bergoglio, mi ha colpito molto. Associata alle coppie polari che il papa richiamava nella Evangelii gaudium delineava una vera e propria “filosofia”, un pensiero originale. Avendo studiato a lungo la dialettica di Hegel e, soprattutto, la concezione della polarità in Romano Guardini questa prospettiva mi ha interessato da subito. Era evidente che Bergoglio aveva una concezione originale, un punto di vista teologico-filosofico che, singolarmente, non ha attirato l’attenzione degli studiosi.


Questa originale “filosofia” della dialettica polare che governa l’unità della chiesa, dove affonda le sue radici?

La scoperta delle “radici” del pensiero di Bergoglio è, certamente, il dato più interessante della mia ricerca. Interessante anche per me. Dopo la lettura dei suoi testi mi rimaneva, infatti, l’interrogativo sulla genesi della sua dialettica polare. Si trattava di una lettura originalissima della realtà che trovava analogie con il tomismo ilemorfico e dialettico di Alberto Methol Ferré, il più grande intellettuale cattolico latinoamericano della seconda metà del ‘900. Methol Ferrè non era, però all’inizio del pensiero di Bergoglio. I due intrecciano le loro strade solo alla fine degli anni ’70, in occasione della preparazione del grande Convegno di Puebla della Chiesa latinoamericana.


Da dove, allora, trae la sua idea della tensione polare come legge dell’Essere?

Su questo punto, nodale, gli articoli e i volumi non offrivano alcuna traccia. È come se Bergoglio avesse voluto conservare il segreto sulla fonte del suo pensare. È qui che le risposte che il Papa mi ha inviato, attraverso dei file audio, si sono rivelate fondamentali. Da esse ho potuto comprendere come l’inizio del suo pensiero sia da collocare negli anni di studentato, presso il Colegio San Miguel, allorché Bergoglio riflette sulla teologia di sant’Ignazio attraverso il modello della “Teologia del come se”, e, soprattutto, attraverso la lettura, determinante, del primo volume de La dialectique des “Exercices spirituels” de saint Ignace de Loyola di Gaston Fessard. La lettura “tensionante”, dialettica, che Fessard dava di sant’Ignazio è all’origine del pensiero di Bergoglio. Per me è stata una vera scoperta. Gaston Fessard, gesuita, è tra i più geniali intellettuali francesi del ‘900.

Oltre a Gaston Fessard, quali autori hanno contribuito alla formazione del pensiero di Bergoglio?

C’è poi Henri de Lubac con la sua concezione del rapporto tra chiesa e società espressa in Catholicisme. Les aspects sociaux du dogme. Fessard e de Lubac sono protagonisti della “Scuola di Lione”. Seguendo loro Bergoglio è, in qualche modo, un discepolo di questa scuola. Entrambi, Fessard e de Lubac, sono fautori di una concezione dialettica, ereditata da Adam Möhler, il grande iniziatore della Scuola di Tubinga, per la quale la chiesa è coincidentia oppositorum, unità soprannaturale di ciò che sul piano del mondo rimane inconciliabile. È la stessa concezione di Bergoglio. Oltre ai due autori gesuiti ora ricordati ve n’è poi un terzo, anche lui francese, che ha esercitato una sua influenza su Bergoglio: Michel de Certeau. Anche lui protagonista della scena intellettuale, particolarmente negli anni ’70. Il de Certeau che interessa Bergoglio è, però, quello degli anni ’60, lo studioso della mistica moderna, da Surin a Favre. La sua prefazione al Memorial di Pierre Favre, il grande amico di sant’Ignazio, è un testo chiave nella formazione di Bergoglio. Il suo ideale gesuitico della vita cristiana, del contemplativo in azione, guarda a Pierre Favre.


Che ruolo ha avuto Romano Guardini, di cui ricorre quest’anno il 50mo anniversario della morte? 

Un ruolo chiave, certamente, nonostante i detrattori di Francesco abbiano tentato, in molti modi, di sminuirne l’importanza. Guardini autore di riferimento per Joseph Ratzinger non può esserlo – così ragionano – per Bergoglio. In realtà sappiamo che nel 1986 Bergoglio si reca a Francoforte, in Germania per una tesi di dottorato su Guardini. Come argomento sceglie non opere teologiche o di carattere religioso bensì l’unico lavoro integralmente filosofico guardiniano: L’opposizione polare. Tentativi per una filosofia del concreto vivente.


Si tratta di una decisione singolare… Perché occuparsi del Guardini filosofo e non di quello teologico? 

La risposta diviene comprensibile alla luce del mio studio. L’antropologia “polare” di Guardini appare a Bergoglio come una conferma della sua visione dialettica, antinomica, compresa attraverso Fessard e de Lubac. L’autorità di Guardini conferisce un valore particolare al modello di pensiero che Bergoglio applica in sede ecclesiale e in quella politico-sociale. Al tempo stesso il modello guardiniano amplia quello bergogliano, consente inediti approfondimenti. Guardini diviene, dagli anni ’90, un autore di riferimento. Lo troviamo più volte citato nella Evangelii gaudium e in Laudato si’.


Come si muove papa Francesco tra l’aderenza alla grande tradizione della chiesa, da un lato, e, dall’altro, l’attenzione alle istanze del pensiero contemporaneo?

Il papa è assolutamente aderente alla tradizione della chiesa al punto che, in Argentina, il fronte progressista accusava il cardinal Bergoglio di essere un “conservatore”. Lo documenta bene Austen Ivereigh nella sua bella biografia Tempo di misericordia. Vita di Jorge Mario Bergoglio, edita da Mondadori. In realtà Bergoglio non è certamente un conservatore sul piano sociale. Sul piano ecclesiale, poi, è un deciso fautore del Concilio Vaticano II e questo senza indulgere ad alcun modernismo. Il suo papa di riferimento è Paolo VI. L’incontro di Bergoglio con la cultura contemporanea è un incontro all’insegna del Concilio e dei suoi autori di riferimento che abbiamo prima ricordato. In questo campo una originale lettura del rapporto tra cattolicesimo e modernità è offerto da Alberto Methol Ferré. Ammiratore di Maritain e di Gilson, Methol riuniva attorno alle sue riviste “Vispera” e “Nexo” il meglio dell’intellighenzia cattolica dell’America Latina. Bergoglio era suo amico e assiduo lettore delle sue riviste.


“Dialettica e mistica” – parole che fanno parte del titolo del suo volume – in che modo caratterizzano il pensiero e l’opera di Bergoglio?

Bergoglio rappresenta, nella sua apparente semplicità, una figura complessa. È, nella sua personalità, una complexio oppositorum. Quest’uomo, che viene criticato da pontefice per essere troppo preoccupato per le sorti del mondo, è un “mistico”. Il fondo del suo pensiero e del suo animo si nutre degli Esercizi di sant’Ignazio, del filone mistico della Compagnia di Gesù, quello che unisce contemplazione e azione. Come scrive Antonio Spadaro: «La chiave del suo pensiero e della sua azione va cercata e trovata proprio nella tradizione spirituale ignaziana. L’esperienza latinoamericana prende corpo dentro questa spiritualità e va letta alla sua luce per non correre il rischio di interpretare Francesco cadendo in triti stereotipi. Il suo stesso ministero episcopale, il suo stile di agire e pensare sono plasmati dalla visio ignaziana, dalla tensione antinomica a essere sempre e comunque in actione contemplativus». Pierre Favre, il compagno di Ignazio, instancabile viaggiatore nell’Europa divisa dalle guerre di religione, il dolce e mite annunciatore del Vangelo e della pace di Cristo, è il suo modello.


Che cos’è un pensiero “mistico”?

Un pensiero “mistico” è un pensiero aperto, che non chiude gli spiragli. Come ha dichiarato Francesco: «L’aura mistica non definisce mai i bordi, non completa il pensiero. Il gesuita deve essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto». Per questo la dialettica antinomica di Bergoglio è, diversamente da quella di Hegel, una dialettica “aperta”. Perché le sue sintesi sono sempre provvisorie, devono ogni volta essere sostenute e ricostruite, e perché la riconciliazione è opera di Dio, non primariamente dell’uomo. Ciò spiega la sua critica a una Chiesa “autoreferenziale”, chiusa nella propria “immanenza”, segnata dalla doppia tentazione del pelagianesimo e dello gnosticismo. Il cristiano è “de-centrato”, il punto di equilibrio tra gli opposti è fuori di lui.


Qual è la logica ecclesiale che presiede al pontificato di Francesco, tra l’attenzione ai problemi sociali, al clima, all’ambiente e la scelta preferenziale per i poveri, la misericordia e la verità…?

La complexio oppositorum, di cui parlavo prima, spiega l’azione e la prospettiva che guidano il pontificato. Contemplazione e azione, evangelizzazione e promozione umana, primato del kerygma e opzione preferenziale per i poveri, verità e misericordia, sono i poli di un orientamento antinomico, “cattolico”, che rifiuta di disgiungere i poli di una tensione che deve rimanere nell’unità. È la lezione di sant’Ignazio, filtrata attraverso la lettura degli “Esercizi spirituali” offerta da Fessard e da Crumbach. La vita del cristiano si muove nella tensione tra grazia e libertà, tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Bergoglio, al seguito di Paolo VI, è il papa della Evangelii nuntiandi e della Populorum progressio. La Evangelii gaudium riunisce, in una sintesi, questi due poli di vita ecclesiale.



martedì 22 aprile 2025

ELOGIO DELL'OZIO Bertrand Russell



 ELOGIO DELL'OZIO

Bertrand Russell

CAPITOLO I

ELOGIO DELL’OZIO


COME molti uomini della mia generazione, fui allevato secondo i precetti del proverbio che dice « l’ozio è il padre di tutti i vizi ». Poiché ero un ragazzino assai virtuoso, credevo a tutto ciò che mi dicevano e fu così che la mia coscienza prese l’abitudine di costringermi a lavorare sodo fino ad oggi. Ma sebbene la mia coscienza abbia controllato le mie azioni, le mie opinioni subirono un processo rivoluzionario. Io penso che in questo mondo si lavori troppo, e che mali incalcolabili siano derivati dalla convinzione che il lavoro sia cosa santa e virtuosa; insomma, nei moderni paesi industriali bisogna predicare in modo ben diverso da come si è predicato sinora. Tutti conoscono la storiella di quel turista che a Napoli vide dodici mendicanti sdraiati al sole (ciò accadeva prima che Mussolini andasse al potere) e disse che avrebbe dato una lira al più pigro di loro. Undici balzarono in piedi vantando la loro pigrizia a gran voce, e naturalmente il turista diede la lira al dodicesimo, giacché era un uomo che sapeva il fatto suo. Nei paesi che non godono del clima mediterraneo, tuttavia, oziare è una cosa molto più difficile e bisognerebbe iniziare a tale scopo una vasta campagna di propaganda. Spero che, dopo aver letto queste pagine, l’YMCA si proponga di insegnare ai giovanotti a non fare nulla. Se ciò accadesse davvero, non sarei vissuto invano.


Prima di esporre i miei argomenti in favore dell’ozio, vorrei eliminarne uno che non mi sento di accettare. Quando una persona ha mezzi sufficienti per vivere e tuttavia pensa di assumere un impiego qualsiasi (di insegnante o di segretario, ad esempio), si usa dire che tale persona toglie il pane di bocca agli altri e compie perciò un’azione malvagia. Se tale argomento fosse valido, basterebbe che tutti stessero in ozio perché ogni stomaco fosse pieno di pane. La gente che parla così dimentica che di solito gli uomini spendono quel che guadagnano, e spendendo danno lavoro agli altri, cioè mettono nelle loro bocche, spendendo, tanto pane quanto gliene tolgono guadagnando. Il vero malvagio, da questo punto di vista, è il risparmiatore. Chi mette i propri risparmi nella calza nega al prossimo possibilità di guadagno. Se invece li investe, la faccenda diventa meno ovvia e il discorso cambia.


Uno dei metodi più diffusi per investire i risparmi consiste nel darli in prestito a qualche governo. Considerando il fatto che la maggior parte dei governi civili spende un’altissima percentuale del denaro pubblico per pagare i debiti delle guerre passate e preparare le guerre future, chi presta quattrini allo Stato si trova press’a poco nella posizione di quell’infame personaggio di Shakespeare che prezzolava assassini. Insomma le abitudini economiche dell’uomo moderno hanno un solo risultato pratico, quello di aumentare il potenziale bellico dello Stato al quale egli presta i suoi risparmi. Ovviamente sarebbe meglio che li spendesse, sia pure ubriacandosi o giocando d’azzardo.


Mi si obietterà che la cosa è ben diversa quando i risparmi vengono investiti nell’industria. Se l’industria va a gonfie vele e produce qualcosa di utile, tutto bene. Ma di questi giorni molte industrie falliscono. Ciò significa che buona parte della fatica umana, che avrebbe potuto produrre qualcosa di piacevole, è stata sprecata per produrre macchine inoperose che non servono a nessuno. L’uomo che vede sparire i suoi risparmi in una bancarotta ha danneggiato gli altri oltreché se stesso. Se avesse speso i propri quattrini, supponiamo, nell’offrire splendide feste ai suoi amici, avrebbe fatto un gran piacere non soltanto a costoro, ma anche al macellaio, al pasticcere e al fornitore di liquori. Invece (è ancora una supposizione) li ha investiti in una impresa destinata a stendere una rete di rotaie in una cittadina che non ha bisogno di tram, e ha così contribuito a deviare una certa quantità di lavoro in un canale che non giova a nessuno. Ciò nonostante, quando sarà in miseria per colpa di quel pessimo investimento, tutti lo considereranno vittima di una sventura immeritata, mentre l’allegro prodigo, che ha speso filantropicamente il suo denaro, sarà disprezzato come un incosciente e uno scervellato.


Ma questa è soltanto una premessa. Io voglio dire, in tutta serietà, che la fede nella virtù del lavoro provoca grandi mali nel mondo moderno, e che la strada per la felicità e la prosperità si trova invece in una diminuzione del lavoro.


Prima di tutto, che cos’è il lavoro? Vi sono due specie di lavoro: la prima consiste nell’alterare la posizione di una cosa su o presso la superficie della terra, relativamente a un’altra cosa; la seconda consiste nel dire ad altri di farlo. La prima specie di lavoro è sgradevole e mal retribuita; la seconda è gradevole e ben retribuita, ed anche suscettibile di infinite variazioni. Per esempio, non soltanto vi sono persone che danno ordini, ma anche persone che danno consigli circa gli ordini che bisogna dare. Di solito due gruppi organizzati di uomini danno simultaneamente due tipi di consigli opposti: ciò si chiama politica. Questo genere di lavoro richiede un talento particolare che non poggia sulla profonda conoscenza degli argomenti sui quali bisogna esprimere un parere, ma sulla profonda conoscenza dell’arte di persuadere gli altri con la parola o con gli scritti, cioè la pubblicità.


In tutta Europa, seppur non in America, vi è una terza classe di persone, molto più rispettate dei lavoratori delle due categorie. Costoro sono i proprietari terrieri, i quali riescono a far pagare ad altri il privilegio di esistere e di lavorare. I proprietari terrieri sono oziosi, e ci si potrebbe perciò aspettare che io ne tessa gli elogi. Purtroppo il loro ozio è reso possibile soltanto dal lavoro degli altri; dirò di più: il loro smodato desiderio di godersi i propri comodi è l’origine storica del vangelo del lavoro. L’ultima cosa al mondo che essi si augurino è di vedere imitato il loro esempio.


Dall’inizio della civiltà fino alla rivoluzione industriale, un uomo poteva, di regola, produrre con molto lavoro un po’ più di quanto fosse necessario al mero sostentamento di se stesso e della sua famiglia, sebbene sua moglie lavorasse almeno quanto lui e i suoi figli cominciassero a lavorare appena l’età glielo consentiva. Questo esiguo margine non rimaneva però a chi lo produceva, ma veniva incamerato dai guerrieri e dai preti. In tempi di carestia non era possibile produrre più del minimo indispensabile, ma guerrieri e preti pretendevano la loro parte come sempre, col risultato che molti lavoratori morivano di fame. Questo sistema restò in vigore in Russia fino al 1917,1 e sussiste ancora in Asia; in Inghilterra, nonostante la rivoluzione industriale, fiorì anche nel periodo delle guerre napoleoniche e fino a cento anni fa, quando una nuova classe di manufatturieri andò al potere. In America si estinse con la rivoluzione, fuorché negli Stati del Sud, dove perdurò fino alla guerra civile. Naturalmente un sistema praticato per tanti secoli ha lasciato una profonda impronta sui pensieri e sulle opinioni degli uomini. Molte idee che noi accettiamo ad occhi chiusi a proposito delle virtù del lavoro derivano appunto da tale sistema e non si adattano più al mondo moderno perché la loro origine è preindustriale. La tecnica moderna consente che il tempo libero, entro certi limiti, non sia una prerogativa di piccole classi privilegiate, ma possa essere equamente distribuito tra tutti i membri di una comunità. L’etica del lavoro è l’etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi.


È ovvio che, nelle comunità primitive, i contadini lasciati liberi non si sarebbero privati dei prodotti in eccedenza a favore dei preti e dei guerrieri, ma avrebbero prodotto di meno o consumato di più. Dapprima fu necessaria la forza bruta per costringerli a cedere. Ma poi, a poco a poco, si scoprì che era possibile indurli ad accettare un principio etico secondo il quale era loro dovere lavorare indefessamente, sebbene una parte di questo lavoro fosse destinata al sostentamento degli oziosi. Con questo espediente lo sforzo di costrizione prima necessario si allentò e le spese del governo diminuirono. Ancor oggi, il novantanove per cento dei salariati britannici sarebbero sinceramente scandalizzati se gli si dicesse che il re non dovrebbe aver diritto a entrate più cospicue di quelle di un comune lavoratore. Il concetto del dovere, storicamente parlando, è stato un mezzo escogitato dagli uomini al potere per indurre altri uomini a vivere per l’interesse dei loro padroni anziché per il proprio. Naturalmente gli uomini al potere riescono a nascondere anche a se stessi questo fatto, convincendosi che i loro interessi coincidono con gli interessi dell’umanità in senso lato. A volte ciò è verissimo; i proprietari di schiavi ateniesi, ad esempio, impiegarono parte del loro tempo libero in modo da apportare un contributo di capitale importanza alla civiltà, contributo che non sarebbe stato possibile sotto un sistema puramente economico. L’ozio è essenziale per la civiltà e nei tempi antichi l’ozio di pochi poteva essere garantito soltanto dalle fatiche di molti. Tali fatiche avevano però un valore non perché il lavoro sia un bene, ma al contrario perché l’ozio è un bene. La tecnica moderna ci consente di distribuire il tempo destinato all’ozio in modo equo, senza danno per la civiltà.


La tecnica moderna infatti ha reso possibile di diminuire in misura enorme la quantità di fatica necessaria per assicurare a ciascuno i mezzi di sostentamento. Ciò fu dimostrato in modo chiarissimo durante la guerra. A quell’epoca tutti gli uomini arruolati nelle forze armate, tutti gli uomini e le donne impiegati nelle fabbriche di munizioni, tutti gli uomini e le donne impegnati nello spionaggio, negli uffici di propaganda bellica o negli uffici governativi che si occupavano della guerra, furono distolti dal loro lavoro produttivo abituale. Ciò nonostante, il livello generale del benessere materiale tra i salariati, almeno dalla parte degli alleati, fu più alto che in qualsiasi altro periodo. Il vero significato di questo fenomeno fu mascherato dalle operazioni finanziarie: si fece credere infatti che, mediante prestiti, il futuro alimentasse il presente. Il che, naturalmente, non era possibile; un uomo non può mangiare una fetta di pane che ancora non esiste. La guerra dimostrò in modo incontrovertibile che, grazie all’organizzazione scientifica della produzione, è possibile assicurare alla popolazione del mondo moderno un discreto tenore di vita sfruttando soltanto una piccola parte delle capacità di lavoro generali. Se al termine del conflitto questa organizzazione scientifica, creata per consentire agli uomini di combattere e produrre munizioni, avesse continuato a funzionare riducendo a quattro ore la giornata lavorativa, tutto sarebbe andato per il meglio. Invece fu instaurato di nuovo il vecchio caos: coloro che hanno un lavoro lavorano troppo, mentre altri muoiono di fame senza salario. Perché? Perché il lavoro è un dovere e un uomo non deve ricevere un salario in proporzione di ciò che produce, ma in proporzione della sua virtù che si esplica nello zelo.


Questa è l’etica dello Stato schiavistico, applicata in circostanze del tutto diverse da quelle che le diedero origine. Non c’è da stupirsi se il risultato è stato disastroso. Facciamo un esempio. Supponiamo che, a un certo momento, una certa quantità di persone sia impegnata nella produzione degli spilli. Esse producono tanti spilli quanti sono necessari per il fabbisogno mondiale lavorando, diciamo, otto ore al giorno. Ed ecco che qualcuno inventa una macchina grazie alla quale lo stesso numero di persone nello stesso numero di ore può produrre una quantità doppia di spilli. Il mondo non ha bisogno di tanti spilli, e il loro prezzo è già così basso che non si può ridurlo di più. Seguendo un ragionamento sensato, basterebbe portare a quattro le ore lavorative nella fabbricazione degli spilli e tutto andrebbe avanti come prima. Ma oggigiorno una proposta del genere sarebbe giudicata immorale. Gli operai continuano a lavorare otto ore, si producono troppi spilli, molte fabbriche falliscono e metà degli uomini che lavoravano in questo ramo si trovano disoccupati. Insomma, alla fine il totale delle ore lavorative è ugualmente ridotto, con la differenza che metà degli operai restano tutto il giorno in ozio mentre metà lavorano troppo. In questo modo la possibilità di usufruire di più tempo libero, che era il risultato di un’invenzione, diventa un’universale fonte di guai anziché di gioia. Si può immaginare niente di più insensato?


L’idea che il povero possa oziare ha sempre urtato i ricchi. In Inghilterra, agli inizi dell’ottocento, un operaio lavorava di solito quindici ore al giorno e spesso i bambini lavoravano altrettanto (nella migliore delle ipotesi dodici ore al giorno). Quando degli impiccioni ficcanaso osarono dire che tante ore erano forse troppe, gli fu risposto che la sana fatica teneva lontani gli adulti dal vizio del bere e i bambini dai guai. Quand’ero piccolo, cioè poco dopo che gli operai di città conquistarono il diritto di voto, la legge istituì certe giornate festive, con grande indignazione delle classi ricche. Ricordo di aver udito questa frase dalla bocca di una vecchia duchessa: « Ma che se ne fanno i poveri delle vacanze? Tanto loro devono lavorare ». Oggigiorno la gente parla con minore franchezza, ma questo modo di ragionare sussiste ed è fonte di una grande confusione economica.


Consideriamo per un momento apertamente e senza superstizioni l’etica del lavoro. Ogni essere umano, per necessità, consuma nel corso della sua vita una certa quantità del prodotto della umana fatica. Supponendo, come lo suppongo io ora, che la fatica sia in sostanza ben poco piacevole, è ingiusto che un uomo consumi più di quel che produce. Naturalmente egli può produrre servizi utili anziché beni materiali, facendo il medico, ad esempio, ma in ogni caso deve dare qualcosa in compenso di vitto e alloggio. Fino a questo punto, ma fino a questo punto soltanto, ammettiamo che il lavoro è un dovere.


Non insisterò sul fatto che in tutte le società moderne, al di fuori dell’URSS, molta gente riesce a risparmiarsi anche questo minimo di lavoro, in particolar modo coloro che ereditano quattrini o sposano i quattrini. Non penso però che il fatto che questa gente se ne stia senza far nulla sia dannoso quanto il credere che i salariati debbono spezzarsi la schiena lavorando o morire di fame.


Se il salariato lavorasse quattro ore al giorno, ci sarebbe una produzione sufficiente per tutti e la disoccupazione finirebbe, sempre che si ricorra a un minimo di organizzazione. Questa idea scandalizza la gente perbene, convinta che i poveri non sappiano che farsene di tanto tempo libero.


In America molti uomini lavorano intensamente anche quando hanno quattrini da buttar via; costoro, com’è naturale, si indignano all’idea di una riduzione dell’orario di lavoro; secondo la loro opinione l’ozio è la giusta punizione dei disoccupati; in effetti gli secca di vedere oziare i propri figli. Ma, cosa strana, mentre vorrebbero che i figli maschi lavorassero tanto da non aver il tempo di diventar persone civili, non gli importa affatto che la moglie e le figlie non facciano nulla dalla mattina alla sera. L’ammirazione snobistica per i disutili, che nella società aristocratica si estende ad ambedue i sessi, nella plutocrazia è limitata alle donne, in contrasto sempre più stridente col buon senso.


Bisogna ammettere che il saggio uso dell’ozio è un prodotto della civiltà e dell’educazione. Un uomo che ha lavorato per molte ore al giorno tutta la sua vita si annoia se all’improvviso non ha più nulla da fare. Ma, se non può disporre di una certa quantità di tempo libero, quello stesso uomo rimane tagliato fuori da molte delle cose migliori. Non c’è più ragione perché la gran massa della popolazione debba ora soffrire di questa privazione; soltanto un ascetismo idiota, e di solito succedaneo, ci induce a insistere nel lavorare molto quando non ve n’è più bisogno.


Nella nuova fede che regge il governo in Russia vi sono molte cose assai diverse dai tradizionali insegnamenti dell’Occidente, mentre alcune cose sono rimaste immutate. L’atteggiamento delle classi governative (specialmente di quelle che si occupano della propaganda educativa), nei riguardi della dignità del lavoro, è quasi identico all’atteggiamento che le classi governative di tutto il mondo hanno sempre assunto nei riguardi dei « poveri onesti ». La propaganda rimette in valore l’operosità, la sobrietà, lo spirito di sacrificio, la volontà di lavorare molte ore al giorno per indiretti vantaggi, persino la sottomissione all’autorità; infatti l’autorità rappresenta ancora il volere del rettore dell’universo, che tuttavia ha cambiato nome e si chiama ora materialismo dialettico.


La vittoria del proletariato in Russia ha molti punti in comune con la vittoria del femminismo in certi altri paesi. Per secoli gli uomini hanno ammesso che le donne fossero più sante di loro e le hanno consolate per la loro inferiorità affermando che la santità era più desiderabile del potere. Alla fine le femministe decisero che volevano e santità e potere, giacché le pioniere credevano sì a tutto ciò che gli uomini avevano detto circa i pregi della virtù, ma non credevano affatto a ciò che essi avevano detto circa lo scarso valore della supremazia politica. Qualcosa del genere accadde in Russia a proposito del lavoro manuale. Per secoli, i ricchi e i loro sicofanti avevano intessuto elogi degli « onesti attrezzi di lavoro » e della vita semplice, professando una religione secondo la quale i poveri hanno molte più probabilità dei ricchi di entrare nel regno dei cieli. Avevano cercato insomma di far credere ai lavoratori manuali che vi è una certa forma di abilità nell’alterare la posizione della materia nello spazio, così come gli uomini avevano cercato di far credere alle donne che vi era una certa forma di nobiltà nella loro schiavitù sessuale. In Russia tutta questa retorica sul lavoro manuale è stata presa molto sul serio, col risultato che il lavoratore manuale è onorato colà più che in qualsiasi altro paese. Ma quelli che sono, in sostanza, appelli revivalisti, vengono però lanciati con altri scopi: essi debbono infatti assicurare la collaborazione di operai indefessi per compiti speciali. Il lavoro manuale è un ideale proposto a tutti i giovani e sta alla base di ogni insegnamento etico.


Può darsi che per il momento ciò sia anche un bene. Un paese immenso, zeppo di risorse naturali, è in attesa di sviluppo e può far conto soltanto su pochissimo credito. In tali circostanze è necessario un durissimo lavoro che probabilmente sarà largamente compensato in seguito. Ma che cosa accadrà quando tutti potranno star bene senza lavorare molto?


In Occidente vi sono parecchi modi per affrontare il problema: non abbiamo mai tentato di instaurare la giustizia economica, cosicché una larga parte della produzione totale viene assorbita da una piccola minoranza della popolazione, che spesso non lavora affatto. Poiché manca un controllo centrale della produzione, produciamo una massa di cose che nessuno vuole. Manteniamo in ozio una certa percentuale di persone perché possiamo fare a meno di loro grazie all’eccessivo orario di lavoro di chi ha un impiego. Quando questi metodi si rivelano insufficienti scoppia una guerra, così molta gente è impegnata a fabbricare esplosivi ed altri li fanno esplodere, come se fossimo bambini che hanno appena scoperto i fuochi artificiali. Combinando in modo diverso tutti questi elementi riusciamo a mantener viva la nozione che una buona dose di duro lavoro manuale spetti giustamente a ogni uomo medio.


In Russia, grazie a una maggiore giustizia economica e al controllo della produzione, il problema deve essere risolto diversamente. La soluzione più razionale sarebbe questa: non appena sia possibile soddisfare i bisogni più elementari, bisognerebbe ridurre gradualmente le ore di lavoro, stabilendo via via con una votazione popolare se a un certo punto i cittadini desiderano più tempo libero o più beni di consumo. Ma dopo aver tanto predicato la virtù del duro lavoro, è difficile che le autorità possano proporre un paradiso dove si fatichi poco e ci si riposi molto. È più probabile che esse trovino continuamente nuovi sistemi per dimostrare che il tempo libero deve essere sacrificato alla produzione. Ho letto recentemente che gli ingegneri russi stanno studiando un progetto per riscaldare il mar Bianco e le coste settentrionali della Siberia costruendo una grande diga sul mar di Kara. Un progetto meraviglioso, ma che potrebbe ritardare il benessere proletario di una generazione, mentre il nobile lavoro manuale avrà modo di esplicarsi tra i ghiacci e le tormente dell’Artico. Se una cosa del genere si attuasse, la « virtù » del lavoro manuale finirebbe con l’essere considerata fine a se stessa anziché un mezzo per stabilire certe condizioni in cui il lavoro non sia più necessario.


Il fatto è che il modificare e spostare la materia, seppure, entro certi limiti, indispensabile alla nostra esistenza, non è assolutamente uno degli scopi della vita umana. Se lo fosse, un qualsiasi manovale dovrebbe essere considerato superiore a Shakespeare. A questo proposito siamo stati indotti a un equivoco da due ragioni. La prima è la necessità di gabbare i poveri, che ha indotto i ricchi, per migliaia di anni, a predicare la dignità del lavoro, mentre dal canto loro essi si comportavano in modo ben poco dignitoso sotto questo aspetto. L’altra è la gioia che ci procurano le macchine e la soddisfazione che proviamo nel vederle operare straordinari cambiamenti sulla faccia della terra. Direi che né l’una né l’altra esercitano un grande fascino sul comune lavoratore. Se gli chiedete qual è, secondo lui, la miglior parte della sua vita, è improbabile che vi risponda: « Sono felice quando mi applico al lavoro manuale perché sento di compiere uno dei più nobili compiti dell’uomo e perché mi piace sapere che l’uomo può far molto per trasformare questo pianeta. È vero che il mio corpo ha un certo bisogno di riposo che io devo pur soddisfare in qualche modo, ma non sono mai tanto felice come quando, al mattino, riprendo in mano gli attrezzi di lavoro ». Non ho mai sentito un operaio dire una cosa del genere. Egli considera il suo lavoro al modo giusto, cioè come un mezzo necessario per procurarsi il sostentamento, e trova invece maggior gioia e soddisfazione nelle ore di riposo.


Bisogna però dire che, mentre un po’ di tempo libero è piacevole, gli uomini non saprebbero come riempire le loro giornate se lavorassero soltanto quattro ore su ventiquattro. Questo problema, innegabile nel mondo moderno, rappresenta una condanna della nostra civiltà, giacché non si sarebbe mai presentato nelle epoche precedenti. Vi era anticamente una capacità di spensieratezza e di giocosità che è stata in buona misura soffocata dal culto dell’efficienza. L’uomo moderno pensa che tutto deve essere fatto in vista di qualcos’altro e non come fine a se stesso. Le persone più serie, ad esempio, condannano l’abitudine di andare al cinema e ripetono di continuo che tale abitudine spingerà i giovani su una cattiva strada. Però tutto il lavoro necessario per fare i film è rispettabile appunto in quanto è un lavoro, e in quanto frutta quattrini. La convinzione che le attività auspicabili siano quelle che fruttano quattrini ha messo tutto sottosopra. Il macellaio che ti procura la carne e il fornaio che ti fornisce il pane sono persone degne di lode, perché guadagnano; ma se tu ti accontenti di assaporare il cibo che essi ti hanno procurato, sei una persona frivola, a meno che tu non intenda accumulare forze per lavorare. In altre parole, si ritiene che guadagnare quattrini sia un’ottima cosa e spenderli un vizio. Il che è assurdo, giacché si tratta dei due aspetti di una medesima transazione. Si potrebbe allora sostenere che le chiavi sono un bene e le serrature un male. Il merito insito nella produzione di beni sta unicamente nel vantaggio che si ottiene consumandoli. L’individuo, nella nostra società, lavora per un profitto, ma lo scopo sociale del suo lavoro sta nella consumazione di ciò che egli produce. Il divorzio tra l’individuo e lo scopo sociale della produzione rende invece molto difficile per gli uomini avere le idee chiare in un mondo dove assicurarsi profitti è un incentivo all’operosità. Pensiamo troppo a produrre e troppo poco a consumare. Ne deriva che diamo troppo poca importanza al godimento delle gioie più semplici, e non giudichiamo la produzione in base al piacere che dà al consumatore.


Quando propongo che le ore lavorative siano ridotte a quattro, ciò non implica che il tempo libero rimanente debba essere impiegato in frivolezze. Intendo semplicemente dire che quattro ore di lavoro al giorno dovrebbero poter assicurare a un uomo il necessario per vivere con discreta comodità, e che per il resto egli potrebbe disporre del suo tempo come meglio crede. In un sistema sociale di questo genere è essenziale che l’istruzione sia più completa di quanto lo è ora e che miri, in parte, ad educare e raffinare il gusto in modo che un uomo possa sfruttare con intelligenza il proprio tempo libero. Non alludo qui a quel genere di occupazioni che si usano definire « intellettuali ». Le danze folcloristiche, ad esempio, sono praticate soltanto da pochi gruppi di volenterosi, ma gli impulsi che le fecero nascere debbono pur sempre esistere nella natura umana. I piaceri della popolazione urbana sono diventati soprattutto passivi: sedersi in un cinema, assistere a una partita di calcio, ascoltare la radio e così via. Questa è la conseguenza del fatto che tutte le energie attive si esauriscono nel lavoro. Se gli uomini lavorassero meno, ritroverebbero la capacità di godere i piaceri cui si partecipa attivamente.


In passato vi era una piccola classe di persone quasi oziose e una vasta classe di lavoratori. La prima godeva dei vantaggi che non sono nemmeno contemplati dalla giustizia sociale, ed era di conseguenza prepotente, godeva di scarse simpatie e doveva inventare delle teorie per giustificare i propri privilegi. Questi fattori diminuirono in modo rilevante la sua eccellenza; ciò nonostante si può dire che essa contribuì in modo quasi esclusivo a creare quella che noi chiamiamo civiltà. Fu questa classe che coltivò le arti e scoprì le scienze, che scrisse libri, inventò sistemi filosofici e raffinò i rapporti sociali. Persino la campagna per la liberazione degli oppressi partì generalmente dall’alto. Senza una classe oziosa, l’umanità non si sarebbe mai sollevata dalla barbarie.


Il sistema dell’ereditarietà, che permetteva all’aristocrazia di tramandare di padre in figlio privilegi senza doveri, implicò tuttavia un notevole spreco. Nessuno dei membri di quella classe aveva imparato ad essere operoso, e tutti, presi nel complesso, non erano eccezionalmente intelligenti. Tra loro poteva sì nascere un Darwin, ma sull’altro piatto della bilancia stavano decine di migliaia di gentiluomini di campagna che non avevano mai fatto nulla di più ingegnoso che cacciare la volpe o punire i bracconieri. Attualmente le università dovrebbero produrre in modo sistematico ciò che la classe aristocratica produsse accidentalmente e quasi per caso. Ciò rappresenta un bel passo avanti, ma ha i suoi inconvenienti. La vita universitaria è così diversa dalla vita reale in senso lato che chi vive in un milieu accademico finisce col non rendersi più conto delle preoccupazioni e dei problemi degli uomini e delle donne comuni; inoltre il modo di esprimersi dei professori universitari è tale da impedire che le loro opinioni abbiano l’influenza che meriterebbero sul grosso pubblico. Un altro svantaggio è che nelle università gli studi sono disciplinatissimi, e l’uomo che segua una linea originale di ricerca rischia di venire scoraggiato. Le istituzioni accademiche dunque, sebbene utili, non riescono a proteggere adeguatamente gli interessi della civiltà in un mondo dove al di fuori delle mura universitarie tutti sono troppo occupati nel perseguimento di scopi utilitari.


In un mondo invece dove nessuno sia costretto a lavorare più di quattro ore al giorno, ogni persona dotata di curiosità scientifica potrebbe indulgervi, ogni pittore potrebbe dipingere senza morire di fame, i giovani scrittori non sarebbero costretti ad attirare su se stessi l’attenzione con romanzacci sensazionali per procurarsi l’indipendenza necessaria alla produzione di opere geniali (che poi non scriveranno più perché, al momento buono, ne avranno perso il gusto e la capacità). Gli uomini che nel corso del lavoro professionale si siano interessati all’economia o ai problemi di governo, potrebbero sviluppare le loro idee senza quel distacco accademico che dà un carattere di impraticità a molte opere degli economisti universitari. I medici avrebbero il tempo necessario per tenersi al corrente dei progressi della medicina, e i maestri non lotterebbero disperatamente per insegnare con monotonia cose che essi hanno imparato nella loro giovinezza e che, nel frattempo, potrebbero essersi rivelate false.


Soprattutto ci sarebbe nel mondo molta gioia di vivere invece di nervi a pezzi, stanchezza e dispepsia. Il lavoro richiesto a ciascuno sarebbe sufficiente per farci apprezzare il tempo libero, e non tanto pesante da esaurirci. E non essendo esausti, non ci limiteremmo a svaghi passivi e vacui. Almeno l’uno per cento della popolazione dedicherebbe il tempo non impegnato nel lavoro professionale a ricerche di utilità pubblica e, giacché tali ricerche sarebbero disinteressate, nessun freno verrebbe posto alla originalità delle idee. Ma i vantaggi di chi dispone di molto tempo libero possono risultare evidenti anche in casi meno eccezionali. Uomini e donne di media levatura, avendo l’opportunità di condurre una vita più felice, diverrebbero più cortesi, meno esigenti e meno inclini a considerare gli altri con sospetto. La smania di far la guerra si estinguerebbe in parte per questa ragione, e in parte perché un conflitto implicherebbe un aumento di duro lavoro per tutti. Il buon carattere è, di tutte le qualità morali, quella di cui il mondo ha più bisogno, e il buon carattere è il risultato della pace e della sicurezza, non di una vita di dura lotta. I moderni metodi di produzione hanno reso possibile la pace e la sicurezza per tutti; noi abbiamo invece preferito far lavorare troppo molte persone lasciandone morire di fame altre. Perciò abbiamo continuato a sprecare tanta energia quanta ne era necessaria prima dell’invenzione delle macchine; in ciò siamo stati idioti, ma non c’è ragione per continuare ad esserlo.

lunedì 21 aprile 2025

L’INDIVIDUO SOVRANO E LA NUOVA CASTA TECNOCRATICA Alessandra Libutti

 

L’INDIVIDUO SOVRANO E LA NUOVA CASTA TECNOCRATICA

 Alessandra Libutti 

 14/04/2025

Mentre leggevo “But What Can I Do?” (Ma cosa posso fare?) di Alastair Campbell, ex stratega della comunicazione di Tony Blair, mi sono imbattuta nel libro “L’individuo sovrano – come sopravvivere e prosperare durante il collasso dello stato sociale” di William Rees-Mogg e James Dale Davidson, un saggio del 1997 che Campbell menziona come fondamentale per comprendere le origini di alcune deviazioni antidemocratiche del nostro tempo. In effetti, come dargli torto?


Le previsioni sul futuro della società fatte da Rees-Mogg e Davidson però hanno poco a che vedere con la veggenza o la lungimiranza, piuttosto sembrano essere una di quelle profezie che si autoavverano proprio perché formulate e dunque fonte di ispirazione. D’altra parte il testo è molto amato negli ambienti conservatori e nel mondo dei Tech, ma ci sono delle connessioni personali anche più dirette.


Gli autori

Partiamo dagli autori: il britannico William Rees-Mogg è il padre dell’ex ministro conservatire Jacob Rees-Mogg, uno dei fautori della Brexit, sostenitore di politiche di deregolamentazione e della creazione di “charter cities” o città libere, ovvero aree urbane o regioni fuori dalla giurisdizione dello Stato, in cui le leggi sono ridotte e i regolamenti creati ad hoc per promuovere l’innovazione economica e attirare investimenti. Inoltre, Jacob Rees-Mogg ha spesso insistito per l’uscita del Regno Unito dalla Convenzione Europea sui Diritti Umani (CEDU) che permetterebbe al Regno Unito di formulare le proprie leggi sui diritti umani senza interferenze esterne.


L’americano James Dale Davidson invece è vicino agli ambienti conservatori, negli anni ha formulato diverse previsioni, tra cui la crisi dei mutui negli Stati Uniti. Tuttavia, è stato anche coinvolto in controversie, come la promozione di teorie del complotto legate all’amministrazione Clinton.


I due avevano già pubblicato insieme due saggi: “Blood on the streets” (Sangue nelle strade) nel 1987 e “The Great Reckoning” nel 1991 (La grande resa dei conti). Ma “L’individuo sovrano” è senza dubbio il loro libro più influente. 


Il tema

Gli autori descrivono il loro lavoro come apocalittico, nel senso originale del termine greco “Apokalypsis”, che significa “svelamento”. Secondo loro, la diffusione della rete avrebbe portato allo sgretolamento delle grandi strutture statali. Questo perché nel cyberspazio sarebbero emerse nuove attività economiche di cui avrebbero beneficiato principalmente nuove élite cognitive che avrebbero operato al di fuori dei confini politici tradizionali. Uno scenario nel quale chiunque sarà in grado di utilizzare efficacemente il proprio intelletto potrà aspirare a diventare ricco, inaugurando un’era di mobilità sociale. 


L’illusione

Come molti pensatori degli anni ’90 e 2000, Rees-Mogg e Davidson vedevano nella diffusione di Internet un potenziale liberatorio per l’individuo, anticipando un’epoca di maggiore libertà e distribuzione della ricchezza grazie all’abbattimento delle strutture statali, percepite come ostacoli. Questa visione trova paralleli in varie iniziative e figure emblematiche che sembravano incarnare questi ideali.


Julian Assange, con WikiLeaks, prometteva una nuova era di trasparenza, diffondendo documenti segreti che avrebbero dovuto tenere i governi responsabili delle loro azioni. In realtà, WikiLeaks ha finito per essere usato come strumento politico. Mark Zuckerberg aspirava a collegare il mondo, facilitando la comunicazione tra le persone. Anche in questo caso, Facebook è stato al centro di scandali legati alla privacy, alla diffusione di fake news e alla manipolazione politica. Gianroberto Casaleggio promuoveva l’idea di una democrazia diretta attraverso la rete, ma la piattaforma del Movimento 5 Stelle, Rousseau, ha mostrato come le tecnologie di comunicazione possano essere sfruttate per manipolare l’opinione pubblica. 


In tutti questi casi, le “illusioni” di libertà, trasparenza e partecipazione diretta promesse dall’avanzamento tecnologico si sono trasformate in nuove forme di controllo. Ne “L’individuo sovrano” il germe dell’autocrazia è addirittura già nelle premesse, e il saggio, nel tentativo di provare una tesi, finisce per dimostrare esattamente quella opposta. Infatti gli autori descrivono un futuro guidato da una “meritocrazia creativa” a cui tutti possono (in teoria) accedere ma dove il successo dipende dalla capacità intellettuale.


La casta tecnocratica

Questo modello che dovrebbe aprire le porte alla prosperità, tende in realtà a favorire chi possiede competenze adatte a capitalizzare in un’economia tecnologica. Questo porta alla formazione di una nuova élite, una casta tecnocratica che domina economicamente, lasciando gli altri senza le reti di protezione offerte dallo Stato. In sostanza, già nel 1997, gli autori presagivano una società guidata da principi di mercato piuttosto che da leggi dello Stato, dove gli individui sarebbero stati “clienti” piuttosto che “cittadini”.


Il tecnocrate è il nuovo Superuomo?

Viene da chiederci se questo Individuo Sovrano non sia in qualche modo una rielaborazione del Superuomo di Nietzsche, che descrive individui che superano i valori morali convenzionali per stabilire e seguire i propri. Certamente le differenze ci sono: se Nietzsche si concentra su una trasformazione morale e filosofica dell’individuo che crea i propri valori al di sopra delle norme sociali, Rees-Mogg e Davidson trattano delle implicazioni economiche e sociali di un sistema dove le regole del mercato e le capacità individuali determinano chi prospera e chi resta indietro. 


Però, se Rees-Mogg e Davidson ci dicono che tutti possono diventare individui sovrani, nella realtà, solo alcuni hanno le qualità per esserlo. È innegabile allora che le figure che emergono dallo scenario delineato (i tecnocrati) siano personalità superiori che, riscrivendo la propria morale in un contesto di delegittimazione dello Stato (e quindi anche dello stato di diritto), agiscono effettivamente come superuomini. Questi individui, armati di tecnologie avanzate e di una capacità intellettuale elevata, non solo navigano ma plasmano attivamente una nuova realtà socio-economica che premia l’innovazione e la disintermediazione diretta dalle vecchie strutture di potere. In questo nuovo ordine, il loro successo non deriva soltanto dall’abilità di adattarsi alle regole, ma dal potere di definire le regole stesse, esercitando un’influenza che trascende le tradizionali barriere politiche e geografiche.


Questo riallineamento del potere non solo riflette ma incarna una trasformazione profonda dei valori e delle strutture sociali, echeggiando il concetto nietzscheano di superamento dei vecchi ideali per forgiarne di radicalmente nuovi.


Peter Thiel

È fuori di dubbio che questa società auspicata, in cui tutti potrebbero essere sovrani, è semplicemente la descrizione di un’autocrazia tecnocratica, la quale ci ricorda fortemente la visione della società perseguita da Peter Thiel, creatore con Elon Musk di PayPal, noto per le sue posizioni libertarie e per il suo peso nell’amministrazione Trump. E non è un caso che le idee di Thiel e quelle di Rees-Mogg e Davidson siano allineate. Infatti, Thiel, considera “L’individuo sovrano” uno dei suoi libri preferiti, tanto da avere scritto la prefazione alla riedizione del 2020. In fondo, Thiel (come tutti i magnati della Silicon Valley) incarna la figura stessa dell’Individuo Sovrano.

L’amministrazione Trump

La visione di Rees-Mogg e Davidson trova echi nella politica dell’amministrazione Trump, con il ridimensionamento dello Stato, la deregolamentazione e la gestione del governo come una compagnia d’affari.

Questa stessa filosofia si estende anche alla politica internazionale, dove le norme del diritto vengono messe da parte a favore di un approccio che privilegia le transazioni di affari. Trump tratta le relazioni internazionali come negoziazioni commerciali, piuttosto che il rispetto di accordi multilaterali o l’adesione a principi universali di diritto internazionale. 

La profezia che si auotoavvera

Effettivamente, molti libri che al momento della loro pubblicazione sembrano distopici, possono acquistare rilevanza nel tempo, influenzando il pensiero e le politiche future. “L’individuo sovrano” non solo ha fornito un corpus di idee, ma ha avuto un impatto diretto su figure politicamente influenti come Jacob Rees-Mogg e Peter Thiel.

Inoltre, “L’individuo sovrano” è stato a lungo un testo di riferimento in certi ambienti della destra americana, influenzando il pensiero su temi come la deregolamentazione, la privatizzazione e la riduzione del ruolo del governo.

In sintesi, il libro non ha semplicemente previsto un futuro, ha contribuito a crearlo.



LA PACE CHE (NON) VERRÀ Katarina Tonkova


LA PACE CHE (NON) VERRÀ 
Katarina Tonkova

Per la maggior parte di noi, la guerra in Ucraina è cominciata il 24 febbraio 2022, ma per le parti coinvolte, il conflitto dura già da 11 anni a 57 giorni.
Sempre che non si voglia tornare alla prima guerra d'indipendenza Ucraina del 1917, .combattuta ovviamente contro la Russia.
Che si tratti di un conflitto complesso, senza una soluzione soddisfacente in vista, l'hanno percepito un po' tutti, anche l'amministrazione statunitense. 
Trump, quando ha compreso che la pace in Ucraina non sarà il suo biglietto per l'eternità storica, ha cominciato prima innervosirsi per poi disinteressarsi.
E così le parole di Witkoff, un abile immobiliarista, ma non altrettanto capace negoziatore, nella speranza di raggiungere l'obiettivo, hanno da subito fatto la sponda alle richieste di Putin sull'annessione ufficiale delle 4 zone occupate.
Dello stesso tenore anche le parole del Segretario di Stato, Marco Rubio che ha chiesto che il conflitto venga congelato allo stato attuale, ovvero, che i territori conquistati dai russi, rimangono ai russi, altrimenti gli USA si dichiarano pronti ad abbandonare i negoziati.
"The Ukraine war is a terrible thing, but it's not our war." 
Il messaggio è chiaro: Trump vuole la pace ad ogni costo, non importa come andrà finire, purché finisca e lui si possa attribuire la grande vittoria. Anzi, continuava a sottolineare come i territori ucraini sono sempre stati russi e come gli ucraini non siano altro che i russi manipolati prima dai polacchi e poi dagli austro-ungarici allo scopo di indebolire la Grande Russia. Carlson ha più volte tentato di ottenere la risposta alla domanda su perché Putin ha deciso di intervenire solo dopo 22 anni al potere e anche se quest'ultimo ha abilmente glissato nel rispondere, la replica sta tutta nei fatti. Perché Putin ha tentato da molto tempo e in ogni modo conquistare l'Ucraina. Prima in modo più ovvio e semplice, minando la politica interna sponsorizzando i dirigenti russofili, ma dopo che il suo cavallo di troia, presidente Janukovyč ha dovuto dimettersi e scappare in Russia in seguito ai numerosi scandali, corruzione e sproporzionato arricchimento dei membri della sua famiglia, Putin ha optato per la seconda soluzione - supportare e finanziare i separatisti nelle zone con forte minoranza russa.
Ma questa soluzione non solo non era ottimale, data la incontrollabilità e inaffidabilità dei personaggi coinvolti, ma non ha nemmeno portato al risultato sperato. Gli ucraini continuavano a resistere e combattere, senza cedere i propri territori. 
Certo, la Crimea era una conquista, però chiaramente più simbolica che altro, non certo un risultato che Putin si aspettava. E così ha messo in atto un altro sistema di combattimento, quello sociale. Non solo la Russia da tempo offre dei stipendi sensibilmente più alti, per gli insegnati e funzionari russi disposti a trasferirsi nei territori occupati, ma con il decreto del 20 marzo di quest'anno, la Mosca ha de facto obbligato tutti gli abitanti che vivono nelle zone occupate ad assumere la cittadinanza russa, altrimenti, in quanto stranieri, devono abbandonare le proprie case entro i 90 giorni. Questa imposizione si aggiunge ad altri procedimenti coercitivi come bloccare l'erogazione delle pensioni a tutte i cittadini che non hanno preso il passaporto russo. E se nei confronti degli ucraini si procede con le minacce, dall'altra parte si offrono numerosi vantaggi come la possibilità di ottenere l'ipoteca con un tasso particolarmente vantaggioso (2%) legata alla nuove costruzioni, anche nella zone occupate dove ovviamente la maggior parte della abitazioni sono state distrutte o danneggiate.
Tutte queste manovre hanno un unico obiettivo: la sostituzione etnica sui territori occupati in modo da poter indire, tra qualche tempo, dei referendum dai risultati ampiamente scontati. 
E anche se la Carta dei diritti vieta la pratica di sostituzione della cittadinanza forzata durante conflitti di guerra, questo non sembra di rappresentare alcun ostacolo nè per Putin nè per l'amministrazione statunitense.
I prossimi passi sono più che prevedibili: rimpiazzo di Zelensky con un presidente filo russo, allontanamento dell'Ucraina dall'UE e in giro di non molto, assunzione del controllo su tutto il territorio per infine annettere l'Ucraina in modo definitivo.
Putin sa che il tempo è tutto dalla sua, in fondo, anche Pietro il Grande ha condotto la Grande Guerra del Nord per 21 anni, e Putin, di certo, non si sente da meno.
Ma nulla di questo potrà portare alla pace.
 


sabato 19 aprile 2025

A OSTACOLARE IL NUCLEARE NON È LA SCIENZA, MA L'IGNORANZA IDEOLOGICA Fabio De Bunker


A OSTACOLARE IL NUCLEARE NON È LA SCIENZA, MA L'IGNORANZA IDEOLOGICA
Fabio De Bunker
Opporsi oggi all'energia nucleare in modo assoluto non è una posizione scientificamente sostenibile. È una scelta che ignora decenni di dati, di confronti internazionali e di analisi sul ciclo di vita delle fonti energetiche. Il nucleare è, a tutti gli effetti, una delle tecnologie più sicure, più affidabili e meno impattanti in termini di emissioni climalteranti. Lo dicono l'IPCC, l'Agenzia Internazionale per l'Energia, e lo conferma l'esperienza concreta di Paesi che, grazie al nucleare, hanno decarbonizzato gran parte del proprio sistema elettrico mantenendo alti livelli di affidabilità. Chi lo esclude a priori, senza nemmeno valutare le nuove generazioni di reattori, i tempi di ritorno sull'investimento o il ruolo che può avere nel mix energetico insieme a rinnovabili e accumuli, non sta facendo una scelta scientifica, ma ideologica. E l'ideologia, quando si frappone tra i dati e le decisioni, non è mai una buona consigliera. È lo stesso meccanismo che porta a credere che i vaccini siano pericolosi o che il cambiamento climatico sia una montatura. Cambia il contenuto, ma la struttura del pensiero è la stessa: il rifiuto selettivo delle evidenze. La transizione energetica richiede pragmatismo, non slogan. Se davvero vogliamo liberarci dai combustibili fossili, il nucleare non può essere il tabù che è stato in Italia per troppi anni. Continuare a trattarlo come tale significa rinunciare consapevolmente a uno strumento fondamentale nella lotta alla crisi climatica. Chi fa divulgazione come me, o chi prende decisioni politiche, ha il dovere di...
di affrontare questa realtà con serietà.

venerdì 18 aprile 2025

LE CLIMAT PAR LE CHIFFRES Christian Gerondeau


LE CLIMAT PAR LE CHIFFRES

Christian Gerondeau

Prologue

La religion écologiste a pris son essor il y a trente ans et pour beaucoup Gaïa, la planète, a remplacé les dieux anciens.

Par centaines de milliers, des jeunes, convaincus de la dérive de notre Terre et profondément inquiets pour l’avenir, manifestent pour demander aux puissants de ce monde d’agir. Et, lorsqu’ils se réunissent, les Chefs d’État de tous les pays mettent désormais en tête de l’agenda de leurs travaux la lutte contre les changements climatiques qu’ils n’évoquaient jamais auparavant.

Les fondements de cette nouvelle religion sont bien connus de tous et s’énoncent en quelques points ainsi résumés :

Avant que l’Homme bouleverse son atmosphère en ayant recours aux énergies fossiles, la Terre connaissait l’équilibre.

Mais depuis qu’il procède ainsi, notre globe ne cesse de se réchauffer avec des conséquences néfastes et bientôt dramatiques dans de multiples domaines.

Il faut donc cesser ces pratiques, et renoncer au pétrole, au gaz naturel et au charbon émetteurs des gaz à effet de serre qui menacent l’avenir de la planète et de l’humanité.

Sinon la hausse des températures ne connaîtra pas de limites et nous conduira vers un enfer climatique.

Curieusement, cette religion nouvelle évoque dans un étonnant parallélisme celles qu’elle a largement remplacées de nos jours dans le monde occidental. Dans la tradition judéo-chrétienne sinon musulmane, la Terre connaissait en effet le Paradis avant l’apparition de l’Homme, mais celui-ci a commis le péché originel et il dut depuis lors se repentir et faire pénitence pour se racheter, seule voie de salut pour lui éviter l’Enfer.

Toutefois, si elle évoque irrésistiblement d’autres religions, la croyance nouvelle apparue il y a quelques décennies présente avec ces dernières une différence fondamentale. Croire en Jéhovah, Dieu, Jésus, Allah, Bouddha, ou en d’autres divinités ou prophètes est avant tout une question de conviction intime et de foi, alors que la religion écologiste se réfère à des faits qu’il est possible d’appréhender par la science et les chiffres.

Il s’agit de températures, de niveaux des mers, voire d’ouragans, de tempêtes, de sécheresses ou d’inondations, tous phénomènes accessibles à une approche cartésienne. Certes, les apôtres, les prêtres et les prêtresses de la nouvelle religion nous répètent à satiété que « la science a parlé », et c’est exact.

Mais ce qu’elle dit n’a guère de rapport avec le discours régnant. Au pouvoir des mots, il faut substituer celui des faits, c’est-à-dire des chiffres lorsque le sujet s’y prête ; ce qui est le cas pour le climat.

Un bon dessin vaut mieux qu’un long discours, et c’est pourquoi cet ouvrage s’ouvre sur une série de graphiques de couleur commentés, qui traduisent les chiffres en images. Il est ainsi possible de comprendre l’essentiel en un simple quart d’heure avant d’aborder le texte qui leur fait suite et en dit plus encore.
















Introduction

Tous les cinq ou six ans, l’émanation des Nations-Unies intitulée en anglais IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) et en français GIEC (Groupe d’Experts Intergouvernemental sur l’Évolution du Climat), ce qui n’est d’ailleurs pas du tout la même chose puisque le mot « experts » ne figure que dans la traduction en français, publie un rapport fondateur destiné à définir la politique que doit suivre le monde du fait des évolutions du climat.

L’année 2021 n’a pas fait exception. Le 9 août, le groupe de travail no 1 du GIEC a publié dans le cadre du 6e rapport de l’organisme un document de près de 2 000 pages, dont il est précisé qu’il a été rédigé par 751 auteurs émanant de 66 pays, qu’il cite plus de 14 000 références et a pris en compte 78 007 commentaires de gouvernements et d’experts. Un tel ensemble est évidemment illisible par quiconque, ne serait-ce que parce qu’il traite de dizaines de domaines scientifiques différents et qu’il faudrait être spécialiste de chacun d’entre eux pour pouvoir en appréhender le contenu.

Le même constat peut être fait à l’égard de son résumé intitulé à tort « Summary for policymakers » qu’aucun « policymaker » n’a jamais pu lire car il est truffé de chiffres au sein de ses 89 paragraphes renvoyant chacun à d’innombrables références et comprend de multiples tableaux et graphiques inaccessibles au commun des mortels.

En définitive le seul document qui défraye la chronique, le seul qui fasse instantanément le tour de la planète et forge l’opinion mondiale est un communiqué de presse de trois pages.

Celui qui a été publié le 9 août 2021 n’a pas dérogé à la règle et son retentissement a été immense à tel point qu’il lui est sans cesse fait référence par tous les décideurs du monde, qu’ils soient privés ou publics. Intitulé « Le changement climatique est très répandu, rapide et s’intensifie », et laissant donc entendre sans ambiguïté que les choses se sont grandement aggravées (faster warming) depuis le précédent rapport de 2015, il annonce des catastrophes en série, affirme que le CO2 en est le principal responsable, et qu’il faut le plus rapidement en supprimer totalement les émissions pour avoir une chance d’échapper au désastre.

Toutefois, ce communiqué uniformément catastrophiste présente une caractéristique curieuse. Contrairement aux milliers de documents dont il est censé faire la synthèse, il ne comprend pratiquement aucun chiffre, de telle sorte qu’il est impossible à quiconque de se faire une opinion sur les assertions qu’il énonce à chacune de ses lignes.

C’est pour remédier à cette lacune qu’a été écrit le présent ouvrage dans le but de mettre à la portée de tous les quelques chiffres nécessaires pour pouvoir appréhender le domaine du climat qui est en leur absence inaccessible au plus grand nombre, et paraît alors devoir être réservé à quelques spécialistes au langage ésotérique. La tâche pourrait paraître impossible, mais les pages suivantes montreront qu’elle ne l’est pas et qu’après en avoir pris connaissance, il devient possible à chacun de se forger sa propre opinion sur les multiples aspects que comportent le domaine du climat et des actes conduits en son nom.

1/20 000E

Tout d’abord, le GIEC affirme dans son communiqué que « des réductions fortes et soutenues de dioxyde de carbone (CO2) et d’autres gaz à effet de serre limiteraient le changement climatique », mais cette assertion n’est comme les autres accompagnée d’aucun chiffrage quant à l’ampleur des mesures à prendre ni aux effets à en attendre.

La question est pourtant centrale : que faudrait-il faire, et pour quels résultats ? Plus précisément, de combien l’humanité pourrait-elle réduire ses émissions de CO2, et pour quel impact sur le climat ? Répondre à ces interrogations n’est nullement hors de portée, mais nécessite deux clarifications préalables.

La première tient au constat que, s’agissant de l’impact possible du CO2 sur le climat, celui-ci dépend de la masse de ce dernier présente à un moment donné dans l’atmosphère, et non de celle des émissions annuelles, autrement dit du stock et non du flux. Or cette masse est considérable, et tous les spécialistes savent qu’elle s’élève aujourd’hui à 3 200 milliards de tonnes environ.

La seconde remarque tient au fait qu’un peu plus de la moitié des émissions annuelles de CO2 imputables aux énergies fossiles – pétrole, charbon, et gaz naturel – est spontanément absorbée par les océans et la végétation. Sur les quelques 34 milliards de tonnes émises chaque année, 16 seulement viennent augmenter la masse des 3 200 milliards de tonnes aujourd’hui présentes dans l’atmosphère terrestre.

Une première conclusion découle donc de ces deux constats et elle dit tout : les émissions de CO2 imputable à l’humanité n’accroissent la masse du CO2 atmosphérique que de 1/200e par an (16 milliards de tonnes en regard de 3200). Les relevés de l’Agence Internationale de l’Énergie et des multiples organismes qui traitent du sujet montrent plus précisément qu’au sein de ces 16 milliards de tonnes, la part des pays développés dans leur ensemble n’excède pas 5 milliards de tonnes (1/600e de la masse du CO2 présent dans l’atmosphère), celle de l’Union Européenne 1,6 milliard de tonnes (1/2000e) et celle de la France 160 millions de tonnes (1/20 000e).

Autrement dit, lorsque notre pays affirme vouloir agir pour « sauver la planète », ce qu’il peut faire ne concerne que 1/20000e du problème auquel il prétend vouloir s’attaquer ! Aucun calcul n’est alors nécessaire pour comprendre qu’à lui seul, il ne peut rien.

Mais la même conclusion s’impose si l’on considère maintenant l’Union Européenne, responsable dans son ensemble d’émissions qui accroissent annuellement de 1/2 000e la masse du CO2 atmosphérique. La suppression totale et immédiate de ces émissions, évidemment inimaginable par ailleurs, diminuerait donc cette dernière de 2,5 % dans 50 ans, proportion marginale s’il en est. Et si l’on se réfère aux modèles du GIEC sans les discuter, la température mondiale en serait affectée de l’ordre de 0,03 degré, à supposer que d’autres nations n’aient pas utilisé les énergies fossiles que les pays européens auraient épargnées.

Certes l’Union Européenne n’est pas seule au monde puisqu’elle ne représente qu’un dixième des émissions planétaires, mais il faut être réaliste et constater qu’elle est la seule à vouloir réellement agir.

Les autres pays développés, États-Unis, Canada, Australie, Japon, etc., affirment bien tous lorsqu’ils se réunissent qu’ils veulent réduire leurs propres émissions, mais ils continuent de recourir aux énergies fossiles et à en extraire, comme s’il n’y avait aucun rapport entre elles et le CO2. La production du pétrole et du gaz de schiste explose aux États-Unis comme celle des sables bitumineux au Canada. L’Australie continue à extraire de plus en plus de charbon de ses immenses réserves et le Japon à en importer.

De toute manière, ce ne sont plus les pays développés, mais les pays en voie de développement qui ont désormais la main car ils sont aujourd’hui à l’origine des deux tiers des émissions mondiales de CO2, et on verra plus loin pour quelles raisons ils refusent obstinément de se passer du charbon, du pétrole et du gaz naturel qu’ils consomment au contraire en quantités sans cesse croissantes année après année, leurs émissions de CO2 augmentant en conséquence.

Mais, avant d’aller plus loin, une question simple mérite d’être posée. Pourquoi les chiffres qui viennent d’être cités dans les paragraphes précédents sont-ils absents de tous les communiqués ainsi que des « Résumés à l’intention des décideurs » du GIEC alors qu’ils sont essentiels. Pourquoi ceux-ci ne mentionnent ils pas une seule fois l’ampleur de la masse du CO2 présente dans l’atmosphère. Pourquoi le chiffre de 3 200 milliards de tonnes n’est-il jamais cité alors qu’il est central ?

Deux réponses peuvent être apportées à ces questions, l’une étant technique, et l’autre clairement politique.

La première tient au fait que les spécialistes de l’atmosphère emploient lorsqu’ils traitent du CO2 et des autres éléments qui la composent une autre unité de mesure que la tonne. Ils ne parlent pas en masse mais en concentration, et plus précisément en « parties par million » ou « ppm ». C’est ainsi que l’on voit partout dans la littérature scientifique et dans les rapports du GIEC que la présence du CO2 dans l’atmosphère s’élève aujourd’hui aux alentours de 410 « ppm », mais nulle part que la masse de celui-ci atteint le chiffre considérable de 3 200 milliards de tonnes, le coefficient de correspondance entre les deux unités que personne ne conteste étant de 7,8.

Mais l’absence dans les communiqués du GIEC du mot « tonne » a une autre raison. La simple mention de ces 3 200 milliards de tonnes permettrait immédiatement de mesurer l’inanité de la réduction de nos émissions que le GIEC nous supplie de faire page après page dans ses multiples documents (fig. 1).

Une question se pose d’ailleurs à laquelle la réponse n’est pas évidente. Lorsqu’ils mesurent avec des unités différentes les émissions de CO2 d’une part, et la masse du même produit dans l’atmosphère d’autre part, ce qui empêche de les mettre en parallèle, les auteurs des communiqués et autres documents du GIEC le font-ils sciemment ? Savent-ils seulement que la masse du CO2 atmosphérique s’élève à 3 200 milliards de tonnes, donnée élémentaire en l’absence de laquelle il est impossible de comprendre quoi que ce soit aux phénomènes climatiques ? On pourrait penser qu’ils cachent la vérité en toute connaissance de cause. Mais ce n’est même pas sûr, tant ceux qui affirment parler « au nom de la science » sont imperméables à celle-ci, quelle que soit d’ailleurs leur formation.

C’est pourtant cette absence de rapprochement entre le flux et le stock qui a changé le monde depuis 30 ans en l’engageant sur la voie d’une impossible « transition énergétique et écologique ».


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SIX MILLIONS DE MORTS

Quant aux pays en voie de développement qui refusent obstinément de réduire leurs émissions, il faut les comprendre.


 


Chacun sait qu’en octobre et novembre 2022, des jeunes ont arrosé de divers produits des toiles de peintres célèbres à Londres, la Haye, Berlin, Rome, Vienne, et ailleurs dans le monde, pendant que d’autres bloquaient des autoroutes ou commettaient des actes délictueux de diverses natures avec pour motivation le slogan « Just Stop oil », Halte au pétrole !


 


On aurait pu croire qu’il s’agissait là d’actes repréhensibles si le Secrétaire Général des Nations-Unies n’en avait disculpé leurs auteurs en déclarant après en avoir pris connaissance : « Les activistes du climat sont quelquefois décrits comme des radicaux dangereux, mais les véritables radicaux dangereux sont les pays qui accroissent le recours aux énergies fossiles ».


 


Cette déclaration conduirait à s’interroger sur la connaissance du dossier qui règne au sein des plus hautes instances censées œuvrer pour le bien de l’humanité si la réponse n’était claire. Celles-ci ignorent tout de la réalité du monde qui est le nôtre.


 


Car qui sont les pays qui ne cessent d’accroître leur recours au charbon, au pétrole ou au gaz naturel ? Là aussi, les chiffres sont nécessaires et ils sont sans appel. En 2004, les pays riches, membres de l’OCDE, émettaient 13,5 millions de tonnes de CO2 annuellement, c’est-à-dire exactement autant que les pays en développement qui regroupaient les quatre cinquièmes de l’humanité. Dix-sept ans plus tard, en 2021, les pays de l’OCDE ont émis 12,4 millions de tonnes de CO2 ( – 8 %) et les pays en développement 20,6 millions de tonnes (+ 50 %).


 


Autrement dit, si l’on en croit le Secrétaire Général des Nations-Unies, les véritables « radicaux dangereux » les « activistes du climat » sont les pays pauvres, les Africains, les Indiens, les Indonésiens, les Vietnamiens ou les Chinois, ceux qui s’efforcent de faire sortir leur population d’une misère souvent sordide et aux conséquences dramatiques.


 


Les instances internationales demandent en effet instamment aux pays en développement de réduire leurs émissions puisque ce sont eux qui sont désormais les plus grands émetteurs, et les effets potentiels de ces demandes sont tragiques car ils mettent en jeu la vie et la mort de millions d’enfants, de femmes et d’hommes.


 


C’est qu’il existe une relation directe entre quatre phénomènes intimement liés : l’accès à l’énergie ; les émissions de CO2 ; la prospérité, et enfin l’espérance de vie comme en témoigne le graphique de la figure 2.


 


Mais jamais les Nations-Unies et le GIEC n’ont interrogé un instant l’impact sur la vie et la mort des êtres humains de leurs demandes adressées aux pays en développement de renoncer aux énergies fossiles, apportant s’il en était besoin la preuve de leur absence d’intérêt pour le sort de l’espèce humaine à côté de celui qu’ils portent à la planète, à sa faune et à sa flore qui mobilisent toute leur attention.


 


La France contribue d’ailleurs à ce dévoiement des choses par sa politique de coopération puisque l’Agence Française de Développement (AFD) a placé en tête des critères d’attribution des quelques 9 milliards d’euros dont elle dispose annuellement l’illusoire lutte contre le réchauffement climatique, au nom de laquelle elle gaspille notre argent et refuse catégoriquement de financer tout projet portant sur des centrales thermiques à charbon ou à gaz qui fourniraient pourtant aux centaines de millions d’habitants des populations concernées l’électricité dont elles ont dramatiquement besoin et dont elles resteront privées au détriment de la vie de leurs enfants. Mais, témoin de l’inversion des valeurs ambiantes, l’AFD est fière d’avoir contribué à la sauvegarde des rhinocéros d’Asie. Il faut dire que l’AFD n’est pas seule puisqu’un tel dévoiement relève d’une politique commune aux pays développés, en l’occurrence mortifère. Croyant bien faire, ils tuent.


 


La vérité est tout autre, telle qu’elle est résumée par le manifeste « Poor people lives matter » publié dans l’un de mes précédents ouvrages1, qu’il convient de reproduire ici car il dit l’essentiel :


 


1 – Il n’y a pas de sortie de la pauvreté et de prospérité sans énergie. Les habitants des pays développés émettent chacun en moyenne 10 tonnes de CO2 par an, ceux des pays à revenu intermédiaire 3,7 tonnes, et ceux des pays les moins avancés 0,3 tonne.


 


2 – La faiblesse de l’accès à l’énergie dans les pays en développement a des conséquences dramatiques sur l’espérance de vie. Dans les pays les plus pauvres, celle-ci n’excède guère plus de 50 ans contre plus de 80 dans les pays développés. Chaque année, six millions d’enfants et de jeunes meurent ainsi prématurément dans les pays en développement alors qu’ils auraient vécu s’ils étaient nés dans un pays développé.


 


3 – Les énergies fossiles répondent aujourd’hui à 80 % des besoins de l’humanité, et resteront très majoritaires au cours de nombreuses décennies futures. Contrairement aux affirmations répétées du GIEC, les énergies renouvelables ne pourront répondre en 2050 à l’essentiel des besoins de l’humanité, mais seulement à une fraction marginale de ceux-ci.


 


4 – Le recours aux énergies fossiles s’accompagne nécessairement de rejets de CO2 dans l’atmosphère, et il n’existe actuellement et pour longtemps aucun moyen de réduire ceux-ci de manière significative, ni de prélever le CO2 dans l’atmosphère.


 


5 – Le stock de CO2 atmosphérique s’élève aujourd’hui à 3 200 milliards de tonnes. Désormais minoritaires, les flux des pays développés n’accroissent celui-ci que de 5 milliards de tonnes par an, soit de l’ordre de 1/600e. Les efforts que les pays développés, et surtout l’Europe, déploient et les sommes considérables qu’ils dépensent pour réduire leurs émissions ne peuvent avoir aucun effet significatif sur le stock du CO2 et a fortiori sur le climat si celui-ci en dépend, et sont donc des gaspillages.


 


6 – La demande sans cesse adressée par les pays riches et par le GIEC et l’ONU aux pays en développement de ne pas accroître leurs émissions de CO2, voire de réduire celles-ci, aurait pour conséquences des millions de morts si elle était suivie d’effet.


 


7 – Depuis le sommet de Rio de 1992, l’expérience a montré que les émissions mondiales de CO2 n’ont cessé d’augmenter, traduisant la sortie de la pauvreté de nouveaux pans de l’humanité.


 


8 – Réunion après réunion, les pays en voie de développement refusent de renoncer au charbon et aux autres énergies fossiles, montrant qu’ils sont conscients qu’ouvrir une mine de charbon, ou forer des puits de pétrole ou de gaz naturel, c’est sauver des vies.


 


9 – La politique mondiale de l’énergie et de l’environnement devrait avoir comme priorité la vie des hommes, des femmes et des enfants, qui n’a pas été prise en compte pour l’instant par les instances mondiales.


 


10 – Lorsque des inondations provoquent une centaine de morts dans un pays occidental, le monde entier s’émeut à juste titre. Lorsque des millions d’enfants, de femmes et d’hommes meurent chaque année dans les pays pauvres parce qu’ils n’ont pas accès aux bienfaits de l’énergie, l’indifférence règne. La douleur d’une mère ou d’un père qui perd son enfant est pourtant la même.


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* *


Il ne faut donc pas s’étonner que, lors de la « COP 26 » de Glasgow de novembre 2021, confirmée par celle de Charm El Cheikh en 2022, les pays en voie de développement aient catégoriquement refusé à l’initiative de l’Inde d’avaliser la perspective de cesser (phase out) d’avoir recours au charbon pour adopter un texte préconisant seulement de réduire progressivement (phase down) son utilisation, ce qui n’engageait personne à rien2.


Il faut dire que l’Inde avait décidé la même année d’ouvrir 108 nouvelles mines de charbon, la nature l’ayant dotée de gisements parmi les plus importants du monde. S’il en était besoin, la comparaison avec la Chine aurait suffi à convaincre le premier ministre indien d’agir ainsi. Certes, l’Inde émet quatre fois moins de CO2 que la Chine mais, avec une population voisine, elle porte en terre chaque année 1 million d’enfants et de jeunes contre moins de 200 000 en Chine du fait des progrès fulgurants de ce pays grâce à une électricité abondante (fig. 3).


 


Comme l’avait déclaré le Premier Ministre Narendra Modi en 2015 :


 


« L’Inde compte 280 millions d’habitants, soit presqu’autant que la population des États-Unis, qui sont entièrement privés d’électricité, et plus encore qui n’en ont que très partiellement. Plus de 500 millions d’Indiens n’ont pas accès à des sources d’énergie propres pour faire la cuisine, et des centaines de milliers de femmes et d’enfants en meurent chaque année… Chacun veut protéger la planète, mais il faut comprendre ce qu’est l’agonie de la pauvreté et de la mort, et la souffrance de ceux qui ne peuvent payer l’énergie dont ils auraient besoin ».


 


Qu’ajouter d’autre ?


ALLONS-NOUS À LA CATASTROPHE ?

Allons-nous alors à la catastrophe ? Si l’on en croit le GIEC, la réponse ne fait aucun doute comme en témoignent de nombreux extraits de son communiqué de référence d’août 2021 qui méritent d’être cités.


 


« Beaucoup des changements du climat observés sont sans précédent au cours des milliers, voire des centaines de milliers d’années écoulées et certains des changements en cours, tels que la montée continue du niveau de la mer, seront irréversibles pendant des centaines ou des milliers d’années… ».


 


« Le rapport montre que les émissions de gaz à effet de serre résultant des activités humaines sont responsables d’une hausse d’environ 1,1°C depuis les années 1850-1900, et trouve qu’au cours des vingt prochaines années on s’attend à ce que l’échauffement atteigne ou dépasse 1,5°C… ».

« Pour un réchauffement de 1,5°C, il y aura des vagues de chaleur plus importantes, des saisons chaudes plus longues, et des saisons froides plus courtes… »

« Avec une hausse de 2°C, les chaleurs extrêmes atteindraient des seuils de tolérances critiques pour l’agriculture et la santé publique »

« Il ne s’agit pas seulement de températures. Avec la hausse de celles-ci, de multiples changements s’accélèreront dans des domaines incluant l’humidité, la sécheresse, les vents, la neige et la glace, la chaleur, la pluie, les océans, les inondations des zones côtières, et plus encore, avec ce que tout ceci signifie pour la société et les écosystèmes… ».

« Pour les villes, certains aspects du changement climatique pourraient être amplifiés, incluant leur chaleur puisque celle-ci y est déjà plus élevée que dans leurs environs, avec des inondations résultant de précipitations massives ainsi que de l’élévation du niveau de la mer pour les villes situées sur les côtes… ».

La liste pourrait être poursuivie sans fin ou presque, laissant présager un avenir apocalyptique, et le dossier pourrait être considéré comme clos si deux considérations ne le mettaient en cause.

Le GIEC parle tout d’abord avec effroi de la perspective d’une hausse de 1,5°C de la température du globe, et c’est ce chiffre que l’on retrouve sans cesse repris par les médias et les responsables du monde entier. Mais le GIEC prend comme référence les années 1850-1900. Lorsqu’il écrit dans le texte d’origine qui est en anglais : « Averaged over the next 20 years, global temperature is expected to reach or exceed 1,5 C of warming », chacun comprend que la température va s’élever de 1,5°C au cours des deux décennies à venir puisque c’est ce qui est écrit. Or il s’agit d’une contrevérité manifeste puisque la hausse survenue depuis le 19e siècle a déjà été de 1,1°C et qu’il faut donc les soustraire des 1,5 degré annoncés. Une présentation honnête aurait parlé de 0,4 degré au cours des 20 ans à venir et non de 1,5. Mais qui aurait pu croire alors un instant que la litanie des catastrophes annoncées puisse résulter d’une hausse de la température terrestre de 0,4°C ?

Les sondages montrent (IFOP mai 2022) que près des trois quarts (72 %) des Français ignorent entièrement que la référence de 1,5 C°, chiffre sans cesse présenté partout dans le monde comme un épouvantail, remonte au XIXe siècle.

Avoir réussi à transformer 0,4 en 1,5 est l’un des travestissements de la réalité des plus évidents du GIEC. L’année 1850 correspondait à la fin du « petit âge glaciaire » médiéval et, puisque nous bénéficions actuellement d’un « optimum climatique », il n’y a rien d’anormal à ce que la température soit légèrement plus élevée aujourd’hui de 1,1 degré que ce qu’elle était il y a plus d’un siècle et demi.

Pourquoi d’ailleurs n’avoir pas pris comme référence la température des dernières années du règne de Louis XIV qui aurait permis d’afficher des chiffres bien plus élevés ? Il aurait été possible d’évoquer 2,5 C° de hausse, voire plus encore… qui sait ?

La tromperie ne s’arrête pas là. Toute la communication du GIEC depuis 2021 laisse entendre que tout s’est dangereusement aggravé depuis le précédent rapport de 2015, ainsi qu’en témoigne le titre même de son communiqué de presse qui ne laisse pas place au doute : « Climate change widespread, rapid, and intensifying ». Or, contrairement à toute attente, il s’agit là d’un mensonge caractérisé.

Cette affirmation pourrait me valoir un procès si elle ne s’appuyait à nouveau sur des chiffres que retracent des graphiques dont la conclusion est sans appel (fig. 4 à 9). Sur aucun des 7 domaines examinés, il n’est possible de trouver la moindre tendance négative depuis le précédent rapport du GIEC de 2015, qu’il s’agisse de l’évolution de la température terrestre, du niveau des mers, du volume des précipitations, de la fréquence des inondations et des tempêtes ou des cyclones, voire de l’évolution des glaces de l’Arctique.

Partout, c’est la stabilisation qui domine, y compris dans les deux domaines auxquels se réfère sans cesse le GIEC pour accréditer la peur, ceux de la température terrestre et du niveau des mers qui méritent tous deux un examen particulier.

LA TEMPÉRATURE TERRESTRE

Le moins que l’on puisse dire, c’est que l’évolution de la température terrestre au cours des sept années aujourd’hui écoulées depuis le précédent rapport du GIEC et le fameux « Accord de Paris » de 2015 laisse sans voix (fig. 4). Contrairement à ce qui ne cesse d’être clamé et répété sur tous les tons, il est impossible d’y voir le moindre signe de hausse. S’il y avait une tendance à déceler, celle-ci serait même plutôt à la baisse 

Comme les données sont disponibles mois par mois sinon jour par jour, et que chacun peut les consulter sur internet, les responsables du communiqué du GIEC d’août 2021 ne pouvaient évidemment les ignorer. Pourquoi ont-ils donc sciemment et scandaleusement travesti la réalité en titrant que le réchauffement ne cessait de s’accélérer (faster warming) ?

C’est que le climat a toujours varié. Certes, la température moyenne de la surface du globe s’est accrue de 1,1°C depuis 1850 passant de 13,7 à 14,8 degrés, croissance d’ailleurs modeste en 170 ans. Mais il ne s’est jamais agi d’un long fleuve tranquille comme en témoigne la succession de phases alternant hausses et baisses constatée depuis lors : hausse de 1850 à 1900 ; baisse de 1900 à 1910 ; hausse de 1910 à 1945 ; baisse de 1945 à 1975 ; hausse de 1975 à 1998, stagnation de 1998 à 2008 ; hausse de 2008 à 2015 ; légère baisse depuis 2015, sans compter les fluctuations d’une année sur l’autre sinon d’un mois sur l’autre au sein de chacun de ces épisodes. Et ces hausses ou ces baisses se chiffrent en quelques dixièmes de degrés seulement et sont imperceptibles et sans rapport aucun avec les évènements météorologiques survenant par exemple en Europe.

Mais au total, il n’y a de quoi affoler personne. De 1910 à 1945, la température terrestre moyenne s’était ainsi élevée de 0,6 degré en 35 ans, alors que de 1945 à nos jours, la hausse n’a pas dépassé également 0,6° degré en plus de trois quarts de siècle, et qu’elle stagne aujourd’hui depuis près de dix ans3. Sur une échelle de 0 à 20 degrés, de telles variations sont d’ailleurs à peine visibles sinon imperceptibles.

Bien entendu, le lecteur français, qui entend parler tous les jours à satiété de sécheresses, de vagues de chaleur, d’inondations ou de tornades, toutes conséquences affirmées du « Réchauffement climatique » ne peut manquer d’être stupéfait de prendre connaissance de la stagnation de la température terrestre enregistrée depuis maintenant sept ans.

C’est que la France ne représente qu’1/1000e environ de la surface du globe, et que ce qui se passe sur son territoire n’est pas représentatif de la moyenne mondiale que traduisent par exemple les satellites d’observation qui sillonnent le ciel depuis maintenant plus de 40 ans. Et tous les Français savent que ce qui se passe dans le Nord ou l’Ouest de leur pays ne survient pas nécessairement dans le Sud ou l’Est ; la différence moyenne de température entre Lille et Marseille étant d’ailleurs de 5 degrés. Qu’il y ait par moment des évènements météorologiques sans précédents connus, en France comme ailleurs, n’est pas discutable, mais ils ne sont en rien représentatifs de la situation mondiale d’ensemble, même si personne ne nie que l’Europe ait particulièrement bénéficié d’une hausse de température depuis le milieu du siècle dernier, l’hémisphère Nord se réchauffant plus amplement que le Sud

La perversion du GIEC va d’ailleurs très loin si l’on en juge par l’invraisemblable courbe de l’évolution de la température du globe au cours des deux derniers millénaires publiés dans le Résumé à l’intention des décideurs de son rapport de 2021 (fig. 11).

Cette évolution est bien connue et répertoriée, notamment grâce aux travaux de l’historien français Emmanuel Le Roy Ladurie, référence mondiale s’il en est, et qu’il convient de citer (extraits de Vie Publique – 2019) :

« Pour sa part, l’époque romaine a bénéficié entre 200 avant Jésus-Christ et 200 après Jésus-Christ d’un optimum avec un climat à peu près similaire à celui du XXe siècle.

Ensuite, à l’époque mérovingienne, une glaciation modérée a vu le jour vers l’an 500 avant un nouvel optimum connu sous le nom « d’optimum climatique médiéval » survenu entre 900 et 1300, qui fut contemporain de défrichements importants et d’un essor démographique notable. Ce fut l’époque où les Vikings colonisèrent une région qu’ils baptisèrent Groenland (Terre verte) et y élevèrent leurs troupeaux.

Plus proche de nous, un petit âge glaciaire s’ouvre au XIVe siècle et se termine au milieu du XIXe siècle. La grande famine de 1340 fut la conséquence de plusieurs étés pourris consécutifs. A partir de 1570 les glaciers alpins progressent fortement, quelquefois de plus de 40 mètres par an, et leur expansion repousse leurs limites à plus d’un kilomètre de leurs extrémités actuelles. A la fin du XVIe siècle, à Chamonix, la Mer de Glace atteint et détruit ainsi des hameaux voisins.

Provoquée par les pluies, la famine de 1693 fit 1,3 million de morts du temps de Louis XIV sur 20 millions de Français. Un peu plus tard, l’hiver 1709 fut l’un des plus froids jamais connus en Europe, ce qui provoqua près de 600 000 nouveaux morts dans notre seul pays.

Non seulement les fleuves mais la mer gelaient comme en témoigne l’épisode de la prise de la flotte hollandaise par la cavalerie française à la fin du XVIIIe siècle.

A partir des années 1850-1860, sous l’influence de belles années chaudes, c’est la fin du petit âge glaciaire avec un nouvel optimum. Dans la période plus contemporaine, le climat se réchauffe… ».

Autrement dit, le climat a toujours changé. Les observations de notre grand historien national étaient d’ailleurs avalisées par le premier rapport du GIEC en date de 1990, et que contredit celui de 2021. (fig. 10).

Le fait que l’accroissement de la teneur en CO2 de l’atmosphère n’ait pas d’effet sur la température terrestre tient à un phénomène qualifié de « rideau noir ». Il suffit en effet d’une teneur modérée en CO2 pour bloquer toute une partie (fréquences de 14 à 16 microns) du rayonnement réémis par la Terre vers l’espace lorsque celle-ci est frappée par les rayons solaires. Grâce notamment à ce blocage, notre planète est nettement plus chaude qu’elle le serait s’il n’existait pas.

Mais, à partir du moment où ces rayonnements sont entièrement bloqués, le fait d’accroître la concentration de CO2 ne peut avoir aucun effet. Lorsque l’on met un rideau noir devant une fenêtre pour bloquer la lumière, superposer un second rideau au premier ne change rien, ce qu’explique très bien Steven E. Koonin dans son livre4.

Le Sahara et la Côte d’Ivoire apportent par ailleurs une preuve du faible rôle du CO2 en regard de celui de la vapeur d’eau (H2O). Les deux pays enregistrent des ensoleillements voisins et leur atmosphère contient la même concentration de CO2. Pourtant, seul le Sahara connaît des variations thermiques extrêmes entre le jour et le nuit.


2 MILLIMÈTRES OU 15 MÈTRES ?

S’agissant du niveau des océans, la falsification de la réalité est tout aussi manifeste.

Le rythme moyen d’accroissement du niveau des mers enregistré depuis 1900 a été légèrement inférieur à 2 millimètres par an. Comme l’avait constaté le GIEC dans son cinquième rapport de 2015, aucune tendance à l’accélération de ce rythme n’a pu être mis en évidence, même si par moment celui-ci excède 3 millimètres par an pour ne pas dépasser 1 millimètre dans d’autres périodes. Les auteurs de ce document concluaient ainsi : « Entre les années 1993 et 2010, le rythme mondial de la hausse du niveau des eaux a été très probablement en moyenne de 3,2 millimètres par an, mais le même rythme de 3,2 millimètres par an avait probablement eu également lieu entre 1920 et 1950, avant de diminuer ensuite. » Autrement dit, il s’agit probablement de variations cycliques, phénomène bien connu sous le nom de AMO (Atlantic Multidecaded Oscillation).

Pourtant le GIEC, dans son sixième rapport daté d’août 2021 élaboré sous la co-présidence de la Française Valérie Masson-Delmotte a affirmé sans aucune preuve et en choisissant à dessein des années arbitraires par une démarche typiquement a-scientifique, que le rythme de hausse des océans s’accroissait soudainement dramatiquement. Ce rapport est allé jusqu’à évoquer la possibilité d’une élévation des océans de 15 mètres d’ici trois siècles dans l’hypothèse d’un scénario qui verrait les émissions de CO2 tripler comme si les énergies fossiles étaient inépuisables (fig. 16) ! C’est cette affirmation qui a fait le tour de la planète en impressionnant les responsables politiques et les médias du monde entier, chacun s’interrogeant avec compassion sur le sort du milliard d’habitants menacés d’exil, alors que la vérité veut que la hausse du niveau de la mer soit inexistante à l’échelle de nos vies humaines. À son rythme actuel, il faudrait 7 500 ans pour qu’elle atteigne 15 mètres…

Les méthodes dégradantes employées pour travestir cette réalité ont été analysées dans l’un de mes précédents ouvrages5.

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La voie du déclin

Avant de tenter de chiffrer ce que coûte à l’économie française sa contribution à l’illusoire « transition énergétique », il convient de rappeler les précédentes pages qui ont décrit combien cette dernière relevait de l’impossible. Celles-ci ont en effet montré que tous les efforts que pouvaient faire l’Union Européenne, seule au monde à vouloir réellement agir, ne pouvaient avoir le moindre effet significatif sur l’évolution de la masse du CO2 atmosphérique, et donc sur le climat s’il dépendait d’elle.

A fortiori en va-t-il de même de notre pays, dont les émissions s’élèvent au dixième de celles de l’Union Européenne. A fortiori en est-il plus encore de même pour celles qui émanent de chacune de ses entreprises, de chacune de ses collectivités et de chacun de ses 67 millions de citoyens et de citoyennes, contrairement à ce qui leur est chaque jour répété, et aux foisonnantes dépenses et contraintes dénuées de toute justification qui leur sont imposées.

Au sein de la longue liste des mesures que rien ne justifient deux méritent tout d’abord d’être citées.

La première est celle de la demande adressée à chaque collectivité, chaque entreprise et même chaque citoyen d’établir son « bilan carbone ». Cette demande est profondément perverse et culpabilisatrice car elle laisse clairement entendre que ceux à qui elle s’adresse peuvent avoir une influence sur un phénomène qui les dépasse entièrement, et sont donc coupables s’ils n’agissent pas pour « sauver la planète » alors qu’il n’en est rien. Pourquoi pas des « bilans » acier, aluminium, ciment, viande, légumes etc. ?

Dans le même ordre d’idées, il faut citer la « taxation du carbone », présentée depuis des lustres par de multiples économistes de renom, y compris des Prix Nobel, comme étant « la » solution permettant de ramener l’humanité sur le droit chemin, celui de la sobriété énergétique. Manifestement aucun de ceux qui préconisent cette mesure ne s’est jamais demandé quelle était la masse du CO2 atmosphérique et dans quelle mesure une telle taxation pourrait avoir la moindre efficacité à son égard, ce qui lui aurait permis de constater immédiatement son entière inutilité.

L’Union européenne ne vient-elle pas pourtant de décider en décembre 2022 sans avoir procédé à cette investigation élémentaire, d’instaurer une « taxe carbone » à ses frontières ?

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Parmi la multitude des secteurs d’activité qui sont frappés par l’avalanche des dépenses inutiles, quelques-uns justifient maintenant un examen particulier par l’ampleur de l’impact qu’ils subissent et de ses conséquences pour les finances publiques et privées.


1. Les Douze Mensonges du GIEC. La religion écologiste 2, Ch. Gerondeau, Éd. de l’Artilleur.

2. Les Douze Mensonges du GIEC, op. cit.

3. Impasses climatiques, François Gervais, Éd. de l’Artilleur.

4. Climat. La part d’incertitude, Steven E. Koonin, Éd. de l’Artilleur.

5. La Voiture électrique et autres folies. La religion écologiste 3, Ch. Gerondeau, Éd. de l’Artilleur.

1

L’industrie automobile

L’Union Européenne vient ainsi de décider qu’à compter du 1er janvier 2035, seules seraient autorisées à la vente les voitures électriques, celle des voitures neuves à moteur thermique, essence ou diesel, étant interdite au prix d’un bouleversement complet de ce qu’il convient d’appeler la « mère des industries » car l’industrie automobile est celle qui domine et entraîne toutes les autres comme en témoignent son chiffre d’affaires et ses emplois.


 


Les citoyens européens sont sans doute persuadés qu’avant de prendre une telle décision capitale pour l’avenir, au nom de la « défense de la planète », les instances communautaires et les gouvernements des 23 pays qui composent l’Union avaient demandé que soit chiffré l’impact potentiel de ce bouleversement sur le climat.


 


Mais il ne faut pas rêver. Il n’est pas venu à l’esprit d’un seul des responsables concernés de formuler une telle requête. Puisque cette question centrale n’avait jamais fait l’objet de la moindre interrogation s’agissant de l’ensemble des émissions de CO2 du Vieux Continent, pourquoi aurait-elle été posée pour l’une de leurs composantes ? Il n’aurait pourtant pas été difficile de constater que la circulation des voitures sur les routes européennes engendrait 16 % des rejets annuels totaux de CO2 émanant de l’Union, soit 1/12 000e de la masse de celui-ci dans l’atmosphère et que, pas plus que les autres mesures envisageables, leur suppression complète, au demeurant illusoire, ne pouvait avoir la moindre influence perceptible sur celle-ci et donc sur le climat s’il dépendait d’elle.


 


Il faut ajouter que, si les autorités politiques européennes et nationales n’ont pas pris la peine de procéder à l’évaluation du bien-fondé de la mesure capitale qu’ils ont prise, il en a été de même du secteur industriel concerné, pourtant le plus puissant de tous mais paralysé lui-même par la doxa régnante. Celui-ci dispose pourtant de centaines de milliers d’ingénieurs de talent dont aucun n’a été chargé de se pencher sur le dossier central de l’absence de tout impact sur le climat de la mesure prise, et dont les conséquences de la mise en œuvre seraient multiples si elle était menée à son terme comme en témoigne une longue litanie.


 


Car la liste des aspects négatifs de la voiture électrique est longue. Tout d’abord, celle-ci est loin de ne pas émettre de CO2 alors que c’est là le motif premier avancé par les instances européennes pour justifier sa généralisation. Non seulement sa fabrication et celle de ses batteries de 400 kilos en moyenne en engendrent de grandes quantités, mais la suite de ce document montrera pourquoi, dans les pays qui ne sont pas dotés massivement de réacteurs nucléaires ou de ressources hydrauliques, et sont donc de loin le plus grand nombre, la majeure partie de l’électricité qu’elles utiliseront sera nécessairement issue de centrales à charbon ou à gaz, réduisant à néant ou presque ce qui est présenté comme l’atout majeur des véhicules électriques. Une voiture électrique émet alors bien souvent au cours de sa vie autant de CO2 au total qu’une voiture diesel.


 


La généralisation de la voiture électrique se heurterait à un autre obstacle curieusement révélé par Elon Musk lui-même. La recharge de leur batterie ne pose pas de problème insoluble pour les trajets quotidiens urbains et périurbains, mais il en va tout autrement quand il s’agit de « grands départs » qui engendrent des flux de dizaines ou de centaines de milliers de voitures sur les grandes autoroutes interurbaines. Elon Musk lui-même a dû demander aux possesseurs de ses « Tesla » de renoncer à prendre celle-ci lors des migrations qui accompagnent traditionnellement la fête de Thanksgiving aux États-Unis, car il était incapable d’assurer leur recharge normale, alors même que les voitures électriques ne représentent aujourd’hui guère plus de 1 % du parc automobile américain1 ! Les calculs montrent d’ailleurs que, dans l’hypothèse de la généralisation de la motorisation électrique, il faudrait équiper l’autoroute française de la vallée du Rhône de près de 5 000 bornes de recharge tous les 100 kilomètres. Et lorsque souffle le Mistral, ce qui est le cas un jour sur trois, et que la consommation aux 100 km des véhicules qui l’affrontent explose alors littéralement, le problème devient pratiquement insoluble… !


 


Pourquoi également imposer à tous l’achat de voitures qui coûtent par nature 50 % de plus que leur équivalentes à moteur essence ou diesel au grand détriment de notre industrie et ceci au bénéfice de celle des constructeurs chinois, les mettant hors de portée d’une grande partie de nos concitoyens, alors que la démocratisation de l’automobile a été l’une des conquêtes majeures de la seconde moitié au XXe siècle ?


 


C’est pourquoi, en définitive, tout conduit à penser que la généralisation de la voiture électrique ne se produira pas faute d’acheteurs, nos concitoyens français et européens continuant si nécessaire à garder leurs véhicules à moteur thermiques aussi longtemps que les autorités européennes ne seront pas revenues sur cette décision aussi irréfléchie qu’infondée et néfaste à nos emplois. La forte hausse du prix des véhicules d’occasion constatée en Europe en 2022 conduit d’ailleurs à se demander si le mouvement n’est pas amorcé.


 


Il n’est pas possible enfin de passer sous silence le fait que les taxes sur les carburants constituent l’une des grandes ressources des finances publiques pour un montant de l’ordre de 30 milliards d’euros par an en France, à l’inverse des subventions versées aux acquéreurs des véhicules électriques qui atteignent aujourd’hui jusqu’à 8 000 euros ce qui aboutirait à 16 milliards d’euros pour des ventes annuelles de 2 millions d’unités. Par quoi faudrait-il remplacer cette source majeure de revenu dont l’ampleur traduit celle des services rendus par l’automobile ? Personne ne le sait.

Et tout ceci pour rien.

1. La Voiture électrique et autres folies. La religion écologiste 3, op. cit.

2

Les transports, désastre financier

Il est un autre domaine majeur où la croyance que nous pourrions avoir une quelconque influence sur la masse du CO2 atmosphérique est très lourde de conséquences, il s’agit de celui des transports. Dans l’illusion de « sauver la planète » il faudrait systématiquement donner la priorité aux transports publics et en commun au détriment de la voiture individuelle, et au transport des marchandises par le rail plutôt que par les camions. Là aussi, les chiffres sont sans appel, qu’il s’agisse des choix de nos compatriotes ou de l’impact sur nos finances publiques.


 


Pour l’opinion publique, les transports terrestres se répartissent plus ou moins à part égale entre la voie ferrée et les transports collectifs d’une part, et les transports individuels, automobiles et camions d’autre part. La réalité est très différente.


 


À la question « Êtes-vous un conducteur régulier ? » 84 % des Français et des Françaises répondent positivement, la proportion atteignant 95 % pour les habitants de province d’âge actif (IFOP ; décembre 2018), et la majorité des autres ayant accès à la voiture comme passagers. Celle-ci a remplacé les deux-tiers des déplacements que nos ancêtres faisaient à pied, et ceci pour un coût étonnamment faible sinon dérisoire puisqu’il s’établit en moyenne aux alentours d’un euro seulement par trajet et par personne, du fait notamment que, contrairement à la plupart des autres modes de transport, le conducteur du véhicule n’est pas rémunéré, mais gratuit1. Seuls 4 % des Français n’ont pas accès à la voiture et déclarent en souffrir.


 


L’automobile assure ainsi en France 90 % des déplacements motorisés de personnes, et les camions répondent pour leur part à 99 % des dépenses de transports de marchandises sur le territoire national, le fret ferroviaire ayant pratiquement disparu.


 


Les choix ainsi effectués par les particuliers et les entreprises sont conformes à l’intérêt général car les différents modes de transport ne sont pas des vases communicants. Pour la grande majorité des trajets, l’automobile est irremplaçable comme l’a rappelé l’épisode des gilets jaunes, car les origines et les destinations des trajets sont la plupart du temps très dispersées ce qui explique qu’elle n’ait pas d’alternative réaliste hors des centre-villes. La distance moyenne des trajets quotidiens en voiture est en outre de 10 kilomètres, contre 3 pour le vélo et moins de 1 pour la marche à pied. Quant aux transports collectifs, ils ne conviennent qu’aux zones très denses qui ne regroupent qu’un dixième de la population nationale, notamment dans la région capitale où personne ne conteste leur rôle central.


 


S’agissant par ailleurs du choix quasi-unanime de la voie routière pour le transport des marchandises, celui-ci découle de la pratique par les entreprises du « juste à temps » qui a été un facteur central de l’accroissement de la productivité des économies développées, et de la demande par les particuliers d’être livrés en un à quelques jours et parfois moins encore, au lieu des semaines et des mois qui étaient autrefois la règle.


 


Mais les pouvoirs publics n’ont pas pris conscience de ces réalités et persistent depuis des décennies sous l’influence de multiples groupes de pression à considérer les transports collectifs comme « le bien » et les transports individuels comme « le mal », culpabilisant ainsi plus de 90 % des Français, l’argument de l’illusoire lutte contre le changement climatique étant venu récemment renforcer leurs convictions.


 


Les pouvoirs publics en sont ainsi restés au XIXe siècle, comme en témoigne la décision de relancer à grands frais des trains de nuit ou des « autoroutes ferroviaires » de transport de fret, bien que toutes les tentatives correspondantes aient connu l’échec en France et en Europe, à l’époque de la voiture, du camion, et de l’avion.


 


Il en résulte de très lourdes conséquences pour les finances publiques. Les transports ferrés et publics qui ne répondent qu’à une fraction minime des besoins du pays coûtent depuis des décennies chaque année sans raison 24 milliards d’euros au moins aux finances publiques. Au fil des années, ils ont été à l’origine du quart de l’endettement national actuel !


 


Sans justification du fait de la disparition récente de la pollution toxique de l’air en Occident, (fig. 12) la politique « anti-voiture » largement à la mode dans nos agglomérations et nos campagnes méprise et culpabilise sans raison le plus grand nombre de nos concitoyens, qui ne peuvent se passer de l’automobile pour leurs déplacements.


 


Et l’engouement irréfléchi pour les transports ferrés atteint parfois des sommets comme en témoigne l’annonce faite le 27 novembre 2022 par le Président de la République Emmanuel Macron de doter 10 métropoles de province de « Réseaux Express Régionaux » (RER) analogues à celui de l’Ile-de-France. Ayant été au début de ma carrière l’auteur de ce qui est désormais de loin le premier réseau de transport public de l’Europe dont j’ai bouleversé les plans en créant les lignes B et C2, je puis témoigner qu’il a fallu cinquante ans et des dizaines de milliards d’euros de notre époque pour le réaliser ensuite.


 


Je puis aussi témoigner que sa ligne centrale, Est-Ouest, dénommée Ligne A, transporte largement plus d’un million de passagers par jour ouvrable, c’est-à-dire autant que l’ensemble des 260 lignes ferrées des Transports Express Régionaux (TER) qui sillonnent aujourd’hui la province et dont l’immense majorité circule pratiquement à vide. C’est ce qu’avait relevé le rapport « Spinetta » – immédiatement oublié – qui leur fut largement consacré il a quelques années, et ceci malgré des subventions qui excèdent le total astronomique de 4 milliards d’euros par an, qui font aujourd’hui partie des sommes essentiellement inutiles dépensées dans l’illusion de « sauver la planète ».


 


C’est qu’il n’y a nulle part en province l’équivalent de l’Ile-de-France et de ses 12 millions d’habitants, et donc de potentiel pour d’illusoires « Réseaux Express Régionaux » dont la caractéristique majeure est d’offrir de très grandes capacités qui ne correspondent à aucune demande dans notre pays en dehors de l’Ile-de-France, comme le montrerait n’importe quelle étude prévisionnelle de trafic, les ordres de grandeur des populations ne le permettant pas.


 


Et ce n’est pas une question d’argent. Malgré plus de 4 milliards d’euros de subvention annuelle dont ils bénéficient, les enquêtes montrent que les actuels TER ne sont utilisés régulièrement que par 2 % des habitants de province, les autres ayant pour la plupart recours quotidiennement ou presque à la voiture, celle-ci étant devenue le véritable « transport public » de notre époque selon la définition du dictionnaire « accessible à tous » !


 


C’est donc le contraire qu’il faut faire. À quelques exceptions près, l’immense majorité des 260 lignes de TER ferrées existantes aurait dû être transférée depuis longtemps sur autocar, ce qui présenterait le double avantage de diviser par 10 au moins la facture pour le contribuable et de permettre des trajets beaucoup plus souples et donc plus fréquentés. Et la Cour des Comptes a montré en son temps que ces autocars émettraient au total bien moins de CO2 que les trains de plusieurs centaines de tonnes qu’ils remplaceraient et que les travaux indispensables à l’entretien et la rénovation de leurs voies ferrées.


 


Or cette solution de simple bon sens a toujours été écartée par nos pouvoirs publics, ni même envisagée un instant pour ne pas heurter les organismes syndicaux et la doxa verte, « l’argument écologiste » venant dorénavant conforter leur refus d’agir pour l’intérêt général.


 


L’opinion publique fait pourtant preuve de bon sens et est prête au changement. 63 % des Français approuvent la fermeture des petites lignes ferroviaires et leur remplacement par des lignes d’autocars lorsqu’on leur révèle que celles-ci coûtent 4 milliards d’euros par an pour assurer 2 % des trajets provinciaux motorisés, contre 98 % ou presque pour l’automobile.


 


Mais rien ne changera tant que les pouvoirs publics continueront à mentir indignement comme ils le font, par exemple en laissant afficher en décembre 2022 que la SNCF a fait des bénéfices pour un montant supposé de 2,5 milliards d’euros alors que les chemins de fer coûtent sans raison chaque année hors charges de retraite 14 milliards d’euros au contribuable, soit par exemple beaucoup plus que la totalité des dépenses de notre système judiciaire dont chacun connaît les besoins criants, et alors que les transports ferrés répondent à un dixième des besoins nationaux de mobilité tout au plus. Il est difficile de travestir la réalité au mépris des Français. Pourtant, le « Conseil d’orientation des infrastructures » élaborait à la fin de 2022 un rapport proposant de dépenser 27 milliards d’euros, de 2023 à 2027, principalement dans le ferroviaire…


 


Au total, une prise en compte de la réalité permettrait là aussi des économies massives de dépenses publiques, mais rien ne sera possible aussi longtemps que les dirigeants croiront que favoriser les transports ferrés et publics pourrait contribuer contre toute évidence « à sauver la planète ».



Quant à l’ostracisme dont souffre le transport aérien, il n’est pas plus justifié, tant son impact sur le climat relève lui aussi de l’imaginaire, ses émissions mondiales ne représentant qu’une fraction de celles de l’Union européenne toute entière dont on a vu qu’elle ne pouvait avoir aucun rôle à son égard.


Pourtant, beaucoup de jeunes sont convaincus de nuire à la planète quand ils prennent l’avion, victimes de l’œuvre omniprésente de culpabilisation aujourd’hui régnante…


 


Et tout ceci pour rien.


1. La Voiture électrique et autres folies, op. cit.


2. La Saga du RER et le maillon manquant, Ch. Gerondeau, Éditions de l’École Nationale des Ponts et Chaussées.

3

Électricité

L’inutilité de l’éolien et du solaire en France

L’évidence inaperçue

Au cours des dernières années, la France s’est inspirée de l’Allemagne pour sa production d’électricité en suivant celle-ci dans deux voies : le développement des énergies renouvelables intermittentes (éoliennes et panneaux photovoltaïques), et la réduction de la part du nucléaire qui a justifié la fermeture dans l’Hexagone des deux réacteurs de la centrale de Fessenheim et le vote de deux lois successives (2015 et 2019) prévoyant la fermeture d’une quinzaine d’autres.


 


Pour comprendre à quel point le fait d’avoir suivi notre voisin d’Outre-Rhin a été une erreur, il faut d’abord s’intéresser à la politique sans issue que mène celui-ci quant à lui.


I – L’ALLEMAGNE

En matière d’électricité comme dans d’autres, la politique suivie par l’Allemagne au cours des deux décennies écoulées a été dictée par les « Grünen », c’est-à-dire les écologistes idéologues d’outre-Rhin, adeptes de deux priorités contradictoires : la suppression du nucléaire, et celle des rejets de CO2 résultant de la production de l’électricité par des centrales thermiques à charbon ou à gaz.


 


Cédant à la première de ces priorités après avoir résisté pendant une décennie, la chancelière Angela Merkel a décidé en 2011, quatre jours seulement après le séisme de Fukushima et pour des motifs strictement électoraux car elle aurait sans cela perdu les élections à venir, de fermer en dix ans toutes les centrales nucléaires germaniques. Parallèlement, le gouvernement d’outre-Rhin a accéléré un programme massif de construction d’éoliennes et de panneaux photovoltaïques sacrifiant ses paysages et bouleversant l’origine de son approvisionnement électrique comme en témoignent quelques chiffres.


 


En 2021, après quelques 300 milliards d’euros investis, les énergies renouvelables intermittentes ont en effet produit un petit tiers de l’électricité allemande (172 Térawattheures sur 584). Pour leur part, les centrales thermiques, fonctionnant majoritairement au charbon, ont engendré 44 % de celle-ci, et les 6 réacteurs nucléaires encore en service en 2021 en ont produit pour leur part 12 % (fig. 13). Mais trois de ceux-ci ont cessé leur activité à la fin de 2021, et si les trois derniers ont été prolongés pour le début de 2023, ce ne devrait être en principe que pour quelques mois.



S’agissant des années à venir, l’Allemagne se trouve donc dans une impasse. Elle veut continuer à investir sans fin dans les éoliennes, notamment offshore, et dans les panneaux photovoltaïques. Mais il ne faut pas se faire d’illusion : le pourcentage de l’électricité produite par ces énergies renouvelables ne pourra guère s’accroître au-delà du niveau actuel du fait de l’intermittence du vent et du soleil. Quelles que soient les sommes investies, il y aura toujours outre-Rhin autant de jours et d’heures sans vent et/ou sans soleil, et le taux de fourniture d’électricité en provenance de ces énergies renouvelables intermittentes ne pourra excéder de beaucoup 40 % contre 30 % aujourd’hui.


 


Il sera donc toujours nécessaire de faire appel aux centrales thermiques à charbon ou à gaz pour la moitié environ de l’approvisionnement électrique germanique, en complète contradiction avec « l’engagement » de suppression des émissions de CO2 sans cesse réitéré par les autorités nationales germaniques contre toute vraisemblance et toute honnêteté ! Le chancelier Olaf Scholz n’a-t-il pas inauguré avec fierté le 16 décembre 2022 le premier terminal d’importation de gaz naturel liquéfié, en provenance notamment des États-Unis où il s’agit alors de « gaz de shiste » pourtant prohibé en Europe ?


 


Le silence de la politique énergétique allemande sur ce point est entier. Certes, l’hypothèse de passer par l’hydrogène pour stocker l’électricité est souvent évoquée, mais elle ne résiste pas à l’analyse. Techniquement possible, l’opération n’est pas tenable sur le plan économique. On retrouve à son issue trois fois moins d’électricité qu’à l’origine, et celle-ci coûte cinq fois plus cher que cette dernière comme en témoigne dans son livre L’Utopie hydrogène le spécialiste incontestable du sujet Samuel Furfari, fort d’une expérience de trois décennies consacrées au sujet au sein de la Commission Européenne. Une station-service pour véhicules à hydrogène vient certes d’ouvrir Porte de Saint-Cloud à Paris. Mais elle a coûté 15 millions d’euros, entièrement financés par fonds publics, pour desservir 6 pompes alors qu’il existe 14 500 stations-service en France…


 


Mais le rythme de l’hydrogène vert est la porte de sortie qui permet aux « grünen » allemands de refuser de reconnaître que le développement des énergies renouvelables intermittentes implique la pérénité du recours au charbon et au gaz naturel et donc des émissions de CO2 qui en découlent.


 


Il faut donc se rendre à l’évidence, la fabrication de l’électricité allemande reposera essentiellement dans tout avenir prévisible sur deux pôles, les énergies renouvelables intermittentes d’une part, et les énergies fossiles, charbon et gaz de l’autre, avec deux inconvénients majeurs.


 


Cette solution est tout d’abord extrêmement coûteuse, puisqu’elle implique d’avoir tout en double au niveau de la production et bien souvent des réseaux, les éoliennes et les panneaux photovoltaïques s’ajoutant aux centrales thermiques qu’elles ne peuvent remplacer. Même si le raisonnement est simpliste, il ne faut pas s’étonner que les tarifs de l’électricité soient, hors circonstances exceptionnelles comme celles de 2022, de l’ordre du double outre-Rhin de ce qu’ils sont en France.


 


En outre, les émissions de CO2 liées à la production de l’électricité germanique continueront à être très importantes, rendant impossible la tenue de l’engagement officiel de les supprimer sans cesse réitéré par les autorités germaniques.


 


La « solution » adoptée en Allemagne est donc exceptionnellement coûteuse et inefficace, et il paraitrait difficile de faire pire si la voie sur laquelle est engagée la France ne méritait examen.


II – LA FRANCE : L’INCOMPATIBILITÉ DES RENOUVELABLES ET DU NUCLÉAIRE

S’agissant de sa production d’électricité, la France est dans une situation unique au monde. Grâce à des prédécesseurs de génie, elle dispose à ce jour de 56 réacteurs nucléaires malgré la suppression des deux unités de Fessenheim. Complétés de surcroît par une hydroélectricité conséquente, ces 56 réacteurs peuvent répondre à la quasi-totalité de ses besoins, hors évènements techniques exceptionnels et temporaires tels que ceux de l’année 2022 qui ont paralysé au pire moment une partie de ses réacteurs du fait de microfissures qui ne seront bientôt plus qu’un mauvais souvenir. Leur capacité de production va d’ailleurs le plus souvent bien au-delà, puisque la France est régulièrement le premier exportateur mondial d’électricité.


 


Si l’on ajoute que, contrairement au sentiment général, la consommation nationale d’électricité ne s’accroît plus depuis près de vingt ans, et que l’opinion publique française à l’égard du nucléaire est majoritairement favorable, c’est-à-dire aux antipodes de celle qui a régné jusqu’à présent outre-Rhin, une conclusion s’impose : la France n’avait aucune raison de suivre le précédent allemand, c’est-à-dire de se doter d’éoliennes et de panneaux photovoltaïques dont elle n’avait aucun besoin, et de s’engager parallèlement sur la voie d’une réduction de son parc nucléaire.


 


Le fait qu’elle ait suivi son voisin d’outre-Rhin entraîne une conséquence inattendue sinon stupéfiante qui peut s’exprimer en quelques phrases, étant entendu à nouveau que l’année 2022 a fait exception. Car ces énergies renouvelables présentent une caractéristique majeure. Elles sont intermittentes et d’un jour à l’autre leur production peut varier de 1 à 30, ce qui conduit à un constat surprenant.


Si un jour donné le vent ne souffle pas et que le soleil est absent, il est évidemment exclu que le pays manque d’électricité, et cette circonstance s’est d’ailleurs produite de multiples fois sans que personne le sache. Grâce à nos centrales nucléaires et nos barrages, nous avons pratiquement toujours bien assez de puissance pour faire face à nos besoins et au-delà.


Mais si le lendemain le vent souffle et que le soleil brille, nous devons faire face à un afflux d’électricité qui peut atteindre soudainement 25 % de nos besoins alors que ceux-ci sont satisfaits par ailleurs, cette proportion étant appelée à passer à 50 % si les projets actuels sont mis en œuvre. Que faire alors puisqu’il est impossible de stocker l’électricité, et que celle-ci doit être consommée dans l’instant ?


 


Si l’on en croyait les multiples organismes officiels (CRE ; RTE ; ADEME ; etc.) qui prônent tous le développement des énergies renouvelables concernées, cette production viendrait accroître nos ressources nationales au bénéfice de notre économie. C’est ainsi que la Commission de Régulation de l’Énergie a récemment conclu l’une de ses délibérations (13 juillet 2022) par les termes suivants : « Il est nécessaire d’accélérer le développement des énergies renouvelables qui sont indispensables pour renforcer la sécurité de l’approvisionnement national ». Or il s’agit là d’une ineptie qui traduit la méconnaissance étonnante qui règne dans la sphère publique. Comment des énergies intermittentes pourraient-elles apporter la sécurité ? Les mots « intermittent » et « sécurité » ne sont-ils pas antinomiques ?


 


L’examen des relevés quotidiens publiées par RTE révèle alors une vérité insoupçonnée (fig. 14) que confirme l’examen de l’année 2019. Puisque nous n’avions aucune possibilité d’utiliser sur notre territoire cette électricité aléatoire car nos besoins étaient satisfaits par ailleurs, nous avons été contraints d’en exporter en 2019 près de 80 % hors de nos frontières, à un prix le plus souvent sans aucun rapport avec celui qui a été versé aux promoteurs des éoliennes ou des panneaux photovoltaïques ! Et il y a pire : après avoir réduit au maximum possible la production de nos centrales thermiques, nous freinons de temps en temps nos réacteurs nucléaires quand nous ne pouvons pas exporter cette électricité supplémentaire dont nous n’avons aucun besoin ! Les éoliennes qui défigurent nos paysages ne nous servent à rien puisque nous ne pouvons pas utiliser leur production !


 


Notre situation est à cet égard unique et très différente de celle de l’Allemagne et des autres pays européens. Ceux-ci produisent aujourd’hui la majorité de leur électricité avec des centrales au charbon ou au gaz dont ils peuvent réduire la production lorsque le vent souffle ou que le soleil brille. Or, nous n’avons pas cette possibilité puisqu’en France les centrales thermiques jouent un rôle marginal (6 %), ce qui conduit à une conclusion aussi simple qu’étonnante : RENOUVELABLES ET NUCLÉAIRE SONT INCOMPATIBLES ! Avoir fait croire le contraire de cette évidence montre le pouvoir des groupes de pression concernés.


 


Pourquoi donc ne pas faire valoir à Bruxelles la spécificité de notre situation qui devrait nous conduire à refuser d’adhérer à l’engouement européen pour ces énergies renouvelables dont nous n’avons aucun besoin ?


 


Le fait que des milliers de responsables publics, suivant en cela les conseils du GIEC, continuent d’affirmer que les énergies intermittentes pourraient assurer notre sécurité alors que nous avons besoin d’électricité fiable tous les jours pour nos industries et nos habitants laisse pantois.


Mais, comme le notait déjà Jean Paulhan, il est de nature de l’évidence de passer inaperçue.


 


Si le programme actuellement envisagé de poursuite et d’accélération de ces énergies renouvelables intermittentes est réalisé, non seulement il sera loin de « renforcer la sécurité de l’approvisionnement national », mais le développement des énergies renouvelables intermittentes restera un désastre financier dont l’usager doit déjà acquitter le coût. De 2009 à 2020, les tarifs de l’électricité pour les consommateurs privés sont passés de 12 à 20 centimes par kilowattheure du fait de l’apparition et du développement des éoliennes et des panneaux photovoltaïques. Et il va de soi que les tarifs poursuivront leur envolée sans fin si la politique actuellement envisagée de multiplication de ces énergies renouvelables parfaitement inutiles est mise en œuvre, étant entendu que les hausses exceptionnelles de 2021 et 2022 ont été dues à des circonstances qui n’ont rien à voir avec les prix de revient de l’électricité produite sur le sol national qui retrouveront nécessairement à l’avenir leur rôle directeur.


 


Quant à la durée de vie de nos réacteurs, nous n’avons pas d’inquiétudes à avoir. Celle de leurs homologues américains n’est-elle pas prolongée à 80 ans, et bientôt à 100 ans ?1


 


En l’absence de ces énergies renouvelables intermittentes dont nous n’avons aucun besoin, la France disposerait alors de l’électricité la moins chère d’Europe grâce à ses 56 réacteurs et à ses barrages qu’il suffirait d’entretenir et d’exploiter au mieux, d’autant plus que notre consommation nationale, comme celle de nos voisins, a cessé de croître comme on l’a vu et qu’il n’y a aucune raison qu’elle reparte massivement à la hausse contrairement aux projections officielles déconnectées de toute réalité qui ont cours et ne se réaliseront pas.


 


Et tout ceci pour rien.


 


La liste pourrait être poursuivie sans fin dans tous les domaines de l’activité nationale ou presque, comme celui de l’agriculture avec les projets de « méthanisation » qui commencent, eux aussi, à gaspiller sans raison l’argent public…


1. La Voiture électrique et autres folies. La religion écologiste 3, op. cit.

4

Les « passoires thermiques »

En novembre 2022, faute de pouvoir s’accorder sur une politique énergétique commune, tous les pays membres de l’Union Européenne se sont mis d’accord sur une « priorité ». Il fallait d’urgence se mobiliser pour améliorer l’isolation des bâtiments et tout particulièrement du parc de logements de chaque pays. Comme l’a déclaré alors en France le ministre délégué chargé de la Ville et du Logement : « Aucun Français ne doit habiter une passoire thermique car c’est mauvais… pour la planète ».


 


Pas plus que ses homologues d’autres pays, le responsable du dossier n’avait compris que l’Union Européenne ne pouvait avoir la moindre influence significative sur l’évolution du CO2 atmosphérique, et qu’il en allait a fortiori de même pour les bâtiments qui constellent son territoire, même si ceux-ci sont à l’origine du tiers de ses émissions. Un tiers de zéro fait toujours zéro, ce qui n’a pas empêché le ministre en charge d’annoncer avec fierté que le gouvernement avait inscrit 2,6 milliards d’euros au budget de 2023 en faveur de la rénovation de l’habitat, ajoutant dans une nouvelle contrainte qu’aucune « passoire thermique » ne devrait pouvoir « basculer dans la location touristique meublée » pour contourner l’interdiction de mettre les maisons ou appartements concernés en location libre. Pourtant, la législation qui voudrait qu’à compter d’un avenir proche les millions de propriétaires de logements mal isolés ne puissent plus les louer afin de contribuer à « sauver la planète », s’ajoutera nécessairement un jour à la longue liste de celles qu’il faudra abandonner pour revenir au bon sens.


 


Car cette liste est sans fin ou presque, allant de l’interdiction de chauffer les nouveaux bâtiments au gaz ou au fioul et donc de l’obligation d’avoir recours à l’électricité, à des normes d’isolation de plus en plus strictes qui renchérissent le coût du mètre carré et réduisent en conséquence les surfaces des nouvelles constructions, sans oublier les innombrables subventions accordées aux propriétaires des logements existants aux frais du contribuable pour des pompes à chaleur et autres dispositifs supposés contribuer à « sauver la planète ».


 


À la fin de 2022, les professionnels concernés lançaient un cri d’alarme. Les mises en chantier de logements neufs connaissaient une cassure sans précédent du fait des nouvelles réglementations « écologiques » ; la chute atteignant 30 % pour les maisons individuelles auxquelle aspire la grande majorité des Français.

Et tout ceci pour rien.

Conclusion

En novembre 2022, la revue Challenges titrait l’un de ses numéros : « Le vrai coût de la transition écologique : 90 milliards par an ».


 


Si rien ne change, tel est en effet l’ordre de grandeur des dépenses annuelles vers lesquelles s’achemine la France en 2030 dans l’illusion « d’agir sur le climat » en conformité avec la politique qui mène l’Europe et notre pays sur la voie du déclin. Après avoir constaté que la France consacrait dès aujourd’hui 50 milliards d’euros par an, soit l’équivalent de 2 % de son PIB, à la « décarbonation » pour se « désintoxiquer des énergies fossiles (charbon, pétrole, gaz) », le périodique français énumérait dans une liste sans fin se référant aux meilleures sources les sommes qu’il faudrait impérativement dépenser d’ici 2030 : 35 milliards par an pour les entreprises, 30 milliards pour les particuliers, 7 milliards pour les collectivités, etc.


La raison avancée était claire : Nous sommes sur la voie de la catastrophe et il va donc falloir « investir lourdement pour réduire les gaz à effet de serre qui font chauffer la planète, car la France n’est pas en avance… ». Pour s’aligner sur la loi européenne et afin d’atteindre le « zéro carbone » en 2050, il faudrait investir 4,7 % de notre PIB en moyenne de 2022 à 2030.



La même publication ajoutait enfin que nous n’avons pas le choix car le coût de l’inaction serait « stratosphérique » puisqu’en cas d’inaction, la planète s’échaufferait de 2,6 degrés en 2050, entraînant une baisse de 14 % du PIB mondial et de 10 % du PIB national ! Elle concluait donc sur la nécessité de poursuivre les errements actuels en conformité avec la politique qui mène l’Europe sur une voie sans issue, faute d’avoir pris en compte la réalité des chiffres qui montre qu’elle ne peut rien à l’égard du climat.


 


Pourtant, que ne pourrait-on faire dans de multiples domaines avec les 90 milliards d’euros bientôt gaspillés chaque année ?


 


Le périodique français ne faisait en l’occurrence que refléter une conviction mondiale, comme allait en témoigner la semaine suivante la réunion à Charm El-Cheikh de 40 000 participants venus parfois en avions privés dans le cadre de la « COP 27 » qui allait déplorer, comme l’avaient fait les 26 autres « COP » qui l’avaient précédée, le réchauffement « dramatique » de la température terrestre et l’inaction hautement coupable des gouvernements et des entreprises face à la catastrophe en cours.


 


Parlant au nom de la plus haute instance morale de la planète, le Secrétaire Général des Nations-Unies Antonio Guterres donnait le ton en déclarant « Nous sommes sur l’autoroute qui conduit à l’enfer » pendant que les représentants des pays riches s’efforçaient en vain de rassembler le financement des 100 milliards de dollars promis chaque année aux pays pauvres depuis des lustres et jamais rassemblés pour « pallier les conséquences des changements climatiques imputables aux pays développés » dont on a vu qu’ils n’existaient pas. Joe Biden ne déclarait-il pas sur place en cette occasion que la crise climatique menaçait « la vie même de la planète » ?


 


De retour de Charm El-Cheikh, le Président français Emmanuel Macron s’empressait pour sa part de convoquer les dirigeants des 50 plus grosses entreprises françaises émettrices de CO2 pour leur enjoindre de réduire drastiquement leurs rejets et leur promettre 10 milliards d’euros s’ils y parvenaient, afin de contribuer à la lutte contre le changement climatique, alors que leurs émissions annuelles cumulées représentent 1/10e de celle de la France, soit 1/200 000e de la masse du CO2 atmosphérique !


 


En même temps, les actes délictueux se multipliaient en France comme ailleurs, de la part d’une partie de la jeunesse désemparée et parfois désespérée devant l’avenir sans issue qu’on lui présentait. Des tableaux célèbres étaient maculés de purée ou de peinture, des autoroutes bloquées, des équipements détruits dans des actions illégales de toute nature, le journal Le Figaro en ayant recensé 104 pour notre seul pays entre le 1er janvier et le 30 octobre de l’année 2022. Et le 4 janvier 2023, le portail de l’Hôtel Matignon était couvert de peinture orange par des activistes écologiques.


 


Que conclure, sinon que le monde a perdu la raison du fait d’un sophisme qui s’énonce ainsi :


 


– Le climat change dramatiquement et le monde va à la catastrophe du fait des émissions de CO2 imputables aux activités humaines.


 


– Il existe donc nécessairement un moyen d’y mettre fin et il est irresponsable de ne pas le faire.


 


Ce sophisme a conquis le monde depuis 30 ans, faute que lui aient été opposés les quatre constats majeurs mis en évidence dans cet opuscule sur la base des chiffres qui, seuls, peuvent s’opposer au discours ambiant infondé et qu’il convient de rappeler ici.


 


• Les ordres de grandeur ne permettent tout d’abord pas d’avoir la moindre influence significative sur la masse gigantesque du CO2 présente dans l’atmosphère. En regard de ses 3 200 milliards de tonnes, que pèsent les émissions annuelles de l’Union Européenne, seule au monde à vouloir agir, qui l’accroissent de 1,6 milliard de tonnes par an (1/2 000e) ou a fortiori de la France avec ses 160 millions de tonnes annuelles (1/20 000e), sans même parler des 50 chefs d’entreprises culpabilisés par le chef de l’État français pour 16 millions de tonnes (1/200 000e) ? Si tout le monde affirme vouloir réduire les émissions de CO2, l’humanité – et tout particulièrement les pays en voie de développement – n’est nullement prête à se passer des énergies fossiles qui les engendrent car ils répondent à 80 % de ses besoins énergétiques et ils continueront à le faire pendant très longtemps et jusqu’à la fin du présent siècle au moins1.


 


• Ceux qui s’opposent aux énergies fossiles condamnent à mort sans le vouloir des centaines de milliers d’hommes, de femmes et d’enfants. Au-delà des discours, la « transition écologique » est mortifère.


 


• Le climat a toujours changé et rien ne prouve qu’il le fasse plus qu’avant. Qui sait que la température terrestre ne s’est pas accrue depuis 7 ans contrairement aux affirmations fallacieuses du GIEC qui ose écrire dans ses rapports de 2021 que le réchauffement « s’accélère » ? Qu’il s’agisse des précipitations, du niveau des océans, de la fréquence des inondations, des tempêtes ou des cyclones, tous les indicateurs sont formels : il n’existe pas le moindre indice d’aggravation au niveau mondial.


 


• Mais Gustave Flaubert n’avait-il pas écrit dès le XIXe siècle dans son Dictionnaire des idées reçues :


– Eté : toujours exceptionnel


– Hiver : voir été


 


• Enfin, s’agissant de notre pays, un constat vient clore la liste. Les éoliennes dont nous voulons couvrir notre territoire et nos mers ne nous servent à rien, pas plus que les panneaux photovoltaïques, puisque nos besoins en électricité sont très largement couverts sauf circonstances exceptionnelles par notre parc nucléaire et par nos barrages, et que nous sommes en conséquence contraints d’exporter la production de ces énergies intermittentes lorsque le vent souffle et que le soleil brille, ou de freiner nos réacteurs pour lui laisser la place, comble d’inconséquence.


 


La liste des absurdités pourrait être poursuivie sans fin, mais il suffit de s’arrêter là pour que la conclusion s’impose. Depuis 30 ans, le monde est aveuglé et a perdu la raison. La dimension du présent ouvrage n’a permis de développer ici qu’une petite fraction des conséquences de la prise de pouvoir au sein de l’Organisation des Nations-Unies par les ONG écologistes depuis le congrès mondial de Rio de Janeiro de 1992 qui faisait suite au rapport du « Club de Rome » qui annonçait en 1972 qu’il n’y aurait plus de pétrole en l’an 2000…


 


Car c’est à Rio que le monde fut frappé d’une stupeur qui persiste encore 30 ans plus tard. Auparavant, le thème du climat n’intéressait que quelques spécialistes et restait ignoré des responsables politiques et des médias. Mais tout changea lorsque le Canadien Maurice Strong, qui avait auparavant créé le « Programme des Nations-Unies pour l’Environnement » puis plus tard le GIEC, réussit à convaincre le Secrétaire Général des Nations-Unies de l’époque de convoquer tous les Chefs d’État du globe à un congrès mondial sans précédent et de lui en confier la présidence2.


 


N’ayant jamais terminé ses études secondaires, Maurice Strong assura alors néanmoins parler « au nom de la science » lorsqu’il énonça sans la moindre preuve devant les plus hauts responsables du monde médusés la vision catastrophiste de l’avenir qui était la sienne et qui demeure inchangée. La Terre s’échauffait dramatiquement, et la responsabilité en incombait à l’humanité émettrice de CO2, et donc aux énergies fossiles qui en étaient la source principale et dont il faudrait impérativement se passer au plus vite pour éviter une catastrophe certaine.


 


Il ne faudrait pas croire toutefois que l’écologie constituait la motivation profonde de Maurice Strong, pas plus d’ailleurs que celle de la quasi-totalité de ceux qui, trente ans plus tard, partagent toujours ses vues. C’était un pessimisme instinctif et viscéral que celles-ci traduisaient comme en témoigne l’appel solennel consacré à l’avenir de la planète qu’il lança il y a trente ans à Rio : « Depuis 1972, la population mondiale a cru de 1,7 milliard, c’est-à-dire d’autant d’habitants que la planète comptait en 1900. Cela ne peut pas continuer. Si nous ne le faisons pas nous-mêmes, la nature s’en chargera, et bien plus cruellement ! ».


 


On sait ce qu’il en est devenu. Trois décennies plus tard, le globe compte 8 milliards d’habitants, soit 2,6 milliards de plus qu’en 1992, et la catastrophe annoncée n’a pas eu lieu, la production mondiale de céréales ayant par exemple progressé de deux tiers au cours des trois décennies écoulées depuis la prophétie de Maurice Strong, et les progrès de pans entiers de l’humanité ayant abondé dans de multiples autres domaines, au premier rang desquels l’espérance de vie, grâce notamment aux progrès de toute nature permis par le recours aux énergies fossiles.


 


L’écologie n’était donc qu’un prétexte pour faire prévaloir une vision du monde que décrit mieux un autre mot venu du fonds des temps, celui d’apocalypse. C’est de religion apocalyptiste qu’il s’agit en vérité et non de religion écologiste.


 


Après Rio, Maurice Strong a veillé à ce que l’Organisation des Nations-Unies soit prise en main par les grandes organisations écologistes (Greenpeace, WWF, Union Internationale pour la Conservation de la Nature), comme en témoignent encore trente ans plus tard les parcours des responsables actuels de ses deux grands départements en charge de l’environnement et du développement. Et qui oserait mettre en doute les assertions émanant des plus hautes instances mondiales qui affirment en outre parler « au nom de la science », alors même que ces responsables n’ont pas la moindre formation scientifique comme chacun peut le vérifier3 ? Il n’y a pas d’autre explication au constat du règne depuis trois décennies d’une doxa annonçant une apocalypse que toute approche rationnelle dément.


 


Et c’est à un retour au Moyen-Âge et au temps de Galilée que nous assistons, le GIEC jouant le rôle de la Curie Romaine qui affirmait que le Soleil tournait autour de la Terre.


Mais cette expérience lointaine montre que les assertions mensongères n’ont qu’un temps et qu’on ne peut rien faire contre les chiffres, sauf les ignorer comme l’a fait notre époque depuis que la lutte illusoire contre les variations d’un climat qui a toujours changé a été déclarée priorité planétaire par toutes les instances internationales et d’abord par les Nations-Unies qui sont censées guider le monde.


 


Il est temps de remettre l’humanité sur le chemin de la raison, celui des faits traduits par les chiffres. Puisse la France se souvenir qu’elle fut le pays de Descartes et, par la voie de ses institutions politiques, économiques, ou scientifiques, ouvrir les yeux des autres nations. Il n’y a pas de plus grand service qu’elle puisse aujourd’hui rendre au monde car il y va de la fin du déclin de l’Europe et de notre pays, de la vie et de la mort de millions d’êtres humains, et du retour de l’optimisme dans un temps qui l’a perdu.


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* *


On pourrait se demander si notre pays serait apte à montrer la voie au reste du monde s’il ne m’était possible de témoigner qu’il l’avait déjà fait dans un autre domaine. Jeune ingénieur, il me revint il y a cinq décennies ; de faire bouleverser le cours des choses en France, en Europe et au-delà, à l’égard d’un autre problème capital, celui des accidents de la route, première épidémie de l’époque, alors considérée comme l’inéluctable contrepartie de la démocratisation de l’automobile.


 


Avec 18 000 morts par an et plus de 350 000 blessés, notre pays connaissait une hécatombe sans cesse croissante quand une série de mesures, telles que l’obligation du port de la ceinture de sécurité, la limitation générale de vitesses, et la lutte contre l’alcool au volant, renversa le cours des choses à la surprise universelle.


 


La petite histoire retiendra aussi que ce fut sans doute la seule circonstance de la Ve République qui vit un Premier ministre passer outre la volonté d’un président de la République, Pierre Messmer ayant en l’occurrence agi sans l’accord de Georges Pompidou, adversaire déterminé des limitations de vitesse4.


 


De 18 000, le nombre annuel des victimes est passé à moins de 3 500 aujourd’hui malgré un trafic presque triple de ce qu’il était alors, et l’exemple français, devenu référence, a été suivi par les autres pays développés ; les accidents de la route restant hélas de nos jours un drame indicible dans le reste du monde avec des millions de morts et des dizaines de millions de blessés chaque année dans l’indifférence générale d’instances internationales obnubilées par leur désir illusoire d’agir pour « sauver la planète ».


1. La Religion écologiste, Ch. Gerondeau, Éd. de l’Artilleur.


2. Le CO2 est bon pour la planète, Ch. Gerondeau, Éditions de l’Artilleur.


3. La Voiture électrique et autres folies. La religion écologiste 3 op. cit.

4. La Sécurité routière, une réussite française, Ch. Gerondeau, L’Harmattan.