giovedì 17 aprile 2025

PSICOPATICI AL POTERE Jon Ronson

 

PSICOPATICI AL POTERE 

Jon Ronson

Recensione

P.b.

Innanzitutto faccio una avvertenza: il titolo credo sia una traduzione  fuorviante, rispetto al contenuto del libro, in quanto   non si parla molto di meccanismi di potere, ma piuttosto dell' "industria" della follia. 

Si tratta cioè di un “Viaggio nel cuore oscuro dell’ambizione”, come conradianamente recita il sottotitolo del réportage investigativo di Jon Ronson. Psicopatici al Potere è, cioè,  un viaggio verso l'attitudine folle della società. Il libro si focalizza sulle personalità eccentriche di killer, psicopatici, bambini iperansiosi e inefficienti, sino a mettere in dubbio i più recenti traguardi della psichiatria. Nel farlo Ronson mantiene un atteggiamento umile, rispettoso, anche, a volte,  con un taglio leggero e ironico. 

Il meccanismo narrativo parte da una conversazione di un celebre psichiatra con Ronson a seguito di un seminario: lo psichiatra spiega a Ronson come molte delle caratteristiche che definiscono uno psicopatico siano leggibili alla stregua di virtù, se interpretate dal punto di vista del CEO di una corporation dai fatturati a dieci zeri  che licenzia centinaia o migliaia di persone. Per qualcuno che non provi alcuna empatia nei confronti del genere umano, è infatti un passatempo fra i più ambiti.

Lo stesso assunto, variamente declinato, mostra come pressoché ogni ambito delle umane attività - dalla politica all'economia, per non parlare della psichiatria stessa - possa essere infiltrato con successo da autentici psicopatici, e il campionario che Ronson sciorina è ampio. Anche se forse non lo è abbastanza per riuscire a convincerci che il mondo è realmente alla mercé di un manipolo di pazzi. 

Capitolo 1

La parte mancante del puzzle

Questa è una storia sulla follia. Inizia con un singolare incontro avvenuto in un Costa Coffee a Bloomsbury, nel centro di Londra, locale molto frequentato dai neurologi soprattutto perché la London School of Neurology si trova a due passi.


Quando arrivai nel locale una di loro mi salutò con un cenno della mano e si diresse verso di me, tradendo un certo imbarazzo. Si chiamava Deborah Talmi, e aveva tutta l’aria di passare le sue giornate in laboratorio e di non essere abituata a dare appuntamento ai giornalisti in un bar, né tantomeno a trovarsi al centro di un mistero irrisolto. Si presentò accompagnata da un ragazzo alto, mal rasato: il classico ricercatore universitario. Si sedettero.


«Io sono Deborah» disse lei.


«Piacere, Jon» risposi io.


«James» disse lui.


«Allora» chiesi, «l’hai portato?».


Deborah annuì. Senza dire una parola fece scivolare sul tavolo un pacchetto. Lo aprii e me lo rigirai tra le mani.


«È davvero bellissimo» dissi.


Lo scorso luglio Deborah ricevette uno strano pacco. Lo trovò nella cassetta della posta, proveniente da Göteborg, in Svezia. Qualcuno aveva scritto sopra la busta sigillata «Ti spiego tutto al mio ritorno». Ma chiunque l’avesse spedita non aveva firmato.


Dentro il pacchetto c’era un libro. Un testo breve, di appena quarantadue pagine, ventuno delle quali completamente bianche. Tutto, dalla carta alle illustrazioni fino alla grafica, lasciava intendere che si trattava di un oggetto prezioso. Sulla copertina erano raffigurate due mani senza corpo che si disegnavano l’un l’altra: Deborah riconobbe subito uno dei disegni più famosi di Maurits Cornelis Escher, Mani che disegnano.


L’autore era un certo Joe K (un riferimento al Joseph K di Kafka, forse, o l’anagramma di joke, scherzo), e il titolo era L’essere o il nulla, chiara allusione al saggio di Sartre L’essere e il nulla. Qualcuno aveva ritagliato il colophon, quindi non si poteva in alcun modo risalire all’origine del libro. Un adesivo diceva: «Attenzione! Prima di leggere il libro studiate attentamente la lettera al professor Hofstadter. Buona fortuna!».


Deborah lo sfogliò. Si trattava di una specie di enigma da risolvere: versi criptici, pagine in cui alcune parole erano state cancellate e via dicendo. Rilesse ancora una volta le parole «Ti spiego tutto al mio ritorno». Uno dei suoi colleghi si trovava effettivamente in Svezia, e anche se non era il tipo di persona che manda pacchetti misteriosi, la spiegazione più logica era che l’avesse spedito lui.


Ma quando questo collega tornò, disse di non saperne nulla. Deborah era incuriosita da tutta la faccenda, così cominciò a fare qualche ricerca su internet. Fu così che scoprì di non essere sola.


«Sono tutti neurologi quelli che hanno ricevuto il pacchetto?» le chiesi.


«No» rispose. «Cioè… molti sì, ma per esempio uno è un astrofisico tibetano; un altro invece è un iracheno che si occupa di storia delle religioni».


«Tutti accademici, però…» aggiunse James.


Avevano ricevuto il pacchetto tutti allo stesso modo, in una busta imbottita proveniente da Göteborg, con sopra la solita scritta «Ti spiego tutto al mio ritorno», e si erano trovati online cercando di capirci qualcosa.


Forse, suggeriva uno, il libro è da leggersi come un’allegoria della cristianità «a partire da quel misterioso “Ti spiego tutto al mio ritorno”, chiaro riferimento alla seconda venuta di Gesù Cristo. L’autore (o gli autori) sembrava contraddire l’ateo Sartre e il suo L’essere e il nulla1».


Una ricercatrice di psicologia percettiva, Sarah Allred, si dichiarò d’accordo: «Ho il vago sospetto che alla fine scopriremo che era una strategia di marketing, una campagna pubblicitaria virale commissionata da qualche organizzazione religiosa per far fare la figura degli stupidi a noi accademici, intellettuali, scienziati e filosofi».


Ad altri questa ipotesi sembrava inverosimile: «Il fattore costo esclude la teoria virale, a meno che non si tratti di una campagna tesa a incuriosire un target di lettori scelti con cura per poi vendergli il libro».


La maggior parte dei destinatari era convinta – aspetto interessante… – che la faccenda riguardasse loro o il loro lavoro. Erano stati scelti, proprio loro. C’era senz’altro uno schema logico, ma quale? Forse avevano partecipato tutti alla stessa conferenza, anni prima, o qualcosa del genere, o qualcuno li stava mettendo alla prova per offrire a uno solo un lavoro importante e segretissimo.


«Il primo a decifrare il codice sarà il prescelto, è così?» scrisse un australiano.


L’unica cosa certa era che una persona o un’organizzazione molto capace, con dei contatti a Göteborg, aveva messo in piedi un puzzle talmente complesso che persino un gruppo di brillanti accademici non riusciva a venirne a capo. Forse mancava un pezzo. Qualcuno suggerì di «esporre la lettera alla luce di una lampada o fare il test del vapore. Potrebbe esserci un messaggio segreto scritto con un altro tipo d’inchiostro». Ma anche quel tentativo non portò a nulla.


Alla fine alzarono le mani in segno di resa. Se gli accademici non riuscivano a capirci nulla forse bisognava rivolgersi a qualcuno dai modi un po’ più spicci e diretti, tipo un investigatore privato o un giornalista. Deborah chiese in giro: c’era un reporter abbastanza tenace e curioso da potersi impegnare a risolvere il mistero? Vennero fatti diversi nomi. Poi un amico di Deborah, il James che mi sedeva di fronte, disse: «Che ne dici di Jon Ronson?».


Il giorno in cui ricevetti la mail di Deborah mi trovavo nel bel mezzo di un brutto attacco d’ansia. Avevo appena intervistato un uomo, Dave McKay, il leader carismatico di un piccolo gruppo religioso australiano, i Cristiani di Gesù. Dave aveva da poco suggerito ai membri della setta di donare un rene a dei perfetti sconosciuti. All’inizio della nostra conversazione tutto sembrava filare liscio: Dave era un eccentrico molto cortese, e io stavo raccogliendo ottimo materiale per la mia storia, con delle frasi stravaganti ma divertenti da citare nel pezzo e così via. Quando però a un certo punto provai a suggerire che forse era la pressione del gruppo, dominato da Dave, la ragione per cui i membri più deboli della comunità avevano accettato di farsi asportare un rene, Dave esplose come una furia. Mi mandò un messaggio in cui diceva che per darmi una lezione avrebbe fermato un trapianto di rene già in corso. La paziente sarebbe morta, e io l’avrei avuta sulla coscienza.


Ero terrorizzato per la donna sotto i ferri, ma ero anche contento che mi avesse scritto una cosa così folle, ottima per il mio libro. Dissi a un giornalista che Dave mi sembrava abbastanza psicopatico; non sapevo assolutamente nulla di psicopatici a quell’epoca, ma mi sembrava un comportamento tipico. Il giornalista pubblicò un articolo con la mia frase virgolettata, e qualche giorno dopo ricevetti una mail da Dave: «Considero il tuo commento diffamatorio. Mi sono rivolto a uno studio legale. Mi dicono che ho tutti gli elementi per vincere una causa. La tua malafede nei miei confronti non ti autorizza a calunniarmi».


Ecco perché ero nel panico più totale il giorno in cui la mail di Deborah arrivò nella mia casella di posta.


«Ma cosa mi è saltato in mente?!» dissi a mia moglie Elaine. «Ero ben contento di essere intervistato, mi stava proprio piacendo. E adesso siamo spacciati. Dave McKay vuole farmi causa!».


«Che succede??!» urlò mio figlio entrando nella stanza.


«Ho fatto un errore stupido, Joel: ho detto a un tizio che è uno psicopatico, e lui se l’è presa».


«E cosa ci vuole fare?».


Seguì un breve silenzio.


«Niente» dissi.


«Ma se non ci vuole fare niente perché sei così preoccupato?» chiese Joel.


«Mi dispiace solo di averlo fatto arrabbiare» dissi. «Non mi piace far agitare le persone, o farle arrabbiare. Per questo sono triste».


«Stai dicendo una bugia» disse Joel aggrottando le sopracciglia. «Non è vero che ti dispiace far arrabbiare le persone. Cos’è che non mi vuoi dire?».


«Ti ho detto tutto» dissi.


«Ci vuole fare del male?».


«Ma no! Certo che no! Non succederà niente!».


«Siamo in pericolo??!!» strillò Joel.


«Non verrà qui a picchiarci!» urlai di rimando. «Vuole solo farci causa. Vuole prendermi dei soldi».


«Oddio…» disse Joel.


Spedii a Dave una mail, scusandomi per averlo definito uno psicopatico.


«Grazie, Jon» rispose subito lui. «Il mio rispetto per te si è notevolmente accresciuto. Spero che ci sarà un’altra occasione per incontrarci, e che ci comporteremo in modo da poterci definire in qualche modo amici».


Mi sono di nuovo preoccupato per niente, pensai.


Controllando la posta non letta trovai il messaggio di Deborah Talmi. Diceva di aver ricevuto, insieme a diversi altri accademici sparsi in tutto il mondo, un misterioso pacchetto. Un amico che aveva letto i miei libri le aveva consigliato di rivolgersi a me perché forse ero il tipo di giornalista interessato a storie assurde come questa. Il messaggio finiva così: «Spero di essere riuscita a trasmettere il senso di spaesamento che provo di fronte a questa faccenda, e anche del fascino che esercita su noi tutti. È come un’avventura, una specie di reality in cui siamo delle pedine. Chiunque sia la mente, spedendo il pacco a dei ricercatori ha risvegliato in noi l’istinto del segugio, ma non siamo stati in grado di trovare una soluzione. Spero davvero che lei voglia continuare per noi l’indagine».


E adesso, seduti al tavolo di quel locale, Deborah soppesava con lo sguardo il libro che mi aveva appena dato.


«In poche parole» disse, «c’è qualcuno che sta cercando di catturare l’attenzione di alcuni ricercatori universitari in modo misterioso, e vorrei sapere perché. Secondo me è una campagna troppo elaborata per essere il parto della mente di un solo individuo. Il libro è la chiave di qualcosa, ma non siamo riusciti a capire di cosa. Vorrei proprio sapere chi me l’ha spedito, e per quale ragione, ma non ho nessun talento investigativo».


«Be’…» dissi. Rimasi in silenzio mentre esaminavo il libro. Presi un sorso di caffè. «Farò un tentativo».


Dissi a Deborah e a James che avrei iniziato le indagini facendo un giro nei loro uffici, e che per prima cosa volevo vedere la cassetta della posta dove Deborah aveva trovato il pacco. Si scambiarono un’occhiata che pareva dire: “La nostra cassetta della posta? Perché partire da lì? Ma chi siamo noi per mettere in dubbio il metodo di un giornalista investigativo…?”.


Ma a dirla tutta il loro sguardo poteva anche essere interpretato in un altro modo, tipo: “Ma cosa ci viene a fare questo nei nostri uffici? A che serve? Speriamo che non sia l’ennesimo squinternato, o che dietro la sua richiesta di vedere il nostro posto di lavoro non ci sia dell’altro”.


Non erano tanto lontani dalla verità, in effetti: volevo andare nei loro uffici per ragioni personali.


Il dipartimento di James si trovava in uno squallido edificio di cemento poco lontano da Russell Square, nella University College London School of Psychology. Nei corridoi erano appese delle fotografie sbiadite, risalenti agli anni sessanta o settanta, con bambini travestiti da orribili macchine, i cavi che gli penzolavano dalle teste; sorridevano tutti, felici chissà per cosa… come se si trovassero in spiaggia. Qualcuno aveva cercato di abbellire gli spazi comuni dipingendo i muri di un giallo canarino. Mi dissero che qui i bambini vengono a fare i test per le disfunzioni cerebrali, e che secondo alcuni il giallo aiuta a tenerli calmi. Non riuscivo a capire come gli fosse venuta questa idea: la bruttezza dell’edificio era così opprimente che dipingere di giallo le pareti era come mettere un naso rosso da clown a un cadavere e farlo passare per Ronald McDonald.


Sbirciai dentro gli uffici. In ognuno di essi vidi un neurologo o uno psicologo chino sulla scrivania, completamente immerso nel proprio lavoro. In una stanza, mi dissero, l’oggetto di studio era un pastore gallese che sapeva distinguere le sue pecore una ad una, ma non era in grado di riconoscere i tratti dei volti umani, neppure quelli di sua moglie o di se stesso riflesso in uno specchio. Questa condizione si chiama prosopagnosia, o assenza di percezione facciale. Chi ne soffre è condannato a offendere tutti i colleghi, i vicini, le mogli o i mariti perché non saluta mai nessuno per strada, non ricambia mai un sorriso e così via. La gente non riesce a non prendersela a male, anche se sa che si tratta di un disturbo e non di maleducazione. L’ostilità fa in fretta a diffondersi.


In un altro ufficio si stava studiando un caso risalente al luglio del 1996, quando un medico, ex pilota della RAF, sorvolò in pieno giorno un campo a Stonehenge, poi girò il velivolo e ritornò sullo stesso campo mezz’ora dopo: lì, all’improvviso, vide un enorme cerchio nel grano. Si estendeva per oltre quattro ettari ed era formato da 151 cerchi separati l’uno dall’altro. Si era come materializzato dal nulla. Il cerchio, battezzato poi Julia Set, è diventato il più celebre al mondo. Magliette, poster, conferenze… ma col passare del tempo i seguaci diminuirono: venne fuori che i cerchi nel grano non erano opera degli extraterrestri ma di artisti concettuali che li realizzavano di notte, utilizzando tavole di legno e corde. Eppure, questo in particolare era comparso dal nulla nell’arco della mezz’ora necessaria al pilota per ritornare a sorvolare il campo. Il neurologo stava cercando di capire perché il cervello del pilota non avesse rilevato la presenza del cerchio nel grano durante il primo volo, dal momento che certamente anch’esso era stato fatto la notte prima da un gruppo di artisti concettuali armati di tavole di legno e corde.


In un terzo ufficio vidi una donna con una copia di Little Miss Brainy sulla scrivania. Sembrava allegra, simpatica, anche carina.


«Chi è quella?» chiesi a James.


«Essi Vidding» rispose lui.


«E cosa studia?» chiesi.


«Gli psicopatici» disse James.


La guardai di sottecchi. Lei ci vide, sorrise e fece un cenno con la mano.


«Deve essere una cosa pericolosa» dissi.


«Circola una storia, su di lei» disse James. «Stava interrogando uno psicopatico. Gli mostrò una foto con il volto di una persona terrorizzata e gli chiese di identificare l’emozione corrispondente. Lui rispose che non lo sapeva, ma aggiunse che era la faccia che facevano le persone prima che lui le ammazzasse».


Proseguii lungo il corridoio. Poi mi fermai e guardai indietro, verso Essi Vidding. Non avevo mai pensato molto agli psicopatici prima di allora, e mi chiesi se non fosse il caso di provare a incontrarne uno. Mi sembrava incredibile che ci fossero là fuori delle persone le cui condizioni neurologiche, secondo quanto mi aveva raccontato James, le rendevano creature orribili, oscure, malevole, degne di un film di fantascienza. Ricordavo vagamente di aver sentito dire da uno psicologo che ai livelli più alti della politica e dell’economia c’è abbondanza d’individui con tratti comportamentali riconducibili alla psicopatia, ambienti dove un’assenza clinica di empatia è considerata un vantaggio.


Era davvero così? Essi mi salutò di nuovo con la mano, e decisi che no, non era il caso d’immischiarsi nel mondo di quei pazzi pericolosi, soprattutto per uno come me che soffre d’ansia. Risposi al saluto e mi incamminai lungo il corridoio.


L’edificio dove lavorava Deborah, lo University College London Wellcome Trust Centre for Neuroimaging, si trovava proprio dietro l’angolo di Queen Square. Era più moderno, equipaggiato con gabbie di Faraday e scanner fMRI azionati da tecnici smanettoni che indossavano magliette di Superman. Il loro fare impacciato rendeva le macchine meno inquietanti.


«Il nostro scopo» recitava il sito web del centro, «è di comprendere in che modo il pensiero e la percezione vengano originati dall’attività cerebrale, e come tale processo degeneri nel caso di malattie neurologiche e psichiatriche».


Arrivammo alla cassetta della posta di Deborah, e io la esaminai scrupolosamente.


«Ok…» dissi, «bene».


Rimasi lì fermo annuendo con il capo. Anche Deborah cominciò ad annuire. Ci guardammo.


Era arrivato il momento di svelare il motivo che mi aveva condotto lì. Il mio livello di ansia negli ultimi mesi aveva raggiunto vette mai toccate prima. Non era normale. Le persone normali non vivono in uno stato di panico costante. Le persone normali non pensano di avere dentro di sé una creatura armata di pistola elettrica. Le persone normali non si sentono pungolate da un filo ad alto voltaggio come quello che impedisce alle mandrie di invadere il campo vicino. Il mio piano, quindi, fin dal primo incontro, era stato questo: spostare la conversazione sulle mie ansie esagerate, così magari Deborah mi avrebbe chiesto se volevo farmi scannerizzare il cervello o qualcosa del genere. Ma mi era sembrata così felice di avermi convinto ad accettare il caso che non me l’ero sentita di accennare alla mia condizione. Avrei rovinato l’atmosfera.


Ora avevo un’ultima chanche. Deborah si accorse che la stavo fissando, con l’aria di chi ha qualcosa d’importante da dire.


«Quindi?» chiese.


Seguì un momento di silenzio. La guardai.


«Ti farò sapere come procedono le cose» dissi.


Il volo Ryanair delle sei del mattino per Göteborg era affollato, claustrofobico e stipato all’inverosimile. Cercai di raggiungere la tasca posteriore dei pantaloni per tirar fuori il taccuino e scrivere la lista delle cose da fare, ma le gambe erano incastrate sotto il tavolinetto pieno di avanzi della colazione. Dovevo escogitare un piano, e con il taccuino, pensai, ce l’avrei fatta di sicuro. Non ho più la memoria di un tempo. In effetti mi capita sempre più spesso di uscire di casa allegro e pieno di idee per la giornata, di rallentare il passo e alla fine di ritrovarmi fermo sul marciapiede con l’aria smarrita. Ci sono momenti in cui tutto diventa sfocato e confuso. Prima o poi la memoria mi abbandonerà del tutto, com’è successo a mio padre, e allora non ci saranno più libri da scrivere. Devo assolutamente accumulare un bel gruzzolo prima che tutto ciò accada.


Provai a grattarmi un piede. Impossibile. Era intrappolato. Orribilmente intrappolato. Era…


«Yeeehalll!!» strillai senza volerlo. La gamba fece uno scatto verso l’alto, colpendo il tavolino. Il passeggero seduto di fianco a me mi lanciò un’occhiataccia.


Continuai a guardare dritto di fronte a me, un po’ sotto shock ma anche leggermente intimorito. Non avrei mai pensato di custodire dentro di me rumori così misteriosi e stravaganti.


A Göteborg avevo una traccia da seguire, anche se debole: il nome e l’indirizzo dell’ufficio di un uomo che forse conosceva la vera, o le vere, identità di questo Joe K. Il suo nome era Petter Nordlund. Anche se nessuno dei pacchetti spediti agli accademici conteneva un indizio, per esempio il nome dei possibili autori o del distributore, avevo trovato da qualche parte, sepolto nell’archivio online di una biblioteca svedese, il nome di Petter Nordlund, il traduttore verso l’inglese di L’essere o il nulla. Un’ulteriore ricerca su Google non mi aveva rivelato molto altro su di lui, se non l’indirizzo di una società di Göteborg, la BIR, in cui era in qualche modo coinvolto.


Se, come i destinatari del libro sospettavano, qualcuno aveva escogitato un enigma così astuto per ragioni ancora da appurare – propaganda religiosa? marketing virale? ricerca del personale? – Petter Nordlund era la mia unica possibilità di capirci qualcosa. Peraltro non sapeva nulla del mio arrivo.


Avevo paura che avvisandolo in anticipo si sarebbe dato alla macchia, o che avrebbe potuto fare una soffiata a chi c’era dietro l’operazione “L’essere o il nulla”. Avrebbero cercato di fermarmi. In ogni caso avevo deciso che presentarmi alla sua porta era senz’altro la mossa più astuta. Ma era una scommessa. L’intero viaggio non era che un giro alla roulette: i traduttori spesso lavorano molto lontano dai loro committenti, e c’era la fondata possibilità che Petter Nordlund non sapesse niente di niente.


Alcuni dei destinatari avevano suggerito che L’essere o il nulla fosse un puzzle impossibile da decifrare perché incompleto, e dopo aver studiato il testo per una settimana mi trovavo d’accordo. Ogni pagina sembrava essere un anagramma con una soluzione sfuggente, ma di poco.


Una nota all’inizio del libro informava i lettori che il manoscritto era stato “trovato” in un angolo di una stazione abbandonata: «Era lì, alla luce del sole, ben visibile a tutti, ma sono stato l’unico abbastanza curioso da raccoglierlo».


Seguivano poi delle citazioni ellittiche:


Il mio pensiero è muscolare.


Albert Einstein


Io sono uno strano anello.


Douglas Hofstadter


La vita è un’avventura piena di gioia.


Joe K


Nel libro c’erano solo ventun pagine scritte, alcune delle quali contenevano una sola frase. A pagina 18, per esempio, c’era solo questo: «Il sesto giorno dopo aver smesso di scrivere mi sono seduto a casa di B e ho finito il libro».


Il tutto era confezionato con la massima cura, stampato su carta della migliore qualità e con ottimi inchiostri. C’era a un certo punto la delicata riproduzione a piena pagina di una farfalla coloratissima. L’impresa insomma era costata un bel po’ di quattrini.


Il pezzo mancante non era saltato fuori con la prova dell’inchiostro simpatico, ma c’era un’altra possibilità. A pagina 13 di ciascuna copia era stato diligentemente ritagliato un buco. Mancavano alcune parole. Che la soluzione del mistero fosse lì, in quelle parole scomparse?


Una volta atterrato affittai una macchina. L’odore di un’auto a noleggio appena ripulita mi riporta sempre alla memoria i ricordi felici di altre avventurose investigazioni: le settimane passate sulle tracce di David Icke, per esempio, il teorico delle cospirazioni che affermava di aver scoperto che il mondo era segretamente governato da lucertole giganti che avevano assunto la forma umana, e si cibavano di sangue di fanciulli uccisi in riti sacrificali. Ed erano anche pedofile. Gran bella storia. E cominciò, proprio come questa, con l’odore di una macchina a noleggio appena pulita.


Il navigatore satellitare mi portò oltre il parco divertimenti di Liseberg, oltre lo stadio dove Madonna si sarebbe esibita la sera successiva, dritto verso il centro. Ero convinto che l’ufficio di Petter Nordlund si trovasse lì, invece all’improvviso il navigatore mi fece curvare a sinistra in una stradina sterrata, con due file di alberi ai lati, fino a un quartiere residenziale e ad un’enorme casa bianca in mattoni. Lì mi comunicò che ero arrivato a destinazione.


Andai alla porta e suonai il campanello. Mi aprì una donna in tuta.


«È qui l’ufficio di Petter Nordlund?» chiesi.


«Questa è la sua abitazione» disse lei.


«Ah, mi scusi…» dissi. «È in casa?».


«Oggi riceve i pazienti» disse. Aveva un accento americano.


«È un medico?» chiesi.


«Uno psichiatra» rispose.


Rimanemmo sulla soglia per un po’ a chiacchierare. Disse di chiamarsi Lily, e di essere la moglie di Petter. Si erano conosciuti e innamorati da ragazzi (lui aveva frequentato le scuole in America), e all’inizio pensavano di stabilirsi in California, da dove veniva Lily. Poi lo zio di Petter era morto lasciandogli in eredità questa casa gigantesca, e loro non avevano saputo resistere.


Petter, mi spiegò Lily, non era soltanto un traduttore ma uno psichiatra di grande successo. In seguito controllai il suo profilo su LinkedIn, dove si diceva che lavorava con schizofrenici, psicotici e persone affette da disturbo ossessivo-compulsivo. Era stato anche un chimico delle proteine e consulente per una società d’investimenti e per una compagnia biotech di Cambridge specializzata in ricerca e sviluppo del peptide terapeutico, o una cosa del genere.


Lavorava in una clinica a due ore da Göteborg, mi disse, e no, non era il caso che guidassi fino a lì. Non mi avrebbero comunque fatto entrare senza un permesso scritto.


«Persino io non posso vederlo quando è con i pazienti» mi disse. «È un rapporto molto intenso».


«Intenso… in che modo?» chiesi.


«Ah, non lo so!» disse. «Sarà di ritorno tra qualche giorno. Se si ferma qui a Göteborg può senz’altro ritentare, è il benvenuto». Fece una pausa. «Mi scusi, ma lei come mai è qui? Perché vuole incontrare mio marito?».


«Ha tradotto un libro molto curioso. Si intitola L’essere o il nulla. Mi ha talmente affascinato che mi è venuta voglia di conoscere suo marito per chiedergli chi gli ha commissionato il lavoro, e perché il testo è stato scritto».


«Ah…» disse lei. Sembrava sorpresa.


«Lei sa di che libro sto parlando?».


«Be’, sì» disse lei. Fece una pausa. «In effetti… sì, so di cosa sta parlando. Io… mio marito traduce molto… per clienti diversi… Quello era…». Sembrava confusa. Poi disse: «Noi non ci immischiamo nel lavoro l’uno dell’altro. Francamente non saprei neanche dirle bene di cosa si occupi al momento. So che è molto coinvolto nello studio di qualche cosa che ha a che fare con le molecole, ma sinceramente non ci capisco niente. A volte mi dice: “Ho appena finito di tradurre una cosa per un cliente”, e se è in svedese o chissà che altro io non so che dire e non provo neppure a farmi spiegare».


«Bene. È stato comunque un piacere parlare con lei» dissi. «Allora posso tornare tra qualche giorno?».


«Ma certo…» disse Lily. «Certo».


I giorni seguenti furono noiosi. Rimasi per lo più sdraiato in albergo a guardare degli strampalati programmi della televisione svedese che forse mi sarebbero sembrati più sensati se solo avessi capito qualcosa della lingua. Siccome così non era, mi sembravano tutti surreali e senza senso. In uno c’era un gruppo di accademici scandinavi che guardavano un collega versare della plastica liquida in un secchio di acqua fredda. Una volta solidificata, la tiravano fuori e se la passavano di mano in mano commentandone la forma irregolare. O almeno così sembrava. Chiamai a casa, ma mia moglie non rispose. Pensai subito che fosse morta. Panico. Ma non era morta: era uscita a fare la spesa. (Nella mia vita mi è capitato di andare nel panico senza motivo ai quattro angoli del pianeta.) Andai a fare un giro. Al ritorno trovai un messaggio di Deborah Talmi. C’era un indiziato. Potevo richiamarla?


Il sospetto non si trovava in Svezia, come scoprii con grande disappunto. Era invece a Bloomington, nell’Indiana. Si chiamava Levi Shand e aveva appena messo online la più inverosimile delle storie sul proprio coinvolgimento in questa strana faccenda.


La storia, mi disse Deborah, suonava più o meno così. Levi Shand era uno studente dell’Indiana University. Stava guidando senza meta in città quando vide per caso una scatola marrone abbandonata nel fango sotto un ponte ferroviario, così si avvicinò per dare un’occhiata.


La scatola era anonima e in buono stato, come se fosse stata lasciata lì da poco. Esitò un po’ ad aprirla; in fondo dentro poteva esserci di tutto, un milione di dollari in contanti come una testa mozzata, ma alla fine si fece coraggio e scoprì otto copie in perfetto stato di L’essere o il nulla.


Lesse l’avvertimento «Attenzione! Prima di leggere il libro studiate attentamente la lettera al professor Hofstadter. Buona fortuna!» e rimase colpito. Perché lui sapeva chi era il professor Hofstadter, e sapeva anche dove abitava.


«Io invece non so chi sia il professor Hofstadter» dissi a Deborah. «Ci sono diversi riferimenti a lui sparsi nel testo, ma sinceramente non ho capito se si tratta di una persona reale o di un personaggio inventato. Tu sai chi è?».


«È quello che ha scritto Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante» rispose, sorpresa della mia ignoranza. «È stato un successo straordinario».


Non replicai.


«Per un geek» sospirò Deborah, «lanciato alla scoperta del web, e soprattutto maschio, Gödel, Escher, Bach è la Bibbia. La tesi del libro è che con le teorie matematiche di Gödel e i canoni di Bach si può comprendere l’esperienza della coscienza. È un testo molto amato, a suo modo anche spiritoso. Non l’ho mai finito, ma lo tengo nella mia libreria».


Hofstadter, mi disse, era stato pubblicato alla fine degli anni settanta. Aveva vinto il Pulitzer, con quel libro. Il testo era pieno di enigmi complicati, giochi di parole e riflessioni sul significato della coscienza e dell’intelligenza artificiale. Era il tipo di libro, come Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta oppure Dal Big Bang ai buchi neri, che tutti volevano avere ma che pochi capivano.


Nonostante il mondo fosse ai suoi piedi, Hofstadter dal 1979 si era ritirato e aveva trascorso gli ultimi trent’anni lavorando come professore di scienze cognitive all’Indiana University. Tuttavia era molto noto tra gli studenti. Aveva un ciuffo di capelli bianchi che lo faceva somigliare a Andy Warhol, e abitava in una grande casa ai confini del campus. Ed è lì che il giovane Levi Shand si diresse con l’intenzione di mostrare a Hofstadter le otto copie di L’essere o il nulla trovate nella scatola sotto il ponte della ferrovia.


«Ehi, un ponte della ferrovia!» dissi a Deborah. «Hai notato il parallelo? Nella nota introduttiva l’autore dice di aver trovato alcune vecchie pagine dattiloscritte in una stazione abbandonata. E ora questo tizio trova alcune copie di L’essere o il nulla sotto il ponte di una ferrovia».


«È vero!».


«E poi secondo Levi Shand cos’è successo quando è arrivato a casa di Hofstadter per consegnargli i volumi?» chiesi.


«Dice di aver bussato. La porta si è aperta, lasciando intravedere un harem di donne bellissime. Francesi. Nude. Al centro dell’harem c’era Hofstadter. A quanto pare il professore ha invitato lo studente, rimasto a bocca aperta, a entrare, ha preso i libri, l’ha ringraziato e poi l’ha nuovamente accompagnato alla porta».


Fine della storia. Secondo Levi Shand…


Restammo in silenzio, perplessi.


«Un harem di donne francesi… nude?» commentai.


«Io non ci credo…» disse Deborah.


«In effetti non sembra molto plausibile…» dissi. «Che dici? Posso provare a parlarci al telefono?».


«Ho fatto delle ricerche su questo Levi Shand» disse Deborah. «Ha un profilo su Facebook».


«Ah, perfetto, allora provo a contattarlo lì».


Silenzio.


«Deborah?».


«Non credo esista davvero».


«Ma se hai appena detto che ha un profilo Facebook…».


«Oh, certo… con trecento amici americani. Un profilo “perfettamente tipico”».


«Tu credi che…».


«Sì, sono convinta che qualcuno abbia creato una pagina Facebook per convincerci dell’esistenza di Levi Shand» disse Deborah.


Presi in considerazione l’ipotesi.


«Hai fatto caso al nome?» chiese Deborah.


«Levi Shand?».


«Pensaci bene… ci arrivi?».


Rimasi in silenzio per un po’.


«Lavish end! Finale sontuoso!» esclamai d’un fiato.


«No» disse Deborah.


Tirai fuori un pezzo di carta.


«Devil Has N… Il diavolo ha N…?» provai a dire dopo qualche minuto.


«Live hands» disse Deborah. «È un anagramma di live hands, mani viventi».


«Ah, ok...» dissi io.


«Come il disegno sulla copertina di L’essere o il nulla» spiegò Deborah. «Due mani che si disegnano l’un l’altra…».


«Ma se Levi Shand non esiste» dissi io, «allora chi c’è dietro questa storia?».


«Secondo me sono tutti quanti Hofstadter» disse Deborah. «Levi Shand, Petter Nordlund… sono tutti Douglas Hofstadter».


Andai a fare una passeggiata a Göteborg, un po’ infastidito e deluso per essere rimasto a perder tempo qui giorni interi mentre il “colpevole” era probabilmente un famoso professore a circa quattromila chilometri di distanza, nell’Indiana. Deborah aveva aggiunto altre prove circostanziali a supporto della tesi che l’intero puzzle fosse opera della mente giocherellona di Douglas Hofstadter. Era esattamente il tipo di divertissement a lui congeniale, ed essendo l’autore di un best seller internazionale, disponeva delle risorse finanziarie necessarie a realizzarlo. La Svezia poi gli era ben nota: secondo la sua pagina Wikipedia ci aveva vissuto a metà degli anni sessanta. Infine, L’essere o il nulla somigliava a un libro di Hofstadter. La copertina bianca immacolata ricordava quella di Anelli nell’io, libro successivo a Gödel, Escher, Bach.


Inventarsi uno studente dell’Indiana University con una pagina Facebook fasulla e un racconto improbabile di harem e donne francesi nude poteva in effetti sembrare una trovata bizzarra; ma tanto, interrogarsi sui meccanismi profondi che muovono una mente brillante e acuta come quella di Hofstadter era forse troppo, per noi.


E poi Deborah era sicura di aver risolto il mistero. Mancava ancora un pezzo, ma almeno non si parlava più d’inchiostro invisibile e parole ritagliate a pagina 13. Si trattava invece, secondo lei, del modo in cui il libro aveva messo in luce il narcisismo dei destinatari.


«È esattamente la tesi di Anelli nell’io» mi spiegò. «Il testo spiega come tutti noi passiamo la vita in una sorta di strano anello infinito di autoreferenzialità. E ora un sacco di gente si chiede: “Perché proprio io sono stato scelto per ricevere il pacchetto?”. Non parlano del libro o del messaggio, parlano di se stessi. Così L’essere o il nulla ha creato uno strano anello infinito di persone, che le ha traghettate dritte verso l’autoreferenzialità».


Fece una pausa. «Secondo me è questo il messaggio di Hofstadter».


Era una teoria convincente, e fino all’ultimo continuai a credere che fosse la soluzione di tutto; o meglio, fino a quando un’ora dopo non mi trovai su Skype con Levi Shand, che non era un personaggio inventato da Douglas Hofstadter ma uno studente dell’Indiana University in carne e ossa.


Era un bel giovanotto con i capelli scuri, occhi dolenti e la tipica camera da studente molto disordinata. Non era stato difficile rintracciarlo. Gli avevo scritto un messaggio sulla sua pagina Facebook, lui aveva risposto subito (era online in quel preciso momento) e nel giro di qualche secondo eccoci qui, faccia a faccia.


Mi disse che era tutto vero. Aveva davvero trovato il libro in una scatola sotto un ponte della ferrovia, e Douglas Hofstadter disponeva davvero di un harem di donne francesi nude a casa sua.


«Dimmi esattamente cos’è successo quando sei andato da lui» gli dissi.


«Ero parecchio nervoso…» disse Levi. «Sai, il professore è un’autorità nel campo delle scienze cognitive. Ha aperto la porta una bellissima ragazza francese. Mi ha detto di aspettare lì. Ho sbirciato nella stanza accanto, e c’erano altre ragazze francesi».


«Quante, in tutto?» chiesi.


«Almeno sei» disse Levi. «Castane, bionde… tutte lì in piedi tra la cucina e il salotto. Erano davvero belle».


«Ma dici sul serio?».


«Be’, in effetti potevano essere del Belgio» disse Levi.


«Cos’è successo dopo?» chiesi.


«Il professor Hofstadter è uscito dalla cucina» disse, «magro ma in forma. Carismatico. Ha preso i libri, mi ha ringraziato e se n’è andato. Questo è tutto».


«E ogni parola del tuo racconto è vera?».


«Ogni singola parola» disse Levi.


Ma c’era qualcosa che non tornava. La storia di Levi Shand, come la teoria di Deborah, aveva senso solo partendo dall’assunto che Douglas Hofstadter fosse una specie di allegro e spensierato burlone, ma nulla di ciò che avevo trovato su di lui confermava questa ipotesi. Per esempio nel 2007 Deborah Solomon del “New York Times” gli aveva rivolto qualche domanda vagamente faceta, e le risposte avevano rivelato un uomo dal carattere serio e piuttosto insofferente:


Solomon: Lei è diventato celebre nel 1979 con la pubblicazione di Gödel, Escher, Bach, un classico per gli studenti, un testo che traccia dei parallelismi tra i cervelli di Bach, M.C. Escher e il matematico Kurt Gödel. Nel suo nuovo libro, Anelli nell’io, lei sembra interessarsi esclusivamente al suo, di cervello.


Hofstadter: È un libro più logico. Meno folle. Meno coraggioso, forse.


Solomon: Lei è bravissimo a promuovere i suoi libri.


Hofstadter: Ok, sì, forse… non saprei che dire. All’origine della stesura di questo libro ci sono questioni irrisolte come la coscienza e l’anima.


Solomon: Nella sua pagina di Wikipedia si legge che il suo lavoro ha ispirato molti studenti a intraprendere una carriera nel campo dei computer e dell’intelligenza artificiale.


Hofstadter: I computer non mi interessano minimamente. La pagina di Wikipedia è piena d’inesattezze, e questa cosa un po’ mi infastidisce.


E così via… Venni a sapere che il lavoro di Hofstadter era stato segnato da due tragedie “neurologiche”. La sorella minore, Molly, era incapace di parlare e di comprendere il linguaggio. All’epoca della diagnosi Douglas Hofstadter aveva dodici anni. «Ero già molto interessato a come funzionavano le cose nella mia testa» dichiarò nel 2007 al “Time”. «Quando l’incapacità di Molly di parlare fu ormai evidente cominciai a mettere in relazione la coscienza e il mondo fisico. Una situazione del genere ti porta a pensare al cervello e al sé, e a come il primo determini la persona che sei».


E poi nel 1993 sua moglie Carol morì improvvisamente di tumore al cervello. Avevano due bambini di due e cinque anni. Hofstadter fu sopraffatto dal dolore. In Anelli nell’io cerca una qualche consolazione nell’idea che Carol continui a vivere nel suo cervello: «Credo che una traccia dell’Io di Carol, della sua interiorità, della sua luce interiore, comunque la vogliate chiamare, sia rimasta intatta dentro di me» ha dichiarato a “Scientific American”, «e la parte conservata di lei è una traccia valida del suo essere, della sua anima, se preferite metterla così. Voglio sottolineare però che questa “scintilla” di Carol rimasta in me non è che una copia molto sbiadita di ciò che lei era. È una versione ridotta, in bassa risoluzione, incompleta… Naturalmente non rimuove il dolore della perdita. Non è come dire “Oh be’, non importa che sia morta, tanto continua a vivere benissimo nel mio cervello”. Magari fosse così… Tuttavia è una specie di consolazione».


Non c’era proprio nulla in tutto ciò che suggerisse l’idea di un uomo con un harem di donne francesi in casa e la propensione a mettere in piedi una cospirazione complicata e stravagante con decine di copie di libri misteriosi spediti anonimamente agli accademici di mezzo mondo.


Gli scrissi un’email per chiedergli se la storia di Levi Shand sul ritrovamento della scatola sotto il ponte e dell’harem di donne francesi fosse vera, e me ne andai a fare una passeggiata. Al mio ritorno trovai la risposta ad attendermi:


Gentile signor Ronson,


non ho niente a che vedere con L’essere o il nulla, tranne per il fatto di esservi menzionato. Sono una “vittima innocente” del progetto. Sì, il signor Shand è venuto a casa mia a consegnarmi alcune copie di questo strano volume, ma il resto della storia è puro frutto della sua immaginazione. Mia figlia stava prendendo lezione di francese dalla sua insegnante madrelingua in salotto, ed è possibile che Shand le abbia intraviste e sentite parlare in francese. Inoltre io parlo in italiano con i miei figli, e posso supporre che Shand abbia confuso l’italiano con il francese. Il punto è che casa mia non era certamente piena di belle donne francesi nude: è un’idea ridicola. Il signor Shand voleva che la sua “missione” sembrasse misteriosa e affascinante. È una vergogna che la gente faccia cose del genere e poi le racconti sul web.


Cordiali saluti,


Douglas Hofstadter


Gli risposi subito. Gran parte della storia di Levi Shand suonava falsa anche a me, dissi, non solo per la faccenda dell’harem ma anche per come aveva detto di aver ritrovato la scatola. Riteneva possibile che Levi Shand fosse in realtà l’autore di L’essere o il nulla? Ecco la risposta:


Sono sicuro che Levi Shand non è l’autore di quel piccolo libro bianco. Ne ho ricevute circa ottanta copie (settanta in inglese, dieci in svedese) dall’autore. Sono ancora tutte intatte nel mio ufficio. Prima ancora che mi venisse recapitato il libro ricevetti una serie di cartoline estremamente criptiche, tutte in svedese (le ho lette, ma senza prestare particolare attenzione, e nessuna aveva il minimo senso). Le persone normali (cioè sane di mente, dotate di buon senso) non tentano di aprire linee di comunicazione con dei perfetti sconosciuti scrivendo loro una serie di messaggi sconnessi, criptici e bizzarri.


Le cose poi sono peggiorate. Prima mi hanno inviato alcune copie; qualche mese dopo ne sono arrivate un’ottantina nel mio ufficio; poi è stata la volta dell’assurda storia dei libri ritrovati sotto il ponte, e infine quei libri hanno cominciato ad arrivare in diverse università del mondo, spediti ad accademici che si occupano di discipline vagamente legate all’intelligenza artificiale, la biologia e così via. E ci sono le parole ritagliate (molto, molto inquietante), e la lettera dattiloscritta indirizzata a me. Una cosa da pazzi. Potrei andare avanti, ma non ho tempo.


Ho maturato molta esperienza di casi di persone brillanti ma squilibrate, persone che credono di aver trovato la chiave dell’universo e via dicendo. Questo in particolare è un caso chiarissimo, poiché perfettamente ossessivo.


Sì, c’era un pezzo mancante nel puzzle, mi stava dicendo Hofstadter, ma i destinatari avevano in un certo senso sopravvalutato tutta la cosa nel suo insieme. L’idea che questa impresa fosse l’opera di un pensiero intelligente e razionale derivava dal fatto che loro erano intelligenti e razionali, e di solito si tende a credere che gli altri siano fondamentalmente uguali a noi. In realtà il pezzo mancante era un altro: l’autore dello scherzo era fuori come un balcone. Non erano riusciti a decodificare il testo per il semplice motivo che era stato scritto da uno squinternato.


Petter Nordlund, pensai.


Poteva essere lui l’unico artefice? Sembrava improbabile che un uomo di successo, stimato psichiatra, chimico delle proteine (qualsiasi cosa voglia dire chimico delle proteine…) e consulente di un’azienda di biotecnologie specializzata in ricerca e sviluppo del peptide a scopo terapeutico (qualsiasi cosa voglia dire peptide a scopo terapeutico), fosse in realtà, per dirla con le parole di Hofstadter, «un pazzo con una spiccata tendenza ossessiva».


Alle sette di sera mi ritrovai di fronte a Petter Nordlund, e mi fu subito chiaro che il colpevole non poteva che essere lui. Alto, sui cinquant’anni, attraente nella sua aria accademica, indossava una giacca di tweed e stava sulla soglia di casa con accanto la moglie. Mi piacque subito. Sfoggiava un sorriso gentile, enigmatico, e si torceva le mani come un ossesso. Lo faccio spesso anch’io. Non riuscii a smettere di pensare che sul fissarsi su cose stupide e senza alcuna importanza io e Petter eravamo molto simili.


«Non mi aspettavo di vederla qui» disse Petter.


«Spero non sia una sorpresa troppo spiacevole» dissi io.


Ci fu un attimo di silenzio.


«Se lei sta studiando L’essere o il nulla» disse Petter, «avrà ormai capito che è impossibile rintracciarne l’autore».


«Credo di sapere chi sia l’autore. Secondo me è lei».


«È facile da…» Petter si interruppe. «È una conclusione un po’ troppo scontata, non crede?».


«Ma è corretta?» chiesi.


«Certo che no» disse lui.


Petter (Petter Nordlund non è il suo vero nome, come pure quello di sua moglie, Lily) si dondolava sulle gambe. Aveva tutta l’aria di chi ha ricevuto una visita inaspettata dai vicini di casa mentre ha qualcosa sul fuoco. Ero certo che la sua aria distratta e gentile non fosse che una maschera dietro la quale celava lo sconcerto per la mia visita.


«Petter…» continuai, «lasci solo che le chieda questo. Come sono stati scelti i destinatari del libro?».


E qui Petter si mise ad ansimare un po’. Gli si illuminò il viso. Era come se gli fosse stata rivolta la miglior domanda del mondo.


«Ecco…» disse.


«Come fai a sapere chi ha ricevuto il libro?» lo interruppe bruscamente Lily, con voce seccata. «Tu l’hai solo tradotto…».


L’attimo svanì nel nulla. Petter riprese la sua aria distratta e gentile.


«Certo… Certo… Mi dispiace molto ma devo finire… volevo solo salutarla e poi rientrare. Ho detto più di quanto avrei dovuto… Adesso parli con mia… mia moglie».


Petter rientrò in casa e io e Lily ci guardammo.


«Parto per la Norvegia» disse. «Arrivederci».


«Arrivederci» dissi io.


Tornai a Londra.


Trovai un’email di Petter ad attendermi. «Lei sembra una brava persona. La prima parte del progetto terminerà presto, e toccherà ad altri proseguire verso il secondo livello. Non so se lei potrà avere un ruolo o no in questa vicenda, ma lo saprà presto…».


«Sarei lieto di dare il mio contributo, se solo lei mi indicasse come» risposi.


«Dunque... vede, questa è la parte più insidiosa: sapere cosa fare» rispose. «È ciò che chiamiamo vita! Si fidi, quando giungerà il suo momento sarà pronto».


Passarono diverse settimane. Il mio momento non arrivò, o comunque io non me ne accorsi. Alla fine telefonai a Deborah e le dissi che avevo risolto il mistero.


Seduto allo Starbucks del Brunswick Center di Londra osservavo Deborah mentre girava l’angolo e si dirigeva a passo spedito verso di me. Si sedette e sorrise.


«Allora?» disse.


«Dunque…» dissi io.


Le raccontai delle conversazioni con Levi Shand e Douglas Hofstadter, dell’incontro con Petter e Lily, della corrispondenza successiva. Quando finii mi guardò e disse: «Tutto qui?».


«Sì» dissi. «È successo tutto perché l’autore, secondo le parole di Hofstadter, è uno squilibrato. Stavate cercando il pezzo mancante del puzzle? Be’, eccolo: è questo».


«Ah» disse lei. Sembrava delusa.


«Ma non è affatto una conclusione deludente, Deborah!» dissi. «Non capisci? È molto, molto più interessante. Non sei colpita da tutto quello che si è mosso solo perché qualcosa non va nel cervello di un uomo? È come se il mondo razionale, il tuo mondo, fosse uno stagno immobile, e il cervello di Petter un sasso scagliato al centro da cui partono tutte quelle onde».


Questa idea iniziò all’improvviso a interessarmi tantissimo: la follia di Petter Nordlund aveva esercitato un’influenza enorme sul mondo. Era stata la causa di esami, riflessioni, discussioni: aveva creato una specie di comunità. Diversi accademici sparsi ai quattro angoli del globo si erano fatti coinvolgere, per poi tirar fuori il loro lato più paranoico e narcisista. Si erano dati appuntamento sui blog e sui social network per dibattere ore e ore fino a elaborare teorie complottiste su fantomatiche organizzazioni cristiane e altro ancora. Una di loro si era spinta a incontrare me in un bar. Io ero volato in Svezia nel tentativo di risolvere il mistero. E così via.


Pensai al mio cervello iperansioso, la mia personale forma di squilibrio. E se ci fosse in me un motore più potente della razionalità? Ricordai il parere di quegli psicologi che dicono che sono gli psicopatici a fare andare avanti il mondo. E ci credono pure: la società sarebbe, secondo loro, l’espressione di quella particolare forma di pazzia.


All’improvviso la follia era ovunque intorno a me, ed ero deciso a capirne l’impatto sulle dinamiche della società. Ho sempre creduto che la società si basi su fondamenta razionali. Ma se non fosse così? Se invece fosse costruita sulla pazzia?


Dissi tutto a Deborah. Aggrottò le sopracciglia.


«Ma la storia di quel libro…» disse, «sei proprio sicuro che sia tutta colpa di uno svedese svitato?».


1 Gioco di parole intraducibile in italiano. In inglese le iniziali del titolo del libro misterioso, Being or Nothingness, formano la parola born. [N.d.T.]

Capitolo 2

L’uomo che fingeva di essere pazzo

Il DSM-IV-TR è un manuale di un migliaio di pagine pubblicato dall’American Psychiatric Association. Si trova sugli scaffali di tutti gli studi di psichiatria e psicologia del mondo, ed elenca le malattie mentali ad oggi conosciute. Al momento sono 374.


Comprai il libro poco dopo aver salutato Deborah, e cominciai a sfogliarlo alla ricerca dei disturbi mentali che potrebbero spingere un malato a tentare di conquistare una posizione di potere o di controllo sugli altri. È un libro incredibilmente esaustivo, pieno di disturbi, inclusi quelli come il frotteurismo («sfregarsi contro una persona non consenziente all’interno di un veicolo per il trasporto pubblico, di solito mentre si fantastica di una relazione affettiva ed esclusiva con la vittima; la maggior parte degli atti di frotteurismo avviene quando la persona è tra i 15 e i 25 anni, dopo di che si assiste a un graduale declino nella frequenza»).


Tuttavia, con mia grande sorpresa, non c’era nulla sugli psicopatici. C’è forse stato uno scisma dietro le quinte del mondo che deve definire gli psicopatici? pensai. La patologia più simile che sono riuscito a scovare è il disturbo narcisistico di personalità, in cui i malati mostrano «un senso grandioso di importanza di sé e una tendenza a credere di aver diritto a tutto», sono «assorbiti da fantasie di successo illimitato», «mancano di empatia, sfruttano gli altri» e richiedono «un’eccessiva ammirazione». Oppure il disturbo antisociale di personalità, che porta chi ne soffre a comportarsi spesso «in modo manipolatorio e disonesto allo scopo di raggiungere del profitto personale o del piacere (per esempio per ottenere denaro, sesso o potere)».


Ecco, forse ho trovato qualcosa di grosso, pensai. Probabilmente molti politici e uomini d’affari soffrono del disturbo narcisistico di personalità, ed ecco perché spesso fanno le cose orribili che fanno, alla ricerca malata di un successo senza limiti e di un’eccessiva adulazione. Forse il vero motore delle loro azioni è la malattia. Sarebbe una storia straordinaria, se solo riuscissi a provare che è vera…


Chiusi il manuale.


E se soffrissi anch’io di uno di quei 374 disturbi?


Lo riaprii.


Non ci misi molto ad autodiagnosticarmi una dozzina buona di diverse patologie.


Che soffrissi di disturbo d’ansia generalizzato era certo, ma non avevo mai realizzato quanto la mia vita fosse un collage di malattie mentali: dalla mia incapacità di fare le addizioni (disturbo dell’apprendimento, nello specifico il disturbo del calcolo), con conseguenti momenti di tensione con mia madre quando si trattava di fare i compiti (problema relazionale genitore-bambino) fino ad oggi, in cui per esempio avevo passato un sacco di tempo agitato e bevendo caffè (disturbo correlato alla caffeina) invece di lavorare (disturbo fittizio). Ho il sospetto che sia piuttosto insolito soffrire di disturbo d’ansia generalizzato e allo stesso tempo di disturbo fittizio; ma l’improduttività tende a farmi venire l’ansia, e questo è quanto. Insomma, ce li ho tutti e due.


Persino nel sonno il DSM non mi dava pace. C’è il disturbo da incubi, diagnosticato a pazienti che sognano di essere «inseguiti, o definiti dei perdenti». Guarda caso, in tutti i miei incubi c’è qualcuno che mi rincorre per la strada urlando: «Sei un fallito!».


Ero molto più pazzo di quanto avessi mai immaginato. O forse non è una buona idea leggere il DSM-IV se non sei un professionista del settore. È anche possibile che l’American Psychiatric Association abbia il folle desiderio di etichettare la vita, tutta quanta, come un disordine mentale.


Sapevo, per aver visto soffrirne alcune persone a me vicine, che molte delle malattie elencate, come la depressione, la schizofrenia, il disturbo ossessivo-compulsivo e così via sono reali, devastanti, opprimenti. Ma come ha scritto L.J. Davis nella sua recensione al DSM: «È senz’altro possibile che il frotteurista sia una vittima imprigionata nelle catene della propria ossessione, ma è anche possibile che si tratti semplicemente di un cretino annoiato alla ricerca di un brivido idiota».


Non sapevo che fare. Decisi che se dovevo iniziare un viaggio alla ricerca di psicopatici seduti nella stanza dei bottoni dovevo prima di tutto verificare l’autenticità di quelle etichette. Cominciai a chiedere in giro. C’era forse qualche istituzione che si era dedicata a documentare i casi in cui gli psichiatri avevano agito con troppo zelo, e sbagliato clamorosamente diagnosi? Così, tre giorni dopo, finii a pranzo con Brian Daniels.


Brian è un membro di Scientology. Lavora per un’organizzazione internazionale della setta, il CCHR (Citizens Commission on Human Rights, il Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani), un gruppo che ha come scopo provare al di là di ogni ragionevole dubbio che gli psichiatri sono dannosi e devono essere fermati. Ci sono membri di Scientology come Brian sparsi negli uffici del CCHR in tutto il mondo, e ognuno di loro passa le proprie giornate alla ricerca di casi che possano gettare discredito sulla psichiatria e sugli psichiatri. È chiaro che Brian pendeva fortemente da una parte; del resto Tom Cruise ha realizzato un video per Scientology in cui dice: «Siamo noi gli esperti della mente!». Io però volevo sapere se la psichiatria avesse preso delle cantonate e quali, e nessuno ne sapeva più di Brian sull’argomento.


L’idea di incontrare un membro di Scientology mi intimidiva non poco. Avevo sentito dire che perseguitano con ogni mezzo coloro che ritengono nemici del loro culto. E se avessi detto la cosa sbagliata e mi fossi ritrovato Scientology alle calcagna per sempre? Alla fine, invece, io e Brian andammo d’accordo: entrambi condividevamo la sfiducia nella psichiatria. Ammetto che la sfiducia di Brian era più radicata, mentre io avevo maturato la mia solo da qualche settimana, in gran parte come conseguenza dell’infausta autodiagnosi fatta con il DSM-IV. Si trattava comunque di un ottimo argomento di conversazione per il pranzo.


Brian mi raccontò di un suo recente successo, peraltro uno dei più importanti, conseguito qualche settimana prima: il suo ufficio era riuscito a incastrare lo psichiatra inglese Raj Persaud, personaggio molto popolare in televisione.


Persaud è stato a lungo il beniamino delle emittenti televisive inglesi, anche se ha ricevuto qualche critica per l’ovvietà delle sue affermazioni sui giornali. Nel 1996 Francis Wheen ne ha parlato sul “Guardian”: «Dopo l’arresto di Hugh Grant [per essersi intrattenuto con una prostituta] il “Daily Mail” chiese a Persaud di analizzare i commenti di Liz Hurley a seguito dell’episodio. Ecco cosa disse: “Il fatto che Liz si senta ‘ancora stupefatta’ indica che la fiducia in lui è stata scossa, e deve ancora essere ricostruita […]. L’affermazione secondo la quale ‘non riesco ancora a prendere una decisione sul futuro’ è indicativa: ci suggerisce che il futuro è aperto”. Un anno fa, quando la neonata Abbie Humphries fu rapita dall’ospedale in cui si trovava, il “Daily Mail” si chiese che tipo di donna potrebbe mai fare una cosa simile. Per fortuna il dottor Persaud era lì a spiegarci che la rapitrice probabilmente avvertiva un certo “istinto di maternità”».


E via di questo passo. Nel 2007 il dottor Persaud fu, su istigazione di Brian, accusato di plagio. Aveva scritto un articolo contro la guerra alla psichiatria ingaggiata da Scientology, e trecento parole risultarono copiate verbatim da un precedente saggio di Stephen Kent, professore di sociologia all’università dell’Alberta in Canada. Sembrò a tutti un gesto piuttosto sconsiderato, visto che è noto l’occhio di falco di Scientology. Poi saltarono fuori altri episodi di plagio e il dottor Persaud finì sospeso per tre mesi dall’ordine degli psichiatri. Per lui, abituato a fare le pulci alle celebrità, è stata una grande umiliazione trovarsi sotto lo scrutinio dell’opinione pubblica.


«Persaud è semplicemente un narcisista» si chiedeva il “Guardian”, «oppure è schiacciato dalla scarsa fiducia in sé e non rispetta le regole accademiche perché è convinto di non appartenere a quell’ambiente?».


Comunque non lo si vede più in televisione o sui giornali. Brian sembrava soddisfatto del successo.


«Mi interessa l’idea» gli dissi, «che molti dei nostri leader politici possano soffrire di disturbi mentali…».


Brian alzò le sopracciglia alle parole disturbi mentali.


«Ma prima di tutto» continuai, «voglio essere sicuro di potermi fidare delle persone che formulano le diagnosi. Hai qualcosa d’importante per le mani che può convincermi a diffidare degli psichiatri?».


Silenzio.


«Sì» disse Brian. «C’è Tony».


«Tony? Chi è Tony?» chiesi.


«Tony sta a Broadmoor».


Rimasi di sasso.


Broadmoor significa Broadmoor Psychiatric Hospital. Una volta si chiamava Manicomio criminale di Broadmoor; è lì che spedirono Ian Brady, il killer dei Moors, che a metà degli anni sessanta uccise tre bambini e due adolescenti; oppure Peter Sutcliffe, lo squartatore dello Yorkshire, che durante gli anni settanta uccise tredici donne, colpendole con martello e coltello; o ancora Kenneth Erskine, lo strangolatore di Stockwell, che nel 1986 soffocò sette anziani; e poi Robert Napper, che fece fuori Rachel Nickell nei giardini di Wimbledon, pugnalandola quarantanove volte di fronte al figlioletto di tre anni. Insomma, Broadmoor è il posto dove spediscono i pedofili, i serial killer e gli assassini di bambini, quelli che proprio non riescono a controllarsi.


«Cos’ha fatto Tony?» chiesi a Brian.


«È questo il punto: Tony è perfettamente sano di mente!» disse. «Ha finto così bene che l’hanno rinchiuso lì. E adesso è incastrato, nessuno gli crede più».


«Spiegati meglio» dissi.


«Anni fa fu arrestato per qualcosa» disse Brian, «e decise di fingersi pazzo per non andare in prigione. Pensava di finire in qualche tranquillo istituto locale, e invece lo spedirono a Broadmoor! E ora non lo fanno più uscire. Più cerca di convincere gli psichiatri di non essere pazzo più loro raccolgono prove del contrario. Tony non è un seguace di Scientology o cose del genere, ma stiamo cercando comunque di aiutarlo in tribunale. Se vuoi la prova della follia degli psichiatri, di come non abbiano la più pallida idea di quello che fanno e di quanto si inventino lì per lì delle malattie inesistenti, allora devi incontrare Tony. Vuoi che provi a farti entrare a Broadmoor per un colloquio?».


Possibile che fosse vero? C’era sul serio un uomo sano di mente a Broadmoor? Mi misi a pensare a cosa avrei fatto per provare a qualcuno di essere a posto con il cervello. Mi farebbe piacere poter credere che il mio normale, fondamentalmente sano stare-al-mondo basti e avanzi, ma sono sicuro che mi comporterei in modo così cortese e appropriato che finirei per somigliare a un maggiordomo pazzo con gli occhi iniettati di sangue. E poi ho sempre la sensazione di essere più squilibrato del solito appena mi trovo in situazioni strane o assurde, com’è evidente dall’urletto sfuggitomi di bocca a bordo del volo Ryanair diretto a Göteborg.


Se volevo incontrare Tony…?


«Certo» dissi.


La sala visite di Broadmoor sembrava un complesso ricreativo comunale: un trionfo di pesca, rosa e verde pallido. Appese al muro c’erano stampe di inizio secolo, con finestre dipinte in colori pastello che si aprivano su spiagge al tramonto. Il nome dell’edificio era Centro benessere.


Ero arrivato fin lì in treno. Verso Kempton Park mi era venuto da sbadigliare in modo incontrollabile. Di solito mi succede quando sono sotto stress. Pare che lo facciano anche i cani: sbadigliano quando sono nervosi.


Brian venne a prendermi alla stazione e guidò fino all’ospedale, non molto distante da lì. Passammo attraverso due cordoni di sicurezza: «Ha un telefono cellulare?» mi chiese la guardia al primo sbarramento. «Registratori? Una torta con dentro un’ascia? Una scala?». Proseguimmo attraverso cancelli ricavati nelle recinzioni ad alta sicurezza, una dopo l’altra.


«Mi sa che Tony è l’unico del braccio DSPD a cui hanno accordato il privilegio di ricevere visite al Centro benessere» disse Brian mentre attendevamo il via libera.


«Braccio… DSPD?», chiesi.


«Dangerous and Severe Personality Disorder, disturbo grave e pericoloso della personalità» disse Brian.


Silenzio.


«Aspetta un attimo… mi stai dicendo che Tony è ricoverato con i casi più pericolosi?».


«Assurdo, vero?» fu il commento di Brian.


I pazienti cominciarono a caracollare nella stanza avvicinandosi ai loro cari, alle sedie e ai tavolini fissati al pavimento. Si somigliavano tutti: aria docile e occhi tristi.


«Sono sotto psicofarmaci» bisbigliò Brian.


Quasi tutti erano sovrappeso, e indossavano magliette sformate e pantaloni della tuta con l’elastico in vita. A Broadmoor non c’era molto da fare a parte mangiare.


Mi chiesi se ci fosse qualche celebrità, tra loro.


Bevevano tè e mangiavano merendine prese ai distributori automatici dai loro visitatori. La maggior parte era giovane, sui vent’anni, ed erano venuti a trovarli i genitori. Alcuni erano più vecchi: per loro c’erano partner e figli.


«Ah! Ecco Tony!» disse Brian.


Guardai verso la porta. Un uomo tra i venti e i trent’anni stava venendo verso di noi. Non trascinava i piedi come gli altri. Camminava rilassato. Tese la mano per un saluto. Non era in tuta, ma indossava una giacca a righe e dei pantaloni normali. Sembrava un uomo d’affari, giovane, pronto a farsi strada nella vita e molto, molto ansioso di sembrare perfettamente sano di mente.


E naturalmente, mentre lo osservavo venire verso di noi non potei non chiedermi se la giacca a righe fosse un segno di salute o di malattia.


Ci stringemmo la mano.


«Piacere, Tony» disse sedendosi.


«Brian dice che hai finto così bene da finire qui» dissi.


«È andata proprio così». La voce era normale, gentile, tipica di chi è ansioso di piacere agli altri.


«Avevo commesso un reato: lesioni personali gravi. Dopo l’arresto me ne stavo seduto in cella e pensai che mi avrebbero dato dai cinque ai sette anni. Chiesi consiglio ai compagni. Mi dissero: “Facile! Fai finta di essere matto, ti mettono in uno di quegli ospedali tranquilli, con Sky e la PlayStation. Le infermiere lì ti portano la pizza”. Ma non mi hanno spedito in un posto tranquillo… mi hanno rinchiuso in questo dannato Broadmoor».


«Quando è successo?» chiesi.


«Dodici anni fa» disse Tony.


Contrassi il viso in una smorfia involontaria.


Tony sorrise.


Disse che fingere la pazzia era stata la parte facile, soprattutto per un diciassettenne che si drogava e vedeva un sacco di film dell’orrore. Non serve sapere come si comportano i matti veri: basta copiare Dennis Hopper in Velluto Blu. Ed è quello che decise di fare Tony. Raccontò a uno psichiatra del penitenziario che a lui piaceva spedire lettere d’amore dritte dal suo cuore, che lettera d’amore era uguale a pallottola e riceverne una mandata da lui equivaleva ad andare all’inferno.


Pescare a piene mani da un film così famoso era stato rischioso, disse, ma funzionò. Cominciarono ad arrivare molti altri psichiatri per visitarlo. Tony ampliò il repertorio fino a includere scene da Hellraiser: Inferno, Arancia Meccanica e Crash, il film di David Cronenberg in cui i protagonisti traggono un perverso piacere erotico dagli incidenti stradali. Tony si mise a raccontare agli psichiatri che a lui piaceva andare a schiantarsi in macchina contro i muri per puro godimento sessuale, e che voleva uccidere delle donne perché guardarle negli occhi mentre morivano l’avrebbe fatto sentire normale.


«E questa da dove l’hai presa?» chiesi a Tony.


«Dalla biografia di Ted Bundy» rispose. «L’ho trovata nella biblioteca del carcere».


Annuii, ma pensai che forse non era poi un’idea così geniale mettere a disposizione libri su Ted Bundy nella biblioteca di un carcere.


Brian era seduto di fianco a me e ridacchiava sarcastico della stupidità e dell’ingenuità degli psichiatri.


«Hanno creduto ad ogni parola» disse Tony.


Il giorno in cui arrivò a Broadmoor si rese conto di aver commesso un grave errore. Chiese di parlare urgentemente con gli psichiatri.


«Non sono pazzo» disse loro.


È molto, molto più difficile, mi spiegò Tony, convincere qualcuno che sei a posto che non il contrario.


«Pensai che il modo migliore di sembrare normale» disse, «sarebbe stato di parlare in modo normale di cose normali come il calcio o i programmi in tv. È una cosa ovvia, no? Sono abbonato al “New Scientist”. Mi piace sapere qualcosa delle nuove scoperte scientifiche. Un giorno lessi un articolo sull’esercito americano che cercava di addestrare i calabroni a riconoscere gli esplosivi dall’odore. Così dissi a un’infermiera: “Lo sa che l’esercito americano addestra i calabroni ad annusare gli esplosivi?”. Tempo dopo, quando vidi la mia cartella medica trovai scritto: “È convinto che i calabroni riconoscano l’esplosivo attraverso l’odore”».


«Quando hai deciso di indossare una giacca a righe prima del nostro incontro» gli chiesi, «eri consapevole del fatto che potevi sembrare tanto pazzo quanto normale?».


«Sì» disse Tony, «ma ho deciso di rischiare. I pazienti qui sono dei sudicioni che non si lavano e non si cambiano per settimane. A me invece piacciono i bei vestiti».


Girai lo sguardo verso i pazienti del Centro benessere; divoravano barrette al cioccolato con i genitori che, al contrario di loro, si erano sforzati di vestirsi eleganti. Era domenica, all’ora di pranzo, e molti sembravano pronti per la tradizionale scampagnata festiva: i padri in giacca, le madri con il vestito buono. Una signora, seduta a due tavoli di distanza, aveva entrambi i figli a Broadmoor. La guardai chinarsi per accarezzare loro il viso, uno dopo l’altro.


«So che alcuni sono alla ricerca di “segni non verbali” per confermare il mio stato mentale» continuò Tony. «A loro piace un sacco analizzare il linguaggio del corpo. Ma per qualcuno che cerca di convincerli di essere sano di mente è una sfida durissima. Come ci si siede da sani? Come si incrociano le gambe? E la sai una cosa? Loro ci fanno caso davvero. Così stai sulle spine, ti senti a disagio. Provi a fare un sorriso normale, ma diventa…» fece una pausa, «diventa… semplicemente impossibile».


Cominciai d’un tratto a far caso al modo in cui ero seduto. Avevo la postura giusta per un giornalista? Le gambe erano incrociate correttamente?


«Così per un po’ hai pensato che comportarti in modo gentile ed educato sarebbe stato il tuo lasciapassare per l’uscita» dissi.


«Esatto» replicò. «Mi offrii volontario per strappare le erbacce in giardino. Ma i medici, vedendo che mi comportavo bene, decisero che stavo meglio nell’ambiente dell’ospedale psichiatrico, il che forniva loro un’ulteriore prova della mia pazzia».


Guardai Tony con aria dubbiosa. L’istinto mi suggeriva di non credergli: sembrava troppo simile a una storia di Comma 22, un classico episodio da film dell’orrore. Invece, quando Tony mi mandò le sue cartelle cliniche, ritrovai tutto nero su bianco.


«È allegro e amichevole» recitava uno dei rapporti. «La detenzione nella struttura previene il deteriorarsi delle sue condizioni».


(Può sembrare strano che a Tony sia stata concessa la consultazione delle cartelle cliniche, e anche che gli sia stato dato il permesso di mostrarle a me; eppure è ciò che accadde. Comunque non è più singolare del fatto che un membro di Scientology fosse riuscito a farmi entrare a Broadmoor, dove ai giornalisti è quasi sempre negato l’accesso. Come c’era riuscito? Non ne ho la più pallida idea… forse hanno un complice all’interno, oppure sono semplicemente bravi a destreggiarsi nelle pieghe della burocrazia.)


Dopo la lettura del rapporto Tony decise di smetterla con il comportamento da bravo ragazzo. Iniziò una sorta di guerra di non cooperazione, che comprendeva starsene quasi sempre chiuso nella sua stanza. Non che avesse molta voglia di passare il suo tempo con stupratori e pedofili, comunque: era orribile e anche un po’ pericoloso. Una volta, per esempio, Tony entrò nella stanza dello strangolatore di Stockwell per chiedergli un bicchiere di limonata.


«Ma certo! Prendi pure tutta la bottiglia» disse lo strangolatore.


«Grazie, ma me ne basta un bicchiere» disse Tony.


«Prendi la bottiglia…».


«No, davvero, va bene un bicchiere».


«Prendi quella cazzo di bottiglia!!!» urlò lo strangolatore di Stockwell.


Fuori, nel mondo reale, disse Tony, non voler passare il tempo con dei pazzi criminali è considerata una decisione perfettamente ragionevole. Nel mondo di Broadmoor invece dimostra antisocialità, freddezza ed eccessiva considerazione di sé. Dentro le mura dell’ospedale psichiatrico non voler fare amicizia con degli assassini spietati è segno di malattia mentale.


«Il comportamento del soggetto è peggiorato» si legge in un rapporto medico del “periodo non cooperativo” di Tony. «Non mostra interesse verso gli altri pazienti».


Allora Tony escogitò un nuovo piano, più radicale. Smise di parlare anche con le infermiere. Seguire le indicazioni terapeutiche è un segno di miglioramento, quindi i medici hanno il diritto legale di continuare; ma se Tony avesse rifiutato qualsiasi cura non sarebbe stato possibile ravvisare dei progressi, per cui, in qualità di caso incurabile, l’avrebbero dovuto lasciare andare. (Al momento la legge inglese prevede che non si possa detenere indefinitamente un paziente incurabile se costui è colpevole di reati cosiddetti minori, come appunto le lesioni personali aggravate.)


Il problema era che a Broadmoor se un’infermiera sedeva accanto a te a pranzo, iniziava a fare due chiacchiere e tu le rispondevi una sciocchezza qualsiasi, questo veniva considerato impegnarsi nel seguire la cura. Così Tony doveva dire a tutti: «Può sedersi a un altro tavolo?».


Gli psichiatri mangiarono la foglia e scoprirono lo stratagemma. Scrissero nei loro rapporti che il piano di Tony metteva in luce scaltrezza e tendenza alla manipolazione, nonché un’evidente distorsione cognitiva, perché non accettava il fatto di essere pazzo.


Tony fu simpatico e brillante per quasi tutto il tempo della mia visita, due ore, ma verso la fine si intristì.


«Sono arrivato qui a diciassette anni» disse. «Ora ne ho ventinove. Sono cresciuto a Broadmoor, su e giù per i reparti dell’ospedale. I miei vicini di stanza sono persone tipo lo strangolatore di Stockwell. Dovrebbero essere gli anni migliori della vita, e invece… be’, io ho visto gente suicidarsi, ho visto un uomo cavare un occhio a un altro».


«Come ha fatto?» chiesi.


«Con un pezzo di legno e un chiodo conficcato dentro» disse Tony. «Non ce l’ho più fatta quando il tipo ha provato a rimettersi l’occhio nell’orbita». Ce n’era abbastanza da diventare pazzi sul serio, secondo lui. Poi la guardia gridò forte una sola parola: «Tempo!», e con un saluto veloce Tony scattò in piedi, attraversò la stanza e si diresse verso l’uscita e il suo reparto. Tutti gli altri pazienti fecero lo stesso. Era un esempio di acutissimo, eccezionale se non addirittura estremo comportamento disciplinato.


Brian mi diede un passaggio fino alla stazione.


Non sapevo cosa pensare. Al contrario dei pazienti con gli occhi spenti e imbottiti di psicofarmaci, Tony mi era sembrato normale. Ma che ne sapevo? Secondo Brian ogni giorno trascorso da Tony a Broadmoor era una pagina nera per la psichiatria. Voleva tirarlo fuori di lì al più presto, ed era determinato a usare ogni mezzo possibile.


Il giorno dopo scrissi al professor Anthony Maden, primario del reparto dove si trovava ricoverato Tony: «La contatto nella speranza che lei possa gettare qualche luce sulla versione di Tony, e su quanta verità possa esservi contenuta». Mentre attendevo la risposta cominciai a chiedermi come mai il fondatore di Scientology, L. Ron Hubbard, avesse deciso di istituire l’organizzazione in cui lavorava Brian, il CCHR. Com’era iniziata la guerra di Scientology contro la psichiatria? Telefonai a Brian.


«Fai un salto a Saint Hill» disse. «Lì hanno probabilmente qualche vecchio documento su questa storia».


«Saint Hill?» dissi.


«La residenza di L. Ron Hubbard» disse Brian.


Saint Manor Hill, che fu la casa di Hubbard dal 1959 al 1966, è un edificio dall’aspetto aristocratico, conservato alla perfezione, nella campagna di East Grinstead, cinquanta chilometri a sud di Londra. Colonne immacolate, preziosissime mattonelle islamiche del dodicesimo secolo, camere estive, camere invernali, una stanza completamente ricoperta da ritratti murali delle personalità più importanti dell’Inghilterra del ventesimo secolo (una forma di satira stravagante e divertente commissionata dal precedente proprietario), e infine una nuova ala, piuttosto ampia, costruita dai volontari di Scientology a forma di castello medievale. C’era davvero di tutto.


Alcuni oggetti appartenuti a Ron Hubbard – il suo registratore, la carta da lettere personalizzata e un elmetto da esploratore – erano in mostra su dei tavolini sparsi per tutte le stanze. Uscii ad aspettare Brian: ero sicuro che sarebbe arrivato per indicarmi una stanza tranquilla dove poter studiare con calma i documenti relativi agli inizi della guerra contro la psichiatria ingaggiata dalla chiesa. Ma avevo appena girato l’angolo quando, con mia grande sorpresa, fui accolto da un comitato di benvenuto formato da alcuni dei leader di Scientology, arrivati a Londra dopo un volo intercontinentale apposta per salutarmi e accompagnarmi in giro. Mi stavano aspettando sul vialetto di ghiaia di fronte alla casa, tutti vestiti in modo impeccabile, e tutti con grandi sorrisi trepidanti.


Nelle ultime settimane i giornali avevano pubblicato una serie di inchieste negative su Scientology, ed evidentemente qualcuno molto in alto aveva deciso che forse io potevo essere il primo giornalista a lanciare un segnale diverso. Era successo che tre ex eminenti personalità della chiesa (Marty Rathburn, Mike Rinder e Amy Scobee) avevano mosso pesanti accuse contro David Miscavige, successore di L. Ron Hubbard. Secondo loro Miscavige puniva abitualmente i membri della chiesa accusati di essere poco motivati colpendoli con pugni e schiaffi, pestandoli a sangue, prendendoli a calci mentre erano a terra, e soffocandoli fino a farli diventare viola. A volte li costringeva senza preavviso a mettere in scena una versione estrema, che poteva durare tutta la notte, del gioco delle sedie vuote.


«La verità» mi disse il portavoce ufficiale di Scientology, Tommy Davis, «è che sì, alcune persone sono state picchiate. Sì, alcune sono state prese a calci mentre erano a terra e soffocate fino a diventare viola. Il fatto è che l’autore di tali violenze non è mai stato David Miscavige, ma lo stesso Marty Rathburn!». (Rathburn, come venni a sapere più avanti, ammise di aver commesso atti di violenza, ma su ordine di David Miscavige. La chiesa ha sempre respinto qualsiasi accusa.)


Tommy disse che, al contrario di molti giornalisti, io non ero il tipo da figurare sul libro paga dei poteri forti nemici di Scientology; ero un libero pensatore in grado di affrontare la realtà, per quanto sorprendente e inaspettata. Mi allungò una copia della loro rivista ufficiale, “Freedom”, in cui ci si riferiva ai tre accusatori come a Palla Centrale, Venditore di Fumo e Adultera. Quest’ultima si era macchiata della colpa più volte, aveva poi rifiutato di «moderare i propri smodati desideri sessuali» ed era stata infine «allontanata dalla chiesa per crimini ecclesiastici».


Alzai lo sguardo dalla rivista.


«E cosa mi dite della storia del gioco delle sedie vuote per tutta la notte?».


Silenzio.


«Sì, il signor Miscavige ce l’ha fatto fare» disse Tommy, «ma non è stato sgradevole neanche la metà di quanto hanno detto. Comunque… andiamo a fare un giro così possiamo farle vedere cos’è davvero Scientology».


Tommy mi consegnò nelle mani di Bob Keenan, la guida. «Sono il portavoce ufficiale di Scientology nel Regno Unito» esordì. Era inglese, un ex vigile del fuoco che, mi disse, aveva scoperto Scientology «dopo essermi rotto la schiena mentre tentavo di spegnere il fuoco in una casa di zingari nella zona est di Londra. In una delle camere da letto c’era un asino. L’ho visto, ho girato l’angolo e il pavimento ha ceduto, facendomi cadere fino al piano di sotto. Durante la convalescenza ho letto Dianetics: quel libro mi ha aiutato a sopportare il dolore».


La residenza era immacolata come oggi è raro vedere: tirata a lucido, senza un granello di polvere, come nei film in costume ambientati in un’epoca lontana in cui l’aristocrazia inglese esercitava un potere reale e disponeva delle risorse finanziarie per esercitarlo. L’unica macchia si trovava nella Camera d’Inverno, dove una piccola porzione del pavimento in marmo lucidato sembrava scolorita.


«Qui è dove Ron teneva un distributore di Coca Cola» mi spiegò Bob. Sorrise. «Ron amava la Coca Cola. La beveva di continuo, era una sua passione. Comunque, un giorno dal distributore ne è uscita un po’, lì dove vede la macchia. Abbiamo dibattuto a lungo se fosse il caso o meno di ripulirla. Secondo me è meglio lasciarla».


«Come una reliquia…» dissi.


«Esatto».


«Una specie di sacra sindone della Coca Cola».


«Più o meno…».


I nemici di Scientology credono che questa religione, e tutto ciò che viene compiuto in suo nome, inclusa la battaglia antipsichiatria, non sia altro che la manifestazione della follia di di L. Ron Hubbard. Sostengono che fosse paranoide e depresso (pare che si mettesse a piangere senza ritegno e tirasse oggetti contro il muro, urlando).


Tommy e Bob mi dissero invece che Hubbard era un genio, un benefattore dell’umanità. Mi fecero notare che era stato un boy scout pluripremiato («la più giovane Aquila Scout d’America» disse Bob, «si guadagnò ventun menzioni d’onore»), un pilota, un esploratore (leggenda vuole che abbia salvato a mani nude un orso che affogava), un autore di romanzi di fantascienza incredibilmente prolifico (era capace di scrivere un libro intero durante un viaggio notturno in treno), un filosofo, un navigatore, un guru, un fustigatore di perfidi psichiatri.


Pare che Hubbard sia stato il primo a denunciare l’utilizzo di massicce dosi di LSD ed elettroshock da parte di psichiatri al soldo della CIA per creare assassini senza coscienza. Pubblicò un rapporto sugli esperimenti nel 1969, e solo nel giugno del 1975 il “Washington Post” annunciò al mondo, ancora ignaro di tutto, che questo tipo di programmi esisteva davvero: nome in codice MK-ULTRA.


«A una persona drogata e sottoposta a elettroshock si può ordinare di uccidere, indicandole chi ammazzare e cosa dire dopo. Noi di Scientology, superiori agli psichiatri dal punto di vista tecnico e soprattutto morale, obiettiamo con forza all’indifferenza delle autorità verso i trattamenti a base di elettroshock e droga […]. Prima o poi la polizia si dovrà occupare degli psichiatri. Saranno smascherati» scrisse Hubbard in Pain-Drug-Hypnosis, nel 1969.


Si dice che Hubbard fosse convinto che gli attacchi contro di lui fossero il risultato di una cospirazione di poteri forti, in particolare delle industrie farmaceutiche legate alla psichiatria, perché le linee guida di Dianetics – secondo le quali siamo tutti carichi di engram, ricordi dolorosi di vite precedenti, ma liberandocene possiamo diventare invincibili, far ricrescere i denti, curare la cecità, diventare sani di mente – renderebbero del tutto inutili le visite dagli psichiatri o l’assunzione di psicofarmaci.


Un video di Scientology che illustra la vita del fondatore dice: «L. Ron Hubbard è stato probabilmente l’uomo migliore che mai abbia calpestato il suolo terrestre. Abbiamo avuto Gesù, Mosè, Maometto: tutti grandi uomini. L. Ron Hubbard è uno di loro».


L’ultima tappa della mia visita guidata era la camera da letto di Hubbard.


«Il 30 dicembre 1966 trascorse la sua ultima notte qui» disse Bob. «Il giorno seguente, alla vigilia di Capodanno, lasciò l’Inghilterra per non farvi mai più ritorno».


«Perché?» chiesi.


«La ricerca che stava conducendo era troppo…» Bob non aggiunse altro. Mi guardò con aria solenne.


«Sta dicendo che i suoi studi erano diventati così pericolosi da costringerlo a lasciare l’Inghilterra per paura della sua stessa vita?» chiesi.


«Le conclusioni a cui era giunto…» un leggero tono minaccioso si era insinuato nella voce di Bob.


«Hubbard non ha mai avuto paura» si intromise asciutto Tommy Davis. «Non sarebbe mai fuggito da nessuno. Non sarebbe corretto far pensare alla gente che scappò. Ha sempre fatto di testa sua».


«Andò via perché cercava un rifugio sicuro» chiarì Bill Walsh, avvocato, uno dei pezzi grossi della chiesa.


«Qual era la natura della ricerca?» chiesi.


Ci fu un breve silenzio. Poi Bob disse sommessamente: «La personalità antisociale».


La personalità antisociale


[Il soggetto con personalità antisociale] non è in grado di provare alcun rimorso o senso di vergogna. Apprezza esclusivamente azioni distruttive. Può sembrare molto razionale e molto convincente.


L. Ron Hubbard, Introduzione all’etica di Scientology, 1968


Durante gli anni vissuti a Saint Hill Hubbard cominciò a predicare che i suoi nemici, come l’American Psychiatric Association, erano personalità antisociali, spiriti malvagi ossessionati dall’idea di concentrare le loro forze oscure contro di lui. La loro malvagità si era notevolmente accresciuta nel corso di milioni di anni, ed era diventata una forza molto potente. Scrisse che era dovere di ciascun adepto di Scientology «portarli alla miseria […] e utilizzare ogni mezzo per distruggerne la reputazione». Più tardi ritirò l’ordine (non fa bene alle pubbliche relazioni, disse); tuttavia fu questo approccio così radicale e duro («Vogliamo una macchia su ogni psichiatra in Inghilterra, che sia un assassinio, un episodio di violenza, uno stupro, o anche più d’uno […]. Non c’è un solo psichiatra al mondo che, secondo le leggi vigenti, non possa essere chiamato a giudizio e condannato per estorsione, truffa e omicidio») a portare alla creazione del CCHR nel 1969.


Il CCHR vedeva la psichiatria così come Hubbard l’aveva descritta: un impero del male millenario, con Scientology nel ruolo di una forza ribelle intenta a sconfiggere Golia. C’è da dire che in effetti ebbero i loro momenti di gloria. Ci fu, per esempio, la campagna condotta tra gli anni settanta e ottanta contro lo psichiatra australiano Harry Bailey, il direttore sanitario di una piccola struttura alle porte di Sydney. Si rivolgevano a lui pazienti con sintomi di ansia, depressione, schizofrenia, obesità, sindrome premestruale e così via. Harry Bailey li accoglieva e chiedeva loro di ingoiare delle pillole. Alcuni pazienti sapevano che cosa sarebbe accaduto, altri no. A quelli che chiedevano spiegazioni sulle medicine Bailey rispondeva: «È una normale procedura medica».


I pazienti mandavano giù le pillole ed entravano in coma profondo. Bailey era convinto che durante il coma le menti dei pazienti avrebbero trovato il modo di curarsi da sé, qualsiasi fosse la patologia. Ma un numero imprecisato di pazienti – chi dice ventisei, chi ottantacinque – cadde in un coma troppo profondo e morì. Alcuni soffocarono nel loro stesso vomito, altri ebbero un attacco di cuore o danni cerebrali, polmonite, trombosi. I membri di Scientology vennero in qualche modo a sapere dello scandalo e cominciarono a investigare su Bailey, incoraggiando i sopravvissuti a fargli causa e i tribunali a procedere. E in effetti così andarono le cose, con grande indignazione di Bailey, che era convinto di essere un pioniere.


Nel settembre del 1985, quando ormai era chiaro che sarebbe finito dietro le sbarre, Bailey scrisse un biglietto: «Scientology e le forze della follia hanno vinto». Uscì con la sua auto e inghiottì un intero flacone di sonniferi, mandandolo giù con della birra.


Harry Bailey morì così, e speriamo che nell’aldilà non si sia messo ad accrescere il suo potere malevolo per esercitarlo sull’umanità in qualche futuro lontano e terribile.


Tornato a casa dopo la visita a Saint Hill guardai il video del CCHR, Psichiatria: un’industria della morte. In parole povere è un catalogo ben documentato degli abusi perpetrati dagli psichiatri nel corso di molti decenni. C’è Samuel Cartwright, il medico americano che nel 1851 identificò un disturbo mentale, la drapetomania, riscontrato esclusivamente tra gli schiavi. L’unico sintomo era «il desiderio di fuggire dalla schiavitù», e la cura «frustarli a sangue», come misura preventiva. C’è Walter Freeman, il neurologo che negli anni cinquanta conficcò un ghiacciolo appuntito nell’occhio di un paziente. Freeman attraversava l’America a bordo della sua “lobotomobile” (una specie di camper) lobotomizzando allegramente chiunque gli capitasse a tiro: gli bastava un qualsiasi straccio di autorizzazione. Ed ecco lo psicologo comportamentale John Watson, che spruzzò in faccia a un neonato un liquido trasparente non meglio identificato (mi auguro non fosse acido). Arrivato a quel punto del dvd non avevo dubbi che quei bastardi fossero capaci di tutto.


Subito dopo si virava verso un ambito più speculativo. C’era lo psicologo di Harvard B.F. Skinner, che a quanto pare isolò dal mondo per un intero anno la figlioletta Deborah in una scatola di plexiglas. Il video in realtà mostra la bambina sorridente in una cassetta; e più tardi, controllando meglio i fatti, scoprii che per tutta la vita Deborah aveva sostenuto di non essere stata mai molto a lungo nella scatola, che era comunque una culla. In sostanza difendeva il padre, parlando di lui come di un uomo adorabile.


Il commento audio del video recitava: «In ogni città, Stato, paese, ci sono psichiatri che commettono stupri, abusi sessuali, omicidi e inganni».


Qualche giorno dopo mi arrivò una lettera di Tony. «Questo posto di notte è orribile, Jon. È impossibile esprimere a parole l’atmosfera. Questa mattina mi sono accorto che erano fioriti i narcisi. Mi è venuta voglia di correrci in mezzo come facevo da bambino con mia madre».


Tony aveva allegato alla lettera una copia della sua cartella clinica, così potei leggere le parole esatte con cui cercò di convincere gli psichiatri di essere matto. C’era la parte di Dennis Hopper in Velluto Blu, quella dove dice che gli piace spedire lettere d’amore dritte dal suo cuore, che una lettera d’amore è una pallottola, e che quindi riceverne una da lui vuol dire andare all’inferno. Ma c’era molto di più. Aveva detto agli psichiatri che la CIA lo stava seguendo, che la gente per strada non aveva dei veri occhi ma buchi neri, e che forse per far smettere le voci dentro la sua testa l’unico modo era far del male a qualcuno, prendere un uomo in ostaggio e ficcargli una matita in un occhio. Aveva anche detto di voler rubare un aeroplano, perché ormai i furti di auto non gli davano più alcun brivido, e che gli piaceva prendere le cose degli altri per vederli soffrire: era la cosa che gli piaceva di più, meglio del sesso.


Non ero sicuro di aver visto i film da cui aveva tratto ispirazione, sempre che tali film esistessero davvero. All’improvviso mi ritrovai un po’ di più dalla parte degli psichiatri. All’epoca Tony doveva essersi dimostrato davvero un pericoloso svitato.


C’era un’altra pagina nella cartella clinica, una descrizione del crimine commesso nel 1997. La vittima era un senzatetto alcolizzato, tale Graham, che era seduto su una panchina vicino a Tony. A quanto pare fece un commento inappropriato sulla figlia di dieci anni di un amico di Tony. Il commento riguardava la lunghezza del vestito. Tony gli disse di chiudere il becco, e Graham in tutta risposta gli tirò un pugno. Tony rispose con un calcio, a seguito del quale Graham cadde. E la cosa sarebbe finita lì, dichiarò poi Tony, se Graham se ne fosse stato zitto. Ma non andò così. Graham disse: «È tutto qui quello che sai fare?».


Tony perse la testa: lo colpì a calci otto o nove volte mirando alla pancia e all’inguine, poi lo lasciò lì e tornò dai suoi amici a bersi una birra. Ritornò poi da Graham, che giaceva immobile a terra, si chinò e lo colpì ripetutamente con testate e calci (l’ultimo in faccia) prima di andarsene. Ricordavo la lista di film cui Tony aveva detto di essersi ispirato per dimostrare di essere malato di mente. Uno di questi era Arancia meccanica, che inizia guarda caso con la scena di una banda di teppisti che prendono a calci un barbone a terra.


Squillò il telefonino. Riconobbi il numero. Era Tony. Non risposi.


Dopo una settimana arrivò l’email che stavo aspettando. Era del professor Anthony Maden, il primario del reparto di Broadmoor dov’era ricoverato Tony.


«Tony» diceva nell’email, «ha davvero finto di essere pazzo per evitare la prigione». Ne era certo, e come lui molti altri psichiatri che l’avevano incontrato negli anni passati. Su questo c’era consenso unanime. I deliri di Tony, quelli che aveva formulato mentre era in custodia preventiva, neanche a loro erano sembrati genuini: troppo violenti, quasi dei clichè. E poi, nell’istante stesso in cui aveva messo piede a Broadmoor i sintomi erano svaniti.


Ah, pensai, piacevolmente sorpreso. Bene! Fantastico!


Tony mi era stato simpatico al momento del nostro incontro, ma negli ultimi giorni avevo maturato una certa diffidenza, ed ero lieto di poter finalmente verificare la sua storia con un esperto.


Poi però lessi la riga successiva: «La maggior parte degli psichiatri che hanno valutato il caso, e sono parecchi, l’hanno diagnosticato non malato di mente, ma psicopatico».


Fissai lo schermo. Tony è uno… psicopatico?, pensai.


A quell’epoca non sapevo molto sugli psicopatici; soltanto la storia di Essi Vidding che mi aveva raccontato James mentre cercavo di risolvere il caso di L’essere o il nulla: «Gli mostrò una foto con il volto di una persona terrorizzata e gli chiese di identificare l’emozione corrispondente. Lui rispose che non lo sapeva, ma che era la faccia che facevano le persone prima che lui le ammazzasse». Insomma, non sapevo molto sugli psicopatici, ma ero certo di una cosa: erano il male.


Risposi al professor Maden: «Non è come nel film Ghost quando Whoopi Goldberg finge di essere una sensitiva e poi viene fuori che riesce davvero a parlare con i morti?».


«No» mi scrisse, «non è assolutamente come in quella scena con Whoopi Goldberg. Tony ha finto lo squilibrio mentale, le allucinazioni e i deliri. La malattia in quel caso va e viene. Si può migliorare con i farmaci. Tony è uno psicopatico. Non è una cosa che passa: è il modo in cui è fatta la persona».


Fingersi matto per uscire di prigione, mi spiegò, è esattamente il tipo di comportamento ingannevole e manipolatorio che ci si aspetta da uno psicopatico. Il tentativo di Tony di convincerci che c’era qualcosa di sbagliato nel suo cervello era il segno che in effetti qualcosa che non va c’era.


«Non ci sono dubbi sulla diagnosi di Tony» concludeva il professor Maden.


Tony telefonò di nuovo, e io di nuovo non risposi.


«Il classico psicopatico!» disse Essi Vidding.


Silenzio.


«Davvero?».


«Ma certo! Il modo in cui si è presentato al vostro incontro! È tipico di uno psicopatico!».


Dopo aver ricevuto l’email del professor Maden avevo chiamato Essi per chiederle se potesse vedermi. Le avevo appena raccontato di come Tony si era avvicinato a passi tranquilli nella stanza del Centro benessere di Broadmoor, con un vestito a righe e la mano tesa stile The Apprentice.


«E quella sarebbe una mossa da psicopatico?» chiesi.


«Una volta mi trovavo in prigione, per una visita a uno psicopatico. Avevo letto il dossier completo. Aveva dei trascorsi orribili, si trattava di uno stupratore che uccideva le vittime e strappava loro i capezzoli a morsi. La lettura dei documenti era stata spaventosa, un vero tormento. Un collega psicologo mi avvertì: “Ne rimarrai affascinata”, al che io dissi: “Ma figuriamoci!”. E invece sai cos’è successo? Mi ha completamente ammaliata, al punto da trovarlo persino un po’ attraente. Era davvero un bell’uomo, in condizioni fisiche perfette e modi un po’ da macho. Sex appeal allo stato puro. Capii perché le vittime erano uscite con lui».


«Questa idea che indossare un vestito elegante sia un indice di psicopatologia…» chiesi, «da dove viene?».


«La Psycopathy Checklist-Revised» disse Essi. «Anche detta PCL-R, o Hare Checklist».


La guardai assente.


«È una specie di test per psicopatici ideato da uno psicologo canadese, Robert D. Hare. È il metodo più usato per diagnosticare la psicopatologia. Il primo punto della lista è Loquacità/Fascino superficiale».


Essi mi spiegò alcune cose del test di Hare. Dalla descrizione mi sembrò piuttosto bizzarro. Mi disse che era possibile seguire un corso tenuto dal professor Hare in persona, in cui si imparava come individuare gli psicopatici senza farsi scoprire, attraverso l’analisi del linguaggio del corpo e delle sfumature nella costruzione delle frasi.


«Quanti anni ha Tony?» chiese.


«Ventinove» dissi.


«Be’, allora buona fortuna al professor Maden» disse, «perché credo che Tony colpirà ancora».


«E come lo sai?» chiesi.


In quel momento Essi mi sembrò una geniale assaggiatrice di vini, in grado di identificare un vino rarissimo attraverso indizi appena percepibili. O forse era più simile a un saggio parroco di campagna, che crede con tutto il cuore a qualcosa di troppo impalpabile per poter essere provato.


«Gli psicopatici non cambiano. Non imparano attraverso la punizione. L’unica speranza è che diventino troppo vecchi o pigri per aver voglia di commettere dei crimini. E riescono a farsi passare per persone ragguardevoli, carismatiche. Le persone ne restano incantate. Ma il vero problema è quando salgono i gradini della scala sociale».


Raccontai a Essi di come lo strano libro di Petter Nordlund avesse messo a soqquadro per un po’ il pacato e razionale mondo dei suoi colleghi accademici.


Naturalmente non c’era nulla di psicopatico in Petter, ansioso e ossessivo com’era… molto più di me, per dire. Ma dopo l’avventura di L’essere o il nulla mi era nata la curiosità di capire quanto la pazzia, soprattutto quella dei potenti, condizionasse la nostra vita quotidiana. Chiesi a Essi se davvero pensava che molti leader fossero come Tony: degli psicopatici.


Annuì. «Le statistiche carcerarie riescono a quantificare il caos che sono in grado di generare» disse. «Rappresentano il 25 per cento della popolazione carceraria, ma sono responsabili del 60-70 per cento dei crimini violenti commessi all’interno delle strutture. Insomma, sono pochi ma è meglio non metterseli contro».


«Qual è la percentuale di psicopatici della popolazione non carceraria?» chiesi.


«L’1 per cento» disse Essi.


Mi consigliò, se volevo capire cos’è uno psicopatico e come riesce ad arrivare al vertice del mondo finanziario o politico, di leggere i saggi di Bob Hare, uno dei padri della ricerca sul tema. Senz’altro Tony era stato rinchiuso per aver totalizzato un punteggio molto alto nel test di Hare.


Dopo aver lasciato il suo ufficio trovai un articolo di Hare in cui si descrivevano gli psicopatici come «dei predatori che utilizzano il fascino, la manipolazione, l’intimidazione, il sesso e la violenza per controllare gli altri e soddisfare i propri bisogni egoistici. Mancano di coscienza ed empatia, prendono ciò che vogliono e fanno come gli pare, violando le norme sociali e le aspettative degli altri senza provare colpa né rimorso. Ciò che manca loro, in altre parole, sono quelle qualità che permettono a un essere umano di vivere in armonia con la società».


Tony chiamò di nuovo. Non potevo continuare a ignorarlo. Feci un bel respiro e risposi.


«Jon?» disse.


Sembrava piccolo, distante; i suoni riecheggiavano nella cornetta. Lo immaginai al telefono a gettoni a metà del corridoio.


«Sì… ciao, Tony» dissi in tono distaccato.


«È tanto che non ci sentiamo» disse Tony.


Era come un bambino davanti ai propri genitori diventati all’improvviso gelidi senza ragione.


«Il professor Maden dice che sei uno psicopatico» dissi.


Tony sospirò impaziente.


«Non è vero» disse.


Seguì un breve silenzio.


«Come lo sai?» chiesi.


«Dicono che gli psicopatici non sentono rimorso» disse Tony. «Io ne ho moltissimi. Ma se glielo dico, loro sostengono che è tipico fingere il pentimento quando invece non c’è alcun pentimento». Fece una pausa. «È come la stregoneria: tutto quello che dici viene interpretato al contrario».


«Cos’è che li ha convinti che sei uno psicopatico?» dissi.


«Ah, ok…» disse Tony. «Nel 1998, quando stupidamente fingevo di essere pazzo, ci ho infilato dentro della roba così. Come Ted Bundy… Ti ricordi che ho copiato da un libro su Ted Bundy? Be’, lui era senz’altro uno psicopatico, ed ecco il mio problema».


«Ok». Non mi aveva convinto.


«Cercare di provare che non sei uno psicopatico è ancora più difficile che dimostrare che non sei malato di mente» disse Tony.


«Come hanno fatto la diagnosi?» chiesi.


«Ti fanno un test» disse Tony. «La Hare Checklist. Valutano venti tratti del carattere. C’è una lista… Fascino superficiale, inclinazione alla noia, assenza di empatia, assenza di rimorso, esagerato senso di sé. Roba così. Per ciascuna voce assegnano un punteggio di 0, 1 o 2. Se il totale supera 30 o si avvicina a 40, allora sei uno psicopatico. È così. Sei spacciato. Etichettato a vita. Dicono che non puoi cambiare, che non ci sono cure e che sei un pericolo per la società. E finisci rinchiuso in un posto come questo…».


La voce di Tony era piena di rabbia e frustrazione, la sentivo risuonare nei muri del reparto. Poi riprese il controllo e abbassò il tono.


«Finisci in un posto come questo…» disse. «Se fossi rimasto in prigione a scontare la mia pena a quest’ora sarei fuori da sette anni».


«Dimmi qualcosa di più sul test» dissi a Tony.


«Una delle domande per valutare il senso d’irresponsabilità è se frequento dei criminali… Certo che li frequento, cazzo! Vivo a Broadmoor!».


Su quello aveva ragione. Comunque, Brian sapeva che sia lui sia Tony correvano il rischio di perdermi. Mi chiamò, e chiese se volevo incontrare Tony un’ultima volta. Disse che aveva una domanda da fare e voleva che io ascoltassi. Così passammo un altro pranzo domenicale mangiando barrette al cioccolato e bevendo tè in bicchieri di plastica al Centro benessere di Broadmoor.


Questa volta Tony non indossava il completo a righe, ma era sempre il potenziale malato di una grave patologia mentale meglio vestito della stanza.


Parlammo del più e del meno per un po’. Gli dissi che nel libro avrei voluto mettere un nome diverso dal suo, e gli chiesi di sceglierne uno. Decidemmo per Tony. Poi mi disse che vista la sua fortuna gli psichiatri l’avrebbero interpretato come disturbo dissociativo dell’identità.


All’improvviso Brian si sporse in avanti.


«Tu provi dei rimorsi?».


«Il mio rammarico» replicò subito Tony, chinandosi leggermente, «è che non solo ho rovinato la vita delle mie vittime, ma anche la mia, e quella della mia famiglia. Questo è il mio rimorso. Tutte le cose che avrei potuto fare… mi pento ogni giorno».


Tony guardò verso di me.


Il suo discorso non era stato un po’ troppo meccanico? Ci pensai su. Lo osservai. L’aveva provata, questa scena? Era uno spettacolo preparato apposta per me? E poi, se davvero era pentito, non avrebbe dovuto dire “Il mio rammarico non è solo di aver rovinato la mia vita, ma anche quella delle mie vittime…”? Non sarebbe stato più giusto mettere le cose in quest’ordine? O magari aveva ragione lui. Non ci capivo più niente… Volevo che lo liberassero o no? Avrei dovuto fare qualcosa? Chi lo sa…


Per un attimo pensai di organizzare una specie di campagna stampa per la sua liberazione, ma senza renderla abbastanza efficace da farla funzionare. Per esempio avrei potuto seminare qui e lì nel mio scritto degli impercettibili dubbi. Diabolico, pensai.


Mi resi conto che stavo socchiudendo gli occhi come se stessi cercando di fare un buco nel cranio di Tony per dare un’occhiata al suo cervello. L’aria di concentrazione e curiosità sul mio viso era la stessa di quando Deborah mi aveva passato una copia di L’essere o il nulla in quel bar. Tony e Brian avevano intuito cosa mi passava per la testa. Si riappoggiarono delusi allo schienale della sedia. «Te ne stai lì seduto come un investigatore da strapazzo alla ricerca di indizi» disse Brian.


«È così…» annuii.


«È quello che fanno anche gli psichiatri! Ma non lo capisci? Non sono altro che detective incapaci! Eppure hanno molto potere nei processi, e possono far rinchiudere uno come Tony a tempo indeterminato solo per aver sbagliato il test di Hare!».

Le due ore a nostra disposizione erano terminate. La guardia urlò: «Tempo!».

Con un saluto veloce Tony si diresse docilmente verso la porta del Centro benessere, e sparì.

Capitolo 3

Gli psicopatici sognano in bianco e nero

Fu lo psichiatra francese Philippe Pinel a suggerire, all’inizio del diciannovesimo secolo, l’esistenza di un tipo di follia che non prevedeva manie, depressione o psicosi. La chiamò manie sans delire, pazzia senza delirio. Secondo lui i soggetti erano solo apparentemente normali; in realtà non erano in grado di controllare i propri impulsi ed erano inclini a scoppi di violenza. Solo nel 1891, quando il medico tedesco Julius Ludwig August Koch pubblicò Die Psychopathischen Minderwertigkeit, si trovò un nome per questa condizione: psicopatologia.


Nell’epoca “pre-Bob Hare” le definizioni erano rudimentali. Il Mental Health Act for England and Wales del 1959 descriveva gli psicopatici come pazienti affetti da «un disagio persistente o un’infermità mentale (con o senza sintomi d’intelligenza subnormale) che risulta in una condotta di violenza anormale o socialmente irresponsabile, e richiede o è suscettibile di trattamento medico».


Fin dall’inizio comunque ci fu consenso universale sul fatto che solo l’1 per cento della popolazione ne fosse afflitto. Eppure si capì subito che i problemi che questa minoranza è in grado di creare sono talmente gravi da poter addirittura contribuire a un “rimodellamento” verso la malvagità dell’intera società; un po’ come quando ci si rompe un piede e il gesso viene messo male: alla fine le ossa sporgono in tutte le direzioni sbagliate. La domanda a cui rispondere diventò quindi questa: come si curano gli psicopatici?


Alla fine degli anni sessanta un giovane psichiatra canadese pensò di aver trovato la risposta. Si chiamava Elliott Barker. La sua strana storia è ormai pressoché dimenticata; il suo nome compare solo più nelle notizie sulla morte di sconosciuti serial killer canadesi. All’epoca però l’intera comunità scientifica guardava ai suoi esperimenti con trepidazione: sembrava proprio che fosse in procinto di fare una scoperta straordinaria.


Mi ero imbattuto nel suo nome mentre leggevo alcuni articoli e saggi durante le settimane seguenti alla visita a Broadmoor e all’incontro con Essi Vidding, nel tentativo di informarmi sulla psicopatia. Trovai diversi riferimenti al carattere solare e amichevole di Elliott, al suo idealismo infantile e bizzarro, al desiderio di raggiungere i più oscuri meandri dell’immaginazione allo scopo di trovare una cura per gli psicopatici. Non c’era nulla di simile nei rapporti stilati negli istituti psichiatrici per i criminali malati di mente, per cui cominciai a scrivere delle email a lui e al suo gruppo di amici.


«Elliott è molto riservato e non concede interviste» rispose un suo ex collega, che non desidera essere citato. «È un uomo molto dolce, ancora oggi pieno di entusiasmo nell’aiutare gli altri».


«Non c’è nulla di neppure comparabile a ciò che ha fatto Barker» scrisse un altro, Richard Weisman, professore all’università di Toronto, autore di un magnifico saggio su di lui: Riflessioni sull’esperimento di Oak Ridge sui criminali con disagi mentali, pubblicato sull’“International Journal of Law and Psychiatry”. «Elliott era la straordinaria sintesi degli stimoli culturali offerti dal Canada degli anni sessanta, ed è stato anche molto fortunato ad aver avuto spesso carta bianca per i suoi esperimenti».


La storia di Oak Ridge divenne per me una vera ossessione. Spedii email a raffica, ma invano: «Caro Elliott, di solito non insisto così tanto, e la prego di accettare le mie scuse fin da ora», oppure: «C’è nulla che possa fare per convincerla a parlare con me?», e infine: «Le prometto che questa sarà l’ultima email! A meno che non decida di rispondermi».


Poi arrivò un colpo di fortuna. Molti candidati a un’intervista avrebbero trovato la mia fanatica determinazione sospetta, se non fastidiosa. Elliott e i suoi colleghi psichiatri di Oak Ridge invece ci videro della sincerità, e più li scocciavo più loro si sentivano vicini a me. Finalmente decisero di parlarmi, e di rispondere alle email.


Tutto ebbe inizio alla metà degli anni sessanta. All’epoca Elliott Barker era uno psichiatra novello, fresco di college. Mentre cercava di decidere quale carriera intraprendere apprese dalle riviste di psichiatria dell’esistenza di comunità terapeutiche radicali, dove le vecchie gerarchie del medico saggio e del paziente incompetente erano state abbandonate in favore di qualcosa di più sperimentale. Incuriosito, Elliott e la sua giovane moglie chiesero un prestito in banca e partirono per un anno di viaggi intorno al mondo, un’odissea che avrebbe toccato quanti più luoghi possibile.


A Palm Springs, in California, sentì parlare delle nude psychotherapy sessions, che si svolgevano sotto la supervisione dello psicoterapeuta Paul Bindrim. L’hotel che ospitava queste sessioni era un misto (secondo quanto riportato dalle brochure dell’epoca) di «grandi alberi e vegetazione selvaggia» e di strutture «all’altezza di un resort di lusso».


Lì Bindrim chiedeva ai suoi clienti – ancora vestiti, sconosciuti l’uno all’altro e di solito provenienti dalla classe media o medio-alta, liberi pensatori o celebrità del cinema – di guardarsi negli occhi, poi di abbracciarsi, di fare la lotta e infine, con un sottofondo di musica new age, di togliersi i vestiti. A quel punto si sedevano in cerchio, nudi, recitavano l’Om, meditavano e infine si tuffavano a testa bassa in una ventiquattr’ore non stop di psicoterapia nudista: un’altalena emotiva e mistica durante la quale i partecipanti urlavano, piangevano e singhiozzavano confessando le loro ansie e paure più profonde.


«La nudità fisica» spiegava Bindrim ai giornalisti, «facilita la nudità emotiva, dunque velocizza il processo curativo».


La parte più discussa delle sessioni di Bindrim era quella chiamata osservazione dello scroto. Uno dei partecipanti si sedeva al centro del cerchio con le gambe per aria; gli altri fissavano i suoi genitali e l’ano, a volte per ore, mentre Bindrim di tanto in tanto urlava: «È tutto lì! È lì che siamo così negativamente condizionati!».


A volte invece chiedeva ai partecipanti di parlare direttamente ai propri genitali. Una giornalista che prese parte a una sessione, Jane Howard di “Life”, descrisse in Please Touch: A Guided Tour of the Human Potential Movement, libro pubblicato nel 1970, una conversazione tra Bindrim e una paziente, Lorna.


«Dì a Katy cosa accade lì sotto» le ordinò (Katy era la vagina di Lorna). «Dille questo: Katy, allora… qui io cago, piscio e mi masturbo». Seguì un silenzio imbarazzato.


«Credo che Katy lo sappia già…» replicò alla fine Lorna.


Molti di quelli che gravitavano nell’orbita del movimento per il potenziale umano californiano consideravano la psicoterapia nudista un passo troppo estremo, ma Elliott trovò l’idea esaltante.


I viaggi portarono Elliott altrove: Turchia, Grecia, Berlino ovest, Berlino est, Giappone, Corea, Hong Kong. Il giorno più felice fu a Londra, dove (mi raccontò per email) incontrò Ronald David Laing e David Cooper, famosi psichiatri dalle idee parecchio radicali; visitò inoltre Kingsley Hall, la comunità da loro fondata per gli schizofrenici.


Caso vuole che il figlio di Laing diriga uno studio legale a pochi isolati di distanza da casa mia, a Londra. Così, nella mia ricerca per capire le radici del pensiero di Elliott, lo chiamai per farmi raccontare qualcosa su Kingsley Hall.


Adrian Laing è un uomo snello e molto curato. Ha gli stessi tratti del padre ma una corporatura meno imponente.


«La cosa fondamentale da sapere su Kingsley Hall» mi disse, «era che le persone andavano lì a lavorare liberamente sulla loro pazzia. Mio padre era convinto che lasciando seguire alla follia il suo corso naturale, senza intervenire, senza lobotomie, camicie di forza e tutte le atrocità che si facevano allora negli istituti, questa sarebbe sparita da sola, come un trip di LSD che si esaurisce spontaneamente».


«Che tipo di cose può aver visto Elliott Barker a Kingsley Hall?».


«Alcune stanze erano meravigliosamente drappeggiate con sete indiane. Schizofrenici come Ian Spurling, che tra l’altro sarebbe diventato poi il costumista di Freddy Mercury, ballavano, cantavano, recitavano poesie e passavano del tempo con celebrità e liberi pensatori come Sean Connery e Timothy Leary». Adrian fece una pausa. «Ma c’erano anche altre camere, molto meno accattivanti, come la stanza della merda di Mary Barnes, giù nello scantinato».


«La stanza della… merda?» chiesi. «Nel senso che era il posto peggiore della casa?».


«La prima volta che andai a Kingsley Hall avevo sette anni. Mio padre disse: “C’è una persona molto speciale giù in cantina che desidera conoscerti”. Cominciai a scendere e la prima cosa che pensai fu: “Cos’è quest’odore di cacca?”».


L’odore proveniva da una schizofrenica cronica, Mary Barnes. La sua presenza a Kingsley Hall era fonte di conflitti interni. Laing aveva una grande considerazione della follia: credeva che i malati mentali possedessero una conoscenza speciale, perché solo loro riuscivano a comprendere la follia che permea la società. Mary Barnes però, giù nelle cantine, detestava essere malata: per lei era un vero tormento, e desiderava disperatamente essere normale.


Vinsero i suoi bisogni. Laing e i suoi colleghi psichiatri la incoraggiarono a regredire fino allo stadio infantile, nella speranza che potesse crescere una seconda volta, ma sana di mente. Qualcosa però andò storto. Mary era sempre nuda, spalmava escrementi sul muro e su se stessa, comunicava solo attraverso dei versi e rifiutava di nutrirsi se non attraverso un biberon.


«La puzza di Mary Barnes diventò un vero e proprio problema ideologico» disse Adrian. «Ne nacquero discussioni infinite. Mary aveva il diritto di rotolarsi nei propri escrementi, ma l’odore limitava la libertà degli altri di respirare aria fresca. Passarono moltissimo tempo nel tentativo di formulare una specie di policy sulla merda».


«E cosa mi dice di suo padre?» chiesi. «Com’era lui, in mezzo a tutto questo?».


Adrian diede un colpo di tosse. «Il lato negativo dell’eliminare le barriere tra medici e pazienti è che tutti si trasformano in pazienti».


Seguì un momento di silenzio. «Mi ero immaginato Kingsley Hall come un luogo dove invece tutti diventano dottori» dissi. «Evidentemente sono un po’ troppo fiducioso nei confronti degli esseri umani…».


«No. Erano tutti pazienti. Kingsley Hall era un posto selvaggio, in cui regnava un rispetto malsano per la follia. La prima cosa che fece mio padre fu perdersi completamente, andare fuori controllo, perché una parte di lui era già maledettamente “fuori”. Nel suo caso, si trattò di una pazzia da ubriacone feroce».


«Che tristezza… Pensare di essere in una stanza: da un lato c’è la pazzia, dall’altro l’equilibrio. La natura umana tenderà sempre verso la prima».


Adrian annuì. Mi raccontò che i visitatori come Elliott Barker venivano tenuti alla larga dagli angoli più oscuri della struttura, come la stanza della merda di Mary o il comportamento inaccettabile di suo padre ubriaco. Facevano invece il giro delle sale con i teli indiani e prendevano parte alle deliziose serate di poesia con Sean Connery tra il pubblico.


«Ma alla fine» chiesi, «hanno trovato una buona procedura per regolamentare la merda?».


«Sì» disse Adrian. «Uno dei colleghi di mio padre disse: “Mary vuole dipingere con i propri escrementi. Forse dovremmo darle dei veri colori”. Funzionò».


Mary Barnes divenne poi una celebre artista, esposta in molte gallerie e mostre. I suoi lavori furono ammirati per tutti gli anni sessanta e settanta, per il modo in cui riusciva a rendere pittoricamente la vita interiore degli schizofrenici, con la stessa follia, dolore, esuberanza e mistero.


«E la storia della pittura ci liberò di quella puzza di merda» disse Adrian.


Elliott Barker ritornò negli Stati Uniti con in testa un guazzabuglio di idee radicali raccolte durante la sua odissea, e si candidò a un posto all’Oak Ridge Hospital, un istituto per criminali malati di mente che si trovava in Ontario. La direzione dell’ospedale, colpita dai dettagli dei suoi viaggi, gli offrì subito un lavoro.


Gli psicopatici che si trovò davanti a Oak Ridge, però, non erano come gli schizofrenici di Laing. Nonostante avessero seri problemi, sulle prime era impossibile accorgersene: sembravano normali. Elliott ne dedusse che seppellivano la malattia mentale sotto una facciata di normalità. Se fosse stato possibile, in qualche modo, riportare la pazzia in superficie, la si sarebbe forse potuta superare, e i malati sarebbero come rinati, questa volta come degli esseri umani empatici. L’alternativa era desolante: non riuscire ad alterare radicalmente la personalità di quegli uomini significava condannarli a una vita in carcere.


Così chiese e ottenne dal governo canadese il permesso di procurarsi un’abbondante partita di LSD (acquistata da un laboratorio statale, il Connaught Laboratory dell’università di Toronto), di selezionare un gruppo di psicopatici («li abbiamo scelti in base alle loro abilità verbali; si tratta per la maggior parte di delinquenti piuttosto giovani e intelligenti, in un numero variabile tra 17 e 25» spiegò nel numero dell’ottobre 1968 del “Canadian Journal of Corrections”), e di accompagnarli in quella che venne definita la total encounter capsule, una piccola stanza dipinta con un verde vivace, dove Elliott chiese loro di togliersi i vestiti. Fu una vera pietra miliare nella storia degli esperimenti in questo ambito: la prima vera maratona di psicoterapia nudista per criminali psicopatici.


Le sessioni selvagge, nudiste e lisergiche che si svolgevano nella capsula raggiungevano l’epica durata di undici giorni consecutivi. Gli psicopatici trascorrevano ogni ora di veglia in un’esplorazione dei propri lati più torbidi, nel tentativo di star meglio. Non erano ammesse distrazioni: niente televisione, vestiti, orologi, calendari, solo una discussione continua (come minimo cento ore a settimana) delle loro sensazioni. Quando avevano fame succhiavano il cibo da cannucce che sporgevano dal muro.


Proprio come nelle sessioni di Paul Bindrim, i partecipanti venivano incoraggiati a raggiungere i propri “luoghi oscuri” attraverso urla selvagge, dando pugni al muro e confessando agli altri le proprie fantasie sessuali proibite, anche mentre, citando un rapporto stilato all’epoca, «si trovavano in uno stato di eccitazione».


Personalmente avrei trovato l’esperienza più piacevole nel contesto di un resort a Palm Springs che in un carcere di massima sicurezza per assassini psicopatici.


Elliott non partecipava direttamente, ma osservava tutto attraverso un falso specchio. Non sarebbe stato lui a curare i pazienti: avrebbe smantellato le fondamenta borghesi della psicoterapia tradizionale, e i malati sarebbero diventati gli psichiatri l’uno dell’altro.


Ci furono anche dei momenti grotteschi. Per esempio, i visitatori erano un inconveniente inevitabile. Arrivavano anche gruppi di teenager in gita: un’iniziativa del governo canadese per “ripulire” l’immagine dei manicomi. Tutto ciò era un bel problema per Elliott. Come poteva assicurarsi che la presenza di estranei non contaminasse l’atmosfera creata in mesi di lavoro? Poi gli venne un’idea. Si procurò alcune foto agghiaccianti di crimini efferati e di persone che si erano suicidate in modo particolarmente raccapricciante, per esempio sparandosi in faccia, e le appese al collo dei visitatori. Ovunque gli psicopatici avessero posato lo sguardo avrebbero incontrato la terribile realtà della violenza.


I resoconti iniziali di Elliott sono scoraggianti. L’atmosfera dentro la capsula era tesa. Gli psicopatici si fissavano con odio, e potevano stare giorni interi senza scambiarsi una sola parola. Alcuni prigionieri particolarmente non cooperativi non sopportavano l’idea di essere costretti a partecipare a un programma per discutere a fondo delle loro emozioni, proprio a causa della loro avversione a parlare di sé. Altri sollevarono obiezioni all’obbligo di indossare vestiti da bambina, punizione prevista per gli psicopatici non cooperativi. Infine, a nessuno piaceva vedere dei ragazzini della locale scuola media che li sbirciavano dalla finestra, soprattutto con al collo quelle foto. L’intero progetto, nonostante tutte le buone intenzioni, sembrava destinato al fallimento.


Riuscii a rintracciare uno dei reclusi dell’epoca, uno di quelli che aveva accettato, su invito di Elliott, di aderire al programma.


Oggi Steve Smith dirige un’azienda di Plexiglas a Vancouver e ha una vita tranquilla e felice. Ma negli anni sessanta era un teenager sbandato: finì a Oak Ridge dopo aver tentato di rubare un’auto mentre era strafatto di LSD.


«Ricordo che Elliott Barker venne da me in cella» mi raccontò Steve. «Era un uomo carismatico, dai modi rassicuranti. Mi mise un braccio intorno alle spalle e mi chiamò Steve. Era la prima volta che in quel posto qualcuno usava il mio nome di battesimo. Chiese se pensavo di essere mentalmente instabile. Gli dissi di no. “Be’, ti dirò…” rispose lui, “credo che tu sia uno psicopatico molto sveglio. Devi sapere che qui dentro ci sono persone proprio come te rinchiuse da più di vent’anni. Ma abbiamo studiato un programma che ti aiuterà a guarire”. E così eccomi lì, internato a diciott’anni per aver tentato di rubare una macchina, quindi non esattamente il criminale del secolo, chiuso in una stanza imbottita per diciotto giorni in compagnia di una banda di psicopatici su di giri per via della scopolamina, ed Elliott che mi osserva dallo specchio».


«Cosa ti dicevano?».


«Che erano lì per aiutarmi».


«Qual è il ricordo più vivido di quei giorni?».


«Deliravo quasi tutto il tempo. Un giorno, dopo aver ripreso conoscenza, mi accorsi di essere stato legato con una cinghia a Peter Woodcock».


«Chi è Peter Woodcock?» chiesi.


«Guarda su Wikipedia…» rispose.


Peter Woodcock (nato il 5 marzo 1939), è un serial killer canadese, responsabile anche di stupri su minori. Prima dei diciott’anni uccise tre bambini tra il 1956 e il 1957 a Toronto, in Canada. Woodcock fu arrestato nel 1957, dichiarato non sano di mente e ricoverato a Oak Ridge, un complesso psichiatrico situato a Penetanguishene, in Ontario.


«Non sembra una gran persona» dissi. «Ah… c’è anche una sua videointervista».


Peter Woodcock: Mi dispiace che i bambini siano morti, ma mi sentivo Dio. Era il potere divino sugli esseri umani.


Intervistatore: Perché era così importante per lei?


Woodcock: Per il piacere che mi procurava. Non c’era niente di bello nella mia vita, ma strangolare i bambini mi dava un certo grado di piacere. E molta soddisfazione. Era una sensazione talmente forte… per questo cercavo di ricrearla. E così sono andato in giro a rifarlo.


Intervistatore: La gente sarebbe sconvolta se sapesse che lei era soddisfatto delle sue azioni…


Woodcock: Lo so, mi dispiace, non è roba per gente delicata. Questa è tutta una recita, ma io sto cercando di essere sincero…


(Documentario della BBC, The Mask of Sanity)


«Come mai ti sei trovato legato con una cinghia a Peter Woodcock?» chiesi a Steve.


«Era il mio “compagno”… Doveva assicurarsi che uscissi sano e salvo dal trip».


«Che cosa ti diceva?».


«Che era lì per aiutarmi».


Fu tutto quello che mi disse del periodo passato con Peter Woodcock. Descrisse l’esperienza come un incubo allucinatorio avvolto nella nebbia. Qualche mese dopo, sarà stato marzo del 2010, quando scrissi per email a Steve che Peter Woodcock era morto, rispose: «Ho la pelle d’oca. Perdio…! Sai, ho una relazione profonda, anche se non vorrei, con quel mostro. Avevamo un tatuaggio identico sull’avambraccio. L’abbiamo fatto insieme, una cosa tipica della galera».


Ritrovarsi con un tatuaggio identico a quello di un pluriomicida di bambini era solo una delle tante cose assurde che potevano capitare nella capsula di Oak Ridge, disse Steve: un posto dove niente aveva senso, la realtà era distorta dall’LSD, gli psicopatici graffiavano i muri con le unghie, nessuno dormiva abbastanza ed Elliott Barker si godeva lo spettacolo da un falso specchio.


Poi, mentre le settimane diventavano mesi, successe qualcosa d’inaspettato. La trasformazione fu catturata da un documentarista della CBC, Norman Perry, invitato da Elliott a Oak Ridge nel 1971. È un video molto commovente. I delinquenti si trasformano davanti ai nostri occhi: imparano a prendersi cura l’uno dell’altro all’interno della capsula.


«Mi piace come parli» dice un recluso a un altro, con un tono di voce inaspettatamente gentile e tenero. «Lascia che le parole fluiscano come se tu le conoscessi tutte. Sono una tua proprietà personale: falle danzare per te».


Si vede Elliott nel suo ufficio, e lo sguardo felice che gli illumina la faccia è di quelli da strapparti il cuore. Cerca in qualche modo di nasconderlo assumendo un atteggiamento professionale, ma si vede benissimo. I suoi psicopatici sono diventati buoni: alcuni hanno persino chiesto al tribunale del riesame di non lasciarli uscire fino alla fine della terapia. Le autorità sono sbalordite: nessuno aveva mai chiesto di non essere rilasciato.


Verso la metà degli anni settanta l’atmosfera a Oak Ridge era diventata persino troppo serena. Elliott, stanco, esaurito e bisognoso di una pausa, fece un passo indietro, e un giovane psichiatra, Gary Maier, prese il comando. Il personale di Oak Ridge non parla volentieri di quello che accadde durante la “reggenza” di Gary Maier. «Certo non era Elliott» mi scrisse un ex membro dello staff che vuole restare anonimo. «Elliott, nonostante le idee eccentriche sui trattamenti, si presentava come un perfetto conservatore. Gary invece era il tipico hippy con i capelli lunghi e i sandali ai piedi».


Oggi Gary Maier vive a Madison, nel Wisconsin. È quasi in pensione, ma pratica ancora in qualità di psichiatra in alcune prigioni di massima sicurezza del posto. L’ho incontrato a colazione all’Hotel Ambassador di Milwaukee, e mi ha raccontato di come, durante un seminario organizzato dal governo per la selezione di giovani laureati in psichiatria, venne a conoscenza del programma di Elliott. Barry Boyd, che dirigeva l’istituto di Oak Ridge, era tra i relatori. Lodò profusamente Elliott e ne raccontò i molti casi di successo.


«Come Matt Lamb» disse Gary. «Un tizio che aveva ammazzato della gente…». (Nel gennaio del 1967 il diciannovenne Matt Lamb si nascose dietro un albero vicino alla fermata dell’autobus a Windsor, in Ontario, finché un gruppo di ragazzi gli passò davanti. A quel punto saltò fuori dal nascondiglio e senza dire una sola parola cominciò a sparare. Due di loro, una ragazza di vent’anni e un ragazzo di ventuno, morirono.) «Quando gli chiesero che cosa si provava a uccidere degli estranei disse che era come schiacciare scarafaggi. Era una delle… diciamo così… superstar di Elliott: aveva una personalità fredda, tipica degli psicopatici, ma dopo la cura sembrò mostrare più empatia».


Quando Barry Boyd raccontò la storia di Matt Lamb, molti dei partecipanti al seminario ebbero un sussulto sapendo che ora era a piede libero, dichiarato sano di mente nel 1973: una storia a lieto fine della capsula. In quel momento abitava in una fattoria con Elliott e la sua famiglia, meditando sul futuro mentre dava il bianco alle palizzate. Era riuscito a stare lontano dai guai, ma l’opinione di tutta la comunità scientifica era unanime sull’inevitabilità della ricaduta degli psicopatici. Invitare Lamb a vivere con sé e la propria famiglia era un atto di fede, come un domatore di leoni che convive con il proprio animale.


Gary Maier non fece una piega; anzi, si sfregò le mani, deliziato. Alla fine della giornata si avvicinò a Barry Boyd. «Se mai ci fosse la possibilità di lavorare a Oak Ridge…» gli disse. Caso volle che Elliott stesse cercando un aiuto, così poche settimane dopo fu assunto. Quella sera Gary ebbe un’esperienza extracorporea. Lo prese come un segno positivo.


«E com’è andato il primo giorno di lavoro?» gli chiesi.


«Mi sono sentito a casa».


Gary ha il fisico compatto e pieno di muscoli delle guardie carcerarie, ma la tipica barba e gli occhi gentili da hippy. Mi disse che all’epoca di Oak Ridge considerava gli uomini lì dentro persone dall’anima gentile come la sua, ma tormentate. Li guardò negli occhi e non ebbe paura.


«Quando guardi qualcuno negli occhi è come fermarsi davanti alla porta di una casa ancora chiusa. Se il proprietario non vuole aprire, non resta che fargli un cenno e dire: “Non c’è problema… Quando vuoi”».


«E cosa c’era dietro quelle porte chiuse?».


«La libertà» disse Gary.


E di libertà ce n’era eccome, a Oak Ridge, mi disse Gary. Ce n’era dappertutto. «Un tizio si era preso una cotta per un prigioniero di un altro reparto. Lasciava il suo corpo in cella, attraversava i muri e faceva l’amore con lui prima di tornare indietro. Gli dicemmo di continuare pure così, purché si comportasse sempre da gentiluomo con l’altro. Mi teneva costantemente aggiornato sui loro rapporti sessuali. Non ho idea di cosa pensasse l’altro tizio…». Gary rise con un po’ di tristezza. «Da molto tempo non ci pensavo» disse.


Fu il periodo più bello della vita di Gary. Sapeva come far star bene i malati. «Credo davvero di aver svolto un lavoro che la maggior parte degli psichiatri canadesi non sarebbe stata in grado di portare a termine» disse. L’amministrazione dell’ospedale gli accordò totale fiducia, fino ad acconsentire di portare gli psicopatici in un viaggio in territori ancora inesplorati. Come il dream group.


«Le persone sognano, e io volevo catturare ciò che accadeva nei sogni» disse Gary. «Così prima di andare a letto chiedevo ai pazienti di prendersi per mano e dire: “Voglio condividere con la comunità la mia vita nei sogni”. Poi andavano tutti a letto tranquilli, e sognavano».


Appena svegli venivano spediti al dream group, costituito in egual misura da psicopatici e schizofrenici.


«Il problema» disse Gary, «è che gli schizofrenici hanno dei sogni incredibilmente vividi, uno dopo l’altro, mentre gli psicopatici sono già fortunati se ne hanno uno».


«Come mai gli schizofrenici sognano più degli psicopatici?» chiesi.


«Non lo so» rise Gary. «Quello che so è che di solito sognano a colori, e più il sogno è intenso più i colori sono vividi. Invece gli psicopatici, se e quando accade, sognano in bianco e nero».


Il tutto stava creando un certo squilibrio. Nelle regolari sessioni di terapia gli schizofrenici erano subordinati agli psicopatici, «ma all’improvviso i poveri psicopatici dovevano starsene lì seduti ad ascoltare gli schizofrenici che raccontavano il sogno numero uno, e poi il numero due, e il numero tre…».


Quando fu messa ai voti la continuazione o meno del dream group, gli schizofrenici votarono sì, mentre gli psicopatici si opposero ferocemente, e vinsero.


«Fu una guerra di potere?» chiesi.


«In un certo senso sì…» disse Gary. «E poi… a chi interessa ascoltare i sogni noiosissimi di uno schizofrenico?».


Poi ci fu il canto religioso.


«Lo facevamo dopo pranzo. Cantavamo l’Om per venticinque minuti di fila. Ai ragazzi piaceva molto. Il reparto diventava una sorta di camera dell’eco, e molto presto iniziarono a cantare l’Om armonizzandolo». Gary fece una pausa. «Venivano spesso altri psichiatri in visita. Un giorno una di loro era seduta in mensa e appena iniziato l’Om saltò su e scappò dalla stanza. Fu imbarazzante. La trovammo in corridoio. Disse che si era sentita come davanti a un treno in corsa pronto a investirla».


«Fu presa dal panico?».


«Sì, aveva paura di perdere il controllo, e che l’avrebbero fatta a pezzi».


I ricordi più vivi di Gary sono tutti di psicopatici gentili che cominciano a imparare e di psichiatri e guardie carcerarie idiote che rovinano tutto. Il che è esattamente, dice lui, ciò che accadde quando le cose si spinsero troppo oltre e si entrò dritti in Cuore di tenebra.


Sono state espresse delle perplessità circa il nuovo orientamento delle terapie. L’uso di LSD pare aver oltrepassato lo scopo e l’approccio per il quale era stato accordato il permesso di utilizzo. L’introduzione di concetti mistici non è mai stata autorizzata. Le chiedo cortesemente di ridurre gradualmente questi aspetti del programma.


Memorandum del direttore medico di Oak Ridge Barry Boyd, indirizzato l’11 agosto 1975 a Gary Maier


«Ah, ok… quindi ha visto quel memo…» disse Gary.


«Cosa è successo?».


Gary fece un sospiro. «Dunque…» e cominciò.


Mi chiese di pensare a ciò che accade quando chiunque di noi, non importa a che età, torna a casa dei genitori per Natale. Non importa quanto siamo riusciti a diventare indipendenti da adulti. «In due giorni si viene risucchiati al livello più profondo delle patologie familiari che credevamo di aver superato».


Lo stesso problema si presentò a Oak Ridge: «Avevamo dato ai prigionieri l’LSD, c’erano state le maratone emozionali, e quando stavano davvero iniziando a migliorare, furono riportati nei vecchi reparti, identici a prima. E così si ritornò in un attimo al punto di partenza».


Due passi avanti, due passi indietro. Se solo l’intero ospedale, ogni singolo psicopatico lì dentro, avesse raggiunto l’illuminazione metafisica simultaneamente…


Gli venne un’idea: un trip di LSD per tutti! Un gesto radicale, critico, l’unico secondo lui in grado di cambiare davvero le cose.


«Lo vedevo come il culmine di tutto ciò che avevamo fatto fino a quel momento» disse Gary. «Offrire a tutti la possibilità di questo rito di passaggio dell’LSD, contemporaneamente o nel corso di pochi giorni. Lo staff incaricato della sicurezza non la prese bene. Arrivarono al lavoro, e si sentirono dire: “Lasciate in pace i ragazzi”».


E così le guardie, che friggevano di rabbia, furono costrette a stare a guardare senza muovere un dito mentre ventisei serial killer scorrazzavano in giro per Oak Ridge completamente sballati.


«Forse non me la sono giocata molto bene, quella volta, lo ammetto…» disse Gary. «Credo che le guardie sentirono minacciato il proprio ruolo. Qualcuno del sindacato disse che avrebbero anche potuto essere licenziati tutti per colpa mia…».


Qualche giorno dopo Gary ricevette una lettera di richiamo, e una mattina si presentò al lavoro e scoprì che le sue chiavi non funzionavano. Nottetempo le guardie avevano cambiato tutte le serrature. Dalle sbarre gli comunicarono che era stato licenziato e che non avrebbe mai più potuto mettere piede a Oak Ridge.


«Va be’…» disse Gary spingendo gli avanzi della colazione da un lato del piatto all’altro, «ero comunque pronto a lasciarmi tutto alle spalle».


Negli anni successivi alla dipartita di Gary i consensi all’interno della comunità psichiatrica per le terapie di Elliott continuarono a crescere. Sembrava davvero che avesse raggiunto risultati mai sperati prima: «Nei primi trent’anni di attività di Oak Ridge, nessun colpevole di reati capitali era stato mai rilasciato» disse al documentarista Norman Perry. «Ora invece c’è la possibilità concreta che i pazienti escano dalla propria prigione interiore per aprirsi agli altri; una prigione peraltro che, in misura maggiore o minore, sperimentiamo tutti. Noi li facciamo stare bene, intendo dire gli assassini o stupratori non sani di mente… Li curiamo in modo che diventino membri attivi della società».


I suoi migliori amici, diceva a tutti Elliott, erano gli ex pazienti di Oak Ridge. Suo padre era un alcolizzato violento che picchiava i figli; si suicidò quando Elliott aveva dieci anni. Chissà se questa è la ragione per cui decise di dedicare l’intera vita a insegnare agli psicopatici a tirare fuori il loro lato più umano. Alcuni pazienti in effetti vennero rilasciati da Oak Ridge. Elliott si tenne in contatto con molti di loro, e li invitò nella fattoria di Midland, in Ontario, dove abitava con la famiglia: giocavano insieme a racchettoni, costruivano palizzate e coltivavano i campi.


Di ritorno a Londra, mentre cominciavo mentalmente a mettere insieme i pezzi di questa storia, mi resi conto che i risultati ottenuti da Elliott Barker mi avevano profondamente commosso. Stavo male per Tony, intrappolato a Broadmoor. Molti assassini psicopatici avevano avuto la fortuna di incontrare Elliott e Gary, erano stati dichiarati sani e infine rilasciati. Perché a Broadmoor non applicavano il loro metodo? È vero che a primo acchito era strano, fuori moda, ingenuo e un po’ troppo LSD-oriented, ma era sempre meglio che rinchiudere qualcuno per sempre perché aveva sbagliato un test sulla personalità.


Venni a sapere che all’inizio degli anni novanta due ricercatori avevano condotto uno studio dettagliato sul tasso di ricaduta a lungo termine degli psicopatici che avevano seguito il programma di Elliott, e che erano stati rilasciati per reintegrarsi nella società. La pubblicazione dello studio sarebbe stata senz’altro un grande momento per Elliott, Gary e la capsula. In circostanze normali il 60 per cento degli psicopatici rilasciati ritorna a commettere gli stessi crimini. Che percentuale avevano quelli di Elliott? L’80 per cento. La capsula li aveva resi peggiori.


Uno di loro, Cecil Gilles, fu dichiarato sano di mente e rilasciato dopo diversi mesi di terapia. Nel giro di pochi giorni aveva rapito una ragazzina di quattordici anni, l’aveva stuprata e gettata giù da un ponte. La vittima riuscì ad arrampicarsi sul greto del torrente e ad arrivare fino a una casa abbandonata, dove fu ritrovata svenuta sul pavimento della cucina. Sopravvisse, ma ancora oggi porta sul viso e sulla testa le cicatrici profonde causate dalla caduta dal ponte.


Un altro, Joseph Fredericks, fu rilasciato da Oak Ridge nel 1983, e dopo appena una settimana aveva assalito una ragazza minacciandola con un coltello e sodomizzato un bambino di dieci anni. Fu nuovamente liberato un anno dopo, e aggredì un bambino di undici anni. Si fece quattro anni, e di nuovo uscì da Oak Ridge. Andò in un centro commerciale, lo Shoppers World, dove rapì e stuprò un bambino di undici anni, Christopher Stephenson. Il bambino scrisse un biglietto ai genitori: «Cari mamma e papà, vi scrivo», e lì si fermava. Quando la polizia lo arrestò, Fredericks mostrò loro dove aveva nascosto il corpo, e disse: «Era proprio un bravo bambino. Perché gli è toccato questo?».


Matt Lamb, quello che Gary aveva descritto come una delle superstar di Elliott, aveva finito i suoi giorni in circostanze meno infauste. Mentre dipingeva palizzate e meditava sul futuro nel ranch di Elliott decise di voler fare il soldato. L’esercito israeliano lo scartò («Vedi?» disse Gary, «ce li hanno degli standard…»), mentre l’esercito della Rhodesia invece lo accolse a braccia aperte. Lamb morì in uno scontro a fuoco contro i sostenitori di Robert Mugabe.


Ancora peggio per il programma fu ciò che fece Peter Woodcock, il pluriomicida di bambini (il tizio legato con una cinghia a Steve Smith). Gli fu concesso un permesso, cosa mai accaduta prima, di tre ore, in una bella giornata estiva del 1991. Gli psichiatri erano all’oscuro di come Elliott avesse programmato i primi dieci minuti del permesso, dalle 15:10 alle 15:20. Fatto sta che Woodcock aveva deciso di usarli per uccidere un compagno di prigione, Dennis Kerr, colpevole di aver rifiutato le sue avance. Lo invitò in un boschetto dietro l’ospedale e lo colpì con oltre cento pugnalate.


«L’ho fatto» spiegò al processo, «per vedere che effetto avrebbe avuto un coltello sul suo corpo». Kerr morì a causa delle ferite riportate, che gli avevano quasi staccato la testa.


Tempo dopo, di nuovo a Oak Ridge, Woodcock fu intervistato dalla BBC a proposito di quel delitto.


Intervistatore: Cosa le passava per la testa in quel momento? In fondo lei amava quell’uomo.


Woodcock: Ero curioso e arrabbiato. Mi aveva rifiutato.


Intervistatore: Quindi ha pensato che qualcuno dovesse morire per la sua curiosità?


Woodcock: Volevo soltanto sapere cosa si prova a uccidere qualcuno.


Intervistatore: Ma lei aveva già ucciso tre persone…


Woodcock: Sì, ma è stato un sacco di tempo fa.


Il momento più imbarazzante dell’intervista è quando Woodcock ammette candidamente che il programma di Elliott e Gary gli aveva in qualche modo insegnato ad essere uno psicopatico “più astuto”. Tutte quelle chiacchiere sull’empatia erano state un’ottima scuola per imparare a fingere. «Sono diventato molto più bravo di prima a manipolare le persone» disse, «e a tenere per me le cose considerate inaccettabili».


Il programma di Oak Ridge era finito. Elliott Barker, schiacciato dalle prove del fallimento del lavoro di una vita, andò a dirigere la Canadian Society for the Prevention of Cruelty to Children, specializzandosi in terapie a sostegno dei figli di psicopatici.


«Sono sempre stato convinto che l’intento di Elliott fosse sincero» mi scrisse un suo ex collega che preferisce restare nell’anonimato e che lavora tuttora a Oak Ridge. «È stato criticato molto per le sue idee, e ovviamente per i suoi metodi; ha dovuto sostenere diverse cause per negligenza medica. Eh sì… ha indovinato… molti degli psicopatici della capsula l’hanno trascinato in tribunale per farsi dei bei soldi. Tuttavia sia noi sia Bob Hare condividiamo l’idea che gli psicopatici nascano così, e non siano il risultato di madri dominanti e padri deboli».


«Meno male» risposi, «perché io sono un padre debole e mia moglie è una madre dominante»

Capitolo 4

La Psycopathy Checklist di Robert D. Hare

«Se ne stavano lì così, nudi, a parlare dei propri sentimenti» disse Bob Hare, ridendo. «Seduti su dei pouf… psicopatici che facevano terapia ad altri psicopatici!». Scosse la testa di fronte a questo eccesso d’idealismo. «Roba da non credere…».


Era una sera d’agosto, e stavo bevendo un drink con Bob Hare nel bar di un hotel del Pembrokeshire, nel Galles occidentale. Gli occhi rossi e i capelli bianchi un po’ ingialliti gli davano un’aria quasi selvaggia, l’aria di chi ha passato tutta la vita a combattere. La battaglia, nel suo caso, era stata combattuta contro gli psicopatici, l’incarnazione stessa del male. Ero emozionato al pensiero di poterlo finalmente incontrare: mentre i nomi di Elliott Barker e Gary Maier sopravvivono ormai solo più in una letteratura scientifica che parla dei loro folli e idealisti esperimenti, quello di Hare è tuttora influente. I dipartimenti di giustizia e le commissioni per la libertà condizionale di tutto il mondo hanno accolto la sua tesi secondo cui gli psicopatici sono molto semplicemente incurabili, e le energie andrebbero quindi spese per imparare a stanarli usando la PCL-R che egli stesso ha messo a punto nel corso di una vita. Non è l’unico strumento diagnostico in circolazione, ma è di gran lunga il più usato, quello con cui è stata fatta la diagnosi di Tony a Broadmoor, tanto per intenderci, quello che lo ha portato a trascorrere gli ultimi dodici anni dietro le sbarre.


Per Bob Hare il programma di Oak Ridge era l’ennesima prova dell’inaffidabilità degli psicopatici: se si insegna a queste persone cos’è l’empatia, impareranno solo a fingerla meglio per raggiungere i loro scopi più subdoli. Di fatto, chiunque abbia studiato il programma di Oak Ridge è giunto alla stessa conclusione. Chiunque, ma non Gary Maier.


«Sì» mi aveva detto Gary, «è probabile che senza volerlo gli abbiamo fornito una specie di corso di perfezionamento. Quella è sempre stata una nostra preoccupazione. Ma all’interno del programma stavano facendo progressi…».


Poi un giorno, all’improvviso, fu licenziato. «Vedere una figura di riferimento, come ero io per loro, fatta fuori in quel modo deve aver come innescato una miccia» mi disse. «Hanno avuto la sensazione che fosse tutto una stronzata, e da qui la reazione». Gary era convinto che alcuni degli psicopatici fossero arrivati a uccidere per dare una lezione alle autorità: della serie “questo è quello che succede quando licenziate uno come Gary Maier”.


Nel raccontarmi tutto questo aveva assunto un’aria afflitta. Se ne stava sulla difensiva, fermo nelle sue posizioni, quando all’improvviso capii che il rapporto tra terapista e paziente può trasformarsi in un affiatamento reciproco che rischia di diventare malsano.


Avevo scritto a Bob Hare per proporgli un incontro, e lui aveva risposto che avrebbe fatto lezione sulla PCL-R a un gruppo di psichiatri, esperti di brain imaging, assistenti sociali, psicologi, agenti penitenziari e criminal profilers in erba in un corso di tre giorni, e che se fossi stato disposto a pagare le seicento sterline di tassa d’iscrizione mi sarei potuto unire a loro.


La cifra non includeva una copia della PCL-R; quella mi sarebbe costata altre trecentosessanta sterline circa. Riuscii a contrattare fino a quattrocento (sconto stampa), e fui pronto a partire.


Era il lunedì sera prima del primo giorno, e i partecipanti avevano cominciato a radunarsi. Alcuni, evidentemente emozionati all’idea di trovarsi nella stessa stanza in cui c’era Robert D. Hare, lo avvicinavano per chiedergli un autografo. Altri osservavano da lontano, con una punta di scetticismo. Un’assistente sociale mi aveva raccontato poco prima di esser stata mandata lì dai suoi datori di lavoro, ma l’idea non la entusiasmava; era convinta che non fosse giusto condannare una persona a portarsi dietro un’orribile diagnosi di psicopatia per il resto della vita («è un’etichetta davvero ingombrante») solo per non aver risposto bene alla checklist di Hare. Almeno una volta era più semplice: se eri un criminale violento, abituale, incapace di controllare i tuoi impulsi, allora eri uno psicopatico. Ma il metodo di Hare, incentrato sull’interpretazione delle espressioni verbali e non verbali, era molto più subdolo.


Raccontai a Bob dello scetticismo di questa persona, e gli dissi che in parte lo condividevo, forse perché negli ultimi tempi avevo passato molto tempo con gente di Scientology. Mi fulminò con lo sguardo: «Vedremo come ti sentirai alla fine della settimana».


«Ad ogni modo» gli chiesi, «com’è cominciato tutto?».


Mi fissò. Potevo leggergli nel pensiero: “Sono stanco morto, e adesso questo mi chiede di raccontargli la mia storia… Siamo sicuri che se lo meriti?”.


Fece un sospiro, e iniziò a raccontare. A metà degli anni sessanta, proprio mentre Elliott Barker stava iniziando a lavorare alla sua capsula in Ontario, Bob Hare era a Vancouver, dove lavorava come psicologo al British Columbia Penitentiary, un carcere di massima sicurezza. Oggi è un bar ristorante a tema – il tema è la prigione, ovviamente… – in cui i camerieri indossano uniformi a righe e i piatti portano il nome di detenuti famosi; allora però era un posto davvero terribile, duro e brutale. Come Elliott, Bob credeva che i presunti pazzi in cura da lui celassero la follia dietro una maschera di normalità. Ma Bob era meno idealista: a lui interessava la diagnosi, non la cura. Troppe volte era stato ingannato.


Il suo primo giorno di lavoro in prigione, per esempio, il direttore gli disse che avrebbe avuto bisogno di una divisa, così lo mandò a farsi prendere le misure dal detenuto che lavorava come sarto. Bob ci andò, e fu piacevolmente colpito dalla cura con cui l’uomo operava. Voleva assicurarsi che tutto fosse eseguito alla perfezione: il taglio, la parte interna della gamba e via dicendo.


Bob trovava la scena commovente: persino in quel posto orribile c’era qualcuno che svolgeva il proprio lavoro con orgoglio e meticolosità. Quando la divisa arrivò, però, Bob scoprì che una gamba gli saliva su fino al polpaccio mentre l’altra si trascinava sul pavimento, e alle maniche della giacca non era stato riservato destino migliore. Non poteva essere stato un errore: il sarto voleva farlo sembrare un pagliaccio.


Gli psicopatici non perdevano mai l’occasione di rendergli la vita spiacevole: uno gli tagliò persino i cavi dei freni mentre la sua macchina era in riparazione nell’officina della prigione. Bob avrebbe potuto rimanere ucciso. Così iniziò a elaborare dei test per determinare se gli psicopatici potessero in qualche modo essere smascherati.


Aveva bisogno di volontari, psicopatici e non, per cui iniziò a spargere la voce in prigione. Le adesioni non tardarono ad arrivare: i detenuti avrebbero fatto qualunque cosa pur di spezzare la routine del carcere. Li collegò uno per uno a vari macchinari per l’encefalogramma e per la misurazione di sudore e pressione sanguigna, nonché a un generatore di corrente elettrica. Poi spiegò che avrebbe fatto un conto alla rovescia da dieci a uno, e che all’uno avrebbero ricevuto un dolorosissimo elettroshock.


La differenza nelle reazioni lasciò Bob stupefatto. I volontari non psicopatici (avevano di solito commesso crimini passionali o compiuti comunque per disperazione) si facevano coraggio e si preparavano con una certa rassegnazione a ricevere la scarica, come se un doloroso elettroshock fosse la punizione che meritavano. Mentre il conto alla rovescia proseguiva, i monitor rivelavano un aumento significativo della sudorazione. In poche parole erano spaventati.


«E cosa succedeva quando arrivavi all’uno?» chiesi a Bob.


«Gli davo la scarica elettrica. Era un elettroshock veramente doloroso».


«E gli psicopatici?».


«Neanche una goccia di sudore» disse Bob. «Niente di niente». Lo guardai. «O meglio…» aggiunse poi «nel momento esatto in cui avveniva il fatto…».


«Cosa? L’elettroshock?».


«Sì. Quando davo la scarica gli psicopatici una sorta di reazione in realtà ce l’avevano…».


«Tipo? Un grido?».


«Sì, tipo un grido, direi». I test sembravano indicare che l’amigdala, la parte del cervello che avrebbe dovuto prevedere il pericolo imminente e inviare i segnali di paura necessari al sistema nervoso centrale, non stava funzionando come avrebbe dovuto.


Fu una scoperta notevole per Bob, il primo indizio che i cervelli degli individui affetti da psicopatia erano diversi da quelli delle persone normali. Ma ripetere il test fu ancora più stupefacente: gli psicopatici sapevano esattamente quanto dolore avrebbero provato una volta arrivati all’uno, eppure niente, non una goccia di sudore. Bob imparò qualcosa che a Elliott Barker sfuggì per anni: gli psicopatici erano portati a colpire di nuovo.


«Non avevano nessun ricordo del dolore dell’elettroshock, neanche quando risaliva a pochi istanti prima» disse Bob. «Quindi che senso ha usare il carcere come minaccia se tanto non rispettano i vincoli della libertà condizionale? Per loro è una minaccia priva di significato».


Fece un altro esperimento, lo startle reflex test, in cui psicopatici e non venivano invitati a guardare immagini raccapriccianti, come fotografie di scene di crimini con volti sfigurati. Poi, quando meno se lo aspettavano, Bob gli sparava nell’orecchio un suono fortissimo: i non psicopatici, colti di sorpresa, trasalivano, mentre gli psicopatici restavano relativamente calmi.


Bob sapeva che di solito ci spaventiamo molto di più se già in principio non siamo rilassati. Se stiamo guardando un film dell’orrore e qualcuno fa un rumore inaspettato saltiamo letteralmente sulla sedia; ma se siamo concentrati su qualcosa come le parole crociate, e qualcuno ci salta alle spalle, lo spavento è meno pronunciato. Da questo Bob aveva capito che quando gli psicopatici guardano immagini raccapriccianti di volti sfigurati non sono inorriditi: sono come assorti. I suoi esperimenti sembravano dimostrare che gli psicopatici considerano un volto sfigurato nello stesso modo in cui noi giornalisti consideriamo un pacco misterioso che riceviamo per posta, o un paziente di Broadmoor che potrebbe o meno aver finto di essere matto: un intrigante enigma da risolvere.


Elettrizzato da queste scoperte, Bob mandò i risultati a “Science”. «Il direttore li rispedì al mittente» disse. «In compenso mi scrisse una lettera che non dimenticherò mai. Diceva più o meno così: “Francamente, alcune delle sequenze dell’elettroencefalogramma riportate nel suo articolo ci sono sembrate molto bizzarre. Non possono essere di persone reali”».


Si fermò un attimo e iniziò a ridacchiare.


«Non possono essere di persone reali…» ripeté.


Secondo me “Science” ha accolto l’articolo di Bob con quello scetticismo perché temeva che fosse l’ennesimo ricercatore anticonformista a operare a briglie sciolte in un ospedale psichiatrico canadese alla fine degli anni sessanta. All’epoca quei posti erano il far west per gli studi sulla psicopatia: un sacco di grandi idee e di fatto nessuna regolamentazione. Era inevitabile che qualche gruppo per i diritti civili si sarebbe fatto sentire. E infatti (malauguratamente per Bob) gli elettroshock furono dichiarati fuorilegge all’inizio degli anni settanta.


«Persino quelli più blandi…» mi disse. Sembrava infastidito dalla legge ancora adesso, ad anni di distanza. «Potevamo ancora spaventarli con rumori forti, ma nulla che si avvicinasse anche solo lontanamente a quello che facevamo prima».


Bob fu costretto a cambiare strategia. Come poteva stanare gli psicopatici in modo meno invasivo? Avevano comportamenti ricorrenti? Usavano senza volerlo alcune espressioni rivelatrici, impercettibili per un civile? Divorò The Mask of Sanity di Harvey Cleckley, un testo chiave per gli studi sulla psicopatologia pubblicato nel lontano 1941. Cleckley era uno psichiatra attivo in Georgia le cui analisi sul comportamento degli psicopatici, su come dissimulino le loro psicosi dietro una facciata d’intrigante normalità, erano arrivate ad avere una certa influenza nel campo. Bob si mise a osservare pazientemente i suoi psicopatici, a caccia d’indizi.


Nel 1975 organizzò una conferenza. «Invitai quelle che ritenevo essere le autorità mondiali nel campo degli studi sulla psicopatia» disse. «Alla fine eravamo ottantacinque. Occupammo letteralmente un hotel in una località sciistica vicino a St-Moritz, chiamata Les Arcs».


L’esordio fu un disastro. Uno psichiatra, alzatosi in piedi, illustrò al gruppo la propria teoria secondo cui lo stesso Bob era in realtà uno psicopatico. Un brivido attraversò la sala conferenze.


Bob rispose prontamente: «Scusi, ma cosa glielo fa pensare?».


«Lei è chiaramente impulsivo» rispose lo psichiatra. «Non è in grado di pianificare. Mi ha invitato a partecipare come speaker a questa conferenza soltanto un mese fa».


«L’ho invitata un mese fa perché la persona che volevo non poteva venire».


«Ah, ok… allora lei è freddo e spietato» aveva concluso lo psichiatra.


«Secondo te lo pensava davvero?» chiesi a Bob.


«Direi di sì. Era una persona davvero spiacevole».


L’obiettivo del convegno di Les Arcs era mettere insieme le osservazioni degli esperti sulle particolarità comportamentali degli psicopatici, i tic verbali e non verbali. Esistevano aspetti ricorrenti? Usavano senza volerlo espressioni rivelatrici?


Le loro conclusioni divennero la base per quella che è oggi la famosa Hare PCL-R Checklist in venti punti.


Eccola qui:


Item 1 Loquace/Fascino superficiale


Item 2 Egocentrico e grandioso


Item 3 Bisogno di stimoli/Propensione alla noia


Item 4 Menzogna patologica


Item 5 Falso/Manipolativo


Item 6 Assenza di rimorso o senso di colpa


Item 7 Affettività superficiale


Item 8 Insensibilità/Mancanza di empatia


Item 9 Stile di vita parassitario


Item 10 Deficit del controllo comportamentale


Item 11 Promiscuità nel comportamento sessuale


Item 12 Problematiche comportamentali precoci


Item 13 Mancanza di obiettivi realistici a lungo termine


Item 14 Impulsività


Item 15 Irresponsabilità


Item 16 Incapacità di accettare la responsabilità delle proprie azioni


Item 17 Molti rapporti coniugali a breve termine


Item 18 Delinquenza minorile


Item 19 Revoca della libertà condizionale


Item 20 Versatilità criminale


Il mattino del giorno successivo avremmo imparato come utilizzarla.


Martedì mattina. I partecipanti si radunarono nel padiglione che sarebbe stato nostro per i tre giorni a venire. Alcuni erano fan di Bob Hare. «Sono costretto a viaggiare armato» mi diceva «perché molti psicopatici mi ritengono responsabile della loro incarcerazione». Ci avvicinammo tutti ad ascoltare, mentre intorno a noi le tende di seta color pesca ondeggiavano nella brezza estiva del mattino. Bob ricordò l’episodio – ormai famoso nei circoli dedicati allo studio sulla psicopatologia – in cui Peter Woodcock aveva spiegato che il motivo dell’assassinio di Dennis Kerr durante un permesso-premio da Oak Ridge era la voglia di sapere cosa si prova a uccidere qualcuno. Al commento: «Ma lei ha già ucciso tre persone», Woodcock ribatté così: «Sì, ma è stato un sacco di tempo fa».


Bob si voltò verso di me. «Vedi? Memoria corta. Proprio come succedeva con quel test con l’elettroshock».


Alcune persone ridacchiarono a denti stretti, ma anche qui gli scettici non mancavano. A psichiatri, psicologi, assistenti sociali, criminal profilers e neurologi non piace sentirsi dire cosa fare da questi cosiddetti guru. Nella stanza c’era un’aria di sfida, della serie “facci vedere cosa sai fare”.


Ci sedemmo. Bob premette un bottone, e sullo schermo comparve il video di una stanza vuota. Era abbastanza triste e impersonale, dipinta di un blu così spento che a malapena lo si poteva definire un colore. L’arredamento era formato da una scrivania di compensato e una sedia. L’unico sprazzo di allegria era un pulsante rosso vivo sul muro. Nella stanza entrò un uomo, di bell’aspetto e vestito con cura, con un leggero luccichio negli occhi. Prese la sedia e la trascinò sul pavimento finché non fu esattamente di fianco al pulsante rosso. Il rumore della sedia era appena percettibile.


«Vedete cos’ha appena fatto?» disse Bob. «Ha spostato la sedia proprio in corrispondenza del pulsante di emergenza. L’ha fatto per intimidire il mio ricercatore, che si trovava dietro la telecamera. Una piccola dimostrazione di controllo… Per loro è importante sentire di avere il controllo».


Poi l’uomo iniziò a parlare.


Non scoprimmo mai il suo nome, né in quale prigione si trovasse. Per tutta la mattinata ci riferimmo a lui come caso studio H. Aveva un accento canadese.


Tutto iniziò in maniera piuttosto tranquilla, con il ricercatore che rivolgeva al caso studio H. alcune domande su quando andava a scuola.


«Mi piaceva la dimensione sociale della scuola. Mi piaceva imparare e vedere cose nuove».


«Hai mai fatto male a qualcuno durante un litigio nel cortile della scuola?».


«No… solo bravate da cortile».


(Queste erano domande importanti, ci spiegò poi Bob, perché le risposte avrebbero potuto avvalorare l’Item 12 della sua checklist: Problemi comportamentali precoci. Quasi tutti gli individui affetti da psicopatia mostrano seri problemi comportamentali da bambini, disse Bob, a partire dai dieci-dodici anni: bullismo persistente, vandalismo, abuso di sostanze, incendi dolosi e cosette del genere.)


«Un paio di volte mi è capitato di fare a cazzotti» raccontò il caso studio H. «Be’… una volta ho rotto un braccio a un ragazzino. È stato davvero sgradevole. Lo stavo tenendo giù, ho fatto troppa pressione sul suo braccio e quello si è spezzato. È successo e basta».


Annotammo sui nostri fogli di valutazione che c’era qualcosa di strano nella sua descrizione. «Ho fatto troppa pressione sul braccio e quello si è spezzato»… Era come se non fosse in grado di collocarsi realmente all’interno di quella scena.


Item 7: Affettività superficiale – Un individuo che sembra incapace di provare una normale varietà e profondità di emozioni.


Item 8: Insensibilità/Mancanza di empatia.


Item 10: Deficit del controllo comportamentale.


Ricordo che una volta mi sono perforato il timpano su un aereo, e per giorni intorno a me tutto è sembrato distante e nebuloso: non riuscivo a relazionarmi a nulla. Quel senso di nebbia era forse lo stato emotivo permanente di uno psicopatico?


«Uno dei miei vecchi colleghi dell’FBI stava indagando su una donna, Karla Homolka» mi aveva raccontato Bob prima. «Lei e il marito si erano filmati mentre torturavano, stupravano e uccidevano alcune giovani. La polizia la stava portando in giro per la casa in cui avevano fatto a pezzi i corpi, e Karla era lì che diceva: “A mia sorella piacerebbe quel tappeto…”. La portarono in bagno, e lei: “Posso chiedervi una cosa? Qui c’era un flacone di profumo…”. Totalmente sconnessa… era sconvolgente». Bob diceva che è sempre una piacevole sorpresa quando uno psicopatico accetta di parlare apertamente della propria incapacità di provare emozioni. Di solito fingono di provarle. Quando vedono noi persone “normali” piangere, spaventarci o commuoverci di fronte alla sofferenza umana o qualsiasi altra cosa, ne restano come affascinati. Ci studiano e imparano a scimmiottarci, come alieni che cercano di mimetizzarsi, ma se teniamo gli occhi ben aperti si capisce che è un’imitazione.


«Alla fine cosa è successo a Karla Homolka?» gli chiesi.


«Adesso è fuori. Ha recitato la parte della brava ragazza, capelli raccolti in trecce, tutta dolce e adorabile, e le hanno creduto. È stata molto convincente. Ha dato tutta la colpa al marito, ha patteggiato e le hanno dato dodici anni». Et voilà…


Item 5: Falso/Manipolativo.


Item 4: Menzogna patologica – Un individuo per cui la menzogna è parte integrante dell’interazione con gli altri.


La testimonianza video del caso studio H. proseguì. Più o meno nello stesso periodo in cui aveva rotto il braccio a quel ragazzino, aveva chiuso la matrigna in uno sgabuzzino: una vendetta perché aveva cercato di punire il fratello.


Item 14: Impulsività.


«È rimasta nello sgabuzzino per quasi dodici ore, poi mio padre è tornato a casa e l’ha fatta uscire. Una scena patetica, non faceva altro che piagnucolare…».


Una volta, disse Bob, uno dei suoi ricercatori aveva intervistato un rapinatore di banche che gli aveva raccontato di una cassiera che se l’era fatta addosso dalla paura quando lui l’aveva minacciata con una pistola.


«È stato patetico vedere che se la faceva addosso in quel modo» aveva detto il rapinatore.


Lanciai un’occhiata a uno o due “compagni di scetticismo” tra la folla. Sembravamo tutti un po’ meno scettici, ora. Continuammo a prendere appunti.


Item 6: Assenza di rimorso o senso di colpa.


«Come ti sei sentito a chiudere la tua matrigna in uno sgabuzzino?» chiese l’intervistatore al caso studio H.


«Mi sono sentito… rinvigorito» fu la risposta. «Era una bella sensazione. Avevo potere. Avevo controllo».


Item 2: Egocentrico e grandioso.


«Poi ho iniziato a lavorare di notte in un locale della zona» continuò. «Quando la gente entrava bevendo o barcollando, se non la capiva con le buone… be’, a quel punto passavo alle mani. Un paio li ho conciati davvero male».


«E come ti sentivi?» chiese l’intervistatore.


«In realtà non provavo proprio nulla» rispose lui.


Noi intanto ci scambiavamo occhiate esaltate, e giù a scrivere appunti. Iniziai a pensare alle persone che conoscevo e che sembravano possedere meno sentimenti del dovuto.


«Hai mai fatto così male a qualcuno da mandarlo in ospedale?» riprese l’intervistatore.


«Non lo so» rispose. «Non mi importava. Non era un problema mio. A me interessava vincere lo scontro e basta. Non potevo arrivare secondo».


Io ero bravo a leggere tra le righe, a individuare gli indizi, gli aghi nel pagliaio; mi veniva bene. È quello che ho fatto nei miei ultimi vent’anni da giornalista. Il caso studio H. mi ricordava un cieco i cui altri sensi si fossero affinati per compensazione. Le sue qualità “potenziate”, che compensavano la mancanza di senso di colpa, paura e rimorso, includevano la capacità di manipolare – «Sapevo come manipolare chi mi stava vicino per ottenere droga o denaro. Usavo i miei amici… più cose so di una persona più sono bravo a capire su cosa far leva», aveva detto al ricercatore (Item 9: Stile di vita parassitario) – e la propensione a non sentirsi in colpa dopo aver commesso un crimine.


«Era una questione di affari» disse con un’alzata di spalle parlando di una rapina che aveva commesso. «Tanto quelli erano assicurati».


Bob spiegò che gli psicopatici dicono sempre che le loro vittime non hanno alcun diritto di lamentarsi: sono assicurate, hanno imparato una lezione preziosa dopo essere state pestate in quel modo ecc. ecc. Comunque non è mai colpa loro. Una volta Bob intervistò un tizio che aveva ucciso un uomo così, d’impulso, a causa dello scontrino di un bar. «Doveva prendersela solo con se stesso» aveva detto, «l’avrebbe capito chiunque che quella sera ero di pessimo umore».


Item 16: Incapacità di accettare la responsabilità delle proprie azioni.


Arrivammo al momento in cui il caso studio H. avrebbe descritto nel dettaglio il suo crimine più spaventoso. Il resoconto iniziò in maniera alquanto vaga; non riuscii subito a capire di cosa stesse parlando. C’era questo ragazzino che lui conosceva, e che odiava i genitori: era la sua grande debolezza. H. pensò che da quest’odio avrebbe potuto ricavare qualcosa; magari avrebbe potuto spingerlo a derubarli per poi dividersi il bottino. Così cominciò a punzecchiarlo, convincendolo che erano i genitori la causa di tutti i suoi problemi. Sapeva benissimo quali corde toccare per far esplodere una persona già al limite.


«Più mi raccontava di sé, più capivo come muovermi per manipolarlo» diceva. «Non facevo che alimentare il fuoco, e più benzina gettavo più mi sentivo appagato. Ero come un burattinaio che lo manovrava coi fili». Alla fine il ragazzo si convinse al punto che prese una mazza da baseball, saltò in macchina (con H. al seguito) e si diresse verso la casa dei genitori.


Una volta arrivati «l’ho guardato con strafottenza, come a dire: “fammi vedere di cosa sei capace”. E lui l’ha fatto: mazza da baseball alla mano, è andato dritto nella stanza dei suoi, mentre io sono rimasto fuori, tranquillo, come se niente fosse. Poco dopo è iniziato il pestaggio. Non finiva più, è durato un’eternità. Quando ha finito la mazza era completamente ricoperta di sangue. Mi sono avvicinato a una delle vittime per guardarla in volto. Non sembrava vera, davvero, proprio non sembrava vera. Guardava dritto verso di me, ma con un’espressione assente. C’erano tre persone in quella casa… una è morta, le altre due sono rimaste gravemente ferite».


Ecco cosa succede quando uno psicopatico prende il controllo delle emozioni di un ragazzo problematico con spiccate tendenze criminali.


Il ricercatore gli chiese cosa avrebbe cambiato della sua vita se avesse potuto tornare indietro nel tempo.


«Ci ho pensato spesso» rispose. «Ma tutto quello che ho imparato andrebbe perduto. Più caldo è il fuoco quando si forgia una spada, più stretto è il legame con la lama».


«Vuoi aggiungere qualcosa?» chiese il ricercatore.


«No, è tutto».


«Va bene, grazie».


Il video terminò, e noi ci fermammo per il pranzo.


Passarono tre giorni, e il mio scetticismo pian piano svanì del tutto. Diventai un sostenitore di Bob Hare: le sue scoperte mi avevano conquistato. Credo che agli altri scettici sia successa la stessa cosa; era stato davvero convincente. Stavo sviluppando un nuovo superpotere, una specie di arma segreta, il tipo di potere che esibiscono i protagonisti delle serie tv sui grandi criminal profilers: il potere di identificare uno psicopatico semplicemente riconoscendo certe espressioni verbali, certi atteggiamenti, certi modi di essere. Mi sentivo una persona diversa, profondamente consapevole e non più confuso o disorientato come quando avevo passato del tempo con Tony e Brian a Broadmoor. Anzi, ora provavo disprezzo per chi era stato così ingenuo da lasciarsi abbindolare dalle chiacchiere degli psicopatici. Provavo disprezzo, per esempio, per Norman Mailer.


Nel 1979 Mailer, che aveva appena pubblicato Il canto del boia, iniziò a battersi per un prigioniero particolarmente tosto dello Utah, un rapinatore di banche e assassino di nome Jack Abbott, di cui ammirava il talento letterario. «Ammiro Jack Abbott per essere sopravvissuto a se stesso e per aver imparato a scrivere così bene» dichiarò, e iniziò a far pressione sulle autorità competenti dello Utah affinché venisse rilasciato. «Il signor Abbott ha la stoffa per diventare un grande scrittore americano» disse loro, promettendo che se l’avessero rilasciato sulla parola lui gli avrebbe offerto un lavoro come ricercatore per 150 dollari a settimana. Sorpreso, quasi incredulo, il Board of Corrections alla fine acconsentì. Jack Abbott era libero e pronto a catapultarsi nella New York letteraria. Non c’era da stupirsi: a New York si trovavano i suoi sostenitori.


In ogni caso, mi spiegò Bob, gli psicopatici tendono comunque a gravitare intorno alle grandi città. Se ne trovano molti a New York, a Londra, a Los Angeles. Una volta allo psicologo David Cooke fu chiesto in parlamento se gli psicopatici causassero particolari problemi nelle prigioni scozzesi. «Non direi» aveva risposto lui, «visto che sono tutti nelle prigioni di Londra». Non era solo una battuta, come poi spiegò: per mesi aveva valutato l’eventuale psicopatia di detenuti nati in Scozia, e la maggior parte di quelli che avevano ottenuto un punteggio alto si trovava a Londra, perché era lì che i crimini erano stati commessi. Gli psicopatici si annoiano facilmente, hanno bisogno di stimoli; quindi migrano nelle grandi città. Item 3: Bisogno di stimoli/Propensione alla noia. Non solo; hanno anche la tendenza ad autoilludersi sulle loro prospettive a lungo termine. Credono che se si trasferiranno a Londra, a New York o a Los Angeles sfonderanno come star del cinema, atleti o qualsiasi altra cosa. Una volta uno dei ricercatori di Bob chiese a un detenuto psicopatico decisamente grasso cosa sperasse di fare una volta uscito; lui rispose che aveva in programma di fare il ginnasta professionista. Item 13: Mancanza di obiettivi realistici a lungo termine (a meno che non stesse scherzando, ovviamente).


Jack Abbott era convinto che sarebbe diventato il nuovo idolo della New York letteraria, e in effetti andò proprio così. Lui e Mailer apparvero insieme su Good Morning America; fu fotografato da Jill Krementz, la grande fotografa newyorkese nonché moglie di Kurt Vonnegut; il “New York Times” ringraziò Mailer per averlo aiutato a ottenere la libertà sulla parola; firmò un contratto con il famoso agente letterario Scott Meredith, e fu l’ospite d’onore di una cena celebrativa in un ristorante del Greenwich Village, dove Mailer, insieme ai direttori editoriali di Random House, Scott Meredith e altri, brindò a lui con lo champagne.


Sei settimane dopo essere uscito di prigione, alle 5:30 del mattino del 18 luglio 1981, Abbott si fermò al Bini-Bon, un ristorante di Manhattan aperto ventiquattr’ore. Con lui c’erano (secondo quanto raccontato il giorno successivo) «due giovani donne attraenti e raffinate che aveva conosciuto a una festa». Item 11: Promiscuità nel comportamento sessuale. A dirla tutta, l’Item 11 potrebbe non essere applicabile a quel trio; è impossibile determinare se avessero intenzione di fare sesso, perché tutto di lì a poco sarebbe cambiato. La situazione stava per precipitare. Dietro il bancone del Bini-Bon c’era un aspirante attore ventiduenne di nome Richard Adan. Abbott chiese di usare il bagno. Adan disse che era solo per i dipendenti, al che Abbott replicò: «Andiamo fuori e risolviamo questa faccenda da uomini». Uscirono. Abbott tirò fuori un coltello e pugnalò a morte Adan. Poi se ne andò via a piedi, svanendo nella notte.


«Cosa diavolo è successo?» disse Scott Meredith al “New York Times”. «Con Jack non facevamo che parlare del futuro, di tutto quello che lo aspettava».


Cos’era successo? ci chiedeva Bob, con l’aria di chi aveva pronta la risposta. Molto semplicemente Jack Abbott era uno psicopatico. Non poteva sopportare che gli si mancasse di rispetto: troppa autostima e troppa poca capacità di controllare i propri impulsi.


«Quando la polizia finalmente lo trovò, sapete cosa disse del ragazzo pugnalato?» chiese Bob. «Disse, testuali parole: “Tanto come attore non ce l’avrebbe mai fatta”».


«Questi cazzo di psicologi e psichiatri credono di poter dire al governo e alla polizia quale sarà la tua prossima mossa. Neanche Gesù Cristo era in grado di predire cosa cazzo avrebbero fatto i suoi apostoli». Queste furono le parole esatte di un altro dei pazienti mostrati da Bob, il caso studio J.


Nell’ascoltarlo ridevamo beffardi, perché ora avevamo gli strumenti per farlo: eravamo ormai maestri nell’arte oscura e potente di smascherare gli psicopatici, anche quando si nascondevano dietro un’apparente normalità, e soprattutto sapevamo che erano mostri senza rimorso e che in men che non si dica avrebbero colpito ancora.


Mentre stavo lì seduto nel padiglione la mia mente fantasticava su quello che avrei potuto fare con i miei nuovi poteri. Se devo essere sincero, non mi passò neanche per l’anticamera del cervello di diventare una sorta di paladino della lotta al crimine, un profiler o uno psicologo criminale impegnato a rendere il mondo un posto migliore.


Quello che feci invece fu una lista mentale di tutte le persone con cui avevo avuto a che fare negli ultimi anni, e iniziai a chiedermi chi tra queste avesse tratti caratteriali assimilabili a un comportamento da psicopatico. In cima alla lista forse c’era il critico del “Sunday Times” e di “Vanity Fair”, A.A. Gill, che sembrava sempre provare un piacere perverso nello stroncare i miei documentari per la televisione, e che aveva da poco scritto un articolo proprio per il “Sunday Times”, in cui ammetteva di aver ucciso un babbuino durante un safari: «L’ho preso proprio sotto l’ascella. Un proiettile a espansione calibro 357 gli ha fatto saltare i polmoni. Volevo farmi un’idea di cosa significhi uccidere qualcuno, uno sconosciuto. Si vede in così tanti film: pistole e corpi, e mai più di un istante di riflessione o di dubbio. Cosa significa veramente uccidere un essere umano, o un suo stretto parente?».


Mi ricordo che pensai, Item 8: Insensibilità/Mancanza di empatia.


Sorrisi sotto i baffi e tornai a concentrarmi su Bob. Stava dicendo che se si fosse autovalutato avrebbe totalizzato probabilmente un quattro o un cinque sui quaranta punti possibili della PCL-R. Tony di Broadmoor mi aveva detto che nelle tre volte in cui era stato valutato aveva totalizzato circa ventinove o trenta.


La nostra tre giorni nel Galles stava volgendo al termine. Verso la fine Bob ci colse di sorpresa proiettando all’improvviso sullo schermo il primo piano enorme di un uomo che aveva ricevuto un colpo al volto da molto vicino. Questo dopo aver proiettato foto di anatre su placidi laghetti e giornate estive nel verde, tanto per farci sentire al sicuro. In questa immagine c’erano sangue e cartilagine dappertutto, gli occhi dell’uomo erano schizzati letteralmente fuori dalle orbite, il naso era scomparso.


Mio dio, pensai.


Un attimo dopo il mio corpo reagì allo shock: cominciai a sentire come un formicolio. Ero molle, debole, spossato.


Questa sensazione, spiegò Bob, è provocata dall’amigdala e dal sistema nervoso centrale, che si inviano reciprocamente segnali di malessere. È la sensazione che abbiamo quando veniamo spaventati all’improvviso, per esempio se vediamo una sagoma che salta fuori dal buio, o quando realizziamo di aver fatto qualcosa di terribile; è il senso di colpa, la paura, il rimorso, la manifestazione fisica della nostra coscienza.


«È un sentimento» disse Bob, «che gli psicopatici sono incapaci di provare».


Bob ribadì che ormai era sempre più chiaro come questa anomalia del cervello fosse al centro della psicopatia. «Ci sono studi di laboratorio di ogni tipo, e i risultati sono davvero molto simili. Quello che rilevano è che ci sono anomalie nel modo in cui questi individui elaborano informazioni con implicazioni emotive, che esiste una dissociazione tra il significato linguistico delle parole e le loro connotazioni emotive. Non riescono a collegare le due cose: alcune parti del sistema limbico semplicemente non si attivano».


E con questo il nostro corso di smascheramento psicopatici era concluso. Mentre raccoglievamo le nostre cose e ci dirigevamo verso le macchine dissi a uno dei partecipanti: «Certo non si può non provare pena per gli psicopatici, no? Voglio dire… se è tutta colpa della loro amigdala… se non è colpa loro...».


«E perché dovrebbero farci pena?» rispose lui. «A loro di noi non frega un cazzo».


Bob Hare venne verso di me. Era di fretta, doveva prendere un treno per Heathrow, e poi un volo per tornare a Vancouver. Mi chiese se potevo dargli un passaggio.


Me ne accorsi io per primo. C’era una macchina rovesciata, con il guidatore ancora al suo posto. Se ne stava lì seduto come se stesse semplicemente aspettando che arrivasse qualcuno a rimetterlo nel verso giusto per poter continuare il suo viaggio. Ha un’espressione “paziente”, pensai. Poi mi resi conto che non era cosciente. La sua passeggera sedeva a gambe incrociate sull’erba, poco lontano: sembrava persa nei suoi pensieri. Probabilmente era stata scaraventata fuori dal finestrino pochi istanti prima.


Vidi la scena solo per un istante. Altre persone avevano già parcheggiato e si stavano precipitando verso i due. Io proseguii, felice che non toccasse a me occuparmene. Poi mi chiesi se il mio sollievo per non dovermi far carico di una responsabilità spiacevole non fosse una manifestazione dell’Item 8: Insensibilità/Mancanza di empatia – Gli importa soltanto di se stesso. Dallo specchietto retrovisore diedi ancora una sbirciatina ai buoni samaritani che stavano accorrendo a circondare la macchina rovesciata, e proseguii per la mia strada.


«Jon?» disse Bob un attimo dopo.


«Sì?…».


«La tua guida».


«La mia guida cosa?».


«Stai… stai sbandando».


«Non è vero» ribattei. Restammo in silenzio per un istante, poi capii: «È lo shock per quell’incidente».


Era bello sapere che dopotutto mi aveva turbato. Bob mi spiegò cosa stava accadendo: la mia amigdala e il mio sistema nervoso centrale si stavano inviando segnali di paura e malessere a vicenda.


«Dev’essere proprio così» annuii. «Riesco quasi a sentirli, mi trafiggono come piccole schegge».


«Lo sai che uno psicopatico potrebbe vedere quell’incidente senza che la sua amigdala registri quasi niente?».


«Be’, allora io sono il contrario di uno psicopatico» dissi. «La mia amigdala e il mio sistema nervoso centrale di segnali se ne mandano persino troppi».


«Puoi concentrarti sulla strada, per favore?» disse Bob.


«Il motivo per cui ti ho cercato è un ragazzo di nome Tony. Sta a Broadmoor. Dice che lo stanno accusando ingiustamente di essere uno psicopatico, e spera che io porti avanti una campagna giornalistica per la sua liberazione. A me quel Tony sta simpatico, dico davvero, ma come faccio a sapere se è uno psicopatico?».


Ma Bob non sembrava ascoltare. Era come se l’incidente l’avesse chiuso. Quasi tra sé e sé disse: «Non avrei dovuto condurre le mie ricerche soltanto nelle prigioni. Avrei dovuto trascorrere del tempo anche in Borsa».


Lo guardai. «Dici sul serio?».


Lui annuì.


«Be’, però gli psicopatici in Borsa non possono essere pericolosi come gli psicopatici serial killer» dissi.


«Ah no? Mettiamola così: i serial killer rovinano le famiglie» replicò Bob, «mentre gli psicopatici ai vertici dell’economia e della politica rovinano società intere».


«È questa» continuò Bob, «la semplice soluzione al più grande di tutti i misteri: perché il mondo è così ingiusto? Perché questa spietata disuguaglianza economica, le guerre, la crudeltà aziendale quotidiana? Risposta: gli psicopatici, quella parte del cervello che non funziona come dovrebbe. Immagina di essere su una scala mobile e di osservare le persone che vanno nella direzione opposta. Se potessi calarti all’interno dei loro cervelli vedresti che non siamo tutti uguali, non siamo tutti brave persone che cercano solo di fare del loro meglio. Alcuni di noi sono psicopatici, e se questa società è brutale la colpa è loro. Sono come un sasso gettato in un laghetto tranquillo».


Bob non era l’unico a credere che un numero elevato di psicopatici sedesse ai vertici della politica e dell’economia. Nei giorni successivi alla prima volta in cui Essi Viding mi aveva parlato della sua teoria, parlai con dozzine di psicologi, e li trovai tutti d’accordo. Uno di questi era Martha Stout della Harvard Medical School, autrice di The Sociopath Next Door. (Forse vi starete chiedendo quale sia la differenza tra uno psicopatico e un sociopatico. La risposta è che non c’è: psicologi e psichiatri di tutto il mondo tendono a usare le due parole indifferentemente.) Sono dappertutto, diceva: nel ristorante affollato in cui pranzi, nell’open space in cui lavori.


«In generale sono più affascinanti della maggior parte delle persone» mi disse. «Non sono capaci di emozioni proprie, ma studiano le nostre. Sono il capo o il collega a cui piace terrorizzare gli altri solo per il gusto di vederli spaventati. Sono la moglie che si sposa per sembrare normale, ma che tra le quattro mura domestiche non mostra segni d’amore dopo che l’attrazione iniziale si è consumata».


«Non so quante persone leggeranno questo libro» le dissi io. «Diciamo centomila? Questo significa che di questi un migliaio circa saranno psicopatici, o forse anche di più, se gli psicopatici amano leggere libri sugli psicopatici. Che messaggio vorrebbe far passare? Arrendetevi?».


«Non sarebbe una cattiva idea» disse Martha. «Ma la loro arroganza glielo impedirebbe. Penserebbero: “Sta mentendo: non esiste proprio nessuna coscienza”, oppure: “Questa poveretta è limitata dalla sua coscienza. Dovrebbe fare come faccio io”».


«E se sarà la moglie di uno psicopatico a leggere il libro? Cosa dovrebbe fare? Andarsene?».


«Sì. Mi piacerebbe che il messaggio fosse: “Vattene, e stai tranquilla: non ferirai i suoi sentimenti perché non ci sono sentimenti da ferire”». Fece una pausa. «I sociopatici amano il potere, amano vincere. Se togli l’amore dal cervello umano non rimane molto se non la volontà di vincere».


«Il che significa che ne troveremo un bel numero sulla “cima dell’albero”?» chiesi.


«Assolutamente sì. Più sali nella scala sociale, più alto sarà il numero di sociopatici che troverai».


«Quindi le guerre, le ingiustizie, gli sfruttamenti, insomma tutte queste cose accadono a causa di quella minuscola percentuale di popolazione che sta ai vertici ed è affetta da questo preciso disturbo mentale?» domandai. Sembrava la reazione a catena innescata dal libro di Petter Nordlund, ma su scala globale.


«Credo che molte di queste cose siano in effetti scatenate da loro, sì…» rispose lei.


«Ma è terribile» dissi, «sapere che la vita del 99 per cento di noi, che ce ne stiamo qui in basso, sia manovrata da una minuscola frazione di psicopatici al potere».


«Sì, è grossa come cosa. Un pensiero che non facciamo spesso, perché ci insegnano a credere che in fondo abbiamo tutti una coscienza».


Alla fine della nostra conversazione si è rivolta direttamente a te, caro lettore. Ha detto che se stai iniziando a preoccuparti di essere uno psicopatico, se riconosci in te alcuni di quei tratti, se il pensiero ti sta provocando un senso di ansia strisciante… be’, stai tranquillo: significa che non lo sei. Tutti gli esperti sembravano d’accordo: gli psicopatici sono forze disumane e malvagie che distruggono la società trascinandola nel loro vortice spietato, e sono riconoscibili solo da chi, come me, abbia affinato le proprie tecniche di smascheramento. Un altro modo in realtà ci sarebbe, ma implica aver accesso a costosi macchinari per la risonanza magnetica funzionale come quello di Adam Perkins.


Adam è un ricercatore in neuroscienze cliniche in un istituto di psichiatria di Londra. Gli avevo fatto visita dopo l’incontro con Essi perché è un esperto di ansia, e volevo testare con lui la mia teoria secondo cui chi soffre di ansia è l’esatto opposto neurologico di uno psicopatico in termini di funzionamento dell’amigdala.


Immaginavo la mia amigdala come una di quelle immagini di tempeste solari catturate dal telescopio Hubble, e l’amigdala degli psicopatici come l’immagine di un pianeta morto, tipo Plutone. Adam confermò la mia teoria, e per dimostrarmelo mi collegò a dei cavi, mi infilò in un macchinario simile a quello per l’fMRI, e senza nessun avvertimento mi diede un fortissimo elettroshock.


Urlai per il dolore: «Aaahh!!! Fa malissimo! Abbassa quell’aggeggio, per cortesia! Cazzo, pensavo che fosse stato dichiarato fuorilegge. Ma a quanto lo avevi messo?».


«Tre» disse Adam.


«E fino a quanto arriva?».


«Otto».


Adam mi sottopose a vari test per valutare il mio livello di ansia; io non potevo fare a meno di fissare con sospetto il pulsante che somministrava l’elettroshock, rilasciando di tanto in tanto piccoli spasmi involontari. Quando ebbe finito i risultati confermarono che in quanto a livelli di ansia ero in effetti al di sopra della media.


Ooh, pensai, inaspettatamente felice di apprendere che c’era davvero in me qualcosa che non andava. Poi dissi: «Immagino che per uno iperansioso come me non sia una buona idea dare la caccia a gente con un deficit di ansia patologico».


Adam annuì. Disse che dovevo fare attenzione: gli psicopatici sono davvero pericolosi, e spesso sono le persone che meno ti aspetti.


«Durante il dottorato» mi raccontò «ideai un test della personalità. Misi annunci sulle bacheche per trovare volontari tra gli studenti, e si presentò una ragazza. Era giovane, una studentessa al secondo anno, diciannove anni circa. Mi fa: “Questo è un test della personalità, vero?”. Rispondo di sì, e lei: “Ecco, io ho una brutta personalità. Mi piace far male alla gente”. Credevo mi stesse prendendo in giro. “Perfetto” le dico, “va bene”. Abbiamo iniziato coi test. Quando osservava foto di corpi mutilati, i sensori rivelavano che in effetti la vista la eccitava. L’area relativa all’appagamento sessuale (alla fine è una questione sessuale) veniva stimolata dal sangue e dalla morte. È subconscio, avviene in un millesimo di secondo. Per lei quelle cose erano fonte di piacere».


Osservai Adam. Era chiaro che descrivere quel momento lo stava mettendo a disagio. Era un uomo ansioso, come me, da cui la sua decisione di dedicare la vita allo studio dei rapporti tra ansia e cervello.


«Mi raccontò di aver cercato di entrare nella RAF, perché è l’unica parte del ministero della difesa che consente alle donne di utilizzare sistemi d’arma, ma fu respinta. Così finì a studiare storia. La sua psicopatia non faceva necessariamente di lei un’imbrogliona manipolatrice. Mi confessò i suoi istinti omicidi l’istante stesso in cui ci incontrammo, il che lascia pensare che in quanto a talento per l’inganno non avrebbe totalizzato un punteggio molto alto. Ma al centro della psicopatia c’è una mancanza di vincoli morali. Se hai di fronte una persona priva di freni inibitori che per di più trova la violenza eccitante, allora hai tra le mani un prototipo di pericoloso serial killer, con un desiderio morboso di uccidere e nessuna remora nel farlo. Ci sarà di sicuro tra la popolazione qualcuno per cui uccidere è fonte di eccitazione, ma avrà dei freni che gli impediranno di mettere in atto le sue fantasie, a meno che non sia ubriaco, stressato o va a sapere cosa… Credo che lei appartenesse a questa categoria, e il suo tentativo di arruolarsi nella RAF non è stato altro che la ricerca di un’opportunità socialmente accettabile per soddisfare i propri impulsi omicidi».


«Quindi cos’hai fatto con lei? Hai chiamato la polizia?».


«Mi trovavo in una situazione difficile… alla fine non aveva commesso alcun crimine. Avevo le mani legate, non c’era modo di fermarla».


Adam, Bob e Martha sembravano certi che con gli psicopatici il caos fosse inevitabile. Questa ragazza, non potendo uccidere in maniera “socialmente accettabile”, probabilmente finirà col diventare «un angelo della morte o qualcosa di simile» disse Adam. In un modo o nell’altro riuscirà comunque a farlo.


Mi chiesi se ad Adam o a Bob fosse mai venuto in mente che la soluzione logica al problema degli psicopatici potesse essere rinchiuderli prima che facessero qualcosa d’irreparabile. Certo suggerire una misura di questo tipo era un po’ come trasformarli all’istante nei cattivi di un romanzo orwelliano: non esattamente ciò che sognavano di diventare quando hanno scelto i rispettivi percorsi professionali.


«Dov’è ora questa donna?» chiesi ad Adam. «Magari potrei incontrarla alla presentazione del libro, in un bar affollato o robe del genere».


«Non ho modo di rintracciarla» rispose. «Chi prende parte ai miei studi viene registrato solo con un numero, mai con un nome. Quindi niente da fare» aggiunse dopo un attimo di silenzio.


Il significato delle parole di Adam era in realtà un altro: ora che mi trovavo nel “business dello smascheramento psicopatici” dovevo stare attento. Era un gioco pericoloso, non dovevo fidarmi di nessuno. Non era sicuro stare vicino a queste persone. A volte gli psicopatici sono ragazze diciannovenni che studiano storia in un’università londinese.


«Ce n’è davvero per tutti i gusti» mi disse.


Ora, mentre io e Bob Hare ci avvicinavamo a Cardiff, ripensai alla sua teoria su amministratori delegati e politici psicopatici, e mi tornarono alla mente gli Item 18 e 12 della sua checklist (Delinquenza minorile e Problemi comportamentali precoci).


«Se un politico o un imprenditore famoso avesse avuto la tipica infanzia da teppista di uno psicopatico, i giornali lo scriverebbero e sarebbe rovinato, no?» domandai.


«Infatti fanno in modo che non si venga a sapere» rispose Bob. «Comunque, aver avuto problemi comportamentali da ragazzini non significa necessariamente essere finiti in un carcere minorile; potrebbe voler dire aver torturato animali in segreto. Il problema è che arrivare a quelle persone è tutt’altro che facile. Un conto è entrare in contatto con i detenuti: a loro piace incontrare i ricercatori perché è un modo per spezzare la monotonia delle giornate. Ma gli amministratori delegati, i politici…». Bob mi guardò. «Be’… quella è roba davvero grossa… qualcosa che potrebbe cambiare per sempre il modo in cui guardiamo il mondo…».

Improvvisamente Tony a Broadmoor mi sembrò terribilmente distante.

Bob aveva ragione: questa storia poteva davvero essere qualcosa di grosso, e il mio desiderio di raccontarla era più forte di qualsiasi ansia mi stesse ribollendo dentro. Armato delle mie nuove tecniche di smascheramento psicopatici, decisi di avventurarmi nei corridoi del potere.

Capitolo 5

Toto

Sperduto nel nulla che separa Woodstock da Albany, a nord di New York, si erge un minaccioso edificio simil-vittoriano, con tentacoli di cemento e filo spinato che si snodano come serpenti nei campi lì attorno. È la Coxsackie Correctional Facility. Nonostante fosse la metà di maggio, scrosci di pioggia gelata mi tagliavano in due mentre ne percorrevo incerto il perimetro, senza sapere bene cosa fare.


Quando ero stato a Broadmoor, avevo ricevuto settimane prima lettere di conferma, liste di orari di visita, regole dettagliate. Qui non c’era nulla: nessun cartello, nessuna guardia. Al telefono una voce lontana e gracchiante mi aveva detto venga-pure-quando-le-pare. Questo posto era davvero il far west in fatto di procedure di visita. Era disorientante, caotico, snervante.


C’era una sola persona all’orizzonte, una giovane donna che batteva i denti sotto una tettoia di vetro. Andai a mettermi vicino a lei.


«Fa freddo» dissi.


«Fa sempre freddo, qui».


Finalmente sentimmo un rumore metallico. Si aprì un cancello automatico, e dopo aver attraversato un corridoio metallico ricoperto da un arazzo di filo spinato, sbucammo in un androne buio pieno di guardie.


«Salve» salutai allegramente.


«Ma guarda un po’ chi c’è» esclamò una di loro. «Harry Potter!».


Le guardie mi circondarono.


«Salve a lei, mio caro vecchio gentiluomo inglese» disse un’altra.


«Oh, ma che bel clima giocoso…» dissi io.


«Molto bene. Allora, chi è venuto a trovare?».


«Emmanuel Constant».


Smisero improvvisamente di ridere.


«È un pluriomicida» commentò una guardia, parecchio colpita.


«Una volta è andato a cena con Bill Clinton» disse un’altra. «È il vostro primo incontro?».


1997. Emmanuel “Toto” Constant, fermo sul marciapiede di una lunga e anonima via residenziale del Queens, a New York, si guardava intorno nel tentativo di avvistarmi. In lontananza, attraverso il riverbero della calura e lo smog, si poteva ancora intravedere lo skyline di Manhattan, uno scorcio del Chrysler Building, le torri gemelle. Ma da queste parti, di grattacieli scintillanti o bar alla moda pieni di bella gente neanche l’ombra: solo videonoleggi di un piano a forma di scatola e fast food. A differenza dei suoi vicini, tutti in T-shirt, pantaloncini e cappellini da baseball data la giornata afosa, Toto Constant indossava un completo chiaro immacolato con un fazzoletto di seta nel taschino. Era ben curato e tirato a lucido (pensandoci ora, la sua eleganza era molto simile a quella che avrei trovato anni dopo in Tony, a Broadmoor.)


Accostai e parcheggiai.


«Benvenuto nel Queens» mi disse, quasi scusandosi.


C’è stato un tempo, agli inizi degli anni novanta, in cui Toto possedeva un’enorme tenuta art déco con tanto di piscina e fontane a Port-au-Prince, Haiti. Era magro, bello e carismatico, e se ne andava in giro per la città con un Uzi o una 357 magnum.


Proprio nella sua villa mise su un gruppo paramilitare di estrema destra, il FRAPH (Front Révolutionnaire Armé pour le Progrès d’Haiti), creato per terrorizzare i sostenitori del presidente democratico di sinistra Jean-Bertrand Aristide, da poco mandato in esilio. Non era chiaro all’epoca chi foraggiasse il gruppo di Constant.


Secondo alcuni gruppi per i diritti umani, come il Center for Constitutional Rights e Human Rights Watch, quando i membri del FRAPH catturavano un sostenitore di Aristide erano capaci di tagliargli via la faccia. Un gruppo di sostenitori di Aristide si rifugiò in una baraccopoli chiamata Cité Soleil. Gli uomini di Constant li raggiunsero armati di benzina – era il dicembre del 1993 – e appiccarono il fuoco. Alcuni bambini cercarono di scappare via, ma gli uomini del FRAPH li presero e li obbligarono con la forza a rientrare nelle case in fiamme. Quel giorno vennero uccise cinquanta persone, ma non fu l’unico bagno di sangue che segnò il “regno” di Constant. Un altro episodio tipico: nell’aprile del 1994 gli uomini del FRAPH presero d’assalto il villaggio portuale di Raboteau, altra roccaforte di Aristide. Arrestarono, picchiarono, uccisero e gettarono nelle fogne a cielo aperto tutti gli abitanti che riuscirono a trovare, poi salirono su dei pescherecci per sparare a chi tentava di fuggire via mare.


Il modus operandi del FRAPH era far squadra con membri delle forze armate haitiane per compiere raid notturni nei quartieri più poveri di Port-au-Prince, Gonaives e altre città. Durante il raid gli assalitori facevano irruzione in una casa per cercare prove di attività di sostegno politico al Fronte Nazionale per il Cambiamento e la Democrazia, come foto di Aristide. Gli uomini venivano prelevati e torturati; a molti toccava un’esecuzione sommaria. Le donne subivano stupri di gruppo, spesso di fronte ai restanti membri della famiglia. L’età delle vittime documentate va da ragazzini di dieci anni ad anziani di ottanta. Secondo quanto raccontato dai testimoni, ci furono figli obbligati con una pistola puntata alla tempia a stuprare le proprie madri.


Center for Justice and Accountability


Aristide riprese il potere nell’ottobre del 1994, e Toto Constant fuggì in America, lasciando foto dei corpi mutilati delle vittime del FRAPH appese ai muri del suo quartier generale di Port-au-Prince. Fu arrestato a New York. Le autorità americane annunciarono l’intenzione di riportarlo a Port-au-Prince per far sì che venisse sottoposto a processo per crimini contro l’umanità. Ad Haiti la gioia era palpabile. In vista del processo imminente tre donne si fecero avanti per raccontare ai pubblici ministeri di essere state violentate dagli uomini di Constant e ridotte in fin di vita. Il suo destino sembrava segnato.


Ma lui aveva un ultimo asso nella manica. Dalla sua cella annunciò durante il programma della CBS 60 Minutes che era pronto a rivelare i nomi dei suoi sostenitori, gli uomini misteriosi che avevano favorito la creazione del FRAPH e l’avevano messo nel loro libro paga. Erano agenti della CIA e della Defense Intelligence Agency.


«Se sono colpevole dei crimini di cui mi accusano» disse a Ed Bradley, che lo intervistò, «allora lo è anche la CIA».


Era difficile capire perché la CIA avesse appoggiato uno squadrone della morte sanguinario e antidemocratico. Aristide era un uomo carismatico, un uomo di sinistra con un passato da prete. Forse temevano potesse diventare un novello Castro, e che avrebbe potuto compromettere le relazioni commerciali tra Haiti e gli Stati Uniti.


Eppure, se c’era chi dubitava delle parole di Constant, presto si ricredette. Il sanguinario capo del FRAPH lasciò intendere che se fosse stato estradato avrebbe rivelato cose sulla politica estera americana ad Haiti che nessuno avrebbe voluto sentire. Quasi immediatamente, il 14 giugno 1996, le autorità statunitensi lo rilasciarono e gli concessero una green card per lavorare negli Stati Uniti. Ma c’erano delle condizioni, contenute in un accordo di cinque pagine che fu inviato via fax dal dipartimento di giustizia americano alla prigione e consegnato a Constant, quando uscì. Gli si vietava per sempre di parlare con i media. Doveva trasferirsi con sua madre nel Queens e mai e poi mai avrebbe potuto lasciarlo se non per quell’ora a settimana in cui era tenuto a presentarsi all’INS (il servizio di immigrazione e naturalizzazione degli Stati Uniti) a Manhattan. Il Queens sarebbe stato la sua prigione.


Quando venni a conoscenza di questa storia, alla fine degli anni novanta, decisi di incontrare Toto per un’intervista. Ero interessato a capire come un uomo abituato a esercitare un potere così tremendo e spietato si stesse adattando a vivere in un sobborgo insieme a sua madre. Dopo questo atterraggio di emergenza nella vita normale sarebbe stato divorato dal ricordo dei suoi crimini come il Raskolnikov di Dostoevskij? Per di più nel Queens viveva una fiorente comunità haitiana, il che significava che quasi certamente viveva tra alcune delle sue vittime, o dei loro parenti.


Gli scrissi, convinto che avrebbe rifiutato: dopotutto parlare con me avrebbe significato violare i termini del suo rilascio; se le autorità lo avessero scoperto, avrebbe potuto essere di nuovo arrestato, trasferito ad Haiti, giustiziato. Di solito le mie richieste d’intervista vengono rifiutate per molto meno, per esempio perché i potenziali intervistati pensano che potrei ritrarli come degli svitati. Invece lui accettò di buon grado. Non mi feci troppe domande, perché ero semplicemente felice di aver ottenuto l’intervista e, a dirla tutta, non mi importava un granché delle conseguenze che l’incontro avrebbe avuto per lui, il che se ci pensate è un po’ Item 6: Assenza di rimorso o senso di colpa, oppure Item 7: Affettività superficiale, o ancora Item 8: Insensibilità/Mancanza di empatia… ma aveva guidato uno squadrone della morte, quindi, ripeto, non mi importava un granché.


Quella giornata nel Queens fu bizzarra e memorabile. C’era un gran viavai di uomini ben vestiti che di tanto in tanto si stringevano in un angolo e parlottavano di cose che non riuscivo a sentire, per quanto mi sforzassi di origliare. Probabilmente stavano pianificando un colpo di stato…


Gli chiesi come si stesse adattando alla vita di tutti i giorni. Cosa faceva per passare il tempo? Aveva degli hobby? Lui accennò un sorriso.


«Ti faccio vedere» disse.


Partimmo da casa di sua madre giù per un vicolo, e poi un altro, fino a raggiungere un agglomerato di edifici.


«Ci siamo quasi» mi disse. «Non preoccuparti!».


Salimmo le scale. Io mi guardavo alle spalle con apprensione. Arrivammo a una porta d’ingresso. L’aprì. Osservai attentamente la stanza. Su ogni tavolo, su ogni superficie disponibile, c’erano i classici pupazzetti di plastica che regalano con le promozioni di McDonald e Burger King, tipo Dumbo, Pippo, i Muppets, i Rugrats, Batman, le Superchicche, Men in Black, Luke Skywalker, Bart Simpson, Fred Flinstone, Jackie Chan, Buzz Lightyear e chi più ne ha…


Ci scambiammo uno sguardo.


«Quello che mi colpisce di più è la maestria con cui sono fatti» disse.


«Li organizzi in battaglioni?» domandai.


«No».


Silenzio.


«Andiamo?» borbottò, pentendosi – o almeno così mi parve – della decisione di mostrarmi il suo esercito di pupazzi di plastica.


Qualche minuto più tardi eravamo di nuovo a casa, seduti al tavolo della cucina. La madre entrava e usciva trascinandosi stancamente.


Mi stava parlando del fatto che prima o poi il popolo di Haiti gli avrebbe chiesto di tornare per guidarlo. «Mi adorano, ad Haiti» disse, e sì, quando quel giorno fosse arrivato lui avrebbe fatto il suo dovere per il popolo.


Gli chiesi di Cité Soleil e Raboteau e delle altre accuse che gli erano state rivolte.


«Sono accuse totalmente infondate…» disse, «totalmente infondate!».


Tutto qui? pensai. È tutto quello che aveva intenzione di dire sull’argomento?


«Le bugie che raccontano su di me mi spezzano il cuore» disse, e poi sentii uno strano rumore provenire da Constant. Stava tremando con tutto il corpo, e il rumore che emetteva somigliava vagamente a un singhiozzo, o meglio a una sua maldestra approssimazione. Aveva il volto contratto nella tipica smorfia del pianto, ma c’era qualcosa di strano: sembrava una recita mal riuscita. Insomma, di fronte a me avevo un adulto nel suo completo da damerino che stava chiaramente fingendo di piangere. Sarebbe stato imbarazzante se si fosse messo a piangere per davvero, ma questo era un uomo che stava visibilmente simulando un pianto, il che rendeva il tutto imbarazzante, sì, ma anche un po’ inquietante.


Poco dopo fu il momento dei saluti. Mi accompagnò alla porta – l’apoteosi delle buone maniere – ridendo, stringendomi la mano con calore e dicendo che ci saremmo rivisti presto. Appena arrivato alla macchina mi voltai per salutarlo di nuovo, e nel vederlo una scarica mi attraversò il corpo, come se la mia amigdala avesse appena lanciato un segnale di paura al mio sistema nervoso centrale. La sua espressione era molto diversa: molto più fredda, sospettosa. Mi stava scrutando attentamente. Nell’attimo stesso in cui incrociai il suo sguardo, tornò a sfoggiare quell’espressione calda, fece un gran sorriso e poi ciao ciao con la mano. Restituii il saluto, saltai in macchina e me ne andai.


Quell’intervista con Toto Constant alla fine non l’ho mai scritta. C’era in lui qualcosa di sfuggente e sinistro, ma non riuscivo a trovare un senso. Nei giorni passati nel Galles continuavano a tornarmi alla mente immagini della nostra giornata insieme. Quel pianto finto sembrava tanto Item 7: Affettività superficiale – Le sue dimostrazioni di emotività sono teatrali, superficiali, di breve durata, e l’impressione è che stia recitando – e forse ancor di più Item 16: Incapacità di accettare la responsabilità delle proprie azioni. L’affermazione secondo cui il popolo di Haiti lo adorava mi colpì come un esempio calzante dell’Item 2: Egocentrico e grandioso – Potrebbe affermare che gli altri lo rispettano, lo temono, lo invidiano, lo detestano e via dicendo. La sua convinzione che un giorno sarebbe tornato ad Haiti in veste di leader faceva tanto Item 13: Mancanza di obiettivi realistici a lungo termine.


Forse la checklist di Bob risolveva persino il mistero del perché avesse accettato di incontrarmi. Forse aveva a che fare con l’Item 3: Bisogno di stimoli/Propensione alla noia, e con l’Item 14: Impulsività – È improbabile che si soffermi a considerare le possibili conseguenze delle proprie azioni, ma anche con l’Item 2: Egocentrico e grandioso. Forse gli Item 3, 14 e 2 sono il motivo per cui un sacco dei miei intervistati accetta di incontrarmi.


Non sapevo dire dove si collocasse esattamente in tutto questo la collezione di pupazzetti di Burger King, ma non vedevo perché gli psicopatici non potessero avere gli hobby più disparati.


Dove si trovava adesso? Quando tornai dal Galles feci una ricerca. Scoprii, non senza sorpresa, che era detenuto nella Coxsackie Correctional Facility con una condanna da dodici a trentasette anni per frode ipotecaria, di cui ne aveva già scontati due.


Item 20: Versatilità criminale.


Decisi di contattarlo. Gli rinfrescai la memoria sul nostro ultimo incontro, gli fornii un resoconto stringato del malfunzionamento dell’amigdala e gli chiesi se pensava fosse il suo caso. Mi rispose dicendo che sarebbe stato felice di ricevermi. Prenotai un volo. Un vulcano islandese eruttò. Ne prenotai un altro la settimana dopo, ed eccomi seduto a un tavolo con il contrassegno Fila 2 Tavolo 6 in una sala visite semideserta.


Coxsackie aveva mille prigionieri, ma solo quattro quel giorno avevano compagnia: c’era una giovane coppia che giocava a carte, un detenuto anziano circondato da figli e nipoti, la donna che avevo incontrato sotto la tettoia, che stringeva la mano di un detenuto dall’altra parte del tavolo, passava distrattamente le dita tra le sue, e tirava un dito, poi un altro, poi gli carezzava il volto… e infine c’era Toto Constant, che mi sedeva di fronte.


Era con me da cinque minuti ed ero già colpito da quanto si stesse dimostrando una piacevole compagnia. Stava facendo quello che mi aspettavo: proclamava la propria innocenza per la frode ipotecaria, diceva che era colpevole solo di essersi fidato delle persone sbagliate, e si mostrava stupito per la sentenza sproporzionata, visto che per frode ipotecaria di solito ti becchi sì e no cinque anni.


«Cinque anni» disse. «Perfetto, ci sto… ma trentasette!».


In effetti non aveva tutti i torti: la condanna sembrava esagerata. Gli mostrai empatia, e dissi, un po’ nervoso, che l’anomalia cerebrale di cui parlavo nella mia lettera, nel caso in cui gli fosse appartenuta, l’avrebbe classificato come psicopatico.


«Be’, non lo sono» disse.


«Ti andrebbe comunque di approfondire la faccenda insieme a me?» domandai.


«Nessun problema. Spara».


Mi resi conto che avevamo entrambi qualcosa da guadagnare da questo incontro. Per me lui era una sorta di cavia: mi permetteva di mettere in pratica le mie nuove tecniche di smascheramento psicopatici, mentre lui ci guadagnava una giornata fuori dalla cella, lontano dalla monotonia, a mangiare gli hamburger che avevo comprato al distributore della sala visite.


Cosa speravo di ottenere? Mi chiedevo se avrei intravisto qualcosa di Tony in Toto; forse avrei identificato dei tratti caratteriali comuni, come mi aveva insegnato il corso di Bob, ma avevo anche un obiettivo più grande. Ad Haiti sono state fatte cose terribili in suo nome. Per tre anni ha destabilizzato la società haitiana, l’ha fatta precipitare in una spirale infernale, distruggendo migliaia di vite e segnandone altre decine di migliaia. La teoria di Bob e Martha Stout era corretta? Dipendeva tutto da un collegamento difettoso tra la sua amigdala e il suo sistema nervoso centrale? Se così fosse si tratterebbe di un’anomalia cerebrale davvero potente.


«Perché non sei venuto a trovarmi lo scorso martedì?» mi domandò.


«C’è stata l’eruzione di quel vulcano in Islanda, e hanno bloccato tutto» spiegai.


«Ah…» disse annuendo. «Ok, capisco. Quando ho ricevuto la tua lettera ero così emozionato».


«Davvero?».


«Tutti i detenuti sono venuti a dirmi: “Il tizio che ha scritto L’uomo che fissa le capre viene a trovare… te? Wow!”. Tutti qui dentro hanno visto quel film, amico!».


«Davvero?».


«Sì, abbiamo una “serata cinema” ogni sabato. La scorsa settimana abbiamo visto Avatar. Quel film mi ha toccato, dico sul serio. La nazione grande che invade quella piccola… e poi quegli uomini blu, stupendi, avevano davvero qualcosa di bellissimo».


«Sei una persona emotiva?».


«Sì, sono emotivo». Annuì. «Comunque… un paio di mesi fa hanno scelto L’uomo che fissa le capre. La maggior parte dei detenuti non ne capiva il senso. Dicevano: “Ma che roba è?”, e io: “No, no… conosco il tizio che ha scritto il libro! Dovete provare a entrare nella sua mente!”. E poi mi hai scritto per dire che avresti voluto incontrarmi di nuovo. Erano gelosissimi!».


«Oh, ma che carini…» dissi.


«Quando la scorsa settimana ho saputo che saresti venuto, i miei capelli erano un disastro, ma non era in programma che li tagliassi. Per fortuna però un altro detenuto mi ha detto: “Vai al posto mio, tranquillo”. Ci siamo scambiati i turni dal barbiere! E un altro mi ha dato una maglietta verde nuova di zecca da indossare!».


«Oddio…» dissi.


Agitò la mano: «Lo so che è sciocco. L’unica piccola cosa che ci è concessa qui dentro è una visita. È tutto quello che ci resta». Poi si fece scuro in volto. «Una volta mangiavo nei migliori ristoranti del mondo. Ora sono chiuso in una cella e mi vesto di verde».


Chi è quello senza sentimenti tra i due?, pensai. Sono venuto qui soltanto per affinare le mie tecniche di smascheramento psicopatici e questo poveraccio si è fatto prestare una maglietta.


«Alcuni qui rinunciano alle visite per via di quello a cui ci sottopongono dopo» disse Toto.


«A cosa vi sottopongono dopo?».


«Un’ispezione senza vestiti».


«Un’ispez… gesù… davvero?».


Rabbrividì. «È orribile… indegno…».


Solo allora alzai lo sguardo. Qualcosa era cambiato nella stanza: i prigionieri e i loro cari avevano notato qualcosa che a me era sfuggito, e ora erano ansiosi, turbati.


«Che pezzo di merda» sussurrò Toto.


«Chi?».


«Quel tizio».


Senza distogliere lo sguardo da me Toto indicò una guardia carceraria, un uomo con indosso una camicia bianca che stava attraversando la sala.


«È un sadico» disse. «Quando entra in una stanza hanno tutti paura. Nessuno di noi vuole guai, vogliamo solo andarcene a casa».


«Ma cosa ha fatto?».


«Nulla di che. Ha detto a una donna che la sua maglietta era troppo scollata. Tutto qua».


Diedi un’occhiata: era la donna che avevo incontrato sotto la tettoia. Sembrava scossa.


«È solo che… lui spaventa le persone».


«Tanti anni fa, quando ci siamo incontrati la prima volta, nel Queens, è successa una cosa» dissi. «È stato proprio alla fine della giornata. Stavo andando verso la mia macchina, mi sono voltato e ho visto che mi stavi fissando. Mi stavi proprio scrutando. Ho notato che hai fatto la stessa cosa quando sei entrato in questa stanza: hai studiato attentamene tutto l’ambiente, osservando ogni cosa».


«Sì, osservare la gente è uno dei miei punti di forza» disse. «Osservo sempre».


«Perché? Che cosa cerchi?».


Ci fu un breve silenzio. Poi Toto, con dolcezza, sussurrò: «Voglio vedere se piaccio».


«Vuoi vedere se piaci?».


«Voglio che pensino che sono un gentiluomo. Voglio piacere. L’idea di non piacere mi fa star male. Per me è molto importante, sono sensibile alle reazioni altrui. Osservo le persone per vedere se piaccio davvero».


«Wow… non immaginavo ti stesse così a cuore».


«Eh sì».


«È davvero sorprendente».


Dentro di me ero amareggiato: avevo guidato fin lassù, e lui non aveva nulla di psicopatico. Era modesto, umile, emotivo, autocritico e incredibilmente placido per un uomo così imponente. Certo, c’erano state delle ammissioni, pochi istanti prima, dell’Item 11: Promiscuità nel comportamento sessuale, ma mi era sembrato tutto sommato un elemento abbastanza innocuo e non fondamentale.


«Sono un donnaiolo» aveva detto. «Ho sempre avuto molte donne. A quanto pare sono un’ottima compagnia». Alzò le spalle in un gesto di modestia.


«Quanti figli hai?».


«Sette».


«Con quante madri?».


«Quasi altrettante!» disse ridendo.


«Perché cosi tante donne?».


«Non lo so, sai?». Sembrava davvero perplesso. «Ho sempre voluto molte donne, tutto qui. Non so perché».


«Perché non rimanere con una donna soltanto?».


«Non so, forse è per via di questo forte desiderio di piacere… Faccio in modo di accontentare le persone, non sono mai in disaccordo con nessuno, le faccio sentire bene per essere sicuro di piacere».


«Questa non è una forma di debolezza?» dissi infine. «Voglio dire… il tuo disperato desiderio di piacere, non è una debolezza?».


«Ah no!» rise Toto, agitando energicamente il dito verso di me. «Non è affatto una debolezza!».


«Perché?».


«Te lo dico io perché! Se piaci alle persone puoi manipolarle. Faranno quello che vuoi tu!».


Rimasi di sasso.


«Quindi non ti interessa davvero piacere alle persone?».


«Ma va’, figurati» disse con leggerezza. «Ti sto confidando i miei segreti più profondi, Jon!».


«Quando dici “l’idea di non piacere mi fa star male” non vuoi dire che stai davvero male, vero? Vuoi dire che danneggia la tua immagine…».


«Esattamente».


«Come funziona?» chiesi. «Voglio dire… come si fa a piacere alle persone?».


«Ho capito cosa intendi…» disse. «Sta a vedere…».


Si girò verso il detenuto anziano i cui figli e nipoti erano appena andati via.


«Amico, hai una famiglia adorabile, lo sai?» gli urlò.


Il volto dell’uomo si aprì in un gran sorriso, colmo di gratitudine.


«Grazie!» rispose.


Toto si voltò verso di me, sghignazzando.


«Che mi dici dell’empatia?» gli domandai. «Provi empatia? Immagino che possa talvolta essere considerata una debolezza».


«No» disse Toto, «non provo empatia». Scosse la testa come un cavallo con una mosca sul naso. «Non è un sentimento che mi appartiene. Dispiacersi per gli altri, dici?».


«Sì».


«Non mi dispiaccio per gli altri… no».


«E le emozioni? Prima ti sei definito una persona emotiva. Ma provare emozioni potrebbe essere considerato… come dire… una debolezza».


«Be’, ma tu selezioni il tipo di emozioni che vuoi» replicò. «Lo vedi? Ti sto davvero confidando i miei segreti più profondi, Jon».


«E quelle tre donne che hanno testimoniato contro di te in tribunale? Provi un qualche tipo di emozione nei loro confronti?».


Toto sbuffò, seccato. «Tre donne hanno detto di essere state torturate, stuprate e ridotte in fin di vita bla bla bla da uomini mascherati non ben identificati» replicò, accigliato. «Hanno dato per scontato che si trattasse di membri del FRAPH perché indossavano le loro uniformi. Dicono che io stuprassi per dimostrare il mio potere».


«Cosa raccontano di aver subito?».


«Oh…» rispose con disinvoltura, «una ha detto di essere stata picchiata, violentata e ridotta in fin di vita. Una “dottoressa” – nel dirlo fece il gesto sprezzante delle virgolette con le dita – ha raccontato di essere stata messa incinta da uno degli assalitori».


Disse che nessuna delle accuse era vera, nemmeno una, e che se volevo saperne di più su tutte le altre menzogne dovevo aspettare di leggere il libro di memorie che stava finendo di scrivere, The Echoes of my Silence.


Chiesi a Toto se gli piacessero gli altri detenuti. Mi disse di no, che non gli piacevano. Di certo non quelli che «piagnucolano o si lamentano. E i ladri… uuuuhh… dammi pure dell’omicida, dammi dell’assassino, ma non chiamarmi ladro… E non mi piacciono neanche i pigri. O i deboli. O i bugiardi. Ecco… odio i bugiardi».


Disse che comunque il suo autocontrollo era impeccabile. Spesso avrebbe avuto voglia di spaccare la faccia a qualcuno, ma non l’aveva mai fatto. Il giorno prima in mensa, per esempio, un detenuto stava mangiando la sua zuppa – «e succhia succhia e poi risucchia… santo dio, Jon, mi stava facendo saltare i nervi. Slurp… slurp… slurp… non hai idea di quanto avrei voluto tirargli un cazzotto. Ma ho pensato: “No, Emmanuel, aspetta che passi. Presto sarà tutto finito. E così è stato”». Toto piantò i suoi occhi nei miei. «Sto perdendo tempo, qui dentro, Jon. È questo il pensiero più terribile: sto perdendo tempo».


Le nostre tre ore erano finite. Mentre uscivo le guardie mi chiesero il motivo della mia visita a Toto Constant. «Volevo scoprire se è uno psicopatico» risposi.


«Naaah, ma figurati… non è uno psicopatico» esclamarono in due all’unisono.


«Hey» disse un altro, «lo sai che una volta è andato a cena con Bill Clinton?».


«Non credo sia mai andato a cena con Clinton» dissi io. «Se ve l’ha raccontato lui, allora è molto probabile che non sia vero».


La guardia non replicò.


Durante il viaggio di ritorno verso New York mi congratulai con me stesso perché ero un genio, perché ero riuscito a farlo crollare. La chiave era stata la parola debolezza: ogni volta che l’avevo pronunciata Toto si era sentito in dovere di rivelare al contrario la propria forza. Ero sorpreso dalla facilità con cui fino a quel momento mi ero lasciato conquistare da lui; mi aveva mostrato un briciolo di modestia e io l’avevo subito etichettato come non psicopatico. All’inizio avevo trovato in lui qualcosa di familiare e rassicurante: mi era sembrato mansueto, autocritico, timido… tutti tratti caratteriali che mi appartengono. Possibile che avesse fatto da specchio, restituendomi l’immagine di me stesso? Poteva essere questo il motivo per cui i partner degli psicopatici a volte non riescono a lasciarli, e restano invischiati in relazioni che dall’esterno sono davvero incomprensibili?


Bob Hare sosteneva che gli psicopatici fossero abili imitatori. Una volta raccontò a un giornalista di quando fu chiamato come consulente per un film con Nicole Kidman, Malice – Il sospetto. Lei voleva prepararsi per il ruolo di psicopatica, e Bob le aveva detto: «Ecco una scena per te: stai camminando per strada e c’è un incidente, un’auto ha investito un bambino. Tutto intorno si raduna una folla di persone. Tu ti avvicini, il bambino è sdraiato per terra e c’è sangue dappertutto. Ti sporchi leggermente le scarpe di sangue e dici “Oh merda”. Guardi verso il bambino, incuriosita, ma non sei né disgustata né turbata: sei intrigata. Poi guardi la madre, e lei, che è in pieno crollo emotivo, urla, fa mille cose diverse, ti affascina terribilmente. Dopo qualche minuto giri sui tacchi e torni a casa, vai in bagno e inizi a imitare le espressioni facciali della madre. Ecco, questo è uno psicopatico: qualcuno che non riesce a cogliere il lato emotivo di un evento, ma capisce che è successo qualcosa di importante».


Il fatto è che Toto Constant sapeva anche rapirti con il suo fare enigmatico, una qualità che si nutre della mancanza di trasparenza. Siamo affascinati da chi non si svela interamente, e gli psicopatici non lo fanno mai perché non sono mai del tutto in sé. Sono senza dubbio i più enigmatici tra i malati mentali.


La strada da Coxsackie a New York, passando per Saugerties, New Paltz e Poughkeepsie, era di una noia mortale, come un pianeta alieno in un episodio di Star Trek. All’improvviso mi assalì il pensiero che Toto avrebbe potuto rivoltarsi contro di me e chiedere a uno dei suoi fratelli o dei suoi zii di venire a cercarmi. Sentivo l’ansia montare, violenta come la grandine che si stava abbattendo sulla mia macchina. Accostai e cercai riparo in uno Starbucks. Tirai fuori i miei appunti – li avevo buttati giù sul block notes di un hotel con una matita fornita dalla prigione – e lessi la parte in cui mi aveva detto di essere solo al mondo, perché la sua famiglia e chiunque lo avesse mai amato lo aveva abbandonato.


Ah, ok, allora è tutto a posto, pensai. Il pensiero che i suoi fratelli e i suoi zii lo avessero lasciato solo, rendendo di fatto ogni ipotesi di vendetta quantomeno improbabile, mi tranquillizzò.


Immagino sia un po’ Item 8: Insensibilità/Mancanza di empatia, pensai, ma date le circostanze poco importa.


Presi un caffè americano, saltai di nuovo in macchina e ripresi a guidare.


In fondo non mi sembrava poi una gran cosa scoprire che il capo di uno squadrone della morte avrebbe totalizzato un punteggio alto nella PCL-R. Mi intrigava di più la teoria sugli “psicopatici aziendali”. Bob Hare sosteneva che i brutali eccessi del capitalismo fossero da imputare proprio agli psicopatici, che gli aspetti più crudeli del sistema economico e sociale in cui viviamo fossero una manifestazione del malfunzionamento dell’amigdala di pochi individui. Aveva pubblicato un libro sull’argomento – Snakes in Suits: Psychopaths Go to Work – scritto a quattro mani con lo psicologo Paul Babiak.


Appena uscito, le recensioni entusiastiche si erano sprecate: «Tutti i manager e i responsabili delle risorse umane dovrebbero leggere questo libro» recitava un commento pubblicato sull’“Health Service Journal”, la rivista del sistema sanitario nazionale. «Lavori con potenziali serpenti? Di solito, nascosti dietro un’apparente normalità, sono quegli individui carismatici ma spietati che sembrano fatti apposta per ricoprire incarichi di prestigio».


Tutto quel parlare di serpenti che adottano sembianze umane mi riportò alla mente un pezzo che avevo scritto su un cospirazionista di nome David Icke: secondo lui il mondo era segretamente governato da gigantesche lucertole mangia-bambini assetate di sangue, trasformatesi in esseri umani per poter esercitare il loro potere malvagio su un’ignara popolazione.


Improvvisamente mi resi conto di quanto le due storie fossero simili, a parte il fatto che questa volta a parlare di serpenti in giacca e cravatta erano eminenti psicologi sani di mente, rispettati in tutto il mondo. E se questa teoria del complotto alla fine non fosse così balzana? Mentre mi avvicinavo a New York, con i grattacieli di Wall Street che si facevano sempre più grandi, mi chiesi se esistesse un modo per dimostrarlo.

Capitolo 6

La notte dei morti viventi

La cittadina di Shubuta, Mississippi, sta morendo. Il Sarah’s House of Glamour, il Jones Brothers Market Basket Meat and Groceries Store, la banca… tutto chiuso, e gli altri negozi lì intorno hanno facciate così sbiadite che non si riesce neanche a capire cosa fossero un tempo. Solo gli orsacchiotti o i pupazzi gonfiabili di Babbo Natale che di tanto in tanto fanno capolino nelle vetrine impolverate offrono qualche indizio sulla natura delle attività abbandonate.


Persino la loggia massonica di Shubuta è fatiscente e piena di erbacce. E pensare che erano convinti di possedere un tale potere… Evidentemente non è bastato a salvarli.


Anche la prigione è andata, con le grate in ferro delle celle lasciate a sgretolarsi e corrodersi dentro un edificio in pietra a un passo da Main Street. Di fianco, un canestro da basket arrugginito.


«Ti rendi conto di essere in un posto depresso quando persino la prigione ha chiuso i battenti» dissi.


«Depresso è la parola giusta» disse Brad, l’abitante del posto che mi faceva da guida.


Le travi di legno marcio che spuntavano dalle case abbandonate mi ricordavano la foto che ci aveva mostrato Bob durante il corso tenuto nel Galles occidentale: quel volto sfigurato ricoperto di sangue, e quelle ossa e cartilagini che spuntavano da quello che restava della pelle.


Shubuta non era del tutto vuota, c’era ancora qualche abitante che si aggirava qua e là. Alcuni erano ubriachi, altri erano molto anziani.


C’è stato un tempo, però, in cui Shubuta era una cittadina fiorente.


«Vibrante» mi diceva Brad. «Ogni giorno! Incredibile! C’era sempre un gran viavai. È stato bellissimo crescere qui, c’era un tasso di criminalità bassissimo. «Andavamo in bici dappertutto» proseguì l’amica di Brad, Libby. «Oppure giravamo con i pattini. Le nostre madri non avevano nulla di cui preoccuparsi».


«Lavoravano tutti per la Sunbeam» aggiunse Brad. Alla Sunbeam, la fabbrica locale, si producevano tostapane, bellissimi oggetti dal sapore art déco.


Io e Brad ci arrampicammo sulle macerie fino a entrare in un lungo edificio a metà di Main Street, con una porta scardinata e la scritta “Uscita” a terra sepolta dalla polvere. Da grossi chiodi a vista pendevano brandelli sfilacciati di quelle che un tempo dovevano essere tende di velluto rosso. Sembrava di stare in un mattatoio.


«Cos’era questo posto in passato?» chiesi a Brad.


«Un cinema» rispose. «Mi ricordo quando ha aperto, eravamo tutti così emozionati. Avremmo avuto un cinema! Avremmo finalmente avuto qualcosa da fare! Hanno proiettato un film e poi fine della storia, l’hanno chiuso».


«Che film era?» domandai.


«La notte dei morti viventi» rispose Brad.


«Appropriato…» commentai dopo un attimo di silenzio.


Brad posò lo sguardo su quello che rimaneva di Main Street. «Al Dunlap non si rende conto di quante vite ha rovinato quando ha chiuso lo stabilimento» disse. «Per una cittadina così piccola è stato terribile». La rabbia gli infiammò il volto: «Dico io… guarda che roba».


Il vecchio stabilimento della Sunbeam era a un miglio dalla cittadina ed era grande come cinque campi da calcio. In una stanza trecento persone facevano i tostapane, mentre in un’altra altri trecento li impacchettavano. Davo per scontato che il posto fosse in disuso, ma scoprii invece che ospitava una nuova attività. Non aveva seicento dipendenti ma cinque: cinque persone strette una di fianco all’altra in questo spazio sconfinato a costruire paralumi. Il loro capo, Stewart, lavorava qui allo stabilimento prima che Al Dunlap diventasse l’amministratore delegato della Sunbeam e le facesse chiudere bottega.


«È bello vedere che qui dentro tutto sommato si continua a produrre» dissi.


«Mm-mhh…» annuì Stewart, pur non sembrando troppo convinto che da queste parti si sarebbe continuato a produrre ancora per molto.


Stewart e il suo amico Billy, insieme a Libby, mi portarono in giro per la fabbrica deserta. Volevano far vedere a qualcuno da fuori cosa succede quando «dei pazzi prendono il timone di quella che un tempo era una grande azienda».


«Stai parlando di Al Dunlap?» domandai.


«Alla Sunbeam abbiamo avuto un pazzo dietro l’altro» disse Stewart. (Dal momento che questo libro parla di vera follia, forse è meglio sottolineare che Stewart e Bill non sono del campo, e quindi usano il termine pazzo in maniera generica.)


«Se Dunlap non è il solo, allora chi è stato il primo pazzo qui dentro? Buckley?».


«Sì, Buckley» disse Bill.


«Buckley aveva una persona che gli faceva da scorta e lo seguiva dappertutto con una mitragliatrice» raccontò Stewart. «Aveva una flotta di jet e Rolls-Royce e sculture di ghiaccio che valevano diecimila dollari. Spendeva soldi come se niente fosse, nonostante l’azienda stesse navigando in pessime acque».


(Più avanti lessi che Robert J. Buckley aveva perso il posto di amministratore delegato alla Sunbeam nel 1986 in seguito alle lamentele di alcuni azionisti, visto che a dispetto dell’andamento disastroso dell’azienda continuava a mantenere una flotta di cinque jet per se stesso e per la sua famiglia, aveva piazzato il figlio in un appartamento da un milione di dollari a spese della Sunbeam, e aveva fatto figurare i centomila dollari spesi per del vino come rimborso aziendale.)


«Chi è arrivato dopo Buckley?».


«Paul Kazarian» rispose Bill. «Sono convinto che fosse un uomo intelligente, capace, un gran lavoratore. Ma…» si interruppe. «C’è una storia su di lui che potrei raccontare, ma non di fronte a una signora».


Guardammo tutti Libby.


«Ok, ho capito…» disse.


Libby attraversò l’officina abbandonata scavalcando ragnatele, vetri rotti e cassoni per i rifiuti pieni ormai solo di polvere. Quando non fu più a portata di orecchio Bill proseguì: «Una volta non riuscivo a concludere una vendita, e lui mi ha urlato: “Dovresti succhiargli il cazzo, a quel bastardo, pur di chiudere l’affare!”. Di fronte a una stanza piena di persone. Come ha potuto comportarsi così? Rivolgersi a me in quel modo…».


Bill era rosso in volto, il ricordo ancora adesso lo faceva bollire di rabbia.


Secondo il libro di John Byrne, Chainsaw, che racconta la storia della Sunbeam Corporation, quando era amministratore delegato Paul Kazarian lanciava boccali di succo d’arancia contro il controller dell’azienda, e con la sua pistola ad aria compressa sparava scariche di colpi contro le sedie vuote dei dirigenti durante le riunioni. Ma era anche famoso per avere a cuore la sicurezza sul lavoro e i diritti dei lavoratori: voleva che l’azienda guadagnasse e avesse successo senza essere costretto a chiudere stabilimenti. Ha riportato negli Stati Uniti la produzione delocalizzata in Asia e ha istituito un’università per i dipendenti.


Facemmo cenno a Libby che poteva tornare, e fu di nuovo tra noi.


«E dopo Paul Kazarian?» chiesi.


«Poi c’è stato Al Dunlap» rispose Stewart.


«Lo vedo domani» dissi io. «Vado in macchina fino a Ocala, in Florida, per incontrarlo».


«Cosa???» esclamò sbigottito, facendosi scuro in volto. «Ma non è in galera, quel bastardo?».


«Tutt’altro. Sta in una villa gigante».


Per un secondo vidi le vene del collo di Stewart ingrossarsi.


Tornammo nel suo ufficio.


«Ah» dissi, «di recente ho passato un po’ di tempo con uno psicologo di nome Bob Hare. Secondo lui si può capire molto di un capitano d’industria in base a come risponde a una certa domanda».


«E quale sarebbe?» chiese.


«Se vedessi la foto della scena di un crimine, qualcosa di davvero raccapricciante, tipo il primo piano di un volto sfigurato, quale sarebbe la tua reazione?».


«Mi verrebbe voglia di andarmene» rispose Stewart. «Mi spaventerebbe, lo troverei terribile. Mi dispiacerebbe per quella persona e avrei paura per me stesso. Allora, cosa hai capito di me?».


Dalla finestra di Stewart osservai l’officina; era un’immagine strana, un minuscolo gruppetto di cinque persone che assemblava paralumi dentro questo enorme spazio deserto. Avevo detto a Stewart quanto fosse bello vedere un’attività fiorire qui dentro, ma la verità era ovvia: le cose non andavano bene.


«Allora, cosa hai capito di me?» chiese di nuovo Stewart.


«Tutto a posto, stai tranquillo» lo rassicurai.


A metà degli anni novanta la Sunbeam era un disastro. Amministratori delegati scialacquatori come Robert Buckley avevano lasciato l’azienda in difficoltà. Al consiglio d’amministrazione serviva qualcuno che tagliasse i costi senza pietà, per cui offrirono il lavoro a una persona speciale, una che, a differenza della maggior parte degli esseri umani, provava gusto a licenziare. Si chiamava Albert J. Dunlap, e si era fatto un nome chiudendo stabilimenti per conto della Scott, il più antico marchio di carta igienica d’America. Circolano un’infinità di storie su di lui, su come se ne andasse da uno stabilimento della Scott all’altro licenziando il personale nei modi (per lui) più esilaranti, in realtà terribili e disumani. Una volta aveva chiesto a un impiegato di uno stabilimento di Mobile, Alabama, da quanto tempo lavorasse lì dentro.


«Trent’anni» aveva risposto lui con orgoglio.


«E perché mai ha voluto restare nella stessa azienda per tutto questo tempo?» fu la replica di Dunlap, sinceramente perplesso. Poche settimane più tardi chiuse lo stabilimento di Mobile, mandando tutti a casa.


L’autobiografia di Dunlap, Mean Business, è piena di aneddoti di licenziamenti come questo: «Alla Scott avevano un corporate morale officer, una donna abbastanza gradevole che guadagnava una somma di denaro oscena. Il suo compito principale era assicurarsi che tra i manager regnasse l’armonia. Armonia… Al diavolo… quelli avrebbero dovuto strapparsi i capelli a vicenda! Ho detto ad Anderson, il direttore finanziario della Scott, di farla fuori […]. Sempre quella settimana uno dei legali dell’azienda si è addormentato durante una riunione. È stato l’ultimo pisolino che si è fatto a nostre spese: un paio di giorni dopo era soltanto un ricordo».


E così via. Licenziava gente mostrando un tale godimento che “Fast Company” lo incluse in un articolo dedicato ai top manager potenzialmente psicopatici. Tutti gli altri amministratori delegati citati erano morti o in prigione: difficile quindi che potessero far causa, ma con Dunlap decisero comunque di correre il rischio, elencando tra gli argomenti la scarsa capacità di autocontrollo (la prima moglie dichiarò nei documenti per il divorzio di essere stata minacciata con un coltello e di avergli sentito dire che si era sempre chiesto che sapore avesse la carne umana) e la mancanza di empatia (nonostante continuasse a ripetere ai giornalisti che i suoi genitori erano state due persone amorevoli e presenti non andò al funerale di nessuno dei due).


Lo stesso giorno del 1996 in cui il consiglio d’amministrazione della Sunbeam aveva annunciato il nome del nuovo amministratore delegato, il prezzo delle azioni era schizzato da 12,50 a 18,63 dollari. Secondo il biografo non ufficiale di Dunlap, John Byrne, si è trattato del più grande salto nella storia della Borsa di New York. Il giorno in cui, qualche mese più tardi, Dunlap annunciò che metà dei ventimila dipendenti della Sunbeam sarebbero stati licenziati – secondo il “New York Times” fu in termini percentuali la più grande riduzione di forza lavoro di quel tipo di tutti i tempi – il prezzo delle azioni schizzò di nuovo alle stelle, e raggiunse i 28 dollari. Di fatto l’unica volta in cui il prezzo vacillò in quei mesi fu il 2 dicembre 1996, quando “Business Week” rivelò che Dunlap non si era presentato al funerale dei suoi genitori e aveva minacciato la prima moglie con un coltello. Quel giorno il prezzo delle azioni scese dell’1,5 per cento.


Mi ricordava quella scena del film La rabbia giovane in cui la quindicenne Holly, interpretata da Sissy Spacek, è sconvolta quando realizza che Kit, il suo duro e affascinante fidanzato, ha oltrepassato il confine tra l’irrequietezza e la follia. L’ansia la spinge a fare un passo indietro, ma poi sentiamo la sua voce fuori campo dirci, con tono piatto e assente: «Avrei potuto filare alla chetichella o nascondermi da qualche parte. Però mi convinsi che il mio destino era ormai legato a quello di Kit, nel bene e nel male».


Proprio come in quel film, il rapporto tra Dunlap e i suoi azionisti si riprese in fretta dopo il 2 dicembre, e insieme si lanciarono in una corsa scatenata attraverso l’America rurale durante la quale chiusero stabilimenti a Shubuta, Bay Spring e Laurel (Mississippi), Cookeville (Tennessee), Paragould (Arkansas), Coushatta (Louisiana) e così via, trasformando intere comunità degli Stati Uniti del sud in città fantasma. Ogni volta che una fabbrica chiudeva, i prezzi delle azioni della Sunbeam salivano, fino a raggiungere la cifra incredibile di 51 dollari nella primavera del 1998.


Tra l’altro Bob Hare scrive proprio di La rabbia giovane nel suo testo fondamentale, La psicopatia: «Se Kit rappresenta l’idea che il regista ha della psicopatia, Holly ne è un esempio concreto, una macchina parlante che si limita a riprodurre le espressioni facciali dei vari sentimenti. La sua narrazione, piatta e inespressiva, è abbellita con frasi prese direttamente dalle riviste patinate che dicono alle ragazzine quali sensazioni dovrebbero provare. Il personaggio di Spacek esemplifica nel migliore dei modi ciò che si intende con “conoscere le parole ma non la musica”».


Per Dunlap tutto finì nella primavera del 1998, quando lo US Securities and Exchange Committee avviò un’indagine a seguito di accuse che lo vedevano protagonista di una massiccia frode fiscale a danno della Sunbeam. Sessanta dei quasi centonovanta milioni di dollari che gli erano stati versati nel 1997 erano, secondo loro, risultato di falso in bilancio. Dunlap negò le accuse. Pretese e ottenne dalla Sunbeam una liquidazione incredibile, che andò ad aggiungersi ai cento milioni di dollari guadagnati nei suoi venti mesi trascorsi alla Scott.


All’epoca, prima del caso Enron, quando i casi erano complicati come questo non si insisteva con le accuse. Nel 2000, quando Dunlap accettò di sborsare quasi diciannove milioni di dollari per chiudere diverse cause, i suoi problemi legali finirono. Una parte del suo accordo con il SEC stabiliva che non avrebbe mai più potuto lavorare come manager per una società per azioni.


«Che mi dici della sua infanzia?» chiesi al suo biografo, John Byrne, prima di partire per Shubuta. «Circolano strane storie su suoi comportamenti poco ortodossi? Problemi con la polizia? Torturava gli animali?».


«Sono andato a dare un’occhiata alla sua scuola, ma non credo di aver intervistato nessuno dei suoi vecchi compagni di classe» rispose. «Comunque non mi pare».


«Ah…».


«So che da bambino gli piaceva molto la boxe» disse.


«Ah…».


«Sì, ha fatto qualche commento su quanto gli piacesse prendere a pugni la gente».


«Aaah… ma davvero?».


«E sua sorella una volta ha raccontato che tirava le freccette alle sue bambole».


«Aaah… ma davvero?».


Annotai sul mio block notes: «Lancia freccette alle bambole della sorella. Gli piace prendere a pugni la gente».


«Come ti è sembrato quando l’hai incontrato?» domandai.


«Non l’ho mai incontrato» disse. «Non ha voluto».


Silenzio.


«Io sto per fargli visita» dissi.


«Ah sì?» replicò lui, sorpreso e, immagino, un po’ invidioso.


«Proprio così».


La prima cosa bizzarra della maestosa tenuta di Dunlap in Florida e dei suoi giardini lussureggianti e molto curati – vive a dieci ore di macchina da Shubuta – era la quantità spropositata di sculture di feroci predatori. Erano dappertutto: leoni, pantere e aquile in pietra che volavano in picchiata, con i denti in bella mostra, e ancora falchi con pesci tra gli artigli e chi più ne ha più ne metta, sull’erba, intorno al lago, nel centro benessere con piscina e nelle numerosissime stanze. C’erano leoni di cristallo, leoni di onice, leoni di ferro, pantere di ferro, e poi dipinti di leoni e sculture di crani umani. «Tipo l’esercito di personaggi di plastica del Burger King di Toto Constant, ma immenso, aggressivo e costoso» annotai sul mio block notes.


«Leoni…» disse Al Dunlap. Indossava una giacca e un paio di pantaloni sportivi, era abbronzato e sembrava in gran forma. Aveva denti bianchissimi. «Leoni, giaguari, leoni… Sempre predatori. Predatori. Predatori. Predatori. Credo molto nei predatori; ne ho un gran rispetto. Quando vuoi qualcosa devi andartelo a prendere. È quello che ho sempre fatto».


Item 5: Falso/Manipolativo, scrissi sul block notes. «Le sue affermazioni sembrerebbero rivelare la convinzione che il mondo sia fatto di “predatori e prede”, o che sarebbe sciocco non sfruttare le debolezze altrui».


«E poi oro…» dissi io. «C’è anche un sacco di oro, qui, vedo».


L’oro me lo aspettavo, avendo visto di recente una foto che lo ritraeva seduto su una sedia d’oro, con una cravatta color oro, un’armatura d’oro vicino alla porta e un crocifisso d’oro sul caminetto.


«Be’» disse Al, «l’oro risplende. Ecco, guardi qui: squali». Indicò una scultura con quattro squali che avvolgevano il pianeta. «Credo molto nei predatori» disse. «Il loro spirito è quello che ti serve per raggiungere il successo. Laggiù abbiamo dei falconi. Alligatori. Alligatori. Ancora alligatori. Tigri».


«Sembra che re Mida e la regina di Narnia siano passati da queste parti» dissi io. «È come se la regina di Narnia avesse sorvolato uno zoo pieno di bestie feroci e l’avesse trasformato in pietra per poi trasportare tutto quaggiù».


«Come?» disse Al.


«No, niente…».


«No no… cos’è che ha appena detto?».


I suoi occhi di ghiaccio mi trafissero, facendomi tremare le ginocchia.


«Erano soltanto parole a caso» dissi. «Volevo fare un commento divertente ma è venuto fuori un pasticcio».


«Ah ok. Le faccio fare un giro fuori. Preferisce camminare o prendere il golf cart?».


«Direi camminare».


Passammo di fianco a vari sontuosi dipinti dei suoi pastori tedeschi.


Ci fu un periodo di sette settimane a metà degli anni novanta, quando stava lasciando a casa gli undicimila dipendenti della Scott, in cui Dunlap pretese che venissero pagate due suite al Four Seasons Hotel di Philadelphia: una per sé e per sua moglie, Judy, l’altra per i suoi due pastori tedeschi. Ha avuto un figlio, Troy, dal primo matrimonio, ma di sue foto neanche l’ombra; solo ritratti dei pastori tedeschi e maestosi dipinti a grandezza naturale di Al e Judy, entrambi con aria seria e magnanima.


Facemmo una passeggiata nei suoi giardini. Intravidi Judy in piedi vicino a una scultura di pietra, un grazioso bambino con i capelli arruffati che si affacciava sul lago. Era bionda come Al e indossava una tuta color pesca. Lo sguardo fisso sull’acqua, praticamente immobile.


«Una volta lei ha fatto visita a uno stabilimento» dissi. «Ha chiesto a un uomo da quanto tempo lavorasse lì. Lui ha risposto “Trent’anni”. E lei: “E perché mai ha voluto restare nella stessa azienda per tutto questo tempo?”. Per lui era motivo d’orgoglio, per lei invece qualcosa di negativo».


«Per me era una cosa negativa, sì» rispose. «E le spiego anche perché: se resti sempre nello stesso posto diventi un guardiano, un custode. La vita deve somigliare alle montagne russe, non a una giostrina per bambini».


Scrissi «Mancanza di empatia» sul mio block notes, e girai subito pagina.


«Le va del tè freddo?» mi chiese.


Mentre ci spostavamo in cucina notai una poesia incorniciata sulla sua scrivania, scritta in bella grafia:


Non era facile fare


Quello che doveva fare


Ma se l’amor si vuol conquistare


Un cane o due conviene comprare.


«Me l’ha regalata Sean per il mio compleanno» disse.


Sean era Sean Thornton, la sua storica guardia del corpo. «Se vuoi un amico comprati un cane» disse Al. «Noi ne abbiamo sempre avuti due, giusto per essere sicuri».


Risi, ma sapevo che non era la prima volta che faceva questa battuta. Era a pagina XII della prefazione della sua autobiografia, Mean business: «Se vuoi un amico, comprati un cane. Io per non sbagliarmi ne ho comprati due».


Nella sua biografia non ufficiale John Byrne racconta di quella volta nel 1997 in cui Al aveva invitato a casa un analista finanziario a lui ostile, Andrew Shore: «“Amo così tanto i cani…” disse Dunlap, passando a Shore alcune foto dei suoi pastori tedeschi. “Sai, se vuoi un amico devi prenderti un cane. Io per andare sul sicuro ne ho presi due”. Shore aveva già sentito questa stessa battuta in uno dei tanti articoli che aveva letto su Dunlap, ma aveva riso lo stesso».


Annotai sul mio block notes: «Item 1: Loquace/Fascino superficiale – Ha sempre la battuta pronta, ma raramente fornisce informazioni davvero utili».


Michael Douglas dice qualcosa di simile nel film Wall Street: «Se vuoi un amico, prenditi un cane. Questa è una guerra di trincea». Mi chiesi se gli sceneggiatori avessero preso la battuta da Al Dunlap, ma poi scoprii che non era l’unico pezzo grosso ad averla pronunciata. «Vuoi un amico a Washington? Prenditi un cane» pare che abbia detto Harry S. Truman durante il suo mandato, secondo Give ‘Em Hell, Harry!. «In questo ambiente impari presto che se vuoi un amico ti conviene prendere un cane» ha detto il magnate dell’industria farmaceutica Carl Icahn a metà degli anni ottanta. «Se vuoi essere amato, prenditi un cane» ha detto la presentatrice di Inside Edition della CBS Deborah Norville, all’inizio degli anni novanta. «Le persone con cui lavori non sono tuoi amici».


Ci riunimmo in cucina: Al, Judy e Sean, la guardia del corpo. Mi schiarii la voce.


«Si ricorda che nell’email dicevo che la sua amigdala potrebbe non inviare i segnali di paura necessari al suo sistema nervoso centrale e che questo potrebbe essere il motivo del suo enorme successo, nonché del suo interesse per lo spirito predatorio?».


«Sì» disse. «Teoria affascinante… È un po’ come Star Trek… ti stai spingendo dove nessun uomo ha mai osato. Perché alcuni hanno un successo enorme e altri non ne hanno affatto? I miei compagni di scuola erano molto più privilegiati di me, ma nessuno ha avuto successo. Perché? Cosa c’è di diverso? Deve esserci, qualcosa di diverso! È una questione su cui ci si interroga da generazioni! Ed è questo il motivo per cui, quando ha accennato a questa storia dell’amigdala, ho pensato Mmmhh… molto interessante, voglio proprio fare quattro chiacchiere con questo tizio».


«Devo dirle che alcuni psicologi sostengono che se questa parte del suo cervello non funziona come dovrebbe lei di fatto potrebbe essere…».


«Sì?».


«…pericoloso» farfugliai, con un filo di voce.


All’improvviso mi sentivo nervoso. Era vero che avevo già chiesto a due persone – Tony e Toto – se erano psicopatici, e che quindi avrei dovuto essere abituato, ma questa volta era diverso: ero a casa di quest’uomo, non in un carcere di massima sicurezza o in un ospedale psichiatrico.


«Come, scusi?» disse. «Non ho sentito».


«Pericoloso» dissi.


«In che senso?» domandò senza troppa enfasi.


«Potrebbe essere…» feci un profondo respiro, «uno psicopatico».


Al, Judy e la guardia del corpo mi fissarono. Per un sacco di tempo. Dove diavolo mi ero cacciato? Cosa mi ero messo in testa? Non sono né un medico né uno scienziato, né tantomeno, ad essere onesto con me stesso, un detective. Diedi la colpa a Bob Hare. Non che mi avesse detto lui di infilarmi in questo pasticcio, ma mai mi sarei avventurato se non l’avessi conosciuto. La sua checklist mi aveva fatto credere che sarei riuscito a districarmi nella giungla degli psicopatici. Avrei dovuto ascoltare gli avvertimenti di Adam Perkins, invece: non sei un detective, non sei uno psicologo, e quando ti sei autovalutato con il DSM-IV, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il quadro che è emerso non era tutta questa meraviglia.


Sembravano al tempo stesso profondamente arrabbiati, disorientati e delusi. Al mi aveva aperto le porte di casa sua e io per ringraziarlo gli avevo appena detto che forse era uno psicopatico. Non che essere psicopatici sia illegale, ma è decisamente poco carino che qualcuno venga a casa tua a chiederti se lo sei.


«Ho qui un elenco di tratti caratteriali che definiscono la psicopatia» dissi, indicando la mia tasca.


«E chi diavolo l’ha fatto, questo elenco?» disse Al. «Come si chiama? Scommetto che non l’ho mai sentito nominare!».


Capii che avrei potuto risollevare le mie sorti, e fare in modo che fosse Bob in absentia a prendersi tutta la colpa per questa situazione spiacevole.


«Robert D. Hare» dissi, scandendo bene ogni lettera.


«Mai sentito nominare» disse Al con una luce trionfante negli occhi.


«Mai sentito» concordò Judy.


«È uno psicologo» dissi soffiando, come a dire che presumibilmente sugli psicologi la pensavamo allo stesso modo.


Al indicò un mobiletto d’oro nel suo ufficio, dentro il quale c’erano foto che lo ritraevano in compagnia di Henry Kissinger, Donald Trump, il principe Carlo, Ronald Reagan, Kerry Packer, lord Rothschild, Rush Limbaugh e Jeb Bush, come a dire: “Ecco, questi sì che li ho sentiti nominare”.


«Allora, questa lista…?» sembrava improvvisamente incuriosito. «Forza, vediamo».


«Certo… vediamo».


«Allora… Item 1: Fascino superficiale».


«Io sono decisamente affascinante» replicò, «decisamente affascinante».


Lui, Judy e Sean risero, allentando la tensione.


«Egocentrico e grandioso?».


Questo avrebbe fatto fatica a negarlo, visto che alle sue spalle svettava un dipinto gigante di se stesso. «Item 2: Egocentrico e grandioso» avevo scritto in precedenza sul mio block notes. «Il suo ego spropositato e l’esagerata considerazione delle proprie capacità sono notevoli, date le circostanze della sua vita».


A proposito, durante il viaggio avevo deviato per la Florida State University di Tallahassee, per vedere il Dunlap Student Success Center. Era stato costruito grazie a una donazione di dieci milioni di dollari da parte di Al, ed era senza ombra di dubbio un monumento autocelebrativo ai coniugi e ai loro pastori tedeschi. Su una parete dell’androne un quadro gigante li ritraeva insieme ai cani: Judy indossava una camicia leopardata e Al portava una cravatta color oro.


C’era una targa in bronzo con incisi i loro volti, e subito sotto un pulsante: premendolo si può ascoltare un sermone di Al sul concetto di leadership. (Non ci sono più i leader di una volta, diceva in poche parole la sua orazione, e se l’America vuole sopravvivere farà meglio a sfornarne in fretta un bel po’.)


Avevo chiesto a Kelly, una delle persona che gestivano il centro, di mostrarmi la struttura. «Per noi è un onore che i Dunlap abbiano deciso di investire in un’opportunità per lo sviluppo del senso di cittadinanza, leadership e carriera accademica degli studenti della Florida State» mi disse.


«Non si può certo dire che Al Dunlap sia un grande benefattore» replicai. «Si è interrogata sul motivo di questo cambiamento?».


«Sto solo parlando dell’opportunità di fare qualcosa di buono in questo spazio che il suo dono ha reso possibile» disse lei.


«Ho sentito dire che colleziona sculture di predatori» dissi. «Aquile, alligatori, squali, orsi… Mi sembra un hobby un po’ strano. Gliene ha mai parlato?».


«Non ne abbiamo avuto occasione» disse con l’aria di chi voleva uccidermi. «Abbiamo discusso della possibilità di stare riuniti all’interno di questa struttura e di quanto ne beneficeranno gli studenti della Florida State».


«Al sostiene che lo scopo della vita sia vincere» dissi. «Di questo cosa pensa?».


«Penso che sono felicissima che abbia deciso di donare i suoi soldi alla Florida State University, e che grazie all’opportunità che lui ci ha concesso saremo in grado di fare un ottimo lavoro. Di questo noi gli siamo grati».


«Grazie mille».


«Grazie a lei» rispose allontanandosi.


«Egocentrico e grandioso?» chiedevo ora ad Al nella sua cucina.


«Senza dubbio. Se non credi in te stesso chi altro lo farà? Devi credere in te stesso».


«Esiste anche una lista di cose positive?» intervenne bruscamente Judy.


«Vediamo…». Ci ammutolimmo tutti e tre. «Bisogno di stimoli/Propensione alla noia?».


«Sì» disse Al, «mi annoio molto facilmente. Devo sempre fare qualcosa. Sì, in effetti non posso negarlo: non sono certo la persona più rilassata di questa terra, la mia mente non dorme neanche di notte».


«Manipolativo?».


«È quello che potremmo definire leadership» disse. «Ispirare! Sì, direi che si chiama leadership».


«Questa lista non la mette a disagio?».


«No. Perché dovrebbe?».


La mattinata proseguì con Al che ridefiniva gli item della PCL-R come qualità positive di un buon leader. L’impulsività era solo un altro modo di chiamare la rapidità d’analisi: «C’è gente che passa una settimana a soppesare i pro e i contro. Io mi ci dedico per dieci minuti, poi se i pro superano i contro, via!». L’affettività superficiale ti risparmia un po’ di «emozioni idiote». La mancanza di rimorso ti rende libero di andare avanti e raggiungere obiettivi più grandi. Che senso ha crogiolarsi nel dolore?


«In definitiva sei tu l’unico giudice di te stesso. Mi rispetto? Sì? Benissimo! Allora va tutto bene».


«Lei è soddisfatto della persona che è?» domandai.


«Sì!» rispose. «Eccome…! Quando ripenso alla mia vita mi sembra di guardare un film su qualcuno che ha fatto tutte queste cose. Dio mio! L’ho fatto davvero? E ho fatto sempre tutto a modo mio».


«Che mi dice del modo in cui ha trattato la sua prima moglie?».


«Ero stato a West Point» disse, aggrottando la fronte. «Passi da questo stile di vita entusiasmante ad essere» fece una smorfia «un giovane sottotenente sposato in qualche base sperduta chissà dove. A quell’età è un passaggio difficile…». Lasciò cadere il discorso.


«Quindi vedeva sua moglie come una sorta d’intralcio?».


Al scrollò le spalle e guardò il pavimento per un istante. «Ero stato assegnato a una base missilistica in cui avevo a che fare con armi nucleari. Ero lì durante la crisi dei missili di Cuba. È un lavoro molto serio: hai una missione, e sai che fallire equivale a danneggiare gravemente molte persone. Domanda: quell’impegno è in conflitto con la tua vita familiare? Risposta: sì».


Al si riferiva a quella volta durante la crisi dei missili di Cuba in cui aveva lasciato sua moglie incinta di cinque mesi a casa da sola senza cibo né soldi, e lei disperata aveva dovuto chiamare in soccorso la madre e la sorella.


«Oh…» dissi. «Ancora una cosa. Quando vede una foto della scena di un crimine, qualcosa di raccapricciante, un volto sfigurato o cose del genere, reagisce con orrore?».


Scosse la testa. «No, piuttosto razionalizzo».


«Davvero? La incuriosisce? La intriga? Tipo un rompicapo da risolvere?».


«Mi incuriosisce» annuì Al. «Di certo non reagisco con un “Oddio che paura!”. Non vado a nascondermi in un angolo, se è questo che vuole sapere. Il mio primo pensiero è: cosa è successo qui? E perché è successo?».


«Non si sente debilitato come risposta allo shock dell’immagine?» domandai.


Al scosse la testa.


Mi ero sporto in avanti, lo scrutavo con attenzione da sopra gli occhiali.


Si affrettò a chiarire: «Voglio dire… il mio primo pensiero è cosa è successo qui e cosa si può fare perché non si ripeta».


«E cosa si può fare perché non si ripeta?».


«Non puoi essere un leader e rabbrividire di fronte al male o alla crudeltà» disse. «Devi affrontarli». E poi: «Alla base del concetto di leadership c’è la capacità di mettersi al di sopra della folla e riuscire a realizzare qualcosa».


Prima di ripartire pranzammo insieme. Al sembrava di buon umore, considerando che era appena stato interrogato sui suoi potenziali tratti psicopatici. Aveva una piccola ascia d’oro appuntata sul bavero. Durante il pranzo mi raccontò qualche storiella “divertente” sui suoi licenziamenti il cui succo era sempre lo stesso: in qualche azienda c’era un fannullone e lui l’aveva liquidato con una battuta di spirito. Un dirigente della Sunbeam, per esempio, gli aveva detto che si era appena comprato una favolosa macchina sportiva. «Ma davvero…? Ha una macchina sportiva di lusso?» gli aveva risposto Al. «Ma lo sa cosa non ha, invece, adesso? Un lavoro!».


Judy rise a ognuno degli aneddoti, nonostante li avesse sicuramente sentiti decine di volte, e mi trovai a pensare che per un’azienda un uomo che si diverte a licenziare i dipendenti dev’essere una vera manna dal cielo.


Mi portarono in soggiorno e mi mostrarono la registrazione di un intervento di Al alla Florida State University sul concetto di leadership. Alla fine del filmato Judy applaudiva il televisore. Era chiaro che adorava il marito, adorava il suo approccio assurdo alla vita, le sue strategie di sopravvivenza urbana essenzialmente darwiniane. Mi chiesi che tipo di donna potesse amare un uomo così.


Gli dissi: «Mi racconti della Sunbeam…».


Non mi lasciò finire.


«Alla Sunbeam le cose non hanno funzionato» tagliò corto. «La Sunbeam è una nota a margine nella mia carriera. Non era una grande azienda, non aveva prodotti solidi. Elettrodomestici… Non mi tocca più di tanto, nel quadro generale delle cose è irrilevante». E questo è tutto ciò che era disposto a dire sulla Sunbeam. Discutemmo della mancanza di empatia. Al disse che provava empatia per «chi ha voglia di darsi da fare», ma purtroppo questo criterio escludeva sia suo figlio Troy che sua sorella Denise.


Per Denise i rapporti si chiusero definitivamente nel gennaio del 1994, quando chiamò il fratello per informarlo che a sua figlia Carolyn, al terzo anno di università, era stata diagnosticata la leucemia. «Posso contare su di te in caso di bisogno?» gli domandò. «No» fu la secca risposta di Dunlap, ricorda lei.


John A. Byrne, “Business Week”, 2 dicembre 1996


«Sono anni che non parlo con mia sorella» disse. «Alle superiori ero praticamente il migliore della classe, un atleta. Poi mi hanno ammesso a West Point, e a lei non è andato giù. Lo trovo pazzesco… Se avessi un fratello o una sorella maggiore sarei così orgoglioso, penserei Wow, voglio essere come lui! Il suo atteggiamento invece era l’esatto contrario, del tipo: “Guardalo lì, tutte le fortune, lui”. Ma io quello che ho me lo sono sudato!».


Il rapporto di Al con Troy era altrettanto gelido.


«Ho provato più volte ad aiutarlo» disse stringendosi nelle spalle. «Ci ho provato, davvero, ma non ha funzionato. E poi ha rilasciato certe dichiarazioni alla stampa…».


Nell’apprendere la notizia del licenziamento di suo padre dalla Sunbeam, Troy Dunlap aveva reagito con grande ilarità. «Ho riso come un pazzo! Gli stava solo bene». Denise, unica sorella di Dunlap, era stata informata da un’amica nel New Jersey. «Ha avuto esattamente quello che si merita».


“Business Week”, 1998


Scrissi sul mio block notes, girando poi subito pagina per assicurarmi che i miei pensieri rimanessero ben nascosti: «Non provare rimorso dev’essere una benedizione quando i ricordi sono tutto quello che ti resta».


«È la vecchia questione degli alti papaveri» mi urlò Al Dunlap da un lato all’altro della stanza. «Tutti vogliono tagliare il papavero più alto. Nel momento in cui raggiungi un certo successo c’è sempre qualcuno pronto a dire cose spiacevoli sul tuo conto. E tu pensi, Aspetta un minuto, a nessuno importava un accidente di me prima che arrivassi dove sono. Non è vero?».


«Sì, è vero» dissi.


«Si fottano» disse Al. «Sono solo gelosi. Tu devi andare dritto per la tua strada. Mi capisce, no?».


Alzai lo sguardo verso il dipinto.


«Scrivere qualcosa su Narciso» annotai su una pagina pulita. «Scrivere qualcosa sull’aridità morale che riecheggia ad ogni passo, in questa tenuta troppo grande per due persone sole, una tenuta strapiena di enormi rappresentazioni del suo proprietario».


Sorrisi tra me e me per la straordinaria liricità della mia prosa…


«Mi capisce, no?» disse di nuovo Dunlap. «Lei avuto un certo successo, è come me. Quando raggiunge un certo livello gli invidiosi le si scagliano contro, no? Inventano menzogne su di lei, cercano di distruggerla. Lei non si è fatto piegare e guardi dov’è arrivato. Siamo uguali».


«Scrivere anche qualcosa sulla regina di Narnia» aggiunsi sul block notes.


E fu così che azionisti e consigli d’amministrazione nel mondo della produzione di tostapane degli anni novanta iniziarono ad apprezzare i vantaggi aziendali a breve termine offerti da un amministratore delegato con diversi tratti caratteriali che gli sarebbero valsi, come ormai era chiaro, un punteggio alto nella checklist di Bob Hare.


Bob avrebbe trascorso la notte all’Hilton dell’aeroporto di Heathrow. Mi mandò una mail per chiedermi com’era andata con Al Dunlap. Risposi che gliel’avrei raccontato di persona.


Lo incontrai nel bar dell’hotel. Era più richiesto che mai, ora che un grosso studio di cui era coautore, Corporate Psychopathy, era stato pubblicato. In questo libro più di duecento «professionisti del mondo aziendale» erano stati valutati con la sua checklist – «inclusi amministratori delegati, direttori, supervisori» disse Bob – e secondo i risultati mentre la maggior parte non era affatto psicopatica, «il 3,9 per cento aveva un punteggio almeno pari a trenta, che sarebbe molto elevato persino per una popolazione di detenuti, ed è almeno quattro o cinque volte superiore a quello che si riscontra tra la gente comune».


Bob mi spiegò che non abbiamo modo di sapere con esattezza quanti psicopatici se ne vanno in giro tra la gente comune, ma si pensa siano poco meno dell’1 per cento. Il suo studio dimostrava che è quattro o cinque volte più probabile che a totalizzare un punteggio molto alto sia qualche pezzo grosso di un’azienda piuttosto che un normale lavoratore che sta solo cercando di portare a casa uno stipendio decente per mantenere la propria famiglia.


Di fronte a un bicchiere di vino rosso lo aggiornai sulla mia visita ad Al Dunlap. Gli raccontai di come Al avesse in sostanza confessato di avere moltissimi tratti psicopatici, reinterpretandoli però come qualità positive per avere successo negli affari. Bob annuiva, per nulla sorpreso. «Gli psicopatici sostengono che il mondo è fatto di predatori e prede» disse. «Prendilo pure in maniera letterale».


«È curioso che tu abbia menzionato i predatori» dissi. «Prova a indovinare di cosa è piena la sua casa…».


«Aquile, orsi…».


«Sì! Pantere, tigri… un intero serraglio. Non impagliati, statue. Come facevi a saperlo?».


«Ce le ho anch’io un po’ di intuizioni, sai? Anche se sono un ricercatore…».


«Però mi ha detto di aver pianto quando è morto il suo cane» dissi poi io, accigliato.


«Ah sì?».


«Sì, stavamo parlando dell’Item 7 (Affettività superficiale), e lui diceva che non si lasciava appesantire da emozioni idiote. Poi mi sorprese a fissare un dipinto del suo cane Brit, e mi disse di aver pianto disperato alla sua morte. Ha detto di aver pianto come una fontana. Questo significa che non può essere uno psicopatico, no?».


Mi resi conto che stavo descrivendo questo dettaglio a Bob quasi scusandomi, come se fosse colpa mia, come se fossi un agente di spettacolo che ha scritturato un attore inadatto per un ruolo.


«Oh, ma quello è abbastanza comune» disse Bob.


«Davvero?» risposi rasserenato.


«I cani sono una proprietà» mi spiegò. «I cani, se hai quelli giusti, sono estremamente fedeli. Sono come schiavi, no? Fanno qualsiasi cosa tu voglia. Per cui va bene, ha pianto disperato quando è morto il suo cane; ma avrebbe pianto disperato se gli fosse morto il gatto?».


Strizzai gli occhi. «Non credo ce l’abbia, un gatto» dissi, annuendo lentamente.


«Probabilmente piangerebbe disperato anche se gli bollassero la macchina» continuò Bob. «Se avesse una Ferrari o una Porsche – e probabilmente ce l’ha – e qualcuno la rigasse e la prendesse a calci probabilmente andrebbe fuori di testa e vorrebbe uccidere il responsabile. Perciò sì, è possibile che lo psicopatico pianga se gli muore il cane, ma il punto è che è un tantino fuori luogo dal momento che non piange se a morire è sua figlia».


Stavo per dire “Al Dunlap non ce l’ha, una figlia” quando Bob continuò. «Quando mia figlia stava morendo il dolore mi uccideva, letteralmente. Sclerosi multipla… non sai quante volte ho cercato di mettermi nei suoi panni per capire quello che stava passando, e spesso mi sono ritrovato a dire a mia moglie “Magari fossi uno psicopatico”. Uno psicopatico guarderebbe sua figlia e direbbe “Accidenti, che sfortuna nera…” e poi uscirebbe a bere con gli amici e a farsi una partitina e…».


Bob non finì la frase. Ordinammo un caffè.


«Quando si parla di “psicopatici aziendali” è sbagliato considerarli come persone con un deficit neurologico. È molto più utile guardarli da una prospettiva darwiniana: da un punto di vista evoluzionistico tutto assume un senso. La strategia è quella di trasmettere il corredo genetico per la generazione a venire. Ora, non è che lo facciano in maniera consapevole, non pensano “Ora esco e metto incinta più donne che posso”, ma quello è l’imperativo genetico. Quindi cosa fanno? Per riuscire ad attrarre le donne, che a loro piacciono molto, devono fingere di essere quello che non sono: quindi devono manipolare e imbrogliare e ingannare ed essere pronti a squagliarsela non appena le cose si complicano».


«Ah» dissi, di nuovo accigliato. «Con Dunlap questo proprio non regge. È sposato da quarant’anni. Non esiste nessuna prova di relazioni extraconiugali. È stato un marito fedele. E molti giornalisti hanno provato a scavare…».


«Non importa, non è questo il punto» mi interruppe Bob. «Stiamo generalizzando… certo che esistono molte eccezioni. Cosa succede al di fuori del matrimonio? Tu lo sai? Ne hai un’idea?».


«Ummh…» fu tutto quello che riuscii a dire.


«Sua moglie ha un’idea di quello che succede fuori dalle mura domestiche?» disse Bob. «Molti serial killer sono sposati con la stessa persona da trent’anni. Non hanno la più pallida idea di quello che avviene al di fuori del matrimonio».


Nell’ufficio newyorkese ordinato e minimalista di un ricchissimo finanziere – un uomo che ha accettato di incontrarmi solo a patto che promettessi di salvaguardare il suo anonimato – stavo seduto sulle mie mani come uno scolaretto; lo osservavo mentre scorreva il mio sito, leggendo da cima a fondo le descrizioni di vari miei intervistati precedenti. C’erano i soldati delle forze speciali di L’uomo che fissa le capre, che credono di poter attraversare muri e uccidere capre semplicemente guardandole. C’erano i teorici del complotto di Loro: i padroni segreti del mondo, che credono che a governare segretamente il pianeta siano giganteschi rettili pedofili succhia-sangue provenienti da un’altra dimensione che hanno adottato sembianze umane.


«Wow» disse, scuotendo la testa incredulo. «Mi sento fuori luogo anche solo a parlare con lei. Voglio dire… probabilmente sono la persona più noiosa con cui le capiterà mai di parlare».


Indicò il suo ufficio, che in effetti non conteneva niente di stravagante. Meglio, non conteneva praticamente niente. Le scrivanie e le sedie erano rifinite in maniera tale da suggerire quanto fossero incredibilmente care.


Quest’uomo, che chiamerò Jack, ha assistito all’affare Dunlap da vicino. Era presente quando un socio dell’azienda, il finanziare miliardario e filantropo Michael Price – con 1,4 miliardi di dollari è il 562° uomo più ricco del mondo – aveva fatto pressioni affinché Dunlap venisse nominato amministratore delegato, e visto che la reputazione di Dunlap lo precedeva tutti sapevano cosa sarebbe successo.


«Non ero d’accordo con i tagli al personale» disse Jack. «Ho detto: “Non date la colpa alle persone o al loro numero”. Ha mai visto cosa succede a una comunità quando si chiude una struttura?».


«Ci sono stato, a Shubuta» risposi.


«Io in questi posti ci sono stato» disse Jack. «Ho alloggiato nei piccoli hotel, sono stato nelle scuole, nei centri sportivi, nei distretti tecnologici. È una gioia, è una vera gioia andare in questi posti. E poi vedere Wall Street che applaude nel momento in cui vengono distrutti…» la sua voce si affievolì poco a poco. «Basta guardare uno qualsiasi dei rapporti di ricerca dell’epoca. È così evidente per chiunque capisca di cosa si sta parlando».


«Cosa intende per “rapporti di ricerca”?» domandai.


I rapporti di ricerca, Jack mi spiegò, sono scritti da hedge fund, fondi pensione e banche d’affari per consigliare ai loro clienti in quali compagnie investire.


«Wall Street, o la sua parte più oscura che redige questi documenti, caldeggiava i tagli al personale in posti come Shubuta» disse. «Se guardasse l’atteggiamento di chi sosteneva queste politiche – se dovesse prendere in mano e leggere i rapporti – i commenti la sconvolgerebbero».


«Per esempio?».


«Vedrebbe la più cinica esultanza di fronte a ciò che stava facendo Dunlap. Le verrebbe da chiedersi se la società non sia impazzita all’improvviso».


«Immagino che quei rapporti di ricerca ormai siano andati perduti».


«Forse è possibile recuperarne qualcuno» disse Jack. «Era come al Colosseo… tutta la folla a incitare. Quindi, mi dica, chi è il cattivo? Quello che sta effettuando i tagli? O sono gli analisti che ne appoggiano l’operato? Oppure i fondi pensione e i fondi comuni d’investimento, che speculano?».


«Be’, c’è da dire che sono passati dodici anni. È cambiato qualcosa?».


«Niente» rispose. «Zero. E non soltanto negli Stati Uniti. Ora è così dappertutto, in tutto il mondo».


Passarono un po’ di settimane. Jack, come mi aveva promesso, si mise alla ricerca e mi inviò uno di quei rapporti. Disse che sperava che anch’io, come lui, l’avrei trovata una lettura estremamente crudele e aggressiva. Era un documento della Goldman Sachs, datato 19 settembre 1996.


Sulla base dell’imminente ricambio/ristrutturazione della SOC (Sunbeam), condotto dall’amministratore delegato Al Dunlap, riaffermiamo la nostra previsione di valore per le azioni della società.


Jack aveva sottolineato due volte la parte a seguire per evidenziare quanto la ritenesse scioccante:


Le nostre stime sugli utili per azione non riflettono l’imminente ristrutturazione della SOC e restano invariate a 25c per il 1996 e 90c per il 1997.


E poi, infine, sottolineato ed evidenziato con un punto esclamativo: P/E su prox. FY: 27,5X.


Ecco… «P/E su prox. FY: 27,5X» (ovvero Rapporto prezzo utili sul prossimo anno fiscale = 27,5X) era, secondo Jack, la parte più crudele del testo. Per me era arabo… quando vedo frasi simili, il mio cervello smette di funzionare… Ma dal momento che questa evidentemente era la “formula segreta della brutalità”, l’equazione che aveva decretato la morte di Shubuta, chiesi ad alcuni esperti di finanza di tradurmela.


«Dunque» mi scrisse in un’email Paul J. Zak, del Centre for Neuroeconomic Studies di Claremont, California, «PE è il prezzo medio di un’azione diviso per i guadagni previsti per l’anno a venire. L’aumento di PE significa che ci si aspettava che il prezzo dell’azione crescesse più velocemente dell’aumento dei guadagni. Questo vuol dire che la società d’investimenti si aspettava che i tagli draconiani avrebbero prodotto guadagni maggiori negli anni a venire, e il prezzo dell’azione dell’anno successivo avrebbe riflesso quei guadagni più alti per gli anni futuri».


«Per un’azienda che produce elettrodomestici di fascia medio-bassa» diceva l’email di John A. Byrne, di “Business Week”, «è un PE molto elevato. L’analista sta dando per scontato che se Dunlap riesce a ridurre drasticamente le spese generali e i costi, i guadagni andranno alle stelle e gli investitori che arriveranno per primi faranno un colpaccio».


«In poche parole» scrisse Paul J. Zak, «una società d’investimenti pensava che la maggior parte degli investitori avrebbe accolto di buon grado licenziamenti di massa alla Sunbeam, il che dimostra una totale indifferenza nei confronti di tutta quella gente che avrebbe perso il posto. L’unica nota positiva è che chiunque abbia seguito questo consiglio l’anno dopo era furioso con la società d’investimenti, quando il valore dei titoli è crollato».


Mentre leggevo il rapporto di ricerca, tedioso e inaccessibile per un profano come me, pensai che se hai l’ambizione di diventare un cattivo, per prima cosa devi imparare ad essere impenetrabile. Tutto il contrario di quel pomposo di Blofeld insomma, lui e il suo monocolo. Noi giornalisti adoriamo scrivere di eccentrici e detestiamo scrivere di gente impenetrabile e noiosa. Ci fa fare una brutta figura: più l’intervistato è piatto, più piatta sarà l’intervista. Se vuoi avere e soprattutto usare un potere reale e malevolo, e sperare di passarla liscia, ti conviene essere noioso.

Capitolo 7

Matti al punto giusto

Ero tornato dalla Florida da una settimana. In un bar nella zona nord di Londra stavo raccontando animatamente a un amico, il documentarista Adam Curtis, dell’assurda collezione di sculture di predatori di Al Dunlap, dei dipinti giganti di se stesso e così via.


«Cosa ne pensa Elaine del tuo nuovo pallino?» mi domandò.


«Oh, le piace» dissi. «Di solito, come sai, le mie varie ossessioni la irritano, ma questa volta è diverso. Anzi, le ho insegnato a usare la checklist di Bob Hare, e ha già individuato tra i nostri conoscenti un bel po’ di psicopatici. A proposito, credo che l’articolo di A.A. Gill sull’uccisione del babbuino riveli…» pausa ad effetto, e poi, con tono cupo: «…tratti caratteriali riconducibili alla psicopatia».


Nominai un paio di amici in comune tra i nostri nuovi sospettati.


Adam mi guardava sconfortato.


«Quanto ci hai messo per arrivare a casa di Dunlap?».


Scrollai le spalle. «Dieci ore di volo, più un viaggio andata e ritorno per Shubuta, Mississippi, di altre quindici o sedici ore».


«Quindi hai viaggiato per migliaia di miglia solo per documentare gli aspetti più folli della personalità di Al Dunlap» disse Adam.


Ci fu un breve silenzio. «Be’, sì…».


Guardai dritto verso Adam. «Sì, certo» ribadii, con tono di sfida.


«Sei come un monaco medievale» disse Adam, «che passa il suo tempo a cucire un arazzo delle follie altrui. Prendi un po’ di pazzia di qua, un po’ di pazzia di là, e poi cuci tutto insieme».


Altro breve silenzio.


«Niente affatto» replicai.


Perché criticava il mio stile giornalistico? Perché metteva in discussione il mio intero progetto?


Adam è il solito bastian contrario, pensai, è un tale polemico. Ho lavorato così tanto su questa storia che se adesso inizia a smontare la mia tesi non me ne starò certo qui ad ascoltare. Lo sanno tutti che è un bastian contrario. Proprio così, se Adam smonta la mia tesi io non lo ascolto.


Item 16: Incapacità di accettare la responsabilità delle proprie azioni – Et voilà... Ha sempre qualche buona scusa con cui giustificare il suo comportamento, tra cui razionalizzare e dare la colpa a qualcun altro.


«Lo facciamo tutti» proseguì Adam. «Tutti noi giornalisti… creiamo storie da frammenti. Giriamo per il mondo spinti da qualcosa, ci piazziamo a casa della gente, block notes alla mano, e aspettiamo le perle. E guarda caso le perle corrispondono sempre alla follia, agli aspetti più estremi e strampalati della personalità, alla rabbia irrazionale, all’ansia, alla paranoia, al narcisismo... tutte cose che nel DSM verrebbero classificate come disturbi mentali. È a questo che dedichiamo la vita. Lo sappiamo bene che quello che facciamo è assurdo, ma nessuno ne parla. Lascia perdere gli amministratori delegati psicopatici. La mia domanda è: tutto questo che cosa dice della nostra salute mentale?».


Guardai Adam seccato. Nel profondo, nonostante la mia solita riluttanza ad ammetterlo, sapevo che aveva ragione. Avevo passato tutto l’anno precedente, o forse più, in viaggio tra Göteborg, Broadmoor, lo Stato di New York, la Florida, il Mississippi, guidato dall’ossessione di riuscire a individuare la pazzia. Ripensai al tempo trascorso con Al Dunlap, alla vaga delusione che avevo provato ogni volta che dalla sua bocca era uscito qualcosa di ragionevole. C’era stato un momento, prima di pranzo, in cui gli avevo fatto domande a proposito degli Item 12 e 18: Problematiche comportamentali precoci e Delinquenza minorile.


«Molte persone di successo si sono ribellate agli insegnanti o ai genitori!» dicevo per incoraggiarlo. «Non c’è niente di male!».


«No, assolutamente… io ero serio, concentrato, molto determinato. Ero quello che si può definire un bravo ragazzo. A scuola cercavo sempre di avere buoni risultati, lavoravo sodo. È talmente sfiancante che non hai neanche il tempo di metterti nei guai».


«Non ha mai avuto problemi con le autorità?».


«No. E si ricordi che sono stato ammesso a West Point. Stia a sentire: questa storia dello psicopatico è un’idiozia. Non si può avere successo a meno che non si abbiano» indicò la sua testa «certi comandi. Non succederà. Come si fa ad andare bene a scuola? Come si fa a cavarsela nel primo e secondo lavoro quando si deve iniziare a far emergere la propria personalità?».


Era un argomento terribilmente persuasivo, e nell’ascoltarlo mi ero sentito deluso. Inoltre aveva negato di essere un bugiardo («Se penso che lei sia un cretino le dirò che è un cretino»), e di avere uno stile di vita parassitario («Non sto certo ad aspettare di essere servito»), e anche se era contrario a certe «emozioni idiote», provava comunque «le emozioni giuste». In più la sua donazione di dieci milioni di dollari alla Florida State University sarà stata narcisistica, ma di fatto è stato anche un bel gesto, inutile negarlo. E davvero aveva una moglie affezionata da quarantun anni, davvero non circolavano voci riguardo a possibili tradimenti. Con questo si aggiudicherebbe uno zero per gli Item 17 e 11: Molti rapporti coniugali a breve termine e Promiscuità nel comportamento sessuale.


Certo anche gli psicopatici con il punteggio più alto totalizzerebbero uno zero su alcuni degli item della checklist di Bob. Quello che mi aveva turbato era il mio desiderio, in quanto giornalista e ora anche esperto riconoscitore di psicopatici, di considerare Al Dunlap in termini assoluti.


Rimuginai su quello che mi aveva detto Adam: lo facciamo tutti, aspettiamo le perle. E guarda caso le perle corrispondono sempre alla follia. Entrambi davamo per scontato che noi giornalisti lo facciamo istintivamente: abbiamo un talento innato per capire cosa potrà funzionare in un’intervista, e l’ultima cosa che ci chiediamo è se sia la manifestazione di un disturbo mentale riconosciuto.


All’improvviso mi trovai a pensare: e se alcuni di noi giornalisti procedessero nel senso opposto? Se alcuni di noi avessero realizzato che le persone affette da certi disturbi mentali rendono le interviste più “gustose” e avessero escogitato dei metodi “in stile Bob Hare” per individuarle?


Nei giorni a venire chiesi un po’ in giro a redattori, responsabili di redazione e produttori televisivi. Fu così che mi imbattei in una donna di nome Charlotte Scott.


Charlotte vive in un luogo idilliaco nel Kent, un adorabile vecchio cottage con le travi a vista. Il suo bambino di dieci settimane russava dolcemente in un angolo della stanza. Era in congedo maternità, ma in ogni caso, mi disse, la carriera da produttrice televisiva se l’era ormai lasciata alla spalle. Ne era uscita e non sarebbe mai più tornata indietro.


In passato aveva nutrito grandi ideali. Sognava di fare la giornalista impegnata, e invece si era ritrovata a lavorare come assistente di produzione a bid-up.tv, un canale commerciale britannico. «Una carriera sfavillante» commentò con un sospiro. Poi però fece un salto in avanti: passò alla tv mainstream, con l’incarico di trovare e gestire gli ospiti per quel genere di programmi in cui famiglie allargate piene fino al collo di drammi e tragedie si sbraitano addosso di fronte al pubblico in studio. I vecchi amici che prendevano in giro la sua carriera li considerava degli snob: questo era “giornalismo per la gente”. Per di più ogni giorno in trasmissione si toccavano importanti temi sociali: droga, incesto, adulterio, travestitismo… quel genere di cose lì. Iniziò a frequentare i nuovi colleghi molto più dei vecchi compagni di università.


«In cosa consisteva il tuo lavoro?».


«Avevamo un numero verde» mi spiegò Charlotte, «attraverso il quale le famiglie in crisi che volevano partecipare al programma ci contattavano. Il mio lavoro era richiamarle, a ripetizione, per settimane, anche se avevano cambiato idea e avevano deciso di non partecipare. Avevamo una trasmissione da portare avanti, niente poteva fermarci».


Certo, sono molti i lavori in cui è necessario chiamare ripetutamente le persone: è logorante – «Era davvero orribile» disse Charlotte, «voglio dire… avevo una laurea!» – ma non inusuale.


All’inizio le tragedie che era costretta a sentire al telefono la buttavano a terra, ma un bravo ricercatore non deve farsi coinvolgere, quindi Charlotte escogitò degli stratagemmi per mantenere un certo distacco dal dolore dei potenziali ospiti della trasmissione.


«Iniziammo a ridere di loro» spiegò. «Tutto il giorno. Era l’unico modo per uscirne vivi. La sera poi andavamo al pub e ci sbellicavamo ancora di più».


«Cos’è che vi faceva divertire?».


«I difetti di pronuncia, per esempio, erano l’ideale: mettevamo i tizi in vivavoce, ci radunavamo tutti lì intorno e giù a ridere come pazzi».


Ovviamente Charlotte iniziò presto a sentirsi «distante dalla persona all’altro capo del telefono». Di certo è una cosa che fanno in molti: tentare di disumanizzare il prossimo, eliminare l’empatia, il rimorso e gli aspetti più angoscianti dai propri lavori quotidiani per riuscire ad affrontarli meglio. Immagino che sia questo il motivo per cui a volte gli studenti di medicina si lanciano addosso cadaveri umani.


La particolarità di Charlotte era che un giorno aveva avuto una specie d’illuminazione. Già all’inizio della sua carriera si era resa conto che i migliori ospiti dello show erano quelli che mostravano segni di un certo tipo di pazzia. Un giorno capì che c’era il modo d’individuarli subito, un modo di gran lunga più rudimentale rispetto alla checklist di Bob Hare ma altrettanto efficace, almeno per i suoi fini. Funzionava così: «Mi facevo dare una lista delle medicine che prendevano. Dopodiché andavo su un sito specializzato e guardavo a cosa servivano, e in base a questo decidevo se erano troppo matti per venire in trasmissione oppure “matti al punto giusto”».


«Matti al punto giusto?» domandai.


«Matti al punto giusto, sì» ribadì Charlotte.


«Cosa li qualificava come “troppo matti”?».


«La schizofrenia, tanto per dirne una, oppure episodi psicotici. Se assumevano litio per curare le loro psicosi molto probabilmente non li avremmo ospitati: non volevamo che partecipassero al programma per poi tornare a casa e uccidersi». Charlotte esitò un istante. «Però è anche vero che se la storia fosse stata incredibile, e per incredibile intendo uno di quei mega-super-litigi-familiari-epocali che garantiscono uno show adrenalinico e soprattutto tanto pubblico, ecco, in quel caso avrebbero dovuto essere proprio fuori per decidere di non reclutarli».


«Quindi cos’è che li rendeva matti al punto giusto?».


«Il Prozac. Il Prozac è la medicina perfetta. Loro sono turbati, e io chiedo “Cosa c’è che non va?”. “Sto male perché mio marito mi tradisce, sono andata dal dottore e lui mi ha dato il Prozac”. Perfetto! So che non è troppo depressa, ma è abbastanza depressa da andare da un dottore, quindi probabilmente è infelice ma anche arrabbiata».


«Non eri delusa quando ti capitava di scoprire che non prendevano nessuna medicina?» chiesi a Charlotte. «Se non prendevano medicine significava che probabilmente non erano abbastanza matti per garantire un buon intrattenimento».


«Esattamente» rispose Charlotte. «Se prendevano qualcosa tipo il Prozac era meglio. Se non prendevano niente forse significava che non erano matti abbastanza».


Questo era il trucco segreto di Charlotte. Disse che non si fermava a riflettere sul perché alcuni tipi di pazzia fossero meglio di altri: «Semplicemente avevo un sesto senso che mi diceva chi avrebbe funzionato in tv e chi no. Il principio era sempre lo stesso: Il Grande Fratello, X-Factor, American Idol, Cambio Moglie… Ecco, Cambio Moglie è particolarmente scorretto: stai “giocando” con delle famiglie, con i loro bambini. Ti ritrovi con un estraneo squilibrato che urla contro i figli di un altro. I produttori passano con loro tre settimane, selezionano accuratamente le parti che trovano matte al punto giusto, ignorano quelle che non lo sono e poi se ne vanno. E tanti saluti».


I reality televisivi hanno sulla coscienza i cadaveri di chi si è rivelato essere matto “nel modo sbagliato”. Basti pensare alla storia, particolarmente triste, di una donna texana di nome Kelli McGee. Sua sorella Deleese doveva partecipare al programma della ABC Extreme Makeover. Deleese era una donna tutt’altro che attraente: aveva i denti storti, la mandibola un po’ deforme e altre imperfezioni. Però aveva una famiglia amorevole e premurosa, tra cui la sorella Kelli, che le aveva sempre detto che era graziosa. Nonostante questo, lei in cuor suo sapeva di non esserlo, per cui fece domanda per partecipare a Extreme Makeover sognando di ottenere quello che lo show prometteva: una trasformazione in stile Cenerentola che ogni settimana cambiava la vita e il destino di un brutto anatroccolo. Deleese, con sua enorme gioia, fu selezionata e volò con la famiglia a Los Angeles per gli interventi chirurgici e le riprese.


Una parte del programma prevede sempre che la famiglia del brutto anatroccolo dichiari alla telecamera, prima che avvenga la trasformazione, quanto la protagonista sia brutta. È importante, perché quando lei si rivelerà, dopo il makeover, nelle sue nuove fattezze da Cenerentola, il percorso risulterà ancora più toccante. Vedremo negli occhi dei familiari, un tempo imbarazzati da tanta bruttezza, sguardi gioiosi e stupefatti. La bellezza conquistata li lascerà a bocca aperta.


Con la famiglia di Deleese, però, c’era un problema. Erano talmente abituati ad essere diplomatici per proteggere i suoi sentimenti che a insultarla proprio non ce la facevano. Dovettero essere imbeccati dai creatori del programma, e alla fine lo ammisero… sì, Deleese era brutta: «Non avrei mai creduto che mio figlio avrebbe sposato una donna così brutta» accettò di dire la suocera. Anche Kelli fu istruita a rivelare quanto si fosse sentita imbarazzata a crescere con una sorella così brutta, con tutti i bambini che ridevano di lei e la prendevano in giro. E così via.


Deleese, nella stanza di fianco, seguiva ogni cosa su un monitor, sempre più sconvolta. Ma in ogni caso tutto si sarebbe risolto, avrebbe avuto il suo makeover da Cenerentola e sarebbe diventata bellissima. Poche ore più tardi, attimi prima che Deleese finisse sotto i ferri del chirurgo, un produttore venne ad annunciarle che avevano deciso di tagliare la sua puntata. Il direttore di produzione aveva fatto due conti e si era accorto che i tempi di guarigione erano incompatibili con la rigida tabella di marcia del programma.


Deleese scoppiò in lacrime. «Come posso tornare a casa brutta come quando sono partita?» disse piangendo. «Al ritorno dovevo essere bellissima!».


I produttori fecero spallucce in segno di scuse.


La famiglia al completo tornò in Texas, e la situazione precipitò. Troppe cose che dovevano restare taciute erano ormai state dette. Deleese sprofondò nella depressione.


«I miei familiari, che prima di allora non avevano mai detto nulla, hanno confermato che la mia paura di apparire agli occhi della gente come uno scherzo della natura era fondata» spiegò nella sua causa contro la ABC. Alla fine Kelli, che soffriva di disturbo bipolare, si sentì così colpevole per il suo ruolo in quel pasticcio che prese un’overdose di pillole e alcool e morì.


Probabilmente penserete che invece Charlotte, in Inghilterra, grazie a quel trucchetto apparentemente infallibile della lista di medicinali sia stata immune dal reclutare ospiti che erano matti “nel modo sbagliato”. Ma così non è.


«Una volta abbiamo fatto una puntata dal titolo Il mio ragazzo è troppo vanitoso» raccontò. «Ho spinto il fidanzato in questione a rivelare i dettagli della sua vanità. Insisto, insisto, e alla fine viene fuori che non fa che ingurgitare integratori proteici e allenarsi di continuo. Lo mandiamo in onda. Tutti ridono di lui. Un paio di giorni dopo mi chiama, e mentre è al telefono si taglia le vene. Venne fuori che era affetto da dismorfofobia. Sono rimasta al telefono con lui mentre aspettavamo che arrivasse l’ambulanza» disse Charlotte, rabbrividendo. «È stato orribile».

Quel pomeriggio, guidando da casa di Charlotte verso Londra, pensai Be’, se non altro posso dire di non aver fatto cose terribili come le sue.

Capitolo 8

La follia di David Shayler

La mattina del 7 luglio 2005, Rachel North salì sulla Piccadilly Line a Finsbury Park, North London. Era la prima volta che si trovava a viaggiare su un vagone pieno come quello, come poi mi raccontò: «Continuava a salire gente, era ridicolo! Quando finalmente il treno è riuscito a ripartire è andato avanti per circa quarantacinque secondi e poi c’è stata» Rachel esitò un istante «…un’esplosione. È successo a circa due metri da me. Ho sentito una forza smisurata che mi scaraventava a terra, è saltata la luce, i freni stridevano e fischiavano. Sembrava di stare su una giostra fuori controllo, ma al buio. C’era un caldo infernale, non si riusciva a respirare. L’aria era densa di fumo e all’improvviso ho sentito dell’acqua addosso. Ero a terra e avevo gente sdraiata sopra di me. Poi sono iniziate le urla».


Tre anni prima, nel 2002, Rachel era stata aggredita da un estraneo tra le mura domestiche. Aveva poi deciso di raccontare l’accaduto in un articolo pubblicato su “Marie Claire”, e l’esplosione la colse proprio mentre stava leggendo quel suo pezzo, fresco di stampa, schiacciata in una carrozza della metro. No, no, non di nuovo, fu il suo primo pensiero non appena si trovò distesa a terra.


Quando evacuarono il treno, Rachel fu tra le ultime persone a riemergere. «Mentre cercavo di arrampicarmi fuori e raggiungere il tunnel mi sono voltata di scatto, e dietro di me ho visto alcuni frammenti di quello che era appena successo. Quelle immagini mi perseguitano ancora oggi… Continuo a chiedermi: “Dovevo fermarmi ad aiutare?”. Ma era così buio… c’era metallo piegato… c’era gente a terra… c’era... meglio che non lo dica».


«Quante persone sono morte nella tua carrozza?» chiesi.


«Ventisei».


Rachel era ferita, aveva un pezzo di metallo conficcato nel polso abbastanza in profondità da mostrare l’osso, ma niente di più: la carrozza era così piena che l’intensità dello scoppio aveva interessato principalmente le persone più vicine all’attentatore. Quando tornò a casa dall’ospedale aprì un blog: non faceva che scrivere. Un fiume di post.


Quel giorno nacquero migliaia di blog sugli attacchi del 7 luglio. Ci furono quattro esplosioni: tre sulla metropolitana e una su un bus; morirono cinquantasei persone, inclusi i quattro attentatori. Ma il blog di Rachel era unico: nessun altro blogger era stato così coinvolto negli eventi, non solo in prossimità delle bombe ma addirittura nella stessa carrozza. Inoltre la sua scrittura era immediata, potente ed evocativa, per cui il sito iniziò presto ad attirare lettori.


Giovedì 7 luglio 2005


C’era il buio più totale. I vagoni sono stati invasi da nuvole di fumo asfissiante, e ho creduto di essere stata accecata. Era così buio che nessuno vedeva più nulla. Pensavo di essere quasi morta, o forse di esserlo già. Il fumo mi soffocava e avevo la sensazione di annegare.


Sabato 9 luglio 2005


Non riuscivo a smettere di guardare il telegiornale. Quando ho sentito che la bomba era nel mio vagone ho dato di matto. Un attimo fremevo di rabbia e adrenalina e avevo brevi flashback, l’attimo dopo crollavo stravolta. Ho bevuto un bel po’ di whisky…


«Scrivere era come disinfettare una ferita» mi spiegò Rachel, «come estrarre il sangue e il fumo dalla mia mente».


Altri sopravvissuti approdarono sul suo blog e iniziarono a lasciarsi messaggi di supporto. A un certo punto qualcuno fece notare che stavano sì chiacchierando, ma lo facevano da soli, ognuno nella propria stanza. Internet dava un’illusione di socialità, ma in realtà quello a cui si stavano dedicando non ne era che un deludente facsimile. Erano isolati e arrabbiati: perché non fare le cose alla vecchia maniera e incontrarsi di persona? Così iniziarono a trovarsi, una volta al mese, in un pub di King’s Cross.


«Tra di noi c’era chi non riusciva provare alcuna gioia al pensiero di essere vivo» disse Rachel. «Avevamo incubi ogni notte, sognavamo di sbattere la testa contro il vetro del treno, di colpirlo ripetutamente cercando di romperlo per poter fuggire dal vagone pieno di fumo. Eravamo convinti che quel fumo ci avrebbe sepolti tutti. Nessuno di noi se lo aspettava». Lasciò passare un secondo, poi aggiunse: «Stavamo solo andando al lavoro».


Dopo un po’ decisero che volevano fare qualcosa di più che incontrarsi al pub una volta al mese. Volevano diventare un gruppo di pressione, volevano capire se gli attacchi avrebbero potuto essere previsti, se l’intelligence non avesse fatto bene il suo lavoro. Si diedero un nome: King’s Cross United. Lei continuò a scrivere sul suo blog.


Ed è qui che le cose iniziarono a farsi strane. Persone che non conosceva iniziarono a pubblicare sul suo sito commenti criptici per lei incomprensibili.


«Puoi installare un affare che ti dice da dove arrivano le visualizzazioni al tuo sito» mi disse, «e un paio di settimane dopo averlo installato ho notato che avevo un sacco di accessi da un indirizzo in particolare. Sono andata subito a dare un’occhiata».


Le ci volle un po’ per capire quello che stava leggendo. Qualcuno aveva preso delle frasi che aveva scritto – «Il buio più totale» e «era così buio che nessuno vedeva più nulla» – e le stava usando per insinuare che non stava descrivendo una bomba (una bomba avrebbe causato un incendio, che avrebbe illuminato il vagone), ma una sorta di «sovraccarico elettrico». L’autore si complimentava con Rachel per aver avuto il coraggio di far trapelare la verità.


Rachel continuò a leggere. Questi tizi erano convinti che quel mattino la metropolitana di Londra fosse stata interessata da un accidentale sovraccarico di corrente e che il governo britannico avesse cercato di coprire tutto dando la colpa a degli attentatori suicidi islamici. Questi teorici del complotto facevano parte di un gruppo ben più ampio – il 9/11 Truth Movement – che aveva attecchito profondamente. Se prima dell’11 settembre le teorie complottiste erano relegate ai margini della società, ora le cose erano cambiate: tutti conoscevano qualcuno convinto che l’11 settembre fosse stato in realtà orchestrato dagli stessi Stati Uniti.


Erano veri e propri Agatha Christie da salotto che si trovavano su forum, si scambiavano link di YouTube e si davano ragione a vicenda. Tra questi, solo i più estremi praticanti del pensiero magico sostenevano che anche il 7/7 fosse un complotto: se l’11/9 ovviamente non era un inside job, il 7/7 ovviamente non era un inside job. E ora queste persone avevano preso di mira il blog di Rachel.


Nel leggere tutto questo, Rachel si chiedeva come avrebbero giustificato l’esplosione sul bus in Tavistock Square. Quando Hasib Hussain si fece saltare in aria sulla linea 30, che va da Marble Arch a Hackney Wick, alle 9.47 del mattino, l’esplosione scoperchiò il tetto del piano superiore. I tredici passeggeri che disgraziatamente si trovavano in piedi sul retro del mezzo morirono insieme a lui. Le foto testimoniano che il sangue e i brandelli di carne sono arrivati fin sui muri della sede centrale della vicina British Medical Association. I teorici del complotto come la giustificherebbero una cosa del genere?


Presto Rachel trovò la loro spiegazione: il bus non era realmente esploso, era stata soltanto una messa in scena realizzata con elaborati effetti pirotecnici, stuntmen, attori e sangue finto.


Quello che avrebbe dovuto fare era ovvio: nulla. Non era certo una gran sorpresa scoprire che la gente a volte scriveva castronerie su internet. Ma era da poco sopravvissuta a un attacco terroristico, e forse stava passando troppo tempo da sola nella sua stanza a fissare il computer; insomma, non ragionava in maniera razionale, non era nelle condizioni di fare le scelte più sensate.


«In quella fase» disse Rachel, «avevo già incontrato gente che aveva perso i propri cari su quel bus. Chiamare chi era morto lì sopra stuntman o attore mi pareva un abominio. Mi sono messa a leggere tutta questa roba come in apnea e una volta riemersa ho pensato, Non si rendono conto. Appena parleranno con una persona reale, una persona che ci è passata, dovranno riconoscere che sono solo un mucchio di sciocchezze e la faranno finita una volta per tutte. Questo tizio invitava a lasciare commenti sul suo sito, e io gliene scrissi uno molto arrabbiato: “Come osi travisare le mie parole in questo modo? I sovraccarichi di corrente non strappano via le gambe alla gente”. Lui rispose con queste parole: “Non sapevi neanche che la bomba fosse nel tuo vagone! Continui a cambiare versione!”».


Rachel era furiosa. Sentiva che era suo dovere far capire a questi individui che si sbagliavano.


«All’epoca non potevo immaginare che tipi fossero» disse. «Ma avevo notato in loro una caratteristica ricorrente, una completa mancanza di empatia. Per esempio copiavano e incollavano le descrizioni più strazianti dei soccorritori, di quando sono entrati nei vagoni e hanno visto pareti deformate ricoperte di sangue e carne umana, e hanno camminato sopra pezzi di corpi e scavalcato lo squarcio che la bomba ha lasciato sul pavimento. Pubblicavano queste cose, e mentre tu non potevi leggerle senza che ti venisse voglia di piangere, loro scrivevano: “Ah ecco, vedi? Sembra che il buco sia sulla destra”. Questo era il loro commento».


«Erano interessati soltanto al cratere?» domandai.


«Assurdo» disse Rachel.


Item 8: Insensibilità/Mancanza di empatia, non potevo fare a meno di sospettare, anche se ora avevo sentimenti diversi a proposito della checklist di Bob: mi ero reso conto che era un’arma potente e inebriante in grado di causare danni terribili, se messa nelle mani sbagliate. E iniziavo a sospettare che le mie mani potessero essere quelle sbagliate. Comunque… Item 8: Insensibilità/Mancanza di empatia – La comprensione del dolore altrui è un concetto astratto.


Rachel scoprì troppo tardi che entrando in contatto con i complottisti era diventata lei stessa parte del complotto.


«Hanno iniziato tutti a parlare di me» disse. «Sul mio conto sono circolate le voci più assurde. Hanno deciso che, dal momento che avevo messo su questo gruppo e questo blog, stavo propinando un racconto ufficiale ai sopravvissuti e in qualche modo li stavo controllando, ero un portavoce del governo istruito a diffondere disinformazione. Sono diventati molto sospettosi nei miei confronti, hanno sviluppato questa teoria secondo la quale ero una sorta di professionista del controspionaggio o un agente dei servizi segreti sotto copertura. Alcuni di loro dubitavano persino della mia esistenza: pensavano che Rachel North fosse un personaggio creato e gestito da un gruppo di persone, e che venisse utilizzato come strumento in quelle che chiamano psy-ops – operazioni psicologiche – per controllare la popolazione del Regno Unito».


La teoria secondo la quale Rachel North non sarebbe esistita venne alla luce quando alcuni cospirazionisti contarono il numero di post e messaggi che aveva pubblicato, e decisero di conseguenza che non poteva trattarsi di un singolo essere umano. Doveva necessariamente essere una squadra.


Rachel provò a controbattere che erano dei visionari e che non era affatto piacevole ritrovarsi ad abitare le fantasie paranoiche di qualcun altro, specialmente se sei appena saltata in aria sulla metro. Ma non servì a nulla: più cercava di convincerli della sua esistenza, più loro si dicevano certi del contrario.


«Non lavoro per il governo» scrisse loro. «Sono una persona normale, ho un lavoro normale in un ufficio normale e vi sto chiedendo cortesemente di lasciar perdere e di piantarla con queste accuse infondate. Per favore, basta».


«Le tecniche di disinformazione di Rachel dimostrano chiaramente che appartiene a quello stesso sistema di media e polizia fraudolento che ha architettato questo imbroglio» rispose qualcuno.


«Scommetto che non è neanche una femmina» aggiunse qualcun altro.


Fu un crescendo. Le inviarono minacce di morte. Aveva quasi perso la vita – guidava un gruppo di supporto per gente che aveva quasi perso la vita – e loro le stavano inviando minacce di morte. Contattarono i suoi genitori per informarli della “verità” sulla loro figlia e sul 7 luglio. Per il padre di Rachel, un parroco di campagna, quelle lettere furono dolorose e disorientanti.


A quel punto Rachel decise di affrontarli. Avrebbe mostrato la sua faccia, di persona. Lesse che si sarebbero incontrati al piano superiore di un pub, chiese a un’amica di accompagnarla e si presentò. Nel salire le scale era sempre più agitata all’idea di trovarsi faccia a faccia con queste feroci presenze virtuali, che si immaginava fisicamente minacciose. Arrivò in cima, aprì la porta e si trovò in una stanza piena di uomini quieti, piccoli, un po’ sfigati. Alcuni fissavano impacciati il fondo delle proprie pinte, altri lanciavano occhiate furtive nella loro direzione, intrigati e deliziati dalla presenza di due donne piuttosto attraenti che a quanto pareva avevano deciso di unirsi al movimento. Rachel e l’amica si misero a sedere a un tavolo vicino al muro. Per un po’ non successe nulla, poi la porta si aprì ed entrò un altro uomo. Era maestoso, imponente, e Rachel lo riconobbe all’istante. Non ci poteva credere: era David Shayler.


David Shayler: spia dell’MI5, nome in codice G9A/1, nel 1997 si diede alla fuga dopo aver rivelato informazioni riservate al “Mail on Sunday”. Il giornale riportò che in occasione di un incontro dei servizi segreti, un agente dell’MI6, nome in codice PT16B, lo aveva informato di un piano per l’uccisione del leader libico, il colonnello Gheddafi. Gli assassini erano pronti, aveva detto PT16B a G9A/1. Erano membri di un’organizzazione chiamata Gruppo dei combattenti islamici libici, e avrebbero piazzato una bomba lungo una strada che il colonnello aveva in programma di percorrere. Ma avevano bisogno di soldi per fabbricare la bomba, per il cibo ecc., quindi avevano contattato l’MI6.


PT16B, il cui vero nome era David Watson, aveva fatto entrare G9A/1 (cioè David Shayler) nel gruppo di “chi doveva sapere” per un semplice motivo: l’MI6 non voleva che l’MI5 iniziasse a dare la caccia agli assassini. Il governo britannico non doveva essere informato, disse David Watson a David Shayler. Tutto doveva rimanere strettamente confidenziale.


Shayler pensò che probabilmente erano tutte chiacchiere: David Watson era soltanto un visionario, un James Bond mancato. Non sarebbe successo proprio nulla. Una settimana più tardi, invece, una bomba esplose davvero durante un passaggio di Gheddafi. Ci fu un errore, però, e fu colpito il veicolo sbagliato: morirono molte guardie del corpo, ma Gheddafi se la cavò senza un graffio.


Shayler era fuori di sé. Non voleva far parte di un organismo implicato in assassini clandestini, per cui decise di compiere un gesto significativo. Chiamò un amico, il quale lo mise in contatto con un giornalista che lavorava per il “Mail on Sunday”. Gli raccontò tutto, ricevette in cambio ventimila sterline, e la notte del sabato successivo, quella prima della pubblicazione della storia, si diede alla fuga con la sua fidanzata, Annie Machon.


Andarono prima in Olanda e poi in una fattoria francese in mezzo al nulla. Niente tv, niente macchina. Rimasero lì per dieci mesi vivendo con i soldi ricavati dalla soffiata al “Mail on Sunday”. Lui scrisse un romanzo. Insieme andarono a Parigi per un weekend, e non appena misero piede nella hall dell’hotel sei uomini appartenenti ai servizi segreti francesi lo circondarono.


Passò quattro mesi in un carcere di massima sicurezza francese e un altro in una prigione britannica; quando fu rilasciato, il coraggio del suo gesto, l’aver sacrificato la propria libertà in nome di una presa di posizione contro le attività governative segrete illecite, gli guadagnò agli occhi di molti lo status di eroe. Rachel North, come d’altronde il sottoscritto, lo ammirava.


Adesso, cinque anni più tardi, con enorme sorpresa di Rachel, David Shayler era entrato nella stanza al piano superiore di quello squallido pub. Che cosa ci faceva qui, in mezzo a questi cospirazionisti della domenica? Non ci volle molto per capirlo: era uno di loro.


Era l’“ospite” di punta della serata. Le sue credenziali di ex agente dell’MI5 gli conferivano una certa solennità: tutti lo ascoltavano con grande attenzione. Sosteneva che il 7/7 non era mai esistito, che non era altro che una menzogna. Tra il pubblico molte teste annuivano vigorosamente.


Dunque, a quanto pareva, il mondo intero era stato ingannato da una riuscitissima messa in scena.


Rachel non poteva sopportare un minuto di più. Si alzò in piedi di scatto.


«Io ero su quel vagone!» urlò.


Più o meno nello stesso periodo, in un altro angolo di Londra, stavo cercando il mio nome su Google quando mi trovai davanti agli occhi una lunga e animata discussione dal titolo Jon Ronson: impostore o stupido?. Era la reazione a qualcosa che avevo scritto riguardo al fatto che non credevo alla teoria dell’11 settembre come inside job. I partecipanti alla discussione si dividevano tra chi pensava che fossi un impostore (un burattino al soldo di chissà quale oscura élite) e chi pensava che fossi semplicemente un povero stupido. La cosa mi infastidì moltissimo, e lasciai un messaggio in cui dicevo che non ero né un burattino né uno stupido. Quasi immediatamente alcuni di loro pubblicarono messaggi in cui avvisavano gli altri di fare attenzione perché ero chiaramente «un’altra Rachel North».


E chi sarebbe Rachel North? pensai. Digitai il suo nome su Google. Fu così che ci conoscemmo.


Trascorsi un pomeriggio a casa sua, una casa come tante, non lontana dalla mia. Mi raccontò l’intera storia, dal giorno dell’esplosione fino al momento in cui tutti iniziarono a urlarsi contro in quel pub. Ora per lei era tutto finito, non aveva più intenzione di interagire con loro, non voleva più finire nel radar di quei matti. Avrebbe chiuso il blog e smesso di parlare di sé come una vittima.


L’ultima cosa che mi disse quando me ne andai quel pomeriggio fu questa: «Io so che esisto. Tutte le persone che erano sul treno e mi hanno incontrata sanno che esisto. Sono riemersa dalla metro coperta di sangue e di fumo, con il vetro nei capelli e un pezzo di metallo conficcato nell’osso del polso. Sono stata fotografata. Ho fornito prove alla polizia, mi hanno dato dei punti in ospedale. Posso portare dozzine di testimoni che sanno che ero lì e che esisto. E che sono chi dico di essere».


Passò un attimo in cui nessuno dei due parlò.


«Non c’è alcun dubbio che tu esista» le dissi infine io, e almeno per un breve istante Rachel parve sollevata.


Scrissi un’email a David Shayler: gli andava di vedermi per parlare di Rachel North?


Rispose di sì.


Ci incontrammo pochi giorni dopo in un bar vicino a Edgware Road. Lo trovai stanco, malaticcio, sovrappeso, ma ciò che più mi colpì fu la velocità con cui parlava. Era come se non riuscisse a contenere tutte le parole che andavano dette: gli sfrecciavano letteralmente fuori dalla bocca, come quando ti metti alla guida di una moto per la prima volta, acceleri troppo e quella schizza via senza controllo.


All’inizio della conversazione però, quando gli avevo chiesto dei vecchi tempi, di come avesse ottenuto il lavoro per l’MI5, il ritmo della conversazione era stato assai meno incalzante: mi aveva sorriso, si era rilassato, e aveva raccontato una storia affascinante.


«Stavo cercando lavoro quando ho visto un annuncio nella sezione Media dell’“Independent” che diceva «Godot non arriverà». Avendo studiato quel libro in inglese e in francese continuai a leggere. Aveva tutta l’aria di un annuncio per un lavoro nel giornalismo, per cui decisi di mandare il mio curriculum».


Il suo cv era buono ma non straordinario: l’università di Dundee, dove dirigeva il giornale studentesco, una carriera a capo di una piccola agenzia pubblicitaria poi fallita… Eppure fu chiamato per fare un colloquio con uno delle risorse umane. Tutto si svolse in maniera molto normale.


Il secondo colloquio però non fu normale per nulla. «Ha avuto luogo in un edificio non presente sulle mappe, su Tottenham Court Road, a Londra. Era vuoto, non c’era nessuno lì dentro se non un tizio alla reception e un altro che mi ha fatto il colloquio. Quest’ultimo sembrava proprio il tipico funzionario dei servizi segreti che si vede nei film: completo gessato, alto, aristocratico, capelli grigi pettinati all’indietro. Insomma, mi sono ritrovato di fronte a lui in questo posto allucinante a rispondere alle sue domande».


David, come me, aveva percorso Tottenham Court Road un milione di volte. È una via qualunque, tutta discount di elettronica e riviste “Time Out”. L’ultima cosa che ti aspetteresti di trovarci è un inquietante universo parallelo che si svela appena dietro una porta senza numero.


«Che domande ti ha fatto?» indagai.


«Se a dodici anni seguivo qualche religione, come ho formato il mio credo politico negli anni dell’adolescenza, quali sono state le tappe fondamentali della mia crescita personale, in quali momenti della mia vita mi è sembrato di aver fatto qualcosa di utile e via dicendo. Il livello era molto più alto rispetto a un normale colloquio di lavoro. Dopo un po’ ha iniziato a farmi domande sull’etica dell’intelligence. Continuava a ripetere: “Secondo lei perché è qui?”. Io non volevo dirlo, non volevo far la figura dell’idiota, ma lui insisteva con quella domanda. Alla fine l’ho detto: “Siete dell’MI5!”. E lui: “Bravo”».


Nel periodo successivo David per un po’ diventò paranoico: e se fosse stata una complicata farsa architettata per farlo fuori?


«Continuavo a immaginare quel tizio mentre all’improvviso mi diceva: “Ti abbiamo riconosciuto a un miglio di distanza e ora sei spacciato!”». David rideva: «“Ti rovineremo la vita!”».


Risi anch’io. «È esattamente il genere di pensieri folli che vengono a me!» dissi. «Davvero! Ho pensieri molto simili! Possono essere parecchio molesti!».


(Pensieri, tra l’altro, che compaiono ovunque nel DSM-IV come sintomi del disturbo ossessivo-compulsivo, del disturbo d’ansia generalizzato e via dicendo; tutti disturbi caratterizzati da un’amigdala iperattiva. In un primo momento li percepivo come qualcosa di positivo: in teoria è un bene che i giornalisti siano un tantino ossessivi e paranoici, no? Ma da quando ho letto il DSM-IV questa idea ha iniziato a spaventarmi un po’, e ho avuto la netta sensazione che si trattasse di qualcosa di grave. Detto per inciso… non è che ce li abbia sempre, questi pensieri: solo ogni tanto, tipo una volta a settimana, o anche meno.)


L’MI5 offrì il lavoro a David. Quando chiese quante altre persone fossero state reclutate attraverso quell’annuncio, la risposta fu nessuna, soltanto lui.


Il suo primo giorno di lavoro scoprì che sarebbe stato una spia da ufficio in una stanza decisamente ordinaria; di certo i suoi amici fissati con le teorie del complotto si immaginavano che la vita dentro un’organizzazione misteriosa come l’MI5 fosse ben più affascinante. (David allora non era affatto un complottista: lo sarebbe diventato anni dopo, una volta uscito dal mondo dei servizi segreti per tornare alla vita di tutti i giorni.)


«Era un normalissimo ufficio» disse. «Hai una cassetta per la corrispondenza in arrivo e una per quella in partenza. Gestisci informazioni. La differenza è che se non gestisci le informazioni nel modo giusto la gente muore. Ero felice di rendere il mondo un posto migliore, di contribuire a mettere un freno alla violenza; era un lavoro che mi permetteva di fare del bene». Ma non era privo di stranezze: «Avevano file su persone di ogni genere, tipo John Lennon e Ronnie Scott, nonché della maggior parte di quelli che sarebbero poi andati a formare il governo laburista. La gente veniva accusata di comunismo per i motivi più stupidi. Per esempio c’era un file su un bambino di dodici anni che aveva scritto al partito dicendo che stava facendo una ricerca per la scuola e che aveva bisogno che gli mandassero un po’ di materiale e di informazioni. Lo schedarono come sospetto simpatizzante comunista».


«Questo ragazzino è mai venuto a sapere che l’MI5 aveva un file su di lui?» domandai.


«No, certo che no» disse David.


Di tanto in tanto svolgeva mansioni operative, ma non spesso. «Una volta sono andato a una manifestazione vestito da anarchico. Un tizio mi mette in mano un volantino e mi fa: “Che cosa sai dell’Anti-Election Alliance?”, argomento che all’epoca stavo studiando all’MI5. Avrei avuto voglia di rispondergli: “Molto più di te, amico”».


Parlammo del suo ormai famoso incontro con PT16B, del complotto per assassinare Gheddafi, della fuga in Europa, dei mesi di latitanza, dell’arresto, del carcere. Poi la conversazione si spostò su Rachel North. Si diceva ancora convinto che lei non esistesse.


«Lascia che ti spieghi perché Rachel North è un personaggio creato ad hoc dall’MI5» disse. «È esattamente il genere di cosa che farebbero i servizi segreti».


«Ma l’hai incontrata…» ribattei.


«Sì, lo so che l’ho incontrata» disse accelerando, il tono sempre più acuto. «Potrà anche esistere un essere umano di nome Rachel North, ma questo non significa che dietro di lei non ci siano cinque persone che scrivono a suo nome su internet».


«Oh cristo... ma dai…» dissi.


«Il numero incredibile di post ne è la prova» insistette David. «Dovresti tener conto delle prove, del numero di post che stava pubblicando in un determinato momento».


«Scriveva molto, sì» dissi, «non lo metto in dubbio».


«I membri del movimento sono giunti alla conclusione che i post erano di gran lunga troppo numerosi per poter essere stati scritti solo da una persona» disse David.


«Ma lo sai come sono i blogger» replicai. «Scrivono, scrivono, scrivono. Non capisco perché, tra l’altro, visto che nessuno li paga…».


«Mi insospettisce anche il fatto che non vuole saperne di mettersi a sedere e lasciare che le si spieghi in tutta calma cosa è successo il 7 luglio» continuò David. «Perché non lascia che le vengano illustrate pazientemente tutte le prove?».


«Era su quel vagone!» dissi. «Su quel va-go-ne. Vuoi davvero che si sieda con qualcuno che se ne stava su internet mentre lei era in quella fottuta metropolitana e che si faccia spiegare che non c’è stata nessuna bomba?».


Ci scambiammo un’occhiata rabbiosa. Avevo vinto il round. Ma poi sorrise, come a indicare che il meglio doveva ancora arrivare. Il suo sorriso diceva che era arrivato il momento di tirar fuori l’artiglieria pesante.


«Quando Rachel North è venuta a uno dei nostri incontri al piano superiore di un pub» disse, «mi è sembrato che il suo comportamento mostrasse segni di…» attimo di pausa, «…malattia mentale».


«Mi stai dicendo che pensi che Rachel sia malata di mente?». Era un colpo basso.


«È stata l’intensità con cui mi ha attaccato. Si è alzata in piedi, mi è venuta incontro correndo e mi ha urlato in faccia. C’era della follia in tutto questo…».


Lo interruppi: «Perché crede che siano tutte idiozie».


«Non vuole prendere in considerazione le prove» mi interruppe a sua volta David. «La stessa vibrazione mi sta arrivando ora da te, Jon. Un’opinione raggiunta senza prove si chiama pregiudizio. Dire che i musulmani sono i responsabili del 7/7, quei tre ragazzi di Leeds e quello di Aylesbury, dire che sono stati loro è… è razzista, Jon. È razzista. Razzista. Sei razzista nei confronti dei musulmani se credi che siano loro i responsabili dell’attacco solo sulla base di quelle prove».


Restammo in silenzio per una manciata di secondi.


«Ma vaffanculo, va’…» conclusi.


Quella sera chiamai Rachel per dirle che avevo trascorso il pomeriggio con David Shayler.


«Cosa ti ha detto?».


«Che non esisti, e che sei malata di mente».


«È tutta colpa di quello stupido incontro» disse lei. «A sentire loro sembra che sia saltata in piedi, mi sia messa a correre verso di loro e abbia iniziato a inveire. Non è andata così. C’è stato un crescendo di urla in quella stanza, urlavano tutti. È vero che ho alzato la voce per farmi sentire sopra le loro grida, ma ho urlato perché loro urlavano».


La mia intervista a David Shayler – vaffanculo finale incluso – fu trasmessa una sera di qualche settimana più tardi sulla BBC Radio 4. Nelle ore precedenti alla messa in onda fui preso dal panico: credo proprio che la mia amigdala sia andata in iperattività. E se mandando a quel paese David Shayler avessi aperto un vaso di Pandora? Mi sarei attirato le ire del 7/7 Truth Movement? Sarebbero venuti a cercarmi con i fucili spianati, determinati a rovinare la mia vita così come avevano rovinato quella di Rachel? Non c’era nulla che potessi fare, gli ingranaggi erano in movimento; da qualche parte in un palazzo della BBC il nastro aspettava soltanto di essere mandato in onda.


Le prime ore del mattino seguente ero troppo nervoso per aprire la mia casella di posta. Ma poi lo feci, e fui piacevolmente sorpreso di scoprire che era piena di congratulazioni degli ascoltatori. L’opinione dominante era che avevo spezzato una lancia a favore del buon senso. Era una bella sensazione: fa sempre piacere essere elogiati per aver ragionato lucidamente. Diventò una della mie interviste di maggior successo, perché a quanto pare aveva catturato l’immaginario del pubblico. Dal 7/7 Truth Movement nessuno si fece vivo. La mia amigdala tornò a funzionare normalmente, e la vita proseguì.


Passarono un po’ di mesi e all’improvviso David Shayler era ovunque: al Jeremy Vine Show di BBC Radio 2, il programma di Stephen Nolan su BBC Five Live e in un’intervista pubblicata su un inserto di due pagine del “New Statesman”. Il motivo era che aveva sviluppato una nuova inattesa teoria:


Chiedo a David Shayler se davvero faccia parte di coloro che non credono che nella tragedia dell’11 settembre fossero coinvolti degli aerei. [La sua fidanzata Annie] Machon sembra a disagio. «Ma sì, che cazzo… voglio dire solo questo…» le dice lui. «Sì, credo che nessun aereo sia stato coinvolto nell’11 settembre». Ma li abbiamo visti tutti con i nostri occhi quei due aerei che si schiantavano contro il WTC. «L’unica spiegazione è che fossero missili con intorno degli ologrammi concepiti per sembrare aerei» dice lui. «Guarda il filmato fotogramma per fotogramma, e vedrai un missile a forma di sigaro che colpisce il World Trade Center». Deve essersi accorto che mi è caduta la mandibola. «So che suona assurdo, ma questo è ciò che credo».


Brendan O’Neill, “New Statesman”, 11 settembre 2006


David Shayler era entrato a far parte di una frangia estrema del 9/11 Truth Movement (i cosiddetti no-planers) e i giornalisti che normalmente avrebbero trovato il movimento troppo poco “succoso” per interessarsene erano improvvisamente estasiati.


Lo chiamai.


«Non esistono prove a supporto dell’utilizzo di aerei, a parte un paio di dichiarazioni inaffidabili di testimoni» mi disse.


«E…» dissi io.


«E un filmato fin troppo chiaramente contraffatto».


«Ma il filmato è stato trasmesso dal vivo…» ribattei.


«Ah no, il filmato è stato trasmesso con del ritardo».


«David, dimmi una cosa: sei nei guai con la tua fidanzata e con gli elementi più conservatori del Truth Movement?».


Sentii David sospirare, tristemente. «Sì. Mi hanno chiesto di tenermela per me, questa teoria dell’ologramma. A quanto pare durante la prossima assemblea generale del Truth Movement ci sarà una mozione per disconoscermi».


Era evidente che si sentiva punto sul vivo, ma diceva che non gli importava. «Jeremy Vine, Stephen Nolan, è roba grossa… li seguono milioni di persone» disse.


«Jeremy Vine e Stephen Nolan ti vogliono nei loro programmi solo perché la tua teoria è totalmente strampalata» dissi io.


David ribatté che non solo non era strampalata, ma che in fatto di ologrammi questo era solo l’inizio. Erano in atto piani per «creare l’operazione false-flag definitiva, che consiste nell’utilizzare ologrammi per far sembrare che sia in corso un’invasione di alieni».


«E perché mai dovrebbero fare una cosa del genere?».


«Per istituire la legge marziale in tutto il pianeta e privarci dei nostri diritti» disse.


In realtà l’idea che il governo potrebbe un giorno utilizzare gli ologrammi per sviare la popolazione non era poi così improbabile come poteva sembrare. Alcuni anni prima era trapelato un rapporto della US Air Force Academy dal titolo Non-Lethal Weapons: Terms and References, che elencava tutte le armi insolite in fase di proposta o di sviluppo all’interno del Ministero della Difesa statunitense. Una sezione si chiamava Ologrammi:


Ologramma, morte


Ologramma usato per spaventare a morte un individuo selezionato. Per esempio, un narcotrafficante malato di cuore vede apparire al suo capezzale il fantasma del suo rivale defunto e muore di paura.


Ologramma, profeta


La proiezione dell’immagine di un’antica divinità su un palazzo sede di un governo nemico, le cui comunicazioni pubbliche sono state raccolte e utilizzate contro di esso in una massiccia operazione psicologica.


Ologramma, forze armate


La proiezione di immagini di soldati volte a illudere un avversario che esistano più forze alleate di quante non ce ne siano in realtà, a far credere a un avversario che le truppe degli alleati siano collocate in una regione dove invece non ne esistono affatto e/o a fornire falsi bersagli per i suoi colpi di arma da fuoco.


Forse David non è poi matto come sembra, pensai.


Passò un anno, e mi arrivò un’email:


5 settembre 2007


Cari tutti,


Questa è una faccenda molto seria. Vi prego di non perdervi la più grande storia di sempre: in questi tempi di profonda oscurità, Gesù è tornato per salvare il genere umano. La conferenza stampa si terrà a Parliament Green, di fianco al parlamento e al fiume, alle ore 14.00 di giovedì 6 settembre.


Amore e luce,


David Shayler


David stava per annunciare, come illustrato nel comunicato stampa allegato, di essere il nuovo Messia.


Si pregano i giornalisti di arrivare senza preconcetti, dal momento che questa è una verità che non spetta a loro determinare, e potrebbero compromettere le loro possibilità di vita eterna.


Ammetto che tutto questo è piuttosto imbarazzante per qualcuno che fino a tre anni fa era un ateo tecnocrate, e sono ben conscio di quanto possa suonare folle. Tuttavia esistono prove che mostrano che il Messia è foneticamente chiamato «David Shayler». Se a questo sommiamo i recenti segnali che si sono manifestati indipendentemente dalla mia volontà – inclusa una croce formata da Saturno, Mercurio, Venere e il Sole nei cieli il 7/7/7, giorno in cui sono stato proclamato Messia – è impossibile non riconoscere che un potere superiore mi sta indicando come l’unto o il prescelto venuto a salvare l’umanità. Altre incarnazioni includono Tutankhamon, re Artù, Marco Antonio, Leonardo da Vinci, Lawrence d’Arabia e Astronges, pastore ebraico e capo rivoluzionario crocifisso in Palestina nell’1 a.C.


David Michael Shayler


La risposta fu decisamente scarsa. David, snello e in forma, stava seduto al centro di un cerchio e indossava una tunica bianca svolazzante. Tra i partecipanti due giornalisti soltanto: un inviato di Sky News e il sottoscritto. Tutti gli altri sembravano essere vecchi amici del Truth Movement: erano chiaramente imbarazzati.


Il giornalista di Sky News mi disse che era lì per fare un’intervista a David, ma non avevano intenzione di mandarla in onda: il piano era di portarsela a casa e poi tenerla al caldo su uno scaffale, «in caso dovesse succedere qualcosa in futuro». Non c’erano dubbi sul fatto che il “qualcosa” a cui alludeva significasse “qualcosa di veramente terribile”.


David stava dicendo al suo grappolo di ascoltatori che i segnali erano presenti da molto tempo. «Ricordate quando ho risposto a quell’annuncio sull’“Independent”» disse, «Godot non arriverà? Sono convinto che sia stato fatto apposta per me; aveva perfino la parola God nel titolo… – Godot non arriverà».


«Cosa avrebbe spinto l’MI5 a confezionare un annuncio di lavoro appositamente per te?» domandai.


«I compiti dell’MI5 includono anche proteggere le incarnazioni del Messia» disse. «So come funziona l’MI5; se vogliono entrare in contatto con te ti mettono il telefono sotto controllo, scoprono che stai cercando un lavoro e che leggi un certo giornale, e quindi pubblicano un annuncio fatto su misura per te. È interessante notare che con quell’annuncio non è stato reclutato nessun altro».


Scambiai due parole con la signora al mio fianco. Mi disse che si chiamava Belinda e che un tempo era stata la padrona di casa di David. Mentre lui continuava a predicare, mi sussurrò che non ce la faceva più a starsene lì ad ascoltare, era troppo deprimente. Doveva intervenire.


«Ehm, David, posso…» iniziò.


«Come osi interrompere il Messia?» rispose David.


«Ok» sospirò Belinda, «continua pure».


«Dal momento che sono il Salvatore» le disse David seccato, «sto cercando di spiegare agli uomini come possono accedere alla vita eterna…».


«Va bene, scusa…» borbottò Belinda.


«…e gli uomini che intendono avere accesso alla vita eterna probabilmente vorranno ascoltare la mia spiegazione senza interruzioni…» disse David. «Risponderò alle domande alla fine, Belinda; ora sto cercando di raccontare una storia importante».


«A me invece sembra una storia piuttosto triste, David…» disse Belinda. «Secondo la cultura del Messia, o la cultura del profeta, stai facendo parecchi errori. Punto primo, non ti stai prendendo del tempo per meditare davvero sulla tua missione: sei uscito allo scoperto troppo in fretta. Secondo, non stai radunando intorno a te un seguito. Terzo, sei tu stesso ad annunciarlo quando in realtà dovrebbero essere gli altri a dire “È Lui!”, per poi iniziare a inginocchiartisi davanti o cose del genere. Tu invece te ne vieni qui a sbatterlo in faccia a tutti. Quello che voglio dire è che il tuo non è esattamente un comportamento da Messia».


David controbatté dicendo che dal momento che lui era il Messia, qualsiasi suo comportamento era da considerarsi da Messia.


«Cos’è, all’improvviso sei diventata un’esperta in materia?» sbottò.


«Vedo una persona con talenti enormi e un cervello sopraffino» replicò Belinda, «che stava andando alla grande lungo il cammino che aveva intrapreso, e che all’improvviso manda tutto all’aria e se ne parte per questo viaggio esoterico. Stai tirando fuori tutta una serie di cose con cui la gente non può relazionarsi se non sul piano del ridicolo, il che è davvero un peccato».


David la guardò impassibile. «So di essere il Messia» disse. «Sta a voi scoprire per quale motivo non siete ancora in grado di accettarlo».


Nel corso della conferenza stampa David parlò a lungo del bisogno urgente di diffondere il messaggio, ma nelle settimane seguenti non successe un gran che. Ci furono una o due interviste, ma niente di comparabile a quante ne aveva rilasciate nel periodo degli ologrammi.


Sembrava esserci un tacito consenso per cui nel caso di David l’affermazione secondo cui «Il 7 luglio non è mai esistito» risultava un tantino troppo piatta per essere considerata quel tipo di follia che funziona, la teoria dell’aereo/ologramma era l’ideale, mentre il Messia era una follia che non funziona. Ma perché? Cosa rendeva una cosa appropriata e l’altra no? La maggior parte dei giornalisti probabilmente si dichiarerebbe innocente, e direbbe che l’ologramma era sembrato un colpo di tosse piuttosto innocuo rispetto all’evidente cancro ai polmoni che era invece la dichiarazione del Messia – e certamente in tutto questo c’era anche del vero – ma non ero sicuro che la spiegazione fosse così semplice. Entrambe le teorie sembravano manifestazioni palpabili di malattia mentale, eppure solo una gli aveva spalancato le porte di programmi radio e tv.


Nei due anni successivi David sparì completamente dalle scene. L’unico avvistamento risale all’agosto 2009, quando la polizia fece un blitz in una casa occupata, una cascina del National Trust, nel Surrey. In rete venne diffuso un video sfocato dello sfratto ripreso con un cellulare. Si vedevano soprattutto squatter che gridavano «Non tratteremo con voi» ai poliziotti che li trascinavano fuori dai loro letti; ma per un attimo, in mezzo al subbuglio generale, il cellulare inquadrò di sfuggita un angolo della stanza e lasciò intravedere un elegante travestito. Avrebbe poi detto al “Daily Mail” di chiamarsi Delores, ma sotto quel trucco e quella parrucca c’era David Shayler.


Sfogliando il DSM-IV appresi con sorpresa che il travestitismo – chiamato anche feticismo di travestimento – è catalogato tra i disturbi mentali: «Di solito l’uomo con feticismo di travestimento conserva una collezione di abiti femminili che di tanto in tanto utilizza per travestirsi […]. In molti casi, o nella maggior parte, questo è per lui fonte di eccitamento sessuale […] [anche se] la motivazione che lo spinge a travestirsi potrebbe cambiare nel tempo, e l’eccitamento sessuale potrebbe diminuire o scomparire del tutto. In questi casi il travestitismo diventa un antidoto per l’ansia o la depressione, o comunque contribuisce a donare un senso di pace e di calma».


Passò un altro anno, nel corso del quale risolsi il mistero di L’essere o il nulla, incontrai il membro di Scientology e Tony a Broadmoor, cercai di dimostrare (con risultati non sempre brillanti) che gli psicopatici governano il mondo e fui costretto ad ammettere a me stesso che essere un cacciatore di psicopatici mi aveva provocato una specie di ubriacatura di potere. In realtà, solo in quel momento capii che in un certo senso ero stato un cacciatore di matti ubriaco di potere nel corso degli ultimi vent’anni. È quello che facciamo noi giornalisti. Per questo mi ero calato nel ruolo con una tale disinvoltura: ero stato bravo a scorgere i diamanti della follia in mezzo al grigiore della normalità per il semplice motivo che sono vent’anni che lo faccio per lavoro.


Può esserci un che di decisamente psicopatico nel giornalismo, nella psicologia, nell’arte di andare a stanare gli individui un po’ svitati. Dopo aver incontrato Charlotte Scott mi ero consolato all’idea che queste cose succedevano soltanto nei circuiti della tv di intrattenimento o dei reality, e che quindi non mi riguardavano. La storia di David Shayler però dimostrava che mi sbagliavo: il giornalismo politico non è diverso. Stavo scrivendo un libro sul business della follia e solo ora iniziavo a rendermi conto che ne facevo parte anch’io. La mia mente continuava a rimuginare sul perché la teoria degli ologrammi di David avesse avuto un tale successo con i media, mentre la sua convinzione di essere il Messia fosse stata di fatto ignorata. Perché la follia di una delle due cose funzionava e l’altra no? Qual era la formula? E quella formula cosa diceva di noi, i giornalisti e il pubblico?


Gli scrissi un’email. Potevo andare a trovarlo un’ultima volta? Mi rispose subito: «Jon, ho ricevuto la tua email. Certo che puoi. Il mio telefono al momento è fuori uso, e sono nel Devon. Vieni a trovarmi e chiedimi quello che ti pare. David».


Sembrava proprio che fosse caduto in piedi. Viveva in un cottage incantevole in un minuscolo borgo. La vista dalla vasca idromassaggio nel portico sul retro abbracciava tutto il Dartmoor. Il cottage aveva un cinema privato e una sauna. David, vestito da uomo, maglione bianco e pantaloni di pelle, sembrava in salute e sereno.


«Non ho un soldo in tasca» mi disse mentre preparava il caffè, «ma la qualità della mia vita, tutto sommato, è piuttosto buona. Dio si prende cura di me».


Non ci misi molto però a capire che in realtà se la passava male. Avrebbe vissuto in questo cottage per alcuni mesi, ma di fatto era sul lastrico. Le notti buone erano quelle in cui dormiva sotto un telone in un ecovillaggio a Kew, nella zona ovest di Londra; ma in quelle cattive dormiva all’addiaccio in un parcheggio in posti tipo Guildford.


Il periodo più stabile, disse, era stato all’incirca un anno prima, quando per un po’ aveva trovato una nuova fidanzata, la prima da quando Annie Machon l’aveva lasciato.


«Ho fatto un intervento durante un ritiro e questa donna è venuta a parlarmi dicendo di essere la moglie di Cristo. Mi sono consultato con Dio ed è risultato che era in effetti l’incarnazione di una divinità, per cui ho iniziato a frequentarla. Si è poi rivelata una relazione a dir poco bizzarra».


«Ma dai…? Strano…» dissi.


«Abbiamo chiuso con una litigata spettacolare» riprese. «Lei aveva intorno a sé un gruppo di persone che la veneravano. Ho chiesto ai membri del gruppo il permesso di vestirmi da Delores; loro me l’hanno dato, ma poi quando l’ho fatto mi si sono rivoltati tutti contro. Hanno iniziato a darmi addosso, mi accusavano di ogni genere di cose, di essere una sgualdrina, uno svitato, un pervertito, di non mostrare rispetto per la mia fidanzata. Non mi mollavano più. E poi mi hanno sbattuto fuori».


Andammo su nel solaio, dove David aveva dormito nelle ultime settimane coperto da un piumone del trenino Thomas. Di fianco al suo computer c’era una pila di dvd del CCHR – film prodotti dal ramo antipsichiatria della chiesa di Scientology – con titoli come Macabri profitti: la storia mai raccontata degli psicofarmaci. David diceva che i membri di Scientology saranno anche suonati, ma quei dvd l’avevano davvero aiutato ad aprire gli occhi.


Per un attimo la vista del trenino Thomas mi provocò una tristezza immensa. L’infanzia mi faceva pensare a un tempo sereno, lieto, un tempo antecedente alla pazzia, ma in realtà le diagnosi di disturbi mentali nei bambini ultimamente sono spuntate come funghi, e hanno raggiunto livelli preoccupanti. Quando ero piccolo io, per esempio, l’autismo veniva diagnosticato a meno di un bambino su duemila; ora secondo le statistiche ne è colpito più di uno ogni cento. Mentre guidavo verso la Coxsackie Correctional Facility, a nord di New York, per incontrare Emmanuel Constant, avevo incrociato sulla mia strada un cartellone pubblicitario con scritto «Ogni venti secondi a un bambino viene diagnosticato l’autismo». E lo stesso valeva per il disturbo bipolare infantile: una volta non si diagnosticava affatto, mentre ora in America sembra che sia in corso una vera e proprio epidemia.


Chiesi a David se il declino dell’interesse dei media lo avesse sorpreso. Lui annuì. «Secondo la Bibba era previsto che passassi tre giorni all’inferno dopo la mia crocifissione. Be’, io sono stato crocifisso nel settembre 2007…».


«Quando ti sei rivelato come Gesù?».


«Esatto» disse David. «Si sa che le unità di misura bibliche sono approssimative: dove si parla di tre giorni all’inferno credo che in realtà si parli di tre anni».


«Parlami di questi tre anni all’inferno».


«Ci sono ancora dentro».


«Cosa intendi per inferno?» domandai.


«L’inferno è essere un insegnante, avere un messaggio da comunicare, ma non essere degnato di un minimo di attenzione perché sostieni di essere Gesù Cristo, perché è Dio a chiederti di farlo» rispose. E poi: «Dio mi sta mettendo alla prova. Sa che ho un talento per il palcoscenico, per la radio, per la tv, e non permettermi di fare quello in cui credo di essere bravo è parte di questa prova: vuole insegnarmi a essere umile e cose del genere». David annuì. «Già» riprese, «Dio mi sta mettendo alla prova: il suo scopo è vedere se riesco a non rinunciare alla mia natura divina nonostante abbia sei miliardi di esseri umani contro».


«Quand’è l’ultima volta che hai parlato con Dio?».


«Abbiamo avuto una breve conversazione poco prima che arrivassi tu». Sul tavolo c’era un libro in ebraico. «Dio mi ha detto di aprire questo libro per riceverne ispirazione. È uscita la pagina che parla dell’importanza di pronunciare le parole giuste».


Presi il libro in mano, si aprì a caso su una pagina doppia piena di riquadri contenenti ognuno alcune lettere ebraiche.


«È una tabella dei settantadue nomi di Dio» spiegò David. «Guarda qui…».


Ne indicò qualcuno a caso.


«Quello si traduce come David Shayler il Pesce» disse.


Ne indicò altri, sempre a caso.


«Quello invece è David Shayler Tamarro Virtuoso».


«Scusa??? David Shayler… Tamarro Virtuoso?».


«Dio è morto dal ridere quando me l’ha indicato» disse. «in effetti è stata la prima volta in cui io e Lui abbiamo riso insieme».


Abbassai lo sguardo sulla tabella con i settantadue “nomi”. «È evidente che stai cercando uno schema dove non c’è uno schema» dissi.


«Trovare schemi è esattamente quello che fa l’intelligence» controbatté David. «È quello che fanno i ricercatori, è quello che fanno i giornalisti: cercare delle regolarità. Ma non lo vedi? È quello che fai anche tu!».


La conversazione si spostò ancora una volta sulla delusione di David per non essere più un popolare ospite di talk show. Diceva che lo trovava inspiegabile, oltre che un vero peccato. «Sono in molti di questi tempi ad aver paura di diventare matti» disse, «e per loro è confortante ascoltare qualcuno come me alla radio, qualcuno con le loro stesse convinzioni “folli” sull’11 settembre e il 7 luglio, ma che più che follia sembra trasmettere felicità. Sfido chiunque a venire a trovarmi e ad andarsene con la convinzione che io sia matto».


Di ritorno dal Devon verso Londra realizzai che David aveva ragione: sono davvero in molti a temere di diventare matti. La sera, dopo aver bevuto qualche bicchiere, sono disposti ad ammetterlo. Certo, ho un paio di amici che giurano che non gli importa nulla, e conosco una donna che anzi sostiene di sperare segretamente in un esaurimento nervoso, per poter essere ammessa in un ospedale psichiatrico, lontana dalle tensioni della vita moderna, dove potrà concedersi di stare a letto fino a tardi e di essere coccolata dalle infermiere. Ma alla maggior parte dei miei amici importa eccome. Li spaventa. Vogliono soltanto essere normali. Io, che convivo quotidianamente con la terribile sensazione che mia moglie sia morta se non risponde al telefono, che emetto strilli involontari su claustrofobici voli Ryanair, che mi faccio divorare dall’ansia al pensiero che degli psicopatici mi vogliano uccidere, sono uno di loro. Passiamo le nostre serate a guardare Cambio Moglie, Come Dine With Me, SOS Tata, i provini di X-Factor, il Grande Fratello. La tv di questi tempi ci propina soltanto gente disturbata che viene esposta al pubblico ludibrio.


Con i film il più delle volte funziona così: i registi vanno in un quartiere popolare, dove il 90 per cento delle persone è perfettamente normale: gente che prepara i figli per la scuola, paga le tasse, lavora. Ma il 10 per cento non lo è, ed è su di loro che sceglieranno di fare il film.


Eddie Marsan, attore, intervistato da Jonathan Romney per l’“Independent”, domenica 2 maggio 2010


Di fatto tutti i programmi in prima serata sono pieni di gente che mostra il giusto tipo di follia, e ora avevo in mano la formula: chi è matto al punto giusto è un po’ più matto di quello che temiamo di diventare, e la sua follia è perfettamente riconoscibile. Certo, anche noi siamo ansiosi, ma non come loro. Certo, anche noi siamo paranoici, ma non come loro. Li troviamo divertenti e ci sentiamo confortati all’idea di non essere matti come loro.


La tragedia di David Shayler era che la sua follia era precipitata in qualcosa di troppo stravagante, troppo fuori dalle righe, e di conseguenza inutile. Non vogliamo che lo sfruttamento sia ovvio, preferiamo uno sfruttamento “vedo e non vedo”.


Chiaramente esplorare il business della follia significava anche addentrarsi nel business della conformità. Mi tornò alla mente Mary Barnes, la donna nello scantinato del Kingsley Hall di R.D. Laing che aveva preso a spalmarsi addosso le proprie feci. Quando poi passò a spalmare dei colori sulle tele divenne una famosa artista. L’upper class londinese degli anni sessanta e settanta lodava i suoi dipinti per il modo in cui sapevano svelare i misteri della mente di un folle. Ma io, Charlotte Scott e tutti gli altri giornalisti stavamo passando al setaccio il pianeta alla ricerca di pazzi che funzionassero in tv non tanto per metterli su un piedistallo, quanto per mostrare al pubblico quello a cui non avrebbero dovuto somigliare. Forse era questa ossessione di normalità che stava rendendo tutti così terrorizzati all’idea di diventare matti.

Ero tornato a casa dal Devon da pochi giorni, quando ricevetti una telefonata da Bob Hare.

Capitolo 9

Puntare un po’ in alto

Bob, che passa la vita andando in lungo e in largo per tutto il pianeta a insegnare la sua PCL-R, avrebbe trascorso il sabato sera all’aeroporto di Heathrow come sosta tra la Svezia e Vanvouver. Mi chiese se potessi incontrarlo al suo hotel per un drink.


Quando arrivai nell’atrio, di lui non c’era traccia. La coda per la reception era lunga, tutta gente dallo sguardo triste e stanco in viaggio di lavoro che faceva il check in a ora tarda. Non riuscivo a vedere il telefono interno. Poi l’illuminazione: il banco del concierge era vuoto, il suo telefono era lì a tiro. Potevo digitare zero, mettermi in contatto direttamente con la reception – chi chiama la reception dell’hotel riesce sempre a saltare la coda: sembra che siamo più attratti dalle chiamate di misteriosi sconosciuti che dalle persone in carne e ossa che ci stanno di fronte – e chiedere di essere messo in linea con la stanza di Bob.


A malapena ero riuscito a sollevare la cornetta quando il legittimo proprietario stava già marciando veloce verso di me.


«Posi quel telefono!» sbraitò.


«Mi dia solo un secondo!» mormorai io con un sorriso.


Mi prese il telefono di mano e lo sbatté giù.


Appena comparve Bob mi precipitai ad accoglierlo con gesti di cortesia plateali proprio sotto gli occhi del concierge.


«Bob!» esclamai.


Eravamo due cortesi uomini d’affari in viaggio per lavoro che si incontravano per ragioni importanti in un hotel la sera tardi: mi premeva che vedesse esattamente questo.


«Andiamo all’executive bar al terzo piano?» disse Bob.


«Ok…» dissi io, lanciando ancora un’occhiata al concierge, «l’executive bar».


Attraversammo l’atrio insieme.


«Non crederai mai a quello che è appena successo» bisbigliai esterrefatto.


«Che cosa?».


«Quell’uomo mi ha appena maltrattato».


«In che modo?».


«Volevo usare il suo telefono per cercare di chiamarti, e quando mi ha visto me l’ha strappato di mano e l’ha sbattuto giù. Era assolutamente fuori luogo, mi ha spaventato. Ma come gli è venuto in mente di comportarsi in quel modo?».


«Be’, è uno di loro» disse Bob.


Lo fissai.


«Psicopatico pure lui?».


Strizzai gli occhi e osservai circospetto il concierge. Stava aiutando alcuni clienti a caricare i bagagli in ascensore.


«Davvero…?» domandai.


«Molti psicopatici diventano portieri, concierge, guardie giurate» rispose Bob. «Veri e propri maestri in quello che fanno».


«In effetti mi è sembrato mostrasse una certa mancanza di empatia» dissi, «e scarso controllo comportamentale».


«Dovresti includerlo nel tuo libro» disse Bob.


«Lo farò».


Poi tornai a concentrarmi su Bob. Non era un giudizio un po’ affrettato? Mi fece riflettere. Forse quel tizio aveva semplicemente avuto una giornata no. Forse i suoi capi gli avevano ordinato di non permettere agli ospiti di usare il telefono. Perché né io né lui ci avevamo pensato?


Prendemmo l’ascensore per l’executive bar.


Era quasi mezzanotte. Ordinammo whisky con ghiaccio. Altri ospiti in viaggio per affari – quelli con la chiave elettronica per l’executive bar – scrivevano freneticamente sui loro portatili o guardavano fissi nella notte. Io iniziavo a sentirmi un po’ alticcio.


«Certo il potere che conferisci è davvero qualcosa di grande» dissi. «Il potere di riconoscere gli psicopatici, intendo». Bob si strinse nelle spalle. «Non hai mai pensato, però, al rischio di aver creato eserciti di persone che si sono lasciate prendere troppo la mano, veri e propri cacciatori di streghe prestati al mondo della psicopatia che vedono matti anche dove non ce ne sono?».


Silenzio.


«L’idea che la PCL-R possa essere utilizzata in maniera impropria mi preoccupa» disse poi Bob. Fece un sospiro, agitò il ghiaccio nel bicchiere.


«Chi la utilizza in maniera impropria?».


«Qui da voi si usa il programma DSPD» disse.


«È quello in cui sta Tony» dissi io. «Il reparto DSPD di Broadmoor».


«Sappiamo che trenta è il punto critico, ma chi assegna quel punteggio?» continuò Bob. «Chi è il responsabile? Va detto che nel Regno Unito siete molto diligenti; negli Stati Uniti c’è quella faccenda del trattamento sanitario obbligatorio per i criminali sessuali violenti, che prevede che chi ha commesso reati sessuali possa essere “internato in ospedale”. Il che equivale a dire rinchiuso per sempre…».


Bob si riferiva a ospedali psichiatrici come Coalinga, una bella struttura che si erge su più di cento ettari vicino a Monterey Beach, California. È una clinica enorme che include palestre, stanze per l’arte e per la musica, campi da baseball e prati ben curati. Millecinquecento dei diecimila pedofili della California sono ospitati qui dentro, in pieno comfort, quasi sicuramente fino al giorno della loro morte (da quando questo posto ha aperto, nel 2005, solo tredici pazienti sono stati rilasciati). Il giorno della loro scarcerazione, a questi millecinquecento uomini è stato annunciato che erano stati ritenuti criminali recidivi e che invece di essere liberati sarebbero stati mandati a Coalinga.


«La PCL-R ha il suo ruolo in tutto questo» disse Bob. «Ho provato a formare alcuni degli addetti che si sarebbero dovuti occupare della sua applicazione. Be’… tutti che si facevano i fatti loro, si giravano i pollici, alzavano gli occhi al cielo, scarabocchiavano, si tagliavano le unghie. Queste erano le persone che avrebbero utilizzato la mia checklist».


Uno psichiatra di Coalinga, Michael Freer, aveva rilasciato nel 2007 una dichiarazione shockante al “Los Angeles Times”: un terzo circa delle persone detenute a Coalinga erano state erroneamente riconosciute come violenti predatori, e se fossero state rilasciate non avrebbero mai rappresentato una minaccia per nessuno.


«Hanno scontato la loro pena e all’improvviso vengono nuovamente prelevati e spediti in un ospedale statale sostanzialmente per un periodo di tempo indeterminato» disse Freer al giornale. «Per uscire devono dimostrare di non rappresentare più un rischio, il che può rivelarsi veramente difficile. Per cui sì, la loro rabbia è totalmente giustificata».


Nell’executive bar Bob Hare proseguì. Mi parlò di un fenomeno allarmante, una schiera di psicologi e criminal profilers che viaggiano in un lungo e in largo attraverso il pianeta armati soltanto di un attestato di partecipazione, proprio come quello che avevo io. Queste persone potrebbero avere un certo peso nelle udienze per la concessione della libertà sulla parola, o per la pena di morte, o durante le indagini per incastrare un serial killer e così via. Credo che lui vedesse la propria checklist come qualcosa di puro, innocente come solo la scienza sa essere, e gli umani che la somministravano come un concentrato di pregiudizi e cattive intenzioni.


Quando lasciai Bob quella sera decisi di mettermi alla ricerca del responsabile di quella che è stata senza dubbio la caccia allo psicopatico più infausta della storia recente.


Si chiama Paul Britton. Nonostante il suo passato da rinomato criminal profiler, negli ultimi anni è stato molto defilato, direi solitario, da quando si è trovato impantanato nell’incidente più infamante della sua carriera.


Nei giorni successivi gli lasciai molti messaggi, pur consapevole di avere ben poche speranze.


Invece una sera, sul tardi, il mio telefono squillò; sul display la scritta Numero sconosciuto.


«Le chiedo scusa» disse la voce, «mi chiamo Paul Britton. So che ha cercato di… le chiedo scusa…». Era titubante, insicuro.


«Le andrebbe di raccontarmi di quando lavorava come criminal profiler?» domandai.


Lo sentii sospirare al ricordo. «Mi creda, non è facile passare i propri giorni letteralmente in mezzo alle viscere di qualche povero diavolo che è stato massacrato».


(A dire il vero Paul Britton passò raramente, per non dire mai, del tempo tra le viscere di qualcuno: i criminal profilers non visitano le scene del crimine. Sarà entrato in contatto con le viscere soltanto nelle foto della polizia e nella sua immaginazione, quando cercava di visualizzare il criminale sessuale psicopatico di cui stava tracciando il profilo.)


«Le va comunque di parlarmi di quegli anni?» gli chiesi.


«C’è un nuovo Premier Inn vicino alla stazione dei treni di Leicester» disse. «Potremmo vederci lì, giovedì alle 11».


Paul Britton indossava un lungo cappotto nero che ricordava quel genere di abiti teatrali che avrebbe potuto indossare Fitz, il brillante personaggio del criminal profiler della serie tv Cracker. Ma molto probabilmente stavo facendo quel collegamento perché si è sempre dato per scontato che Fitz fosse ispirato a lui. Ordinammo un caffè e ci sedemmo a un tavolo.


Decisi di prenderla un po’ alla larga e iniziai chiedendogli cosa pensasse della checklist di Bob Hare. «Ha fatto un ottimo lavoro» disse Britton. «È uno strumento davvero valido». Poi la conversazione per un attimo si bloccò, lui si spostò sulla sedia e mi disse: «Non so, forse dovrei raccontarle un po’ come tutto ebbe inizio. Va bene? Mi scusi, deve fermarmi se sono ridondante, non mi offenderei minimamente. Ma le dispiace se…?».


«No, no… prego» dissi.


«Tutto ebbe inizio nel 1984, quando un certo David Baker, uno dei migliori detective che le potrà mai capitare di incontrare, venne nel mio ufficio…».


1984. In un vicolo vicino all’ospedale dell’NHS in cui Paul Britton lavorava come psicologo, fu rinvenuto il corpo di una giovane donna. Era stata accoltellata mentre passeggiava con i suoi cani, e non c’era nessun sospetto. All’epoca in Gran Bretagna il criminal profiling praticamente non esisteva, ma qualcosa spinse David Baker, l’agente incaricato per le indagini, a chiedere il parere di Britton.


«David è davvero il padre del profiling psicologico nel Regno Unito» disse Britton, «perché ha avuto l’intuizione di chiedere proprio a me. Mi segue? Se David non fosse venuto a cercarmi non avrei avuto motivo di farmi coinvolgere».


Mi guardò. Era ovvio che voleva che dicessi: “Ooh, quindi è lei il padre del criminal profiling nel Regno Unito…».


Credo volesse sottolineare che nella sua vita c’era stato ben altro, oltre quel terribile incidente.


«Ooh, quindi è lei il padre del criminal profiling nel Regno Unito…» dissi.


E così Britton, quasi senza rendersene conto, cominciò a tempestare David Baker con una serie di domande (come avrebbe descritto nel suo libro di memorie, The Jigsaw Man): quando l’aveva legata? Per quanto tempo era rimasta cosciente? Dopo quanto era morta?


Alla fine annunciò a Baker che il killer era uno psicopatico sessuale, un giovane maschio tra i quindici e i venticinque anni che probabilmente viveva con i genitori, solo e sessualmente immaturo, un lavoratore manuale avvezzo all’uso dei coltelli e che possedeva una vasta collezione di riviste e video pornografici violenti.


«Ci avevo preso in pieno; molto presto furono in grado di acciuffare il responsabile» disse Britton. «Un certo Bostock, mi pare».


Paul Bostock, che in effetti corrispondeva al profilo di Britton, ammise il delitto, e Britton diventò una celebrità. I giornali gli dedicarono articoli entusiastici, il Ministero dell’Interno chiese la sua collaborazione per perfezionare un’unità di ricerca dedicata al criminal profiling appena inaugurata, e gli fu proposto di comparire in una serie dal titolo Murder in Mind. Lui era riluttante all’idea di diventare una star del piccolo schermo, e accettò solo quando gli spiegarono che il loro intento era rappresentare l’avanguardia nel profiling psicologico e gli ricordarono che «qualsiasi cosa io avessi deciso di fare nella vita si è sempre rivelata un grande successo».


Nei mesi a venire Britton tracciò il profilo di altri psicopatici che si erano macchiati di omicidi sessuali, quasi tutti adolescenti o poco più che ventenni che vivevano da soli o con i genitori e che possedevano una vasta collezione di materiale pornografico violento.


«Ecco, a proposito di questo… c’è una critica…» iniziai.


«Una critica? Di cosa?» scattò inaspettatamente Britton.


Fino a quel momento era stato modesto, al limite del sottomesso, per cui questo improvviso cambio di tono mi prese in contropiede.


«Che… ehm… i suoi profili descrivevano tipologie di personalità quasi identiche» dissi.


«Oh, be’, questo dopo l’evento» rispose con un’alzata di spalle.


In effetti, secondo The Jigsaw Man, Paul ha davvero tracciato correttamente il profilo di alcuni criminali che non corrispondevano al “modello Paul Bostock”: un ricattatore che infilava lame di rasoio nei prodotti Heinz per bambini è risultato essere un ex poliziotto, proprio come sembra avesse predetto.


Britton stava vivendo il suo momento d’oro. Di tanto in tanto però cominciarono a circolare voci su casi in cui sembrava essersi sbagliato.


Secondo una di queste, per esempio, nel 1989 un’adolescente era entrata in una stazione della polizia di Leeds e aveva affermato di essersi prestata a fare da fattrice per alcuni pilastri della comunità, tra cui il capo della polizia e il principale magistrato della Corona, membro della Camera dei Lord.


«Cos’è una fattrice?» aveva chiesto un poliziotto perplesso alla ragazza.


Lei aveva spiegato che veniva regolarmene portata in un appartamento nel quartiere studentesco di Leeds e qui, nello scantinato, che aveva una stella a cinque punte dipinta sul pavimento, veniva messa in cinta dal capo della polizia e da altri satanisti. Al momento del parto, poi, il feto le veniva strappato per essere sacrificato sull’altare a Lucifero. Il poliziotto non sapeva a che santo votarsi: aveva di fronte una mitomane o una vera fattrice? Il suo capo era un navigato satanista o la vittima di una diffamazione? Chiese a Britton di valutare la sua testimonianza e lui dichiarò che la ragazza diceva il vero; la polizia avviò una dispendiosa indagine e non trovò nulla: nessun altare, nessuna congrega di streghe, nessuna prova di attività che potessero rimandare a una fattrice. Il caso fu abbandonato senza troppo clamore.


«Una fattrice?» Britton corrugò la fronte quando gli chiesi di questa diceria.


«Le ricorda qualcosa?» domandai. «Diceva che i membri del culto satanico erano agenti di polizia di alto rango che prima la mettevano incinta e poi le portavano via il feto per offrirlo in sacrificio a Satana».


«Negli anni ho seguito molti casi che avevano a che vedere con attività sataniste» rispose Britton. «Non è inusuale… quello però non lo ricordo».


Se davvero partecipò alle indagini su quella ragazza, lo si può perdonare per averlo dimenticato. La fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta per lui furono davvero travolgenti. C’erano apparizioni televisive, poliziotti che facevano la coda per consigliarsi con lui su omicidi sessuali irrisolti, e così via. Era sulla cresta dell’onda. Poi tutto andò a rotoli.


Il 15 luglio 1992 una donna di ventitré anni, Rachel Nickell, fu trovata assassinata a Wimbledon Common. Era stata accoltellata quarantanove volte di fronte al suo bimbo di tre anni, Alex. La polizia, com’era ormai consuetudine in casi simili, chiese a Britton di tracciare un profilo del colpevole.


«Mi strofinai gli occhi fino a vedere delle piccole stelle bianche che rimbalzavano su tutto il soffitto» scrisse più tardi in The Jigsaw Man. «Mi ero concentrato a tal punto sul caso che poi feci fatica a ragionare con sufficiente lucidità». Dopodiché annunciò che l’assassino era uno psicopatico sessuale, un uomo solo, che svolgeva un lavoro manuale, che viveva a casa con i genitori o da solo in un monolocale abbastanza vicino a Wimbledon Common da poterci arrivare a piedi e che possedeva una collezione di materiale pornografico violento.


Col senno di poi, il motivo per cui tutti si convinsero erroneamente che Colin Stagg fosse l’assassino è in un certo senso comprensibile. Per un terribile scherzo del destino somigliava in maniera davvero impressionante all’identikit dell’uomo che era stato visto correre via dalla scena, il quale, a sua volta, somigliava in maniera impressionante al vero omicida, Robert Napper. Come se non bastasse, a Colin il profilo di Britton calzava come un guanto, ancor di più in realtà che allo stesso Robert Napper, come poi si scoprì. Per esempio, Colin viveva in un monolocale a due passi dalla zona, mentre Napper viveva a Plumstead, diciassette miglia dalla parte opposta di Londra. (Robert Napper viveva ora tre porte più in giù di Tony, nell’unità DSPD di Broadmoor. Tony mi disse che nel reparto a nessuno piaceva un granché perché era infido e si comportava in modo strano.)


In passato Stagg era già stato segnalato alla polizia per aver preso il sole nudo a Wimbledon Common e per aver scritto una lettera oscena a una donna di nome Julie, con cui era entrato in contatto tramite la pagina dei cuori solitari della rivista “Loot”. Sulla sua porta d’ingresso campeggiava un cartello con la scritta: «Cristiani state alla larga. Qui dimora un pagano». All’interno c’erano riviste pornografiche e libri sull’occulto.


Tuttavia non c’erano prove che lui fosse in alcun modo sessualmente deviato. Come scrive nel suo libro di memorie, Who Really Killed Rachel?: «Mi considero una persona perfettamente normale […]. Un normale maschio vigoroso che agognava la compagnia femminile […] quello che desideravo veramente era una relazione solida, stabile, un matrimonio e dei bambini».


Ma sì, disse alla polizia… stava passeggiando con il cane a Wimbledon Common il giorno in cui Rachel fu uccisa, come d’altronde faceva ogni giorno. La polizia, sospettando di avere tra le mani l’assassino, chiese a Britton di escogitare un modo per strappare a Stagg una confessione, o di aiutarli a capire se avrebbero dovuto escluderlo dalle loro indagini.


Fu in quel momento che gli venne un lampo di genio: un’agente in incognito avrebbe potuto approcciare Stagg e allacciare una relazione con lui.


I responsabili delle indagini incaricarono una poliziotta sotto copertura, Lizzie James, di scrivere a Stagg fingendo di essere un’amica di Julie, il cuore solitario di “Loot”.


A differenza della pudica Julie, Lizzie confessò a Colin che non riusciva a togliersi dalla testa le sue lettere erotiche, e per mandare un segnale ancora più esplicito aggiunse: «In fatto di musica ho gusti insoliti: la mia canzone preferita è Walk on the Wild Side di Lou Reed».


Colin, travolto da questo colpo di scena meravigliosamente inaspettato, non esitò a rispondere.


«Sono terribilmente solo» le scrisse, chiedendo a Lizzie se le avrebbe dato molto fastidio che lui condividesse con lei alcune delle sue fantasie sessuali.


Lizzie gli disse che per lei sarebbe stato un vero piacere: «Sono sicura che sarai capace di fantasie sfrenate e che sarai aperto e disinibito proprio come me».


E così Colin le scrisse descrivendo nel dettaglio loro due che facevano dolcemente l’amore in un giorno di sole sussurrandosi «Ti amo. Ti amo da morire». La fantasia si concludeva con Colin che asciugava teneramente le lacrime che scorrevano sulle guance di Lizzie.


La polizia era entusiasta: Colin aveva introdotto un parco come location.


Paul Britton però raccomandò prudenza. Sarebbe stato senz’altro meglio se la sua fantasia fosse stata meno romantica e più… come dire… perversa, perciò nelle lettere successive Lizzie alzò la posta. Colin non doveva trattenersi, scriveva, «perché ho fantasie davvero sfrenate e la mia immaginazione è scatenata. A volte questo mi preoccupa, e sarebbe bello se tu condividessi i miei sogni così fuori dal comune… Voglio che tu sia vigoroso e travolgente per sentirmi completamente in tuo potere, inerme e umiliata».


«Hai bisogno di essere scopata come si deve da un vero uomo» rispose arditamente Colin. «Farò in modo di farti gridare di dolore». Si affrettò a chiarire che non era davvero una persona violenta, lo stava dicendo soltanto perché gli era parso che fosse questo il tipo di fantasia erotica che lei voleva sentire: «Se lo trovi offensivo non so davvero come scusarmi». Anzi, disse, sarebbe stato fantastico se lei fosse andata a trovarlo per assaggiare «il mio speciale risotto al ragù seguito da una mousse di lamponi fatta in casa».


Nonostante ciò, Paul Britton «notò chiari elementi di sadismo» nelle lettere di Colin.


La messinscena continuò. Lizzie mandò a Colin una serie di lettere che sottolineavano con forza quanto lei lo trovasse sessualmente attraente. Le repliche di Colin indicavano che non poteva credere a questo colpo di fortuna, era indubbiamente la cosa più fantastica che gli fosse mai capitata. L’unica nube all’orizzonte era il fatto che ogni volta che suggeriva di passare al “livello successivo” – fare davvero sesso – lei invariabilmente reagiva col silenzio e faceva marcia indietro. Era confuso, ma lo imputava ai misteri dell’universo femminile.


Sotto indicazione di Britton, Lizzie iniziò ad alludere a un «segreto oscuro», qualcosa di «malvagio», «magnifico» e «glorioso» che aveva fatto in passato, che suscitava in lei «una travolgente eccitazione».


Colin rispose che gli avrebbe fatto molto piacere ascoltare il suo segreto e che in effetti ne aveva uno anche lui: la polizia era erroneamente convinta che fosse l’assassino di Rachel Nickell, «perché sono un tipo solitario e ho antiche credenze pagane».


Lizzie disse che avrebbe preferito sapere che era lui il vero assassino: «Renderebbe le cose molto più semplici per me, perché c’è qualcosa che devo confessarti». Era il suo «segreto oscuro». Forse avrebbero potuto incontrarsi per un picnic a Hyde Park, così lei avrebbe potuto rivelarglielo. Colin disse che sarebbe stato felicissimo di fare un picnic e ascoltare il suo segreto, ma che era giusto informarla che assolutamente non era lui l’assassino di Rachel Nickell. Ad ogni modo, aggiunse in maniera un tantino poco elegante, magari avrebbero potuto fare sesso e lui avrebbe potuto tenerla al guinzaglio con una cintura e penetrarla da dietro mentre «si abbandonavano alla concupiscenza carnale ogni cinque minuti».


Il segreto di Lizzie – come infine raccontò a Colin a Hyde Park, con una squadra di agenti sotto copertura che monitorava ogni loro mossa – era che da adolescente aveva frequentato dei satanisti, e che un giorno davanti ai suoi occhi «hanno tagliato la gola a un neonato e hanno messo il suo sangue in un calice da cui tutti hanno bevuto. L’atmosfera era così elettrizzante…». Una volta bevuto il sangue dell’infante uccisero la madre: «L’hanno fatta stendere nuda e nel frattempo hanno tirato fuori dei coltelli, un uomo me ne ha passato uno e mi ha chiesto di tagliarle la gola. E io l’ho fatto. Poi c’è stata una grande orgia, io sono andata con quest’uomo e… be’… quest’uomo è stato davvero divino».


Lizzie guardò Colin dritto negli occhi e disse che avrebbe potuto amare veramente soltanto qualcuno che avesse fatto qualcosa di simile. Al che Colin rispose: «Mi sa che punti un po’ troppo in alto…».


Nelle settimane a venire Lizzie non si diede per vinta: «L’idea [dell’assassino] è così eccitante… Il solo pensiero di quell’uomo mi fa girare la testa… Voglio qualcuno come lui. Voglio quell’uomo… Se solo avessi commesso tu l’omicidio di Wimbledon Common, se solo l’avessi uccisa tu, sarebbe perfetto…».


«Mi dispiace moltissimo» rispose tristemente Colin, «ma non l’ho fatto».


Nonostante ciò, le mandò diligentemente fantasie sessuali sempre più violente che comprendevano coltelli, sangue e via dicendo, e quando Lizzie le consegnò a Paul Britton lui le studiò e informò solennemente la polizia: «Avete tra le mani un uomo con un tipo di sessualità molto deviata decisamente rara tra la gente comune. Le possibilità che ci fossero due uomini con queste caratteristiche a Wimbledon Common quando Rachel è stata uccisa sono incredibilmente basse».


Lizzie tentò un’ultima volta di strappargli una confessione. Si incontrarono a Hyde Park. «Cerco di immaginarmelo» gli disse pensosa mentre mangiavano tramezzini vicino alla Serpentine, «e lo trovo terribilmente eccitante. Sento che quell’uomo potresti essere tu. Trattami come lui ha trattato quella donna».


Colin (come scrisse più in là) iniziò a chiedersi se Lizzie potesse avere dei disturbi mentali. «Forse è meglio se la chiudiamo qui…» le disse desolato.


Di fronte a quest’ultima affermazione lei si alzò in piedi, fece un sospiro sconsolato e se ne andò via, superando un furgone giallo carico di poliziotti.


Qualche giorno più tardi Colin fu arrestato con l’accusa di aver ucciso Rachel Nickell, e trascorse i quattordici mesi successivi in stato di fermo; mesi durante i quali il vero assassino, Robert Napper, uccise una madre e sua figlia di quattro anni, Samantha e Jazmine Bisset, nei pressi di casa sua a Plumstead, nella zona est di Londra.


«Il corpo di Samantha era mutilato in maniera orrenda…» mi disse Paul Britton al Premier Inn. «Il fotografo della polizia assegnato alla scena del crimine ha aperto il piumone in cui Napper l’aveva avvolta, ha scattato la foto…» Britton si fermò, girò il suo caffè e mi guardò con un’espressione solenne, «…e non ha mai più lavorato».


Questo, diceva lo sguardo di Britton, era il mondo che loro abitavano; un mondo il cui orrore innocenti civili come me non avrebbero mai compreso del tutto.


Il caso di Colin Stagg andò all’Old Bailey, il tribunale penale di Londra. Al giudice bastò una rapida lettura per respingerlo. Disse che la trappola era stata un«comportamento ingannevole della peggior specie» e che «l’idea che un profilo psicologico possa essere ammissibile come prova d’identità in qualsiasi circostanza è estremamente pericolosa».


La reputazione di Britton, e quella della sua professione, era rovinata.


Nessuno uscì bene da quella storia: la poliziotta che aveva interpretato Lizzie James sparì di scena nell’aprile 2001, quando la BBC riportò che aveva ricevuto 125.000 sterline come indennizzo per trauma e stress. Nel 2008 Colin Stagg ricevette un indennizzo di 706.000 sterline, ma solo dopo sedici anni in cui gli fu rifiutato qualsiasi lavoro per cui facesse domanda, perché continuavano a circolare voci che avesse commesso un omicidio e l’avesse fatta franca. Paul Britton fu messo sotto accusa dalla British Psychological Society, ma si decise di non procedere quando il suo legale sostenne che dato il tempo trascorso non gli sarebbe stata concessa una giusta udienza. Divenne un paria nel mondo del criminal profiling.


Ora, al Premier Inn, gli chiesi se avremmo potuto parlare di Colin Stagg.


Di fronte a questa richiesta, Britton alzò il dito, si mise a rovistare in silenzio nella sua borsa e mi passò un foglio di carta. Mi ci volle un po’ per capire cosa stavo leggendo, ma poi mi fu chiaro: era una dichiarazione, scritta di suo pugno, per chiunque gli avesse mai rivolto quella domanda.


Nelle primissime fasi dell’indagine di Nickell aveva detto alla Metropolitan Police, la polizia di Londra, che lo stupratore di Plumstead (che poi si scoprì essere Robert Napper) era l’uomo che cercavano. Ma non gli avevano dato retta.


Alzai gli occhi dal foglio. «Davvero gliel’ha detto?».


Britton annuì. «Ho detto: “Il criminale di Plumstead è lo stesso del caso di Rachel Nickell. Avete a che fare con la stessa persona”. E loro: “La nostra analisi è chiara. Non sono collegati”. Stiamo parlando della Metropolitan Police: loro queste cose le sanno. Io non sono perfetto, sarebbe stato arrogante da parte mia sostenere che la mia analisi fosse superiore alla loro. Era una lezione che dovevo imparare. Dovevo accettarlo, le cose stavano così. Ecco. Mi spiace».


«È in grado di dimostrarlo?» domandai. «Esiste qualcuno disposto a dire: “Sì, è tutto vero”?».


«Potrebbero dirlo in molti, ma nessuna lo farà».


«Per interesse personale?».


«Per le loro pensioni, la loro vita privata, i loro interessi. Ma ho ricevuto una chiamata da due persone che hanno detto: “C’ero. So cos’è successo. Hai ragione. Perdonami per non aver detto nulla. Forse quando sarò andato in pensione parlerò”».


«Immagino che nessuno di loro sia ancora andato in pensione».


«Le persone badano alle proprie vite. Non puoi biasimarli, è un mondo difficile…».


«Oh, certo…» dissi.


Mi guardò. «Se vuole però posso aiutarla a capire meglio questa storia…».


Per la mezz’ora successiva Britton passò in rassegna tutte le tappe della trappola galante per dimostrarmi che in nessun punto aveva fatto qualcosa di sbagliato. La sua regola dal principio alla fine era che «toccava al sospettato, Colin Stagg, introdurre ogni nuovo elemento. Potevamo sì riutilizzarlo, ma non dovevamo mai essere noi a parlarne per primi. Farlo significava solo realizzare le nostre speranze, capisce?».


Restai a bocca aperta; non sapevo da dove cominciare.


«Ma che mi dice dei passati omicidi rituali di Lizzie?» dissi.


«Come, scusi? Cosa vorrebbe insinuare?» rispose Britton lentamente, con aria ostile.


«Lei ha detto che avrebbe potuto amare soltanto un uomo che avesse fatto una cosa del genere».


«Se qualcuno con cui sta facendo una passeggiata lo dicesse a lei» ribatté Britton, «cosa farebbe? Sentiamo, cosa farebbe?».


«Ma era ovvio che moriva dalla voglia di fare sesso con lei» dissi.


«A questo non saprei proprio cosa rispondere».


Era sconcertante constatare che Britton sembrava non capire quanto fosse stata infelice l’idea della trappola galante, ma per me era altrettanto allarmante realizzare che in un certo senso si trattava di una versione estrema di un impulso che giornalisti e creatori di programmi tv – e forse psicologi, poliziotti e anche avvocati – conoscono bene. Avevano creato una versione malata e distorta di Colin Stagg, mettendo insieme una specie di collage degli aspetti più folli della sua personalità. Solo i giornalisti senza alcuno scrupolo si spingerebbero tanto in là, ma di fatto quella è la direzione in cui vanno più o meno tutti.

Mi guardò di traverso e ribadì la propria posizione: durante l’operazione il limite non fu mai superato.

«Nemmeno quando ha detto che le possibilità che ci fossero due individui con una sessualità così deviata a Wimbledon Common nello stesso momento erano incredibilmente basse?» domandai.

«Be’, si ricordi» rispose, «che Robert Napper era lì, Colin Stagg no. Quindi…».

«Colin Stagg era lì, quella mattina» dissi.

«Ma non era al Common nello stesso momento!» ribatté Britton, vittorioso.

«Pensa che Colin Stagg abbia una personalità sessuale deviata?».

«Non lo so. Non conosco Colin Stagg».

Scese un silenzio gelido.

«Sono queste le domande che è venuto a farmi?».

Chiedemmo il conto.

Capitolo 10

L’evitabile morte di Rebecca Riley

In una tiepida sera di aprile fui invitato a un banchetto organizzato da Scientology nella vecchia casa padronale di L. Ron Hubbard a East Grinstead. Bevemmo champagne sulla terrazza di Hubbard, affacciati su acri e acri di ininterrotta campagna inglese, per poi spostarci in uno dei saloni, dove mi fecero accomodare al tavolo principale di fianco a Tony Calder, l’ex manager dei Rolling Stones.


La serata iniziò con una strana cerimonia. I membri di Scientology le cui donazioni avevano superato le trentamila sterline furono invitati a salire sul palco per ricevere delle statuette di cristallo. Tra il pubblico, cinquecento o più persone scattavano in piedi ad applaudirli, e loro sfilavano raggianti sullo sfondo di un panorama kitsch di nuvole celestiali, mentre la neve artificiale che cadeva tutto intorno li incorniciava in una sorta di splendore mistico.


Dopo la premiazione, Lady Margaret McNair, a capo del CCHR, fece un discorso lungo e alquanto allarmante in cui elencava i nuovi disturbi mentali proposti per l’edizione aggiornata del DSM, il DSM-V.


«Avete mai suonato il clacson con rabbia?» disse. «Bene! Soffrite di disturbo esplosivo intermittente!».


«Sì!!!» urlava il pubblico. «Complimenti!».


In realtà il disturbo esplosivo intermittente è descritto come «un disturbo del comportamento caratterizzato da espressioni estreme di rabbia, spesso incontrollabili, che sono sproporzionate rispetto alle circostanze in cui si verificano».


«E poi c’è la dipendenza da internet!» continuò. Il pubblico rideva e i buuu non si contavano.


In realtà la dipendenza da internet era già stata rifiutata dal comitato del DSM-V. L’idea era venuta a tale Jerald Block, uno psichiatra che lavorava a Portland, nell’Oregon: «La dipendenza da internet sembra essere un disturbo comune che merita di essere incluso nel DSM-V», scrisse nell’“American Journal of Psychiatry” nel marzo del 2008. «Tra le ripercussioni negative segnaliamo litigi, bugie, scarso rendimento, isolamento sociale e affaticamento».


Ma i membri del comitato del DSM non erano d’accordo. Dicevano che passare troppo tempo su internet potrebbe essere considerato un sintomo della depressione, ma non un disturbo in sé. Accettarono di menzionarlo nell’appendice del DSM-V, ma tutti sanno che l’appendice è il “cimitero dei disturbi mentali”.


(Non volevo confessarlo ai membri di Scientology, ma ero segretamente favorevole all’inclusione della dipendenza da internet tra i disturbi: l’idea che quei tizi che si chiedevano se fossi un impostore o uno stupido venissero dichiarati malati di mente non mi dispiaceva affatto!)


Lady Margaret continuò con la sua lista di vergognose proposte di disturbi mentali: «Avete mai litigato con il vostro partner? Sì? Allora soffrite di disturbo relazionale».


«Whoo-hoo!!!» urlò il pubblico.


«Siete un po’ pigri? Allora soffrite di rallentamento cognitivo!».


Poi c’era il disturbo da alimentazione incontrollata, il disturbo di personalità passivo-aggressivo, il disturbo post-traumatico da amarezza…


Molti nel pubblico erano uomini d’affari di successo, pilastri della comunità. Avevo la sensazione che litigare con la moglie e pestare sul clacson con rabbia fossero libertà a loro davvero molto care.


Non sapevo cosa pensare: nel mondo esistono tante persone malate i cui sintomi si manifestano nei modi più disparati; sembrava inappropriato da parte di Lady Margaret – da parte di tutti gli antipsichiatri, che appartenessero a Scientology o meno – liquidarli come essenzialmente sani solo per rimanere in linea con la loro ideologia.


Qual è il confine tra mettere in dubbio un criterio diagnostico e sbeffeggiare i sintomi di qualcuno che sta davvero molto male?


Una volta il CCHR aveva divulgato un comunicato stampa in cui si criticavano aspramente i genitori che davano farmaci ai figli semplicemente perché questi «si mettevano le dita nel naso».


Gli psichiatri hanno etichettato qualsiasi cosa come malattia mentale, dal mettersi le dita nel naso (rinotillexomania) all’altruismo, alla lotteria, al giocare con i pupazzi. Promuovono la falsa convinzione che i disturbi del DSM, come i problemi di pronuncia o in matematica, o l’astinenza da nicotina, debbano essere presi sul serio tanto quanto il cancro o il diabete.


Jan Eastgate, presidente, Citizen Commission on Human Rights International, 18 giugno 2002


Il punto era che i genitori non davano farmaci ai figli semplicemente perché si mettevano le dita nel naso; glieli davano perché si mettevano le dita nel naso fino a scarnificarsi.


Ma proseguendo nella lista diventava difficile non chiedersi come si fosse potuto arrivare a tanto. Lady McNair sembrava davvero aver messo a nudo un problema importante: le manifestazioni di comportamenti problematici sono sempre più spesso etichettate come disturbi mentali. Com’è successo? Che impatto ha avuto? Ci sono state, e ci sono, delle conseguenze?


La risposta al primo quesito è stata sorprendentemente semplice. Tutto è iniziato negli anni settanta per “colpa” di un certo Robert Spitzer: «Da che mi ricordi mi è sempre piaciuto classificare le persone». Nella sua ampia e ariosa dimora in un verde sobborgo di Princeton, Robert Spitzer, ormai sull’ottantina e malato di Parkinson, ma ancora lucido e carismatico, sedeva con me e la sua governante e raccontava delle gite che faceva da bambino nel nord dello Stato di New York.


«Mi sedevo nella mia tenda, guardavo fuori e prendevo appunti sulle campeggiatrici» disse. «Cosa pensavo di ognuna, i loro attributi, quale mi incuriosiva di più». Sorrise. «Mi è sempre piaciuto classificare le cose: mi piace ancora oggi».


Le sue gite in campeggio rappresentavano una tregua da una vita domestica tutt’altro che serena, risultato di una «madre che non faceva che entrare e uscire dagli ospedali psichiatrici. Era una donna molto infelice, e riponeva una fiducia enorme nella psicanalisi. Passava da un analista all’altro». Non migliorò mai: visse infelice e morì infelice. In Spitzer maturò la convinzione che gli psicanalisti fossero inutili: non sapevano quello che facevano, visto che non erano stati in grado di salvarla. Studiò psichiatria alla Columbia University, e più il tempo passava più il suo disprezzo per la psicanalisi cresceva.


Poi, nel 1973, gli si presentò davanti l’occasione di cambiare le cose.


David Rosenhan era uno psicologo allo Swarthmore College, Pennsylvania, e a Princeton. Come Spitzer, si era stancato dell’atteggiamento secondo lui pseudoscientifico ed elitario degli psicanalisti. Voleva dimostrare che erano tanto idolatrati quanto inutili, e per questo ideò un esperimento. Cooptò sette amici, nessuno dei quali aveva mai avuto problemi psichiatrici; questi, cui si aggiunse lo stesso Rosenhan, si diedero falsi nomi e falsi impieghi e poi, contemporaneamente, attraversarono l’America diretti ognuno verso un ospedale psichiatrico diverso. Come scrisse poi Rosenhan, «gli ospedali erano distribuiti in cinque Stati, sulla costa est e sulla costa ovest. Alcuni erano vecchi e malconci, altri abbastanza nuovi. Alcuni avevano un buon rapporto staff-pazienti, altri avevano carenza di personale. Solo uno era totalmente privato; tutti gli altri godevano di fondi statali o federali o, in un caso, di fondi universitari».


In un momento prestabilito, ognuno disse allo psichiatra di turno di sentire una voce nella testa che ripeteva le parole vuoto, cavo e tonfo. Questa era l’unica bugia che avevano il permesso di raccontare; per il resto dovevano comportarsi in maniera del tutto normale. Tutti e otto furono immediatamente riconosciuti come matti e ricoverati nelle rispettive strutture. A sette fu diagnosticata la schizofrenia, a uno un disturbo maniaco-depressivo.


Rosenhan si aspettava che l’esperimento non sarebbe durato più di un paio di giorni. Aveva detto proprio questo ai suoi familiari: di non preoccuparsi, che li avrebbe rivisti dopo un paio di giorni. Non lo fecero uscire per due mesi.


Di fatto li tennero chiusi tutti e otto per una media di diciannove giorni ciascuno, nonostante si fossero comportati normalmente dal momento in cui erano stati ammessi. Quando i membri dello staff chiedevano come si sentivano, loro rispondevano che stavano bene. A tutti furono somministrati potenti farmaci antipsicotici. «Fu comunicato a ognuno che il modo per uscire avrebbero dovuto trovarlo da soli, riuscendo essenzialmente a convincere lo staff della loro salute mentale. Dichiararsi semplicemente sani non sarebbe bastato. Una volta bollati come schizofrenici, gli “pseudopazienti” erano stati marchiati a vita» scrisse David Rosenhan in On Being Sane in Insane Places 1973.


C’era una sola via d’uscita: ammettere la pazzia di fronte agli psichiatri e poi fingere di fare progressi.


Quando Rosenhan rese pubblico l’esperimento, scoppiò il pandemonio. Fu accusato di truffa: lui e i suoi amici avevano simulato la malattia mentale! Non si può incolpare uno psichiatra per una diagnosi sbagliata fatta a qualcuno che si è presentato con dei sintomi falsi! Un ospedale psichiatrico sfidò Rosenhan a mandare altri falsi pazienti, garantendo che questa volta li avrebbero smascherati. Rosenhan acconsentì. Un mese dopo l’ospedale annunciò con orgoglio di aver scoperto quarantuno impostori. Solo a quel punto Rosenhan rivelò che in quell’ospedale non aveva mandato proprio nessuno.


L’esperimento fu una catastrofe per la psichiatria americana. Robert Spitzer ne era felicissimo.


«È stato davvero imbarazzante» mi diceva. «L’autostima della psichiatria è caduta davvero in basso. Non era mai stata realmente accettata come branca della medicina perché le diagnosi erano considerate troppo inaffidabili. Rosenhan non ha fatto che confermarlo».


Il rispetto di Spitzer andava invece agli psicologi come Bob Hare, che alla psicanalisi avevano preferito qualcosa di più scientifico: le checklist, fredde catalogazioni di comportamenti. Se solo fosse esistito un modo per introdurre quel tipo di rigore nella psichiatria…


Di lì a poco venne a sapere di un possibile nuovo lavoro, che consisteva nell’editare la nuova edizione di un semisconosciuto libricino a spirale chiamato DSM.


«La prima edizione del DSM aveva poco più di sessanta pagine!» rideva Spitzer. «Era utilizzata prevalentemente per i rapporti statistici degli ospedali pubblici. Ai ricercatori non interessava minimamente».


Spitzer conosceva già alcune delle persone che stavano dietro il lavoro sul DSM, da quando un gruppo di attivisti aveva iniziato a battersi per far eliminare l’omosessualità dalla lista dei disturbi. Spitzer stava dalla parte degli attivisti, e aveva negoziato un accordo che stabiliva che essere gay non doveva più essere considerato una manifestazione di disagio mentale. Grazie al suo intervento si conquistò il rispetto di tutti, motivo per cui, quando mostrò il suo interesse per lavorare sul DSM-III, l’esito fu scontato.


«In ogni caso» disse, «nessun altro sgomitava per conquistare quel posto. Non era percepito come qualcosa di molto importante».


Quello che nessuno sapeva era che Spitzer aveva un piano: rimuovere, per quanto possibile, l’ingombro del giudizio umano dalla psichiatria.


Nei sei anni a venire, dal 1974 al 1980, guidò una serie di riunioni del gruppo redazionale del DSM-III in una piccola sala conferenze alla Columbia University. A detta di tutti furono caos puro. Come riportato successivamente da Alix Spiegel del “New Yorker”, gli psichiatri che Spitzer aveva invitato non facevano che urlarsi addosso: di solito veniva preso più seriamente chi alzava di più la voce. Non esisteva un verbale.


«Certo che non mettevamo a verbale…» diceva Spitzer. «Era già tanto se avevamo una macchina da scrivere».


Qualcuno urlava il nome di un potenziale nuovo disturbo mentale e un elenco delle sue manifestazioni; a quel punto si alzava un coro cacofonico di voci di consenso e dissenso, e se Spitzer era d’accordo – e il più delle volte lo era – batteva tutto seduta stante su una vecchia macchina da scrivere. Ed eccolo lì, nero su bianco.


Sembrava un programma infallibile: avrebbe eliminato dalla psichiatria tutto quel grossolano investigare nell’inconscio. Basta con quelle chiacchiere ridicole! Il giudizio umano, d’altronde, non era stato di nessun aiuto per sua madre. Da quel momento in poi l’approccio sarebbe stato scientifico: qualsiasi psichiatra avrebbe potuto prendere in mano il manuale che stavano creando (il DSM-III), e se i sintomi manifestati dai loro pazienti avessero trovato riscontro nella checklist, allora sarebbe stato possibile fare una diagnosi.


Di fatto, ogni disturbo di cui abbiate mai sentito parlare o che vi sia mai stato diagnosticato è stato definito dentro quella caotica sala riunioni sotto la supervisione di Robert Spitzer, che traeva ispirazione da pionieri delle checklist come Bob Hare.


«Mi faccia qualche esempio» gli dissi.


«Oh…» agitò il braccio in aria per dire che ce n’erano moltissimi. «Sindrome post-traumatica da stress, disturbo borderline di personalità, sindrome da deficit di attenzione… vado avanti?». E poi ancora autismo, anoressia nervosa, bulimia, attacchi di panico ricorrenti… tutti disturbi nuovi di zecca, ognuno con la sua bella lista di sintomi.


Questa, per esempio, è parte della checklist per il disturbo bipolare del DSM-IV.


Criteri per episodi maniacali


Un periodo definito di umore persistentemente e anormalmente elevato, espansivo o irritabile, della durata di almeno una settimana.


Autostima ipertrofica e grandiosità. Ridotto bisogno di sonno (esempio, si sente riposato dopo aver dormito per tre ore soltanto).


Maggiore loquacità del solito oppure spinta continua a parlare.


Eccessivo coinvolgimento in attività ludiche che hanno un alto potenziale di conseguenze dannose (esempio, eccessi nel comprare, comportamento sessuale sconveniente, investimenti in affari avventati).


Con caratteristiche malinconiche


Perdita di piacere per ogni attività o quasi.


Mancanza di reattività verso stimoli solitamente gradevoli (non si sente meglio, neanche temporaneamente, quando succede qualcosa di positivo.)


Senso di colpa eccessivo o inappropriato.


I problemi includono marinare la scuola, insuccessi scolastici, insuccessi lavorativi, divorzio o episodi di comportamento antisociale.


«Le è capitato di rifiutare alcuni dei disturbi proposti?» chiesi a Spitzer. «Non so... la sindrome del bambino atipico, per esempio» dissi.


Rifletté per un momento. «Il problema in quel caso è stato capire come definirla. Ho chiesto: “Quali sono i sintomi?”, e l’uomo che l’aveva suggerita ha risposto: “Difficile a dirsi, si tratta di bambini molto atipici”». Meditò ancora un attimo e poi aggiunse: «Stavamo per includere anche il disturbo masochistico di personalità, ma c’era un gruppetto di femministe che si opponeva con forza».


«Perché?».


«Pensavano fosse un modo per stigmatizzare la vittima».


«Com’è andata a finire?».


«Abbiamo cambiato il nome in disturbo autofrustrante di personalità e l’abbiamo messo in appendice…».


Mi ero sempre chiesto perché nel DSM non si parlasse di psicopatici. Grazie a Spitzer scoprii che dietro le quinte era avvenuto uno scisma: da una parte Bob Hare, dall’altra una sociologa di nome Lee Robins, convinta che i medici non potessero misurare in maniera affidabile tratti della personalità come l’empatia. Per questo proponeva di eliminarli dalla checklist del DSM e prendere in considerazione solo i sintomi espliciti. Bob non era d’accordo, il comitato del DSM prese le parti della Robins, e così la psicopatia fu abbandonata in favore del disturbo antisociale di personalità.


«Credo che Robert Hare sia parecchio arrabbiato con noi…» disse Spitzer.


«Immagino di sì. Avrà la sensazione che abbiate plagiato i suoi parametri di valutazione senza dargliene credito».


(In seguito sono venuto a sapere che una sorta di riconoscimento avrebbe comunque potuto ottenerlo. Un membro del comitato direttivo del DSM-V, David Shaffer, mi ha detto che stavano pensando di cambiare il nome del disturbo antisociale di personalità – suona così incriminante… – e ribattezzarlo sindrome di Hare.)


Nel 1980, dopo sei anni alla Columbia, Spitzer si sentì finalmente pronto a pubblicare. Prima però voleva collaudare le sue nuove checklist, che erano veramente tante: il DSM-I era un libretto di poco più di sessanta pagine, il DSM-II era appena più lungo, ma il DSM-III, il “DSM di Spitzer”, aveva raggiunto le 494 pagine.


Trasformò le checklist in questionari e spedì i suoi ricercatori in giro per l’America perché chiedessero a centinaia di migliaia di persone prese a caso come si sentissero. Risultò che quasi tutte si sentivano malissimo: stando alle nuove checklist, più del 50 per cento soffriva almeno di un disturbo mentale.


Il DSM-III ebbe un successo enorme. Insieme alla sua edizione riveduta e corretta vendette più di un milione di copie, e gli acquisti fatti da comuni cittadini superarono di gran lunga quelli fatti dagli addetti ai lavori. In poche parole, in circolazione c’erano più DSM che psichiatri. In tutto l’occidente si cominciarono a utilizzare le checklist come strumento di autodiagnosi.


Per molti fu una manna dal cielo: convinti di avere qualcosa che non andava, finalmente potevano dare un nome alle loro sofferenze. Fu una grande rivoluzione nella psichiatria, e una vera corsa all’oro per le compagnie farmaceutiche, che all’improvviso avevano centinaia di nuovi disturbi per cui inventare rimedi e milioni di nuovi pazienti da trattare.


«Le case farmaceutiche erano felicissime del DSM» mi disse Spitzer, e questo a sua volta rendeva felicissimo lui: «Adoro sentire le storie di genitori che dicono: “Prima che iniziassimo a dargli quei farmaci ci rendeva la vita impossibile; poi è tornato il sereno”. È una buona notizia per uno che ha contribuito alla creazione del DSM».


Ma poi qualcosa cominciò ad andare storto.


Gary Maier, lo psichiatra che aveva introdotto nelle sue terapie i dream groups e i canti religiosi, e che fu poi licenziato dopo aver dato l’LSD ai pazienti ad Oak Ridge, era stato recentemente invitato a pranzo da alcuni informatori farmaceutici. Gary lavorava in due carceri di massima sicurezza a Madison, nel Wisconsin, e il suo dipartimento aveva appena deciso di chiudere definitivamente i rapporti con le case farmaceutiche. Di qui l’invito a pranzo: volevano capire il perché.


«Erano due donne bellissime e un ragazzo molto gentile» mi disse Gary.


«Cosa ti hanno detto?».


«Be’, se mi cerchi su internet vedrai che ho scritto dei saggi sui mounds, le collinette artificiali tirate su per scopi rituali o commemorativi. È il mio hobby. Quelle due donne hanno passato la maggior parte del pranzo a chiedermi dei mounds e a farmeli disegnare su dei tovaglioli di carta».


«E poi?».


«E poi sono arrivate al punto: perché non usavo i loro prodotti? “Perché voi siete il nemico” ho detto. “Avete preso in ostaggio il nostro mestiere. A voi interessa vendere, non curare i pazienti”. Mi hanno dato tutti contro, ma ho difeso con fermezza le mie posizioni. Dopodiché è arrivato il conto, eravamo pronti ad andare quando la più attraente delle due mi fa: “Ah, le interessano dei campioni di Viagra?».


Gary scosse la testa. «Peggio degli spacciatori» aggiunse rabbioso.


Gary affermava di non avere nulla contro le checklist: «Una checklist ben fatta è utile, ma ora stiamo esagerando… le trovi persino su “Parade”».


E un esubero di checklist abbinato a rappresentanti senza scrupoli era, secondo lui, una combinazione decisamente pericolosa.


Esiste un libro illustrato per bambini dal titolo Brandon and the Bipolar Bear, scritto da una donna di nome Tracy Anglada. In questo libro il piccolo Brandon esplode di rabbia alla minima provocazione; in altri momenti, invece, è allegro e giocoso. Sua madre porta lui e il suo orsacchiotto dal dottore, che gli diagnostica un disturbo bipolare. Brandon chiede al dottore se un giorno starà meglio, e il dottore dice che sì, ora esistono delle medicine buone che aiutano i bambini e le bambine come lui, e che può iniziare a prenderne una proprio adesso. Il dottore chiede infine a Brandon di promettergli che prenderà la sua medicina ogni volta che la mamma glielo dirà.


Ecco, se Brandon fosse un bambino in carne e ossa, con ogni probabilità gli sarebbe appena stato diagnosticato, erroneamente, un disturbo bipolare.


«Negli Stati Uniti molto spesso ci vanno giù pesanti con le diagnosi; la bipolarità infantile è la più recente, ma forse, viste le implicazioni, la più preoccupante».


Ian Goodyer insegna psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza a Cambridge. Come praticamente ogni neurologo e psichiatra infantile che operi fuori dagli Stati Uniti, ma anche come molti all’interno del paese, semplicemente non crede che i bambini possano soffrire di disturbo bipolare.


«Gli studi epidemiologici non confermano nel modo più assoluto i numeri citati da coloro che sostengono l’esistenza di bambini bipolari» mi disse. «È un disturbo che compare nella tarda adolescenza. È davvero molto, molto improbabile che lo si possa diagnosticare in bambini con un’età inferiore ai sette anni». Il che suona strano, visto che al giorno d’oggi viene diagnosticato a un numero altissimo di bambini americani sotto i sette anni. Potranno essere malati, alcuni anche in maniera grave, mi diceva Ian Goodyer, ma di sicuro non sono bipolari.


Quando Robert Spitzer lasciò il suo lavoro nella redazione del DSM-III, il suo posto fu preso da uno psichiatra di nome Allen Frances. Seguendo l’operato di Spitzer, Frances continuò ad accogliere nel manuale quanti più disturbi mentali possibile, con le rispettive checklist. Il DSM-IV arrivò a 886 pagine.


Ora, viaggiando in macchina da New York verso la Florida, il dottor Frances mi stava dicendo al telefono che temeva avessero commesso degli errori terribili.


«In psichiatria è facilissimo scatenare una nuova falsa epidemia» disse. «E credo che senza volerlo abbiamo contribuito a scatenarne tre che sono in corso proprio in questi anni».


«E quali sarebbero?».


«Autismo, deficit dell’attenzione e disturbo bipolare infantile».


«Com’è successo?».


«Con l’autismo è bastato aggiungere la sindrome di Asperger, che ne è una forma molto più blanda» disse. «Le diagnosi di autismo nei bambini sono passate da meno di una ogni duemila a più di una ogni cento. Molti bimbi che avremmo semplicemente definito eccentrici o particolari all’improvviso sono stati marchiati come autistici».


Mi tornò in mente il mio viaggio in macchina verso la Coxsackie Correctional Facility, quando dalle parti di Albany ero passato di fianco a quel cartello: «Ogni venti secondi a un bambino viene diagnosticato l’autismo».


Alcuni genitori si convinsero erroneamente che questa improvvisa, allarmante epidemia fosse legata al vaccino MPR (morbillo, parotite e rosolia), opinione che venne promossa da dottori come Andrew Wakefield e celebrità come Jenny McCarthy e Jim Carrey. I genitori smisero di vaccinare i loro figli. Risultato: alcuni contrassero il morbillo e morirono.


Ma tutto questo, diceva Allen Frances, è niente se paragonato al disturbo bipolare infantile. «Il modo in cui viene effettuata la diagnosi negli Stati Uniti non riflette per nulla le nostre intenzioni originarie» disse. «Vengono definiti bipolari bambini estremamente irritabili e lunatici, o soggetti a scatti d’ira. Le aziende farmaceutiche e i gruppi di pressione hanno un’influenza enorme nella propagazione dell’epidemia».


Guarda caso, Tracy Anglada, autrice di Brandon and the Bipolar Bear, è a capo di uno di questi gruppi per bambini bipolari che si chiama BP Children. Mi scrisse un’email in cui mi augurava tutto il meglio per il mio libro, ma non voleva essere intervistata. Se però avessi voluto sottoporle un manoscritto completo, aveva aggiunto, sarebbe stata felice di dargli un’occhiata.


«Le diagnosi in psichiatria si stanno avvicinando pericolosamente al confine con la normalità» disse Allen Frances. «Ed è una zona densamente popolata… il confine più affollato è proprio quello a ridosso della normalità».


«Perché?» domandai.


«La società spinge alla conformità in ogni modo possibile, e la tolleranza nei confronti di ciò che è diverso è sempre più bassa. Per questo motivo forse alcuni preferiscono accettare un’etichetta: regala un senso di speranza e una specie di direzione. “Prima ridevano di me, mi prendevano in giro, non piacevo a nessuno; ma ora posso parlare su internet con altre persone affette dal disturbo bipolare e non mi sento più solo”». Riprese fiato. «Un tempo alcuni avrebbero potuto vedersi appiccicare addosso un’etichetta ben più stigmatizzante, come il disturbo della condotta o il disturbo oppositivo provocatorio. La bipolarità infantile solleva i genitori dal senso di colpa per aver cresciuto un bambino oppositivo».


«Quindi in definitiva potrebbe andar bene così» dissi. «Magari ricevere una diagnosi di disturbo bipolare infantile può anche avere un che di positivo».


«No» rispose, «non c’è assolutamente niente di positivo, e per un motivo ben preciso…».


Bryna Herbert, che vive a duecento miglia di distanza da Robert Spitzer, a Barrington, Rhode Island, era stata «una bambina molto vivace. Mi sarei meritata un’etichetta? Forse sì. Ne combinavo di tutti i colori. Salti mortali giù per le scale e così via». Ma era stata bambina prima della pubblicazione del DSM-III, e il suo comportamento rientrava semplicemente nell’“essere bambini”.


Tutto questo cambiò quando fu lei ad avere dei figli, come ebbi modo di constatare quando mi trovai seduto insieme a tutti loro nella sua ariosa casa borghese. Matt, quattordici anni, faceva avanti e indietro suonando Smoke on the Water su una Gibson Epiphone. Hannah era impegnata a chiedersi se gli avanzi che aveva appena mangiato fossero troppo vecchi. Jessica non era ancora tornata da scuola. Ai miei occhi era tutto perfettamente normale, ma dovevo tenere a mente che Matt era sotto l’effetto dei farmaci. Avevo deciso di far visita a Bryna perché, come la sua amica Tracy Anglada, aveva scritto un libro per bambini sul tema della malattia: My Bipolar, Roller Coaster, Feelings Book.


«Avevano sempre livelli di energia altissimi» disse Bryna. «Erano bambini difficili. Soffrivano di coliche, non stavano mai fermi. A sei mesi gattonavano, a dieci camminavano. Li andavo a prendere all’asilo e l’insegnante diceva: “Hannah oggi ha mangiato il riso crudo che usiamo per giocare. Si è riempita la bocca!”».


Bryna rise e arrossì. Era ancora una persona ancora piena di energia, parlava veloce, le sue parole e i suoi pensieri scalpitavano per uscire. «Eravamo costretti a tener chiusi i pannolini con il nastro adesivo, se li toglievano nel sonno. Matt! Prendi le tue medicine!».


Quando era ancora un bebè, il soprannome per Matt era Mr Maniaco Depressivo. «Il suo umore cambiava con una tale velocità! Un minuto se ne stava seduto nel seggiolone, felice come una pasqua; quello dopo lanciava oggetti dall’altra parte della stanza. Piangeva, si arrabbiava e nessuno sapeva perché. Quando ha compiuto tre anni le cose si sono fatte ancora più complicate. Gli altri bambini gli volevano bene, ma iniziavano ad aver paura di lui perché non riuscivano a prevederne le reazioni. Se faceva male a qualcuno, poi, non si mostrava affatto dispiaciuto. Aveva la fissa dei vampiri: ritagliava pezzi di carta, se li metteva sugli incisivi come se fossero denti e se ne andava in giro così… hiss! hiss! hiss! In giro per la strada! Andava a farli vedere a dei perfetti sconosciuti. Era un tantino strano, sì».


«E voi avete iniziato a preoccuparvi?».


«Già…» disse Bryna. «Salivamo in macchina e lui diceva che riusciva a vedere gli edifici del centro. Ma erano a trenta miglia di distanza! Quando giocava al Re Leone diventava veramente Simba. Era per lo più maniacale: le fasi depressive arrivavano solo ogni tanto. Diceva che non meritava di vivere, ma non ha mai avuto tendenze suicide. E poi aveva queste crisi isteriche che duravano moltissimo. Un giorno, qui a casa, voleva dei pretzel prima di pranzo, ma io stavo già cucinando, per cui gli ho detto di no, che i pretzel non poteva mangiarli. Lui ha afferrato un coltello da macellaio e mi ha minacciata. Io gli urlavo: “Mettilo giù!!!”».


«Quanti anni aveva?».


«Quattro».


«E l’ha messo giù?».


«Sì».


«È stata l’unica volta?».


«È stata l’unica volta che ha fatto qualcosa di così estremo» disse Bryna. «Ah, ha colpito Jessica alla testa e le ha dato un calcio nello stomaco».


«Veramente è stata lei a darmi un pugno in testa» precisò Matt dall’altra parte della stanza. Bryna lo fulminò con lo sguardo. Cercò di calmarsi.


È stato dopo l’episodio del coltello da macellaio, mi disse, che decisero di sottoporlo a dei controlli. Il caso volle che il reparto pediatrico del loro ospedale locale, il Massachusetts General, fosse diretto dal dottor Joseph Biederman, il decano del disturbo bipolare infantile.


La scienza delle cure psichiatriche per i bambini è talmente primitiva e l’influenza di Biederman così grande che se solo nomina un nuovo rimedio durante una presentazione, decine di migliaia di bambini, nell’arco di uno o due anni, finiranno col prendere quella medicina o quel cocktail di medicine. E questo nell’assenza più totale di effettivi test sui farmaci. La decisione si basa unicamente sul passaparola tra i settemila psichiatri infantili d’America.


“San Francisco Chronicle”, 13 luglio 2008


Nel novembre del 2008 Biederman fu accusato di conflitto d’interessi, quando si scoprì che il suo reparto aveva ricevuto finanziamenti dalla Johnson & Johnson, casa produttrice del farmaco antipsicotico Risperdal, che viene spesso somministrato ai bambini. Nonostante il reparto abbia sempre negato di promuovere prodotti Johnson & Johnson, il “New York Times” pubblicò alcuni estratti di un documento in cui Biederman prometteva di provare ad «accelerare gli obiettivi commerciali di J & J».


Secondo Biederman, il disturbo bipolare può insorgere «dal momento in cui il bambino apre gli occhi». E ha negato tutte le accuse che gli sono state mosse.


«Mentre lo visitavano» mi raccontò Bryna, «Matt accendeva l’impianto audio e poi lo spegneva. Idem con le luci: le accendeva e poi le spegneva. Un attimo era sul tavolo, quello dopo era sotto. È stato sottoposto a tutte le checklist. Ha raccontato di un sogno in cui un grosso uccello con lame rotanti tagliava la testa a sua sorella, e di un altro in cui veniva inghiottito da un fantasma. A quel punto hanno capito che la situazione non era da prendere sotto gamba».


Dopo un po’ uno dei colleghi del dottor Biederman annunciò: «Crediamo proprio che Matt soddisfi i criteri del DSM per il disturbo bipolare».


Tutto questo è accaduto dieci anni fa, e da allora Matt ha sempre preso farmaci. Lo stesso vale per sua sorella Jessica, anche lei identificata come bipolare dall’équipe del dottor Biederman.


«Abbiamo provato ogni tipo di farmaco» disse Bryna. «Con il primo era migliorato tantissimo, ma aveva preso quattro chili e mezzo in un mese. Quindi bisogna considerare l’aumento di peso, e poi i tic, l’irritabilità, il torpore. Funzionano per un paio d’anni e poi stop… Matt!!!».


Matt stava suonando la chitarra a un passo da noi.


«Matt» gli chiese, «puoi andare a suonare da qualche altra parte? Tesoro, perché non ti trovi qualcosa da fare? Vai di là, ok?».


Bryna era davvero convinta che i suoi figli fossero bipolari, e io non avevo nessuna intenzione di piombare a casa sua e sentenziare che invece erano tutti perfettamente normali. Sarebbe stato offensivo, oltre che arrogante. Per di più David Shaffer – il venerabile psichiatra infantile, pioniere del DSM ed ex marito della famigerata direttrice di “Vogue” Anna Wintour – mi aveva detto, quando l’avevo incontrato a New York, più tardi quella sera: «Questi bambini a cui viene diagnosticata erroneamente la sindrome bipolare possono essere molto oppositivi e molto disturbati. Non sono bambini normali. Sono molto difficili da controllare, fanno paura e possono letteralmente demolire una casa. Il disturbo di cui soffrono è in grado di destabilizzare gli equilibri e la serenità della loro famiglia. Ma non sono bipolari».


«E quindi cosa sono?» domandai.


«ADHD, disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Spesso quando sei con un bambino che ne soffre pensi, Dio mio, è proprio come un adulto in fase maniacale. I bambini affetti da ADHD sono spesso irritabili, sovraeccitati, ma quando crescono non diventano bipolari. E gli adulti soggetti a fasi maniacali non erano affetti da ADHD da bambini. Eppure li stanno etichettando come bipolari, e quella è una macchia che ti rimane addosso per il resto della vita. Se sei una donna ti toccherà prendere farmaci che possono indurre ogni sorta di disturbo alle ovaie e alterare in misura significativa il tuo equilibrio metabolico. Per non parlare del fatto che ti verrà comunicato che la tua è una malattia genetica ereditaria, il che ti renderà inaffidabile, imprevedibile, soggetta a depressione e incline al suicidio…».


Bryna lavora in un centro di assistenza per minori. «Di recente è arrivato un bambino dato in affidamento» mi raccontò. «Era stato portato via da casa sua per negligenza e abusi. E poiché aveva comportamenti sessualizzati ed era soggetto a potenti sbalzi d’umore, qualcuno ha deciso che soffriva di disturbo bipolare. Soddisfaceva i criteri della checklist. Quindi gli hanno dato delle medicine parecchio forti che lo hanno rallentato moltissimo, riducendolo a un bambino grasso e bavoso. E gli effetti di quelle medicine sono stati dichiarati un successo».


Alla fine venne fuori che il ragazzino non era bipolare, disse Bryna. Era lunatico, e i suoi comportamenti sessualizzati erano dovuti al fatto che aveva subito abusi sessuali. Ma i dottori erano schiavi delle checklist, e i sintomi combaciavano con i tratti elencati per quel preciso disturbo. Questo era un bambino qualunque in un centro di assistenza qualunque. Negli ultimi anni in America un milione di bambini è stato dichiarato bipolare.


«Qualcuno ha mai indagato se i bambini bipolari mantengono la diagnosi anche da adolescenti?» chiesi a Bryna.


«Sì» disse. «Per alcuni è così. Altri invece guariscono».


«Guariscono? In che senso? Non è un disturbo che dovrebbe durare tutta la vita? Non è solo un altro modo per dire che non ne soffrivano già in partenza?».


Bryna mi trafisse con lo sguardo. «Mio marito è guarito dall’asma e dalle sua allergie alimentari».


Quando chiesi a Robert Spitzer se non esistesse la possibilità che avesse inavvertitamente creato un mondo in cui alcuni comportamenti ordinari venivano etichettati come disturbi mentali, ammutolì. Attendevo una sua risposta, ma il silenzio si prolungò per tre minuti. Alla fine disse: «Non lo so».


«Ci pensa mai?» domandai.


«Mi vedo costretto a risponderle di no» disse. «Forse dovrei, ma non mi piace l’idea di congetturare su quante delle categorie del DSM descrivano in realtà comportamenti più o meno normali».


«Perché non le va di fare ipotesi sull’argomento?».


«Perché significherebbe interrogarmi su quanta parte di quel lavoro sia un errore» disse.


Seguì un altro lungo silenzio. «In alcuni punti potrebbe esserlo, in effetti».


La notte del 13 dicembre 2006, a Boston, Massachusetts, Rebecca Riley aveva il raffreddore e non riusciva a dormire. Chiamò la mamma, che la portò con sé in camera, le diede una medicina per il raffreddore e alcuni dei farmaci per il disturbo bipolare che le erano stati prescritti, e le disse che poteva dormire sul pavimento di fianco al letto. Quando la madre provò a svegliarla il mattino successivo, la bambina era morta.


L’autopsia rivelò che i genitori le avevano dato una dose eccessiva di quei farmaci, a nessuno dei quali era stata concessa l’autorizzazione per l’utilizzo sui bambini. Avevano preso l’abitudine di darle le pillole per farla stare zitta quando diventava ingestibile. Furono entrambi ritenuti colpevoli per l’omicidio di Rebecca.


Rebecca era stata giudicata bipolare e le era stata prescritta la cura – dieci pillole al giorno – da un onesto psichiatra, il dottor Kayoko Kifuji, che lavorava al Tufts Medical Center ed era un sostenitore della ricerca del dottor Joseph Biederman nel campo della bipolarità infantile. Rebecca aveva totalizzato un punteggio alto nella checklist del DSM anche se aveva solo tre anni, e come tutti i bimbi di quell’età riusciva a malapena a mettere insieme una frase di senso compiuto.

Poco prima della condanna, la madre di Rebecca, Carolyn, fu intervistata da Katie Couric della CBS.

Katie Couric: Pensa che Rebecca soffrisse davvero di disturbo bipolare?

Carolyn Riley: Probabilmente no.

Katie Couric: A pensarci adesso, cosa c’era che non andava in lei?

Caroyn Riley: Non lo so… Forse era semplicemente un po’ troppo vivace per la sua età.

Capitolo 11

Buona fortuna

Erano passati due anni da quando Deborah Talmi mi aveva allungato la sua copia di quel libricino così strano e misterioso al tavolo di un bar.


Mi chiamò Tony da Broadmoor; non lo sentivo da mesi. La sua voce emozionata sembrava rimbombare dentro un lungo corridoio vuoto. Mi faceva piacere avere sue notizie, anche se non ero sicuro che questo mio sentimento fosse esattamente appropriato. Chi era Tony? Era Toto Constant, l’archetipo dello psicopatico tratteggiato da Bob Hare, affascinante e pericoloso, aderente alla checklist con una straordinaria e inquietante precisione? Oppure era Al Dunlap, che, come mi resi conto solo più avanti, avevo infilato a forza nella checklist anche se era lui stesso a rivendicare come suoi molti degli item, reinterpretandoli come manifestazioni del sogno americano e dello spirito imprenditoriale? Oppure era David Shayler, con la sua psicosi palpabile ma innocua per gli altri, ridotto a una specie di macchietta a uso e consumo dell’industria della follia? O ancora, era Rebecca Riley, o Colin Stagg, erroneamente giudicati non sani solo perché non erano ciò che la gente intorno a loro voleva che fossero? Erano semplicemente troppo difficili, non abbastanza normali.


«Ci sarà un’udienza speciale» mi disse Tony. «Vorrei che partecipassi anche tu, come mio ospite».


«Ah» risposi, sforzandomi di sembrare felice per lui.


Brian mi aveva parlato delle varie udienze di Tony. Non si era mai stancato di richiederle, anno dopo anno, per ognuno dei quattordici anni che aveva ormai trascorso nel reparto di Broadmoor dedicato ai soggetti pericolosi con seri disturbi della personalità. Il suo ottimismo era inesauribile. Cercava di portare dalla sua parte chiunque potesse: psichiatri, membri di Scientology, me… chiunque. Ma il risultato era sempre lo stesso: non cambiava nulla.


«Dove si terrà l’udienza?» domandai.


«Proprio qui» rispose Tony, «in fondo al corridoio».


Era difficile che un giornalista potesse aver accesso a un reparto DSPD: i miei incontri con Tony si erano sempre svolti nella mensa o nel Centro benessere. Ero curioso di dare un’occhiata lì dentro.


Secondo il professor Maden, il medico di riferimento della struttura, questi posti non esisterebbero se non fosse per la checklist sugli psicopatici di Bob Hare. Tony era lì dentro perché aveva totalizzato un punteggio alto, e lo stesso valeva per gli altri trecento pazienti chiusi nel DSPD, inclusi quelli famosi come Robert Napper, l’uomo che aveva ucciso Rachel Nickell a Wimbledon Common, o Peter Sutcliffe, lo squartatore dello Yorkshire.


Il Regno Unito aveva cinque unità DSPD, quattro maschili e una femminile, a Durham. Quest’ultima si chiamava Primrose, quella di Tony invece Paddock.


Secondo la versione ufficiale gli psicopatici venivano sottoposti a cure (con terapie cognitivo-comportamentali e farmaci inibitori della libido – castrazioni chimiche – per gli psicopatici sessuali) ed educati a gestire la loro condizione, con la prospettiva un giorno di essere riammessi nel mondo trasformati in individui innocui e produttivi. Ma era opinione diffusa che tutto questo non fosse che uno stratagemma per tenerli rinchiusi a vita.


«Sono solo un imbroglio» mi aveva detto Brian quando avevamo pranzato la prima volta insieme, quasi due anni prima. «Dai ai prigionieri… scusa, ai “pazienti”… un po’ di terapia cognitivo-comportamentale. Descrivi qualche chiacchiera informale durante il pranzo tra un infermiere e un paziente come terapia: se il paziente partecipa alla conversazione, allora partecipa al trattamento. Lo stanno curando. In questo modo chiunque totalizzi un punteggio alto nella checklist di Hare può in buona sostanza trovarsi rinchiuso a vita».


La storia del DSPD iniziò un giorno d’estate del 1996. Lin Russell, con le sue due figlie, Megan e Josie, e il cane, Lucy, passeggiavano lungo una strada di campagna quando si accorsero di un uomo che le osservava dalla sua macchina. L’uomo scese e chiese dei soldi. Impugnava un martello.


Lin disse: «Non ho soldi con me, ma se vuole posso tornare un attimo a casa a prenderli».


Ma lui non ne volle sapere e iniziò a colpirle. Josie fu l’unica sopravvissuta. L’assassino si chiamava Michael Stone ed era un noto psicopatico con precedenti condanne. La legge però diceva che solo i pazienti con disturbi mentali considerati curabili potevano essere trattenuti oltre la scadenza della loro condanna definitiva.


Gli psicopatici erano considerati incurabili, ragione per cui Michael Stone doveva essere rimesso in libertà.


Dopo la condanna per l’assassinio della famiglia Russell, il governo decise di istituire una serie di centri di “cura” – disse Brian, facendo il gesto tipico delle virgolette con le dita – per gli psicopatici. Di lì a poco furono messe in piedi le unità DSPD e di fatto, nei dieci anni a venire, da quei posti non fu dimesso praticamente nessuno. Una volta diventato un paziente DSPD, il tuo destino era segnato.


«Ah, tra l’altro» mi stava dicendo al telefono Tony, «è da un po’ che voglio chiederti una cosa. Un favore…».


«Ah sì? Dimmi».


«Quando scriverai di me nel tuo libro, ti prego, usa il mio nome. Voglio dire, il mio vero nome. Lascia perdere quella scemenza di “Tony”. Usa il mio vero nome».


Il Paddock era una scialba e asettica fortezza moderna di un rilassante color pino, un’unità di sicurezza all’interno di un’unità di sicurezza. L’illuminazione volutamente abbagliante rendeva ogni ipotesi di ombra a dir poco improbabile. Le pareti erano giallo pastello, una tonalità talmente impalpabile che a malapena sembrava esistere. Lì dentro l’unico sprazzo di qualcosa che somigliasse a un vero colore era il rosso vivace dei tanti pulsanti antipanico. Erano disposti in fila lungo le pareti a intervalli regolari. In sottofondo il lungo, chiassoso soffio del riscaldamento centralizzato sembrava quasi un respiro.


Un sorvegliante mi fece accomodare su una sedia di plastica in un anonimo corridoio – simile a un corridoio del Travel Inn nuovo di zecca – in corrispondenza di un pulsante antipanico.


«Non si preoccupi» mi disse, nonostante non avessi aperto bocca, «i pazienti non hanno accesso a quest’ala».


«Dove sono i pazienti?» domandai.


Fece un cenno con la testa a indicare l’altro capo del corridoio. C’era una specie di stanza d’osservazione al di là della quale, dietro uno spesso vetro pulito, si trovavano due ampie e spoglie sezioni a pianta aperta. Al loro interno una manciata di uomini, gli psicopatici, si trascinavano mangiando cioccolatini e osservando le colline al di là delle finestre. Non troppo lontano, oltre la coltre di neve, si ergevano il castello di Windsor e l’ippodromo di Ascot.


La prima ora trascorse lentamente. Gli infermieri e i sorveglianti passavano a salutarmi e a chiedermi chi fossi. Io rispondevo che ero un amico di Tony.


«Oh, Tony…» disse un infermiere. «Lo conosco».


«E cosa ne pensa?».


«Ho un’opinione molto precisa su di lui» disse, «ma non sarebbe appropriato da parte mia parlargliene».


«La sua opinione su Tony è positiva o negativa?».


Mi guardò come a dire: “Amico, è inutile… non te lo dirò mai”.


Passò altro tempo ancora. Adesso nel corridoio eravamo in quattro: io, l’infermiere e due sorveglianti. Nessuno fiatava.


«Mi sento davvero un privilegiato a poter essere in questo edificio» dissi per rompere il silenzio.


«Sul serio?» dissero gli altri, con aria perplessa.


«Be’» continuai, «è un posto misterioso. Normalmente agli estranei non è permesso entrare».


«Abbiamo dei letti liberi, se le può interessare…» disse l’infermiere.


Poi, all’improvviso, intorno a noi tutto si animò. C’era gente che andava e veniva: avvocati, infermieri, psichiatri, giudici, sorveglianti… tutti sembravano avere una gran fretta, impegnati a telefonare e a riunirsi in conversazioni privatissime e appartatissime.


«È normale, questo trambusto?» chiesi a un sorvegliante.


«No» rispose lui, visibilmente sorpreso. Si mise dritto sulla sua sedia. «Non è normale affatto… Sta succedendo qualcosa».


«Qualcosa che ha a che vedere con Tony?».


«Non lo so» rispose. I suoi occhi guizzavano irrequieti su e giù per il corridoio; ma nessuno stava cercando il suo aiuto, qualunque fosse l’evento importante e imperdibile che stava accadendo, per cui si lasciò ricadere mollemente sullo schienale.


Un uomo si fermò per presentarsi. «Sono Anthony Maden» annunciò.


«Oooh… salve» dissi io. Nonostante ci fossimo scambiati email a intermittenza per due anni, questa era la prima volta che mi trovavo faccia a faccia con il medico di Tony, il responsabile di questa DSPD. Era più giovane di quanto mi aspettassi, un po’ più trasandato, più simpatico.


«È una mattinata carica di emozioni» disse.


«Per Tony?».


«Le prossime ore potrebbero essere decisive» disse, e poi fece per precipitarsi altrove.


«Ah, una cosa, dottor Maden» gli dissi ancora io. «Tony vuole che lo nomini nel mio libro. Vuole il suo nome vero».


Si fermò. «Ah…».


«Ma mettiamo che un giorno esca» continuai. «Cosa succederebbe se un potenziale datore di lavoro leggesse il libro? Gli sarebbe d’aiuto? Se il mondo scoprisse che ha trascorso metà della sua vita internato a Broadmoor, fianco a fianco a stupratori e serial killer, intendo…».


«In effetti…» disse Maden.


Abbassai la voce: «Ho paura che il motivo per cui vuole essere chiamato con il suo nome sia l’Item 2 della checklist di Hare: Egocentrico e grandioso».


Il suo volto si illuminò, come a dire: “Allora capisci!”.


«Esattamente» disse.


Un signore anziano di bell’aspetto si fermò. Indossava un completo di tweed con un cravattino. «E lei chi sarebbe?» mi chiese.


«Sono un giornalista. Mi sto occupando di Tony».


«Oh, è un caso molto interessante» disse. «Io sono uno dei giudici del tribunale speciale».


«Lo trovo interessante anch’io» dissi. «Il professor Maden è sempre stato un po’ confuso dal fatto che sia determinato a scrivere di Tony e non, che so, dello strangolatore di Stockwell o di qualcun altro. Ma lui è così interessante, vero? Così ambiguo».


Il giudice mi guardò, scuro in volto. «Lei non è di Scientology, vero?». Evidentemente capitava spesso di vedere membri del CCHR in tribunali come questo.


«No!» dissi. «No no no! No no! Per nulla. Assolutamente no. Ma i membri di Scientology sono stati i primi a farmi entrare qui a Broadmoor. Credo che uno di loro verrà. Un certo Brian».


«Quelli di Scientology sono davvero uno strano gruppetto».


«Sì, è vero, ma mi sono stati di grande aiuto, e non hanno… come dire, non hanno preteso niente di strano. Sono stati semplicemente gentili e disponibili senza chiedere niente in cambio. Lo so, sono sorpreso anch’io, ma cosa vuole che le dica?» dissi alzando le spalle. «È la verità».


(In realtà da poco me l’avevano chiesto, qualcosa in cambio. La BBC aveva in programma un documentario in cui li si attaccava, e loro mi scrissero un’email per invitarmi a prendere parte a un video di risposta, in cui testimoniavo quanto mi fossero stati d’aiuto negli ultimi due anni, da quando li avevo conosciuti. Rifiutai, e loro mi dissero subito che non c’era alcun problema.)


Arrivò Brian, tutto agitato e col fiato corto.


«Mi sono perso qualcosa?» mi chiese.


«Solo un sacco di movimenti misteriosi» risposi. «Qualcosa sta succedendo, ma nessuno dice di cosa si tratta».


«Mmmhhh…» disse Brian mentre si guardava intorno strizzando gli occhi.


E poi, tutto d’un tratto, uno sprazzo di colore, una maglietta bordeaux, e un rumore metallico clank clank clank.


«Ohi ohi!» fece la guardia. «Guarda chi arriva!».


Tony era cambiato. La prima volta che l’avevo incontrato portava i capelli corti; ora invece erano lunghi e lisci. Aveva messo su qualche chilo. Zoppicava su delle stampelle di metallo.


«Che ti è successo alla gamba?» gli chiese Brian.


«Mi hanno azzoppato» disse Tony. Si guardò intorno, poi sussurrò a me e a Brian, con un’espressione struggente sul volto: «Le guardie mi hanno riempito di botte».


«Cosa???» sussurrai a mia volta, allarmato.


Un lampo d’ira, del tutto comprensibile, attraversò il volto di Brian. I suoi occhi sfrecciavano da un capo all’altro del reparto alla ricerca di qualcuno con cui risolvere immediatamente la questione.


«Sto scherzando…» ridacchiò Tony. «Mi sono fatto male giocando a pallone».


Il momento era arrivato. Entrammo nell’aula del tribunale. L’udienza durò sì e no cinque minuti, compreso il tempo che i giudici dedicarono a spiegarmi che se avessi riportato i dettagli di ciò che avveniva all’interno dell’aula – chi ha detto cosa – sarei finito dritto in galera. Per cui non dirò nulla, se non la conclusione: di lì a poco Tony sarebbe tornato ad essere un uomo libero.


A guardarlo sembrava fosse stato appena preso in pieno da un autobus. Nel corridoio il suo avvocato, insieme a Brian e ad alcuni psichiatri che si erano schierati dalla sua parte, lo circondarono per congratularsi con lui. Ci sarebbero voluti tre mesi – per trovargli un letto per un periodo di transizione in un reparto di media sicurezza o per farlo uscire direttamente – ma non c’erano dubbi. Lui sorrise, zoppicò verso di me e mi diede una pila di documenti.


Erano rapporti scritti in vista dell’udienza speciale da vari psichiatri che erano stati invitati a valutarlo. Appresi così molte cose su Tony che fino a quel momento ignoravo: che sua madre era un’alcolizzata che regolarmente lo riempiva di botte e lo sbatteva fuori casa; che lo lasciava per strada giorni interi prima di concedergli di rientrare; che la maggior parte dei fidanzati di lei erano tossicodipendenti e criminali; che era stato espulso da scuola per aver minacciato la cuoca della mensa con un coltello; che fu spedito in vari collegi e scuole speciali, ma che era sempre scappato perché aveva nostalgia di casa e gli mancava sua madre.


Mi chiesi se a volte la differenza tra uno psicopatico di Broadmoor e uno psicopatico di Wall Street non si riducesse alla fortuna di essere nato in una famiglia piuttosto che in un’altra.


Tony si appartò in una stanza per firmare dei fogli insieme al suo legale. Io continuai a esaminare i documenti che mi aveva passato.


Estratti dagli appunti di Broadmoor sul caso


27 settembre 2009


In buona forma.


25 settembre 2009


Su di morale.


17 settembre 2009


Posato nell’umore e nel comportamento. Ha trascorso l’intero pomeriggio in compagnia, interagendo con lo staff e con gli altri pazienti.


5 settembre 2009


Ha mostrato ai membri dello staff un personaggio che aveva creato sulla X-Box. Era un personaggio femminile con la pelle scura, deliberatamente concepito per risultare ben poco attraente (i tratti del volto ricordavano quelli di uno zombie). Ha detto di essersi ispirato a un membro dello staff. L’incaricato con cui stava parlando gli ha detto che era scortese e inappropriato e gli ha chiesto diverse volte di cambiare il nome del personaggio. Lui si è rifiutato dicendo che la persona in questione avrebbe dovuto essere in grado di accettare lo scherzo. La creazione di questo personaggio non sembra esprimere una reale volontà di scherzare, ma è anzi da leggersi come una dimostrazione di antipatia e mancanza di rispetto nei suoi riguardi.


25 agosto 2009


Oggi pallavolo. Dopo ha interagito con gli altri pazienti e con lo staff in maniera appropriata.


Alla fine c’erano le conclusioni.


La questione riguarda esclusivamente la sua pericolosità. L’intelligenza non gli manca. In tutto questo tempo non ha mai sgarrato. Se una volta uscito commetterà un altro crimine si guadagnerà una IPP [una detenzione a tempo indefinito per ragioni di sicurezza pubblica] con una pena minima molto lunga. Questo è poco ma sicuro, e deve esserne informato, cosa che io ho dimenticato di fare. Personalmente consiglierei il rilascio incondizionato. Ritengo che le prove evidenzino che il suo disturbo mentale non è più consono, né per natura né per gravità, ad essere trattato in un ospedale psichiatrico. Non credo che abbia bisogno di essere rinchiuso nell’interesse della sua salute e della sua sicurezza, o per la protezione altrui. Non lo considero un individuo pericoloso.


«Il punto, Jon» disse Tony, «è che devi renderti conto del fatto che siamo tutti un po’ psicopatici. Lo sei tu, lo sono io. Be’… che io lo sia è piuttosto ovvio!».


«Cosa farai adesso?» indagai.


«Potrei trasferirmi in Belgio. C’è una donna che mi piace, lì, ma è sposata: devo farla divorziare».


«Be’, sai cosa si dice degli psicopatici, no?».


«Che sono bravi a manipolare gli altri» disse Tony.


L’infermiere che prima mi aveva parlato delle sue opinioni ben precise su Tony venne verso di me.


«Allora? Che ne pensa?» gli chiesi.


«È la decisione giusta» disse lui. «Tutti pensano che dovrebbe essere fuori, è una brava persona. Ha commesso un crimine orribile ed era giusto che venisse imprigionato per un lungo periodo, ma ha perso anni della sua vita qui a Broadmoor, e non se lo meritava».


«Davvero la pensano tutti così? Anche il professor Maden?».


Lo osservai in lontananza. Immaginavo di trovarlo deluso, o persino preoccupato: invece mi sembrava felicissimo. Gli andai incontro.


«Da quando ho partecipato a un corso di Bob Hare ho sempre avuto la ferma convinzione che gli psicopatici fossero dei mostri» gli dissi. «Sono soltanto degli psicopatici, è la loro caratteristica fondamentale. È quello che sono. Ma Tony non è forse una specie di semipsicopatico? Una zona grigia? La sua storia non ci insegna che le persone non dovrebbero necessariamente essere definite in base ai loro tratti più estremi?».


«Credo sia proprio così» rispose lui. «Personalmente non mi piace il modo in cui Bob Hare parla degli psicopatici... come se appartenessero a una specie diversa».


Tony ora era in piedi da solo, fissava il muro.


«In lui alcuni dei tratti più tipici degli psicopatici sono in effetti molto pronunciati» disse. «Per esempio, non si assume mai la responsabilità delle proprie azioni: dà sempre la colpa a qualcun altro. Ma non è un individuo realmente pericoloso: in particolari circostanze potrà anche essere un attaccabrighe, ma non è determinato a far del male così, per il gusto di farlo. In generale non si può mai ridurre una persona a un’etichetta diagnostica. Tony ha molte qualità positive, se riesci ad andare oltre quell’etichetta». Alzai lo sguardo verso Tony. Per un attimo mi sembrò che stesse piangendo, ma se ne stava semplicemente lì impalato.


«Anche lasciando da parte quelle critiche al lavoro di Bob Hare» stava proseguendo il dottor Maden, «è ovvio, esaminando la sua checklist, che per ottenere un punteggio alto basta essere impulsivi, irresponsabili, o pianificare con freddezza di fare qualcosa. Quindi persone molto diverse finiscono col totalizzare lo stesso punteggio». Poi aggiunse: «Bisogna stare attenti alle qualità positive di Tony, però. Molte persone con personalità seriamente compromesse hanno carisma o qualche altra caratteristica intrigante che fa da calamita per gli altri».


«Che fine farà, secondo lei?».


«Il suo destino è nelle sue mani».


Presto si scoprì che il destino di Tony non era affatto nelle sue mani. Fu sì rilasciato da Broadmoor il 1° aprile 2010, ma quando mi chiamò il giugno successivo mi disse: «Sono passato dalla padella alla brace. Mi hanno spedito a Bethlem, Jon, meglio conosciuto come Bedlam, e non sembrano per niente intenzionati a farmi uscire». Bedlam: un istituto con una storia così terrificante che il suo nome è sinonimo di caos e pandemonio.


«Quando dico dalla padella alla brace intendo proprio quello» continuò Tony. «L’altra notte qualcuno ha cercato di dare fuoco al reparto».


«Come passi le tue giornate?».


«Me ne sto seduto a fare un cazzo» rispose. «Ingrasso mangiando takeaway».


«E come sono i tuoi nuovi vicini?» indagai. «Non saranno di nuovo stupratori e serial killer, spero».


«Sono molto peggio. Ci sono dei veri casi clinici, qui dentro».


«Tipo?».


«Tony Ferrera. Cercalo su internet, vedrai che soggettino. Viveva in un covo di tossici, e un giorno mentre era fuori a fare due passi ha visto una donna. L’ha violentata, l’ha accoltellata e le ha dato fuoco. È qui dentro. E poi c’è Mark Gingell, pluristupratore e quant’altro».


«Non ce n’è neanche uno con cui non ti dispiaccia troppo passare del tempo?».


«No».


«Hai paura?».


«Certo che ho paura. Se non hai paura di questi tipi qui, allora hai davvero qualcosa che non va».


«Oh, a proposito, volevo raccontarti della mia giornata con Toto Constant. Un tempo era a capo di uno squadrone della morte ad Haiti; ora è in prigione per frode ipotecaria. Quando l’ho incontrato continuava a dire che per lui era importantissimo piacere agli altri, che era molto sensibile ai sentimenti che la gente provava nei suoi confronti. E io ho pensato che non fosse molto da psicopatico».


«Giusto» disse Tony, «a me sembra solo molto triste».


«E poi alla fine gli ho chiesto: “Non è una debolezza voler piacere agli altri così tanto?”. E lui ha risposto: “No, affatto! Se piaci alle persone puoi manipolarle per far sì che facciano quello che vuoi tu”».


«Gesù!» disse Tony. «Quello è veramente andato… Non ci avevo neanche pensato! Giuro su Dio, non mi è mai passato neanche per l’anticamera del cervello».


A inizio gennaio 2011, non molto tempo dopo avermi mandato un sms per Natale («Gli amici sono i pasticcini della vita: alcuni mal riusciti, alcuni affogati nell’alcool, alcuni dolci») Tony fu dimesso da Bethlem.


Credo che il business della follia sia pieno di persone come Tony, definite ormai solo più dai loro tratti più folli. Alcune, come Tony, sono rinchiuse in reparti DSPD per aver raggiunto un punteggio troppo alto nella checklist di Bob. Altre sono in televisione in prima serata, con i loro tratti noiosi, ordinari e non folli sapientemente tagliati, a ricordarci tutto ciò che non dovremmo essere. Ovviamente ci sono molte persone malate, là fuori, ma ci sono anche persone né normali né malate, che abitano una zona grigia e alle quali appiccichiamo etichette che vengono ridotte a nulla più di una grande esibizione di follia a uso e consumo di chi da questo trarrà un qualche beneficio.


Bob Hare era di passaggio a Heathrow, così ci incontrammo un’ultima volta.


«Il tizio che andavo a trovare a Broadmoor…» gli dissi, mentre giravo il mio caffè, «Tony… è appena stato rilasciato».


«Poveri noi» disse Bob.


Lo guardai.


«Be’, è andato a Bethlem» dissi, «ma sono sicuro che presto sarà libero davvero». E poi: «Il suo medico era critico nei tuoi confronti: diceva che parli degli psicopatici come se appartenessero a un’altra specie».


«Assolutamente no: tutte le ricerche dimostrano che non sono una specie a sé» disse Bob. «Non esistono prove a supporto dell’ipotesi che appartengano a una specie diversa, quindi è male informato. Dovrebbe tenersi al passo con la letteratura scientifica».


«Lui si riferiva al modo in cui parli degli psicopatici».


«Ah, ok» disse Bob, con freddezza. «Ho capito».


«Intendeva questo» dissi.


«Si tratta semplicemente di una comodità» spiegò Bob. «Nulla più. Se parliamo di qualcuno che soffre di pressione alta diciamo che è un iperteso, no? È un termine, solo una parola. Questo tizio non capisce questo concetto. Dire “psicopatico” è come dire “iperteso”. Certo, potrei dire “è una persona che totalizza o supera un determinato punteggio nella Psycopathy Checklist Revised”. Ma ti rendi conto? Sarebbe assurdo, per cui mi riferisco a loro come psicopatici, e questo è quello che intendo quando parlo di psicopatia: intendo un punteggio che si collochi nella parte più alta della PCL-R. Non saprei dire con esattezza quanto deve essere alto. Trenta è la convenzione che adottiamo ai fini delle nostre ricerche, ma non è un parametro assoluto».


Bob parlava senza scomporsi. «Su questa questione sono al riparo da ogni sospetto». Seguì un breve silenzio. «Il mio istinto, però, giù nel profondo, mi dice che potrebbero davvero essere diversi». aggiunse. «Ma quello non siamo ancora riusciti a stabilirlo».


«Credo che il mio tizio di Broadmoor sia un semipsicopatico» dissi.


Bob si strinse nelle spalle. Non conosceva Tony.


«Per cui mi chiedo… dovremmo definirlo in base ai suoi tratti da psicopatico o a quelli da persona cosiddetta normale?».


«Vedi, quelli che dicono questo genere di cose» rispose Bob, «e non uso il termine in senso peggiorativo, credimi… sono accademici con spiccate tendenze di sinistra, a cui non piacciono le etichette e che si parli di differenze tra le persone. C’è chi dice che definisco gli psicopatici in termini peggiorativi. Ok, cos’altro dovrei fare? Parlare delle cose buone? Potrei dire che hanno il dono dell’eloquenza, sono degli ottimi baciatori, ballano da dio, si comportano bene a tavola; ma al tempo stesso ne combinano una dietro l’altra e fanno a pezzi la gente. Secondo te cosa dovrei enfatizzare?».


Bob rise, e io con lui.


«Chiedi a una vittima di guardare agli aspetti positivi, e ti dirà: “Non posso… sai, i miei occhi sono troppo gonfi per via delle botte”» mi disse Bob.


Certo, proseguì Bob, le esagerazioni nelle diagnosi esistono eccome, ma è un atteggiamento perpetrato dalle industrie farmaceutiche. «Vedrai cosa succederà quando svilupperanno un farmaco per la psicopatia. L’asticella si abbasserà, arriverà a venticinque, a venti…».


«Da quando ho deciso di dedicarmi allo smascheramento degli psicopatici credo di aver subito una specie di ubriacatura di potere» dissi. «E credo che l’ubriacatura sia arrivata dopo aver seguito il tuo corso».


«La conoscenza è potere» disse Bob.


Mi lanciò un’occhiata pungente. «Perché questa ubriacatura di potere non ha colpito anche me, accidenti?».


Qualche settimana più tardi arrivò un pacco. Recava il timbro postale di Göteborg, Svezia. In un angolo in alto qualcuno aveva scritto: «La giornata di oggi segna i ventun anni dall’Evento. Ora è tutto nelle nostre mani!».


Rimasi immobile a guardarlo. Poi lo aprii con uno strappo. All’interno c’era una copia di L’essere o il nulla. La rigirai tra le mani, ammirato dalla sua strana e semplice bellezza, i buchi ritagliati a pagina 13, le parole, i motivi e i disegni criptici, le ventun pagine bianche.


Fui sorpreso dal trovarmi incluso tra i destinatari del libro, ma a dire il vero un po’ me lo aspettavo. Petter Nordlund mi aveva mandato un’email qualche giorno prima per dirmi che presto avrei ricevuto qualcosa via posta, e che al suo interno ci sarebbe stato un messaggio per me. Forse non sarei stato in grado di capirlo subito, ma era un messaggio importante e non mi sarei dovuto dare per vinto. Magari avrei potuto farmi dare una mano da qualche collega.


«Mi ci sono voluti diciott’anni per capire come mettere in atto la fase numero 1» scrisse. «Quindi sii paziente, alla fine capirai come procedere. Da domani non potrò più comunicare con te. È un peccato, ma è così che deve andare questa cosa».


«Se ti invierò un’email a partire da domani non riceverò risposta?» scrissi io.


«Puoi inviarmela, ma io non potrò rispondere» disse. «Molto semplicemente, è così che deve andare».


Insomma, avevo un giorno di tempo per sparare tutte le domande che potevo. Iniziai col chiedergli perché nel libro ogni pagina fosse intervallata da una pagina bianca.


«Mi sorprende che tu sia il primo a fare un commento a questo proposito, ma chiaramente non è una coincidenza» rispose. «Ventun pagine con del testo e ventun pagine senza equivale a dire quarantadue pagine (essere e nulla). Mi sembra piuttosto ovvio, no?».


«Tutto quell’intricato lavoro manuale… i ritagli accurati delle lettere a pagina 13 e così via… hai fatto tutto da solo o qualcuno ti ha aiutato?».


«Faccio tutto da me: i ritagli, le etichette, la lettera al professor Hofstadter» rispose. «Davvero una noia…».


«E che mi dici dei destinatari? Perché la scelta è ricaduta su di loro? Qual è stato il ragionamento a monte?».


A quest’ultima email non rispose subito. Io aspettavo impalato con la schermata della posta in entrata aperta. Poi arrivò: «Un po’ di mistero deve rimanere» scrisse. E con questo sembrò ritrarsi di nuovo, quasi preoccupato dal suo accidentale candore.


«Non posso dirti altro» scrisse. «Quando riceverai il messaggio dovrai soltanto seguire il tuo cuore. E per quanto riguarda le istruzioni… be’, arriveranno, lascia che gli eventi seguano il loro corso. Ora sei tu il prescelto, non io. Sei una brava persona, Jon, e sono sicuro che farai la cosa giusta. Qualunque essa sia».


In sottofondo si sentiva la tv. Stavano trasmettendo un programma su Lindsay Lohan, su come «fosse andata “fuori” in stile Britney».


Ora sei tu il prescelto, non io. Sei una brava persona, Jon, e sono sicuro che farai la cosa giusta. Qualunque essa sia.


Senza fermarmi a riflettere gli scrissi un’email di scuse, in cui confessavo che la prima volta che lo avevo incontrato, a Göteborg, quando l’avevo preso d’assedio per strappargli un’intervista, lo avevo liquidato sbrigativamente come eccentrico e ossessivo. Lo avevo sminuito, in quel modo. Ma ora mi rendevo conto che erano proprio le sue eccentricità e le sue ossessioni ad averlo portato a produrre e distribuire un libro così strano come L’essere o il nulla.


Non esiste prova che siamo stati messi su questo pianeta per essere particolarmente “felici” o “normali”. Anzi, l’infelicità, le stranezze, le ansie e le compulsioni, tutti quegli aspetti meno cool delle nostre personalità, sono molto spesso ciò che ci porta a fare le cose più interessanti.

Petter mi scrisse ancora un’email: «Posso essere un po’ ossessivo, sì, lo ammetto…».

E poi, come aveva promesso, chiuse tutti i contatti.

Stavo rigirando ancora una volta il libro tra le mani quando cadde qualcosa. Era una busta con sopra il mio nome e un minuscolo adesivo a forma di delfino.

La aprii stracciandola, eccitato e sorpreso. Conteneva un biglietto: il disegno di una farfalla e di un iris blu. Scritto a mano, al suo interno, c’era il messaggio. Erano soltanto due parole: «Buona fortuna!».

Note, fonti, bibliografia, ringraziamenti

Immagino che essere i miei primi lettori possa rivelarsi un’esperienza a dir poco stressante, dal momento che ho la tendenza a consegnare il manoscritto e poi starmene lì muto a trasudare un misto di sfida e disperazione. Per questo motivo mia moglie Elaine, William Fiennes, Emma Kennedy e Derek Johns e Christine Glover della AP Watt si meritano il mio ringraziamento più grande.


Quattro o cinque pagine del capitolo La notte dei morti viventi erano decisamente noiose, e avevo bisogno che qualcuno me lo dicesse senza tanti giri di parole. Ben Goldacre è stato felice di farlo, forse persino troppo. Adam Curtis e Rebecca Watson sono stati degli ottimi ascoltatori, intelligenti e brillanti, e lo stesso vale per i miei editor Geoff Kloske di Riverhead e Paul Baggaley di Picador, nonché Camilla Elworthy e Kris Doyle.


Sono molto grato a Lucy Greenwell per avermi aiutato con le ricerche e con l’organizzazione del viaggio a Göteborg, in Svezia.


Ho registrato una prima versione di L’uomo che fingeva di essere pazzo per il programma This American Life della Chicago Public Radio. Grazie, come sempre, a Sarah Koenig, Ira Glass e Julie Snyder.


Le mie ricerche su Harry Bailey e la “terapia del sonno profondo” sono partite da Medical Murder: Disturbing Cases of Doctors who Kill, di Robert M. Caplan (Allen and Unwin, 2009).


Le informazioni sulla vita e sulla morte di L. Ron Hubbard provengono dai video di Scientology e dal documentario di Channel 4 del 1997 Secret Lives: L. Ron Hubbard, prodotto e diretto da Jill Robinson e 3MB films.


È stato divertente ricostruire la storia di Elliott Barker e Oak Ridge. Le ricerche sull’odissea del dottor Barker mi hanno portato a R. D. Laing: A Life, scritta da suo figlio, Adrian Laing (Sutton Publishing, 1994-2006); Baring the Soul: Paul Bindrim, Abraham Maslow and “Nude Psychotherapy, di Ian Nicholson (“Journal of the History of the Behavioral Sciences”, Wiley Periodicals, Inc., vol. 43 (4), inverno 2007); e Please Touch, di Jane Howard (McGraw-Hill, 1970).


Sono venuto a conoscenza dell’esperimento di Oak Ridge leggendo An Evaluation of a Maximum Security Therapeutic Community for Psychopaths and Other Mentally Disordered Offenders, di Marnie E. Rice, Grant T. Harris e Catherine A. Cormier (Plenum Publishing, 1992), Reflections on the Oak Ridge Experiment with Mentally Disordered Offenders, 1965-1968, di Richard Weisman (“International Journal of Law and Psychiatry”, vol. 18, 1995), The Total Encounter Capsule, di Elliot T. Barker e Alan J. McLaughlin (Canadian Psychiatric Association, 1977), e Total Encounters: The Life and Times of the Mental Health Centre at Penetanguishene, di Robert F. Neilson (McMaster University Press, 2000). Grazie a Catherine Cormier e Pat Reid di Oak Ridge e a Joel Rochon.


Il capitolo su Bob Hare ha preso forma attraverso vari incontri con lui e la lettura dei suoi libri: La psicopatia. Valutazione diagnostica e ricerca empirica (Astrolabio, 2009, a cura di Vincenzo Caretti e Adriano Schimmenti, traduzione di Giovanni Baldaccini; ed. orig. Without Conscience: The Disturbing World of the Psychopaths Among Us, 1999) e Snakes in Suits: When Psychopaths Go to Work (Harper, 2007), scritto insieme a Paul Babiak. L’aneddoto su Nicole Kidman che Bob racconta è tratto dall’articolo Psychopaths Among Us, di Robert Hercz, 2001.


Le mie informazioni sulla storia di Jack Abbott e Norman Mailer arrivano da The Strange Case of the Writer and the Criminal, di Michico Kakutani (“New York Times Book Review”, 20 settembre 1981) e Nel ventre della bestia, di Jack Henry Abbott, con un’introduzione di Norman Mailer (Mondadori, 1982, traduzione di Ettore Capriolo; ed. orig. In the Belly of the Beast, 1991).


Ho potuto esplorare più da vicino i crimini di Emmanuel “Toto” Constant attraverso la lettura di Giving “The Devil” his Due, di David Grann (“Atlantic”, giugno 2001).


Grazie a Ben Blair e Alan Hayling per il loro aiuto nel capitolo La notte dei morti viventi, e a John Byrne per il suo libro Chainsaw: The Notorious Career of Al Dunlap in the Era of Profit at Any Price (Harper Business, 1999) e per le sue inchieste su Al Dunlap per le riviste “Business Week” e “Fast Company”.


La mia volontà di comprendere il rapporto tra la spietatezza delle ristrutturazioni aziendali di Al Dunlap e l’incredibile impennata del prezzo delle azioni di Sunbeam mi ha condotto a Michael Shermer, Joel Dimmock, Paul Zak e Ali Arik. Grazie a tutti loro.


Grazie a Laura Parfitt e Simon Jacobs, produttori della mia serie su Radio BBC 4 Jon Ronson On…, per avermi aiutato con la storia di David Shayler, e a Merope Mills e Liese Spencer di “Guardian Weekend” per avermi aiutato con quella di Paul Britton. Il disastroso incidente di Colin Stagg e Paul Britton è stato trattato in maniera molto interessante in tre libri: The Rachel Files, di Keith Pedder (Blake Publishing, 2002), The Jigsaw Man, di Paul Britton (Corgi Books, 1998) e Who Really Killed Rachel?, di Colin Stagg e David Kessler (Greenzone Publishing, 1999).


Le ricerche sul DSM-IV per il capitolo L’evitabile morte di Rebecca Riley mi hanno fatto scoprire quattro utilissime fonti: Dictionary of Disorder: How One Man Revolutionized Psychiatry, di Alix Spiegel (“The New Yorker”, 3 gennaio 2005), The Trap, di Adam Curtis (BBC Television), The Encyclopedia of Insanity – A Psychiatric Handbook Lists a Madness for Everyone, di L.J. Davis (“Harpers Magazine”, febbraio 1997) e Pediatric Bipolar Disorder: An Object of Study in the Creation of an Illness, di David Healy e Joanna Le Noury (North Wales Department of Psychological Medicine, Cardiff University, Bangor, 2007).


Grazie ad Alistair Stevenson per avermi fornito una bellissima battuta che riassumeva ciò che provavo nei confronti di chi è schiavo dei propri ideologismi, e che, accecato dall’amore per la polemica e dalla sfiducia nella psichiatria, non riesce a vedere la sofferenza reale di chi mostra sintomi inusuali di disagio mentale.