mercoledì 9 aprile 2025

GLI APPRENDISTI STREGONI DELLA SILICON VALLEY E IL CROLLO DELLE BORSE Alessandra Libutti

 


GLI APPRENDISTI STREGONI DELLA SILICON VALLEY E IL CROLLO DELLE BORSE  

Alessandra Libutti

Be careful what you wish for, dice un vecchio adagio inglese: attento a ciò che desideri, potrebbe avverarsi. I lord della Silicon Valley avevano sognato il paradiso dell’anarchia economica: niente Stato, niente tasse, niente dazi. Solo algoritmi e profitti. Hanno riversato milioni di dollari per spianare la strada a un presidente che avrebbe dovuto rimuovere i freni della burocrazia. Invece ora si risvegliano nel pieno di un incubo. Hanno creato un mostro che non sanno più come controllare. La parabola perfetta di questa tragica ironia.

Domenica, lo scontro frontale tra Musk e Peter Navarro ha reso pubblica la spaccatura. Il giorno prima, Trump aveva già strapazzato Musk (poi negando). Che se ne torni a fare auto era la sostanza. Un modo nemmeno tanto velato per zittire le promesse fatte da Musk a Salvini di mantenere a zero i dazi sull’Unione Europea. Un messaggio mirato a rendere chiaro che non sarà lui a dettare la linea.

Ma non è solo la Silicon Valley a sudare freddo. Anche i fedelissimi di Trump, da Ted Cruz a Rand Paul, fiutano l’odore del disastro e provano a prendere le distanze dalla follia dei dazi, terrorizzati dall’impatto sulle urne. Intanto, le frange più estreme del trumpismo avanzano. I QAnon, con Laura Loomer in testa, si spingono fin dentro lo Studio Ovale, recitando la lista dei nemici da far fuori. La Heritage Foundation incalza per accelerare il famigerato Project 2025. Gli evangelici reclamano la loro fetta di potere. E poi ci sono i soliti emissari in odore di Mosca. Ognuno tira Trump dalla propria parte.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una Casa Bianca schizofrenica, dilaniata da spinte opposte e priva di rotta, che ricorda fin troppo da vicino la tragica farsa dei Tories britannici. Quattro anni di pugnalate interne e rese dei conti infinite, che hanno finito per mandare in malora un intero Paese. La storia si ripete.

Ma ora è Wall Street a rompere il silenzio. La frustrazione è esplosa con la lettera aperta a Trump di Shay Boloor, guru degli investimenti e voce ascoltata nel podcast Pounding the Table.

“La parte frustrante è che ero favorevole a un reset” ha scritto su Twitter. “…Per decenni, l’economia statunitense ha recitato la parte del ricco al tavolo, pagando il conto di un ordine globale che ormai non funzionava più a nostro favore. Abbiamo svuotato la nostra base industriale. Abbiamo favorito squilibri commerciali ingiusti sotto l’illusione della diplomazia. Abbiamo sovvenzionato la domanda di importazioni a basso costo… Prima o poi, tutto questo doveva finire. Era insostenibile — finanziariamente, politicamente, moralmente. Non potevamo continuare a illuderci che un’economia trainata dai consumi, tenuta insieme da tassi d’interesse a zero e da una fragilità globale, fosse una soluzione a lungo termine. Volevo un riequilibrio. Accoglievo con favore l’idea di una politica America-first più dura e intelligente, che spingesse per un trattamento equo, accordi reciproci e una vera strategia industriale fondata sulla superiorità tecnologica, la sicurezza nazionale e la formazione del capitale. Quella sarebbe stata leadership. Ma questo non è nulla di tutto ciò. Quello che hai messo in campo non è una disintossicazione — è un colpo di frusta. Non è un disaccoppiamento strategico. È una rappresaglia casuale travestita da riforma. Non c’è una tabella di marcia. Nessun piano operativo. Nessuna chiara indicazione di dove si voglia arrivare o di quali siano i parametri di successo. Non è un tentativo responsabile di ridimensionare il ruolo degli Stati Uniti come ammortizzatore globale — è un tentativo brutale di distruggere il sistema esistente senza un’alternativa…”

Anche Bill Ackman, titano di Pershing Square e OpenAI, è esploso. Ha avvertito che i dazi generalizzati sono un errore catastrofico. Su Twitter non ha risparmiato stoccate: “Chi consiglia questa strategia al presidente dovrebbe essere licenziato all’istante.” E poi l’affondo letale: ha accusato il Segretario al Commercio Lutnick di avere un conflitto d’interesse insanabile “Lui e Cantor hanno obbligazioni lunghe. Lui guadagna quando la nostra economia implode… Se non ve ne siete accorti”, ha aggiunto, “io dico la verità. Sempre.”

Ackman, ex finanziatore di politici democratici come Cory Booker — l’uomo del celebre filibuster da oltre 25 ore — aveva inizialmente mantenuto un profilo da moderato: un miliardario ragionevole, un democratico anti-woke, mai trumpiano. Eppure, il magnetismo di Elon Musk e l’ecosistema di Twitter hanno fatto il resto. Invitato più volte negli Space di Musk, Ackman ha iniziato a muoversi sempre più dentro l’orbita populista. All’inizio sembrava curiosità intellettuale, forse persino strategia di dialogo. Poi la deriva si è fatta rapida e profonda.

Nel giro di pochi mesi, la sua narrazione si è trasformata: da critico esterno, attento a non mischiare la finanza con le pulsioni estremiste, a entusiasta promotore della linea dura di Trump, fino a lambire territori che, solo qualche tempo prima, sarebbero sembrati a lui stesso inaccettabili. Le invettive contro il globalismo, gli attacchi diretti alle istituzioni considerate bastioni del liberalismo: tutto si è accelerato, come se il clima di esaltazione collettiva degli Space avesse abbattuto ogni barriera. Trascinato dall’effetto echo chamber e dal fascino spietato dell’estetica anti-establishment, Ackman è salito sul carro di Musk e Trump, ritrovandosi ben presto a spingere con foga quello stesso carro verso un precipizio.

Ma oggi, Ackman si ritrova a rimpiangere amaramente quell’avvicinamento. Sedotto dall’idea di un grande reset economico, ora osserva il caos innescato da Trump come un errore catastrofico. “Gli affari sono un gioco di fiducia,” ha scritto su Twitter, “e il presidente sta perdendo la fiducia dei leader aziendali in tutto il mondo… Non è questo che abbiamo votato.”

Ma è nel corso della giornata di lunedì che la sua comunicazione ha preso una piega quasi schizofrenica. I tweet di Ackman sono diventati un’altalena di accuse, ritrattazioni e nuovi affondi, a testimonianza di uno stato d’animo visibilmente agitato. Dopo aver sferrato un attacco diretto al Segretario al Commercio Lutnick, accusandolo di conflitto d’interessi e di trarre profitto dal collasso dei mercati, Ackman, resosi conto della gravità della dichiarazione, ha provato a correggere il tiro con un tweet più cauto, quasi una retromarcia imbarazzata. Ma è durato poco.

Nel giro di poche ore, ha ripreso la carica, tornando all’attacco con rinnovato vigore contro la politica dei dazi e contro chi, a suo dire, sta consigliando il presidente lungo un sentiero autodistruttivo. È stato un crescendo disordinato, sintomo non solo di frustrazione, ma anche del senso di impotenza di chi si rende conto troppo tardi di essere rimasto intrappolato nel meccanismo che aveva contribuito ad alimentare. 

È stata una giornata di caos, dentro e fuori dai mercati, amplificata dai social, alimentata dal panico e dai tentativi scoordinati di diversi Paesi di spegnere l’incendio, implorando gli Stati Uniti di tornare al tavolo delle trattative. Qualcuno cercherà di leggerci una vittoria, magari perfino di celebrarla come prova della brillante strategia di Trump. Ma non c’è nessuna vittoria in una borsa che crolla a picco, nei miliardi bruciati dai fondi pensione della gente comune, nelle piccole imprese che soccomberanno sotto il peso dei dazi, o in quelle che non resisteranno alla tempesta finanziaria scatenata da una politica improvvisata e rabbiosa. Ogni azienda che chiude si porta dietro posti di lavoro cancellati, vite stravolte. E l’effetto domino del 2008 è lì a ricordarci che, in certe crisi, gli unici a sorridere sono gli hedge fund, gli speculatori dello short selling, chi punta al ribasso e poi raccoglie i resti a prezzi scontati. 

E in mezzo a queste rovine fumanti, in questo panorama di incertezza e miliardi andati in fumo, chi mai dovrebbe investire nelle tanto sbandierate industrie manifatturiere americane? Le fabbriche non nascono dal nulla: servono capitali, competenze, una filiera che si costruisce nel tempo. Ma in un Paese che da decenni ha abbandonato certe pratiche industriali, questo significa inevitabilmente dover importare tecnici e manodopera qualificata, facendo ricorso proprio a quella immigrazione che la retorica populista non smette di demonizzare. È un paradosso grottesco. E anche ammesso che, per miracolo, si trovassero oggi investitori pronti a rischiare — investitori che stanno già vedendo i loro capitali prosciugarsi — ci vorrebbero comunque anni per mettere in piedi una produzione locale. E a quale costo? Dieci volte superiore rispetto alle importazioni, in un’economia impoverita, in cui difficilmente esisterebbe un mercato per acquistare prodotti così cari.

È il cortocircuito perfetto di una strategia che ha bruciato il futuro prima ancora di iniziare a costruirlo. O forse, verrebbe da pensare, senza neanche essersi mai posta davvero il problema. Perché questa è l’essenza stessa del populismo: cavalcare la rabbia del presente senza preoccuparsi delle conseguenze, alimentare promesse impossibili senza un piano per realizzarle. Il populismo funziona nell’immediato, vive di slogan, di risposte facili a problemi complessi, ma si scontra puntualmente con la realtà quando si tratta di trasformare la rabbia in costruzione, il consenso in progettualità.

Il populismo è il tramonto della democrazia, la devastazione di una società che si autocannibalizza, è il deserto del pensiero razionale, dove le illusioni crescono solo per bruciare al primo sole della realtà. È la terra sterile della post-verità, che promette raccolti miracolosi ma non produce altro che macerie.