IL TRADIMENTO DEI CHIERICI
Di Julien Benda
Recensione di Michele Magno
È trascorso quasi un secolo dalla pubblicazione del pamphlet di Julien Benda “Il tradimento dei chierici” (1927). Il filosofo francese allora denunciava l’asservimento dell’intellettuale agli interessi dei ceti dominanti -e dei loro rappresentanti politici- per preservarne l’immagine di custode dei valori di verità e giustizia.
Benda polemizza aspramente contro le passioni nazionalistiche del suo tempo, e ne attribuisce la primogenitura agli intellettuali tedeschi a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Solo in alcune circostanze speciali, qui il riferimento all’affaire Dreyfus è esplicito, all’intellettuale è permesso di entrare nell’arena politica senza tradire la propria funzione. In generale, però, per lui il modo corretto di agire per il “chierico” nel mondo moderno era quello di protestare verbalmente e di bere la cicuta quando lo stato lo ordina.
Questa tesi viene avversata da Paul Nizan, un giovane romanziere comunista che nel 1931 pubblica un testo che lo renderà famoso, “Aden Arabie”, cui segue l’anno successivo “Les chiens de garde”, la sua risposta a Benda. Quella di Nizan è in qualche modo la prima coerente formulazione di una teoria dell’impegno degli intellettuali. Per il ventisettenne scrittore di Tours, rifarsi agli eterni valori di verità e giustizia senza parlare di colonialismo,guerra, industrializzazione, disoccupazione, cioè di tutti i problemi che assillano la maggioranza degli abitanti del pianeta, era solo un tentativo di oscurare le miserie della realtà contemporanea. Occorreva schierarsi: con gli oppressi o contro. Rovesciando il discorso di Benda, per lui i “cani da guardia” erano gli intellettuali che si rifiutavano di sporcarsi le mani e di prendere posizione contro i privilegi e le malefatte della borghesia.
Attorno alla metà degli anni Trenta, il tema dell’impegno degli intellettuali è al centro di una serie di appuntamenti di rilievo internazionale. Nel settembre 1934 si svolge il primo congresso degli scrittori sovietici, cui partecipano -tra gli altri- i francesi André Malraux e Louis Aragon insieme allo stesso Nizan, lo spagnolo Rafael Alberti, l’americano Mike Gould, anche se le relazioni principali vengono tenute da due dei massimi dirigenti del Pcus: Nikolaj Bucharin e Andrej Zdanov, uno sulla via di un drammatico tramonto e l’altro in inarrestabile ascesa.
E ’però il congresso che si apre a Parigi il 21 giugno 1935, dedicato alla “difesa della cultura” di fronte all’avanzata del nazifascismo in Europa, a divenire il simbolo stesso di quel “engagement” che diventerà il mantra di Jean Paul Sartre. Mancano i simpatizzanti del trockismo e personalità di orientamento conservatore,come François Mauriac o Henry de Montherlant. L’insieme dei presenti, tuttavia, costituiva un’assemblea di grande prestigio. È André Gide, convertitosi da poco al comunismo e destinato ad abbandonarlo clamorosamente qualche anno dopo, a inaugurare le assise.
Benda, che negli anni successivi indosserà i panni di intransigente avvocato della fase più tragica dello stalinismo, sostiene che il comunismo è inconciliabile con la civiltà occidentale. Nizan lo contesta duramente. Solo Robert Musil chiede di potersi “sottrarre alle pretese” della politica, invitando i colleghi a imparare la “nobile arte femminile del non concedersi”. Il drammaturgo austriaco, autore di una delle pietre miliari della letteratura, “L’uomo senza qualità”, invita inoltre alla libertà, intendendo con essa un’idea psicologica, l’audacia, l’irrequietezza dello spirito, il piacere della ricerca, la schiettezza e il senso di responsabilità, perché “nessuna cultura può fondarsi su un rapporto obliquo con la verità”
La questione della verità viene ripresa con coraggio leonino (in quel contesto) da Gaetano Salvemini, allora professore a Harvard. È lui a sollevare il “caso Serge, suscitando un forte imbarazzo nella platea. Al termine del suo intervento, tra lo scandalo e la riprovazione di chi lo ascoltava, l’illustre antifascista italiano afferma: “Non mi sentirei in diritto di protestare contro la Gestapo e l’Ovra fascista se mi sforzassi di dimenticare che esiste una polizia politica sovietica. In Germania vi sono campi di concentramento, in Italia vi sono isole adibite a luoghi di pena, e nella Russia sovietica vi è la Siberia […]. È in Russia che Victor Serge [seguace di Lev Trockij, accusato di attività antisovietiche] è prigioniero […]. Si può capire la necessità dell’attuale stato totalitario russo a condizione che ci si auguri la sua evoluzione verso forme più libere, ma bisogna dirlo e non si può celebrarlo come l’ideale della libertà umana”.
Allora il mito dell’Urss era la foglia di fico di una fede rivoluzionaria che occultava sistematicamente la realtà, ovvero quella di una magniloquente utopia di emancipazione del lavoro che si stava tramutando nel suo più asfissiante e burocratico apparato coercitivo. L’intellettualità che aveva fatto proprio il vocabolario del marxismo-leninismo ebbe un nuovo periodo di gloria tra la fine del Secondo conflitto mondiale e il crollo dell’impero sovietico, cioè durante le imponenti mobilitazioni per il disarmo nucleare e contro l’invasione del Vietnam. Dopo, la fiducia nell’ineluttabile alba del “sol dell’avvenire” ha ceduto il passo alla vibrante denuncia di un capitalismo disumano e di una globalizzazione sregolata.
Una denuncia che spesso è slittata in una critica senza appello del liberalismo e del regime parlamentare. Ad essa si può reagire, parafrasando il titolo di un celebre libro di Albert O. Hirschmann (“Lealtà, defezione, protesta, 1982), denunciandone la fallacia o disinteressandone. C’è però anche una terza possibilità: il silenzio. A ben guardare, il silenzio -per codardia o per convenienza- è la massima espressione di lealtà verso chi li considera ormai destinati a un irreversibile declino, teorizzato apertamente dal totalitarismo di Putin, perseguito per vie traverse dal “bonapartismo” di Trump.
IL TRADIMENTO DEI CHIERICI
Pubblicato nel 1927, questo famoso pamphlet di Julien Benda (1867-1956) resta uno dei testi centrali della discussione sulla posizione degli intellettuali nel nostro secolo. Ha radici lontane nelle clamorose vicende dell'affaire Dreyfus, che negli anni a cavallo tra Otto e Novecento divise la cultura francese in due schieramenti inconciliabili; e sviluppi che prendono il nome dalle risposte (tra molte altre) di Croce e di Gramsci, di Paul Nizan e di Jean-Paul Sartre. Molte volte confutato o esaltato, il discorso di Benda non ha esaurito la sua carica di appassionata provocazione. Contro la crescente barbarie delle società occidentali nel loro impoverimento culturale e nella subordinazione del pensiero agli interessi delle classi dominanti, esso difende un ruolo dell'intellettuale come «custode dei valori», la cui attività non persegua fini pratici e sia unicamente rivolta a al servizio di universali come la ragione, la verità, la giustizia. Una interpretazione conservatrice può facilmente far propria questa lezione a conferma dell'autonomia e del primato dell'arte e del pensiero contro ogni forma di compromissione politica e sociale. Ma, come ci avverte Paul Nizan, Benda fu nei fatti «un uomo di sinistra estremamente appassionato», pronto a schierarsi come tale nei momenti storici cruciali. Fu un nemico acerbo dell'astensione e del privilegio intellettuale. Chi sono allora i «traditori» contro i quali egli scaglia la sua accusa? Sono gli sciovinisti, i razzisti, i fascisti d'ogni gradazione, i servi d'ogni regime. Ma forse anche i rappresentanti di quella corporazione intellettuale che fa politica al riparo della sua supposta superiorità e imparzialità. Rileggere questo libro, datato ma non superato, può forse servire - in ragione delle sue stesse difficoltà e ambivalenze - a evitare ricadute provinciali nell'alternativa meccanica tra impegno e disimpegno, tra obbedienza politica e olimpica onnipotenza.
Introduzione
L'espressione «il tradimento dei chierici» sembra ormai non aver bisogno di spiegazioni né commenti, tanto è entrata nel linguaggio corrente nel corso di questo mezzo secolo, e più per l'uso frequente che se n'è fatto a livello di pubblicistica che per le pur numerose ristampe e riedizioni dell'opera di Benda1. Un uso frequente quanto disinvolto, dato che la sola costante sembra consistere nell'identificazione chierici-intellettuali, mentre con il termine di «tradimento» si allude di volta in volta a situazioni diverse e spesso contraddittorie; cosicché l'intera espressione può risultare alla fine ambigua, almeno per chi non abbia una conoscenza diretta del testo di Benda e del contesto in cui l'accusa di tradimento degli intellettuali venne formulata e iniziò la sua fortuna. Possedere questi riferimenti ci sembra dunque tutt'altro che inutile o puramente accademico, anche se certo non risolve la questione della molteplicità di significati che si sono venuti sovrapponendo alla formulazione originaria e che in una certa misura l'opera stessa legittima.
Un primo punto su cui soffermare l'attenzione è che La Trahison des clercs fu recepita, e non a torto, come denuncia dell'asservimento di certi intellettuali agli interessi delle classi dominanti (o meglio, delle loro espressioni politiche) nell'opera di elaborazione e diffusione di ideologie che alimentavano il nazionalismo e l'autoritarismo. Al centro del pamphlet del '27 sta infatti un'analisi dei caratteri nuovi che il nazionalismo aveva assunto, tingendosi di spinte irrazionalistiche e xenofobe; usufruendo di giustificazioni culturali e del recupero di un passato spesso mitizzato; accompagnandosi a uno spirito reazionario di difesa dell'ordine, di autoritarismo, di razzismo antisemita. Un'analisi sostanzialmente valida.
È indubbio infatti che quando Benda parla della trasformazione del sentimento nazionale in «orgoglio nazionale», «suscettibilità nazionale», pur trascurando, come sempre gli accade, ogni analisi di interessi economici e politici, coglie tuttavia gli aspetti essenziali che definiscono la fisionomia del nazionalismo post-Sedan: il suo manifestarsi come agitazione demagogica a base di massa, il suo fondarsi su miti (da quelli dell'«anima nazionale» e della «terra natale» a quello di Giovanna d'Arco), il suo esprimersi in toni enfatici, il suo coltivare la violenza e il fanatismo, il suo essere intriso di misticismo. Ed è pur vero che a questo livello la funzione svolta dagli intellettuali acquista un'importanza fondamentale e per i loro tentativi di sistematizzazione dottrinaria e per la loro capacità di portare nuova linfa al nazionalismo alimentandolo con le risorse dell'immaginazione e col potere di suggestione della creazione letteraria. Questi interventi sono appunto denunciati da Benda come determinanti nel formarsi di un clima politico nuovo e denso di minacce. Ideologi e cantori del nazionalismo sfilano tutti sul banco degli imputati, nella Trahison des clercs: da Barrès a D'Annunzio, da Treitschke a Brunetière, Lemaître, Péguy, Kipling, ecc. Un'attenzione speciale è giustamente riservata al sostenitore del «nazionalismo integrale», Maurras, e all'ideologia di «Action Française», l'organizzazione egemone della destra francese fino agli anni '30, che si veniva rivelando un'incubatrice di movimenti più esplicitamente fascisti, più legati ai fenomeni italiano e tedesco, e più vicini alla loro ispirazione irrazionalista. Dalle sue fila uscivano infatti e sarebbero più tardi usciti non soltanto uomini come Georges Valois (fondatore, nel novembre del '25, del Fascio francese e da tempo specificamente impegnato in un'opera di organizzazione del consenso di settori intellettuali), o Abel Bonnard (futuro ministro della pubblica istruzione nel governo di Vichy), ma scrittori militanti fascisti quali Drieu la Rochelle e Brasillach, che, accanto a Celine, rappresentano le figure di maggior rilievo di quel «romanticismo fascista» di cui Benda coglie alcuni tratti anticipatori nel «patriottismo romantico» e più in generale nell'anti-intellettualismo e nell'irrazionalismo della cultura del suo tempo2.
Parallelamente, dunque, al centro della Trahison sta la difesa della figura sociale dell'intellettuale-chierico, come rigorosa e appassionata risposta all'anti-intellettualismo di un Barrès e all'eco che aveva trovato la sua esaltazione della «forza primitiva», della «spontaneità», del «vitalismo popolare», invocati a difesa contro l'anarchia in cui le «aberrazioni» degli intellettuali avrebbero gettato la Francia 3. E l'accusa di tradimento si estende fino a coinvolgere Sorel, Nietzsche, Bergson, responsabili agli occhi di Benda di quella «furia di irrazionalismo» che favoriva la convergenza tra un'involuzione autoritaria sul piano politico e l'abdicazione a una funzione critica da parte degli uomini di cultura.
Di questo mutato atteggiamento nei confronti del potere politico, Benda si chiede quali possano essere state le cause e individua alcuni fattori: modificazioni delle condizioni materiali di vita dell'intellettuale, che comportano non solo una sua dipendenza sempre più stretta dalla borghesia ma una sua trasformazione in borghese; e modificazioni sul piano culturale, dall'abbandono di una formazione «classica» attraverso gli studi, al dilagare di miti romantico-aristocratici e decadenti. Ne indica anche un'origine negli ultimi decenni del secolo scorso.
Certo manca in Benda ogni tentativo di analisi dei rapporti tra struttura e sovrastruttura o tra diversi elementi della sovrastruttura; la sua datazione rinvia piuttosto a un'esperienza - direttamente vissuta - esemplare e scatenante: «l'affare Dreyfus». Quelli che sono direttamente chiamati in causa nella Trahison des clercs sono infatti, in gran parte, i vecchi protagonisti di destra dell'affaire, che vide scendere clamorosamente in campo una folta schiera di rappresentanti della cultura accademica e universitaria e tutta la grande stampa a fornire argomenti, rispolverare miti, esplicitare teorie a difesa dello Stato e dell'Ordine, teorizzando che il vero intellettuale deve saper subordinare la ragione e la verità agli interessi dello Stato. Contro l'atteggiamento di questi intellettuali Benda intervenne nell'affaire (iniziando, trentenne, un'attività di vivace polemista) e non contro i militari e i magistrati, ai quali già riconosceva il diritto-dovere di difendere gli interessi dello Stato, in polemica con Zola, di cui non condivideva le prese di posizione «sentimentali» e la pretesa che il riconoscimento dell'errore e la condanna dei responsabili della montatura fossero di giovamento allo Stato.
L'accordo col grande romanziere fu tuttavia esplicito su punti non marginali, a cui Benda testimonia nella Trahison di essere rimasto fedele: la contrapposizione tra «valori» - giustizia e verità - e «interessi politici», tra «uomini di verità» e «uomini d'autorità» si delinea fin dai primi articoli che Zola dedicò all'affaire 4; la responsabilità dell'esplosione di antisemitismo e di più generale irrazionalismo vi è addossata alle «stupide passioni politiche e religiose»; la presse immonde vi è accusata di essere il principale strumento che alimenta l'odio, il terrore, la menzogna, la demenza di massa. Ma contro l'ostinata e convinta rivendicazione, da parte di Zola, dell'«utilità» della sua lotta, diretta a «salvare la Francia salvandola dall'errore», contro la sua ottimistica affermazione che solo la verità e la giustizia sono solidi pilastri per «la grandezza delle nazioni», Benda affermava e avrebbe riconfermato il carattere di principio della battaglia dreyfusista. Nella difesa del capitano Dreyfus, egli vedeva e voleva soltanto una realizzazione di quella funzione di servitori di valori astratti che rivendicava agli intellettuali.
Fin da questo momento, dunque, nei primissimi articoli pubblicati sulla «Revue Blanche», si vanno precisando i termini in cui verrà impostata successivamente la sua riflessione sul ruolo degli intellettuali e i criteri interpretativi che lo guideranno nel suo rapporto con la realtà contemporanea: innanzi tutto, l'intellettuale si identifica con il chierico, in quanto votato al culto di valori perenni e astratti che il mondo tende a distruggere; in secondo luogo, il conflitto tra morale e ragione di Stato è visto come necessario e non componibile.
È vero che quando Benda intraprende la redazione della Trahison (nel '24) sono ormai passati quasi trent'anni dal clima rovente dell'affaire, quello degli anni '97-98, quando Scheurer-Kestner informò il Senato e lo stesso presidente della Repubblica degli elementi che provavano l'innocenza di Dreyfus e Zola lanciò il suo «J'accuse». Ma la valutazione in termini quantitativi dell'intervallo tra i due momenti non basta a nascondere un legame e una continuità, seppur non lineare. Entrambi sono sottolineati anche a livello di linguaggio non solo dalla provocatoria ripresa dell'accusa di tradimento, già rivolta ai dreyfusisti5, ma anche dalla cura con cui Benda evita, nella Trahison, di usare il termine «intellettuali». Nessuna spiegazione ci vien fornita dall'autore a questo riguardo, ma è lecito ipotizzare che per un uomo della generazione di Benda, il quale aveva vissuto dall'interno le violente polemiche che a partire dal '98 si erano accese intorno alla figura e al ruolo degli uomini di cultura, anzi proprio da queste era stato indotto a scrivere e pubblicare6, il sostantivo «intellettuali» si portasse dietro troppe connotazioni negative e avesse d'altra parte un significato troppo restrittivo rispetto allo «specialista del sapere». Non dobbiamo infatti dimenticare che, entrato nella lingua francese con l'affaire, e più precisamente nel momento in cui alcune personalità del mondo della cultura e della scienza sottoscrissero un documento a sostegno delle posizioni di Zola, il nuovo sostantivo fu immediatamente utilizzato da Brunnetière (direttore della «Revue des Deux Mondes») e da Barrès in senso dispregiativo7. E non dobbiamo neanche dimenticare che esso serviva a indicare il fenomeno nuovo e specifico di studiosi e scienziati che applicano intelligenza, spirito critico, amore per la verità oltre il terreno separato delle loro ricerche e delle loro creazioni, interferendo criticamente sul sociale e il politico8. Benda sembra dunque tener presente e voler rifuggire la storicità del sostantivo e della figura sociale che esso esprime, non volendo confondersi con una vecchia ma ancora presente polemica anti-intellettualistica e intendendo parlare non degli intellectuels, ma di chi, scegliendo di coltivare il sapere, soggettivamente si assume la funzione di custodire, trasmettere, difendere i valori culturali. Degli eredi moderni degli antichi chierici, appunto 9.
Il rapporto di continuità con l'affaire è anche evidenziato da tutto un itinerario che, a livello di tematiche come di metodo, conduce dagli articoli del '98 fino alla Trahison e oltre. Da una parte, dunque, è ancora il dreyfusista che insorge contro vecchi e nuovi opportunisti; dall'altra, la polemica si arricchisce (e appesantisce) di implicazioni, impostata com'è sulla base di criteri, definizioni, «leggi», elaborati a partire da una particolarissima riflessione sull'affaire.
Nei Dialogues à Byzance (1900) questa riflessione si muove in direzione di un tentativo non solo e non tanto di comprensione quanto di classificazione dei comportamenti umani, il quale ondeggia fra diversi parametri ma ripropone sempre un'esigenza di sistematizzazione concettuale e una tendenza a formulare i problemi in termini di dualismo. L'affaire viene definito come «il più formidabile e simbolico dei conflitti tra metafora e sillogismo, tra soggettività e oggettività, tra sentimentalismo e razionalismo», quest'ultimo essendo l'appannaggio di una «aristocrazia umana» che lotta contro una massa caratterizzata dal prevalere del sentimento10. Tale distinzione viene completata da quella tra «esseri esclusivamente sensibili ai loro interessi immediati» e «uomini capaci di concepire gli interessi generali dell'umanità»11, tra «senso pratico» e «dedizione a un'astrazione»12, che diventeranno poi i caratteri distintivi dei «realisti» da una parte e dei «chierici» dall'altra. Zola, France, Jaurès, Reinach, Paul Meyer, Havet sono indicati a esempio di veri intellettuali, votati alla verità, contro coloro che per difendere il proprio interesse individuale, o quanto meno per non rischiare di comprometterlo, si sono schierati dalla parte della forza e dell'autorità: Déroulède, François Coppée, Brunetière, Gyp, Paul Hervieu, Jules Lemaître, Barrès, Maurras...
Mon premier testament (1910), che vuol essere un primo bilancio di questa riflessione, ci pone di fronte a una volontà dichiarata di porre i problemi nell'astratto, di «racchiudere il reale in un ideale», rifiutando quello che Benda chiama il «razionalismo utilitaristico», la cui tradizione gli sembra inaugurata da Voltaire. Sulla base della teoria che informerà di sé tutta l'analisi dei primi due capitoli della Trahison des clercs, e cioè che in generale le idee politiche e religiose vengono «adottate» dagli uomini nella misura in cui soddisfano certi sentimenti «preesistenti allo stato di sentimenti puri»13, Benda distingue due «razze» d'uomini caratterizzate dalle rispettive esigenze di «un funzionamento vitale difficile o patetico» e di «un funzionamento facile o felice». I primi, legati a «forme elementari di vita», avrebbero il gusto delle idee che soddisfano l'odio, l'orgoglio, il desiderio di sorprendere; gli altri, quelli cioè che possono vivere la vita nelle sue «forme evolute», sarebbero aperti all'amore, alla socialità, alla serenità14. Accanto a questa distinzione ne compare un'altra, appena accennata: quella che separa una ristretta élite di uomini di pensiero, che adottano ed elaborano idee prescindendo da ogni bisogno affettivo preesistente15.
La stessa distinzione è ripresa più diffusamente nel quinto Dialogue d'Eleuthère (1911), che ne esplicita anche le conseguenze sul piano estetico e su quello politico: le contrapposizioni indicate a questi livelli sono: tra romanticismo e classicismo (intesi ovviamente più come categorie che come fenomeni storici) e tra autoritarismo e democrazia16.
Quelli che ormai incominciano a evidenziarsi non sono solo certi elementi che, come dicevamo, si ritrovano nella Trahison, ma alcuni criteri di fondo che guidano Benda nella lettura (e incomprensione) dei fenomeni culturali del suo tempo: il bergsonismo, di cui contesta la pretesa scientificità, riconducendolo a espressione di gusti e miti di una borghesia decadente e raffinata che quindi ne consacra il successo17; l'esistenzialismo e il materialismo dialettico, liquidati come forme di romanticismo deteriore e esasperato18.
Quest'atteggiamento polemico e negativo trova la sua proiezione anche sul terreno più propriamente letterario: in Belphégor (1918) l'accusa di fondo rivolta alla letteratura contemporanea (Gide, Péguy, Claudel, Suarès, Romain Rolland, per citare i maggiori tra gli autori menzionati) è di rifiutare la distanziazione necessaria tra l'artista e il soggetto che questi tratta, di negare la mediazione dell'intelletto e di lasciarsi andare a un panlirismo tutto irrazionale ed emozionale. Nella France byzantine (1945) sono chiamati in causa anche Proust, Alain, Valéry, Giraudoux, Mallarmé, Breton, Aragon, Rémy de Gourmont, Jean Paulhan e Sartre, considerati tutti responsabili di un trionfo del misticismo e dell'ambiguità, di una mania di psicologismo e di intimismo che gli sembrano approdare a una nuova chiusura nella «torre d'avorio» della letteratura, concepita e difesa come fenomeno separato.
In queste caratteristiche del mondo moderno Benda vede il trionfo dell'elemento femminile. Nei suoi romanzi: L'Ordination (1912), Les Amorandes (1922), La Croix de roses (1923), ma anche nel Dialogue d'Eleuthère e poi nel Songe d'Eleuthère (1949), oltre che nelle Lettres à Mélisande (1925), i personaggi femminili riassumono sempre questa negatività, fatta di sensualismo, esasperazione della sensibilità, predominanza della sfera affettiva, irrazionalità, estetismo, pragmatismo e diventano il simbolo di una società raffinata e pseudo-intellettuale, destinatario e stimolo di una filosofia da salotto e di una letteratura a sensazione.
Per i suoi personaggi maschili, quindi, la vita amorosa è solo una tappa, che essi percorrono e dalla quale escono scoprendo scegliendo e inseguendo quella che ai loro occhi è la vera vita, la vita intellettuale, sinonimo di razionalità e armonia. L'Ordination è il significativo titolo del primo romanzo di Benda: il protagonista, Félix, scopre «la vera vita intellettuale», e questa è tutt'altro che arida, è «un abbraccio appassionato, permanente, esclusivo», che conosce «l'ansimante fecondazione dell'idea da parte dell'idea, e tutto l'essere teso d'una tensione amorosa per sapere se una certa idea nasce da un'altra o se avviene il contrario»19. In un mondo che egli vive come dominato dall'elemento femminile, l'intellettuale di Benda mentre decide di farsi chierico si prende una rivincita, trasferendo lo slancio e il linguaggio amorosi nel rapporto con l'idea e umiliando la donna in un rapporto sessuale che la vede subalterna, oggetto posseduto.
Istinto e intelligenza, odio e amore, realisti e chierici, uomini e Dio20: è sempre la stessa concezione dualistica, riconducibile in ultima analisi alla contrapposizione tra movimento e staticità. L'istinto è continuazione della vita organica, è movimento; l'intelligenza è la facoltà che, immobilizzando momentaneamente la realtà, vi applica categorie che permettono di conoscerla e spiegarla. I sentimenti di odio sono caratteristici di una vita «da fare»; i sentimenti di amore implicano soddisfazione, una vita «fatta». L'uomo è evoluzione; Dio è perfezione e immobilità. Il chierico, ovviamente, tende a questo ideale, persegue una vita contemplativa, contrapponendosi radicalmente ai comportamenti delle masse, la cui vita si risolve al livello della sensazione e per le quali l'azione è il primo valore. Le questioni sono sempre impostate in termini di poli contrapposti che tendono a negarsi a vicenda: la vita sentimentale uccide quella intellettuale, l'istinto uccide la ragione, la politica è la negazione della morale, la vita è la negazione di Dio. Al tempo stesso, tutto ciò che è negativo viene spiegato in termini di irrazionalismo, contro le cui manifestazioni Benda cerca di ergere la barriera del suo razionalismo astratto, puntigliosamente, fin nel testo che la «Nouvelle Revue Française» pubblicava nel luglio 1956, insieme all'annuncio della morte del suo autore21.
Anche un ciclo di opere autobiografiche, intrapreso all'età di 62 anni - La Jeunesse d'un clerc (1936), Un Régulier dans le siècle (1938), Exercice d'un enterré vif (1945) - ripercorre l'esperienza personale, dall'infanzia in un'agiata famiglia di ebrei all'isolamento nella Francia di Pétain, con la costante preoccupazione di rintracciare gli elementi e offrire l'immagine di un autentico chierico.
Questo, in realtà, fu soprattutto un ideale che Benda difese e a cui personalmente tentò di avvicinarsi, senza peraltro mai riuscire a realizzare una tranquilla indifferenza soddisfatta dell'ammirazione della bellezza, uno sprezzante silenzio di fronte alla vanità e al carattere contingente degli avvenimenti e delle ideologie, costantemente trascinato dalla sua vena polemica inesauribile a una partecipazione appassionata alle vicende del tempo. Basta sfogliare i titoli dei suoi numerosissimi articoli, oltre che dei volumi, per vederlo continuamente alle prese con questioni d'attualità oltre che politiche (tra le altre, la difesa dei regimi democratico-parlamentari e la costruzione dell'unità europea); basta sfogliare i vari appelli di intellettuali per trovare la sua firma dove meno ce lo saremmo aspettato: nel '34 è a Madrid, accanto a Neruda, Rafael Alberti, Malraux, Aragon, Hemingway, Erhemburg e altri al II congresso internazionale degli scrittori in difesa della cultura, e sottoscrive un manifesto in cui si individua nel fascismo il principale nemico della cultura, ci si impegna a combatterlo sotto tutte le forme in cui si manifesti, si afferma che per gli intellettuali «nessuna neutralità è possibile»22; nel '47 firma il manifesto in cui Sartre chiede ragione al Pcf della campagna scatenata contro Nizan fin dal momento della sua morte23.
Benda poteva anche vantarsi di non aver mai votato, la storia incalzava anche lui, e l'impegno a difendere la giustizia e la verità, per quanto astratte, per quanto disinteressate, lo costringeva a scegliere e a collocarsi a sinistra. Magari facendo ricorso a mille distinguo, in ogni singola situazione e per dichiarare esplicitamente che l'ideologia della destra è inaccettabile per l'intellettuale24. Perciò non stupisce l'assenza nella Trahison di qualsiasi riferimento critico non solo alle posizioni di scrittori democratici come France o Romain Rolland, ma anche a Barbusse e ai surrealisti. Il fatto è che nella situazione di fascismo scoperto o strisciante in cui si trovava mezza Europa negli anni in cui il libro fu scritto, anche per un intellettuale tradizionale come Benda il vero pericolo sul fronte culturale veniva da chi elaborava e diffondeva ideologie reazionarie o contribuiva comunque a creare un clima favorevole all'affermazione e all'accettazione di regimi reazionari.
In questo senso la sua opera è, com'è stato più volte sottolineato, un richiamo degli intellettuali alle loro responsabilità. Ricorda che le loro scelte non sono neutre; che, in forme più o meno mediate, le masse assimilano la loro filosofia, commentano i loro libri, leggono i loro manifesti, imparano a pensare, a scegliere, volere, realizzare. Ammonisce che esaltando l'irrazionalismo essi si rendono corresponsabili - e non poco - del futuro di barbarie verso cui l'umanità gli sembra incamminarsi. Esprime anche la risposta moralistica e conservatrice a una modernità percepita come caos, sprovvista di qualsiasi punto di riferimento positivo. In questa follia collettiva, alimentata dal «tradimento» degli uomini di mente, Benda si voleva l'«uomo libero» - Eleuterio -, che guarda alle vicende del mondo dall'osservatorio di Sirio, l'astro remoto dalla fredda luce. Luce della ragione, che mette a nudo la verità e serve la giustizia.
Questi, per Benda, sono infatti gli attributi irrinunciabili del chierico. E La Trahison des clercs, mentre denuncia un aspetto della crescente barbarie delle società occidentali nel loro impoverimento culturale e nella subordinazione del pensiero agli interessi delle classi dominanti, difende e ripropone una concezione e un ruolo dell'intellettuale che sono quelli del «custode di valori», la cui attività non persegua fini pratici e sia rivolta al servizio di valori universali, astratti, atemporali. Una funzione per assolvere la quale sono indicate due diverse possibilità: distaccarsi dal mondo, offrendo il «suggestivo spettacolo» di una totale e disinteressata dedizione alla ricerca e all'amore del Vero e convincendo del valore supremo di questa forma d'esistenza; e rifiutare ogni intento «pratico» nella difesa della verità e della giustizia, ricondotta alla fedeltà a un principio astratto (superiore e opposto alle «passioni politiche»), che esclude ogni obiettivo di vantaggi concreti e di affermazione di sé. In ogni caso, svolgendo una pura azione di testimonianza, che non impedisce che la storia proceda per conflitti e guerre, ma impedisce la loro «divinizzazione», la confusione tra interessi pratici e valori spirituali.
Benda, insomma, assegna alla cultura — che non aiuta lo sviluppo sociale ma frena la barbarie (peraltro indispensabile alla vita) - una funzione di elemento equilibratore nell'interesse comune. Nel definire questa funzione, egli prescinde a tal punto da ogni analisi concreta come da ogni determinazione storica ed opera talmente in base a opzioni aprioristiche, che nel '47, riproponendo il suo libro e sottolineando la validità delle sue analisi, può tranquillamente estendere l'accusa di tradimento a pressoché tutta la cultura moderna, in una grande confusione in cui Marx, Bergson e Bachelard si trovano accomunati dal «culto del dinamismo».
Sono questi aspetti paradossali che hanno favorito fin dall'immediato dopoguerra l'illusione di una facile liquidazione delle posizioni di Benda e con esse di una cultura che aveva insegnato il carattere sacro e inviolabile di certi principî e che era stata sconfitta, non riuscendo a impedire massacri e rovine, quindi rendendosene corresponsabile. Basti pensare a Sartre e, in Italia, a Vittorini.
Ma prima di vedere quanto sia stata illusoria appunto questa rottura, vale la pena di sottolineare come La Trahison des clercs si situi anche in un contesto che va ben al di là del periodo tra le due guerre e come, per alcuni aspetti sostanziali, essa riveli in questa prospettiva un rapporto di continuità proprio con quella cultura verso cui Benda è tanto severo. Infatti, nel suo rifiuto dell'utilità come categoria a cui riferire il fatto artistico, La Trahison rappresenta una delle formulazioni più esplicite e razionalizzate di quella concezione dell'intellettuale e della cultura come sfera dell'autonomia, che si è venuta elaborando nel secondo romanticismo e che ha sottolineato la rottura di un positivo rapporto tra artista e pubblico realizzatosi nella fase ascendente ed egemonica della borghesia. Basti pensare a Gautier, che nella contrapposizione tra Bello e Utile rifiutava quest'ultimo relegandolo nel terreno del «reale» e dell'azione, ovviamente connotati come livelli inferiori; a Baudelaire, che nella «scuola borghese» e nella «scuola socialista» vedeva gli stessi errori d'impostazione per la comune pretesa di intervenire sul reale; a Flaubert, che denunciava il pericolo per l'artista di essere assorbito dall'attualità e di sposare la passione del momento; e ancora, ai Goncourt, e Lecomte de Lisle, Mallarmé, Taine, Renan, in cui è già esplicita anche l'enunciazione della contrapposizione tra interessi dello Stato e valori spirituali. In un certo senso, l'operazione compiuta da Benda consiste nell'estendere all'intellettuale quella religione dell'Arte e quella sacralizzazione dell'Artista che proprio nei decenni immediatamente precedenti l'affaire avevano trovato la loro espressione più compiuta nella teoria dell'Art pour l'Art ed esprimevano la risposta dell'artista - tutta negativa sul piano delle formulazioni teoriche - al trionfo dei caratteri di mercantilismo e quindi di utilitarismo della società borghese.
Certo che gli elementi che accomunano possono essere ricercati solo al livello della matrice ideologica e si rivelano in un certo spirito, nel ricorrere di alcuni luoghi comuni, talvolta anche nell'uso di certi termini, come abbiamo visto; ben diversi sono il tono e il contesto. Non solo perché i primi erano innanzi tutto artisti — spesso grandi artisti - e solo dell'artista si preoccupavano, ma soprattutto perché le loro teorizzazioni (molto poco sistematiche, per la verità) si ergevano contro una generalizzata e generica rivendicazione di funzioni morali dell'arte (e della scienza), mentre Benda rivendica l'autonomia contro lo scivolamento di ogni forma di pensiero entro i canoni e i limiti definiti dagli interessi politici.
Ma forse l'elemento di differenziazione più interessante riguarda il mutato atteggiamento nei confronti della sfera politica: in Benda non c'è più traccia alcuna dell'aristocratico disprezzo ostentato dagli artisti tardo-romantici; esso anzi ha lasciato il posto a una realistica accettazione degli «interessi», di cui si dice si che sono il rovesciamento dei valori clericali, ma di cui si riconoscono anche la validità sul terreno del «temporale» e la necessità al fine di assicurare agli uomini la sopravvivenza. Non dimentichiamo che Benda accenna anche a un «tradimento dei laici»25z, sostiene che «la menzogna è un diritto, un dovere per un governo che ha il compito di difendere il morale di una nazione in pericolo»26, e precisa che non si può chiedere agli uomini politici «di ammirare la nobiltà d'animo, di approvarla», ma semplicemente «di capire che essa esiste e che occorre tenerne conto - salvo poi disprezzarla» 27.
Parallelamente, in Benda si è persa ogni traccia di quello spirito di ribellismo e di rivolta e di quella travagliata ricerca che sul piano estetico avevano condotto a rotture, spesso accompagnate dal gusto del paradosso e dello scandalo, e si assiste al recupero di un'estetica «classica». Si tratta certo di una spontanea e rivendicata coerenza con la sua destoricizzante ostilità verso «il movimento», «il dinamismo», «il patetico» e con la sua riaffermazione del primato del principio d'identità; ciò non toglie che anche questa organicità del suo pensiero ne accentui il segno conservatore.
Liquidare questa concezione del ruolo dell'intellettuale, proprio per le sue lontane radici, è stato ed è molto meno facile di quanto non abbiano potuto far credere le sbrigative e spesso brutali demistificazioni del carattere conservatore del libro di Benda, la sottolineatura del risvolto aristocratico e reazionario del pensiero di alcuni tra i più prestigiosi nomi dell'Ottocento francese, il diligente e talvolta appassionato tentativo di elaborare un'alternativa.
Lo stesso Sartre, che negli anni dell'immediato dopoguerra, con la teoria dell'engagement, si presentò e fu inteso come radicale oppositore della concezione romantico-borghese dell'arte, a ben rileggerlo ne mostra chiara l'impronta. Tutto il suo discorso, infatti, che certo demolisce ogni illusione di purezza e di neutralità, sta pur sempre all'interno di una stessa assunzione della letteratura come valore in sé, di una stessa difesa del ruolo dell'élite intellettuale. Che Sartre rovesci le premesse da cui muoveva Benda (esplicitamente citato e puntigliosamente contestato in Qu'est-ce que la littérature?) è fuori dubbio: scrittore e valori (giustizia e libertà) vengono rituffati nella storia: il primo, comunque compromesso, sempre responsabile, anche col silenzio e l'assenza; i secondi, spogliati degli attributi di astrattezza e eternità, inesistenti se non vivono nella concretezza quotidiana. Cosicché, allo scrittore, Sartre indicava una sola via: assumere consapevolmente la propria storicità, «abbracciare la propria epoca», e impegnarsi a difendere giustizia e libertà partecipando alle lotte politiche e sociali. In questo impegno sul terreno dei problemi socio-politici si sarebbe ricomposta la scissione tra letteratura e società, poiché esso avrebbe offerto la possibilità di «servire la letteratura infondendole nuovo sangue» e «servire la collettività cercando di darle la letteratura adatta»28.
Anche Sartre, del resto, allude a un tradimento (il termine viene usato esplicitamente per lo scrittore del XIX secolo), per indicare situazioni, storicamente verificatesi e databili, di letteratura alienata (che sia asservita al «potere temporale» o a un'ideologia, che si consideri mezzo e non fine incondizionato) e di letteratura astratta (che si limiti a un'autonomia formale, che sia indifferente all'argomento trattato). Può sembrare paradossale, e in effetti colpisce, scoprire dietro alle vigorose e argomentate contestazioni (ma anche alle coincidenze verbali) tanto spazio comune: contro una letteratura alienata è infatti scritta La Trahison des clercs, e la denuncia di una letteratura astratta rinvia a Belphégor e La France byzantine, con i loro attacchi a una letteratura «alessandrina».
Ma il punto di accordo va forse cercato ad altri livelli: nel sostanziale bisogno di istituire un punto di riferimento positivo, fisso (altrimenti non esisterebbe «tradimento»), che per l'uno come per l'altro - letteratura come istanza di libertà; valori spirituali - si colloca sul terreno separato e privilegiato della cultura, del pensiero, unico possibile terreno di redenzione da una realtà dominata dalla materia, dalla politica, vissuta come pensiero degradato e prassi degradante. Alla contemplazione del Bello, del Bene e del Vero, che fa dell'intellettuale un chierico, Sartre nel '47 non sapeva che contrapporre uno scrittore il quale, pienamente giunto alla coscienza di sé, «saprà che ciò che gli compete non è l'adorazione dello spirituale, ma la spiritualizzazione»29. Nobilitazione della realtà «spiritualizzata», funzione privilegiata dell'intellettuale: il tuffo nel mondo, tra gli uomini, tentato da Sartre, finiva con l'essere ancora un mezzo per ritrovare una funzione allo «spirito», per legittimare di nuovo l'élite intellettuale.
Certo che le proposte sartriane implicavano una «democratizzazione» dell'intellettuale, costretto a scendere dall'Olimpo delle idee per mescolarsi agli uomini, trattare i loro problemi, lottare con loro per difendere concretamente la giustizia e la libertà. Ma dire che «lo scrittore dà alla società una coscienza infelice e per questo è in continuo antagonismo con le forze conservatrici che mantengono l'equilibrio che egli tende a rompere»30 è davvero molto diverso dal sostenere che il chierico turba i sonni dei realisti e che per questo lo Stato si difende reprimendolo o eliminandolo? 31.
La replica più organica e radicale alla Trahison des clercs non va cercata in Francia dopo la «rottura» segnata dalla guerra, l'occupazione, la Resistenza, ma in anni molto più vicini alla sua pubblicazione, in Nizan. Les chiens de garde, che è del '3232 pur avendo come specifico bersaglio i filosofi e tra questi, più concretamente, «i quattro B» della più prestigiosa istituzione scolastica francese, l'«Ecole Normale Supérieure», (Boutroux, Bergson, Brunschvicg, Blondel), allarga tuttavia il discorso fino ad aggredire complessivamente la figura dell'intellettuale tradizionale.
Nizan riprende i termini di «tradimento» e di «chierico» usati da Benda, arrovesciandone le connotazioni. Tradimento è la «diserzione», la divaricazione tra le promesse, le illusioni create e le reali condizioni in cui gli uomini vivono; storicizzando, il fenomeno di rinascita idealistica. Né v'è posto per astensioni, insiste Nizan; astenersi implica comunque una scelta, quella di stare dalla parte della classe dominante, verso la quale, del resto, gli intellettuali sono sospinti dalla difesa della propria condizione. I chierici sono dunque di fatto i «cani da guardia» della borghesia, che affida loro il compito, un tempo svolto dal clero vero e proprio, di garantire il consenso con la persuasione (funzione complementare a quella svolta attraverso i mezzi di dominio apertamente repressivi). Non solo Benda e Bergson, «questi fratelli nemici», ma quasi tutti i filosofi a partire da Kant, «teorico di una filosofia indifferente», sono responsabili di questo tradimento; Benda, «più scaltro dei suoi confratelli, non nega, come essi fanno, di aver cessato di interessarsi agli uomini, ma insegna che il modo migliore per servirli è proprio disertarli» 33.
Per se stesso e come alternativa imposta dalla storia, Nizan rivendica l'assunzione esplicita e fino in fondo del tradimento denunciato da Benda («in quanto a noi, saremo temporali fino all'osso»34) e ne indica contenuti e obiettivi: distruggere la filosofia idealista denunciandone il sistema d'illusioni; costruire una nuova filosofia, fondata su Marx e Lenin, che cancelli la tragica separazione tra idee e realtà; fare dell'intellettuale «il tecnico delle richieste degli uomini reali», assumendo la funzione di esprimere volontà non ancora coscienti e acerbe rivolte, di denunciare e spiegare situazioni di sfruttamento e di umiliazione dell'uomo per aiutarlo nella presa di coscienza della propria condizione; tendere così a realizzare l'indicazione leniniana del rivoluzionario professionista, il quale «si oppone, più brutalmente che può, al chierico contemplativo fissato dal pensiero borghese», facendone rovinare tutti i modelli, «compresa l'ultima invenzione della filosofia borghese che ci viene proposta da Benda»35.
Questa rigorosa e violenta contestazione della concezione idealistica del ruolo dell'intellettuale non impedì tuttavia a Nizan di seguire con attenzione le concrete «scelte di campo» di fronte agli eventi storici. Così, di Benda egli parlò in seguito in termini molto ammirati, per le acute osservazioni, per il freddo humour che non risparmia neanche lo stesso scrittore, per il coraggio e la capacità di contraddirsi. Nel '37 Benda gli appare oggettivamente «un chierico di sinistra», anzi «un uomo di sinistra estremamente appassionato che prende gli abiti del chierico»: in questi termini lo presenta ai lettori dell'Humanité come autore di La Jeunesse d'un clerc e di Précision.
Gli elementi che giustificano questa definizione, Nizan non li ricerca soltanto nelle esplicite prese di posizione (in occasione dell'affaire Dreyfus, dell'aggressione fascista all'Etiopia, della guerra di Spagna), ma anche nelle contraddizioni in cui Benda cade quando dalla «dogmatica» definizione di chierico passa a indicare casi di concreta applicazione. La Jeunesse d'un clerc è per Nizan «la più pertinente critica» alla posizione «razionalista» della Trahison, nella misura in cui dimostra e spiega come le verità assunte da Benda siano del tutto contingenti e come il «chierico» sia solo il prodotto di una serie di casi fortuiti 36. E il fatto che Benda stesso indichi come, concretamente, la difesa dei «valori eterni» passa per determinate lotte storiche contro soprusi, inganni, oppressione è per Nizan una prova che sotto la pressione degli eventi politici Benda moltiplica le sue «infedeltà» alla lettera della dottrina esposta nella Trahison. Affannandosi contemporaneamente a far rientrare ogni «infedeltà» nella tesi iniziale e negando l'esistenza di un impegno storico. «Julien Benda ripete dunque, con un rigore di metodo che il XVIII secolo non aveva, l'operazione intellettuale per cui i filosofi della borghesia rivoluzionaria conferiscono a idee condizionate da un certo momento della storia quella dignità che, a partire da Platone e la teologia cattolica, viene riconosciuta alle verità eterne»37. Offre al tempo stesso «un grandissimo esempio, che pochi uomini della borghesia seguono»: quello di rifiutare il ripiegamento su di sé, la chiusura nella «torre d'avorio» 38.
La Trahison des clercs giunge a Gramsci nel carcere di Turi, tra il marzo del '29 e il novembre del '30. L'opera e il successivo «diluvio di scritti di Benda sul problema degli intellettuali»39 lo interessano soprattutto in relazione al suo progetto di analisi critica della filosofia del Croce, come testimoniano le diverse note dei Quaderni. È un articolo apparso su «Les Nouvelles Littéraires» del 2 novembre 1929 - «Comment un écrivain sert-il l'universel?» -, giustamente letto come «un corollario» della Trahison, che offre a Gramsci il primo spunto per annotare che «il Benda, come il Croce, esamina la questione degli intellettuali astraendo dalla situazione di classe degli intellettuali stessi e dalla loro funzione, che si è venuta precisando con l'enorme diffusione del libro e della stampa periodica»40. In una nota successiva, Gramsci passa dall'osservazione di una comune distorsione di metodo a quella di una affinità relativa all'intera concezione dell'intellettuale, riconoscendo al Croce solo una «forma più organica e stringata» 41.
La questione dei rapporti tra Croce e Benda meriterebbe forse di essere studiata con attenzione all'interno di una ricerca di elementi di verifica sulla consistenza e le dimensioni di un terreno comune alle due culture - quella italiana e quella francese - nel fenomeno di rinascita idealistica. Qui basterà accennare ad alcuni punti generali relativi alla questione degli intellettuali ed esaminare certi momenti di esplicita presa di posizione, che segnano il massimo di concordanza ma permettono al tempo stesso di evidenziare quadri di riferimento, preoccupazioni, toni profondamente diversi.
Primato e autonomia del Pensiero e dello Spirito, riduzione dell'azione politica a passione, concezione dello Stato come pura forza: queste le grandi direttrici comuni facili da identificare. Più chiare le ultime due, per la verità. Non a caso sono anche quelle in cui le affinità si riflettono maggiormente a livello di linguaggio. Per Croce come per Benda, l'azione si determina nella «fede», la storia è fatta dalle «passioni» e le classi si definiscono per stati d'animo ed «emozioni». Allo stesso modo, anche se in Croce esiste una più elaborata dottrina dello Stato, entrambi riconoscono a questo legittimità nel ricorso alla forza, alla disciplina, alla gerarchia, alla repressione. Anzi, assumono questo ricorso come una legge naturale, il che permette di rifiutare una censura diretta all'operato degli Stati, «che fanno quel che debbono e non possono non fare, e si conformano alla loro propria natura» (Croce), pena «un tradimento dei laici» (Benda).
Anche Croce, infine, pur tornando polemicamente sulla concezione di un «aristocratismo del vero»42, postula in sostanza la necessità di un'aristocrazia intellettuale capace di una concezione filosofica delle cose, ossia delle cose sub specie aeternitatis. E questa concepisce, come Benda, in una comunanza d'ispirazione etica, al di sopra degli interessi «contingenti» della politica, degli Stati e delle classi, custode di un patrimonio intellettuale, di una tradizione e di un costume fondati su un'irreversibile gerarchia di valori e doveri. Tuttavia, mentre a questa aristocrazia, Benda, come abbiamo detto, affida un compito di pura testimonianza, Croce polemizza con ogni «omaggio astratto e inerte» allo Spirito, vede negli uomini di cultura e di pensiero la parte della società che si fa portatrice delle istanze di rinnovamento, assegna loro una funzione propulsiva nel processo storico. E la distinzione ch'egli postula non è, come per il Benda, tra valori e interessi, ma tra due ordini di valori, - quelli di cultura (il Vero, il Bello, il Bene) e quelli empirici o storici, - tra loro distinti sì, ma non contrapposti; semmai complementari, se non in un rapporto che vede i secondi come concretizzazione dei primi 43. Che è la traduzione in termini teorici di un diverso atteggiamento nei confronti di «ciò che è» sul piano della realtà storico-politica, un'attenzione per le istituzioni e un impegno alla loro difesa che sono del tutto estranei a Benda, per il quale la difesa dei valori astratti conduce a schierarsi sempre contro il potere costituito e le sue istituzioni, tanto che il conflitto con il potere e la risposta repressiva di quest'ultimo diventano «il criterio sicuro» per stabilire se il chierico intervenendo nella vita pubblica tradisce o no la sua funzione.
Una notevole sintonia di accenti e argomenti, Croce e Benda la realizzano dunque limitatamente al rifiuto e alla denuncia di un fenomeno ben preciso ed estremo: l'esplicito asservimento della cultura alla politica. Una denuncia che il primo dirige contro «i falsi filosofi», il secondo contro «i chierici traditori», entrambi difendendo l'esistenza di una sfera spirituale superiore fondata su valori extra-temporali e assoluti, rivendicando alla cultura una intrinseca innocenza. Una denuncia che proprio per questi caratteri li trova vicini in momenti particolarmente critici della vita europea: le pagine del Croce che più richiamano alla mente quelle di Benda sono alcune «postille» scritte tra il '15 e il '17 e nel '25, quelle cioè che esprimono la reazione prima all'esplosione di una letteratura sciovinista, poi alla scesa in campo di una parte di intellettuali, Gentile in testa, che si autodefiniscono «intellettuali fascisti» 44.
Una lettera in cui Croce spiega a René Johannet (uno scrittore monarchico e nazionalista, autore dell'Eloge, du bourgeois français, attaccato nella Trahison) le ragioni della sua adesione alla Déclaration d'indépendance de l'esprit lanciata da Romain Rolland all'uscita dal conflitto mondiale, riassume efficacemente temi e atteggiamenti ricorrenti nelle Pagine sulla guerra. In essa Croce rivendica un suo profondo enracinement come la condizione che gli permette di superare, a livello intellettuale, ogni interesse, ogni pregiudizio particolaristico e nazionalistico, com'è del resto nella tradizione della respublica literaria; professa il suo odio per «il bestialismo nazionale» sviluppatosi durante la guerra; dichiara infine di essere stato indotto a firmare il manifesto da un passo di denuncia delle responsabilità di artisti e intellettuali 45. Sembra di leggere Benda, tanto più che anche Croce esplicita il suo dissenso nei confronti del pacifismo di Romain Rolland46, con il quale Benda polemizzò a lungo, e riconferma la necessità storica delle lotte politiche, nazionali e sociali, nonché l'impotenza degli uomini di cultura ad affermare i loro valori. Un elemento di differenziazione non trascurabile emerge però da un dettaglio: Cristo, costantemente assunto da Benda come simbolo di pensiero «disinteressato» («il mio Regno non è di questo mondo») represso dal potere politico, viene proposto da Croce al filosofo come colui che «viene a portare la guerra». Che cosa intendesse dire con questa espressione, Croce l'aveva più volte spiegato negli articoli di quegli anni, quando, contestando alla «pseudo-filosofia» la pretesa di offrire «soccorsi filosofici» all'azione «nel fervore del suo svolgimento», rivendicava alla sua filosofia una «utilità» ben più consistente «nel preparare sempre più alte condizioni al prorompere della passione e della pratica attività» 47.
All'esempio di Cristo, Croce ricorre di nuovo per obbiettare specificamente alla «separazione dei chierici dai laici» difesa da Benda, contrapponendo il dovere dell'intellettuale di «vivere in sé, come Cristo, peccata mundi». Lo farà nella recensione alla Trahison des clercs, che chiude la seconda edizione delle Pagine sulla guerra48, quasi a sottolineare quanto dichiara nell'«avvertenza», e cioè che il «mal abito» che l'espressione trahison des clercs definisce gli sembra motivo «attualissimo» che giustifica la riproposizione di articoli che avrebbero potuto considerarsi superati a quasi un decennio dalla fine della guerra. Croce dichiara di condividere pienamente l'indignazione di Benda verso coloro che hanno messo «l'arte e la scienza al servizio degli interessi politici ed economici» ed è d'accordo che si tratti di un asservimento nuovo, non «estrinseco o incidentale» ma «intrinseco o totale». Tuttavia egli contesta che l'alternativa all'«indebita identificazione» vada ricercata nella «separazione dei chierici dai laici» e suggerisce piuttosto di «ricordare sempre a se stessi il monito: Age rem tuam, ricordare, cioè, a se stessi la propria dignità e il proprio dovere»49. Inoltre la sua storicizzazione del fenomeno avviene a un livello ancora più sovrastrutturale di quanto non faccia Benda: le ragioni dell'asservimento egli le ritrova nella «crisi religiosa del secolo decimonono, che, cercando una religione, e non ritrovando il vero Dio, si è foggiata degli idoli», il che gli fa ribaltare le pessimistiche previsioni di Benda per il futuro: «In un modo o nell'altro, un po' prima o un po' dopo, la crisi dovrà venir superata, e i falsi idoli infranti: le pietre adorate torneranno pietre, da adoperare come pietre»50.
Il motivo di maggior differenziazione resta comunque quello del rapporto dell'intellettuale con la realtà storica, più concretamente con l'azione politica. Esso è presente anche nella replica al Manifesto degli intellettuali fascistici (1925), in cui certo Croce condanna l'«errore» della contaminazione di politica e letteratura, politica e scienza, ad esso contrapponendo una «fede» fatta di amore per la verità, aspirazione alla giustizia, generoso senso umano e civile, zelo per l'educazione intellettuale e morale, sollecitudine per la libertà. Ma al tempo stesso ribadisce una distinzione tra l'intellettuale in quanto tale, a cui ricorda il dovere di non farsi condizionare dagli interessi di parte e di porsi come guida spirituale per tutti e l'intellettuale in veste di cittadino, al quale riconosce il diritto-dovere della militanza e della disciplina di partito 51. Sdoppiamento che Benda non ipotizza nemmeno. Il «dare a Cesare quel che è di Cesare» è assunto da Benda nei termini più rigorosi ed esaltanti della superiorità dell'intelletto: il chierico, nella sua veste di cittadino, accetta semplicemente che il potere costituito lo perseguiti, lo incarceri, lo elimini. È Socrate che beve la cicuta.
Il discorso potrebbe essere approfondito, ma gli elementi finora emersi sono sufficienti a spiegare perché Gramsci, tornando sull'ipotesi di un paragone tra le idee e le posizioni assunte da Croce e Benda sul problema degli intellettuali, osservi questa volta che «nonostante certe apparenze, l'accordo è solo superficiale o per qualche particolare aspetto della questione»52. L'elemento fondamentale di differenziazione tra i due sta secondo Gramsci nel fatto che in Croce la riflessione sugli intellettuali si colloca in una costruzione organica del pensiero, in relazione a una dottrina sullo Stato e sulla religione e quindi in relazione alla funzione che gli intellettuali svolgono nella vita statale. Questa è appunto preoccupazione del tutto estranea a Benda, il quale non si mette mai dal punto di vista del risultato complessivo, cioè da un punto di vista che comprenda anche quello del «laico» o della storia, ma affronta la questione sempre e soltanto dal versante dell'intellettuale e dall'interno del sistema di valori in base al quale ne definisce l'identità.
È comunque a questo livello del dibattito che La Trahison des clercs si colloca, ricca di suggestioni per più di una generazione, oggi interessante documento di un'epoca e di un atteggiamento culturale che sanno di «vecchio», ma che sono lungi dall'essere superati. Emblematica testimonianza, anche, di un'impasse del pensiero idealista, espressione dall'interno della borghesia di una contraddizione che Benda non riesce a spiegare e per la cui definizione non trova altro che il ricorso alla categoria del «tradimento»: la contraddizione tra l'assegnazione e la garanzia di un posto a parte riservato alla figura dell'artista e dell'intellettuale nella divisione sociale del lavoro e la sua negazione pratica, il venir meno di ogni carattere di alterità se questa non implica u
Nota bibliografica
I .
Il seguente elenco è completo per le pubblicazioni in volume; comprende alcuni riferimenti biografici e relativi agli argomenti trattati nelle opere più significative. Le collaborazioni più importanti e continuate a riviste sono state quelle alla «Revue Blanche», al «Mercure de France», alla «Nouvelle Revue Française».
- Dialogues à Byzance, Ed. de la Revue Blanche, Paris 1900. Raccoglie articoli di Benda alla «Revue Blanche», a partire dalle prime Notes d'un byzantin del dicembre 1898. La collaborazione di Benda alla «Revue» cessò nel 1902.
- Mon premier testament, Ed. Les Cahiers de la Quinzaine, Paris s. d. (1910).
È a seguito dell'«affare Dreyfus» che Benda frequenta per un certo periodo Péguy e le riunioni dei «Cahiers».
- Dialogue d'Eleuthère, Ed. Les Cahiers de la Quinzaine, Paris s. d. (1911).
In nove dialoghi Benda-Eleuterio contrappone alla morale del suo ambiente sociale una morale che vuole fondata sulla ragione e sul rifiuto di tutto ciò che è sensibilismo effeminato ed esaltazione eroica.
- L'Ordination, Ed. Les Cahiers de la Quinzaine, Paris s. d. (1911-1912).
Il romanzo era candidato al premio Goncourt, che all'ultimo momento fu tuttavia assegnato a André Savignon per Les filles de la pluie.
- Le Bergsonisme ou une philosophie de la mobilité, Mercure de France, Paris 1912.
L'opera è divisa in tre parti: nella prima è criticato il fine che la filosofia bergsoniana si assegna (cogliere la mobilità), nella seconda il metodo indicato (l'intuizione), nella terza i risultati conseguiti. Attorno ad essa si apri un vivace dibattito sulla «Phalange», la rivista che ne aveva pubblicato una parte prima dell'edizione integrale (giugno 1912).
- Une philosophie pathétique, Ed. Les Cahiers de la Quinzaine, Paris s. d. (1912).
- Sur le succès du Bergsonisme, Mercure de France, Paris 1914. È composta di tre capitoli, che mettono in evidenza il fascino che su un pubblico mondano esercitano i concetti bergsoniani di «Assoluto», «Vita», «Durata». Il volume comprende anche la Réponse aux défenseurs de la doctrine (già apparsa sul «Mercure de France» nel luglio 1913), che è una replica alle contestazioni mosse da Edouard Le Roy e Jean Whal a un precedente articolo di Benda: Une méprise sur l'intuition bergsonienne («La Revue du Mois», maggio 1912, pp. 575-79).
- Les Sentiments de Critias, Emile-Paul, Paris 1917.
Dopo un'introduzione sull'atteggiamento degli uomini politici e degli intellettuali tedeschi e francesi durante la prima guerra mondiale, Benda procede a un «inventario» di idee filosofiche, estetiche, morali e politiche di provenienza germanica. Il volume contiene anche una Lettre à M. Romain Rolland, in cui Benda rimprovera all'autore di Au-dessus de la mêlée di non aver difeso la causa giusta (la Francia) contro l'imperialismo tedesco.
- Belphégor. Essai sur l'esthétique de la présente société française, Emile-Paul, Paris 1918.
Composta prima del 1914, è divisa in tre parti: la prima è un'analisi delle tendenze estetiche della Francia moderna; la seconda indica nell'abbassamento del livello culturale, nel peso crescente delle esigenze pratiche, nell'espansione del lusso, nel peso acquisito dalla donna nella vita sociale i responsabili della decadenza letteraria francese; la terza prevede che il crescente divario tra «buona società» e artista permetterà a questi di non indulgere più ai gusti di quella. Anche attorno a quest'opera e sulla polemica antidecadentistica si apri un dibattito, a cui presero parte, tra altri, «Les Lettres», La «NRF», la «Revue romane», la «Revue critique des idées et des livres», «Le Gaulois»...
- Le Bouquet de Glycère (Trois dialogues philosophiques), Emile-Paul, Paris 1918.
- Les Amorandes, Emile-Paul, Paris 1922.
- La Croix de roses, Grasset, Paris 1923.
- Billets de Sirius, Le Divan, Paris 1925.
- Lettres a Mélisande (pour son éducation philosophique), Ed. «Le Livre», Paris 1925.
- La Trahison des clercs, Grasset, Paris 1927.
- Properce ou les amants de Tibur, Grasset, Paris 1928.
- Cléantis ou du Beau et de l'actuel, Grasset, Paris 1928.
- La Fin de l'Eternel, Gallimard, Paris 1929.
Si tratta di una replica, scritta tra il '27 e il '29, alle reazioni suscitate dalla pubblicazione della Trahison; essa si articola in tre parti, in cui si considerano rispettivamente le obbiezioni degli intellettuali di destra, quelle degli intellettuali di sinistra e quelle dei filosofi.
- Essai d'un discours cohérent sur les rapports de Dieu et du monde, Gallimard, Paris 1931.
Vi si sostiene che Dio, pensato come infinito, esclude da sé ogni determinazione; che l'apparizione del mondo fenomenico è separazione da Dio e quindi affermazione arbitraria; che l'evoluzione del mondo è negazione progressiva e cosciente di Dio; infine sono esaminate le possibilità di un ritorno del mondo fenomenico a Dio.
- Esquisse d'une histoire des français dans leur volonté d'être une nation, Gallimard, Paris 1932.
- Discours à la Nation Européenne, Gallimard, Paris 1933. L'idea centrale è che l'unificazione europea è un fatto culturale. Dopo aver affermato la necessità di adottare un certo sistema di valori morali, Benda passa a esaminare i precedenti tentativi di realizzare un'Europa unita ed esorta gli educatori a creare una «coscienza europea», premessa indispensabile per un'effettiva unificazione; seguono: il problema della lingua, la denunzia del nazionalismo e la messa in luce dei «valori clericali» che sono in campo nella battaglia per l'Europa.
- Délice d'Eleuthère, Gallimard, Paris 1935.
- La Jeunesse d'un clerc, Gallimard, Paris 1937.
- Précision (1930-1937), Gallimard, Paris 1937.
Raccoglie una serie di articoli già pubblicati sulla «NRF», le «Nouvelles Littéraires», «Le Temps», la «Dépêche de Toulouse», «L'Aube», e «Vendredi», oltre al testo del discorso pronunciato il 3 giugno 1935 al «Congresso degli scrittori per la difesa della cultura», alla Mutualité. I testi sono classificati in sei rubriche: «funzione del chierico», «letteratura», «nazionalismo e pacifismo», «comunismo», «cose di Francia».
- Un régulier dans le siècle, Gallimard, Paris 1938.
- La grande épreuve des démocraties. Essai sur les principes démocratiques. Leur nature, leur histoire, leur valeur philosophique, Ed. de la Maison Française, New York 1942.
Pubblicata in Francia solo dopo la Liberazione (Ed. Le Sagittaire, Paris 194.5), l'opera fu scritta tra il '38 e il '41. Gli argomenti trattati sono: la natura dei principî democratici, la loro origine, il loro valore filosofico, gli abusi che ne vengono fatti e che conducono alla morte della democrazia, le arbitrarie interpretazioni del concetto di democrazia.
- Le rapport d'Uriel, Les Editions de Minuit, Paris 1943. Firmatosi con lo pseudonimo di Comminges (siamo nel periodo della clandestinità), Benda utilizza una formula tipica della narrativa settecentesca in Francia: il ricorso a un personaggio la cui estraneità alla realtà con cui si trova in rapporto permette di sottolinearne i paradossi e le assurdità. Qui si tratta di un angelo - Uriel - inviato da Dio a rendersi conto di che cosa sia la «cosiddetta specie umana».
- Exercice d'un enterré vif (Juin 1940- Août 1944), Ed. Les trois Collines, Genève 1945.
- La France byzantine, ou le triomphe de la littérature pure (Mallarmé, Gide, Valéry, Alain, Giraudoux, Suarès, les Surréalistes. Essai d'une psychologie originelle du littérateur), Gallimard, Paris 194.5.
- Du poétique. Selon l'humanité, non selon les poètes, Ed. Les Trois Collines, Genève 1946.
- Non possumus (A propos d'une certaine poésie moderne), Ed. de la Nouvelle Revue Critique, Paris 1946.
- Tradition de l'existentialisme, ou les philosophes de la vie, Grasset, Paris 1947.
- L'esprit européen, Les éditions de la Baconnière, Neuchâtel 1947. Il volume raccoglie gli interventi dei partecipanti a un convegno organizzato dalle «Rencontres internationales de Genève» nel 1946: Benda, Bernanos, Jaspers, Spender, Guéhenno, Francesco Flora, Denis de Rougemont, Salis, Lukács. Il discorso di Benda si articola in tre parti: nella prima l'autore intende dimostrare che una coscienza dell'Europa unita non è mai esistita; nella seconda espone gli ostacoli che, sul piano politico come su quello spirituale, si frappongono alla costruzione dell'unità europea; nella terza esamina quelli che gli sembrano dei validi strumenti d'intervento per l'unificazione a livello culturale.
- Du style d'idées. Réflexions sur la pensée, sa nature, ses réalisations, sa valeur morale, Gallimard, Paris 1948.
- Trois idoles romantiques. Le dynamisme. L'existentialisme. La dialectique matérialiste, Ed. du Mont Blanc, Genève 1948.
- La crise du rationalisme ou les rationalistes «modernes» sur la selle, Ed. du Club Maintenat, Paris 1949.
- Songe d'Eleuthère, Grasset, Paris 1949.
- Les cahiers d'un clerc (1936-49), Emile-Paul, Paris 1950.
- De quelques constantes de l'esprit humain. Critique du mobilisme contemporain (Bergson, Brunschvicg, Boutroux, Le Roy, Bachelard, Rougier), Gallimard, Paris 1950.
- Mémoires d'infra-tombe, Juilliard-Sequana, Paris 1952.
II .
Per la loro costante carica polemica, le opere di Benda hanno quasi sempre provocato valanghe di articoli, talvolta interessanti sul piano sociologico e su quello ideologico, ma di scarsa utilità per una corretta conoscenza e un approfondimento delle problematiche affrontate. Le seguenti indicazioni, dunque, sono tutt'altro che complete, ma orientative sul tipo di interesse suscitato dall'opera di Benda e vanno ad aggiungersi a quelle già fornite nel corso dell'introduzione.
BOBBIO, NORBERTO, Julien Benda, in «Il Ponte», agosto-settembre 1956, pp. 1377-92.
- Julien Benda, in «Terzo programma», 1962, 3, pp. 152-60.
DEL NOCE, AUGUSTO, Il dualismo di Benda, in «Rivista di Filosofia», luglio-dicembre 1946, pp. 153-74.
DOISY, MARCEL, Belphégor et le clerc, éd. Dutilleul, Paris s. d. (1960?)
ETIEMBLE, RENÉ, Julien Benda ou petit exercice d'un enterré vif, in Le péché vraiment capital, Gallimard, Paris 1957, pp. 167-89.
- Délicieux Eleuthère (introduzione a J. B., La Jeunesse d'un clerc, seguito da Un régulier dans le siècle e da Exercice d'un enterré vif, Gallimard, 1968), in Mes Contre-poisons, Gallimard, 1974, pp. 217-31.
GARIN, EUGENIO, Storia e ragioni dell'impegno, in «Rinascita», 30 gennaio 1965.
GILLOIS, ANDRÉ, Julien Benda, in «Qui êtes-vous?», Gallimard, 1953, pp. 145-55 (intervista radiofonica del io dicembre 1949).
MACRI, ORESTE, Benda, in «Paragone», febbraio 1950, pp. 57-59.
MENZELLA, SANDRA, Sul significato della «Trahison des clercs», in «Saggi e ricerche di Letteratura Francese», vol. VIII, 1967, pp. 145-84.
NIES s, ROBERT, Julien Benda, The University of Michigan Press, Ann Arbor 1956.
- Evolution of an idea. J. Benda's «La Trahison des clercs», in «French Review», XX, n° 5, pp. 383-92.
PAULHAN, JEAN, Benda, le clerc malgré lui, in «Critique», maggio-giugno 1948, pp. 387-407 e 499-513.
REVEL, JEAN-FRANÇOIS, Un vieux chnoque: Benda, in «L'Express», 18-24 ottobre 1965, pp. 90-91; ora in Contrecensures, J.-J. Pauvert, Paris 1966, pp. 124-27.
SAROCCHI, JEAN, Julien Benda. Portrait d'un intellectuel, Nizet, Paris 1968.
TILGHER, ADRIANO, Julien Benda e il problema del «tradimento dei chierici», Libreria di Scienze e Lettere, Roma 1930.
TURCARET (DE CAPRARIIS, VITTORIO), Il chierico francese, in «Il Mondo», 30 ottobre 1962, p. 9.
WURMSER, ANDRÉ, Souvenir s sur Julien Benda, in «Europe», settembre 1961, pp. 3-13.
Julien Benda, a living abstraction, in «Times» (supplemento letterario), 26 marzo 1954.na rimessa in discussione e una lotta contro l'intero assetto sociale.
SANDRA TERONI MENZELLA
Prefazione alla nuova edizione
A vent'anni di distanza dalla pubblicazione dell'opera che oggi rido alle stampe, la tesi che vi sostenevo allora - che quegli uomini la cui funzione è di difendere i valori eterni e disinteressati, come la giustizia e la ragione, quelli che io chiamo i chierici, hanno tradito questa funzione a vantaggio di interessi pratici - mi sembra, come a molte delle persone che mi chiedono questa ristampa, non aver perso niente della sua verità, al contrario. Tuttavia, l'oggetto a vantaggio del quale i chierici consumavano allora il tradimento era soprattutto la nazione: particolarmente in Francia, con Barrès e Maurras. Oggi è per tutt'altri motivi che vi s'abbandonano, e lo hanno fatto anche in Francia - con la «collaborazione» - tradendo chiaramente la loro patria. Di questa nuova forma del fenomeno vorrei puntualizzare i principali aspetti.
A.
I CHIERICI TRADISCONO LA LORO FUNZIONE IN NOME DELL'«ORDINE». - SIGNIFICATO DEL LORO SPIRITO ANTIDEMOCRATICO.
Un aspetto nuovo è la mobilitazione in nome dell'ordine, che nei chierici francesi si è tradotta in attacchi, raddoppiati da venti anni a questa parte, contro la democrazia, che per loro rappresenta l'emblema del disordine. Sono la loro sollevazione del 6 febbraio, il plauso ai fascismi mussoliniano e hitleriano in quanto incarnazioni dello spirito antidemocratico, al franchismo spagnolo per la stessa ragione, l'opposizione, nella vicenda di Monaco, a che il loro paese resistesse alle provocazioni tedesche in quanto ciò avrebbe rischiato di consolidare il regime53; l'ammissione che la disfatta della Francia era preferibile al mantenimento dell'aborrito sistema54; la speranza mal dissimulata, fin dall'inizio della guerra, che una vittoria hitleriana comportasse la sua distruzione; l'esplosione di gioia quando l'ha effettivamente comportata (la «divina sorpresa» di Maurras); infine la campagna contro la democrazia in nome dell'ordine, oggi più vivace che mai, anche se più o meno scoperta, condotta da un gran numero di loro. (Si vedano «L'Epoque», «L'Aurore», «Paroles Françaises»).
Tale atteggiamento costituisce una flagrante apostasia rispetto ai valori clericali, dato che la democrazia consiste per i suoi principî - ma è proprio nei principî che la prendono di mira quei suoi nemici qui portati in causa, e non, come alcuni vanno raccontando, in una loro cattiva applicazione55 - in un'affermazione categorica di quei valori, in particolare per il suo rispetto della giustizia, della persona, della verità. Ogni spirito libero riconoscerà che l'ideale politico racchiuso nella Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo o nella Dichiarazione americana del 1776 rappresenta per eccellenza l'ideale del chierico. D'altra parte è innegabile che la democrazia, proprio in quanto concede la libertà individuale, implichi un elemento di disordine. «Quando in uno Stato, dice Montesquieu, non percepite il clamore di alcun conflitto, potete essere sicuri che non c'è libertà». E ancora: «Un governo libero, cioè sempre agitato»56. Al contrario, lo Stato dotato di «ordine», proprio perché tale, non accorda diritti all'individuo, se non, al massimo, a quello appartenente a una certa classe. Esso concepisce soltanto uomini che comandano e altri che obbediscono. Il suo ideale è di essere forte, non di essere giusto. «Ho una sola ambizione, proclamava il romano dispensatore di ordine in un motto scolpito su tutti i suoi edifici pubblici: rendere il mio popolo forte, prospero, grande e libero»57. Di giustizia, non una parola. Di conseguenza l'ordine vuole che, contro ogni giustizia, le classi sociali siano fisse. Se chi sta in basso può passare in alto, lo Stato è votato al disordine. È il dogma dell'«immutabilità delle classi», caro al mondo maurrasiano e predicato, sotto una vernice di scientificità, dal dottor Alexis Carrel, che nell'Homme cet inconnu proclama che il proletario è condannato alla sua condizione per aeternum a causa di una sottoalimentazione secolare il cui effetto è irrimediabile. Aggiungiamo che lo Stato dotato d'ordine non sa che farsene della verità. Non si troverà una sola riga a sostegno di tale valore in alcuno dei suoi legislatori, né in De Maistre, né in Bonald, né in Bourget, né nei loro eredi attuali. Una delle sue necessità vitali è invece di opporsi a che le menti si illuminino e si sviluppi il senso critico, di costringere gli uomini a pensare «collettivamente», cioè a non pensare, per usare l'espressione del governo di Vichy, che è rimasto un modello per molti dei nostri chierici. «Non è opportuno sovraccaricare i giovani cervelli con un inutile bagaglio», proclamava l'arconte di Mein Kampf. Pertanto l'esame di ginnastica valeva per lui il cinquanta per cento del punteggio richiesto all'esame di maturità e un giovane tedesco non poteva passare dalla terza alla quarta se non era in grado di nuotare per tre quarti d'ora senza fermarsi58. Con lo stesso spirito il ministro dell'Educazione nazionale di Vichy, Abel Bonnard, rimpianto da molti nostri uomini d'ordine, prescriveva59 che s'insegnassero poche cose ai bambini e che nei voti dati dai maestri, le capacità muscolari fossero tenute almeno nello stesso conto di quelle intellettuali. I pensatori di «Action française» dicono, loro, di onorare al di sopra di tutto l'intelligenza, ma intendono che essa resti sempre nei limiti dell'ordine sociale60. Del resto, che l'idea di ordine sia legata all'idea di violenza, è una cosa che gli uomini sembrano aver capito istintivamente. Trovo significativo che abbiano fatto statue della Giustizia, della Libertà, della Scienza, dell'Arte, della Carità, della Pace, mai la statua dell'Ordine. Così come hanno poca simpatia per il «mantenimento dell'ordine», espressione che rappresenta per loro cariche di cavalleria, pallottole sparate su gente senza difesa, cadaveri di donne e bambini. Ognuno sente la tragicità di questo annuncio: «L'ordine è ristabilito».
L'ordine è un valore essenzialmente pratico. Il chierico che lo venera tradisce nella maniera più assoluta la sua funzione.
L'idea di ordine è legata all'idea di guerra, all'idea di miseria del popolo. — I chierici e la Società delle Nazioni.
Ho già detto che lo Stato dotato di ordine mostra con ciò di volere essere forte, non certo giusto. Aggiungiamo che questo è richiesto dalla guerra. Donde ne deriva che coloro che chiedono un tale Stato non cessano di esclamare che lo Stato è minacciato. È così che «L'Action française» annunciò per quarant'anni: «Il nemico è alle porte; è il momento di ubbidire, non di pensare alle riforme sociali», e l'autocratismo tedesco non cessava di sbandierare «l'accerchiamento» del Reich. Per la stessa ragione, tutti i sostenitori dell'ordine sono stati ostili alla Società delle Nazioni in quanto organismo che tende a sopprimere la guerra. La loro motivazione non era affatto il gusto della guerra, essendo per loro priva di qualsiasi seduzione la prospettiva di vedere uccidere i propri figli o centuplicare i propri compiti; era piuttosto quella di mantenere sempre vivo agli occhi del popolo lo spettro della guerra, in modo da costringerlo all'obbedienza. Il loro pensiero poteva essere formulato in questi termini: «Il popolo non teme più Dio, bisogna che tema la guerra. Se non teme più niente, non è più possibile tenerlo a bada ed è la morte dell'ordine».
Più in generale, lo spauracchio degli uomini d'ordine è la moderna aspirazione del popolo alla felicità, di cui la speranza della scomparsa della guerra è solo un aspetto. In questo essi trovano un valido appoggio nell'istituzione cattolica in quanto, per ragioni teologiche, essa condanna nell'uomo la speranza di essere felice quaggiù sulla terra. È tuttavia strano vedere come la Chiesa accentui fortemente questa condanna da quando si è instaurata la democrazia (alla quale rimprovera in particolare di ignorare il dogma del peccato originale)61. Si potrebbero citare in tal senso testi cattolici di cui difficilmente si troverebbe l'equivalente prima di questa data. Per esempio, è innegabile che l'atteggiamento di Joseph de Maistre quando proclamava che la guerra è voluta da Dio, e quindi la ricerca della pace è empia, non sarebbe mai stato assunto da Bossuet o Fénelon, ma è intimamente legato alla comparsa della democrazia, cioè alla pretesa dei popoli di essere felici; pretesa che, secondo De Maistre, li conduce alla insubordinazione62. Napoleone diceva: «La miseria è la scuola del buon soldato». Certi partiti sociali direbbero volentieri che è la scuola del buon cittadino.
L'opposizione della maggioranza dei chierici francesi alla Società delle Nazioni è una di quelle cose che stupiscono lo storico quando pensa al sostegno che a un'istituzione del genere avrebbero recato i Rabelais, i Montaigne, i Fénelon, i Malebranche, i Montesquieu, i Diderot, i Voltaire, i Michelet, i Renan. Niente mostra meglio la spaccatura che si è prodotta cinquantanni fa nella tradizione della loro corporazione. Ne è una delle cause principali il terrore che si è impadronito della borghesia, di cui in così gran numero essi sono diventati i difensori, di fronte ai progressi dello spirito di libertà.
Lo Stato dotato d'ordine è, ricordiamocene, richiesto dalla guerra. Si può dire che, reciprocamente, esso la invoca. Uno Stato che non sa che l'ordine è una sorta di Stato sotto le armi, in cui la guerra esiste in potenza fino al giorno in cui scoppia come per necessità. È quello che si è visto con l'Italia fascista e il Reich hitleriano. L'affinità tra l'ordine e la guerra è a doppio senso.
Un equivoco dell'antidemocratico. - Confutazione di un pensiero di Péguy.
I chierici qui in causa assicurano spesso che loro ce l'hanno solo con la democrazia «bacata», com'essa si è dimostrata più volte nel corso di quest'ultimo cinquantennio, ma che sono tutti per una democrazia «pulita e onesta». Non è vero niente, dato che la democrazia più pura costituisce, per il principio di uguaglianza civica insito in essa, la formale negazione di quella società gerarchizzata che essi vogliono. Così li si è visti dirigere i loro attacchi contro la irreprensibile democrazia di un Brisson o di un Carnot non meno che contro quella dello scandalo di Panama o dell'affare Stavisky. Del resto i loro grandi sacerdoti, da De Maistre fino a Maurras, non hanno mai nascosto che condannavano la democrazia nei suoi principî, qualunque ne fosse la condotta nella realtà. A questo proposito, è opportuno rivedere un concetto che ha fatto fortuna, per il suo semplicismo, quello secondo cui tutte le dottrine sono belle nella loro mistica e brutte nella loro politica 63. Sono d'accordo che la dottrina democratica, profondamente morale nella mistica, il più delle volte lo è molto poco nella politica; ma penso che la dottrina dell'ordine, che non è morale nella politica, non lo sia neppure nella mistica. La prima è bella nella mistica e brutta nella politica; la seconda è brutta nell'una e nell'altra.
L'ordine, valore «estetico».
L'ordine, ho detto, è un valore pratico. Alcuni dei suoi cultori protesteranno vivacemente, dichiarando che, al contrario, essi l'adottano come valore disinteressato, in nome dell'estetica. E, in effetti, lo Stato dotato d'ordine, il cui modello è la monarchia assoluta, appare loro come una cattedrale, tutte le parti della quale sono subordinate l'una all'altra fino a un tema supremo che le regge tutte. Questa concezione implica nei suoi adepti l'accettazione che migliaia di esseri umani marciscano eternamente nell'ergastolo perché l'insieme offra a questi raffinati una vista che ne lusinga i sensi. Essa prova una volta di più quanto il sentimento estetico, o ciò che si pretende essere tale, possa, come si vanta volentieri di fare, essere separato da qualsiasi senso morale64. Del resto la democrazia riposa su un'idea molto adatta a toccare una sensibilità estetica: l'idea di equilibrio, ma, infinitamente più complessa dell'idea di ordine, essa riuscirebbe a emozionare solo un'umanità incomparabilmente più evoluta65.
Un equivoco sull'idea di ordine.
L'idea di ordine è normalmente oggetto di un equivoco di cui non solo si valgono coloro che l'utilizzano, ma che sembra ammesso da persone oneste in assoluta buona fede. Una di queste66 ci parla dell'ordine dicendo che è un'idea che ci è stata tramandata dai Greci e aggiungendo, non senza qualche ragione, che l'ordine è una regola mentre la giustizia è una passione. Ricordiamo che l'idea di ordine quale l'hanno concepita i figli di Omero è l'idea dell'armonia dell'universo, soprattutto dell'universo inanimato, l'idea di cosmo, di mondo, termine che significa l'ordinato per contrapposizione a l'in-mondo. Per i filosofi ellenici supremo ruolo della divinità e suo onore, era, non di aver creato l'universo, ma di avervi introdotto ordine, cioè intelligibilità. Ora, non c'è alcun rapporto tra questa contemplazione serena e tutta intellettuale, che in effetti si oppone alla passione, e lo stato tutto passionale per cui certe classi superiori intendono mantenere, foss'anche con i mezzi meno armoniosi, il loro dominio su quelle inferiori; passione che esse chiamano il senso dell'ordine. Credo che lo storico qui in causa penserà come noi che l'autore del Timeo non avrebbe riconosciuto la sua idea di ordine negli atti - i terrori bianchi - con i quali certe caste, all'indomani di rivendicazioni popolari che le hanno fatte tremare, «ristabiliscono l'ordine».
Il pretesto del comunismo.
L'attacco alla democrazia da parte degli amici dell'ordine viene quotidianamente sferrato come un'azione atta a impedire il trionfo del comunismo, che sarebbe, secondo loro, la tomba della civiltà67. Il più delle volte questo è solo un pretesto, in particolare quando gli stessi aderiscono all'insurrezione del generale Franco contro la Repubblica spagnola, visto che le Cortes comprendevano appena un pugno di comunisti, nessuno dei quali faceva parte del governo; e visto che quella Repubblica non aveva relazioni diplomatiche con lo Stato sovietico. D'altra parte si può sostenere che la democrazia, come ha detto un maestro dei nostri uomini d'ordine, è per forza di cose «l'anticamera del comunismo»68. Ma costoro trovano la democrazia già abbastanza odiosa anche se si limita a se stessa e non hanno aspettato questa minaccia di estensione per far di tutto, da cinquant'anni a questa parte, per assassinarla. Per di più è divertente vederli maledire il comunismo in nome dell'ordine. Come se una vittoria come quella riportata dallo Stato sovietico nell'ultima guerra mondiale non presupponesse ordine! Ma non è quello l'ordine che vogliono.
Un equivoco sull'egualitarismo democratico.
Gli apostoli dell'ordine ritengono normalmente che sono loro a incarnare la ragione, cioè lo spirito scientifico, perché loro rispettano le differenze reali che esistono tra gli uomini; realtà che la democrazia viola cinicamente con il suo romantico egualitarismo. C'è in questo una concezione completamente falsa dell'egualitarismo democratico, che i nemici di questo regime sanno essere falsa e utilizzano come ordigno di guerra, ma bisogna pur dire che numerosi democratici l'adottano in assoluta buona fede e si trovano così senza difesa di fronte ai fulmini dell'avversario. Essa consiste nell'ignorare che la democrazia non vuole l'eguaglianza dei cittadini se non di fronte alla legge e alle possibilità di accesso alle funzioni pubbliche; per il resto, la sua posizione è definita da queste parole del filosofo inglese Grant Alien: «Tutti gli uomini nascono liberi e ineguali, scopo del socialismo è mantenere questa ineguaglianza naturale e trarne il miglior partito possibile», o da queste altre del democratico francese Louis Blanc, che dichiarava la vera uguaglianza essere la «proporzionalità» e consistere per tutti gli uomini nell'«eguale sviluppo delle loro facoltà ineguali». Affermazioni che derivano entrambe da questo pensiero di Voltaire: «Siamo tutti ugualmente uomini, ma non uguali membri della società»69. D'altra parte è certo che la democrazia non ha trovato - ma è mai possibile? - un criterio che permetta di predeterminare quelli che, a causa di questa ineguaglianza naturale, hanno diritto nella vita pubblica a un rango superiore, le élites. Rimane il fatto che essa ammette questa ineguaglianza, la accetta, non solo nei fatti ma come principio, mentre i dottrinari dell'ordine le sostituiscono un'ineguaglianza artificiale, fondata sulla nascita o la fortuna, e si mostrano in ciò perfetti violatori della giustizia e della ragione 70.
La religione della Storia.
Gli epigoni dell'ordine fondato sulla nascita sostengono inoltre che loro difendono la ragione, visto che quest'ordine «ha dalla sua la storia». Il che vuol dire che la ragione è determinata dal fatto. Dal fatto però che ha dalla sua un passato, perché il fatto privo di questa impronta, la Rivoluzione francese e ancor più quella russa secondo questa scuola (ma anche per altri motivi) non rispettano la ragione. Non si osserva abbastanza che questa posizione, anche se i suoi sostenitori lo negano vivacemente e si proclamano «positivisti» puri, implica un elemento religioso, nel senso che conferisce un valore superiore nell'ordine sociale a ciò che sarebbe stato fatto all'origine del mondo, dalla «natura delle cose», idea ben poco distinta dalla «volontà di Dio», mentre ha solamente disprezzo per ciò che è creazione della volontà dell'uomo. Seppur con altri termini, in fondo essa intende, con uno dei grandi sacerdoti dell'ordine così concepito, sostituire alla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo una Dichiarazione dei Diritti di Dio71.
Quando Siéyès esclamava alla Costituente: «Ci dicono che, grazie alla conquista, la nobiltà di nascita è passata ai conquistatori. Ebbene, bisogna farla passare dall'altra parte: il Terzo Stato diventerà nobile diventando a sua volta conquistatore», dimenticava che questa conquista che sarebbe avvenuta sotto i nostri occhi, e non, come quell'altra, nella notte dei tempi, era per la maggior parte dei suoi concittadini, compreso il Terzo Stato, priva di prestigio. Si veda la scarsa considerazione della maggioranza degli uomini, in questo tutti religiosi, per la nobiltà creata dall'Impero.
Il democratico ignora la vera natura dei suoi principî. - Effetti di questa ignoranza. — Come potrebbe colpire l'avversario.
Di solito al democratico viene rinfacciata dal suo avversario la religione della natura e della storia in questa forma: «I vostri principî sono condannati a priori, dato che non hanno dalla loro né la natura, né la storia, né l'esperienza». Nella reazione che l'accusato generalmente adotta, constatiamo uno dei suoi lati deboli: ossia che, non conoscendo la vera natura dei suoi principî, si lascia trascinare su un terreno estraneo dove è vinto in partenza, mentre se restasse sul suo terreno, non solo sarebbe imbattibile, ma potrebbe mettere in difficoltà l'avversario. Che cosa fa il democratico sotto l'accusa che i suoi principî non sono conformi alla natura e alla storia? Si sente in dovere di provare che lo sono. E qui è sconfitto, dato che non lo sono e che non si è mai visto nella natura o nella storia rispettare il diritto dei deboli o cancellare l'interesse di fronte alla giustizia. Che cosa dovrebbe rispondere? Che i suoi principî sono comandamenti della coscienza che, lungi dall'obbedire alla natura, pretendono al contrario di cambiarla e di assimilarla a sé; opera che hanno cominciato a svolgere - la nozione di Diritti dell'Uomo è oggi congenita a tutta una parte del genere umano - e hanno ferma intenzione di proseguire. Ma bisogna cercare di capire: se il democratico si accanisce a provare che i suoi principî si adeguano alla natura e alla storia, è perché ne conserva il rispetto e resta fedele al sistema di valori che pretende di combattere.
Il democratico, ho detto, può, se è fedele alla sua essenza, ridurre molto a mal partito l'avversario. Costui, infatti, ha come legge il disprezzo di qualsiasi imperativo morale. Ma non potrebbe ammetterlo, pena una pericolosissima impopolarità. Far balenare questa legge agli occhi delle folle lo metterà dunque in grande imbarazzo. Ebbene, è facile. Prendiamo questa dichiarazione, che è come il suo manifesto72; «Che cos'è una Costituzione? Non è forse la soluzione del seguente problema: dati la popolazione, i costumi, la religione, la situazione geografica, le relazioni politiche, le ricchezze, le buone e le cattive qualità di una data nazione, trovare delle leggi che le vadano bene?» In questo programma non si fa menzione della giustizia e non c'è alcun diktat della coscienza. Mettete in risalto questo carattere del dogma e ne allontanerete una folla di persone, in particolare i sinceri cristiani che si erano arruolati sotto i suoi vessilli. Dico i cristiani sinceri, perché ad altri andava benissimo, e non sembra che abbiano cambiato, una dottrina che dichiarava apertamente, non senza fierezza, di farsi beffe di ogni morale. Non penso solo alle milizie cristiane di «Action française», ma a quel clero d'oltre Reno prosternato per dodici anni davanti al messia della Forza, al suo omologo spagnolo fisso nella stessa posizione, a quei membri del Sacro Collegio che, all'epoca della questione etiopica, in una celebre seduta, tributarono all'Attila romano degli hurra! che sarebbero stati invidiati dai colonnelli dei bersaglieri.
Si può dimostrare con molti esempi l'impossibilità in cui si trovano oggi gli apostoli dell'ordine di enunciare certi articoli fondamentali della loro bibbia, se non vogliono rischiare un ostracismo che sarebbe loro fatale. Neanche cent'anni fa, uno dei loro antenati dichiarava al Parlamento francese: «Occorre rendere onnipotente l'influenza del clero sulla scuola perché è il clero che diffonde la buona filosofia, quella che dice all'uomo che è quaggiù per soffrire»73. E ancora: «L'agiatezza non va bene per tutti»74. Un altro voleva che i diritti civili fossero distribuiti «secondo le ineguaglianze che alla Provvidenza piace stabilire tra gli uomini»75, che il diritto di voto fosse accordato solo a «quei francesi che la condizione di possidenti rende cittadini». Tutti riconosceranno che non uno di loro oserebbe oggi formulare pubblicamente simili dottrine, per quanto esse restino consustanziali76. Più recentemente, nel periodo dei famosi «scioperi con occupazione», quando il capo del governo, Léon Blum, dalla tribuna della Camera si rivolse agli uomini della destra e intimò loro: «Se uno di voi trova che dovevo far sparare sugli operai, si alzi», nessuno si alzò. Eppure lo pensavano tutti, perché così voleva l'«ordine». Questa necessità di imbavagliare in pubblico i propri desideri più viscerali, a cui si vede oggi costretto il sensale della Forza, è segno d'una grande vittoria - verbale, ma tutte cominciano così - per l'idea di giustizia. Sarebbe bene che i seguaci di questa idea se ne rendessero conto.
La democrazia e l'arte.
Altro esempio dell'incapacità del democratico di difendersi e del danno che gliene deriva. L'avversario, per confonderlo, lo colpisce affermando che i suoi principî «non servono l'arte». Allora lui si adopera a dimostrare che invece la servono, e qui è di nuovo sconfitto, dato che non la servono (il che non vuol dire che le nuocciono). I suoi argomenti sono di una notevole debolezza77. Non si prova niente facendo presente che sotto la democrazia si sono avuti grandi artisti, perché la questione è di sapere se i loro capolavori sono stati effetti ineluttabili di questo regime (rimarrebbe del resto da dimostrare che quelli di Racine o di Molière furono effetti ineluttabili della monarchia). Né si è più convincenti sbandierando l'argomento che la democrazia «permette la libertà delle opere», poiché questa libertà non è incompatibile con la loro nullità. La vera risposta è che, se i principî democratici non servono all'arte, mirano però a sviluppare altri valori, morali e intellettuali, almeno altrettanto elevati. Ma qui tocchiamo un punto che mostra quanto gli uomini, e quelli che sembrerebbero i più evoluti, sono ancora a uno stadio infantile. Sembra che abbiano ancora molta strada da percorrere per arrivare a capire che un sistema i cui ideali sono la giustizia e la ragione ha di per sé sufficienti titoli di nobiltà per non aver bisogno che gli venga aggiunta anche la bellezza. Ci si può anche chiedere se la maggior parte non trovano meno offensivo essere trattati da bugiardi, falsari, ladri, che da «insensibili all'arte», essendo questa per loro la peggiore ingiuria. Tale è almeno la gerarchia di valori adottata da molti chierici francesi, che hanno chiesto recentemente l'impunità di traditori riconosciuti78 perché «avevano talento». Un aspetto che lo storico della France byzantine sembra aver dimenticato.
Un equivoco sulla «civiltà».
Con lo stesso spirito il democratico si sente annunciare dall'avversario che i suoi principî, poiché non servono l'arte, «nuocciono alla civiltà». Anche su questo punto, non sa che cosa rispondere. Ci sono due specie di civiltà ben distinte: da una parte, la civiltà artistica e intellettuale (due attributi che non vanno sempre di pari passo); dall'altra, la civiltà morale e politica. La prima si traduce in una fioritura di opere d'arte e di opere dello spirito; la seconda in una legislazione che ordina certi rapporti morali tra gli uomini. La prima, soprattutto per l'aspetto artistico, potrebbe avere come simbolo storico l'Italia; la seconda, il mondo anglosassone. Queste due civiltà possono del resto coesistere, com'è dimostrato dall'esistenza tra gli inglesi di un'ammirevole poesia, di celebri monumenti architettonici, di un'illustre arte figurativa. Possono però anche escludersi radicalmente; è così che l'Italia rinascimentale sembra non aver conosciuto alcun senso morale e, mentre Michelangelo vi modellava i suoi capolavori, Cesare Borgia trafiggeva di frecce un uomo legato a un albero per divertire le dame della sua Corte79. Sarebbe bene che certi sistemi, ai quali viene rimproverato di «non servire la civiltà», non si lasciassero prendere dall'equivoco, ma rispondessero che, se può essere vero che essi non appartengono alla civiltà artistica, rappresentano a un alto grado la civiltà morale, il cui valore, forse, è quanto meno uguale. Penso in particolare al popolo americano, che mi ha spesso colpito per il fatto che, quando viene accusato di mancare di civiltà artistica, piega volentieri la testa, invece di replicare che in compenso conosce la civiltà politica, e forse più perfezionata rispetto a quella d'un popolo europeo che pretende di guardarlo dall'alto della sua «evoluzione».
Altre adesioni del chierico alla soppressione della persona.
Indicherò ancora tre atteggiamenti con i quali tanti chierici moderni tradiscono la loro funzione, se si ammette che questa è di collocare in cima ai valori la libertà della persona, poiché la libertà è considerata la condizione sine qua non della persona (Kant), o anche una categoria della coscienza (Renouvier), dove la parola coscienza diventa l'equivalente della parola «persona».
Questi atteggiamenti sono:
1) L'esaltazione di quello che è stato chiamato lo Stato «monolitico», cioè considerato una realtà indivisa - lo Stato «totalitario»80 - in cui, per definizione, la nozione di persona e a fortiori quella di diritti della persona scompare, lo Stato la cui anima è quella massima che si poteva leggere su tutti gli edifici nazisti: «Du bist nichts, dein Volk ist alles», e il disprezzo per lo Stato concepito come un insieme di persone distinte, a cui è attribuito, in quanto persone, un carattere sacro. Questa posizione, abbracciata in questi ultimi vent'anni da molti chierici francesi che proclamavano la loro adesione ai fascismi hitleriano e mussoliniano e alla quale la maggior parte di loro rimane fedele, è particolarmente curiosa in un paese dove non la si era mai vista, neanche ai tempi della monarchia di diritto divino. Bossuet, pur esigendo dal suddito un'obbedienza cieca, non ha mai detto che questi non esisteva in quanto individuo. Uno storico ha potuto dire81 che il governo di Luigi XIV assomigliava più a quello degli Stati Uniti che a una monarchia orientale. Jean-Jacques Rousseau, checché pretendano certi suoi avversari, non predica affatto lo Stato-Moloch; la «volontà generale» che esalta nel Contrat social, è una somma di volontà individuali; e in questo è stato violentemente maltrattato da Hegel, apostolo-tipo dello Stato totalitario. Persino i dottrinari di «Action française» hanno sempre protestato il loro rispetto dei diritti dell'individuo: del resto per pura manovra, dato che il loro maestro proclamato è Auguste Comte, per il quale il cittadino ha solo doveri e niente diritti. In Francia i veri teorici dello Stato negatore dell'individuo - i veri padri dei chierici traditori in questo paese - sono Bonald (biasimato da Maine de Biran) e l'autore del Catéchisme positiviste82. D'altra parte è certo che sopprimere i diritti dell'individuo rende uno Stato molto più forte. Resta tuttavia da sapere se funzione del chierico sia rendere gli Stati forti.
2) L'esaltazione della famiglia in quanto, anch'essa, organismo globale e, come tale, negatore dell'individuo. «Patria, lavoro e famiglia», proclamavano i riformatori di Vichy, il cui dogma non è morto con la loro secessione. Il più strano è che questi uomini di cultura presentavano lo spirito di famiglia come qualcosa che implicitamente comporta l'accettazione dei sacrifici voluti dalla nazione in contrasto con l'egoismo dell'individuo. Come se non esistesse un egoismo della famiglia, rigorosamente opposto all'interesse della nazione - chi imbroglia lo Stato per non intaccare il patrimonio dei suoi o fa imboscare i figli per sottrarli alla morte, non dà chiara prova del sentimento della famiglia? - egoismo infinitamente più agguerrito di quello dell'individuo, visto che è santificato dall'opinione pubblica mentre l'altro è infamante. Del resto i veri uomini d'ordine l'hanno capito. Il nazismo voleva che i figli appartenessero a lui, non alla famiglia. «Noi prendiamo il bambino in culla», dichiarava uno dei suoi capi - che aggiungeva, sempre da uomo d'ordine: «e abbandoniamo l'uomo solo quando è giunto alla tomba» 83.
3) La simpatia per il corporativismo, quale era stato tentato dal governo Pétain seguendo il modello dell'Italia fascista e del Reich hitleriano, che, sottomettendo il lavoratore al regno unico delle tradizioni e delle consuetudini, cioè all'abitudine, tende a distruggere in lui ogni esercizio di libertà e di ragione. Donde deriva allo Stato un aumento di forza, di cui ci si chiede sempre se deve costituire l'ideale del chierico. Forse ai nostri uomini d'ordine farà piacere sapere che uno dei loro grandi antenati voleva che il suffragio politico appartenesse solo alle corporazioni, che esso non fosse concesso «all'individuo, sempre cattivo, a vantaggio della corporazione, sempre buona» 84. Ancora una tesi che non oserebbero più enunciare oggi, per quanto continui a far parte della loro più intima sostanza.
I chierici e la guerra di Etiopia.
Dieci anni fa abbiamo visto dei chierici, con lo stesso sprezzo dell'individuo, applaudire all'annientamento di un popolo debole da parte di uno più forte perché, dicevano, quest'ultimo rappresentava la civiltà e questo annientamento era quindi nell'ordine delle cose. (Si veda il manifesto degli intellettuali francesi al momento della guerra di Etiopia; anche gli articoli di Thierry-Maulnier). Chiunque è disposto ad ammettere che i popoli dotati di una qualche superiorità morale o intellettuale si adoperino per farla penetrare tra quelli che ne sono sprovvisti: ed è appunto il ruolo dei missionari. Ma i nostri chierici intendevano che quello favorito s'impadronisse di quello svantaggiato, lo riducesse in schiavitù, come fa l'uomo con un animale da cui vuole essere servito, senza auspicare affatto che gli portasse la sua civiltà, forse anzi il contrario (così l'hitlerismo voleva fare della Francia la sua schiava, non germanizzarla). Era particolarmente curioso vedere dei francesi sottoscrivere questo diritto delle «nazioni superiori», quando in nome di questo argomento nel 1870, come allenamento per il 1940, una nazione vicina ha violentato la loro. Anche in questo, la classe che per eccellenza doveva opporre al laico e al suo prosternarsi davanti alla forza il rispetto dei valori clericali ha tradito il suo dovere; il papato ha riconosciuto il re d'Italia come imperatore d'Etiopia.
Una delle tesi di questi chierici85 era che i piccoli devono essere preda dei grandi, che questa è la legge del mondo, che i veri perturbatori della pace sono quelli che invitano i chierici a opporvisi. Se voi non esisteste, rimproveravano più o meno esplicitamente al tribunale ginevrino, la potente Italia avrebbe tranquillamente assorbito la debole Etiopia e il mondo non sarebbe in fiamme. Avrebbero potuto aggiungere che nel paese, se lasciassimo i pescicani mangiare tranquillamente i pesciolini e chiudessimo le preture alle quali questi chiedono giustizia, non avremmo affari Bentoux o Stavisky e saremmo molto più tranquilli. Questi moralisti, d'altra parte, devono pensare che i veri responsabili della guerra del 1914 siano gli alleati, i quali non seppero persuadere la Serbia che era suo dovere lasciarsi divorare dall'Austria.
Più grave è che lo strangolamento del debole da parte del forte incontrava allora, se non l'approvazione, almeno l'indulgenza di certi uomini non sistematicamente ostili alla Società delle Nazioni, cioè al principio di una giustizia internazionale86. Le loro tesi, sempre più o meno sincere, erano che, poiché questo organismo, a due riprese, al momento della questione della Manciuria e del conflitto italo-turco, aveva trovato il modo di eludere le misure previste dal suo statuto, non si vedeva perché non lo avrebbe trovato ancora una volta. O anche che loro ammettevano l'applicazione del Covenant con i suoi rischi di guerra, ma non per dei «mercanti di schiavi»87, come se questi mercanti di schiavi - così in altri tempi un povero capitano ebreo - non ci interessassero affatto per se stessi, ma esclusivamente per la causa che rappresentano; come se, nello Stato, la giustizia non chiedesse alla polizia di proteggere tutti i cittadini, anche quelli che personalmente non valgono gran che. O come se sembrasse poco giusto vietare a un giovane Stato le aggressioni con cui si sono arricchiti i suoi predecessori; come se non dovessero auspicare la fine dei costumi da giungla quali sono stati finora quelli della vita internazionale. Ma c'è qualcosa di più eloquente di questo fraintendimento della giustizia da parte di uomini che, in buona fede, non dichiarano pubblicamente di schernirla?
Il chierico e il pacifismo.
Ho parlato della tesi sbandierata dagli antisanzionisti all'epoca dell'affare di Etiopia (da loro ripresa al momento di Monaco), che consisteva nel bollare i partigiani di un'azione contro lo Stato aggressore perché questo atteggiamento sottintendeva l'accettare l'idea della guerra. Questa tesi è stata adottata non solo dagli uomini risoluti a non inquietare i fascismi (per ipocrisia del resto, visto che avrebbero ammesso benissimo, se non acclamato, una politica che rischiasse di portare a una guerra con lo Stato sovietico), ma anche da altri profondamente ostili a quei regimi e seguaci sinceri dell'idea di giustizia, soprattutto da numerosi cristiani. È la tesi secondo cui l'uomo morale - il chierico - deve considerare come valore supremo la pace e condannare per principio ogni uso della forza. Noi la rifiutiamo in blocco e pensiamo che il chierico rappresenti perfettamente la sua parte ammettendo l'impiego della forza, anzi invocandola, quando questa agisca ad esclusivo servizio della giustizia, a condizione di non dimenticare che essa è solo una necessità temporanea e mai un valore in sé. Questa concezione del chierico è stata espressa in maniera ammirevole da un alto dignitario della Chiesa, l'arcivescovo di Canterbury, quando, all'epoca dell'affare di Etiopia, a chi gli rimproverava, dato il suo ministero, di chiedere delle sanzioni pericolose per la pace, rispondeva: «Il mio ideale non è la pace, è la giustizia». Riprendendo in questo le parole del suo divino maestro: «Io non porto la pace, ma la guerra» (la guerra al malvagio)88. Ricordiamo che, allo stesso modo, i redattori di un giornale cristiano89 dichiararono, all'epoca della medesima crisi e anche al momento di Monaco, che, se intendevano opporsi all'ingiustizia prescindendo dalle conseguenze del loro gesto, lo facevano appunto in quanto cristiani. Molti loro correligionari dimenticano che la teologia cristiana conferisce al principe giusto il diritto di spada e che certi angeli, non i meno puri, brandiscono un'arma 90.
La tesi della pace al di sopra di tutto è in numerosi chierici una posizione esclusivamente sentimentale, priva di qualsiasi argomentazione91. Il che è ancora un modo di tradire la loro funzione, che è di ricavare le proprie convinzioni dalla ragione e non dal cuore (si veda infra, p. 50).
Il chierico e l'idea di organizzazione.
Sempre dello stesso ordine, indicherò infine un'idea di cui si può dire che è tenuta in gran conto, almeno implicitamente, da tutti i chierici del momento, i quali mostrano così - molti senza rendersene conto, il che è più grave - il tradimento della loro funzione; voglio parlare dell'idea di organizzazione. Quest'idea è collocata in cima alla scala dei valori dagli uomini di cultura fascisti, comunisti, monarchici come da quelli democratici, che, ancora una volta, vengono battuti a priori quando pretendono di sostenerla in nome dei loro principî, visto che i loro principî ne sono la negazione. In effetti essa è fondata sulla soppressione della libertà individuale, come ha chiaramente esposto il suo inventore92, dichiarando (cosa che mi sembra innegabile) che la libertà è un valore tutto negativo con il quale non si costruisce niente, o ancora uno dei suoi grandi adepti quando scrive, con una franchezza che non si trova in tutti i suoi confratelli: «Il dogma della libertà individuale non peserà un fico secco il giorno in cui organizzeremo veramente lo Stato»93. L'idea di organizzazione ha come scopo di far si che l'insieme ad essa asservito dia il massimo rendimento di cui è capace, sopprimendo le dispersioni di energia dovute alle libertà personali: la totalità della sua national efficiency se questo insieme è uno Stato, della sua produttività materiale se è l'intero pianeta. Essa è un valore essenzialmente pratico, assolutamente l'opposto di un valore clericale. Totalmente sconosciuta all'Antichità, almeno come dogma, è una delle trovate più barbare dell'età moderna. Il fatto che sia adottata dai chierici che si credono più fedeli alla loro funzione mostra fino a che punto la loro casta abbia perso coscienza della sua ragione d'essere.
B.
IN NOME DI UNA COMUNIONE CON L'EVOLUZIONE DEL MONDO. - IL MATERIALISMO DIALETTICO. - LA RELIGIONE DEL «DINAMISMO».
Un altro tradimento dei chierici è, da una ventina di anni, la posizione di molti di loro nei confronti dei cambiamenti che si susseguono nel mondo, in particolar modo dei cambiamenti economici. Consiste nel rifiutarsi di considerare tali cambiamenti con la ragione, cioè da un punto di vista esterno ad essi, cercandone una legge in base a principî razionali, ma nel volere invece coincidere con il mondo stesso in quanto, qualunque sia il punto di vista della mente in proposito, esso procede alla sua trasformazione — al suo «divenire» - per effetto della coscienza irrazionale, adattata o contraddittoria e quindi profondamente giusta, che prende dei suoi bisogni. È la tesi del materialismo dialettico. Essa è esposta, tra gli altri, da Henri Lefèvre in un articolo della «Nouvelle Revue Française» dell'ottobre 1933: Qu'est-ce que la dialectique? e da un importante studio di Abel Rey nel tomo I dell'Encyclopédie française 94.
Questa posizione non è affatto, come dice, una nuova forma della ragione, il «razionalismo moderno»95; è la negazione della ragione, dato che la ragione consiste appunto non nell'identifìcarsi con le cose, ma nell'avere, in termini razionali, opinioni su di esse. È una posizione mistica. Si noterà d'altronde che, anche se molti suoi adepti lo negano, è esattamente quella dell'Evolution créatrice, la quale vuole che, per capire l'evoluzione delle forme biologiche, ci si stacchi dalle opinioni che l'intelligenza si è formata, e ci si unisca a quell'evoluzione stessa concepita come puro «slancio vitale», pura attività creatrice, escludendo ogni stato riflessivo che ne altererebbe la purezza. Si potrebbe ancora dire che, con la sua volontà di coincidere con l'evoluzione del mondo - appunto con la sua evoluzione economica - in quanto puro dinamismo istintivo, il metodo è un principio non di pensiero, ma d'azione, nell'esatta misura in cui l'azione si contrappone al pensiero, o almeno al pensiero riflesso. Proprio per questo esso ha un estremo valore sul piano pratico, sul piano rivoluzionario, ed è quindi più che legittimo in uomini il cui unico scopo è di realizzare il trionfo temporale di un sistema politico, più precisamente economico, mentre è un flagrante tradimento in coloro la cui funzione era di onorare il pensiero proprio in quanto resta estraneo a qualsiasi considerazione pratica.
Ma questi chierici fanno di meglio: pretendono che questa unione mistica con il divenire storico sia al tempo stesso un'idea di questo divenire. «Chi non inserisce la sua idea politica nel divenire storico, esclama uno di loro, o piuttosto chi non la estrae da quest'ultimo con un'analisi razionale è fuori dalla politica come dalla storia»96, dimostrando con il suo «o piuttosto» che considera omogenei il fatto di comunicare con il divenire storico e il fatto di formulare - con un'analisi razionale! - un'idea su questo. Ricorderemo a questo professore di filosofia le parole di Spinoza: «Il cerchio è una cosa, l'idea del cerchio un'altra, che non ha né centro né circonferenza» e gli diremo: «Il divenire storico è una cosa; l'idea di questo divenire è un'altra, che non è un divenire», o ancora: «Il dinamismo è una cosa; l'idea del dinamismo un'altra, che essendo una cosa formulabile, comunicabile, cioè identica a se stessa nel momento in cui viene espressa, è al contrario, uno staticismo». Allo stesso modo, un suo condiscepolo proclama: «Poiché questo mondo è lacerato da contraddizioni, solo la dialettica (che ammette la contraddizione) permette di coglierlo nel suo insieme e di trovarne il senso e la direzione» 97. In altre parole, poiché il mondo è contraddizione, l'idea del mondo dev'essere contraddittoria; l'idea di una cosa deve essere della stessa natura di questa cosa; l'idea del blu deve essere blu. Anche a questo proposito, diremo al nostro logico: «La contraddizione è una cosa; l'idea di una contraddizione è un'altra, che non è una contraddizione». Ma va sottolineato, in uomini cosiddetti di pensiero, questa incredibile confusione tra la cosa e l'idea, confusione che, se involontaria, dimostra una notevole carenza intellettuale e, se volontaria (cosa che sono incline a credere), testimonia una notevole mancanza di onestà.
In quanto alla mia distinzione tra la mistica unione con il divenire storico e la formulazione di un'idea su questo, molti «dialettici» risponderanno: «D'accordo per la distinzione; ma è cominciando con questa unione mistica con il nostro soggetto che esprimeremo in proposito opinioni veramente valide». Anche qui distinguiamo. Si vuol dire che questo stato mistico diventerà conoscenza intellettuale senza cambiare natura, per «estensione di se stesso», per «dilatazione», per «distensione», dice Bergson, ancora una volta maestro dei nostri nuovi razionalisti? O si vuol dire che diventerà tale rompendo con la sua essenza e facendo appello, dopo questa unione, a un'attività di tutt'altro ordine, che è l'intelligenza, il pensiero riflesso? In quanto a me, io adotto risolutamente la seconda tesi e penso che un'idea formulata su una passione non sia affatto il prolungamento di questa passione. La psicologia mi dà ragione. «L'intelligenza, conclude Delacroix, è un fatto primario. I diversi tentativi di deduzione dell'intelligenza sono tutti falliti». Sottometto al lettore il seguente caso. Mademoiselle de Lespinasse scrive: «La maggior parte delle donne non chiedono tanto di essere amate quanto di essere preferite». Ammetto che l'ardente Julie, per giungere a quest'acuta osservazione, abbia dovuto prima sentire la passione della gelosia; ma ritengo che le sia stato anche necessario possedere la facoltà, di tutt'altro ordine, di riflettere sulla propria passione e di destreggiarsi con le idee generali. La sartina che non ha se non la propria sofferenza potrà «dilatarla» fino alla fine dei suoi giorni, non troverà mai niente di simile. Allo stesso modo, sono disposto ad ammettere98 che se Marx ha formulato profonde analisi sul sistema patriarcale, quello feudale e quello capitalista, e sul passaggio dall'uno all'altro, è perché ha incominciato collocandosi all'interno di queste realtà, vivendole; ma affermo che è soprattutto perché ha saputo uscirne e applicarvi dall'esterno un pensiero ragionante, secondo quella che tutti chiamano la ragione. Gli uomini del xv secolo che ancor più di Marx vivevano il passaggio dal regime feudale a quello capitalista, non vi hanno visto niente, appunto perché hanno saputo solo viverlo. Inoltre Marx, tra tutti questi sistemi, stabilisce dei rapporti; ora, stabilire rapporti è il tipo di attività specificamente intellettuale, di cui non si trova il minimo germe nell'esercizio vitale, che non conosce altro che l'attimo presente.
Aspetto che mi si citi un solo risultato dovuto al metodo del materialismo dialettico e non all'applicazione del razionalismo come lo intendono tutti, anche se spesso particolarmente sfumato.
Se si chiede qual è il movente di coloro che sbandierano questo metodo, la risposta è palese; è quello di uomini di lotta, che vengono a dire ai popoli: «La nostra azione è nel vero perché coincide con il divenire storico; adottatela». È quanto uno di loro esprime chiaramente quando esclama: «Scegliere coscientemente le vie che determinano in maniera inevitabile lo sviluppo della società, ecco la spiegazione del realismo della nostra politica»99. Si noterà la parola inevitabile, che implica come lo sviluppo storico si faccia indipendentemente dalla volontà umana; posizione assolutamente mistica, che altri enunciano dichiarando che esso è opera di Dio 100.
Altre negazioni della ragione incluse nella dottrina.
Il materialismo dialettico rinnega la ragione anche per il fatto che intende concepire il cambiamento non come una successione di posizioni fisse, nonché infinitamente vicine, ma come una «incessante mobilità» che ignora ogni fissità; o anche, per usare le sue etichette, come un puro «dinamismo», indenne da ogni «staticismo». Anche in questo, per quanto molti debbano negarlo, esso è una ripresa della tesi bergsoniana, che esalta l'abbracciare il movimento in sé, contrapposto a una successione di punti fermi, per quanto vicini, cosa in effetti del tutto diversa. Ora simile atteggiamento decreta la formale abiura della ragione, visto che è proprio della ragione immobilizzare le cose di cui tratta, almeno finché ne tratta, mentre un puro divenire, che per la sua essenza esclude ogni identità con se stesso, può essere oggetto di una adesione mistica, ma non di un'attività razionale101. Del resto, i nostri «dialettici», nella misura in cui dicono qualcosa, parlano appunto di cose fisse; parlano del sistema patriarcale, del sistema feudale, del sistema capitalistico, del sistema comunista, come di cose simili a se stesse, almeno nella misura in cui ne parlano. Ma l'importante qui non è l'applicazione più o meno fedele della dottrina, è la dottrina stessa, la quale, predicando come modo di conoscenza un atteggiamento tutto affettivo, costituisce, da parte di uomini cosiddetti intellettuali, un perfetto tradimento.
Il materialismo dialettico, che pretende di essere nel divenire in quanto negazione di ogni realtà identica a se stessa anche per pochissimo tempo, vuole stare essenzialmente nella contraddizione e quindi essenzialmente, checché ne dica, nell'antirazionale. La tesi è formulata con tutta la precisione auspicabile in questa dichiarazione di Plekhanov, sorta di manifesto del dogma:
Nella misura in cui delle combinazioni date restano queste combinazioni, dobbiamo valutarle secondo la formula «si è si» e «no è no» (A è A, B è B). Ma nella misura in cui esse si trasformano e cessano di essere tali e quali, dobbiamo fare appello alla logica della contraddizione. Bisogna che diciamo «si e no», esistono e non esistono 102.
Tutto l'equivoco sta nelle parole: si trasformano. Si vuol parlare di una trasformazione continua, che ignori ogni fissità? Allora effettivamente, il principio d'identità non funziona più, è necessaria la «logica della contraddizione» (della quale si attende una definizione). Si vuol parlare di una trasformazione discontinua, in cui uno stato considerato simile a se stesso per un certo tempo passa a un altro stato considerato allo stesso modo e infinitamente vicino? Il pensiero allora continua a far riferimento al principio d'identità: non dobbiamo dire: «Le cose esistono e non esistono», ma «esse esistono e in seguito ne esistono altre», che del resto non negano necessariamente le prime. Ora questa trasformazione discontinua è la sola che la ragione, anzi il linguaggio prendano in considerazione, visto che l'essenza della ragione sta nell'introdurre - arbitrariamente, ma questo arbitrio è la sua stessa natura - fissità nel cambiamento, nell'inserire, secondo una formula celebre, identità nella realtà 103. Quando un altro «dinamista» della stessa sponda afferma, non senza sdegno: «Il principio d'identità ha solo la portata di una convenzione, quella di... stabilizzare le proprietà, sempre in via di trasformazione, degli oggetti empirici sui quali ragioniamo»104, enuncia semplicemente dall'alto della sua superbia il mezzo geniale con cui la mente è riuscita a fare una scienza malgrado la dipendenza delle cose. Quando il filosofo dell'Encyclopédie française aggiunge: «sì e sì, formula dello staticismo, sì e no, formula del dinamismo; ora lo staticismo è solo apparenza», gli risponderemo che è questa «apparenza» l'oggetto della scienza105, mentre il reale lo è di un mistico abbraccio e che la predicazione di un simile abbraccio non è quello che ci si aspettava dalla sua istituzione.
Dove conduce la furia del dinamico.
La furia del dinamico conduce coloro che ne sono posseduti a questa incredibile tesi: che non c'è pensiero valido se non quello che esprime un cambiamento. In uno studio intitolato Caractère dynamique de la pensée106, in cui si confondono il pensiero e l'oggetto del pensiero, dato che un pensiero è sempre statico, voglio dire aderente a se stesso, anche se il suo oggetto è dinamico107, il filosofo più sopra citato distingue tra il giudizio nominale, la cui copula è la forma verbale è (l'uomo è mortale), e il giudizio verbale, dove la copula è sostituita da un «vero verbo» (il verbo essere non sarebbe un vero verbo) e nel quale «è espresso un atto irriducibile a un attributo qualitativo. Qualcosa di dinamico e transitivo e non più statico e inclusivo». «I giudizi: "La pallina bianca ha spinto la pallina rossa", *x ha urtato y" non attribuiscono una qualità ai soggetti, egli dice, non li situano in una classe. Questi giudizi constatano un cambiamento»; ora, solo i giudizi di questo genere, secondo lui, costituiscono il pensiero importante, gli altri sono pensiero «grossolanamente semplificato e ridotto al minimo per la penetrazione del reale». Il lettore dirà se giudizi come «l'idrogeno è un metallo» o «la luce è un fenomeno elettromagnetico», per quanto attribuiscano una qualità ai soggetti, per quanto li situino in classi ed esprimano uno stato, non un atto, rappresentano un pensiero importante. Ma soprattutto giudicherà questi uomini la cui funzione è quella di insegnare il pensiero serio, che, diventati veri dervisci ambulanti, predicano che tali arricchimenti dello spirito meritano solo disprezzo.
Altri tradimenti di chierici in nome del «dinamismo».
Segnalerò ancora altri dogmi con i quali, in nome del «dinamismo», uomini la cui funzione era quella di insegnare la ragione ne esaltano insistentemente la negazione.
1) Il dogma della «ragione elastica» - particolarmente caro a Péguy — che non significa affatto, in questo non sarebbe per nulla originale, una ragione che, enunciando delle affermazioni, non ci tiene mai abbastanza da non ritrattarle a vantaggio di altre più vere, bensì una ragione indenne da ogni affermazione, in quanto l'affermazione è un pensiero limitato a se stesso, una ragione che procede con un pensiero che sia insieme se stesso e altro da sé, di conseguenza essenzialmente «multivoco», indeterminabile, inafferrabile (quello che uno dei suoi fanatici chiama il pensiero «disponibile». Questo dogma è infinitamente vicino all'altro, professato da un filosofo patentato, che vuole che l'essenza della ragione sia l'«ansia», che il dubbio per il saggio non sia uno stato provvisorio, ma essenziale108, che, quando il «surrazionalismo», che questo nuovo metodista ha appena descritto, avrà trovato la sua dottrina, possa «essere messo in rapporto con il surrealismo, perché la sensibilità e la ragione saranno rese entrambe alla loro fluidità»109; è vicino a quegli altri che condannano la «visione statica» della scienza110, quella consistente nel «fermarsi ai risultati della scienza», sottintendendo con ciò che la scienza non deve ammettere nessuna posizione fissa, neanche passeggera: quelli che dicono: «Il pensiero è una danza fantasiosa, che si rappresenta tra pose armoniose e figure varie111; quelli che dichiarano, secondo il loro esegeta, che l'esperienza, appena ci afferra, «ci trascina via dall'attimo, via dalla cognizione, via dal proprio piano forse, via dalla quiete in ogni caso»112. Questa ragione «elastica», in verità, non è affatto ragione. Un pensiero riconducibile alla ragione è un pensiero rigido (il che non vuol dire semplice) nel senso che pretende di essere aderente a se stesso, non foss'altro nell'attimo in cui è enunciato. Esso è, come è stato detto in maniera eccellente, un pensiero che «deve poter essere confutato»113, cioè che presenta una posizione definibile, quella che gli avvocati chiamano una «fase di discussione». E senza dubbio molti pensieri razionali sono iniziati con uno stato mentale privo di pensiero definito, con uno stato vago114, ma chi conosce questo stato lo conosce per uscirne, altrimenti non enuncia nulla che sia riconducibile alla ragione. «Tutto il mio progetto, dice Cartesio, tendeva solo ad abbandonare le sabbie mobili per trovare la roccia e l'argilla». Coloro che ordinano alla mente di adottare come carattere non provvisorio ma organico l'elasticità così intesa, la invitano a respingere definitivamente la ragione e, se si spacciano per apostoli di questa, sono puri e semplici impostori. La messa al bando di ciò che è afferrabile è stata pronunciata da un altro filosofo (Alain) quando esorta il suo gregge a respingere il pensiero in quanto è un «massacro d'impressioni», essendo le impressioni, vale a dire stati di coscienza essenzialmente sfuggenti, le cose valide che non si devono «massacrare». Lo stesso fa sostanzialmente il letterato Paul Valéry quando condanna «il fermarsi su un'idea» perché significa «fermarsi su un piano inclinato», allorché scrive: «L'intelletto è il rifiuto indefinito di essere qualsiasi cosa»; «Non esiste intelletto che sia d'accordo con se stesso; non sarebbe più un intelletto»; «Un vero pensiero dura un attimo solo, come il piacere degli amanti»115; il che equivale a invitarci a comunicare con la natura metafisica dell'intelletto, cosa che non ha niente a che vedere con il pensiero, il quale ancora una volta ha come sua caratteristica di procedere per articolazioni tangibili e determinabili. Questa posizione si potrebbe chiamare lo spirito contro il pensiero 116. Mi viene obiettato che il letterato qui in causa non si spaccia per un pensatore; che con il suo disprezzo per il pensiero non viene affatto meno alla sua funzione di puro letterato. Pertanto non accuso lui, ma quei filosofi, molti dei quali si proclamano razionalisti (Brunschvicg), che lo presentano chiaramente come un pensatore - non gli affidarono la presidenza delle sedute commemorative del Discours de la Méthode e della nascita di Spinoza? - e così coprono con la loro autorità una posizione puramente mistica.
Un esempio impressionante di filosofo «razionalista» che patrocina un pensiero organicamente irrazionale è quello di G. Bachelard, che, nell'Eau et les Rêves, presenta il meccanismo psicologico quale appare in Lautréamont, Tristan Tzara, Paul Eluard, Claudel, come se in qualche misura dovesse servire da modello allo studioso. Questo razionalista esalta (p. 70) «la fantasticheria materializzante, quella fantasticheria che sogna la materia» ed «è un aldilà della fantasticheria delle forme», essendo questa una cosa ancora troppo statica, troppo intellettuale; egli vuole vedere (pp. 9-10) l'origine di una conoscenza oggettiva delle cose in una disposizione di spirito che si preoccupa soprattutto di intrecciare «desideri e sogni» e si sforza di «diventare» razionalista partendo da una conoscenza «per immagini» quale egli la trova appunto in quei letterati. Confessiamo di non riuscire a capire come la conoscenza dell'acqua alla maniera di Claudel o di Paul Eluard, per prendere gli esempi che gli stanno a cuore, condurrà alla conoscenza che consiste nel pensare che questa sostanza è fatta d'idrogeno e d'ossigeno. Gli faremo presente la constatazione di Delacroix: «L'intelligenza è un fatto primario. I vari tentativi di deduzione dell'intelligenza sono tutti falliti»117. Accenniamo peraltro qui a un fenomeno oggi diffusissimo tra i filosofi, nonché tra gli scienziati: tener conto di affermazioni di letterati in voga, puramente brillanti e gratuite com'è nel loro diritto farle, ma di cui c'è da chiedersi che cosa c'entrino con speculazioni con pretese di serietà. Questo è l'effetto di uno snobismo letterario, la cui adozione da parte di uomini cosiddetti di pensiero non rappresenta esattamente un segno di fedeltà alla loro legge 118.
I nostri dinamisti, per squalificare il pensiero sia pure per pochissimo tempo identico a se stesso e quindi razionale, sostengono che esso è incapace di cogliere le cose nella loro complessità, nella loro infinità, nella loro totalità. È quanto esprimono quando dichiarano (Bachelard) che se la prendono con il razionalismo «ottuso», che intendono «aprire» il razionalismo. Un simile pensiero, bisogna dirlo, non è affatto condannato a conoscere le cose soltanto nel loro semplicismo, è capacissimo di spiegarle nella loro complessità; ma lo fa restando identico a se stesso, secondo i costumi del razionale. Ora è questo che i nostri profeti non ammettono. La verità è che questi nuovi «razionalisti» respingono il razionalismo non ottuso quanto quello ottuso, solo per il fatto di essere razionalismo. In quanto all'infinità delle cose, alla loro totalità - che il materialismo dialettico pretende di raggiungere, poiché pretende di raggiungere la «realtà» e questa è «totale»119 - il razionalismo, in effetti, non la dà, per la buona ragione che, per definizione, si applica a un oggetto limitato, di cui del resto sa benissimo come la limitazione che ne fa sia arbitraria. «La scienza, dice molto giustamente uno dei suoi analisti, è possibile solo a condizione di poter ritagliare nell'insieme del reale sistemi relativamente chiusi e considerare trascurabili tutti i fenomeni che non fanno parte di questi sistemi»120. «Il Tutto, dichiara perfettamente un altro, è un'idea da metafisico: non è un'idea da scienziato» 121. Ancora una volta, coloro da cui ci si aspettava che insegnassero agli uomini il rispetto della ragione e che pretendono di farlo, predicano loro una posizione mistica.
Un'accusa simile a quella precedente contro il pensiero stabilizzato è di procedere solo per affermazioni «grossolanamente ottuse», con una fermezza «priva di sfumature»: Taine ne sarebbe il simbolo. Come se caratteristica del buon intelletto non fosse appunto la fermezza nella sfumatura; come se le sfumature che il fisico moderno stabilisce, per esempio, nell'idea di massa: l'idea di quantità di materia, di capacità d'impulso, di quoziente della forza mediante l'accelerazione, di coefficiente della legge di attrazione universale, non fossero idee perfettamente identiche a se stesse e per niente «mobili». Come se non si potesse dire lo stesso, sul terreno psicologico, delle sfumature di Stendhal, di Proust, di Joyce, nonché di Taine. Ma la consegna di quei chierici è di votare al disprezzo degli uomini il pensiero razionale, con tutti i mezzi.
Ecco un bell'esempio della loro volontà d'identificare il pensiero che procede per sfumature con un pensiero mobile. «Quando Einstein, scrive uno di loro, ci suggerisce di correggere e di complicare le linee del newtonianismo, troppo semplici e troppo schematiche per adattarsi esattamente al reale, rafforza nel filosofo la convinzione che era effettivamente utile far passare la critica kantiana da uno stato "cristallino" a uno stato "colloidale"»122. E un altro: «Cercare la sfumatura, anche a rischio di sfiorare la contraddizione, questo è il mezzo per afferrare la realtà»123. Notiamo tuttavia la timidezza di quello «sfiorare». Barbari che si vergognano della loro barbarie.
I nostri dinamisti infine condannano ancora il pensiero stabile perché esso si crederebbe definitivo. Le idee di un vero scienziato, dice il nostro filosofo dell'Encyclopédie124, «non devono mai essere considerate definitive o statiche», e per lui evidentemente questi ultimi due aggettivi sono sinonimi. Come se ciò che è statico non potesse sapere di essere provvisorio senza peraltro diventare affatto di una mobilità inafferrabile. Nello stesso spirito Brunschvicg paragona certi scienziati contemporanei a un fotografo che, con la testa nascosta sotto il drappo nero, gridasse alla natura: «Attenzione! sto scattando; non muoversi più!» Si cerchi dov'è oggi, tra gli uomini che pensano per idee stabili, uno così semplificatore. Chi vuole annegare il proprio cane, dice che è arrabbiato.
2) Il dogma del «perpetuo divenire della scienza», che non significa, neppure questo, che la scienza debba procedere per successione di stati fissi di cui nessuno definitivo, cosa che nessuno contesta, ma per ininterrotto mutamento, sul modello della «durata», essenziale, sembra, allo spirito dello scienziato. Questa concezione è quella di molti filosofi attuali quando riconducono il divenire della scienza al fatto che essa deve modellarsi sul reale in quanto questo è incessante cambiamento, «riafferrare la realtà nella mobilità che ne è l'essenza»125. C'è da chiedersi che cosa sarebbero stati un Louis de Broglie o un Einstein se la loro mente fosse stata esclusivamente incessante mobilità e rifiuto di adottare qualsiasi posizione stabile. Anche in questo i nostri chierici esaltano un atteggiamento puramente passionale, che ripudia ogni ragione.
3) Il dogma del concetto «fluido» (Bergson, Le Roy), che non vuol dire il richiamo a un concetto sempre più differenziato, sempre più adattato alla complessità del reale, ma l'assenza di concetto, visto che il concetto, per quanto differenziato, sarà sempre, per il fatto di essere concetto, una cosa «rigida», incapace, per essenza, di sposare il reale nella sua mobilità. È una posizione che non dovrebbe essere rimproverata a un Bergson o a un Le Roy, i quali, soprattutto il secondo, si presentano chiaramente come mistici. Ma che dire del «razionalista» Brunschvicg che, dall'alto della sua cattedra, annuncia a una gioventù china sotto il suo verbo un razionalismo «senza concetti» 126?
4) Il dogma secondo cui le tesi della nuova fisica segnerebbero la fine dei principî razionali. Questa tesi non è stata sostenuta solo da letterati e uomini di mondo, razza alla quale non è richiesto sangue freddo e che non detiene alcuna autorità nella fattispecie, ma da filosofi, nonché da scienziati in questo campo educatori patentati. È necessario ricordare che, se la nuova fisica ha notevolmente raffinato i principî razionali nella loro applicazione, non li ha affatto abbandonati nella loro natura? che, per quanto riguarda il principio di causalità, Brunschvicg si è sentito dire, in celebri sedute della Società di Filosofia, che con il suo libro sulla causalità fisica e l'esperienza umana aveva dimostrato come questo principio si complica sempre più nell'uso che ne fa la scienza moderna, ma in nessun modo un cataclisma della sua essenza? che, riguardo al determinismo, un Einstein e un De Broglie dichiarano che, se la nuova fisica li costringe a correggere quanto per la loro mentalità c'era di troppo assoluto in questa idea, tuttavia nella sostanza non la respingono affatto, poiché appare loro la base di ogni atteggiamento veramente scientifico127? «Non si insiste abbastanza, scrive un commentatore, del resto pieno di ammirazione per questa nuova scienza, sul fatto che la fisica indeterministica riposa sulla logica classica. Non si è mai pensato di introdurre un'imprecisione intrinseca nella logica, neppure nel nostro pensiero puro. Una simile supposizione falserebbe tutti i nostri ragionamenti»128. Quando L. De Broglie dichiara che lo studio della fisica nucleare potrebbe scontrarsi un giorno con i limiti di comprensione della nostra mente129, vuol dire che l'uomo potrebbe essere condotto a rinunciare alla conoscenza fondata sui principî razionali, non che sarebbe in grado di farsi un «nuovo» spirito scientifico, il quale ignorasse quei principi. Ancora una volta ritroviamo, in certi educatori, che invitano i giovani ad avvolgere la ragione nel sudario in cui dormono gli dei morti, la volontà di insegnare ai giovani l'abbandono della ragione.
5) La tesi secondo cui la ragione non ammette alcun elemento fisso attraverso la storia e deve cambiare non di comportamento ma di natura, sotto l'azione dell'esperienza; è la tesi delle «età dell'Intelligenza» di Brunschvicg, che vuole insomma che la ragione sia sottomessa all'esperienza e alle sue vicissitudini e da queste determinata. Ogni lettore un po' avveduto ha già risposto che tale tesi è insostenibile; che la ragione, se è derivata dall'esperienza all'epoca in cui l'uomo, in lotta con l'ambiente, gettava le basi della propria natura, le è diventata trascendente quanto all'interpretazione; in altri termini, l'esperienza, nella misura in cui non è una semplice constatazione ma un arricchimento dello spirito, implica la preesistenza della ragione. «L'esperienza, è stato detto (Meyerson), è utile all'uomo solo a patto che questi ragioni» e ancora, non meno giustamente: «Non si può assolutamente imparare niente dall'esperienza se non si è stati organizzati dalla natura in maniera tale da unire il soggetto all'attributo, la causa all'effetto»130. Aggiungiamo che se l'esperienza credesse di provare che la ragione fallisce così come l'esercitiamo, lo farebbe valendosene e distruggerebbe di colpo tutta la sua prova. La ragione, dice con acume Renouvier, non proverà mai con la ragione che la ragione è giusta. Non proverà neanche che è sbagliata. Ma quello che vogliamo puntualizzare qui è la smania del chierico moderno nel negare l'esistenza di qualsiasi valore assoluto, mentre è appunto suo compito richiamarsi a tali valori, e, come fa il laico, volere che stiano tutti sul piano dell'agitazione131.
I chierici e l'ideologia comunista.
Oltre all'adozione del materialismo dialettico, segnalerò altre vie attraverso le quali i chierici, aderendo all'ideologia comunista, tradiscono l'insegnamento che costituiva la loro ragione d'essere:
a) Adottando un'ideologia che respinge l'idea di giustizia astratta, identica a se stessa al di sopra dei tempi e dei luoghi, e pretende che tutte le forme sociali, anche quelle che giudichiamo più inique, siano state giuste al loro tempo, visto che la giustizia, ci dicono, non è un concetto astratto forgiato dalla mente132, bensì una nozione che ha senso solo in rapporto a uno stato economico determinato e quindi mutevole. È assolutamente naturale che uomini il cui scopo è il trionfo di un sistema economico vogliano che il più alto prodotto della moralità umana sia semplice espressione di sistemi di tale ordine e rifiutino di ammettergli un'idealità che potrebbe ritorcersi contro di loro. Ma è appunto ruolo dei chierici proclamare questa idealità e opporsi a coloro che intendono vedere nell'uomo soltanto i suoi bisogni materiali e l'evoluzione del loro soddisfacimento. Avvalorare questo materialismo equivale a sottoscrivere la carenza dell'organo di protesta contro la sensualità umana, del quale essi dovevano essere incarnazione e che costituiva una necessità fondamentale per la civiltà.
Questa idealità della nozione di giustizia non è affatto un postulato da metafisico, come ama decretare l'avversario dall'alto del suo «realismo». Ritengo che i popoli che Nabuccodonosor trascinava con un anello al naso per le strade della Caldea, il disgraziato che il signore medievale legava alla macina prendendogli la moglie e i figli, l'adolescente che Colbert incatenava per tutta la vita alla panca della galera, avessero chiarissimo il senso che veniva violata in loro una giustizia eterna - statica - e niente affatto che la loro sorte era giusta date le condizioni economiche della loro epoca. Ritengo che, contrariamente a quello che predicano i fanatici del divenire storico, la loro concezione della giustizia «andava più veloce della storia». Fin da quando essa è apparsa, è stato consustanziale alla coscienza umana insorgere contro il fatto che la schiacciava. (Si veda la perennità delle rivolte di gente oppressa). Allo stesso modo gli oppressori hanno sempre preteso di giustificare i loro atti in nome d'una giustizia di tutti i tempi e di tutti i luoghi; solo recentemente hanno scoperto le giustizie «di circostanza». L'evoluzionista deve rassegnarsi a questo: l'idea di giustizia astratta è un elemento fondamentale dell'Uomo, come l'idea di causa o il principio d'identità.
Chiediamoci a questo proposito che cosa si debba intendere per morale «dinamica», esaltata da una folla di chierici a seguito della celebre opera: Les deux sources de la morale et de la religion. Si vuol parlare del dinamismo dell'essere umano che si dedica a un ideale stabile, per esempio la giustizia? In questo caso siamo tutti sostenitori della morale dinamica (anche se l'adozione statica - platonica - di un ideale ci sembra possedere lo stesso valore morale dell'adozione dinamica, l'essere contemplativo quanto quello attivo: la fede inattiva ci sembra che possa essere benissimo una fede sincera; la fede dell'autore dell' Imitazione come quella di Pierre l'Ermite). Oppure si vuol parlare, come si è indotti a credere da tutta la filosofia dell'autore, di una morale i cui ideali siano essi stessi in movimento, in un «perpetuo divenire» che non conosce alcuna fissità? In altri termini, il valore della morale dinamica sta nella sua azione verso uno scopo definito, o sta proprio nel suo dinamismo indipendentemente dalla natura del suo scopo e magari senza scopo? Chiediamoci anche, quando ci parlano di morale «aperta», come poco fa di razionalismo «aperto», se si tratta di «aprirla» mantenendone i principî costitutivi o di aprirla al punto di mandarla in frantumi: il che sarebbe di nuovo la negazione di quella morale assoluta che è funzione del chierico predicare133.
b) Adottando un'ideologia che pretende che anche la verità sia determinata dalle circostanze e rifiuta di sentirsi vincolata da quanto asserito ieri e dato per vero, se le condizioni di oggi ne richiedono un'altra. Si troverà una dichiarazione formale di questa posizione nel Discorso sul piano quinquennale di Stalin, che presenta un'ardente apologia del contraddittorio come «valore vitale» e «strumento di lotta». Una delle grandi forze di Lenin, assicura uno dei suoi storici, Marc Vichniac, era la sua capacità di non sentirsi mai prigioniero di quanto predicato il giorno prima come verità134. Anche in questo, uomini che mirano a uno scopo pratico rappresentano perfettamente la loro parte quando si dichiarano pronti a rinnegare il loro diktat della vigilia se il successo lo richiede. Il famoso motto di Mussolini: «Diffidiamo della trappola mortale della coerenza» potrebbe essere sottoscritto da tutti coloro che intendono portare avanti un'opera all'interno di correnti che non possono prevedere. Del resto, con ciò i seguaci del totalitarismo non fanno che confessare dei costumi che sono propri di tutti i realisti. Poco prima della guerra un ministro britannico135 dichiarava: «Manterremo i nostri impegni, ricordandoci però che il mondo non è statico», traducete: riservandoci di non mantenerli se le condizioni cambiano. Ma che degli uomini di mente si asserviscono a una filosofia che si vanta di conoscere solo l'opportunità e di ammettere solo verità di circostanza, ecco io chiedo se questo non significa strappare lo statuto del proprio ordine e dichiarare la propria radiazione.
c) Aderendo a un sistema che sopprime la libertà dell'individuo, soppressione che dichiaro subito essere molto saggia da parte di un sistema che vuole costruire una società (la dittatura del proletariato), perché la libertà, come ho detto sopra, è un valore tutto negativo, con il quale non si costruisce niente. Gli argomenti del comunismo per dimostrare che esso dà la libertà sono uno più specioso dell'altro e i suoi grandi capi lo sanno benissimo. Uno di loro136 proclama: «Per chi marcia verso l'avvenire (leggete è comunista), la libertà è adesione e costruzione»; come se la questione non fosse quella di sapere se si darà la libertà a colui che non marcia verso l'avvenire e per il quale la libertà non è affatto adesione né costruzione. Altri spiegano che rinunciare all'esercizio della nostra individualità contingente per partecipare alla necessaria evoluzione del mondo, è la vera libertà, che è la libertà del panteismo, di Spinoza e di Hegel (filosofi cari al sistema) in cui l'individuo, liberato dall'«illusione individuale», si inserisce nello sviluppo della Sostanza infinita e non compie più nemmeno un movimento che dipenda dalla sua volontà. Altri sostengono che il sistema conduce alla libertà visto che, con il tempo e un'educazione appropriata, l'uomo non concepirà più altri regimi e quindi non conoscerà il sentimento dell'opposizione. Come se per lo spirito la libertà non consistesse appunto nella facoltà di immaginare più possibilità e di sceglierne una, cioè nella libertà di scelta. E il sistema, che non dà la libertà, è ancora molto saggio a sostenere che la dà e a trarre così beneficio da una parola il cui effetto sulle masse rimane notevole. Tutto ciò è più che giusto da parte di uomini che intendono conquistare ciò che è temporale e non hanno altra legge da conoscere se non l'eccellenza dello scopo. Ma che dei chierici sottoscrivano un sistema di cui sanno benissimo, loro, che è la negazione della libertà o che, se un giorno dovesse restituirla, ciò accadrà solo dopo averne distrutta la forma più propriamente spirituale, non è certo l'aspetto meno sorprendente della loro moderna abiura.
d) Appoggiando un sistema che onora il pensiero unicamente se serve, che lo condanna se trova soddisfazione semplicemente nell'autoesercitarsi - «l'umanesimo comunista, dice Marx, non ha nemico più pericoloso dell'idealismo speculativo» - mentre era sempre stata legge del chierico attribuire il posto supremo al pensiero disinteressato, senza alcuna considerazione per i risultati pratici che potrebbe comportare, da quando Platone ha insegnato, forse non senza esagerazione, che l'astronomia si degrada a mettersi al servizio della navigazione, fino a Fustel de Coulanges il quale dichiara che la bellezza del metodo storico è che non serve a niente. Apostasia analoga a quella che vuole (Langevin, Bayet, La Morale della scienza) che la scienza porti, per sua natura, più moralità agli uomini, mentre i veri chierici hanno sempre pensato che la moralità della scienza sta nel suo metodo, in quanto essa ci costringe a sorvegliare continuamente noi stessi, a rinunciare continuamente a opinioni seducenti, a lottare continuamente contro facili soddisfazioni, non nell'utilizzazione che gli uomini fanno della scienza, cosa che apporta loro maggiore libertà o miseria a seconda della loro moralità (esempio, la bomba atomica), di cui la scienza non è affatto responsabile.
e) Infine, ratificando una filosofia la quale pretende che i prodotti intellettuali dell'uomo non siano che una particolare conseguenza della sua condizione economica. Anche in questo caso è assolutamente naturale che uomini che vogliono il trionfo di un sistema economico riconducano tutte le attività umane, anzi le più nobili, soprattutto le più nobili, a una causa di quest'ordine; è una manovra strategica, di cui quelli che la dirigono sarebbero forse i primi a convenire che non ha niente a che vedere con la verità. Ma che dei chierici esaltino una dottrina la quale, oltre ad assegnare alle più alte manifestazioni della mente umana un'origine completamente meccanica137, enuncia una flagrante contro-verità138, è un bell'esempio di quella scissione di sé che essi oggi praticano.
Insomma, il tradimento dei chierici che denuncio nel presente capitolo dipende da questo: adottando un sistema politico che persegue uno scopo pratico139, essi sono costretti ad adottare valori pratici, i quali, per questa ragione, non sono clericali. Il solo sistema politico che il chierico possa adottare rimanendo fedele a se stesso è la democrazia perché, con i suoi valori sovrani di libertà individuale, di giustizia e di verità, essa non è pratica140.
C.
ALTRI NUOVI MODI DI TRADIMENTO DEL CHIERICO: IN NOME DELL'«IMPEGNO», DELL'«AMORE», DEL «CARATTERE SACRO DELLO SCRITTORE», DEL «RELATIVISMO» DEL BENE E DEL MALE. - CONCLUSIONE.
Parlerò ancora di alcuni atteggiamenti, in parte nuovi, con i quali i chierici tradiscono oggi la loro funzione:
1) Conferendo valore al pensiero solo se questo implica nel suo autore un «impegno», per l'esattezza un impegno politico e morale, tuttavia non relativo alle questioni di quest'ordine poste nell'eterno, come in Aristotele o Spinoza, ma un impegno nella battaglia del momento in ciò che essa ha di contingente - lo scrittore deve «impegnarsi nel presente» (Sartre) - una presa di posizione nell'attuale in quanto attuale, con un sovrano disprezzo per chi pretende di mettersi al di sopra del suo tempo (si vedano i manifesti «esistenzialisti») 141.
Tale posizione conduce a una valutazione tutta nuova delle opere dello spirito. Così un'opera straordinaria su un certo argomento di psicologia sperimentale o di amministrazione romana, che evidentemente non impegna il suo autore nelle polemiche del momento, sarà oggetto di scarsissima considerazione142, mentre un'altra, totalmente priva di un vero pensiero, nonché di arte, ma in cui l'autore proclama energicamente di militare sotto una bandiera, è trattata come un'opera d'alto livello (si veda la cronaca dei libri nelle rassegne di questi dottoroni). Questo giudizio vale soprattutto nei riguardi del romanzo; lo si considera un genere inferiore se consiste solo in un quadro di costumi, uno studio di caratteri, la descrizione di una passione o altra attività oggettiva, quindi svalutandolo ipso facto, come si vede nelle opere di Benjamin Constant, Balzac, Stendhal, Flaubert, nonché Proust; lo si proclama grande solo se incarna la volontà dell'autore di «prendere posizione di fronte all'evento» (per questo si ammirano i romanzi di Malraux) e di fronte all'evento attuale (Malraux, dichiara uno dei suoi fanatici seguaci, è il nostro più grande romanziere «perché è il più contemporaneo» 143). È necessario dire che questa venerazione del pensiero in quanto posizione di lotta in un tafferuglio da trivio è la negazione esatta di quello che il chierico ha sempre inteso per pensiero?
Vicino a questo è l'atteggiamento di recenti educatori, che condannano lo studio delle discipline umanistiche greco-latine perché inadatto a formare degli «uomini», intendendo con ciò esseri attrezzati per la lotta, e precisamente per la lotta sociale 144. Una simile posizione, assolutamente adatta a dirigenti di partito, è una vera e propria perversità in coloro la cui legge è di volere che l'educazione abbia lo scopo di formare non buoni lottatori capaci di rimboccarsi le maniche nella mischia di domani, ma uomini provvisti di metodi mentali e di nozioni morali che trascendono l'attualità, cose che lo studio delle civiltà mediterranee dell'antichità e di quelle da esse derivate è in grado di fornire meglio di qualsiasi altro.
I giustizieri del pensiero «non impegnato» non sempre si accorgono che essi predicano esattamente la stessa crociata che predica una scuola di cui si dichiarano sovente l'assoluta negazione. Lanciando un breve alle sue pecorelle, il ministro dell'Educazione nazionale di Vichy, Abel Bonnard, decretava: «L'insegnamento non dev'essere neutro; la vita non è neutra». Al che il vero chierico risponde che la vita non è neutra, ma la verità sì, almeno politicamente; e con ciò istituisce di colpo l'unità dei realisti di tutte le sponde contro di sé.
Decidere che l'essenziale per il pensatore è sapersi impegnare conduce ad assegnargli come virtù capitale, che dispensa da quasi tutte le altre, il coraggio, l'accettazione di morire per la posizione adottata, qualunque ne sia la qualità intellettuale e perfino morale. Di qui si dedurrebbe che Aristotele e Cartesio, per i quali l'eroismo non sembra essere stata la dote dominante, sarebbero assai mal piazzati nel tempio dello spirito. Molti onorano il tipo umano superiore in quegli uomini di cui parla Malraux «pronti a tutti gli errori, purché li paghino con la vita», il che implica che essi lo onorano in Hitler e la sua banda.
Qualcuno si chiederà se la mia protesta contro una scuola che non rispetta altro che il pensiero impegnato non implichi la mia adesione a un'altra scuola che stima solo il pensiero non impegnato, risoluta a non uscire mai dalla «disponibilità». Niente affatto. Penso che lo scrittore che tratta posizioni morali, non nei termini oggettivi dello storico o dello psicologo, ma da moralista, cioè improntandole a giudizi di valore - ed è esattamente il caso dell'autore delle Nourritures terrestres, di Numquid et tu, di molte pagine del suo diario - ha il dovere di assumere una posizione precisa, a rischio altrimenti di cadere nella predicazione del dilettantismo, che costituisce, specificamente in fatto di morale, un insigne tradimento di chierico. Quelli che io condanno, sono coloro che non onorano altro che il pensiero legato a un impegno morale e umiliano quello in cui non c'è spazio per tale impegno - il pensiero puramente speculativo — che è forse la forma più nobile di questa attività.
2) Opponendosi, in nome dell'amore, all'azione della giustizia (arringhe dei Mauriac e di altri in favore di traditori accertati; richiesta di amnistia per crimini riconosciuti). Vi è in questo atteggiamento un formale tradimento dello stato di chierico, dato che l'amore, essendo eminentemente un comandamento del cuore e non della ragione, è il contrario di un valore clericale. Perfino certi adepti del culto dell'amore, dotati però d'un profondo senso del chiericato, hanno messo al primo posto dei loro valori, non l'amore, ma la giustizia. Si sono già viste le parole dell'arcivescovo di Canterbury: «Il mio ideale non è la pace, ma la giustizia». E un altro grande cristiano: «Bisogna sempre fare giustizia prima di esercitare la carità»145. Chi predica l'amore in disprezzo alla giustizia e si atteggia a chierico, è un vero e proprio impostore.
Questi profeti spiegano anche che predicano l'amore per «riconciliare tutti i Francesi», per creare l'«unione nazionale». Ora i chierici non hanno da creare nessuna unione nazionale, che è compito degli uomini di Stato, hanno da riconoscere, o almeno da sforzarsi di riconoscere, giusti e ingiusti, onorare i primi e bollare d'infamia i secondi. Così pure, per quanto riguarda la pace mondiale, non devono salmodiare un abbraccio universale, ma auspicare che i giusti governino il mondo e tengano a bada gli ingiusti. Anche in questo caso, la loro funzione è di giudicare, non di abbandonarsi alle emozioni.
Uno dei moralisti qui in causa proclama il suo netto rifiuto, in nome dell'amore, di distinguere tra il giusto e l'ingiusto. «Non è di una disciplina tutta nuda, proclama Mauriac, che abbiamo bisogno, è di amore... Per il cristiano non si tratta di alzare barriere e steccati, né di fornirsi di stampelle»146. Facciamo notare, en passant, che le definizioni dei teologi cattolici, la loro costante cura di separare ciò che considerano la verità dall'errore, non esprimono altro che la preoccupazione di alzare barriere e steccati. Al momento della guerra di Etiopia, il nostro uomo di cultura avvolgeva nello stesso amore147 il giovane tenente etiope e quello romano che morivano entrambi baciando il crocifisso, deciso a ignorare che il primo cadeva per la difesa del diritto mentre il secondo era partito per la guerra tutto contento di dar sciabolate e saccheggiare. Di rado è capitato di vedere meglio quanta confusione mentale implichi l'amore148.
Questi moralisti ci dicono anche, mostrando i loro clienti: «Questi criminali hanno diritto al vostro amore; perché, come voi, sono uomini». Questo permette di precisare che cosa sia l'umanesimo agli occhi del chierico. Che cosa significa per lui essere uomo? Ritengo che non sia conformarsi a una certa struttura anatomica, ma presentare un certo carattere morale. La sua posizione è stata definita da queste parole del maestro: «Per vita umana intendo quella che si manifesta non attraverso la circolazione del sangue e altre funzioni comuni a tutti gli animali, ma attraverso la ragione, soprattutto la virtù e la vera vita»149. Così, se il chierico è per sua natura tenuto a non far caso alle razze biologiche tra gli uomini, deve ammettere delle razze morali, cioè gruppi di uomini che hanno saputo elevarsi a una certa moralità e altri che se ne dimostrano incapaci. La parola razza non è forse qui del tutto giusta, poiché niente prova che il basso livello morale di questi secondi gruppi sia una cosa inevitabile e non abbiano la possibilità di superarlo, per quanto inducano a crederlo la profondità del culto della forza, la tenacia di questo culto, talvolta l'ingenua incoscienza, di un popolo il cui nome è sulle labbra di tutti.
La sospensione della giustizia in favore di traditori accertati (Béraud, Maurras, Brasillach) viene richiesta da altri chierici (J. Paulhan, R. Lalou) in nome del «diritto all'errore». Vi è in ciò una grossolana confusione di cui c'è da chiedersi se già da sola non costituisca un tradimento da parte di sedicenti intellettuali.
Un errore è un'affermazione falsa relativa a un fatto; è enunciare che il sole si leva a occidente o che il mercurio bolle a venti gradi. Ben altra era la posizione dei Maurras e consorti. Essa consisteva nel dichiarare: «Noi abbiamo in odio la democrazia e lavoreremo con tutti i mezzi per distruggerla (testo celebre)». Tra i quali mezzi era apertamente ammesso il tradimento. (Si vedano i testi a p. 9, nota 2). Il leader dell'«Action française» affermava pubblicamente che, se la Vandea avesse assassinato la Convenzione, egli avrebbe applaudito con calore. Uno dei suoi luogotenenti annunciava che in caso di conflitto egli sarebbe passato al nemico per collaborare alla rovina della democrazia»150. Ora, una simile posizione non è un «errore»; in nome di un sistema di valori, è una premeditazione di assassinio, che un giorno è stata portata a esecuzione 151.
Ora, io ritengo che lo scrittore abbia si il diritto di dichiarare guerra allo Stato, in nome delle sue convinzioni morali; ritengo anche che, se egli imbavaglia queste convinzioni e vuol conoscere soltanto l'interesse dello Stato, diventi un vile conformista e rientri appieno nel tradimento dei chierici. Ma ritengo che debba allora accettarne le conseguenze: e cioè che lo Stato, se lo giudica pericoloso, gli faccia bere la cicuta152. È quanto aveva mirabilmente capito Socrate, il chierico totale, che non si difese nemmeno dall'azione intentatagli contro dall'ordine costituito, giudicandola legittima se questo considerava il suo insegnamento atto a sovvertirlo dalle fondamenta. Ora, i contendenti qui in causa sembrano pensare che, anche se lo scrittore tende a pugnalare lo Stato, anche se lo confessa, la giustizia deve deviare il proprio corso in suo favore. Le loro ragioni sono di due tipi.
Gli uni invocano la necessità per una società di salvaguardare il «pensiero»153. Ebbene, noi riteniamo che la gerarchia di valori del chierico debba collocare la giustizia al di sopra del pensiero, foss'anche quello di un Newton o di un Einstein, salvo poi salvaguardarlo, in caso di colpevolezza, con un decreto d'eccezione e non per principio. Per di più, a meno di non chiamare pensiero tutto ciò che si stampa, non vedo che cosa il pensiero abbia perso con la scomparsa di un Maurras o di un Brasillach. Pertanto bisognerebbe non prendere per pensiero l'arte di destreggiarsi con i sofismi come Roert-Houdin con i suoi bussolotti o il semplice talento letterario.
Quanto agli altri154, sembra che il talento letterario sia la virtù suprema e che si debba permettere tutto al dio che ne porta l'aureola. Sono quei moralisti che vedemmo reclamare - e ottenere - la grazia di un traditore accertato perché impersonava «la nostra vecchia verve gallica» (Mauriac). È un aspetto che sembra non essere stato preso in considerazione dallo storico della France byzantine.
I sacerdoti dell'amore presentano come realizzazione politica del loro ideale la democrazia. Essi salmodiano: «La democrazia è legata al cristianesimo e la spinta democratica è apparsa nella storia umana come una manifestazione temporale dell'ispirazione evangelica»155. E ancora: «La democrazia è di sostanza evangelica; ha per essenza l'amore»156; «La democrazia implica entusiasmo e slancio, dinamismo spontaneo, avvento di masse in gran parte non educate e perciò più istintive che intellettuali»; «La democrazia, nel più profondo del suo intimo, è forse la vita stessa che scaturisce dalla massa popolare»157. La natura di queste definizioni è tale da far concepire la democrazia come sede di una sentimentalità ardente e da allontanarne tutti gli uomini i cui valori supremi sono la giustizia e la ragione. Esse mostrano che l'atteggiamento mentale dei loro autori è quello di fondare i propri giudizi sugli slanci del cuore; che essi sono quindi radicalmente estranei all'istituzione clericale.
3) Proclamando che non esiste una morale superiore, di fronte alla quale tutti gli uomini devono inchinarsi; che, per ciò che riguarda specificatamente le relazioni internazionali, ogni popolo ha la propria morale particolare, che ha lo stesso valore di quella dei suoi vicini; che spetta a questi capirla e adattarvisi. La tesi è stata predicata con estrema chiarezza alcuni anni fa da un letterato francese ai suoi compatrioti a proposito della morale tedesca. Egli spiegava loro:
La buona fede tedesca è particolare... Essa è per così dire di natura feudale. È un legame da uomo a uomo: una fedeltà personale. Questa buona fede consiste nel non tradire l'amico, il compagno. Ma essa non impegna con il nemico. Se ne infischia di contratti e di firme. Quando si tratta di un amico, il contratto è superfluo. Sarà sempre meno impegnativo di quanto non lo sia l'amicizia viva, il desiderio di mantenere la stima e la fiducia del compagno, per farla breve, quello che, dal punto di vista feudale, chiamate l'onore. Quando si tratta di un nemico, il contratto è inutile. Tutto è permesso con il nemico. Si è firmato perché abbandoni la presa. Appena possibile, si cerca di sottrarsi agli obblighi che sono stati imposti; si ricorre all'astuzia, all'inganno. Non è un peccato contro l'onore. È quasi un dovere. Ed è quello che chiamiamo, noi, la malafede tedesca 158.
In altri termini, la buona fede tedesca è quella degli apaches. Anche loro s'impegnano a non tradire il compagno, anche loro hanno un codice d'onore, anche loro se ne infischiano del contratto con il nemico. Essa non è inferiore alla buona fede che mantiene la parola data: è diversa. Cerchiamo di capirla.
Il lettore deciderà se questo obbligare il giusto ad ammettere che l'ingiustizia è una morale che vale quanto la sua e ad adoperarsi per intendersi con essa non sia il più cinico dei tradimenti del chierico. 11 responsabile di questo insegnamento protesta, mi viene assicurato, che lui non è un chierico. Me lo immaginavo. Ma il suo uditorio lo considera tale, voglio dire un pensatore, non un ciarlatano politico, e questo equivoco è alla base dell'importanza che viene conferita al suo verbo. Sarebbe bene che dissipasse questa confusione.
Il chierico veniva meno vergognosamente al proprio dovere quando, nel momento dei fascismi trionfanti, accettava ciò che è ingiusto perché era «un fatto»; anzi, si faceva adulatore delle filosofie che più disprezzavano ogni idealità e proclamava che questo era giusto perché incarnava ciò che in quell'istante era «la volontà della storia». È legge del chierico, quando l'universo intero s'inginocchia davanti all'ingiusto diventato padrone del mondo, restare in piedi e contrapporgli la coscienza umana. Le immagini che si venerano nella sua istituzione sono quelle di Catone di fronte a Cesare e del vicario di Cristo di fronte a Napoleone.
Questi i principali aspetti di quel nuovo tradimento dei chierici verificatosi, soprattutto in Francia, dopo la pubblicazione del libro che oggi ripresentiamo. Se ne cerco le cause, mi sembrano tutte riconducibili a una sola, che del resto era già presente nel tradimento dei Barrès e dei Maurras e di cui Socrate diceva ai sofisti, questi patroni di tutti i chierici traditori, che essa era il fondamento di tutta la loro filosofia: la sete di sensazioni. E infatti, sia che esalti l'idea di ordine e vi conglobi l'idea di dominio o di rappresentazione estetica; sia che voglia comunicare con il dinamismo del mondo, cioè provare la sensazione di inserirsi in una forza fatale e irresistibile, di diventare puro volere, puro agire, ignorante di qualsiasi stato riflessivo che ne altererebbe la purezza; sia che aderisca ai sofismi di un partito politico, accetti d'esserne il vessillo intellettuale, conosca così la gioia di rappresentare una parte nella vita pubblica e di essere oggetto dell'entusiasmo delle masse; sia che si voglia esclusivamente azione, posizione di lotta nella battaglia dell'ora, stato d'animo di guerriero, oppure unicamente amore, effusione del cuore, abolizione delle severe leggi dello spirito; sia che neghi i contrasti più flagranti, che però disturbano i popoli, e acceda così alle emozioni del demagogo, il chierico per tutte queste vie precipita nella sensazione e rompe con quell'ascetismo spirituale che costituisce la sua legge. Quanto agli effetti del fenomeno, sono quelli che ci si doveva aspettare dall'atteggiamento di una classe che, sotto i nomi di giustizia e ragione, un tempo esortava gli uomini al rispetto di valori trascendenti i loro interessi, e che oggi insegna loro che queste nozioni devono cedere il passo a quella di società gerarchizzata o a valori sostanzialmente torbidi come l'azione o l'amore, che, se esistono, non hanno niente di assoluto, ma sono in rapporto a condizioni materiali, continuamente mutevoli. Da qui un'umanità che, mancando di ogni punto di riferimento morale, vive ormai solo nell'ordine passionale e nella contraddizione che lo condiziona; cosa poco nuova, senonché, grazie alla predicazione dei nostri nuovi chierici, essa ne prende coscienza e fierezza.
Maggio 1946.
Appendice
Dei valori clericali
Credo di rispondere al desiderio di molti miei lettori consacrando alcune pagine a precisare meglio che cosa intendo per valori clericali.
I valori clericali, di cui i principali sono la giustizia, la verità, la ragione, si segnalano per le tre caratteristiche seguenti:
sono statici;
sono disinteressati;
sono razionali.
A.
I VALORI CLERICALI SONO STATICI.
Intendo con ciò che vengono considerati simili a se stessi al di là della diversità delle circostanze, di tempo, di luogo o altre che li accompagnano nella realtà. La stessa cosa esprimo quando dico che sono astratti. Essi sono la giustizia astratta, la verità astratta, la ragione astratta159. Onorandoli, il chierico fa da freno a chi vuole invece conoscere i valori umani solo in quanto si sottomettono all'incessante mutamento delle circostanze, e costituisce un elemento di tenuta, nel senso originale della parola, nell'atteggiamento morale dell'umanità, la quale, senza di lui, non è che dispersione e smarrimento.
L'idea di questi valori astratti, concepiti appunto in quanto astratti, non è affatto, come alcuni pretendono, un'idea che dei metafisici attribuiscono gratuitamente alla coscienza umana. Essa le è consustanziale e si possiede l'una da quando si ha l'altra. Crediamo di averlo dimostrato più sopra (p. 41) per l'idea di giustizia astratta. Lo stesso vale per l'idea di verità astratta, se con ciò s'intende l'idea secondo cui si dice che un'affermazione è vera perché appare conforme alla realtà; idea che si mostra simile a se stessa, anche se più o meno chiara, negli esemplari più umili dell'umanità 160 ed è completamente distinta dalle verità particolari che, invece, hanno essenzialmente a che fare con il cambiamento. Lo stesso vale ancora per l'idea di ragione astratta, se chiamiamo così l'idea che l'uomo si fa della natura fondamentale e invariabile della ragione e dei suoi principî, idea del tutto indipendente dalla sempre crescente complessità con cui questa ragione deve applicare quei principî di fronte alla crescente complessità dell'esperienza, per esempio della nuova fisica. Il chierico, onorando queste costanti, onora i caratteri propri della specie umana, quelli senza i quali non si ha l'Uomo.
I valori clericali, in quanto valori statici, fanno dire quotidianamente al loro avversario che chi li predica, predica un ideale di morte. Ne è un esempio il tedesco Fichte, in ciò capo degli evoluzionisti di tutti i paesi, quando esclama, avendo chiaramente in mente la Rivoluzione francese: «Chiunque creda a un principio immutabile, costante e quindi morto, ci crede solo perché lui stesso è morto»161. Questi uomini di cultura confondono, per un grossolano sofisma, un ideale che, in quanto non mutevole, può con pura e semplice metafora, essere qualificato morto, con gli uomini, gli esseri in carne e ossa che abbracciano questo ideale, i quali, nell'abbracciarlo, possono essere così poco morti che si batteranno con accanimento per difenderlo. Per quel che riguarda il moralista tedesco, egli ha potuto constatare, il giorno in cui i soldati della Rivoluzione hanno annientato a Jena l'esercito della sua nazione, che degli uomini potevano credere a principî immutabili e trovarsi con tutto ciò ben lungi dall'essere «morti anche loro».
Essendo i valori clericali valori statici, ne consegue che la religione del progresso non è un atteggiamento clericale. Dico la religione del progresso, poiché credere nel progresso al di fuori di qualsiasi religione può essere effetto di una pura constatazione. Sebbene la vera constatazione in questo caso mi sembri quella di Renouvier, il quale dichiara che vi sono dei fatti di progresso, non una legge di progresso.
Il carattere non evolutivo dei valori clericali è nettamente sottolineato da questo diktat di uno dei maestri dell'istituzione: «La perfezione di ogni essere, dice Spinoza, va considerata unicamente nella sua natura. Ogni trasformazione è distruzione e ciò che è perfetto non deve dipendere per nulla dal tempo» 162. È necessario aggiungere che ciò che è perfetto, non appartenendo al «reale», è sprovvisto di ogni valore?
B.
I VALORI CLERICALI SONO VALORI DISINTERESSATI.
Intendo con ciò che la giustizia, la verità, la ragione sono valori clericali solo nella misura in cui non mirano ad alcuno scopo pratico. È così che il culto della giustizia è realmente un atteggiamento da chierico soltanto se rivolto alla giustizia astratta, concetto della mente che trova la propria soddisfazione in se stesso, non nello sforzo di realizzare la giustizia in terra, in quanto tale sforzo persegue quello scopo eminentemente pratico che è la fedeltà degli esseri umani, almeno di una loro classe. Simile sforzo sarà tanto meno oggetto di un culto clericale in quanto, più o meno, viola necessariamente la giustizia assoluta a causa delle ingiustizie che la natura, e non la società, fondamentalmente le oppone.
La giustizia, in quanto vuole l'inviolabilità della persona umana per il solo fatto che essa è umana, non può considerare l'uomo se non in astratto. È evidente che, nel concreto, come dice Renan, si è più o meno uomini, quindi più o meno autorizzati a beneficiare dei diritti «dell'uomo». Attribuire a ciascuno degli uomini «ciò che gli spetta» (cuique suum), se significa attribuirglielo tenendo conto delle ineguaglianze con cui la natura li ha segnati, vorrà dire agire verso di loro in un modo che urterà notevolmente l'idea che ci facciamo della giustizia. Da ogni punto di vista, l'idea di giustizia implica l'idea di un'astrazione.
La giustizia è un valore disinteressato, e pertanto clericale al massimo, per una ragione che la maggioranza dei suoi fautori non vedono e che mi rimprovereranno di divulgare. Essa è una scuola d'eternità, non un principio d'azione; è statica, non dinamica; regolatrice, non creatrice. Tutto ciò che è stato fatto di pratico nella storia è stato fatto nell'ingiustizia. Le grandi nazioni che, salvo rare eccezioni, sono in fin dei conti le migliori, sono state edificate perché certe razze un giorno ne hanno violentate altre, mentre all'interno esse istituivano più o meno formalmente regimi autoritari, cioè ingiusti. Ciò non cessa d'esser vero per le nazioni che dovevano un giorno assicurare ai loro membri la massima giustizia, né per quella (la Russia) che oggi gliela promette più formalmente. Dirò altrettanto della libertà, quell'altro valore eminentemente clericale in quanto condizione della persona 163, ma i cui fedeli - soprattutto i democratici - non vogliono riconoscere che è un valore completamente negativo, che non ha mai costruito niente, che tutti coloro che costruirono qualcosa su questa terra, compresi i regimi che avrebbero un giorno dato la libertà, lo hanno fatto incominciando con il rifiutarla. Altrettanto dirò della ragione, che è un principio di critica e di comprensione, mentre la potenza della creazione appartiene innegabilmente all'irrazionale 164. Ma questo carattere non pratico dei suoi ideali è una di quelle cose che il chierico moderno respinge più vivamente, mostrando così una profonda ignoranza di ciò che costituisce la sua essenza.
L'atteggiamento propriamente clericale nei confronti della ragione mi sembra definito da questa mia dichiarazione165: «Io rifiuto veste onorifica allo spirito d'invenzione, al genio creatore, alla conquista intellettuale, e la conferisco, con il nome di ragione, a una funzione sempre identica a se stessa, per la quale la parola progresso non ha senso. Niente è più antipatico ai miei contemporanei, il cui rispetto va tutto (si vedano Nietzsche, Bergson, Sorel) al pensiero audace, che si beffa della ragione e conosce l'angoscia dell'eroe, non la serenità del sacerdote166. Ora, io ritengo che onorando la ragione nella sua condizione di arbitro supremo e nella sua sterile eternità167 avrò seguito la tradizione dei chierici e sarò rimasto fedele alla loro funzione in questo mondo. Non mi risulta che Socrate, i grandi teologhi del XIII secolo, i solitari di Port-Royal e la Chiesa in generale abbiano esaltato l'invenzione e ciò che di dionisiaco l'accompagna. Il culto di Prometeo è un culto laico e fornito di una sua grandiosità. Ritengo che occorrano uomini che ne servono un altro».
Per quanto riguarda la verità, essa è un valore clericale solo nella misura in cui è onorata a prescindere da ogni considerazione per le conseguenze, buone o cattive, che potrebbe comportare. L'atteggiamento del chierico al riguardo è stato definito da queste parole pronunciate da un chierico francese in un momento in cui mettere la verità al di sopra degli interessi terreni era, per un cittadino francese, particolarmente meritorio: «Chi, per qualsiasi ragione, patriottica, politica, religiosa e perfino morale, si permette la minima manipolazione della verità, dev'essere radiato dall'ordine degli scienziati» (Gaston Paris, Lezione inaugurale al Collège de France, dicembre 1870). Il che significa che il chierico respinge in sostanza pressoché tutti i proclami patriottici, politici, religiosi e morali, i quali, in quanto mirano a uno scopo pratico, sono più o meno tutti costretti a piegare la verità.
Allo stesso modo la scienza è un valore clericale solo nella misura in cui cerca la verità per se stessa, prescindendo da ogni considerazione pratica. È come dire che quegli scienziati che oggi proclamano la loro volontà di mettere la scienza al servizio della pace e in quanto scienziati si battono il petto perché le loro scoperte hanno aiutato la carneficina umana168 non sono affatto chierici, così come non lo sono quegli scrittori che organizzano congressi per il pensiero «al servizio della pace», come se il pensiero non dovesse essere unicamente il pensiero e non mettersi «al servizio» di chicchessia169. Questi scienziati sembrano dimenticare che il valore morale della scienza non è nei risultati, che possono fare il giuoco del peggiore immoralismo, ma nel metodo, proprio perché questo insegna l'esercizio della ragione in spregio a ogni interesse pratico.
Corollari:
I. L'attività artistica, in quanto essenzialmente disinteressata, estranea per natura, come la scienza, alla ricerca del bene, materiale o morale, dell'umanità 170, è un valore clericale.
II. Coloro che disprezzano i beni di questo mondo e onorano certi valori clericali, in particolar modo la giustizia, con l'intenzione di «salvarsi» non sono chierici171.
III. La pace, essendo un bene esclusivamente pratico, non è un valore clericale. Lo sarebbe se fosse, come dice Spinoza, qualcosa d'altro dall'assenza di guerra, effetto della volontà umana, risoluta a dominare gli egoismi nazionali (non privatio belli, sed virtus quae de fortitudine animi oritur).
C.
I VALORI CLERICALI SONO RAZIONALI.
Voglio con ciò dire che considero clericali solo quei valori la cui adozione implica l'esercizio della ragione, mentre invece atteggiamenti come l'entusiasmo, il coraggio, la fede, l'amore umano, l'adesione alla vita, in quanto riposano esclusivamente sul sentimento, non trovano posto nell'ideale del chierico.
Una conseguenza di questa posizione è che sono chierici per eccellenza coloro che si sono adoperati a deprezzare questi atteggiamenti; Platone e Spinoza che condannano l'entusiasmo, il coraggio irragionevole, l'amore umano puramente sentimentale 172; Epicuro e Lucrezio che sminuiscono la passione della vita, il primo quando dichiara che «l'amore sessuale non è mandato dagli dèi» (ούδέ Θέοπεμ τον εἶναι, του ἔρωτα), il secondo quando scrive:
Quae mala nos subigit vitaï tanta cupido? .
Si potrebbe aggiungere il cristianesimo in quanto condanna l'«orgoglio della vita», se non fosse che lo condanna per prometterlo centuplicato nell'altro mondo.
Occorre dire che quell'atteggiamento, così diffuso ai nostri giorni, perfino tra gli uomini di pensiero, consistente nell'esaltare la gioventù per la sola ragione che essa incarna «la forza e la vita» è il contrario di un atteggiamento clericale? Del resto lo è anche perché, entusiasmandosi per la gioventù in quanto «avvenire», si entusiasma dell'uomo in quanto è nel tempo invece di considerare che i suoi veri valori ne sono indipendenti; in altre parole, perché adotta un ideale dinamico, evolutivo, non statico.
Un'altra conseguenza di questa posizione, che apparirà ad alcuni gravissima, è che la passione dei valori clericali - la passione della giustizia, della verità, della ragione (la passione della ragione è tutta un'altra cosa dalla ragione) - non sono, in quanto passioni, valori da chierico. E tuttavia, come ha acutamente visto un osservatore173, sarà la passione del bene, non l'idea del bene, a cambiare il mondo. Ripeto che il ruolo del chierico non è di cambiare il mondo, ma di restare fedele a un ideale la cui conservazione mi sembra necessaria per la moralità della specie umana (preciserei meglio il mio pensiero dicendo per la sua estetica); ideale di cui è evidente che, se questa specie ormai non vuol più sapere d'altro che di accanirsi per scopi pratici, non solo non sa che farsene, ma deve considerare, come hanno capito certi suoi capi174, uno dei suoi peggiori nemici.
I.
Perfezionamento moderno delle passioni politiche.
L'epoca del politico.
Consideriamo quelle passioni, cosiddette politiche, per le quali degli uomini si contrappongono ad altri uomini; tra queste le principali sono le passioni di razza, le passioni di classe, le passioni di nazione. Le persone più decise a credere al fatale progresso della specie umana, per la precisione alla necessità che essa si avvii verso una maggiore pace e amore, non possono non convenire che da un secolo in qua e di giorno in giorno sempre più, queste passioni raggiungono, in molti e importanti sensi, una perfezione che la storia non aveva mai visto.
Prima di tutto esse interessano un numero di persone senza precedenti. Mentre, quando si studiano per esempio le guerre civili che agitarono la Francia nel Cinquecento e anche alla fine del Settecento, colpisce il numero limitato di persone di cui hanno veramente turbato l'animo; mentre la storia fino al secolo XIX è piena di lunghe guerre europee che lasciarono perfettamente indifferente la grande maggioranza delle popolazioni, a parte i danni materiali che esse causavano loro176, si può dire che oggi in Europa non vi è animo che non sia toccato, o non creda di esserlo, da una passione di razza o di classe o di nazione e molto sovente da tutte e tre. Sembra che lo stesso progresso lo si constati nel Nuovo Mondo, mentre agli estremi lembi dell'Oriente immense masse d'uomini, che sembravano immuni da questi sentimenti, si svegliano agli odi sociali, al regime dei partiti, allo spirito nazionale inteso come volontà di umiliare altri uomini. Le passioni politiche raggiungono oggi un'universalità che non hanno mai conosciuto.
Esse raggiungono anche la coerenza. È chiaro che, grazie al progresso delle comunicazioni tra gli uomini, e, ancor più, allo spirito di raggruppamento, gli adepti di uno stesso odio politico, che, ancora un secolo fa si capivano male tra di loro ed esprimevano il loro odio, se così oso dire, in ordine sparso, formano oggi una massa compatta di passioni, ogni elemento della quale si sente collegato all'infinità degli altri. Ciò colpisce particolarmente per quanto riguarda la classe operaia, che, ancora alla metà del secolo XIX manifesta contro la classe avversaria un'ostilità rada, movimenti di lotta sporadici (per esempio, pratica lo sciopero solo in una città, in una corporazione), e oggi forma, da un capo all'altro dell'Europa, un tessuto d'odio così fitto. Questa coerenza, si può affermare, non farà che accentuarsi, essendo la volontà di raggruppamento una delle caratteristiche più profonde del mondo moderno, che diventa via via, anche sui terreni dove meno c'era da aspettarselo (per esempio nel campo del pensiero), il mondo delle leghe, delle «unioni», dei «fasci». È necessario dire che la passione dell'individuo trae forza dal sentirsi così vicina a migliaia di passioni simili ad essa? Aggiungiamo che l'individuo conferisce una personalità mistica all'insieme di cui si sente membro, gli dedica un'adorazione religiosa, che in fondo altro non è se non la deificazione della propria passione e ne accresce non poco la potenza.
A questa coerenza per così dire superficiale si aggiunge, se così possiamo chiamarla, una coerenza di natura. Per il fatto stesso di formare una massa passionale più compatta, i difensori d'una medesima passione politica formano una massa passionale più omogenea, nella quale i modi di sentire individuali vengono aboliti e gli ardori di tutti assumono sempre più un unico colore. Chi non è colpito nel vedere come, in Francia per esempio, i nemici del regime democratico (parlo della massa, non dei vertici) manifestino oggi una passione poco varia, poco differenziata a seconda di chi l'esprime; come questo blocco d'odio venga scarsamente indebolito da maniere personali e originali di odiare (si potrebbe dire: quanto obbedisca anch'esso al «livellamento democratico»); come i sentimenti detti antisemitismo, anticlericalismo, socialismo, malgrado le molteplici forme di quest'ultimo, presentino ognuno maggiore uniformità rispetto a cent'anni fa; come coloro che vi portano il loro tributo dicano più di allora tutti la stessa cosa? 177. Le passioni politiche sembrano essersi educate alla pratica della disciplina proprio in quanto passioni; sembrano osservare una parola d'ordine anche nel modo in cui sono sentite. Si vede chiaramente quale sovrappiù di forza ne acquistino.
Questo aumento di omogeneità è accompagnato, in alcune di loro, da un aumento di precisione; è noto, per esempio, quanto il socialismo che, ancora un secolo fa, era, nella massa dei suoi adepti, una passione forte ma vaga, abbia oggi circoscritto meglio l'oggetto del suo volere, stabilito il punto esatto in cui vuol colpire l'avversario (i trust), il percorso che vuol compiere per riuscirvi; lo stesso progresso lo si osserva nell'antidemocraticismo. Si vede bene anche quanto l'odio, precisandosi, diventi più forte.
Altro perfezionamento delle passioni politiche. Fino ai nostri giorni vedo, attraverso la storia, come queste passioni procedano a intermittenza, siano soggette a sussulti e pause, ad alti e bassi: per le passioni di razza e di classe, vedo delle esplosioni, certo terribili e numerose, seguite da lunghi periodi di calma o almeno di sonnolenza; tra le nazioni, le guerre duravano degli anni, ma non così gli odi, ammesso che esistessero. Oggi basta sfogliare ogni mattina un giornale qualsiasi per constatare che gli odi politici non stanno inoccupati neppure un giorno. Tutt'al più alcuni tacciono per un istante a vantaggio di uno tra loro che improvvisamente reclama tutte le forze disponibili; è l'ora delle «unioni sacre», che non preannunciano affatto il regno dell'amore, bensì quello di un odio generale che domina momentaneamente gli odi parziali.
Le passioni politiche hanno acquisito oggi una qualità così rara sul piano del sentimento: la continuità.
Fermiamoci a considerare quel processo per cui degli odi parziali abdicano a favore di un altro più generale, il quale dal fatto di sentirsi appunto generale trae una religione di se stesso e quindi una forza del tutto nuova. Forse non si è sottolineato abbastanza che un processo di questa specie è una delle caratteristiche essenziali dell'Ottocento. Questo è non solo il secolo che, a due riprese, in Germania e in Italia, avrà visto venir meno odî secolari di piccoli Stati a vantaggio di una grande passione nazionale, ma è anche quello (più esattamente la fine del XVIII) che, in Francia, avrà visto l'odio reciproco della nobiltà di corte e della nobiltà provinciale spegnersi a vantaggio dell'odio dell'una e dell'altra per tutto ciò che non è nobile; l'odio della nobiltà di spada e della nobiltà di toga fondersi in un'unica fiammata; l'odio dell'alto e del basso clero sparire nel comune odio per il laicismo: l'odio del clero e della nobiltà svanire a vantaggio dell'odio di entrambi per il terzo stato; infine, ai giorni nostri, l'odio dei tre stati tra di loro fondersi in un unico odio dei possidenti per la classe operaia. La condensazione delle passioni politiche in un numero limitato di odi semplicissimi e profondamente radicati nel cuore umano è una conquista dell'età moderna 178.
Credo di vedere anche un grande progresso delle passioni politiche nel rapporto che oggi queste sembrano avere, in chi ne è il teatro, con le altre sue passioni. Mentre sembra che, in un borghese della Francia antica, le passioni politiche - pur occupando molto più spazio di quanto normalmente non si creda - ne occupassero tuttavia di meno che la sete di lucro, l'appetito di piaceri, il senso della famiglia, i bisogni di vanità, il minimo che si possa dire del suo omologo moderno è che, quando le passioni politiche entrano nel suo cuore, vi entrano alla stessa stregua delle altre. Si confronti per esempio l'infimo posto che occupano le passioni politiche nel borghese francese quale appare nei fabliaux, nella commedia medievale, nei romanzi di Scarron, di Furetière, di Charles Sorel 179, con quello occupato nello stesso borghese descritto da Balzac, Stendhal, Anatole France, Abel Hermant, Paul Bourget (non parlo beninteso dei tempi di crisi, come quelli della Lega o della Fronda, in cui le passioni politiche, non appena afferrano l'individuo, lo possiedono tutto intero). La verità è che oggi le passioni politiche invadono in questo borghese la maggior parte delle altre passioni e le alterano a loro vantaggio. È risaputo che ai giorni nostri, le rivalità tra famiglie, le ostilità commerciali, le ambizioni di carriera, le competizioni d'onore sono impregnate di passione politica. La politica innanzitutto, vuole un apostolo dell'anima moderna; politica ovunque, può constatare, politica sempre, soltanto politica180. Basta aprire gli occhi per vedere di quanto aumenti la potenza della passione politica quando si combina con altre passioni così numerose, così costanti e forti di per se stesse. In quanto all'uomo della strada, per misurare quanto sia cresciuto con l'età moderna il rapporto tra le passioni politiche e le altre sue passioni, basta pensare per quanto tempo tutta la sua passione si è ridotta, per usare l'espressione di Stendhal, ad auspicare 1° di non essere ucciso, 2° di avere un buon vestito ben caldo; e in seguito, quando una minor miseria gli ha permesso qualche aspirazione di ordine generale, quanto ci hanno messo i suoi vaghi desideri di cambiamenti sociali a trasformarsi in passioni, voglio dire ad assumerne i due caratteri essenziali: l'idea fissa e il bisogno di passare all'azione181. Credo di poter dire che, in tutte le classi, le passioni politiche raggiungono oggi, in colui che ne è posseduto, un grado di preponderanza sulle altre sue passioni che non hanno mai conosciuto.
Il lettore ha già dato un nome a un fattore di capitale importanza nei processi che stiamo segnalando: nelle passioni politiche rese universali, coerenti, omogenee, permanenti, preponderanti, tutti riconoscono, in gran parte, l'opera del giornale politico quotidiano e a buon mercato. Non si può non preoccuparsi e non chiedersi se per caso le guerre tra gli uomini siano solo all'inizio quando si pensa a questo strumento di cultura delle proprie passioni che gli uomini hanno appena inventato, o quanto meno portato a un grado di potenza che non si era mai visto, e al quale essi si offrono con tutto lo slancio del loro cuore ogni giorno, fin dal risveglio.
Abbiamo dimostrato quello che si potrebbe chiamare il perfezionamento delle passioni politiche in superficie, in forme più o meno esteriori. Esse si sono notevolmente perfezionate anche in profondità, in forza interiore.
Prima di tutto hanno progredito eccezionalmente nella coscienza di sé. È evidente che oggi (molto, anche in questo caso, per effetto del giornale) l'animo affetto da odio politico prende coscienza della propria passione, se la formula, se la rappresenta con una chiarezza che non conosceva cinquant'anni fa; e non è necessario dire quanto tale chiarezza contribuisca a rendere più intensa la passione stessa. Vorrei a questo proposito segnalare due passioni che il nostro tempo ha visto nascere, certamente non all'esistenza, ma alla coscienza, all'ammissione, alla fierezza di sé.
La prima è quella che chiamerò un certo nazionalismo ebraico. Mentre finora gli ebrei, accusati in numerosi paesi di costituire una razza inferiore o quanto meno particolare e non assimilabile, rispondevano negando questa particolarità, sforzandosi di cancellarne i segni esteriori, rifiutandosi di ammettere che le razze siano una realtà, da qualche anno si vedono alcuni di loro tutti impegnati a proclamare questa particolarità, a precisarne le caratteristiche, o ciò che credono tali, a vantarsene, a condannare chiunque voglia assimilarsi con gli avversari (si vedano le opere d'Israel Zangwill, d'André Spire, la «Revue Juive»). Non si tratta qui di stabilire se l'atteggiamento di questi ebrei sia più o meno nobile dell'impegno che tanti altri mettono nel farsi perdonare la loro origine; si tratta di fare osservare a coloro a cui interessa il progresso della pace nel mondo che agli orgogli che mettono gli uomini gli uni contro gli altri il nostro tempo ne avrà aggiunto uno di più, almeno in quanto cosciente e fiero di sé182.
L'altro movimento che ho in mente è il borghesismo, voglio dire la passione della classe borghese di affermarsi contro quella che la minaccia. Si può dire che fino ai nostri giorni l'«odio di classe», come odio cosciente e fiero di sé, fosse soprattutto l'odio dell'operaio contro il mondo borghese; l'odio reciproco veniva confessato molto meno chiaramente; vergognosa d'un egoismo che credeva specifico della sua casta, la borghesia ricorreva a sotterfugi sull'argomento, lo ammetteva malvolentieri, anche con se stessa, voleva che lo si credesse, e voleva crederlo essa stessa, una forma indiretta della cura del bene di tutti183; al dogma della lotta di classe essa rispondeva contestando che vi fossero effettivamente delle classi, mostrando che, pur sentendo un'opposizione irriducibile nei confronti del suo avversario, non voleva però ammettere di sentirla. Oggi, basta pensare al «fascismo» italiano, a certo Eloge du bourgeois français, a tante altre manifestazioni analoghe184, per accorgersi che la borghesia prende pienamente coscienza dei suoi egoismi specifici, che li proclama per quello che sono, li venera in quanto tali e in quanto legati ai supremi interessi della specie, si vanta di venerarli e di contrapporli agli egoismi che vogliono la sua distruzione. Il nostro tempo avrà visto crearsi la mistica della passione borghese, nella sua contrapposizione alle passioni dell'altra classe 185. Anche in questo la nostra epoca aggiunge al bilancio morale della specie umana l'avvento di una passione in più al pieno possesso di se stessa.
Il progresso in profondità delle passioni politiche da un secolo a questa parte mi sembra particolarmente notevole per le passioni nazionali.
Prima di tutto, per il fatto che oggi siano le masse a sentirle, queste passioni sono diventate molto più puramente passionali. Mentre il sentimento nazionale, quando era esclusivo appannaggio dei re o dei loro ministri, consisteva soprattutto nell'attaccamento a un interesse (bramosia di territori, ricerca di vantaggi commerciali, di alleanze vantaggiose), si può dire che oggi, provato (almeno in maniera continuativa) da anime popolari, esso consiste, in massima parte, nell'esercizio di un orgoglio. Tutti converranno che la passione nazionale, nel cittadino moderno, è costituita meno dall'abbracciare gli interessi della propria nazione - interessi che distingue appena, la cui comprensione esige un'informazione che non ha, che non cerca d'avere (è nota la sua indifferenza per le questioni di politica estera) - che dalla fierezza della propria nazione, dalla volontà di sentirsene parte, di reagire agli onori e alle offese che crede le siano stati indirizzati. Senza dubbio egli vuole che la sua nazione conquisti nuovi territori, che sia prospera, che abbia potenti alleati; ma lo vuole molto meno per i vantaggi materiali che ne raccoglierà (personalmente, che cosa gliene viene di questi vantaggi?) che per la gloria che essa ne trarrà. Il sentimento nazionale, diventando popolare, è diventato soprattutto orgoglio nazionale, suscettibilità nazionale186.
Per misurare quanto sia diventato in tal modo più puramente passionale, più perfettamente irrazionale e quindi più forte, basta pensare allo sciovinismo, forma di patriottismo inventata proprio dalle democrazie. Del resto, ci si convince che l'orgoglio, contrariamente a quel che comunemente si crede, è una passione più forte dell'interesse, se si nota che gli uomini si fanno sovente uccidere per una ferita all'orgoglio, molto meno per un danno al loro interesse.
Questa suscettibilità di cui si ammanta il sentimento nazionale quando diventa popolare è una cosa che rende molto maggiore oggi che un tempo la possibilità delle guerre. È chiaro che con i popoli e la tendenza di questi nuovi «sovrani» a sobbalzare appena credono di sentire un'offesa, la pace corre un pericolo maggiore rispetto a quando dipendeva solo dai re e dai loro ministri, persone esclusivamente pratiche, padrone di se stesse e abbastanza disposte a sopportare l'offesa se non si sentono le più forti187. E infatti non si conta più il numero di volte in cui il mondo ha rischiato la guerra negli ultimi cento anni solo perché un popolo si è creduto colpito nell'onore 188. Aggiungiamo che questa suscettibilità nazionale offre ai capi delle nazioni, sia che se ne valgano in patria sia presso i loro vicini, un mezzo nuovo e sicurissimo per scatenare le guerre di cui hanno bisogno; non c'è voluto molto a capirlo, come prova ampiamente l'esempio di Bismarck e dei mezzi con cui riuscì a fare le guerre contro l'Austria e la Francia. Da questo punto di vista mi sembra abbastanza giusto dire, con i monarchici francesi che «la democrazia è la guerra», a condizione che per democrazia s'intenda la partecipazione delle masse alla suscettibilità nazionale e si riconosca che nessun cambiamento di regime eviterà questo fenomeno 189.
Le passioni nazionali vengono esasperate anche dal fatto che i popoli intendono oggi riconoscersi non solo nel loro essere materiale, nella forza militare, nei possedimenti territoriali, nella ricchezza economica, ma nella loro essenza morale. Con una coscienza che non si era mai vista (energicamente attizzata dagli uomini di lettere) ogni popolo ora stringe le proprie file e si contrappone agli altri con la sua lingua, la sua arte, la sua letteratura, la sua filosofia, la sua civiltà, la sua «cultura». Il patriottismo è oggi l'affermazione d'una certa anima contro altre anime190. È evidente come questa passione guadagni così in forza interna e come le guerre alle quali dà origine siano più aspre di quelle che si facevano i re, soltanto perché volevano uno stesso pezzo di terra. Si realizza in pieno la profezia del vecchio bardo sassone: «Le patrie allora saranno veramente quello che ancora non sono: delle persone. Esse conosceranno l'odio; e questi odî provocheranno delle guerre più terribili di tutte quelle che si sono viste finora»191.
Non si sottolineerà mai abbastanza quanto questa forma di patriottismo sia nuova nella storia. Anch'essa è evidentemente legata al fatto che questa passione è stata adottata dalle masse popolari e sembra essere stata inaugurata, nel 1813, dalla Germania, la quale dovrebbe essere stata, a quanto pare, il vero maestro dell'umanità in fatto di patriottismo democratico, se con questa espressione s'intende la volontà di un popolo di mettersi contro gli altri in nome dei suoi caratteri più fondamentali. (La Francia della Rivoluzione e dell'Impero non ha mai pensato a levarsi contro gli altri popoli in nome della sua lingua o della sua letteratura). Questa forma di patriottismo dev'essere stata così poco conosciuta dalle epoche precedenti che in queste non si contano neanche i casi di nazioni che ammettono nel loro seno la cultura di altre nazioni, anche di quelle con le quali sono state in guerra, e la onorano persino. Devo ricordare il culto che Roma aveva per il genio della Grecia, che politicamente si era sentita in obbligo di annientare? quello degli Ataulfo, dei Teodorico, vincitori di Roma, per il genio romano? o, più vicino a noi, Luigi XIV che si annette l'Alsazia e non pensa neanche per un istante a vietare la lingua tedesca? 192. Si vedevano anche certe nazioni che manifestavano simpatia per la cultura di nazioni con le quali erano in guerra o facevano conoscere loro la propria: il duca d'Alba che si dava da fare per mettere al sicuro gli scienziati delle città d'Olanda contro le quali mandava le sue legioni; nel XVIII secolo, gli staterelli della Germania, alleati con Federico II contro la Francia, che ne adottavano più che mai le idee, le mode, gli stili letterari193; il governo della Convenzione che, in piena lotta con l'Inghilterra, vi mandava una delegazione per invitarla ad adottare il nostro sistema metrico194. La guerra politica che implica la guerra delle culture è proprio un'invenzione del nostro tempo, e gli assicura un posto illustre nella storia morale dell'umanità.
Un altro motivo di rafforzamento delle passioni nazionali è la volontà che oggi i popoli hanno di sentirsi nel loro passato, più precisamente di sentire che le loro ambizioni risalgono ai loro antenati, di vibrare di aspirazioni «secolari», di riallacciarsi a diritti «storici». Questo patriottismo romantico è anch'esso tipico di un patriottismo esercitato dall'animo popolare (con popolare intendo qui governato dall'immaginazione, cioè, in primo luogo, gli uomini di lettere e le persone di mondo); secondo me, quando Hugues de Lionne auspicava per la propria nazione la conquista delle Fiandre o Siéyès quella dei Paesi Bassi, non credevano di sentir rivivere in loro l'anima degli antichi Galli, così come Bismarck, quando bramava i ducati danesi non pensava certo (non parlo di quello che diceva) di resuscitare la volontà dell'Ordine teutonico195. Quanta violenza in più porti alla passione nazionale questo solennizzare i propri desideri, lo dimostra in maniera convincente ciò che è diventato questo sentimento nei tedeschi con la loro pretesa di continuare l'anima del Sacro Impero germanico e negli italiani da quando fanno apparire le loro volontà come la resurrezione di quelle dell'Impero romano196. Inutile dire se ancora una volta, i capi di Stato trovino nel sentimentalismo popolare un nuovo efficace strumento per realizzare i loro disegni pratici e se sappiano utilizzarlo: si pensi, per citare solo un esempio recente, a quale vantaggio il governo italiano ha saputo trarre dall'incredibile atteggiamento che assunsero i suoi compatrioti nel sentir parlare un bel mattino della rivendicazione di Fiume come di una rivendicazione «secolare».
In generale, si può dire che le passioni nazionali, per il fatto di essere oggi coltivate in animi plebei, prendono un carattere di misticità, d'adorazione religiosa che non avevano nell'animo pratico dei grandi, ed è inutile dire quanto ciò le renda più profonde e più forti. Ancora una volta, questa forma plebea di patriottismo è adottata da tutti coloro che praticano questa passione, financo dai più chiassosi campioni dell'aristocrazia dello spirito; Charles Maurras parla, come Victor Hugo, della «dea Francia». Aggiungiamo che questa adorazione mistica per la nazione non si spiega solo con la natura degli adoratori, ma con i cambiamenti sopravvenuti nell'oggetto adorato; oltre allo spettacolo ben più imponente di un tempo della loro forza militare e della loro organizzazione, si capisce che, quando si vedono gli Stati moderni fare continuamente la guerra mentre non hanno più uomini e sopravvivere per lunghi anni quando non hanno più denaro, si sia portati a credere, per poco che si sia inclini alla religiosità, che siano d'una sostanza diversa rispetto agli esseri naturali.
Segnalerò ancora un grande aumento di forza del sentimento nazionale registrato in quest'ultimo mezzo secolo: intendo parlare di parecchie passioni politiche fortissime, che, originariamente indipendenti da questo sentimento, sono venute di recente a incorporar visi. Queste passioni sono: 1° il movimento antisemita; 2° il movimento delle classi possidenti contro il proletariato; 30 il movimento degli autocratici contro i democratici. Si sa che ognuna di queste passioni s'identifica oggi con il sentimento nazionale, e dichiara che avversarlo significa negarlo. Aggiungiamo che, quasi sempre, una di queste tre passioni comporta, nelle persone di cui si è impossessata, l'esistenza delle altre due, cosicché in generale è dall'insieme di tutte e tre che la passione nazionale si trova irrobustita. Questo rafforzamento è del resto reciproco e si può dire che l'antisemitismo, il capitalismo e l'autoritarismo siano la testimonianza oggi di una potenza completamente nuova grazie alla loro alleanza con il nazionalismo. (Sulla solidità di queste alleanze, si veda la Nota C alla fine del volume).
Non posso lasciare questo punto del perfezionamento delle passioni nazionali senza notarne ancora una caratteristica: in ogni nazione, il numero delle persone che sentono un interesse diretto a far parte di una nazione forte è oggi incomparabilmente più elevato rispetto al passato. In tutti i grandi Stati vedo oggigiorno non solo il mondo dell'industria e dell'alta finanza, ma un numero considerevole di piccoli commercianti, di piccoli borghesi, e anche di medici, di avvocati, nonché di scrittori, di artisti – di operai anche - a cui interessa, per la prosperità dei loro affari personali, appartenere a un gruppo potente e temuto. Le persone in grado d'apprezzare cambiamenti di questo tipo convengono tutte che un simile sentimento era lungi dall'esistere, almeno con la chiarezza riscontrabile oggi, tra i piccoli commercianti, in Francia per esempio, anche soltanto trent'anni fa. Negli uomini che esercitano le cosiddette libere professioni, esso sembra ancora più nuovo; è certamente nuovo sentire correntemente degli artisti che rimproverano ai loro governi «di non dare sufficiente prestigio alla loro nazione per imporre la loro arte all'estero». Tra gli operai, il fatto di sentire che, dal punto di vista professionale, essi hanno interesse a far parte d'una nazione forte, è anch'esso recentissimo; il partito dei nazionalsocialisti, di cui solo la Francia sembra sprovvista, è una sedimentazione politica tutta moderna. Per gli industriali, quel che appare nuovo, non è il sentire quanto sia nel loro interesse appartenere a una nazione forte, ma che questa consapevolezza si trasformi oggi in azione, in pressione formale sui loro governi 197. Tale estensione del patriottismo basato sull'interesse non impedisce certo a questa forma di patriottismo d'essere, come dicevamo prima, meno diffusa della forma basata sull'orgoglio198; tuttavia essa aggiunge alle passioni nazionali ancora un sovrappiù di forza.
Infine segnalerò un ultimo perfezionamento notevole che oggi presentano tutte le passioni politiche, che siano di razza, di classe, di partito, di nazione. Quando guardo a queste passioni nel passato, le vedo consistere in pure spinte passionali, in ingenue esplosioni dell'istinto, che non riescono, almeno nella gran maggioranza dei casi, a prolungare se stesse in idee, in sistemi; le rivolte degli operai del XV secolo contro i possidenti non erano accompagnate, sembra, da alcun insegnamento sulla genesi della proprietà o la natura del capitale, quelle dei massacratori di ghetti da alcuna idea sul valore filosofico della loro azione e non sembra che l'assalto delle bande di Carlo V contro i difensori di Mézières fosse sostenuto da una teoria sulla predestinazione della razza germanica e sulla bassezza morale del mondo latino. Oggi vedo ogni passione politica munita di tutta una rete di dottrine saldamente intessute, la cui unica funzione è di prospettarle, da tutti i punti di vista, il supremo valore della sua azione, e nelle quali essa si proietta decuplicando naturalmente la propria potenza passionale. Per dimostrare fino a che punto di perfezione il nostro tempo abbia portato questi sistemi, con quanto impegno, con quale tenacia ogni passione abbia saputo costruire, in tutte le direzioni, teorie adatte a soddisfarla, con quale precisione queste teorie siano state finalizzate a tale soddisfacimento, con quale abbondanza di ricerche, con quale lavoro, quanto a fondo siano state spinte in ogni senso, basta citare quel sistema ideologico del nazionalismo tedesco detto pangermanesimo e quello del monarchismo francese. Il nostro secolo sarà stato proprio il secolo dell'organizzazione intellettuale degli odi politici. Sarà uno dei suoi grandi meriti nella storia morale dell'umanità.
Questi sistemi, da quando esistono, consistono nel decretare per ogni passione che essa è l'agente del bene nel mondo, che la passione nemica è il genio del male. Tuttavia essa intende oggi stabilirlo non più solo sul piano politico, ma sul piano morale, intellettuale, estetico: l'antisemitismo, il pangermanesimo, il monarchismo francese, il socialismo non sono soltanto manifesti politici; difendono un certo tipo di moralità, d'intelligenza, di sensibilità, di letteratura, di filosofia, di concezione artistica. Aggiungiamo che il nostro tempo ha introdotto nella teorizzazione delle passioni politiche due novità che non mancano di renderle straordinariamente più intense. La prima, è che oggi ognuno pretende che il proprio movimento sia conforme al «senso dell'evoluzione», al «profondo sviluppo della storia»; è noto che tutte le passioni attuali" che siano di Marx, di Maurras o di H. S. Chamberlain, hanno scoperto una «legge storica» secondo la quale il loro movimento non fa che seguire lo spirito della storia e deve necessariamente trionfare, mentre quello opposto contravviene a questo spirito e potrebbe ottenere solo una vittoria illusoria. Del resto, questa non è che l'antica volontà d'avere il Destino dalla propria parte, messa però sotto forma scientifica. E questo ci conduce alla seconda novità: la pretesa che tutte le ideologie politiche oggi hanno di essere fondate sulla scienza, di essere il risultato della «rigorosa osservazione dei fatti». È evidente quale sicurezza, durezza, mancanza d'umanità, piuttosto nuove nella storia delle passioni politiche, e di cui il monarchismo francese199 è un buon esempio, questa pretesa dia oggi a quelle passioni.
Riassumendo, le passioni politiche presentano oggi un grado di universalità, di coerenza, d'omogeneità, di precisione, di continuità, di preponderanza rispetto alle altre passioni, finora sconosciuto; esse prendono una coscienza di sé che non si era mai vista; alcune di loro, finora mal confessate, si svegliano a questa coscienza e vanno ad aggiungersi alle vecchie; altre diventano più che mai puramente passionali, s'impossessano dell'animo umano in regioni morali alle quali non arrivavano, assumono un carattere di misticità che non gli si vedeva da secoli; infine, tutte quante si muniscono di apparati ideologici mediante i quali rivendicano per sé, in nome della scienza, il supremo valore della loro azione e la sua necessità storica. In superficie come in profondità, in valori spaziali come in forza interiore, le passioni politiche raggiungono oggi un grado di perfezione che la storia non aveva mai conosciuto. L'epoca attuale è veramente l'epoca del politico.
II.
Significato di questo processo.
Natura delle passioni politiche.
Qual è il significato di questo processo? Di quale tendenza umana segna il progresso, il trionfo? La domanda ci riporta a chiederci quale sia la natura delle passioni politiche, di quale più generale e più essenziale affezione dell'anima esse siano l'espressione, quale sia, come dice la scuola, il loro fondamento psicologico.
Queste passioni, mi sembra, possono essere ricondotte a due volontà fondamentali: 1) la volontà di un gruppo di uomini di metter le mani (o di tenercele) su un bene temporale: territori, benessere materiale, potere politico con i vantaggi temporali che comporta; 2) la volontà di un gruppo d'uomini di sentirsi particolari, distinti rispetto ad altri uomini. Si può anche dire che esse sono riconducibili a due volontà, di cui una cerca la soddisfazione d'un interesse e l'altra quella d'un orgoglio. Queste due volontà partecipano alle passioni politiche secondo rapporti molto diversi a seconda della passione presa in esame. Sembra proprio che la passione di razza, nella misura in cui non si confonde con la passione nazionale, sia costituita soprattutto dalla volontà di un gruppo di uomini di porsi come distinti; altrettanto si può dire della passione religiosa, se considerata allo stato puro. La passione di classe, invece, almeno come la si osserva nella classe operaia, consiste visibilmente solo nella volontà di mettere le mani sui beni temporali; la volontà di credersi distinti, che avevano cominciato ad inculcarle George Sand e gli apostoli del 1848, sembra oggi piuttosto abbandonata dall'operaio, almeno nei discorsi. In quanto alla passione nazionale, essa riunisce entrambi i fattori: il patriota vuole al tempo stesso possedere un bene temporale e porsi come distinto; è il segreto dell'evidente superiorità nella forza di questa passione, quando è davvero una passione, sulle altre passioni politiche, in particolare sul socialismo: una passione la cui molla è soltanto l'interesse non è in grado di lottare contro un'altra che mobilita al tempo stesso l'interesse e l'orgoglio (è anche una delle debolezze del socialismo di fronte alla passione di classe così com'è esercitata dalla borghesia, dato che il borghese vuole, anche lui, e possedere il temporale e sentirsi distinto). Aggiungiamo che queste due volontà, una a base d'interesse e l'altra a base d'orgoglio, ci sembrano comportare coefficienti di potenza passionale molto diseguali e che, a nostro avviso, come abbiamo già detto, la più potente delle due non è quella che vuole soddisfare l'interesse200.
Ora, se mi chiedo che cosa significano a loro volta queste volontà fondamentali delle passioni politiche, esse mi appaiono come due componenti essenziali della volontà dell'uomo di porsi nell'esistenza reale. Volere l'esistenza reale è volere: 1) possedere un qualche bene temporale; 2) riconoscersi come particolare. Ogni esistenza che disprezza questi due desideri, ogni esistenza che persegue solo un bene spirituale o si afferma sinceramente in un universale, si pone fuori dal reale. Le passioni politiche, e particolarmente le passioni nazionali in quanto riuniscono le due volontà suddette, ci sembrano essenzialmente delle passioni realiste.
A questo punto molti protesteranno: «Si, diranno, le volontà che compongono le passioni politiche sono volontà realiste; ma queste volontà l'individuo le trasferisce all'insieme di cui fa parte: è nella sua classe, non nella sua circoscritta persona che l'operaio vuole essere detentore di beni materiali: è nella sua nazione, non nel suo misero io, che il patriota vuole essere possessore di territori; è nella sua nazione che vuole essere distinto dagli altri uomini. Chiamerete realiste delle passioni che comportano un tale transfert dall'individuo al collettivo?» È necessario rispondere che l'individuo, trasferendo queste volontà all'insieme di cui si dichiara appartenente, non ne cambia però la natura? Che si limita ad aumentarne smisuratamente le dimensioni? Voler essere possessore del temporale nella propria nazione, volersi distinto nella propria nazione, è pur sempre voler essere possessore del temporale, è pur sempre voler essere distinto; è solo, se si è francesi, voler possedere la Bretagna, la Provenza, l'Aquitania, l'Algeria, l'Indocina; è volersi distinguere in Giovanna d'Arco, in Luigi XIV, in Napoleone, in Racine, in Voltaire, in Victor Hugo, in Pasteur. Non basta: è al tempo stesso ricondurre queste volontà, non più a un essere precario e passeggero, ma a un essere «eterno» e sentirle di conseguenza; l'egoismo nazionale, non solo non cessa, per il fatto di essere nazionale, di essere egoismo201, ma diventa egoismo «sacro». Completiamo quindi la nostra definizione e diciamo che le passioni politiche sono realismo di una qualità particolare, che è parte non piccola della loro potenza: sono realismo divinizzato202.
Se quindi vogliamo esprimere il perfezionamento delle passioni politiche che ho appena descritto in funzione di un ordine di cose più essenziale e più profondo, possiamo dire che gli uomini manifestano oggi con una scienza e una coscienza finora sconosciute, la volontà di collocarsi in modo reale o pratico nell'esistenza, in contrapposizione al modo disinteressato o metafisico. E non basta; vai la pena di vedere come, ai nostri giorni, le passioni politiche intendano sempre più espressamente dipendere da questo realismo e solo da esso. Da una parte, tutto un socialismo dichiara tranquillamente di non curarsi più dell'universale umano né di portargli la giustizia o qualche altro «fantasma metafisico»203, ma di cercare unicamente di metter le mani sui beni temporali per conto della propria classe. Dall'altra, l'anima nazionale che ovunque si gloria di essere puramente realista; e il popolo francese che un tempo si batté per portare ad altri una dottrina che credeva essere la felicità (dico il popolo; giacché quanto ai suoi governanti non ebbero mai simili candori), questo stesso popolo ora arrossirebbe di essere anche solo sospettato di battersi «per dei principî»204. Non è suggestivo osservare che le uniche guerre che in epoche passate in qualche modo suscitassero delle passioni un po' disinteressate, le guerre di religione, siano le sole da cui l'umanità si è liberata? 205. Che quegli immensi movimenti idealistici che furono le crociate, almeno per gli umili, siano una cosa che fa sorridere l'uomo moderno come lo spettacolo di giuochi infantili? Non è anche significativo che le passioni nazionali, e ho dimostrato che erano le più integralmente realiste tra le passioni politiche, siano quelle, come ho potuto osservare, che tante altre ne assorbono ai giorni nostri206? Aggiungiamo che queste passioni, in quanto rappresentano la volontà di un gruppo di mostrarsi distinto, raggiungono un grado di coscienza che non si è mai visto207. Infine l'attributo supremo che abbiamo riconosciuto alle passioni politiche, la divinizzazione del loro realismo, viene anch'esso confessato con una chiarezza finora sconosciuta: lo Stato, la Patria, la Classe oggi sono semplicemente Dio208; si può anche dire che per molti (non son pochi quelli che se ne vantano) questi soltanto sono Dio. L'umanità con la sua pratica attuale delle passioni politiche, dimostra di stare diventando più realista, più esclusivamente realista e in modo più religioso di quanto non lo sia mai stata.
III.
I chierici. Il tradimento dei chierici
Io l'avevo fatto per essere spirituale nella sua carne; e ora lui è diventato carnale anche nello spirito.
BOSSUET, Elévations, VII, 3.
Fin qui ho considerato solo delle masse, borghesi o popolari, re, ministri, capi politici, ossia quella parte della specie umana che chiamerò laica, la cui unica funzione consiste per essenza nel perseguire interessi temporali e che in sostanza si limita a dare quello che c'era da aspettarsi da lei mostrandosi sempre più esclusivamente e sistematicamente realista.
Accanto a questa umanità che il poeta dipinge con queste parole:
O curvae in terram animae et coelestium inanes,
se ne poteva discernere, fino a quest'ultimo secolo, un'altra, essenzialmente distinta, che, in una certa misura, le faceva da freno; intendo parlare di quella classe di uomini che chiamerò i chierici, designando con questo nome tutti coloro la cui attività, per natura, non persegue fini pratici, ma che, cercando la soddisfazione nell'esercizio dell'arte o della scienza o della speculazione metafisica, in breve nel possesso di un bene non temporale, dicono in qualche modo: «Il mio regno non è di questo mondo». E, in effetti, da più di duemila anni fa e fino a questi ultimi tempi, posso rintracciare nel corso della storia una serie ininterrotta di filosofi, religiosi, letterati, artisti, scienziati - si può dire quasi tutti durante questo periodo - il cui atteggiamento è di formale opposizione al realismo delle masse. Per quanto riguarda in particolare le passioni politiche, questi chierici vi si opponevano in due maniere: o, assolutamente staccati da queste passioni, davano, come Leonardo, Malebranche o Goethe un esempio di attaccamento all'attività del tutto disinteressata dello spirito, e creavano la fede nel valore supremo di questa forma d'esistenza; o, veri e propri moralisti attenti al conflitto degli egoismi umani, come Erasmo, Kant o Renan, predicavano, sotto il nome di umanità o di giustizia, l'adozione d'un principio astratto, superiore e direttamente opposto a quelle passioni. Senza dubbio l'azione di questi chierici - per quanto abbiano fondato lo Stato moderno nella misura in cui questo domina gli egoismi individuali - rimaneva soprattutto teorica; essi non hanno impedito ai laici di riempire la storia con il chiasso dei loro odî e dei loro massacri; ma hanno impedito loro di avere il culto di queste azioni, di credersi grandi perché erano impegnati a compierle. Grazie a loro si può dire che, per duemila anni, l'umanità faceva il male ma venerava il bene. Questa contraddizione era l'onore della specie umana e costituiva la fessura attraverso cui poteva infiltrarsi la civiltà.
Ora, alla fine del XIX secolo, si produce un cambiamento fondamentale: i chierici si mettono a fare il giuoco delle passioni politiche; coloro che rappresentavano un freno al realismo dei popoli ne diventano gli stimolatori. Questo stravolgimento nella pratica morale dell'umanità avviene seguendo varie vie.
1. I chierici adottano le passioni politiche.
Tanto per cominciare, i chierici adottano le passioni politiche. Nessuno contesterà che oggi, in tutta Europa, l'immensa maggioranza dei letterati e degli artisti, un numero di scienziati, di filosofi, di «ministri del divino» abbia una parte nel coro degli odî di razza e delle fazioni politiche; ancor meno si potrà negare che faccia sue le passioni nazionali. I nomi di Dante, di Petrarca, di D'Aubigné, di un tal apologista di Caboche o di un certo predicatore della Lega sono certo sufficienti per attestare che certi chierici non hanno atteso la nostra epoca per esercitare quelle passioni con tutta la foga del loro animo; ma questi chierici da comizio rimangono tutto sommato un'eccezione, almeno tra i grandi, e se, oltre ai maestri sopra nominati, pensiamo alla schiera dei Tommaso d'Aquino, dei Bacone, dei Galileo, dei Rabelais, dei Montaigne, dei Cartesio, dei Racine, dei Pascal, dei Leibniz, dei Keplero, degli Huyghens, dei Newton, nonché dei Voltaire, dei Buffon, dei Montesquieu, tanto per menzionarne qualcuno, crediamo di poter ripetere che, fino ai nostri giorni, nel loro insieme gli uomini di pensiero o sono rimasti estranei alle passioni politiche affermando con Goethe: «Lasciamo la politica ai diplomatici e ai militari» oppure, se (come Voltaire) danno valore a queste passioni, adottano nei loro confronti un atteggiamento critico, non le prendono in considerazione come passioni; si può anche dire che, se le prendono a cuore, come un Rousseau, un Maistre, uno Chateaubriand, un Lamartine e perfino un Michelet, lo fanno con un sentimento così generale, con una tale priorità ai principî astratti, un disprezzo per il risultato immediato, che escludono di fatto l'appellativo di passione. Oggi basta fare i nomi di Mommsen, Treitschke, Ostwald, Brunetière, Barrès, Lemaître, Péguy, Maurras, D'Annunzio, Kipling, per riconoscere che i chierici esercitano le passioni politiche con tutte le caratteristiche della passione: la tendenza all'azione, la sete del risultato immediato, l'esclusiva preoccupazione dello scopo da raggiungere, lo sprezzo per le argomentazioni, l'esagerazione, l'odio, l'idea fissa. Il chierico moderno ha completamente smesso di lasciar che il laico scenda solo sulla pubblica piazza; intende essersi fatto un'anima da cittadino e adoperarla con fermezza; è fiero di quest'anima; la sua letteratura è piena di disprezzo per chi si rinchiude con l'arte e la scienza e si disinteressa delle passioni civiche209; tra Michelangelo che rimproverava a Leonardo la sua indifferenza alle disgrazie di Firenze e il maestro della Cena il quale rispondeva che effettivamente lo studio della bellezza prendeva tutto il suo cuore, egli si schiera energicamente a fianco del primo. Sono lontani i tempi in cui Platone chiedeva che il filosofo venisse incatenato per costringerlo a occuparsi dello Stato. Avere la funzione di perseguire le cose eterne e credere di farsi più grande occupandosi della vita politica: ecco che cosa fa il chierico moderno. Per il fatto che il chierico aderisce alle passioni dei laici tali passioni si rafforzano nel cuore di questi ultimi, e ciò è tanto naturale quanto evidente. Prima di tutto viene soppresso ai loro occhi il suggestivo spettacolo, di cui abbiamo già parlato, di una razza d'uomini che colloca i suoi interessi al di là del mondo pratico; inoltre, e soprattutto, il chierico, adottando le passioni politiche, porta loro il formidabile sostegno della sua sensibilità se è un artista, della sua forma di persuasione se è un pensatore, del suo prestigio morale in entrambi i casi 210.
Prima di proseguire, ritengo doveroso spiegarmi su alcuni punti:
1) Ho parlato complessivamente degli uomini di pensiero che hanno preceduto la nostra epoca. Infatti, quando dico che i chierici di un tempo contrastavano il realismo dei laici, e che quelli di oggi lo appoggiano, considero ognuno dei due gruppi nel suo insieme, nella sua globalità; contrappongono un carattere generale a un altro carattere generale. Voglio dire che non mi sentirei affatto contraddetto se un lettore si sforzasse di dimostrarmi che, nel primo gruppo, c'è Tizio che fu un realista e nel secondo Caio che non lo è, dal momento che quel lettore sarebbe costretto ad ammettere che, nell'insieme, ciascun gruppo presenta proprio il carattere che gli assegno. Così pure, se parlo di un chierico isolato, considero la sua opera per la sua caratteristica saliente, per quell'insegnamento che tra tanti predomina, anche se talvolta tutti gli altri smentiscono poi proprio quello. Ciò significa che non credo di dover smettere di considerare Malebranche un maestro di liberalismo perché certe righe della sua Morale sembrano una giustificazione della schiavitù, o Nietzsche un moralista della guerra perché la fine di Zaratustra rappresenta un manifesto di fraternità tale da dar lezioni al Vangelo. Tanto più che Malebranche come schiavista o Nietzsche come umanitario non hanno esercitato alcuna azione e che l'argomento di cui mi occupo è l'azione che i chierici hanno esercitato nel mondo e non quello che sono stati in se stessi.
2) Molti ci diranno: come potete trattare da chierici, e biasimarli perché vengon meno allo spirito di questo stato, uomini come Barrès, o Péguy, così scopertamente persone d'azione, nei quali il pensiero politico è con tanta evidenza occupato solamente dai bisogni dell'ora presente, è motivato unicamente dal pungolo del giorno, e il primo l'ha espresso esclusivamente o quasi in articoli di giornale. Ebbene io rispondo che questo pensiero, che in effetti non è altro se non una forma dell'azione immediata, si presenta in questi autori come il frutto dell'attività intellettuale più altamente speculativa, della meditazione più propriamente filosofica. Mai Barrès o Péguy avrebbero accettato di esser presi per semplici polemisti, neanche nei loro scritti polemici 211. Questi uomini, che in realtà non sono chierici, si presentano come chierici e passano per tali, (Barrès si presentava, per l'esattezza come un pensatore che si degna di scendere nell'arena) ed è a questo titolo che godono d'un particolare prestigio tra gli uomini d'azione. Il soggetto di questo studio non è il chierico in quanto chierico, ma in quanto passa per esser tale e ha un'influenza sul mondo grazie a questa etichetta.
La stessa risposta darò a proposito di Maurras e di altri teorici di «Action française», di cui mi si dirà, a maggior ragione, che sono uomini d'azione e che è insostenibile la definizione di chierici; questi uomini dichiarano di esercitare la loro azione in virtù di una dottrina ricavata dallo studio assolutamente oggettivo della storia, dall'esercizio del più puro spirito scientifico; ed è a questa dichiarazione fatta da scienziati, da uomini che combattono per una verità trovata nel rigore del laboratorio, è a questo atteggiamento di chierici battaglieri, ma di chierici, che essi devono l'attenzione speciale di cui godono tra gli uomini d'azione.
3) Infine vorrei ancora precisare il mio pensiero su un punto e dire che il chierico mi sembra venir meno alla sua funzione scendendo sulla pubblica piazza solo se vi scende, come quelli che ho già menzionato, per farvi trionfare una passione realistica di classe, di razza o di nazione. Quando Gerson salì sul pulpito di Notre-Dame per denunciare gli assassini di Luigi d'Orléans, quando Spinoza, a rischio della vita, andò a scrivere sulla porta dei carnefici dei Witt: «Ultimi barbarorum», quando Voltaire si batté per Calas, quando Zola e Duclaux andarono a testimoniare in un celebre processo, questi chierici assolvevano pienamente, e nella maniera più nobile, alla loro funzione di chierici; essi erano sacerdoti della giustizia astratta e non si macchiavano di alcuna passione per un oggetto terreno 212. Del resto, esiste un criterio sicurissimo per sapere se il chierico che agisce in pubblico lo fa in modo conforme al suo ufficio: viene immediatamente insultato dal laico, di cui disturba gli interessi (Socrate, Gesù). Si può dire in partenza che il chierico lodato da secolari tradisce la sua funzione. Ma torniamo all'adesione del chierico moderno alle passioni politiche.
Il terreno su cui questa adesione mi sembra particolarmente nuova e gravida di conseguenze è quello della passione nazionale. Certo, ancora una volta, l'umanità non ha atteso la nostra epoca per vedere dei chierici provare questa passione; senza parlare dei poeti, il cui tenero cuore ha sempre sospirato:
Nescio qua natale dulcedine solum cunctos
Ducit,
e senza risalire, per quel che riguarda la filosofia, all'Antichità, in cui, prima degli stoici, sono tutti ardenti patrioti, la storia ha visto, dopo l'avvento del cristianesimo e ben prima dei giorni nostri, scrittori, scienziati, artisti, moralisti, nonché ministri della Chiesa «universale», manifestare più o meno formalmente uno speciale attaccamento al gruppo a cui appartengono. Ma in questi uomini tale affezione aveva una base razionale; si dimostrava capace di giudicare il suo oggetto, di proclamarne i torti se ve ne trovava. Devo ricordare il biasimo di Fénelon o di Massillon, per certe guerre di Luigi XIV? la condanna di Voltaire per la devastazione del Palatinato? di Renan per le violenze di Napoleone? di Buckle per l'intolleranza dell'Inghilterra nei confronti della Rivoluzione francese? e, ai nostri giorni, di Nietzsche per le brutalità della Germania verso la Francia 213? Doveva toccare al nostro tempo di vedere degli uomini di pensiero o che si dicono tali dichiarare pubblicamente che non sottopongono ad alcun giudizio il loro patriottismo, proclamare (Barrès) che «quand'anche la patria avesse torto, bisogna darle ragione», definire traditori della propria nazione quei loro compatrioti che mantengono nei suoi confronti la loro libertà di spirito o almeno di parola. Non si è ancora spento il ricordo, in Francia, degli attacchi di tanti «pensatori» contro Renan, durante l'ultima guerra, per i suoi liberi giudizi sulla storia del suo paese214; e neppure quello della precedente levata di scudi di tutta una schiera di giovani215, che dicevano di appartenere alla vita dello spirito, contro un loro maestro (Jacob) che aveva insegnato un patriottismo che non esclude il diritto di critica. Si può affermare che le parole di quel dotto tedesco, che, nell'ottobre 1914, dopo la violazione del Belgio ed altri eccessi compiuti dal suo paese, affermava: «Non abbiamo niente di cui scusarci»216 sarebbero state pronunciate, se la loro patria si fosse trovata in circostanze analoghe, dalla maggior parte dei capi spirituali di allora, da Barrès per la Francia, da D'Annunzio per l'Italia, da Kipling per l'Inghilterra, a giudicare dalla sua condotta all'epoca della guerra contro i Boeri, da William James per l'America, se ci si ricorda quale atteggiamento assunse quando i suoi compatrioti occuparono Cuba217. D'altra parte sono dispostissimo ad ammettere che è questo patriottismo cieco a rendere forti le nazioni e che il patriottismo di Fénelon o di Renan non è quello che consolida gli imperi. Resta da sapere se la funzione dei chierici è quella di consolidare gli imperi.
Questa adesione dei chierici alla passione nazionale è stranamente notevole in coloro che chiamerò i chierici per eccellenza, voglio dire gli uomini di Chiesa. Non solo la stragrande maggioranza, da cinquant'anni in qua e in tutti i paesi d'Europa, ha aderito al sentimento nazionale 218 e ha pertanto cessato di offrire al mondo lo spettacolo di animi unicamente presi da Dio, ma sembra abbracciare questo sentimento con la stessa passione che abbiamo segnalato negli uomini di lettere e sembra anch'essa disposta a sostenere il proprio paese nelle sue ingiustizie meno discutibili. È quanto si è visto chiaramente, durante l'ultima guerra, con il clero tedesco, al quale non è stato possibile strappare l'ombra di una protesta contro gli eccessi commessi dal suo paese, e non pare che il silenzio sia stato dettato soltanto dalla prudenza 219. Di fronte a questo contegno evocherò quello dei teologi spagnoli del XVI secolo, i Bartolomeo della Casa, i Vittoria, che condannavano con l'ardore ben noto le crudeltà commesse dai loro compatrioti nella conquista delle Indie; non per affermare che tale reazione fosse la regola negli uomini di Chiesa di allora, ma per chiedere se oggi c'è un solo paese in cui si comporterebbero così, in cui auspicherebbero almeno che si permettesse loro di farlo 220.
Segnalerò un altro elemento del carattere che assume il patriottismo nel chierico moderno: la xenofobia. L'odio dell'uomo per «chi viene da fuori» (il forestiero), la proscrizione, il disprezzo per ciò che non è «di casa nostra». Tutti questi atteggiamenti così costanti nei popoli e evidentemente necessari alla loro esistenza, sono stati oggi adottati da uomini cosiddetti di pensiero, e con una serietà d'impegno, un'assenza d'ingenuità, che contribuiscono non poco a rendere questa adozione degna di rilievo. È ben noto come i dotti tedeschi, tutti quanti da oltre cinquant'anni proclamino che ogni civiltà diversa da quella della loro razza è in decadimento e come un tempo, in Francia, furono trattati gli ammiratori di un Nietzsche o di un Wagner, nonché di un Kant o di un Goethe, da certi francesi che pretendevano di appartenere al mondo del pensiero 221. Di quanto sia nuova questa forma di patriottismo, specialmente in Francia, in uomini di pensiero, è facile convincersi pensando ai Lamartine, ai Victor Hugo, ai Michelet, ai Proudhon, ai Renan, per citare i chierici patrioti che hanno preceduto immediatamente l'epoca di cui ci stiamo occupando. È necessario dire quanto, ancora una volta, adottando la passione dei laici, i chierici l'hanno ravvivata?
Mi verrà fatto presente che, da mezzo secolo, particolarmente nei vent'anni che hanno preceduto la guerra, l'atteggiamento dello straniero nei confronti della Francia era tale che ai Francesi che volevano difendere la loro nazione veniva imposto di essere violentemente parziali sull'argomento e che furono veri patrioti solo coloro che accettarono un tale fanatismo. Non diciamo il contrario. Diciamo soltanto che i chierici che hanno praticato questo fanatismo hanno tradito la loro funzione, cioè precisamente quella di mettere di fronte ai popoli e all'ingiustizia alla quale li condannano le loro religioni terrene, una corporazione il cui solo culto sia quello della giustizia e della verità. È vero che questi nuovi chierici dichiarano di non sapere che cosa sono la giustizia, la verità, o altre «nebbie metafisiche»; che, per loro, il vero è determinato dall'utile, il giusto dalle circostanze. Tutte cose che già Callicle insegnava, con la differenza tuttavia, che lui faceva rivoltare i pensatori importanti della sua epoca.
Bisogna riconoscere che in questa adesione del chierico moderno al fanatismo patriottico sono stati i chierici tedeschi a cominciare. I chierici francesi erano - e dovevano restare ancora a lungo — animati del miglior spirito di giustizia nei confronti delle culture straniere (si pensi al cosmopolitismo dei romantici) quando già i Lessing, gli Schlegel, i Fichte, i Goerres organizzavano nel loro intimo l'adorazione ardente di «tutto ciò che è tedesco», il disprezzo per tutto ciò che non lo è. Il chierico nazionalista è essenzialmente un'invenzione tedesca. È del resto un tema che tornerà spesso in quest'opera: quasi tutti gli atteggiamenti morali e politici adottati in questi ultimi cinquant'anni dai chierici in Europa sono di origine tedesca e nel campo dello spirito, la vittoria della Germania nel mondo è oggi completa222.
Si può dire che la Germania, creandosi il chierico nazionalista e ricavandone il ben noto aumento di forza abbia reso questa specie necessaria in tutti gli altri paesi. È innegabile che la Francia in particolare, dal momento che la Germania aveva i suoi Mommsen, era tenuta ad avere i suoi Barrès, se non voleva trovarsi in grande inferiorità quanto a fanatismo nazionale e vedere minacciata da questo fatto la sua stessa esistenza. Ogni francese che tenga alla conservazione del suo paese deve rallegrarsi che esso abbia avuto in quest'ultimo mezzo secolo una letteratura fanaticamente nazionalista. Tuttavia farebbe piacere che questo francese, innalzandosi per un momento al di sopra del proprio interesse e fedele in ciò all'onore della propria razza, trovasse triste che il modo in cui va il mondo lo obblighi a rallegrarsi di una cosa simile.
Più in generale, possiamo ammettere che l'atteggiamento realistico sia stato imposto ai chierici moderni, soprattutto a quelli francesi, dalle condizioni politiche, esterne e interne, in cui è venuta a trovarsi la loro nazione. Per quanto questo fatto sia grave, la gravità ne sarebbe attenuata se i chierici nel subirlo lo deplorassero, sentissero quanto il loro valore ne viene diminuito, quanto la civiltà è minacciata da questo fatto e l'universo reso più brutto. Ma di tutto questo non è dato constatare niente. Al contrario, li vediamo esercitare questo realismo con gioia; li vediamo trovare che la loro furia nazionalista li rende più grandi, che serve la civiltà, che abbellisce l'umanità. Sentiamo allora di avere di fronte qualcosa di diverso da una funzione il cui esercizio è contrastato da fattori contingenti, di avere di fronte un cataclisma delle nozioni morali in coloro che educano il mondo.
Vorrei segnalare ancora due tratti che mi sembrano nuovi nel patriottismo dei chierici moderni, di cui almeno il secondo contribuisce a rafforzare notevolmente questa passione nei popoli.
Il primo non potrebbe risaltare meglio che per contrasto con questa pagina d'uno scrittore del xv secolo, pagina tanto più degna di nota perché chi la firmò ha provato con le sue azioni quanto fosse profondo il suo amore per la patria: «Tutte le città, tutti gli Stati, dice Guicciardini, tutt'e regni sono mortali, ogni cosa, o per natura o per accidente, termina e finisce qualche volta. Però uno cittadino che si truova al fine della sua patria non può tanto dolersi della disgrazia di quella e chiamarla mal fortunata, quanto della sua propria; perché alla patria è accaduto quello che ad ogni modo aveva a accadere; ma disgrazia è stata di colui abattersi a nascere a quella età che aveva a essere tale infortunio». C'è da chiedersi se c'è un solo pensatore moderno, attaccato alla patria quanto lo era alla sua l'autore di questo passo, che oserebbe formarsi su di essa, e ancor meno formulare, un giudizio così straordinariamente libero nella sua tristezza. Inoltre questo ci mostra una delle maggiori empietà dei moderni: il rifiuto di credere che al di sopra della loro nazione esista un'evoluzione d'ordine superiore, dalla quale esse saranno trascinate via come tutte le cose. Gli Antichi, veri e propri adoratori della loro polis, la ridimensionavano tuttavia di fronte al Destino. La città antica si collocava sotto la protezione divina, ma non credeva affatto di essere essa stessa divina e quindi necessariamente eterna. Tutta la letteratura degli Antichi dimostra quanto la durata dei beni terreni fosse per loro cosa precaria, dovuta unicamente al favore degli dei, che in ogni momento possono revocarla223: ora è Tucidide che concepisce l'immagine di un mondo da cui Atene sia scomparsa; ora è Polibio che ci presenta il vincitore di Cartagine mentre davanti all'incendio di questa città pensa:
E anche Roma vedrà la sua fatale giornata;
ora è Virgilio che glorifica l'uomo dei campi, per il quale sono privi di valore
res romanae et peritura regna.
Doveva toccare ai moderni di fare della loro polis -e ad opera dei loro chierici — una torre che sfida il cielo.
L'altro elemento nuovo nel patriottismo dei chierici moderni è la volontà di ricondurre il proprio spirito a uno spirito nazionale — che naturalmente sventolano contro altre forme di spirito nazionali. Si sa quanti scienziati dell'una e dell'altra sponda del Reno sostengono da cinquant'anni in qua il loro pensiero in nome della scienza francese, della scienza tedesca; con quale accanimento negli stessi anni, tanti nostri scrittori vogliono sentire vibrare in sé la sensibilità francese, l'intelligenza francese, la filosofia francese, mentre gli uni dichiarano d'incarnare il pensiero ariano, la pittura ariana, la musica ariana, e a questi altri rispondono scoprendo che un tal maestro aveva una nonna ebrea e venerando in lui il genio semitico. Non si tratta qui di ricercare se la fortuna intellettuale di uno scienziato o di un artista porti la firma della sua nazionalità o della sua razza, e in che misura dipenda da queste; si tratta di segnalare la volontà dei chierici moderni che le cose stiano così e la novità di questo fatto. Racine e La Bruyère non pensavano certo a presentare le loro opere a se stessi e al mondo come delle manifestazioni dell'anima francese, né Goethe o Winckelmann a ricondurre le loro al genio germanico 224. C'è in tutto ciò, soprattutto negli artisti, qualcosa che merita di essere sottolineato. Non è privo d'interesse vedere uomini la cui attività consiste, possiamo dire professionalmente, nell'affermazione dell'individualità e che cent'anni fa, col romanticismo, avevano preso così violentemente coscienza di questa verità mettersi oggi, in certo qual modo, ad abdicare a questa coscienza e volersi sentire come l'espressione di un essere generale, come la manifestazione d'un'anima collettiva. È vero che quest'abdicazione dell'individuo a vantaggio d'«un gran Tutto impersonale ed eterno» soddisfa un altro romanticismo; è vero che quest'atteggiamento dell'artista può essere spiegato anche con la volontà (che un Barrès non nasconde affatto) di aumentare da sé il godimento di sé dato che la coscienza dell'io individuale moltiplica la propria profondità attraverso la coscienza dell'io nazionale (mentre l'artista attinge a questa seconda coscienza nuovi temi lirici); si può anche ammettere che l'artista non sia sordo al proprio interesse quando dice di essere l'espressione del genio della sua nazione e invita così tutta una razza ad applaudire se stessa nell'opera che egli le propone 225. Indipendentemente dai loro moventi è inutile dire che, riconducendo così - e con il clamore che sappiamo – tutto il loro valore alla propria nazione, gli spiriti Magni o quelli che sono ritenuti tali, hanno lavorato in senso contrario a quello che ci si aspettava da loro, hanno lusingato la vanità dei popoli e alimentato l'arroganza con la quale ognuno getta in faccia ai vicini la propria superiorità 226.
Non conosco un modo migliore per far sentire quanto vi è di nuovo qui nella posizione del chierico che il ricordare queste parole di Renan, che tutti gli uomini di pensiero da Socrate in poi sottoscriverebbero: «L'uomo non appartiene né alla propria lingua né alla propria razza; non appartiene che a se stesso, perché è un essere libero, vale a dire un essere morale». Al che Barrès, acclamato dai suoi pari, risponde: «Morale è non volersi libero dalla propria razza». Ecco evidentemente un'esaltazione dello spirito gregario che le nazioni erano poco abituate a sentire dai sacerdoti dello spirito.
I chierici moderni fanno di meglio: dichiarano che il loro pensiero può esser buono, dar frutti solo a patto di non abbandonare il suolo natale, di non «sradicarsi». Ci si complimenta con uno perché lavora nel suo Béarn, con un altro perché lavora nel suo Berry, con un terzo perché lavora nella sua Bretagna. E questa legge non viene proclamata soltanto per i poeti, ma per i critici, i moralisti, i filosofi, i cultori dell'attività puramente intellettuale. Dichiarare che lo spirito è buono in quanto rifiuta di liberarsi dalla terra: ecco che cosa assicura ai chierici moderni un posto di rilievo negli annali del potere spirituale. I sentimenti di questa classe sono evidentemente cambiati da quando Plutarco insegnava: «L'uomo non è un albero, fatto per restare immobile e con le radici piantate nella terra dov'è nato», o Antistene rispondeva ai suoi confratelli, fieri d'essere autoctoni, che essi condividevano questo onore con le chiocciole e le cavallette.
Non occorre precisare che denuncio qui la volontà del chierico di sentirsi condizionato dalla sua razza, di rimanere radicato alla propria terra solo nella misura in cui essa costituisce in lui un atteggiamento politico, una provocazione nazionalista. Non potrei sottolineare meglio questa limitatezza che citando quest'inno, così perfettamente scevro di passione politica, di un chierico moderno alla «sua terra e ai suoi morti»:
«E la vecchia quercia sotto la quale sono seduto parla a sua volta e mi dice:
"Leggi, leggi alla mia ombra le canzoni gotiche i cui ritornelli un tempo sentii mescolarsi al fremito delle mie foglie. In queste canzoni più vecchie di me è l'anima dei tuoi antenati. Conoscili questi oscuri antenati, dividi le loro gioie e i loro dolori passati. È così, effimera creatura, che vivrai lunghi secoli in pochi anni. Sii pio, venera la terra della patria. Non prenderne mai una zolla fra le mani senza pensare che è sacra. Ama tutti quei vecchi progenitori la cui polvere mischiata a questa terra mi ha nutrito da secoli, e il cui spirito è passato in te, il loro Beniamino, il figlio dei giorni migliori. Non rimproverare agli antenati né la loro ignoranza, né la fragilità del loro pensiero, neppure le illusioni della paura che li rendevano talvolta crudeli. Tanto varrebbe rimproverare a te stesso di essere stato bambino. Sappi che hanno lavorato, sofferto, sperato per te e che tu devi loro tutto!"» 227.
2. Fanno rientrare le passioni politiche nella loro attività di chierici.
I chierici non si accontentano di accogliere le passioni politiche, se s'intende con questo che fanno posto a queste passioni accanto alle attività di cui si devono occupare in quanto chierici; essi introducono le passioni nelle attività; permettono - vogliono - che si mescolino con il loro lavoro d'artisti, di scienziati, di filosofi, che ne tingano l'essenza, che ne marchino i prodotti. E, di fatto, mai si videro tante opere, tra quelle che dovrebbero essere specchi dell'intelligenza disinteressata, essere invece opere politiche.
Per la poesia si può anche non stupircene. Ai poeti non si può chiedere di separare le proprie opere dalle proprie passioni; le une sono la sostanza delle altre e il solo problema è sapere se essi fanno poesia per esprimere le loro passioni o se cercano delle passioni per fare poesia. In un caso come nell'altro non si vede perché dovrebbero escludere dal loro materiale ricco di fremiti la passione nazionale o lo spirito di parte. I nostri poeti politici, poco numerosi del resto, non fanno che seguire l'esempio di Virgilio, di Claudiano, di Lucano, di Dante, d'Aubigné, Ronsard, Hugo. Non si può tuttavia negare che la passione politica, come si esprime in un Claudel o in un D'Annunzio, quella passione cosciente e organizzata, priva di qualsiasi ingenuità, freddamente sprezzante dell'avversario, quella passione che, nel secondo dei poeti sopra menzionati, appare appunto così politica, adattata con tanta sapienza alle intime bramosie dei suoi compatrioti, alla precisa vulnerabilità dello straniero, sia qualcosa di diverso dalle eloquenti genericità dei tragiques o dell'Année terrible. Un'opera come La Nave, con il suo intento nazionalistico puntuale e pratico quanto quello di un Bismarck, in cui il lirismo è al servizio dell'esaltazione di questo carattere pratico, mi sembra una cosa nuova nella storia della poesia, anche di quella politica. In quanto all'effetto di questa novità sui laici, basta l'anima attuale del popolo italiano a darne la misura228. Ma l'esempio più rilevante di come i poeti cerchino di mettere la loro arte al servizio delle passioni politiche, ce l'offre oggi quel genere letterario che si può chiamare il lirismo filosofico, di cui l'opera di Barrès resta il più brillante simbolo, e che, dopo avere cominciato prendendo per centri di vibrazione stati d'animo veramente filosofici (il panteismo, l'alto intellettualismo scettico), si è quindi messo a servire unicamente la passione di razza e il sentimento nazionale. È noto quanto con questo genere, in cui all'azione del lirismo si accompagna il prestigio dello spirito d'astrazione (Barrès aveva colto benissimo il modo di manifestarsi di questo spirito; ha rubato lo strumento, ha detto un filosofo) i chierici, se non altro in Francia, abbiano attizzato le passioni politiche tra i laici, almeno tra quella parte così importante di loro che legge e crede di pensare. D'altra parte è difficile sapere, per quanto riguarda questi poeti e in particolare l'ultimo da noi citato, se sia stato il lirismo a dare il suo appoggio a una passione politica preesistente e vera o se al contrario sia stata questa passione a mettersi al servizio di un lirismo in cerca di cibo. Alius judex erit.
Ma ecco altri chierici introdurre la passione politica nelle loro opere, o almeno, farlo anche loro con singolare coscienza, chierici nei quali questo venir meno alla loro condizione mi sembra molto più degno di attenzione che nei poeti; intendo parlare dei romanzieri, dei drammaturghi, cioè di quei chierici la cui funzione è di dipingere in maniera più obiettiva possibile i moti dell'animo umano e i loro conflitti - funzione che uno Shakespeare, un Molière o un Balzac hanno dimostrato potersi esercitare con tutta la purezza che noi qui le attribuiamo. Che questa funzione sia più che mai falsata dal suo asservimento a fini politici, appare dall'esempio di tanti romanzieri contemporanei, non perché disseminano i loro racconti di riflessioni tendenziose (Balzac lo fa di continuo), ma perché invece di prestare ai loro eroi sentimenti e azioni conformi a una giusta osservazione della natura, prestano loro quelli che la loro passione politica esige. Devo forse citare quei romanzi in cui il tradizionalista, quali che siano i suoi errori, in fin dei conti manifesta sempre un animo nobile, mentre il personaggio senza religione, fatalmente e malgrado i suoi sforzi, ha solo impulsi abietti 229? o quelli in cui l'uomo del popolo possiede tutte le virtù e le infamie appartengono solo ai borghesi230?
0 quegli altri ancora in cui l'autore presenta i suoi compatrioti a contatto con degli stranieri e, più o meno apertamente, dà tutto il vantaggio morale ai primi231? - Questo procedimento è doppiamente dannoso: non solo attizza parecchio la passione politica nel cuore del lettore, ma sopprime uno degli effetti apportatori di un alto grado di civiltà dell'opera d'arte, voglio dire quel ripiegarsi su se stesso al quale ogni spettatore è portato di fronte a una rappresentazione dell'essere umano che sente vera e unicamente preoccupata del vero232. Aggiungiamo che, anche solo dal punto di vista dell'artista e del valore della sua attività, questa parzialità è indice di un grande decadimento. Il pregio dell'artista, quello che fa di lui il massimo ornamento del mondo, è che egli rappresenta le passioni umane invece di viverle e nell'emozione del rappresentare trova la stessa fonte di desideri, di gioie e di sofferenze che la gente in genere trova nella ricerca di cose reali. Se questo perfetto esempio dell'attività di lusso si mette ora al servizio della nazione o della classe, se il fior fiore del disinteresse diventa utilitario, dico come il poeta delle Vergini delle rocce quando l'autore di Sigfrido rende l'ultimo sospiro: «E il mondo perse valore».
I chierici, di cui ho appena dimostrato come mettano la loro attività di chierici al servizio delle passioni politiche sono poeti, romanzieri, drammaturghi, insomma degli artisti, cioè uomini ai quali tutto sommato, è permesso dare nelle proprie opere il predominio, anche volontario, alla passione. Ma vi sono altri chierici, i quali se vengono meno all'attività disinteressata dello spirito provocano un ben maggiore scandalo, e la cui influenza sul laico è ben più profonda a causa del prestigio di cui gode la loro specifica funzione; intendo parlare degli storici. Per loro, come già per i poeti, il fenomeno è nuovo soprattutto grazie alla perfezione che raggiunge. L'umanità non ha certo aspettato la nostra epoca per vedere la storia mettersi al servizio dello spirito di partito o della passione nazionale, ma credo di poter affermare che non l'aveva mai vista farlo con la metodicità, l'intensa coscienziosità che, da mezzo secolo, adoperano certi storici tedeschi e, da una ventina d'anni, i monarchici francesi233. Il caso di questi ultimi è tanto più straordinario in quanto essi appartengono a una nazione che nella storia dell'intelligenza umana sarà eternamente onorata per avere pronunciato, per bocca dei Beaufort, dei Fréret, dei Voltaire, dei Thierry, dei Renan, dei Fustel de Coulanges, la formale condanna della storia pragmatica e di aver in certo qual modo promulgato la carta della storia disinteressata234. Tuttavia la vera novità qui sta nell'ammettere tale parzialità, nel volerla adottare come un metodo legittimo. «Un vero storico della Germania, dichiara un maestro tedesco, deve raccontare soprattutto i fatti che portano alla grandezza della Germania»; questo stesso erudito loda Mommsen, che del resto se ne vantava, di aver fatto una storia romana «che diventa una storia tedesca con nomi romani»; un altro (Treitschke) si gloriava d'ignorare «quell'anemica oggettività che è il contrario del senso storico»; un altro (Guisebrecht) insegna che «la scienza non deve planare al di sopra delle frontiere, ma essere nazionale, tedesca». I nostri monarchici non sono da meno e di recente uno di loro, autore di una Histoire de la France in cui si pretende che i nostri re abbiano pensato fin dall'epoca di Clodoveo a prevenire la guerra del 1914, difendeva lo storico che presenta il passato dal punto di vista delle passioni del suo tempo 235. Il chierico moderno che decide di esporre la storia con parzialità abbassa al massimo la sua funzione, se si ammette con noi che la sua funzione sia di porre un freno alle passioni del laico. Non solo egli così rafforza più che mai abilmente la passione di quest'ultimo, non solo lo priva del suggestivo spettacolo dell'uomo preso soltanto dalla sete di verità, ma annulla la possibilità di ascoltare una parola estranea alla pubblica piazza, quella parola (di cui Renan ha forse dato il più bell'esempio) che fa sentire come, dalle altezze dalle quali egli parla, le passioni più opposte siano tutte ugualmente fondate, ugualmente necessarie alla città terrena e invita in tal modo ogni lettore appena in grado di superare se stesso ad attenuare, almeno per un attimo, il rigore della propria.
Diciamo comunque che in realtà uomini come Treitschke e i suoi omologhi francesi non sono degli storici; sono uomini politici che si servono della storia per rafforzare una causa che vogliono far trionfare. Allora è naturale che il loro maestro di metodo storico non sia Lenain di Tillemont ma Luigi XIV, il quale minacciava Mézeray di togliergli la pensione se persisteva a svelare gli abusi della vecchia monarchia, o Napoleone, che incaricava il ministro di polizia di badare a che la storia della Francia venisse scritta secondo quanto tornava utile al suo trono. Tuttavia quelli veramente abili riescono a coprirsi con la maschera del disinteresse 236.
Credo che molti di coloro che sto qui accusando di venir meno al loro ministero spirituale, all'attività disinteressata che annunciano quando diventano storici, psicologi, moralisti, mi risponderebbero se simili confessioni non ne rovinassero il credito: «Noi non siamo affatto al servizio del potere spirituale; siamo al servizio del potere temporale, di un partito politico, di una nazione. Solo che invece di servirli con la spada, li serviamo con gli scritti. Siamo la milizia spirituale del potere temporale».
Tra gli uomini che dovrebbero dare al mondo lo spettacolo d'una attività spirituale disinteressata e che indirizzano la loro funzione a fini pratici, citerò anche i critici. Tutti sanno che oggi non si contano più coloro i quali pretendono che un'opera sia bella solo nella misura in cui serve il partito che interessa loro o manifesta «il genio della loro nazione», o illustra la dottrina letteraria che si integra nel loro sistema politico, o per altre ragioni altrettanto corrette. I chierici moderni, dicevo, vogliono che sia l'utile a determinare il giusto. Vogliono anche che esso determini il bello; non sarà questa la minore delle loro originalità nei confronti della storia. Tuttavia, ancora una volta, coloro che adottano una tale critica non sono veramente dei critici, ma uomini politici che pongono la critica al servizio dei loro fini pratici. Vi è in questo un perfezionamento della passione politica di cui va reso onore proprio ai moderni; Luigi XIV o Napoleone non sembra abbiano pensato a utilizzare la critica letteraria per rafforzare i sistemi sociali di cui si erano fatti una religione237. Aggiungiamo che questa novità dà i suoi frutti: affermare, per esempio, insieme ai monarchici francesi, che l'ideale democratico è necessariamente legato a una cattiva letteratura significa, in un paese devoto alle lettere com'è la Francia, dare un vero e proprio colpo a quell'ideale, almeno per chi accetta di prendere Victor Hugo e Michelet per degli scribacchini 238. Ma la cosa più stupefacente del chierico moderno, in questa volontà di inserire la passione politica nella propria opera, è di essere riuscito a farlo con la filosofia, e più precisamente con la metafisica. Si può dire che fino al xix secolo la metafisica era rimasta la cittadella inviolata della speculazione disinteressata; tra tutte le forme del lavoro intellettuale era quella a cui poteva essere reso il mirabile omaggio che un matematico rendeva alla teoria dei numeri tra le varie branche della matematica, quando diceva: «Questa è la branca veramente pura della nostra scienza, voglio dire non contaminata dal contatto con le applicazioni». E infatti, non solo pensatori che si sono liberati da qualsiasi predilezione terrena, come un Plotino, un Tommaso d'Aquino, un Cartesio o un Kant, ma pensatori profondamente convinti della superiorità della loro classe o della loro azione, come un Platone o un Aristotele, non hanno mai pensato di orientare le loro considerazioni trascendenti verso una dimostrazione di tale superiorità e della necessità per l'universo di accettarla. La morale dei filosofi greci, si è detto, è «nazionalitaria»; la loro metafisica è universale. La Chiesa stessa, così spesso favorevole agli interessi di classe o di nazione nella sua morale, non conosce più che Dio e l'Uomo nella sua metafisica. Doveva toccare al nostro tempo di vedere dei metafisici, e della più nobile stirpe, rivolgere le loro speculazioni all'esaltazione della propria patria e alla denigrazione delle altre, e venire a rafforzare, con tutta la potenza del genio dedito all'astrazione, la volontà di dominio dei loro compatrioti. Si sa che Fichte e Hegel pongono come termine supremo e necessario allo sviluppo dell'Essere il trionfo del mondo germanico, e la storia ha dimostrato se l'atto di questi chierici ha prodotto o meno degli effetti nell'animo dei loro laici. Ci affrettiamo ad aggiungere che un simile spettacolo di una metafisica patriottica è fornito solo dalla Germania. In Francia, e perfino nel nostro secolo di chierici nazionalisti, non si è ancora visto un filosofo, almeno tra quelli da prendere sul serio in tale veste, redigere una metafisica in gloria della Francia. Auguste Comte, Renouvier o Bergson non hanno mai pensato di presentare l'egemonia francese come necessario punto di arrivo del divenire del mondo. Occorre dire, come sopra per l'arte, quale decadimento ne deriva alla metafisica? Sarà vergogna eterna dei filosofi tedeschi l'avere trasformato in una megera affannata a proclamare la gloria dei suoi figli la vergine patrizia che onorava gli dei.
3. I chierici mediante le loro dottrine fanno il gioco delle passioni politiche.
Ma i chierici hanno più violentemente rotto con la loro tradizione e fatto decisamente il gioco del laico impegnato a collocarsi nel reale, soprattutto con le loro dottrine, con la scala di valori che si sono messi a proporre al mondo. Forniti di una scienza e una coscienza che faranno lo stupore della storia, si sono visti coloro che per venti secoli non hanno predicato altro che di umiliare le passioni realistiche a vantaggio di qualsiasi trascendenza mettersi a fare di queste passioni e dei movimenti che le sostengono il massimo delle virtù e a non avere altro che disprezzo per quell'esistenza che, in un modo o nell'altro, si pone al di là del potere temporale. Ne spiegherò i principali aspetti.
A. Esaltano l'attaccamento al particolare, stigmatizzano il senso dell'universale.
Tanto per cominciare, li abbiamo visti mettersi a esaltare la volontà degli uomini di sentirsi diversi, proclamare degna di disprezzo qualsiasi tendenza a porsi in un universale. Se si fa eccezione per alcuni autori come Tolstoi o Anatole France, il cui insegnamento del resto è oggi considerato con aria di sufficienza dalla maggioranza dei loro colleghi, si può dire che, da cinquant'anni, tutti i moralisti che trovano ascolto in Europa, i Bourget, i Barrès, i Maurras, i Péguy, i D'Annunzio, i Kipling, l'immensa maggioranza dei pensatori tedeschi, abbiano esaltato lo sforzo fatto dagli uomini per sentirsi inseriti nella loro nazione, nella loro razza, in quanto sono queste a farli riconoscere diversi e opposti agli altri, e li hanno fatti vergognare di ogni aspirazione a sentirsi uomini, per ciò che questa qualità ha di generale e di trascendente le desinenze etniche. Coloro la cui azione, dagli stoici in poi, era stata di predicare che gli egoismi nazionali si stemperassero nel sentimento di un essere astratto ed eterno, si sono messi a stigmatizzare qualsiasi sentimento del genere e a proclamare la moralità di simili egoismi. La nostra epoca avrà visto i discendenti di Erasmo, di Montaigne, di Voltaire denunciare l'umanitarismo come decadimento morale; meglio ancora, come decadimento intellettuale, perché implica «un'assenza assoluta di senso pratico», e il senso pratico è diventato per questi singoli chierici la misura del valore intellettuale.
Mi preme distinguere l'umanitarismo come lo intendo in questo caso - la sensibilità alla qualità astratta di ciò che è umano, alla «intera forma dell'umana condizione» (Montaigne) — dal sentimento che viene normalmente designato con questo nome e che è l'amore per gli esseri umani concretamente esistenti. Il primo di questi impulsi (che sarebbe più esatto chiamare umanesimo) è l'attaccamento a un concetto; esso è una pura passione intellettuale, che non implica alcun amore terrestre; si può immaginare benissimo un essere che accetti fino in fondo il concetto di ciò che è umano e che non abbia neppure il minimo desiderio di vedere un uomo; è la forma che assume l'amore per l'umanità nei grandi aristocratici dello spirito, in un Erasmo, un Malebranche, uno Spinoza, un Goethe, tutte persone poco impazienti, sembra, di gettarsi nelle braccia del loro prossimo. Il secondo è uno stato affettivo e, in quanto tale, un fatto di anime plebee; esso prende forma nei moralisti all'epoca in cui l'alto rigore intellettuale scompare in loro per lasciare il posto all'esaltazione sentimentale, voglio dire nel XVIII secolo, soprattutto con Diderot, e raggiunge il culmine nel xix, con Michelet, Quinet, Proudhon, Romain Rolland, Georges Duhamel. Questa forma sentimentale dell'umanitarismo e l'oblio in cui cade la sua forma concettuale spiegano perché questa dottrina sia impopolare tra tante anime raffinate, quelle che trovano nell'arsenale dell'ideologia politica due clichés per loro ugualmente ripugnanti: il «ritornello patriottico» e l'«abbraccio universale»239.
Aggiungo che questo umanitarismo, che onora la qualità astratta di ciò che è umano, è l'unico a permettere di amare tutti gli uomini; è chiaro che, non appena guardiamo gli uomini in concreto troviamo necessariamente questa qualità suddivisa in quantità diverse e dobbiamo dire con Renan: «Nella realtà si è più o meno uomini, più o meno figli di Dio... Non vedo per quale ragione un papuano dovrebbe essere immortale». Gli egualitaristi moderni, cessando di capire che può esservi uguaglianza solo in astratto240 e che l'essenza del concreto è l'ineguaglianza, hanno dimostrato, oltre alla loro estrema inettitudine politica, la straordinaria grossolanità della loro mente.
L'umanesimo, come l'ho definito, non ha niente a che vedere neanche con l'internazionalismo. Questa è una protesta contro l'egoismo nazionale, non a vantaggio di una passione spirituale, ma di un altro egoismo, di un'altra passione terrena; è l'impulso per cui una categoria di uomini - operai, banchieri, industriali - si unisce al di sopra delle frontiere in nome dei propri interessi pratici e particolari, e si leva contro lo spirito nazionalistico solo perché la disturba nel soddisfacimento di tali interessi241. Accanto a fenomeni simili, la passione nazionale sembra un impulso idealista e disinteressato. - Infine l'umanesimo è anche qualcosa di completamente diverso dal cosmopolitismo, semplice desiderio di godere dei vantaggi di tutte le nazioni e di tutte le loro culture, e generalmente privo di qualsiasi dogmatismo morale242. Ma ritorniamo a quel fenomeno dei chierici che esortano i popoli a riconoscersi in ciò che li fa distinti.
Di questo atteggiamento dei chierici, la storia rimarrà soprattutto stupita per la perfezione con cui è stato realizzato. Essi hanno esortato i popoli a riconoscersi in ciò che li fa più distinti, nei loro poeti piuttosto che nei loro scienziati, nelle loro leggende piuttosto che nelle loro filosofie, essendo la poesia infinitamente più nazionale, più separatrice, come hanno visto benissimo, che non i prodotti della pura intelligenza243. - Essi li hanno esortati a tener fede ai loro caratteri nella misura in cui sono particolari e non universali: di recente, un giovane scrittore italiano decantava la sua lingua perché essa non è usata che in Italia e disprezzava la lingua francese perché universale 244. - Essi li hanno esortati a riconoscersi in tutto ciò che li fa distinti, non solo nella lingua, nell'arte, nella letteratura, ma nell'abbigliamento, nell'abitazione, nel mobilio, nel cibo. Da mezzo secolo in qua, capita tutti i giorni di vedere degli scrittori seri invitare i loro compatrioti, per non parlare che del nostro paese, a rimanere fedeli alle mode francesi, all'acconciatura francese, alla sala da pranzo francese, alla cucina francese, alla carrozzeria francese... — Essi li hanno esortati a sentirsi diversi persino nei loro vizi: gli storici tedeschi, dice Fustel da Coulanges, invitano la loro nazione a inebriarsi della sua personalità fin nella sua barbarie; un moralista francese, per non essere da meno, vuole che i suoi compatrioti accettino il loro «determinismo nazionale» nella sua «totalità indivisibile», con le sue ingiustizie come con la sua saggezza, con i suoi fanatismi come con la sua lucidità, con le sue meschinerie come con le sue grandiosità; un altro (Maurras) afferma: «Buoni o cattivi, i nostri gusti sono nostri ed è sempre lecito prendersi per i soli giudici e modelli della propria vita». Ancora una volta, quello che qui va sottolineato non è che certe cose vengano dette, ma che vengano dette da dei chierici, da una classe di persone la cui azione finora era consistita nell'invitare i propri concittadini a riconoscersi in ciò che hanno di comune con gli altri uomini, è che vengano dette in Francia, dagli epigoni di Montaigne, di Pascal, di Voltaire, di Renan.
Questa esaltazione del particolarismo nazionale, così imprevista in tutti i chierici, lo è ancor più in quelli che ho chiamato i chierici per eccellenza: gli uomini di Chiesa. Colpisce in modo particolare vedere come, coloro che per secoli hanno esortato gli uomini, almeno teoricamente, a mortificare il senso delle loro differenze per cogliersi nella divina essenza che li riunisce tutti, si mettono a lodarli, a seconda del luogo del sermone, per la loro «fedeltà all'anima francese», per l'«inalterabilità della loro coscienza tedesca», per il «fervore del loro cuore italiano» 245. Ci si può anche chiedere che cosa penserebbe colui che, per bocca dell'apostolo, disse: «Non esiste né greco, né ebreo, né scita, ma Cristo è in tutte le cose», se entrasse oggi in qualcuna delle sue chiese, e si vedesse offerta alla venerazione dei fedeli, spada al fianco e bandiera in mano, un'eroina nazionale 246.
Non si dirà mai abbastanza quanto questa glorificazione dei particolarismi nazionali, almeno con la chiarezza con cui si presenta oggi, sia cosa nuova nella storia della Chiesa. Senza risalire ai tempi in cui sant'Agostino predicava che tutti i patriottismi dovevano svanire per confluire nella «città permanente», senza neanche risalire a Bossuet che ci presentava Gesù indignato quando constatava «che poiché siamo separati da qualche fiume o qualche montagna, sembriamo aver dimenticato che abbiamo una stessa natura»247, è ancora possibile vedere, nel 1849, una qualificata assemblea di prelati affermare che «il sentimento delle nazionalità è un resto di paganesimo, la differenza delle lingue una conseguenza del peccato e della caduta dell'uomo». Certo questa dichiarazione, provocata dal cattolicissimo Francesco Giuseppe per frenare le volontà separatistiche dei popoli del suo impero, era interessata; ma non esito a dire che neanche interessata la Chiesa di oggi la farebbe più. Mi si risponde che, anche se lo volesse, non potrebbe più farla se non a rischio di consacrare i suoi ministri a una terribile impopolarità nelle rispettive nazioni. Come se la funzione del chierico non fosse di dire ai laici delle verità che dispiacciono e di pagare con la propria tranquillità.
Non chiediamo tanto. Esiste un solo prelato, su un pulpito d'Europa, che oserebbe ancora dire: «Il cristiano è al tempo stesso cosmopolita e patriota. Queste due qualità non sono incompatibili. Il mondo è in verità una patria comune, o, per parlare in termini più cristiani, un esilio»? (Istruzione pastorale di Le Frane de Pompigan, vescovo del Puy, 1763: Sur la prétendue philosophie des incrédules modernes. Gli «increduli» qui sono coloro che negano alla Chiesa il diritto di essere cosmopolita).
Certi chierici fanno di meglio e pretendono, esaltando i particolarismi nazionali, di essere perfettamente rispettosi dello spirito fondamentale della Chiesa, in particolare dell'insegnamento dei suoi grandi dottori del medio evo. (È la tesi che contrappone il cattolicesimo al cristianesimo). È necessario ricordare che i più «nazionalitari» di quei dottori si sono limitati a considerare i particolarismi nazionali come la condizione ineluttabile d'un mondo terreno e inferiore, da rispettare come ogni volontà di Dio? che non hanno mai esortato gli uomini ad esasperare nei loro cuori questo sentimento, e ancor meno hanno pensato di presentar loro tale esasperazione come un esercizio di perfezionamento morale? Ciò che la Chiesa, fino ad oggi, esaltava nel patriottismo, quando l'esaltava, è la fraternità tra concittadini, è l'amore dell'uomo per l'uomo, e non la contrapposizione tra uomini; è il patriottismo in quanto estensione dell'amore umano e non in quanto ne sia una limitazione 248. Ma quel che più colpisce in questo senso è che da qualche tempo — per l'esattezza dopo i rimproveri rivolti a Benedetto XV durante l'ultima guerra, per non avere umiliato l'arroganza del nazionalismo tedesco - è nata in seno alla Chiesa una vera scuola per dimostrare che il Santo Padre, agendo così, non aveva fatto altro che obbedire all'insegnamento del suo divino Maestro, il quale aveva formalmente predicato l'amore dell'uomo per la sua nazione. Uomini di Chiesa che fanno di Gesù un apostolo del nazionalismo: c'è niente di più emblematico della risoluzione dei chierici moderni di mettere la propria azione e la propria influenza al servizio delle passioni laiche?
Questi strani cristiani si esprimono così: «Gesù non guarda oltre le frontiere della sua patria per andare a portare agli altri i suoi benefici. Alla donna del paese di Cana di cui guarì la figlia suo malgrado dichiara che la sua missione è solo per le pecorelle smarrite della casa d'Israele (Matteo 15.24). I suoi primi discepoli li manda a Israele. E non dimentichiamo che insiste nel distoglierli dall'idea di andare altrove. Non andate per le strade dei Gentili, e non entrate nelle città dei Samaritani, andate prima di tutto verso le pecorelle smarrite della casa di Israele (Matteo 10.6). Più tardi verrà il momento di portare la buona novella agli stranieri, prima però abbiamo dei doveri verso i nostri. È quello che vuol far capire con queste parole cariche di senso e di amore patriottico: la casa d'Israele. Un gruppo di esseri umani che hanno lo stesso sangue, la stessa lingua, la stessa religione, la stessa tradizione, forma una casa. Queste particolarità sono altrettanti muri di separazione» 249. Dicono anche: «Ciò che colpisce a tutta prima quando Gesù permette di pagare il tributo a Cesare o rifiuta la corona che la folla gli offre nel deserto, non è tanto la sua prudenza e il suo disinteressamento quanto il suo patriottismo... Una caratteristica importante della predicazione di Gesù, è di essere assolutamente nazionale...» 250. Il lettore potrà andare a vedere, se lo desidera, la solidità delle prove sulle quali quei dottori fondano la loro tesi (una di queste è che Gesù era fortemente attaccato alle istituzioni della sua nazione, come ha dimostrato accettando, otto giorni dopo la nascita, la circoncisione); per parte nostra, ci limitiamo a ricordare l'accanimento di questi cristiani a fare del loro maestro, almeno in un momento della sua vita, un professore d'egoismo nazionale.
Queste opinioni sull'atteggiamento della Chiesa rispetto al nazionalismo non mi sembra debbano venire modificate dalle recenti dichiarazioni della Santa Sede a proposito di un certo nazionalismo francese, dichiarazioni che condannano solo un nazionalismo apertamente anticristiano, molto eccezionale quindi, e non hanno una parola di biasimo per la volontà dei popoli di porsi come distinti e di respingere l'universalismo. Del resto, ecco come risponde all'universalista una pubblicazione che è in un certo senso l'espressione ufficiale del pensiero del Pontefice: «Sì, tutti gli uomini sono figli d'uno stesso padre; ma divisi fin dall'origine, non si sono più riunificati. Da che si è frantumata, la famiglia non si è più ricongiunta, al contrario; e certo riconosco volentieri la fraternità di tutti i vivi, ma i morti sono allora tutti nostri padri? Tutti ci hanno amato? Tutti hanno sofferto e lavorato per noi? Alcuni vivevano dall'altra parte della terra e come in un altro mondo; altri lavoravano contro di noi o, se collaboravano con i nostri antenati, era nella speranza di salvaguardare o arricchire la loro eredità per altri, non per noi. Dov'è il debito? Se la casa è aperta al primo venuto, non è più una casa, ma un albergo»251. Sembra che si debba anche andare tra coloro che hanno abbandonato la Chiesa per sentire dei ministri cristiani professare il vero insegnamento del loro maestro e dichiarare senza ambagi: «Il Vangelo di Gesù non presuppone la patria, la sopprime»252.
Il chierico moderno non si è messo a umiliare il sentimento dell'universale solo a vantaggio della nazione, ma anche a vantaggio della classe. La nostra epoca avrà visto dei moralisti venire a dire al mondo borghese (o al mondo operaio) che, lungi dal cercare di attenuare la sensazione della loro differenza e di riconoscersi nella loro comune natura, dovevano invece sforzarsi di percepire tale differenza in tutta la sua profondità, in tutta la sua irriducibilità; che questo sforzo è bello e nobile, mentre ogni volontà d'unificazione in questo campo è segno di bassezza e di vigliaccheria, come pure di spirito debole. È questa, come si sa, la tesi delle Réflexions sur la violence, esaltata da tutta una pleiade di apostoli dell'anima moderna. C'è, in questo atteggiamento dei chierici, un lato nuovo certamente ancora più singolare che rispetto alla nazione. In quanto alle responsabilità di questo insegnamento e all'odio, in quantità finora sconosciuta, che porta a ogni classe per far violenza al suo avversario, lo si può misurare per la classe borghese dal fascismo italiano e per l'altra dal bolscevismo russo 253.
Ancora una volta si è visto il realismo cercare di mettersi sotto la protezione della Chiesa; si sono visti dottori cattolici sforzarsi di dimostrare che invitando la classe borghese, in nome della morale, a riconoscersi in ciò che la distingue dalla classe avversaria, a penetrare religiosamente nella coscienza dei caratteri che le sono propri, in particolare (Johannet) a rafforzare in sé l'idea di proprietà, non facevano che conformarsi all'insegnamento della Chiesa254. È facile vedere su quale equivoco riposa questa pretesa: la Chiesa, in effetti, ammette la distinzione delle classi; essa invita i fedeli ad accettarla anzi a rispettarla come imposta da Dio a un mondo caduto in basso; essa invita i privilegiati ad accettare la loro condizione, a esercitare le attività che questa comporta, a osservare i «doveri del loro stato»; essa dirà loro perfino che rispettando questi doveri, essi fanno piacere a Dio e «fanno una preghiera»; mai essa li ha invitati a esaltare in se stessi il sentimento di questa distinzione; ancor meno li ha invitati a farlo in nome della morale; ciò che ha raccomandato loro in nome della morale è invece di reprimere, al di qua di questa vita di privilegio, qualsiasi tentazione di credere che la loro persona sia di una essenza particolare e di riconoscersi in quella fratellanza che è comune a tutti gli uomini a parte l'ineguaglianza di rango e di condizioni 255. Gesù Cristo, essa dice formalmente e costantemente, accoglie l'uomo solo se riconciliato, cioè dopo che ha abolito nel suo cuore ogni sentimento di opposizione tra sé e altri uomini (si veda il sermone di Bossuet sulla riconciliazione). Ci sembra inutile insistere su questo carattere così poco contestabile dell'insegnamento cristiano (parlo dell'insegnamento, non della pratica). Ma non si rifletterà mai troppo su questo accanimento di tanti teorici moderni a trovare nella parola cristiana una consacrazione dell'egoismo borghese256.
Segnaliamo un'altra forma, anch'essa degna d'attenzione, di questa esaltazione del particolarismo da parte dei chierici: l'esaltazione delle morali speciali e il disprezzo della morale universale. È risaputo che, da mezzo secolo, tutta una scuola, non solo d'uomini d'azione ma di gravi filosofi, insegna che un popolo deve farsi una concezione dei suoi diritti e dei suoi doveri ispirata allo studio del proprio genio specifico, della propria storia, della propria posizione geografica, delle circostanze particolari nelle quali si trova, e non ai comandamenti di una sedicente coscienza dell'uomo di tutti i tempi e di tutti i luoghi; che una classe deve costruirsi una scala del bene e del male determinata dall'esame dei suoi specifici bisogni; degli specifici scopi, delle condizioni specifiche in cui si trova e smettere d'essere sensibile alla «giustizia in sé», alla «umanità in sé», e ad altri «orpelli» della morale generale. Assistiamo oggi, con i Barrès, i Maurras, i Sorel, e i Durkheim257, al totale fallimento, nei chierici, di quella forma d'anima che, da Platone a Kant, richiedeva che lo spirito dell'uomo eterno e disinteressato avesse la nozione del bene. A che cosa conduca questo insegnamento che invita un gruppo di uomini ad autonominarsi unico giudice della moralità dei propri atti, a quale deificazione degli appetiti, a quale codificazione delle violenze, a quale tranquillità nell'esecuzione dei piani, lo si è visto con l'esempio della Germania nel 1914. Forse un giorno ce ne fornirà l'esempio in tutta Europa la classe borghese; a meno che, se i suoi insegnamenti le si rivolteranno contro, l'esempio non ci venga offerto dal mondo operaio258.
Oserei dire che l'indignazione di certi moralisti francesi di fronte al comportamento della Germania nel 1914 non finisce di stupirmi quando penso che, sedici anni prima, all'epoca di quella vicenda giudiziaria di cui ho già parlato, quei moralisti predicavano ai loro compatrioti esattamente la stessa dottrina, spingendoli a rifiutare il concetto di giustizia assoluta impugnato da «ridicoli metafisici», e a non volere se non una giustizia «adatta alla Francia», al suo genio specifico, alla sua storia specifica, ai suoi bisogni specifici, eterni e attuali 259. Ci piace persuaderci per salvare l'onore di questi pensatori, voglio dire l'onore della loro coerenza, che la loro indignazione del 1914 non rispondesse a una convinzione morale, ma solo al desiderio di mettere in cattiva luce, agli occhi di un universo ingenuo, il nemico della propria nazione.
Quest'ultimo atteggiamento dei chierici mi sembra uno di quelli che meglio dimostrano quanto oggi essi siano risoluti - e abili - a servire le passioni laiche, e con quanta disinvoltura lo facciano. Invitare i propri compatrioti a conoscere solo una morale personale e a respingere ogni morale universale, significa apparire maestri nell'arte di esortarli a volersi distinguere tra tutti gli uomini, cioè nell'arte di perfezionare in loro, almeno in una delle sue forme, la passione nazionale. La volontà di non accettare che se stessi per giudici e di disprezzare qualsiasi opinione altrui è, in effetti, incontestabilmente una forza per una nazione, come ogni esercizio d'orgoglio è una forza per un'istituzione il cui principio organico è, qualunque cosa se ne dica, l'affermazione d'un io contro un non-io. Ciò che ha perso la Germania nell'ultima guerra non è affatto il suo «orgoglio esasperato», come pretendono quei visionari che vogliono ad ogni costo che la malvagità d'animo sia un elemento di debolezza nella vita pratica, è che la sua forza materiale non è stata pari al suo orgoglio. Quando l'orgoglio trova una forza materiale alla sua altezza, non manda di sicuro in rovina i popoli: lo testimoniano Roma e la Prussia di Bismarck. I chierici che, trent'anni fa, spingevano la Francia a erigersi a unico giudice delle proprie azioni e a non curarsi della morale eterna mostravano di avere in massimo grado il senso dell'interesse nazionale, in quanto quest'interesse è eminentemente realistico e non sa che farsene di una passione disinteressata. Quel che resta da vedere, ancora una volta, è se sia funzione dei chierici servire questo genere d'interessi.
Oltre alla morale universale, i chierici moderni hanno offerto al disprezzo degli uomini anche la verità universale. In questo si sono mostrati veramente geniali per lo impegno con cui hanno sostenuto le passioni laiche. È evidente che la verità è un grosso impedimento per chi intende distinguersi: chi la adotta è immediatamente condannato a sentirsi nell'universale. Che gioia quindi apprendere che quest'universale non è che un fantasma, che esistono solo verità particolari, «verità lorenesi, verità provenzali, verità bretoni, le quali accordatesi, nei secoli costituiscono ciò che è benefico, rispettabile, vero in Francia» 260 (il vicino parla di ciò che è vero in Germania); che in altri termini Pascal è solo uno spirito grossolano e che quello che è la verità al di qua dei Pirenei è un assoluto errore al di là. - L'umanità si sente impartire lo stesso insegnamento per ciò che riguarda la classe: impara che c'è una verità borghese e una verità operaia; meglio ancora, che il funzionamento della nostra mente deve differenziarsi a seconda che siamo operai o borghesi. La fonte dei vostri mali, insegna Sorel ai lavoratori, è che non pensate nel modo adatto alla vostra classe; il suo discepolo Johannet dice la medesima cosa al mondo capitalista. Forse si vedranno presto gli effetti di quest'arte, veramente suprema, dei chierici moderni di esasperare nelle classi la sensazione di essere diversi.
Il culto del particolare e il disprezzo dell'universale è un rovesciamento dei valori che caratterizza l'insegnamento del chierico moderno in maniera generale e che egli proclama in un ordine di pensiero ben più elevato di quello politico. Si sa che la metafisica adottata da venti anni da quasi tutti coloro che pensano o fanno professione di pensare colloca come stato supremo della coscienza umana quello — la «durata» - nel quale arriviamo ad afferrare ciò che c'è di più individuale in noi, di più distinto da tutto ciò che non è noi, e a liberarci da quelle forme di pensiero (concetto, ragione, usi linguistici) attraverso le quali non possiamo conoscerci se non in ciò che ci accomuna agli altri; si sa che pone come forma superiore della conoscenza del mondo esterno quella che coglie ogni cosa in ciò che ha di unico, di distinto da ogni altra e ha solamente disprezzo per la mente che cerca di scoprire enti generali. Tocca al nostro tempo di vedere questo fatto fino ad oggi sconosciuto, almeno nella misura in cui lo vediamo noi: la metafisica che predica l'adozione del contingente e il disprezzo dell'eterno261. Niente ci mostra meglio quanto sia profonda nel chierico moderno la volontà di magnificare il lato reale, — pratico - dell'esistenza e di sottovalutare quello ideale o più propriamente metafisico. Ricordiamo che questa venerazione dell'individuale è, nella storia della filosofia, l'apporto di pensatori tedeschi (Schlegel, Nietzsche, Lotze), mentre la religione metafisica dell'universale (unita anche a un certo disprezzo dello sperimentale) è soprattutto un'eredità lasciata dalla Grecia allo spirito umano; cosicché anche in questo, e in ciò che ha di più profondo, l'insegnamento del chierico moderno segna il trionfo dei valori germanici e il fallimento dell'ellenismo.
Infine vorrei segnalare un'altra forma, e non delle meno interessanti, che assume nei chierici questa predicazione del particolarismo: mi riferisco alla loro esortazione a considerare qualsiasi cosa solo in quanto è nel tempo, vale a dire solo in quanto costituisce una successione di stati particolari, un «divenire», una «storia», e mai in quanto, fuori dal tempo, in questa successione di casi distinti, si presenta come permanente; intendo soprattutto alludere alla loro affermazione secondo cui solo questo modo di vedere le cose sotto l'aspetto storico è serio, è filosofico, mentre il bisogno di vederle sub specie aeternitatis è una forma del gusto infantile per i fantasmi e fa sorridere. È necessario dimostrare che a questa concezione si ispira tutto il pensiero moderno? che esiste in tutto un gruppo di critici letterari, i quali confessano che davanti a un'opera non si chiedono tanto se sia bella quanto se sia espressiva delle «volontà attuali», dell'«anima contemporanea» 262? che la si ritrova in tutta una scuola di storici-moralisti i quali ammirano una dottrina non perché sia giusta o buona, ma perché rappresenta bene la morale del suo tempo, lo spirito scientifico del suo tempo? (è in primo luogo per questa ragione che Sorel ammira il bergsonismo e Nietzsche la filosofia di Nicola da Cusa); che, soprattutto, la si riscontra in tutti i nostri metafisici; che questi, sia che esaltino l'Entwickelung o la Durata o la Evoluzione creatrice o il Pluralismo o l'Esperienza integrale o l'Universale concreto, insegnano che l'assoluto si sviluppa nel tempo, a seconda delle circostanze e proclamano il decadimento di quella forma di spirito che, da Platone a Kant, consacra l'esistenza concepita fuori dal cambiamento263? Se si stabilisce, con Pitagora, che il Cosmo è il luogo dell'esistenza regolata e uniforme e l'Urano quello del divenire e del movimento, si può dire che tutta la metafisica moderna mette l'Urano in cima ai suoi valori e tiene il Cosmo in scarsissima considerazione. Ancora una volta, non è forse un fatto rilevante vedere il chierico, e per di più nella nobile veste del metafisico, insegnare al laico che solo il reale è degno di considerazione e il soprasensibile non merita che scherno264?
B. Esaltano l'attaccamento alle cose pratiche, stigmatizzano l'amore delle cose spirituali.
Ma i chierici con le loro dottrine hanno incoraggiato il realismo dei laici in ben altri modi, e non solo esaltando il particolare e denigrando l'universale; hanno messo in cima alla scala dei valori morali il possesso di vantaggi concreti, della forza temporale e dei mezzi per procurarseli, e hanno votato al disprezzo degli uomini il conseguimento dei beni puramente spirituali, dei valori non pratici o disinteressati.
È quello che hanno fatto in primo luogo per quanto concerne lo Stato. Abbiamo visto coloro che per venti secoli avevano predicato al mondo che lo Stato dev'essere giusto mettersi a proclamare che lo Stato dev'essere forte e non curarsi di essere giusto (ricordiamo l'atteggiamento dei più importanti uomini di cultura francesi al momento dell'affare Dreyfus). Li abbiamo visti, persuasi che gli Stati sono forti solo nella misura in cui sono autoritari, fare l'apologia dei regimi dittatoriali, del governo fondato sull'arbitrio, della ragione di Stato, delle religioni che insegnano la cieca sottomissione a un'autorità, li abbiamo visti lanciare anatemi a non finire contro le istituzioni basate sulla libertà e la discussione265; la condanna del liberalismo, soprattutto da parte della stragrande maggioranza dei letterati di oggi è una delle cose di questo tempo che più stupirà la storia, soprattutto da parte di letterati francesi. Li abbiamo visti, con gli occhi sempre puntati sullo Stato forte, esaltare lo Stato disciplinato alla prussiana, dove, ciascuno al suo posto e secondo gli ordini ricevuti dall'alto, lavora per la grandezza della nazione, senza che sia lasciato alcuno spazio alle volontà dei singoli266. Li abbiamo visti, sempre per il loro culto dello Stato forte (ma anche per altre ragioni di cui parleremo più avanti), volere che nello Stato sia preponderante l'elemento militare, che abbia diritto al privilegio e questo diritto venga accettato da parte dell'elemento civile (si vedano Y Appel au soldat e le dichiarazioni di parecchi scrittori durante l'affare Dreyfus). Uomini di pensiero che predicano che la toga deve inchinarsi alla spada: ecco qualcosa di nuovo nella loro corporazione, specialmente nella patria di Montesquieu e di Renan. Infine li abbiamo visti predicare che lo Stato deve voler essere forte e non curarsi di essere giusto anche e soprattutto nei suoi rapporti con gli altri Stati; li abbiamo visti a tal fine esaltare, nel capo della nazione, la volontà di potenza, la brama di «frontiere sicure», l'accanimento nel tenere i vicini sotto il proprio dominio, e glorificare i mezzi che sembrano loro idonei a procurarsi questi beni: l'aggressione improvvisa, l'astuzia, la malafede, lo sprezzo per i trattati. È noto come questa apologia del machiavellismo ispira tutti gli storici tedeschi da cinquant'anni a questa parte; come in Francia sia professata da uomini di cultura molto ascoltati, che invitano la nazione a venerare i suoi re perché questi sarebbero stati dei modelli di spirito puramente pratico, delle specie di contadini astuti (si veda Bainville), privi nei loro rapporti con i vicini, di qualsiasi rispetto per non si sa quale sciocca giustizia.
Non potrei far capire meglio qual è in questo caso la novità dell'atteggiamento del chierico che ricordando la celebre replica di Socrate al realista del Gorgia: «Tu esalti nella persona dei Temistocle, dei Cimone, dei Pericle uomini che hanno fatto mangiar bene i loro concittadini offrendo loro tutto ciò che desideravano, senza preoccuparsi d'insegnare ciò che è buono e onesto in fatto di cibo. Essi hanno fatto più grande lo Stato, esclamano gli Ateniesi; ma non vedono che questa crescita è solo un gonfiore, un tumore pieno di corruzione. Ecco che cosa hanno fatto quei politici dell'antichità riempiendo la città di porti, di arsenali, di mura, di tributi e altre simili sciocchezze, senza unirvi la temperanza e la giustizia». Si può dire che fino ai nostri giorni, almeno in teoria (ma sono le teorie che trattiamo qui), la supremazia del potere spirituale proclamata in queste righe sia stata adottata da tutti coloro che, esplicitamente o meno, hanno proposto al mondo una scala di valori, tramite la Chiesa, il Rinascimento, il XVIII secolo. Oggi è facile indovinare l'ironia di un Barrès o di un certo moralista italiano (per non parlare che dei latini) di fronte a questo disprezzo della forza a vantaggio della giustizia e la loro severità per il modo in cui quel figlio di Atene giudica chi ha fatto la sua città temporalmente potente. Per Socrate, in questo perfetto modello del chierico fedele alla sua essenza, i porti, gli arsenali, le mura sono delle «sciocchezze»; le cose serie sono la giustizia e la temperanza. Per chi oggi svolge le sue mansioni, è la giustizia che è una sciocchezza - «nebbie» - cose serie sono gli arsenali e le mura. Il chierico è diventato al giorno d'oggi ministro della guerra. Del resto, un moralista moderno, e tra i più riveriti, ha decisamente approvato i giudici che, buoni custodi degli interessi terreni, hanno condannato Socrate267; cosa che non si era ancora vista in educatori dell'anima umana dalla sera in cui Critone chiuse gli occhi del suo maestro.
Dico che i chierici moderni hanno predicato che lo Stato deve essere forte e non curarsi d'esser giusto; e, in effetti, hanno dato a questa affermazione il carattere di predicazione, d'insegnamento morale. È questa la loro grande originalità, che non sarà mai sottolineata abbastanza. Quando Machiavelli consiglia al Principe quel tipo di azioni che sappiamo, non conferisce loro alcun senso morale, alcuna bellezza; la morale resta per lui quello che è per tutti, ed egli non cambia opinione perché constata, non senza malinconia, che è inconciliabile con la politica. «E però egli dice, bisogna che egli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch'eventi della fortuna e le variazioni delle cose li comandano, e come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo ma intrare nel male, necessitato», dimostrando che, secondo lui, il male, anche se serve alla politica, non cessa perciò di essere male. I realisti moderni sono dei moralisti del realismo; per loro, l'atto che rende lo Stato forte riveste, per questo solo fatto e qualunque esso sia, un carattere morale; il male che serve al politico cessa di essere male e diventa bene. Questa posizione è evidente in Hegel, nei pangermanisti, in Barrès; ma non lo è meno in realisti come Maurras e i suoi discepoli, malgrado la loro insistenza nel dichiarare che non professano alcuna morale. Questi dottoroni non praticano forse una morale, almeno in maniera dichiarata, quanto alla vita privata, ma ne praticano molto chiaramente una a livello politico, se si chiama morale tutto ciò che propone una scala del bene e del male; per loro come per Hegel, in materia di politica ciò che è pratico è morale e quello che tutti chiamano morale, se si contrappone a ciò che è pratico, è immorale; questo è il senso rigoroso – perfettamente moralista — della famosa campagna detta del falso patriottico. Sembra che si potrebbe persino dire che, per Maurras, ciò che è pratico è divino e che il suo «ateismo» consiste non tanto nel negare Dio quanto nel cambiargli di posto per collocarlo nell'uomo e nel suo lavoro politico; credo di caratterizzare abbastanza bene l'opera di questo scrittore dicendo che è la divinizzazione del politico 268. Questo spostamento della moralità è certo la più importante impresa dei chierici moderni, quella che deve maggiormente attirare l'attenzione dello storico. È facile capire come, quando coloro che parlano in nome del pensiero riflesso vengono a dire all'uomo che i suoi egoismi politici sono divini e tutto ciò che tende ad annullarli è degradante, ciò rappresenti una svolta nella sua storia. In quanto agli effetti di questo insegnamento, si sono visti con l'esempio della Germania del 1914269.
Si può inoltre segnalare questa innovazione dei chierici dicendo che fino ai nostri giorni gli uomini avevano sentito solo due insegnamenti, riguardo ai rapporti tra politica e morale: uno, di Platone, che suonava: «La morale determina la politica»; l'altro, di Machiavelli, che suonava: «La politica non ha alcun rapporto con la morale». Oggi ne odono un terzo: Maurras insegna: «La politica determina la morale». Tuttavia270, la vera novità non è tanto che venga loro proposto questo dogma quanto che lo accettino. Già Callicle affermava che la forza è l'unica morale; ma il mondo del pensiero lo disprezzava. (Ricordiamo anche che Machiavelli è stato coperto d'ingiurie dalla maggior parte dei moralisti del suo tempo, almeno in Francia).
Il mondo moderno conosce altri moralisti del realismo i quali, per la loro veste, non mancano essi pure di credito; intendo parlare degli uomini di Stato. Segnalerò qui lo stesso cambiamento di cui ho parlato sopra. Un tempo i capi di Stato praticavano il realismo, ma non l'onoravano; Luigi XI, Carlo V, Richelieu, Luigi XIV non pretendevano che i loro atti fossero morali; vedevano la morale dove il Vangelo gliel'aveva mostrata e non cercavano di metterla altrove per il fatto di non applicarla271; sotto il loro dominio - ed è per questo che, nonostante tutte le loro violenze, non hanno turbato in niente la civiltà - la moralità veniva oltraggiata ma le nozioni morali restavano intatte. Mussolini, invece, proclama la moralità della sua politica di forza e l'immoralità di tutto ciò che vi si oppone; proprio come lo scrittore, l'uomo di governo, che un tempo era solo realista, oggi è un apostolo del realismo, e si sa quanto la maestà della sua funzione, in mancanza di quella della sua persona, dia peso al suo apostolato. Rileviamo d'altra parte che il governante moderno, per il fatto di rivolgersi alle folle, è tenuto a essere moralista, a presentare le sue azioni come legate a una morale, a una metafisica, a una mistica; un Richelieu, che non deve rendere conto se non al suo re, può parlare solo del lato pratico, e lasciare ad altri le osservazioni su quello eterno; un Mussolini, un Bethmann-Hollweg, un Herriot, sono condannati a queste altezze 272. D'altronde questo ci fa vedere quanto sia elevato oggi il numero di coloro che posso chiamare chierici, se con questa parola intendo quelli che parlano alla gente a livello del trascendente - e ai quali ho il diritto di chiedere conto della loro azione come chierici.
I predicatori del realismo politico si rifanno spesso all'insegnamento della Chiesa; la trattano da ipocrita quando condanna le loro tesi. Questo atteggiamento, poco fondato se si tratta dell'insegnamento della Chiesa precedente il XIX secolo, lo è molto di più se si considera l'epoca presente. Dubito che si possa ancora trovare sotto la penna d'un teologo moderno un testo così brutalmente riprovatore della guerra di conquista come questo: «Si vede quanto sia ingiusta e spaventosa la guerra di chi la dichiara solo per ambizione e desiderio di estendere il suo dominio al di là dei legittimi confini; solo per timore della grande potenza di un principe vicino con il quale peraltro vive in pace; per brama di possedere un paese più comodo in cui stabilirsi; o infine per desiderio di spogliare un rivale, unicamente perché giudicato indegno dei beni o degli Stati che possiede o d'un diritto legittimamente acquisito, perché ci procura qualche fastidio di cui ci si vuol liberare con la forza delle armi»273. Per contro, non si contano più oggi i testi che chiedono solo di essere sollecitati per giustificare tutte le imprese di conquista; per esempio, la tesi secondo la quale la guerra è giusta «se può appellarsi alla necessità del bene comune e della pubblica quiete da salvaguardare, la riconquista di cose che erano state ingiustamente sottratte, la repressione dei ribelli, la difesa degli innocenti»274; o quello che afferma che «la guerra è giusta quando è necessaria alla nazione sia per difenderla contro l'invasione, sia per rovesciare gli ostacoli che si oppongono all'esercizio dei suoi diritti»275. Così pure è carico di conseguenze il fatto che la Chiesa, la quale ancora all'inizio del secolo scorso ammoniva che tra due belligeranti la guerra poteva essere giusta solo da una parte276, abbia del tutto abbandonato questa tesi e predichi oggi che la guerra può essere giusta da entrambe le parti contemporaneamente, «dal momento che ognuno dei due avversari, senza essere certo del suo buon diritto, lo considera, dopo aver ascoltato il parere dei suoi consiglieri, semplicemente probabile»277. È anche una cosa grave che la guerra, che un tempo poteva essere dichiarata giusta solo contro un avversario che avesse commesso un'ingiustizia accompagnata da uri intenzione morale, oggi possa essere dichiarata giusta solo se scatenata contro un danno materiale procurato senza alcuna cattiva volontà278 (per esempio, un accidentale sconfinamento oltre frontiera). Di sicuro Napoleone e Bismarck oggi più che mai troverebbero nell'insegnamento della Chiesa di che giustificare tutte le loro scorrerie 279.
Questo realismo i chierici moderni l'hanno predicato non solo alle nazioni, ma alle classi. Tanto alla classe operaia quanto a quella borghese hanno detto: organizzatevi, diventate i più forti, impadronitevi del potere o cercate di conservarlo se lo avete già; infischiatevene che nei vostri rapporti con la classe avversaria prevalga un po' più di carità, un po' più di giustizia o altre «balle»280 con cui vi prendono in giro da troppo tempo. E anche questa volta non hanno detto: diventate così perché lo vuole la necessità; hanno detto (ed è questa la novità): diventate così perché lo esigono la morale, l'estetica; volersi forti è segno di animo elevato, volersi giusti è segno di animo vile. È l'insegnamento di Nietzsche281, di Sorel, applauditi da tutta un'Europa cosiddetta pensante; è l'entusiasmo di questa Europa, nella misura in cui è attratta dal socialismo, per la dottrina di Marx, il suo disprezzo per quella di Proudhon282. — E i chierici hanno tenuto lo stesso linguaggio ai partiti che si combattono all'interno di una stessa nazione: diventate il più forte, hanno detto all'uno o all'altro a seconda della loro passione, e sopprimete tutto ciò che vi disturba; liberatevi della stoltezza che v'invita a lasciare spazio all'avversario, a instaurare con lui un'atmosfera di giustizia e d'armonia. È noto come tutta una schiera di «pensatori» di ogni paese ammiri il governo italiano che mette semplicemente fuori legge tutti i cittadini che non lo approvano. Fino a oggi gli educatori dell'animo umano, discepoli di Aristotele, esortavano l'uomo a condannare uno Stato che fosse una fazione organizzata; i discepoli di Mussolini e di Maurras imparano a riverire uno Stato del genere 283.
L'esaltazione dello «Stato forte» si traduce nel chierico moderno anche in certi insegnamenti dei quali si può dire con certezza che stupirebbero profondamente i suoi antenati, almeno i grandi:
1) L'affermazione dei diritti della consuetudine, della storia, del passato (beninteso, in quanto consacrano i regimi di forza) in contrapposizione ai diritti della ragione. Dico l'affermazione dei diritti della consuetudine; i tradizionalisti moderni, infatti, non insegnano semplicemente, come Cartesio o Malebranche, che le consuetudini sono qualcosa tutto sommato abbastanza buono e a cui è meglio sottomettersi che opporsi; insegnano che esse hanno dalla loro un diritto, il diritto; che quindi è la giustizia, non solo l'interesse, a volere che le si rispettino. Le tesi del «diritto storico» della Germania sull'Alsazia, del «diritto storico» della monarchia francese non sono posizioni puramente politiche, sono posizioni morali; pretendono d'imporsi in nome della «santa giustizia», di cui i loro avversari, essi affermano, hanno una nozione falsata284. Il giusto determinato dal fatto compiuto, ecco certo un insegnamento nuovo, soprattutto per dei popoli che da venti secoli facevano discendere la loro concezione del giusto dai seguaci di Socrate. Occorre dire che, anche in questo, l'anima della Grecia fa posto, in chi educa gli uomini, all'anima della Prussia? Lo spirito che parla qui - e in tutti gli uomini di cultura d'Europa, sia mediterranea sia germanica - è lo spirito di Hegel: «La storia del mondo è la giustizia del mondo» (Weltgeschichte ist Weltgericht);
2) L'esaltazione della politica fondata sull'esperienza, si intenda una politica secondo cui una società dovrebbe governarsi con i principi che hanno dato prova di saperla rendere forte, e non con «chimere» che tenderebbero a renderla giusta. È in questo senso strettamente pratico che il culto della politica sperimentale è cosa nuova nei chierici; perché, se s'intende con questa espressione il rispetto dei principi che si sono dimostrati adatti a rendere una società non soltanto forte ma giusta, la raccomandazione di seguire tale politica invece di una politica puramente razionale compare tra gli intellettuali molto prima degli adepti di Taine o d'Augusto Comte285; molto prima dei nostri «empiristi organizzatori», Spinoza voleva che la scienza politica fosse una scienza sperimentale e che le condizioni di durata degli Stati dipendessero almeno in egual misura dall'osservazione e dalla ragione (si veda la sua invettiva contro gli utopisti, Trattato, I, I); ma egli credeva di dedurre dall'osservazione che per gli Stati, queste condizioni non consistono solo nell'avere buoni eserciti e popoli obbedienti, ma nel rispettare i diritti dei cittadini e anche dei popoli vicini286. - Il culto della politica sperimentale oggi si accompagna, in chi l'adotta, a un atteggiamento che evidentemente vuole impressionare e ci riesce: si sa con che volto fatale, con che rigidezza piena di disprezzo, con che cupa certezza di possedere l'assoluto, costoro proclamano che in materia politica «conoscono solo i fatti». Vi è qui, soprattutto nei pensatori francesi, un romanticismo di nuovo genere, che chiamerò il romanticismo del positivismo, i cui grandi rappresentanti, senza bisogno di nominarli, si presentano subito alla fantasia del lettore. D'altra parte, questo culto mette in rilievo una povertà di spirito 287 che mi sembra un vero e proprio lascito del xix secolo: la fiducia che gl'insegnamenti da trarre dal passato, ammettendo che ne esistano, verranno fuori interamente dall'esame dei fatti, cioè dall'esame delle volontà che si sono realizzate; come se le volontà che non si sono realizzate non fossero altrettanto e forse più degne di considerazione, se si pensa che ora potrebbero essere loro a riempire la scena del mondo288. Aggiungiamo che il culto del fatto pretende anche di trovare, da solo, il «senso della storia», la filosofia della storia», e che, anche in questo, esso manifesta una debolezza dell'animo che sembra non esistesse nelle epoche precedenti la nostra; quando Bossuet e Hegel costruivano una filosofia della storia non erano certo più metafisici di Taine o Comte o di qualcun altro tra i loro rumorosi discepoli, ma almeno sapevano di esserlo, di non potere non esserlo, e non avevano l'ingenuità di credersi «scienziati puri».
3) L'affermazione che le forme politiche devono adattarsi all'«uomo com'è e sempre sarà» (vale a dire insociale e sanguinario, cioè eternamente bisognoso di regimi coercitivi e d'istituzioni militari). Questo impegno di tanti pastori moderni nell'affermare l'imperfettibilità della natura umana appare come uno dei loro atteggiamenti più singolari, se si pensa che non tende a nient'altro se non a decretare l'assoluta inutilità della loro funzione e a provare che hanno smesso completamente di conoscerne l'essenza. È chiaro che, quando si vedono moralisti, educatori, direttori spirituali di professione proclamare, di fronte allo spettacolo della barbarie umana, che l'«uomo è così», che «bisogna prenderlo così», che «non lo si cambierà mai», si è tentati di chiedere qual è allora la loro ragion d'essere; e quando li si sente rispondere che «loro sono menti positive e non utopisti», che «si occupano di ciò che è, non di ciò che potrebbe essere», si resta sbalorditi nel vedere che ignorano come il moralista sia per essenza un utopista e che è proprio dell'azione morale creare il suo oggetto affermandolo. Ma ci si riprende quando ci si accorge che non ignorano niente di tutto questo e sanno benissimo che è proprio affermandola che creeranno quell'eterna barbarie necessaria a conservare le istituzioni alle quali tengono 289.
Il dogma dell'incurabilità della cattiveria umana, d'altronde, ha in alcuni dei suoi difensori, un'altra radice: il piacere romantico di descrivere la razza umana murata in una miseria fatale ed eterna. Da questo punto di vista, si può dire che al giorno d'oggi si è costituito, in certi scrittori politici, un vero romanticismo del pessimismo, che nel suo assolutismo è tanto falso quanto l'ottimismo di Rousseau e di Michelet in odio al quale si è formato, e il cui atteggiamento aristocratico e in apparenza scientifico impressiona notevolmente le anime semplici290. Sarebbe difficile disconoscere che questa dottrina ha portato i suoi frutti fuori dal mondo letterario e che al suo richiamo è sorta un'umanità che non crede più se non ai propri egoismi e riserba solo scherno a quegli ingenui che credono ancora che l'umanità possa migliorare. Il chierico moderno avrà realizzato quest'operazione certamente nuova: avrà insegnato all'uomo a negare la propria divinità. Si capisce la portata di tale operazione: gli stoici affermavano che si sopprime il dolore negandolo; la cosa è discutibile per il dolore, ma rigorosamente vera per la perfettibilità morale.
Indicherò ancora due insegnamenti ispirati ai chierici moderni dalla loro predicazione dello «Stato forte», e di cui non occorre dire se sono nuovi per dei ministri dello spirituale:
Il primo consiste nell'inculcare all'uomo che è grande nella misura in cui si sforza di agire e pensare come agivano e pensavano i suoi antenati, la sua razza, il suo ambiente, e ignora l'«individualismo»; è noto l'anatema lanciato trent'anni fa, all'epoca dell'affare Dreyfus, da tanti uomini di cultura francesi contro chi «pretende di cercare la verità per conto suo», di farsi un'opinione personale, invece di adottare quella della sua nazione, alla quale vigili capi hanno detto che cosa deve credere. La nostra epoca avrà visto dei sacerdoti dello spirito insegnare che la forma di pensiero degna di lode è quella gregaria e che il pensiero indipendente merita disprezzo. Del resto è certo che un gruppo che vuole essere forte non sa che farsene di chi pretende di pensare con la propria testa 291.
Il secondo consiste nell'insegnare alla gente che per un gruppo il fatto di essere numeroso rappresenta un diritto. È la morale che le nazioni sovrappopolate sentono enunciare da molti dei loro uomini di cultura, mentre le altre imparano da molti dei loro che, se la natalità continua a essere scarsa, esse subiranno uno sterminio «legittimo». Il diritto del numero ammesso da uomini che dicono di appartenere alla vita dello spirito: ecco dunque a che cosa assiste l'umanità moderna. D'altra parte è certo che un popolo, per essere forte, dev'essere numeroso.
Questo culto dello stato forte e delle forme morali che lo sostengono, i chierici l'hanno predicato agli uomini ben al di là del terreno politico, su un piano assolutamente generale. È la predicazione del pragmatismo, il cui insegnamento, in questi cinquant'anni, da parte di quasi tutti i moralisti influenti in Europa rappresenta una delle più importanti svolte della storia morale della specie umana. Non si esagererà mai abbastanza l'importanza di un processo per cui coloro che da venti secoli hanno insegnato all'uomo che il criterio della moralità di un atto è il disinteresse, che il bene è un'emanazione della ragione nella sua essenza universale, che la sua volontà è morale solo se cerca una legittimazione al di fuori dei suoi obiettivi, proprio costoro si mettono a insegnargli che l'atto morale è quello con cui egli rende più sicura la propria esistenza contro un ambiente che gliela contesta, che la sua volontà è morale nella misura in cui è una volontà «di potenza», che la parte della sua anima che determina il bene è il suo «voler vivere» in ciò che ha di più «estraneo a qualsiasi ragione», che la moralità di un atto si misura dal suo essere o meno confacente allo scopo che si prefigge e che esistono solo morali di circostanza. Educatori dell'anima umana che oggi prendono partito per Callicle contro Socrate: ecco una rivoluzione di cui oso dire che mi sembra più notevole di tutti gli sconvolgimenti politici 292.
Vorrei mostrare certi aspetti straordinariamente interessanti, forse non abbastanza messi in rilievo, di questa predicazione.
I chierici moderni, dicevo, insegnano all'uomo che i suoi voleri sono morali in quanto tendono a rendere più sicura la sua esistenza a detrimento di un ambiente che gliela contesta. In particolare gli insegnano che la sua specie è santa per il fatto di aver saputo affermare il proprio essere a detrimento del mondo che lo circonda 293. In altri termini: la vecchia morale diceva all'uomo che è divino nella misura in cui si confonde con l'universo; quella moderna gli dice che lo è nella misura in cui vi si contrappone; la prima lo invitava a non porsi nella natura «come un Impero in un Impero»; la seconda lo invita a collocarvisi appunto come tale e a esclamare con gli angeli ribelli della Scrittura: «Ora vogliamo riconoscerci in noi stessi, non in Dio»; la prima proclamava con il maestro delle Contemplations: «Credere, ma non in noi»; la seconda risponde con Nietzsche e Maurras: «Credere, ma in noi, unicamente in noi».
Tuttavia la vera originalità del pragmatismo non sta in questo. Già il cristianesimo invitava l'uomo a mettersi contro la natura; ma lo invitava in nome dei suoi attributi spirituali e disinteressati; il pragmatismo lo invita a farlo in nome dei suoi attributi pratici. Un tempo l'uomo era divino perché aveva saputo accedere al concetto di giustizia, all'idea di legge, al senso di Dio; oggi lo è perché ha saputo fabbricarsi un'attrezzatura che lo rende padrone della materia. (Si vedano gli elogi dell'homo faber da parte di Nietzsche, Sorel, Bergson).
Ricordiamo, del resto, che i chierici moderni esaltano il cristianesimo in quanto sarebbe soprattutto una scuola di virtù pratiche, creatrici, adatte all'affermazione delle grandi costruzioni umane. Questa stupefacente deformazione di una dottrina, così evidentemente applicata come principio solo all'amore delle cose spirituali, non è insegnata unicamente da laici, che rappresentano la loro parte cercando di mettere le proprie volontà pratiche sotto il patrocinio delle massime autorità morali: essa è professata persino dai ministri di Gesù: il cristianesimo pragmatista, come lo intendo qui, viene predicato oggi da tutti i pulpiti cristiani 294.
L'esortazione a cercare il vantaggio concreto e l'atteggiamento spirituale che lo procura si traduce nel chierico moderno anche in un altro insegnamento degno di nota: l'elogio della vita guerriera e dei sentimenti che l'accompagnano e il disprezzo della vita civile e della morale che questa implica. È ben nota la dottrina che da cinquant'anni in qua i moralisti più stimati predicano all'Europa, la loro apologia della guerra «che purifica», la loro venerazione per l'uomo d'armi «archetipo di bellezza morale», la loro proclamazione della suprema moralità della «violenza» o di chi regola le proprie contese in duello e non in tribunale, mentre il rispetto del contratto viene definito «l'arma dei deboli», il bisogno di giustizia «la caratteristica degli schiavi». Non è tradire i discepoli di Nietzsche o di Sorel — cioè la grande maggioranza dei letterati moderni, in quanto questi propongono al mondo una scala di valori morali — dire che, secondo loro, Colleoni è un esemplare umano molto superiore a L'Hôpital. I giudizi del Viaggio del Condottiero non sono solo del suo autore. Si tratta di un'idealizzazione dell'attività pratica che l'umanità non aveva mai sentito fare dai suoi educatori, almeno da quelli che parlano per formulare dogmi.
Ci verrà obbiettato che la vita guerriera non è raccomandata da Nietzsche e la sua scuola perché procura vantaggi pratici, ma al contrario come tipo di attività disinteressata e per contrapposizione al realismo che, secondo loro, costituisce la caratteristica della vita civile. Ciò non toglie che il modo di vivere esaltato da questi moralisti s'identifichi di fatto con quello che, per eccellenza, procura beni temporali. Checché ne dicano l'autore delle Réflexions sur la violence e i suoi discepoli, la guerra rende più del piccolo commercio; prendere è più vantaggioso che scambiare; Colleoni possiede di più di Franklin. (Naturalmente parlo del guerriero che vince, dato che anche Nietzsche e Sorel non parlano mai del mercante che fallisce).
D'altronde nessuno negherà che le attività irrazionali, di cui l'istinto guerriero è solo un aspetto, vengano esaltate dai loro grandi apostoli moderni per il loro valore pratico. Ha detto benissimo il loro storico: il romanticismo di Nietzsche, di Sorel e di Bergson è un romanticismo utilitario.
Notiamo bene che quello che c'è da sottolineare nel chierico moderno non è più l'esaltazione dello spirito militare, ma dell'istinto guerriero. È il culto dell'istinto guerriero al di fuori da ogni spirito sociale di disciplina o di sacrificio, quello espresso dalle seguenti affermazioni di Nietzsche, esaltate da un moralista francese che fa scuola a sua volta: «I giudizi di valore dell'aristocrazia guerriera sono fondati su una solida costituzione fisica, su una salute florida, senza dimenticare quanto è necessario al mantenimento di questa esuberante energia: la guerra, l'avventura, la caccia, la danza, i giochi e gli esercizi fisici e più in generale tutto ciò che implica un'attività robusta, libera e gioiosa»; «quell'audacia delle razze nobili, audacia folle, assurda, spontanea...; la loro indifferenza e il loro disprezzo per la sicurezza fisica, per la vita, il benessere»; «il superbo bruto biondo che vaga in cerca di preda e di strage»...; «la gaiezza terribile e la gioia profonda che gli eroi provano per ogni distruzione, per tutte le voluttà della vittoria e della crudeltà». Il moralista che riporta questi testi (Sorel, Réflexions sur la violence, p. 360) aggiunge, per non lasciare alcun dubbio sul fatto di raccomandarli ai suoi simili: «È evidente che la libertà sarebbe gravemente compromessa se gli uomini arrivassero a considerare i valori omerici (cioè, secondo lui, quelli celebrati da Nietzsche) come se fossero una prerogativa dei popoli barbarici».
Occorre forse fare osservare come, anche in questo caso, la morale attualmente imperante negli educatori del mondo sia essenzialmente germanica e segni il fallimento del pensiero greco-romano? Non solo non si trova in Francia, prima di oggi, un solo moralista serio (compreso De Maistre), né un solo poeta, se si prendono in considerazione i grandi, che esalti «le voluttà della vittoria e della crudeltà» 295, ma lo stesso avviene a Roma, da quel popolo al quale la guerra aveva dato il dominio del mondo; non solo in Cicerone, in Seneca, in Tacito, ma in Virgilio, in Ovidio, in Lucano, in Claudiano non vedo un solo testo in cui l'istinto di preda rappresenti la forma suprema della moralità umana; ne vedo invece molti che attribuiscono questo merito agli istinti sui quali si fonda la vita civile296. Così pure nella Grecia primitiva, e molto prima dei filosofi, i miti ben presto lasciano ampio spazio alla morale civile: in un poema di Esiodo, la tomba di Cicno è inghiottita dalle acque, per ordine di Apollo, perché quell'eroe fu un brigante. L'apologia degli istinti di guerra da parte dei moralisti mediterranei sarà una delle sorprese della storia. Alcuni di loro, del resto, sembrano prevederlo e credono di dovere affermare che i valori di Omero (si è detto che cosa intendono con questa espressione) «sono molto vicini ai valori di Corneille»297; come se gli eroi del poeta francese, tutti ligi al concetto di dovere e di Stato, avessero qualcosa in comune con chi ama l'avventura, la preda e la strage.
Si osserverà che questi testi di Nietzsche esaltano la vita guerriera prescindendo da qualsiasi fine politico 298. E, in effetti, il chierico moderno insegna agli uomini che la guerra comporta una moralità in sé e dev'essere esercitata senza tener conto di alcuna utilità. Questa tesi, che ricorre sovente in Barrès, è stata sostenuta brillantemente da un giovane eroe che, per tutta una generazione francese, è un educatore di anime: «Nella mia patria amiamo la guerra e segretamente la desideriamo. Noi abbiamo sempre fatto la guerra. Non per conquistare una provincia, non per sterminare una nazione, non per regolare un conflitto d'interessi... In realtà, facciamo la guerra per fare la guerra, senza alcun altro scopo» 299. Gli antichi moralisti francesi, anche se guerrieri (Vauvenargues, Vigny), consideravano la guerra una triste necessità; i loro discendenti la raccomandavano come una nobile inutilità. Tuttavia, ancora una volta, questo culto che vien predicato indipendentemente da ogni aspetto pratico e solo dal punto di vista di un'arte si trova a essere straordinariamente favorevole all'azione pratica: la guerra inutile è la migliore preparazione per la guerra utile.
Questo insegnamento conduce il chierico moderno (lo abbiamo appena visto in Nietzsche) a conferire valore morale all'esercizio fisico, a proclamare la moralità dello sport; ancora una cosa degna di nota in chi, da venti secoli, invitava l'uomo a porre il bene unicamente nelle condizioni dello spirito. I moralisti dello sport d'altronde, non nascondono tutti l'essenza pratica della loro dottrina: la gioventù, insegna chiaramente Barrès, deve allenarsi alla forza fisica per la grandezza della patria. L'educatore moderno non chiede più l'ispirazione ai peripatetici del Liceo o ai solitari di Clairvaux, ma al maestro della piccola borgata del Peloponneso. Del resto, il nostro tempo avrà visto questa cosa nuova: uomini che si proclamano appartenenti al mondo dello spirito insegnare che la Grecia da venerare è Sparta con le sue palestre, non la città di Platone o di Prassitele; altri sostenere che l'Antichità che è bene onorare è Roma e non la Grecia. Tutte cose perfettamente logiche in chi intende esortare gli uomini ad avere costituzioni forti e solidi bastioni 300.
La predicazione del realismo conduce il chierico moderno a impartire insegnamenti dei quali non si sottolinea abbastanza quanto siano nuovi nella sua storia, quanto rompano con gli insegnamenti che, da duemila anni, la sua classe impartiva agli uomini:
1) L'esaltazione del coraggio, più precisamente l'esortazione a fare della capacità umana d'affrontare la morte la suprema delle virtù, a considerare tutte le altre, per quanto elevate, inferiori a quella. Questo insegnamento, che è esplicitamente quello di un Nietzsche, di un Sorel, di un Péguy, di un Barrès, che fu in ogni tempo quello dei poeti e dei capi militari, è del tutto nuovo nei chierici, voglio dire in uomini che propongono al mondo una scala di valori in nome della riflessione filosofica o che accetta di passare per tale. Costoro, da Socrate fino a Renan, considerano il coraggio una virtù, ma di secondo piano; tutti, con maggiore o minore chiarezza, insegnano con Platone: «Al primo posto tra le virtù stanno la saggezza e la temperanza; il coraggio viene dopo»301; essi invitano gli uomini a venerare non gli impulsi che lo spingono a cercare di placare la sua sete di porsi nel reale, ma quelli attraverso cui la modera. Doveva toccare al nostro tempo di vedere dei sacerdoti delle cose dello spirito dare il primato, tra gli atteggiamenti dell'animo a quello che è indispensabile all'uomo per conquistare e costruire 302. Tuttavia questo valore pratico del coraggio, chiaramente espresso da un Nietzsche o un Sorel, non lo è altrettanto da tutti i moralisti odierni che esaltano questa virtù. Questo ci mette sotto gli occhi un altro dei loro insegnamenti:
2) L'esaltazione dell'onore, designando con questo termine l'insieme di quegli impulsi per cui l'uomo espone la sua vita a prescindere da un interesse concreto - e precisamente per ottenerne gloria — ma che sono un'eccellente scuola di coraggio pratico e sempre sono state decantate da chi guida gli uomini alla conquista delle cose (si pensi al rispetto di cui l'istituto del duello ha sempre goduto in tutti gli eserciti, malgrado una certa severità ispirata unicamente da considerazioni pratiche) 303. Anche in questo caso, il fatto che tanti moralisti moderni lascino così ampio spazio a questi impulsi è qualcosa di nuovo nella loro corporazione, soprattutto nel paese di Montaigne, Pascal, La Bruyère, Montesquieu, Voltaire, Renan, i quali, se esaltano l'onore intendono con ciò una cosa tutta diversa dal culto della propria gloria304. - Tuttavia quello che colpisce di più è che tale culto oggi sia normalmente predicato da gente di Chiesa, e come una virtù che conduce l'uomo a Dio. C'è davvero di che restar confusi a sentir pronunciare dall'alto del pulpito cristiano parole come queste: «L'amore della grandezza è una strada verso Dio, e lo slancio eroico, che coincide appieno con la ricerca di motivi di gloria, permette a chi aveva dimenticato Dio o credeva di non conoscerlo, di reinventarlo, di scoprire quest'ultima vetta, dopo che provvisorie ascese l'hanno abituato alla vertigine e all'aria delle grandi altezze»305. Non si può non ricordare la lezione data da un vero discepolo di Gesù a un dottore cristiano, che aveva stranamente dimenticato, anche lui, le parole del suo maestro: «Non ha notato che, né nelle otto beatitudini, né nel Sermone della montagna, né nel Vangelo, né in tutta la letteratura cristiana primitiva, c'è una sola parola che collochi le virtù militari tra quelle che conquistano il regno dei cieli?» (Renan, Première lettre a Strauss) 306.
Notiamo che noi non rimproveriamo al predicatore cristiano di far posto alla passione della gloria e ad altre passioni terrene, gli rimproveriamo di cercare di far credere che così facendo egli non è in contrasto con la sua istituzione. Non chiediamo al cristiano di non violare la legge cristiana; gli chiediamo, se la viola, di sapere che la viola. Tale sdoppiamento mi sembra espresso molto bene dalle parole del cardinale Lavigerie il quale quando gli veniva chiesto: «Che cosa farebbe, Monsignore, se la schiaffeggiassero sulla guancia destra?» rispondeva: «So benissimo che cosa dovrei fare, ma non so che cosa farei». So benissimo che cosa dovrei fare, e quindi che cosa devo insegnare; chi parla così può abbandonarsi a tutte le violenze, egli tiene viva la morale cristiana. Gli atti in questo caso non contano niente, il giudizio sugli atti è tutto.
Non occorre ripetere che anche in questo caso non si tratta di deplorare che si predichino agli uomini il culto dell'onore e del coraggio; si tratta di deplorare che siano dei chierici a predicarli. La civiltà, lo ripetiamo, ci sembra possibile solo a patto che l'umanità rispetti una divisione delle funzioni; a patto che, a fianco di coloro che fomentano le passioni laiche e esaltano le virtù atte a servirle, esista una classe di uomini che sminuisca queste passioni ed esalti dei valori che trascendono le cose temporali. Quello che troviamo grave, è che questa classe non faccia più il suo dovere e che coloro il cui compito era di soffocare l'orgoglio umano esaltino gli stessi sentimenti di chi guida gli eserciti.
Ci verrà obiettato che questa predicazione, almeno in tempo di guerra, è imposta ai chierici dai laici, dagli Stati, i quali oggi intendono mobilitare a loro vantaggio tutte le risorse morali della nazione 307. Pertanto ciò che ci stupisce non è tanto di vedere i chierici darsi a questa predicazione, quanto vedere con quale docilità lo fanno, con quale mancanza di disgusto, con quale entusiasmo, con quale gioia... La verità è che i chierici sono diventati laici tanto quanto i laici.
3) L'esaltazione della durezza e il disprezzo dell'amore umano (pietà, carità, affetto). Anche in questo caso, i chierici moderni sono stati dei moralisti del realismo; non si sono accontentati di ricordare al mondo che la durezza è necessaria per «realizzare» e la carità è scomoda, non si sono limitati a predicare alla loro nazione o al loro partito, come Zaratustra ai suoi discepoli: «Siate duri, siate spietati, così dominerete»; hanno proclamato la nobiltà morale della durezza e l'ignominia della carità. Questo insegnamento, che costituisce il fondamento dell'opera di Nietzsche, e che non deve sorprendere in un paese di cui è stato osservato come non abbia fornito al mondo un solo grande apostolo308, colpisce particolarmente nella terra di un San Vincenzo de' Paoli e del difensore di Calas. Frasi come quelle che seguono, che parrebbero estratte dalla Genealogia della Morale, mi sembrano completamente nuove uscite dalla penna di un moralista francese: «Questa pietà snaturata ha degradato l'amore309. Esso ha preso il nome di carità: ognuno s'è creduto degno di lui. Gli sciocchi, i deboli, gli infermi ne hanno ricevuto la rugiada. Una notte dopo l'altra si sono estesi i frutti di questo flagello. Esso conquista la terra. Riempie le solitudini. Non esiste contrada dove si possa camminare un sol giorno senza incontrare questo viso sciupato, dal gesto insignificante, mosso unicamente dal desiderio di prolungare la sua vita vergognosa» 310. Ancora una volta possiamo misurare il progresso compiuto dai realisti moderni in confronto ai loro predecessori; quando Machiavelli dichiara che un principe è «spesso necessitato, per mantenere lo stato di operare contro alla fede, contro alla carità, contro all'umanità», dice semplicemente che venir meno alla carità può essere una necessità pratica, non insegna affatto che la carità è una degradazione dell'anima. Tale insegnamento sarà il contributo del XIX secolo all'educazione morale dell'uomo.
I chierici moderni affermano talvolta che predicando l'inumanità non fanno altro che continuare l'insegnamento di certi loro grandi precursori, in particolare di Spinoza, in virtù della sua famosa frase: «La pietà è, di per se stessa, cattiva e inutile in un'anima che vive secondo ragione». Occorre ricordare che la pietà in questo caso non viene sminuita a vantaggio dell'inumanità, ma dell'umanità guidata dalla ragione, perché solo la ragione «ci permette di recare aiuto agli altri con certezza». L'autore aggiunge, tenendo a sottolineare che per lui la pietà è inferiore solo alla bontà ragionevole: «È esplicitamente inteso che sto parlando dell'uomo che vive secondo ragione. Perché se un uomo non è mai guidato né dalla ragione né dalla pietà a venire in soccorso degli altri, merita sicuramente l'appellativo d'inumano, dato che non conserva più alcuna somiglianza con l'uomo». - Aggiungiamo che gli apostoli della durezza non possono neanche riallacciarsi ai fanatici della giustizia (Michelet, Proudhon, Renouvier) i quali, sacrificando l'amore alla giustizia, arrivano forse alla durezza, ma non alla durezza contenta, che è precisamente quella predicata dai realisti moderni, e di cui dicono, forse a ragione, che è l'unica feconda 311.
L'esaltazione della durezza mi sembra una delle predicazioni del chierico moderno che darà più frutti. È banale segnalare come, per esempio in Francia, per la grande maggioranza della gioventù cosiddetta pensante, la durezza sia oggi oggetto di rispetto, mentre l'amore umano, in tutte le sue forme, passi per qualcosa di assai ridicolo. È ben noto il culto di questa gioventù per le dottrine che intendono conoscere solo la forza, e non tenere in alcun conto i lamenti della sofferenza, che proclamano la fatalità della guerra e della schiavitù e sono pieni di disprezzo per chi da simili prospettive si sente offeso e vuole cambiarle. Mi piacerebbe accostare a tali culti certa estetica letteraria di questa gioventù, la sua venerazione per certi maestri contemporanei, romanzieri o poeti, nei quali l'assenza di simpatia umana raggiunge evidentemente una rara perfezione, e che essa venera, è chiarissimo, appunto per questo. Vorrei soprattutto che si prestasse attenzione alla cupa gravità e alla superbia con cui questa gioventù accompagna la sua adesione a queste dottrine «di ferro». Mi sembra che i chierici moderni abbiano creato, nel mondo cosiddetto colto, un vero romanticismo della durezza.
Hanno anche creato, almeno in Francia (in particolare con Barrès, ma in realtà a partire da Flaubert e Baudelaire), un romanticismo del disprezzo. Tuttavia mi sembra che il disprezzo in questi ultimi tempi sia stato praticato, da noi, per ragioni tutt'altro che estetiche. Si è capito che disprezzare non significa soltanto concedersi un atteggiamento aristocratico, significa, quando si è veramente esperti in quest'arte, colpire ciò che si disprezza, causargli un danno reale; e, di fatto, il tipo di disprezzo palesato da un Barrès nei confronti degli ebrei o quello quotidianamente prodigato da certi intellettuali monarchici, da vent'anni a questa parte, alle istituzioni democratiche, ha effettivamente nuociuto a entrambi gli obbiettivi, almeno per quanto riguarda quelle numerosissime anime d'artista per le quali un gesto magnificamente effettuato ha valore dimostrativo. I chierici moderni meritano un posto d'onore nella storia del realismo: hanno capito il valore pratico del disprezzo.
Si potrebbe anche dire che hanno creato un certo culto della crudeltà (Nietzsche proclama che «ogni cultura superiore è fatta di crudeltà»; dottrina enunciata in molti passi, e in maniera formale, dall'autore di Du Sang, de la Volupté et de la Mort). Tuttavia, il culto della crudeltà - che può anch'essa venire considerata necessaria per «realizzare»312 — è rimasto limitato almeno in Francia a qualche animo sensibile particolarmente estetizzante; è ben lungi dall'aver fatto scuola, come il culto della durezza o quello del disprezzo. Anche in questo caso si può osservare quanto tale culto sia nuovo nell'ambito di coloro che dicevano: «Codardia, madre della crudeltà» (Montaigne) o ancora, per citare un moralista militare: «Non è portando fame e miseria agli stranieri che un eroe conquista la gloria, ma soffrendole lui stesso per lo Stato; non è dando la morte, ma sfidandola» (Vauvenargues)313.
4) Il culto del successo, cioè quella dottrina secondo la quale la volontà che si realizza comporta, per ciò stesso, un valore morale, mentre quella che fallisce è, proprio per questo fatto, meritevole di disprezzo. Questa filosofia, professata da molti intellettuali moderni per quanto riguarda la politica — si può dire da tutti in Germania a partire da Hegel, da molti in Francia a partire da De Maistre — si applica anche alla vita privata e vi dà i suoi frutti: non si contano più oggi, nel mondo cosiddetto pensante, le persone che credono di dar prova di nobiltà morale dichiarando sistematicamente di stimare coloro che «riescono», e di disprezzare il tentativo sfortunato. Un moralista cita a riprova del valore spirituale di Napoleone il suo disprezzo per gli «sfortunati»; un altro fa altrettanto per Mazarino, un altro ancora per Vauban o per Mussolini. Non si può negare che il chierico faccia così un'eccellente scuola di realismo, poiché il culto del successo e il disdegno per la sfortuna sono evidentemente delle ottime condizioni morali per procurarsi vantaggi; non si può neppure negare che questo insegnamento sia per lui completamente nuovo, soprattutto per il chierico di razza latina, intendo quello i cui avi avevano insegnato agli uomini a stimare il merito indipendentemente dai risultati, a onorare Ettore quanto Achille e i Curiazi più dei loro fortunati rivali 314.
Abbiamo visto i moralisti moderni esaltare il militare a spese del magistrato; ma lo esaltano pure a spese dello studioso e, anche in questo caso, predicano al mondo il culto dell'attività pratica in spregio all'esistenza disinteressata. Sono note le collere di Nietzsche contro lo studioso, l'erudito — «l'uomo-specchio» — che non ha altra passione che quella di capire, la sua stima per la vita dello spirito solo nella misura in cui essa è emozione, lirismo, azione, partigianeria, le sue ironie per la ricerca metodica «oggettiva», dedita a «quell'orribile vecchia che si chiama verità»; le uscite di Sorel contro le società che «riservano un posto privilegiato a chi si interessa delle cose puramente intellettuali»315; quelle, di trent'anni fa, di Barrès, Lemaître, Brunetière, che intimavano agli «intellettuali» di ricordarsi che essi sono un tipo d'umanità «inferiore rispetto ai militari»; quelle di Péguy che ammirava le filosofie nella misura in cui «si sono battute bene», Cartesio perché aveva fatto la guerra, i dialettici del monarchismo francese solo perché sono pronti a farsi uccidere per la loro idea 316. Mi si obietterà che queste, molto spesso, sono boutades di letterati, atteggiamenti di poeti, ai quali non è giusto attribuire valore di dogma; ciò che fa insorgere Nietzsche, Barrès, Péguy contro la vita di studio è il loro temperamento lirico, la loro avversione per ciò che è privo di pittoresco e di spirito d'avventura, e non la determinazione di umiliare lo spirito disinteressato. Al che io rispondo che questi poeti si presentano come pensatori seri (si pensi al loro tono, privo di qualsiasi ingenuità); che la stragrande maggioranza di coloro che li leggono li prendono per tali; che, quand'anche fosse vero che se denigrando lo studioso il loro movente non è di umiliare lo spirito disinteressato, rimane comunque il fatto che il tipo di vita che essi espongono allo scherno degli uomini è per l'appunto quello della vita disinteressata mentre quello che esaltano a sue spese è l'attività pratica (almeno più pratica di quella dello studioso; si dovrà ammettere che l'attività di Du Guesclin o di Napoleone è più indicata per mettere le mani sui beni temporali che non quella di Spinoza o di Mabillon); che, inoltre, ciò che questi pensatori disprezzano nello studioso è proprio l'uomo che non fonda imperi, che non conquista, che non afferma il dominio della specie sul suo ambiente o che, se lo afferma, come fa lo scienziato con le sue scoperte, ne ricava solo la soddisfazione di sapere e lascia ad altri lo sfruttamento pratico. In Nietzsche il disprezzo dell'erudito a vantaggio del militare non è che un aspetto di una volontà di cui nessuno negherà che ispira tutta la sua opera, come pure l'opera di Sorel, di Barrès e di Péguy; umiliare i valori della conoscenza di fronte ai valori dell'azione317.
Questa volontà, oggi, non ispira solo il moralista, ma un altro chierico che parla da una posizione ben più elevata: alludo a quell'insegnamento della metafisica moderna che esorta l'uomo a tenere in scarsissima considerazione la regione più propriamente pensante del suo essere e a votare tutto il suo culto a quella parte di sé che agisce e vuole. Si sa che la teoria della conoscenza, da cui l'umanità ricava da mezzo secolo i propri valori, assegna un posto secondario alla mente che procede per idee chiare e distinte, per categorie, per parole; che essa esalta al massimo la mente che giunge a liberarsi di queste forme intellettuali e a realizzarsi come «pura tendenza», «puro volere», «puro agire». La filosofia, che un tempo innalzava l'uomo fino a sentirsi esistere in quanto pensava, fino ad affermare: «Penso, dunque sono», ora lo innalza fino a dire: «Agisco, dunque sono», «Penso, dunque non sono» (a meno di non tener conto del pensiero se non in quell'umile regione in cui si confonde con l'azione). Essa gli insegnava un tempo che la sua anima è divina in quanto assomigliava all'anima di Pitagora che coordina dei concetti; essa gli annuncia oggi che la sua anima è divina in quanto è simile a quella del pulcino che rompe il guscio318. Dal suo pulpito più elevato, il chierico moderno assicura all'uomo che è grande nella misura in cui è pratico.
Devo parlare dell'insistenza con cui tutta una letteratura, da cinquant'anni a questa parte, soprattutto in Francia (si pensi a Barrès e Bourget) proclama il primato dell'istinto, dell'inconscio, dell'intuizione, della volontà (in senso tedesco, cioè in contrapposizione all'intelligenza) e lo proclamano in nome dello spirito pratico, perché è l'istinto e non l'intelligenza a sapere quali movimenti ci occorre fare — noi Individuo, noi Nazione, noi Classe - per assicurarci un vantaggio? Devo parlare dello zelo con cui questa letteratura commenta l'esempio di quegli insetti che per «istinto», sembra, sanno colpire la preda al punto giusto in modo da paralizzarla senza ucciderla, offrirla così viva alla progenie che sarà pertanto meglio nutrita319? – Altri insorgono, in nome della «tradizione francese», contro questa «barbara» esaltazione dell'istinto e predicano il «primato dell'intelligenza»; ma lo predicano perché, secondo loro, è l'intelligenza che sa trovare gli atti utili al nostro interesse, cioè proprio per la medesima passione della praticità.
Intendo alludere a quella dottrina secondo cui l'attività intellettuale è degna di stima a condizione d'esser pratica, e unicamente a questa condizione. Si può dire che, dai Greci in poi, l'atteggiamento dominante dei pensatori nei confronti dell'attività intellettuale sia stato di glorificarla in quanto, simile all'attività estetica, essa viene soddisfatta nel momento stesso in cui viene esercitata, prescindendo da qualsiasi attenzione ai vantaggi che può procurare; la maggior parte di loro avrebbe sottoscritto il famoso inno di Platone alla geometria, venerata tra tutte le discipline perché per lui rappresenta il tipo di speculazione che non rende niente, o il verdetto di Renan secondo cui chi ama la scienza per i suoi frutti rivolge a questa divinità la peggior bestemmia320. Grazie a questo giudizio i chierici presentavano ai laici lo spettacolo di una razza d'uomini per i quali il valore della vita sta nel disinteresse e quindi frenavano le loro passioni pratiche, o almeno se ne vergognavano. I chierici moderni hanno brutalmente infranto questa legge; si sono messi a proclamare che la funzione intellettuale è rispettabile solo nella misura in cui è legata al perseguimento d'un vantaggio concreto e che l'intelligenza che si disinteressa dei propri fini è un'attività spregevole: qui essi insegnano che la forma superiore dell'intelligenza è quella che affonda le radici nello «slancio vitale», impegnata a trovare ciò che è più utile per assicurare la nostra esistenza; là (particolarmente nel campo della storia)321, onorano l'intelligenza che opera sotto la guida di un interesse politico322 e non finiscono mai di disprezzare la ricerca dell'«oggettività»; altrove dichiarano che l'intelligenza da onorare è quella i cui risultati si mantengono entro i confini richiesti dall'interesse nazionale, dall'ordine sociale, mentre quella che si lascia guidare unicamente dalla sete della verità, noncurante delle esigenze della società, non è che un'attività «selvaggia e brutale» che «disonora la più elevata delle facoltà umane»323 . Segnaliamo anche il loro devoto attaccamento alla dottrina (Bergson, Sorel) secondo la quale la scienza deve avere un'origine puramente utilitaria (il bisogno dell'uomo di dominare la materia; «sapere significa adattarsi»), il loro disprezzo per la bella concezione greca che faceva nascere la scienza dal bisogno di giocare, perfetto esempio di attività disinteressata. Infine li abbiamo visti insegnare agli uomini come aggrapparsi a un errore che serve (il «mito») sia un atteggiamento che torna a loro onore, mentre ammettere una verità che nuoce sia cosa vergognosa; come, in altri termini (Nietzsche, Sorel, Barrès lo esprimono chiaramente), la sensibilità alla verità in sé, indipendentemente da ogni fine pratico, sia un atteggiamento mentale degno di disprezzo324. In questo caso il chierico moderno si è dimostrato veramente geniale nella difesa del potere temporale, dato che questo non ha niente a che fare con la verità anzi, per essere più esatti, non conosce peggior nemico. È proprio il genio di Callicle in tutta la sua profondità che rivive nei grandi maestri dell'anima moderna325.
Infine i chierici moderni hanno predicato all'uomo il culto delle cose pratiche con la loro teologia, attraverso l'immagine che si sono messi a proporgli di Dio. - Prima di tutto hanno preteso che Dio, il quale dagli stoici in poi era infinito, ridiventasse finito, distinto, dotato di personalità, che fosse l'affermazione di un'esistenza fisica e non metafisica; l'antropomorfismo che, nei poeti, da Prudenzio a Victor Hugo, conviveva con il panteismo senza curarsi gran che di segnare frontiere, essendo Dio personale o indeterminato a seconda della direzione presa dall'emozione e le necessità del lirismo, è emerso in un Péguy e un Claudel con una violenta coscienza di sé, una netta volontà di distinguersi dal suo accolito e di manifestargli il proprio disprezzo; nello stesso tempo dotti politici si sono levati contro il culto dell'Infinito con un odio preciso, una capacità di mortificare di cui la Chiesa stessa non aveva fornito esempi e che, del resto, consiste chiaramente nel deridere tale culto perché non è pratico, perché annulla i sentimenti che sono il fondamento delle grandi realtà terrestri: la Città e lo Stato326. - Ma soprattutto i chierici moderni hanno voluto assegnare a Dio gli attributi che garantiscono i vantaggi pratici. Si può dire che, fin dall'Antico Testamento, Dio era molto più giusto che forte o meglio che, secondo il pensiero di Platone, la sua forza non era che una forma della sua giustizia, dato che la sua potenza, diranno Malebranche e Spinoza, non ha niente in comune con la potenza dei re e dei fondatori d'imperi. In particolare, quello che veniva formalmente escluso dalla sua natura era il desiderio di ingrandirsi, come pure gli attributi morali necessari a soddisfare tale desiderio: l'energia, la volontà, la passione dello sforzo, l'attrattiva del trionfo; questo era una conseguenza del suo essere una cosa perfetta e infinita, che formava immediatamente tutta la realtà possibile; nella creazione stessa, la cui idea è essenzialmente inseparabile dalle idee di potenza e di accrescimento, queste idee erano state evitate: il mondo non era tanto il prodotto della potenza di Dio quanto del suo amore; esso emanava da Dio come il raggio dal sole senza che Dio se ne sentisse in alcun modo più grande a spese di qualcos'altro. Dio, per usare i termini appropriati, era molto meno la causa trascendente del mondo che la sua causa immanente 327. Per i teorici moderni, invece (Hegel, Schelling, Bergson, Péguy), Dio è essenzialmente qualcosa che si accresce; la sua legge è «incessante cambiamento», «incessante novità», «incessante creazione»328; il suo principio è fondamentalmente un principio d'accrescimento: Volontà, Tensione, Slancio vitale; se è Intelligenza, come in Hegel, è intelligenza che «si sviluppa», che «si realizza» sempre più; l'Essere dato subito in tutta la sua perfezione, senza passare attraverso la conquista, è oggetto di disprezzo; esso rappresenta (Bergson) «un'eternità di morte» 329. Allo stesso modo i seguaci della creazione iniziale e unica si sforzano oggi di presentare questo atto in tutto il suo aspetto pratico: la Chiesa ha condannato con una fermezza finora sconosciuta ogni dottrina dell'immanenza e predica con grande rigore la trascendenza330: Dio, creando il mondo, non esiste più a un necessario effondersi della propria natura; vede ergersi, grazie alla sua potenza (qualcuno, per attenuare l'arbitrio, dice grazie alla sua benevolenza), una cosa nettamente distinta da sé e su questa mette le mani; il suo atto, checché se ne possa dire, è il perfetto modello dell'accrescimento temporale. Come l'antico profeta d'Israele, il chierico moderno insegna agli uomini: «Mostrate il vostro zelo per l'Eterno, dio degli eserciti».
Questo è da mezzo secolo l'atteggiamento di quegli uomini la cui funzione era di contrastare il realismo dei popoli e che, con tutto il loro potere e con grande fermezza, hanno cooperato a fomentarlo; atteggiamento che per questo motivo oso chiamare il tradimento dei chierici. Se cerco le cause, ne scorgo di profonde, e tali da impedirmi di considerare questa tendenza come una moda, alla quale potrebbe succedere domani la tendenza opposta.
Una delle principali è che il mondo moderno ha fatto del chierico un cittadino, sottomesso a tutti i doveri che questo titolo comporta, e quindi gli ha reso molto più difficile che ai suoi predecessori disprezzare le passioni laiche. A chi gli rimprovererà di non avere più, di fronte alle polemiche nazionali, la bella serenità di un Cartesio o di un Goethe, il chierico potrà rispondere che la sua nazione gli mette un sacco in spalle se viene insultata, lo schiaccia di tasse anche se è vittoriosa, e quindi egli non può non avere a cuore che essa sia potente e rispettata; a chi gli rinfaccerà di non elevarsi al di sopra degli odi sociali, farà presente che è passato il tempo dei mecenati, che oggi deve procurarsi di che vivere e che non è colpa sua se si prodiga per conservare la classe che apprezza i suoi prodotti. Questa spiegazione, senza dubbio, non vale per il vero chierico; costui subisce le leggi della società senza lasciarle far presa sul suo animo; egli rende a Cesare ciò che è di Cesare, cioè la vita, forse, ma niente di più; esistono Vauvenargues, Lamarck, Fresnel, ai quali il fatto di compiere perfettamente il proprio dovere patriottico non ha mai ispirato il fanatismo nazionale; esistono Spinoza, Schiller, Baudelaire, César Franck che per procacciarsi il pane quotidiano non hanno mai smesso di adorare esclusivamente il bello e il divino. Ma questi non possono essere che esempi rari; tanto disprezzo per la propria sofferenza non è legge dell'umana natura, neanche di quella del chierico; la legge è che l'essere condannato a lottare per la vita finisce per dedicarsi alle passioni pratiche e quindi per santificare tali passioni. La nuova fede del chierico è, in gran parte, una conseguenza delle condizioni sociali che gli vengono imposte e il vero male da deplorare al giorno d'oggi forse non è il tradimento dei chierici, ma la scomparsa dei chierici, l'impossibilità di condurre nel mondo attuale un'esistenza da chierico. Sarà una delle grandi responsabilità dello Stato moderno non aver mantenuto (ma poteva farlo?) una categoria di uomini liberi da doveri civici e la cui unica funzione fosse quella di tenere viva la fiaccola dei valori non pratici. Si avvera la profezia di Renan che annunciava verso quale avvilimento si avviava necessariamente una società i cui componenti, senza eccezione, fossero tutti assoggettati alle corvées terrene, sebbene egli fosse il perfetto tipo di quelli che tali schiavitù non avrebbero mai impedito, come dice uno dei suoi pari, di respirare solo dalla parte del cielo.
Sarebbe molto ingiusto spiegare la passione nazionale del chierico moderno unicamente con l'interesse; essa si spiega anche, e più semplicemente, con l'amore, con l'impulso che porta per natura ogni uomo ad amare, tra i pochi gruppi che si dividono la terra, quello a cui appartiene. Ora, anche in questo caso, si può sostenere che la nuova fede del chierico ha come causa le trasformazioni del XIX secolo, che dando ai raggruppamenti nazionali una consistenza sconosciuta prima di allora, è venuto a fornire alimento a una passione che, in molti paesi, fino a quel momento non poteva essere se non virtuale. È evidente che l'attaccamento al solo mondo dello spirito era più facile, per chi ne è capace, quando non c'erano nazioni da amare; e, in effetti, è molto suggestivo osservare che la vera comparsa del chierico coincide con la caduta dell'Impero romano, cioè con il momento in cui crolla la grande nazione e non esistono ancora quelle piccole; che l'epoca dei grandi amatori delle cose dello spirito, dei Tommaso d'Aquino, dei Bacone, dei Galileo, degli Erasmo, è l'epoca in cui la maggior parte dell'Europa è ancora un caos che non conosce nazioni; che le regioni in cui è durata più a lungo la speculazione pura sembrano essere la Germania e l'Italia 331, cioè quelle che sono diventate nazioni per ultime, e dove è pressoché cessata precisamente il giorno in cui sono diventate nazioni. Anche in questo, beninteso, le vicissitudini del mondo sensibile non intaccano l'integrità del chierico; le sventure della loro patria, come i suoi successi, non hanno impedito che Einstein e Nietzsche non avessero altra passione fuori del mondo del pensiero; quando Jules Lemaitre esclamava che la ferita di Sedan gli faceva perdere la ragione, Renan gli rispondeva che lui conservava la sua e che la vulnerabilità di un vero sacerdote dello spirito non sta certo nei suoi legami terreni332.
Nei casi di cui ho appena parlato, l'attaccamento del chierico alla nazione o alla classe, sia esso dettato da interesse o da amore, è sincero. Questa sincerità, devo confessarlo, la considero poco frequente. Un'attiva vita dello spirito mi sembra condurre necessariamente all'universalismo, nel senso dell'eterno, a credere poco nelle finzioni terrestri; per quel che riguarda specialmente la passione nazionale e in particolare i letterati, la sincerità di questa passione mi sembra debba presupporre una virtù di cui tutti converranno che, salvo per l'amore che portano a se stessi, non è tipica di questa corporazione: l'ingenuità. Sarebbe difficile persuadermi che, negli artisti, gli atteggiamenti pubblici abbiano per moventi cose semplici come la volontà di vivere e di mangiare. Pertanto cerco, e trovo, altre ragioni al realismo del chierico moderno, ragioni che, per il fatto di essere meno naturali, non sono però meno profonde. Esse mi sembrano valere soprattutto per i letterati e principalmente per quelli francesi. Infatti è in questo paese che l'atteggiamento degli scrittori dell'ultimo mezzo secolo contrasta maggiormente con quello dei loro padri.
In primo luogo vedo l'interesse per la carriera. È un fatto evidente che, da duecento anni, la maggior parte degli scrittori che, in Francia, sono giunti alla gloria, Voltaire, Diderot, Chateaubriand, Lamartine, Victor Hugo, Anatole France, Barrès, hanno assunto una posizione politica. Si noterà anche che, in alcuni, la vera gloria data dal momento in cui assunsero questa posizione. Questa legge non è sfuggita ai loro discendenti e si può dire che oggi, in ogni scrittore francese desideroso di alta considerazione, cioè dotato d'un vero temperamento di letterato, questo desiderio comporti necessariamente la volontà di svolgere un ruolo politico 333. Questa volontà d'altronde, può essere dovuta contemporaneamente ad altre ragioni: per esempio in Barrès e D'Annunzio, al desiderio di «agire», di essere qualcosa di diverso da un uomo «seduto», di avere una vita che assomigli a quella degli «eroi» e non a quella degli «scribi»; o, più ingenuamente, come fu senza dubbio il caso di Renan quando sollecitò il mandato di deputato, all'idea di rendere servizio alla cosa pubblica. Aggiungiamo che, nello scrittore moderno, il desiderio di essere un uomo politico può trovare una scusante nel fatto che questo ruolo gli viene in qualche modo offerto oggi dall'opinione pubblica, mentre se Racine o La Bruyère avessero pensato di pubblicare le loro opinioni sull'opportunità della guerra di Olanda o la legittimità delle Camere di riunione, si sarebbero accorti che i loro compatrioti si mettevano a ridere. Anche per questo, essere un chierico puro era più facile un tempo che oggi.
Queste osservazioni spiegano perché così di frequente lo scrittore francese contemporaneo voglia assumere una posizione politica, ma non spiegano perché questa vada così puntualmente, anche se più o meno apertamente, in senso autoritario. Il liberalismo è anch'esso una posizione politica, ma il meno che si possa dire è che da vent'anni il chierico l'assume di rado. A questo punto interviene un secondo fattore: la volontà, nello scrittore pratico, di compiacere la borghesia, la quale crea la fama e dispensa gli onori. Si può anche sostenere che per questo genere di scrittore, la necessità di non offendere i sentimenti di questa classe è più forte che mai, a giudicare dalla sorte di coloro che, in questi ultimi tempi, si sono permessi di tenerle testa (Zola, Romain Rolland). Ora, la borghesia attuale, terrorizzata dai passi compiuti dalla classe avversaria e senza altra preoccupazione che di mantenere quel che le resta di privilegi, ha ormai solo avversione per le teorie liberali, e il letterato che ne cerca i favori è formalmente tenuto, se inalbera una bandiera politica, a inalberare quella che difende l'«ordine». Da questo punto di vista è straordinariamente istruttivo il caso di Barrès che, dopo avere iniziato con il grande intellettualismo scettico, ha visto la sua stella del potere diventare cento volte più sfavillante, almeno nel suo paese, il giorno in cui si è fatto l'apostolo dei «pregiudizi necessari». Questi sono i fenomeni che maggiormente mi spingono a credere che l'attuale atteggiamento politico degli scrittori francesi durerà molto a lungo; un fenomeno la cui causa sta nell'inquietudine della borghesia francese non sembra prossimo a scomparire 334.
Ho appena ricordato la sorte riservata, in questi ultimi tempi, dalla borghesia agli scrittori che hanno osato contrastarne le passioni. Questo è solo un aspetto di una novità molto generale e di estremo interesse per l'argomento di cui ci occupiamo; voglio dire la coscienza che il gregge laico va oggi acquistando della propria sovranità e la fermezza che dimostra nel ricondurre alla ragione il chierico se questi gli dice qualcosa di diverso da ciò che vuol sentirsi dire. Questa disposizione del laico non compare solo nei rapporti con i propri scrittori (anche con la propria stampa; un giornale che non fornisca ai suoi lettori proprio l'errore esatto che è loro caro viene immediatamente lasciato perdere), ma, cosa più degna di nota, nei rapporti con i suoi precettori veramente clericali, la cui voce gli parla in nome del divino. Si può affermare che l'oratore al quale, dall'alto del pulpito cristiano, venisse in mente di attaccare davvero la passione nazionale, di mortificare davvero l'orgoglio borghese, non dovrebbe aspettare molto, soprattutto in Francia, per vedere le sue pecorelle disperdersi; e si può affermare inoltre che questa accolta non più tenuta in pugno dal timore di sanzioni, la quale, non credendo più se non a ciò che è reale, si sente ben più forte e importante di lui, non acconsente a piegarsi al suo verbo tranne a condizione che egli tratti con tutti i riguardi, per non dire che egli santifichi, tutti gli egoismi da essa venerati 335. L'umanità moderna intende trovare in quelli che si dicono i suoi teorici, non delle guide ma dei servitori. È quanto la maggior parte di loro ha capito benissimo336.
Per tornare allo scrittore moderno e alle cause del suo atteggiamento politico, aggiungerò che non solo egli serve una borghesia inquieta, ma che lui stesso è diventato sempre più un borghese provvisto di tutti gli attributi sociali e di tutta la considerazione che definiscono questa condizione, essendo l'uomo di lettere «bohème» una specie pressoché scomparsa, almeno tra quelli di cui si occupa l'opinione pubblica337, e, di conseguenza, egli è stato sempre più contagiato dalla mentalità borghese, di cui è caratteristica ben nota l'ostentazione dei sentimenti politici dell'aristocrazia: attaccamento ai regimi autoritari, alle istituzioni militari e religiose, disprezzo delle società fondate sulla giustizia, sull'eguaglianza civile, sul culto del passato, ecc. Quanti scrittori in Francia, i cui nomi sono sulle labbra di tutti, credono da cinquant'anni a questa parte di conquistarsi attestati di nobiltà manifestando il proprio disgusto delle istituzioni democratiche! (Spiego allo stesso modo, in molti di loro, il fatto di comportarsi con durezza, con crudeltà, sembrandogli anche queste attributi dell'animo dei grandi).
Le ragioni che abbiamo appena visto del nuovo atteggiamento politico dei letterati risiedono in cambiamenti sopravvenuti nel loro stato sociale. Quelle di cui parlerò ora dipendono da cambiamenti sopravvenuti nella loro struttura mentale, nelle ambizioni letterarie di queste, nelle sue dottrine estetiche, nella sua moralità. Queste ragioni mi sembrano ancora più degne delle precedenti di trattenere l'attenzione dello storico.
Prima di tutto, il loro romanticismo, designando con questo termine la volontà manifestatasi negli scrittori del XIX secolo (ma notevolmente perfezionatasi in questi ultimi trent'anni) di buttarsi su quei temi che sul piano letterario si prestano ad atteggiamenti che fanno colpo. Con un intuito meraviglioso, intorno al 1890, i letterati hanno capito - soprattutto in Francia e in Italia — che le dottrine fondate sull'autorità, la disciplina, la tradizione, il disprezzo dello spirito di libertà, l'affermazione della moralità della guerra e della schiavitù erano occasioni per assumere posizioni rigide e aristocratiche infinitamente più adatte a colpire l'animo dei semplici che non i sentimentalismi del liberalismo e dell'umanitarismo. E difatti, le dottrine cosiddette reazionarie offrono materia a un romanticismo pessimista e sprezzante che sulla gente comune fa molta più impressione di quanta non ne faccia il romanticismo entusiasta e ottimista; la posizione di un Barrès o di un D'Annunzio colpisce gli ingenui ben diversamente da quello di un Michelet o di un Proudhon. Aggiungiamo che queste dottrine si presentano oggi come fondate sulla scienza, sulla «pura esperienza», e pertanto consentono di usare un tono di tranquilla disumanità (romanticismo del positivismo), il cui effetto sulla massa non è certo sfuggito ai letterati. In questo caso, beninteso, si tratta della massa scelta; il romanticismo pessimista non ha alcun valore per il popolo.
Un'altra delle trasformazioni dell'anima letteraria degli scrittori in cui mi sembra di scorgere una causa del loro nuovo credo politico, è la volontà che hanno da qualche tempo, di non venerare, tra le loro facoltà, se non la sensibilità artistica e in certo qual modo di ricavare da questa tutti i loro giudizi. Si può dire che fino a questi ultimi trentanni i letterati, almeno quelli del mondo latino, in ciò discepoli della Grecia, fossero condizionati nei loro giudizi - anche quelli letterari - molto più dalla sensibilità alla ragione che dalla sensibilità artistica, che del resto, a livello di coscienza, distinguevano scarsamente dalla prima. Evidente per gli uomini del Rinascimento e i loro discendenti diretti (gli scrittori francesi del XVII secolo e di quello seguente), questo discorso è ancora vero, malgrado le apparenze, per quelli dell'inizio del XIX secolo; se il venir meno della sensibilità alla ragione, e più generalmente del rigore intellettuale, è senza dubbio una delle caratteristiche del romanticismo del 1830, questo tuttavia non lasciava trasparire alcun disprezzo di quella sensibilità. Mai Victor Hugo, Lamartine o Michelet si sono fatti un vanto di disprezzare nelle cose i valori razionali per apprezzarvi unicamente i valori artistici. Ora, verso il 1890, si produce una rivoluzione di eccezionale portata; illuminati dall'analisi filosofica (il bergsonismo), i letterati prendono coscienza dell'opposizione fondamentale che esiste tra la sensibilità intellettuale e la sensibilità artistica, e optano violentemente per la seconda. È l'epoca in cui li si sente dichiarare che un'opera è grande quando è riuscita sul piano letterario, artistico, che il suo contenuto intellettuale non presenta alcun interesse, che è possibile sostenere tutte le tesi, che l'errore non è affatto più falso della verità, ecc. 338. Questa rivoluzione era destinata «ad avere ripercussioni nel loro atteggiamento politico. È chiaro che, dal momento che troviamo buone le cose solo nella misura in cui soddisfano le nostre esigenze estetiche, solo i regimi autoritari vanno bene; la sensibilità artistica è ben più soddisfatta dalla vista di un sistema che tende a realizzare la forza e la grandezza che da un sistema che tende a instaurare la giustizia, essendo proprio della sensibilità artistica l'amore delle realtà concrete e la ripugnanza per le concezioni astratte e puramente razionali, di cui l'idea di giustizia è il modello; soprattutto, la sensibilità artistica è straordinariamente lusingata dalla vista di un insieme d'elementi che si subordinano gli uni agli altri fino a un termine supremo che li supera tutti, mentre la vista, offerta da una democrazia, di un insieme di elementi di cui nessuno è il primo frustra uno dei bisogni più profondi di questa sensibilità 339. Si aggiunga che ogni dottrina che onora l'uomo nell'universale, in ciò che è comune a tutti gli uomini, appare come un'ingiuria personale agli occhi dell'artista, che ha la caratteristica, almeno a partire dal romanticismo340, di atteggiarsi a essere eccezionale. Si aggiunga che egli conferisce oggi carattere di sovranità ai suoi desideri e alla loro soddisfazione (i «diritti del genio») e, quindi nutre un odio naturale per i regimi che limitano la libertà d'azione dell'uno opponendole quella degli altri. Si aggiunga infine (da ciò deriva il suo culto per i particolarismi) l'avversione dell'artista per ogni essere generale, che è un oggetto unicamente concepito, non sentito341. In quanto a questa decisione degli scrittori di ricavare i giudizi esclusivamente dalla sensibilità artistica, essa è solo un aspetto di quella ambizione di cui, a partire dal romanticismo, sono preda, cioè di esaltare il sentimento a danno del pensiero, ambizione che è essa stessa un effetto (tra mille) dell'abbassamento in loro della disciplina intellettuale. Il nuovo atteggiamento politico dei chierici mi sembra in questo caso motivato da una grave trasformazione del loro intelletto.
Esso mi sembra dovuto anche a un altro cambiamento: il minor posto occupato, nella formazione di questo intelletto, dallo studio delle lettere antiche, delle scienze umane le quali, come dice il loro nome, insegnano essenzialmente, almeno dagli stoici in poi, il culto dell'uomo in forma universale 342. Che la cultura greco-romana in Barrès e la sua generazione letteraria fosse minore che in Taine, Renan, Hugo, Michelet, nonché France e Bourget, è cosa innegabile; è ancora più innegabile che tale diminuzione si sia considerevolmente accentuata nei successori di Barrès. D'altra parte questo fatto non impedisce a quegli scrittori di esaltare gli studi classici, che del resto essi non esaltano affatto per ravvivare il culto dell'umano in forma universale, ma al contrario per rafforzare l'anima «francese», o almeno l'anima «latina», andando a ritrovare le sue vere radici, prendendo coscienza di sé in quanto particolare. - Notiamo che questa decadenza della cultura classica ha coinciso, nei francesi, con la scoperta dei grandi realisti tedeschi, Hegel e soprattutto Nietzsche, il cui genio li ha conquistati con grande facilità perché, essendo privi della grande disciplina classica, mancava loro appunto la diga da opporgli343.
Segnalerò ancora, tra le cause di questo nuovo atteggiamento degli scrittori, una sete di sensazioni, un bisogno di sperimentare che si è affermato in loro da qualche tempo e fa sì che adottino una posizione politica in relazione alle sensazioni ed emozioni che questa procura. Belfagor non regna soltanto nel firmamento letterario. Conosciamo la risposta di un autore francese, che nel 1890 era già assai stimato come pensatore, al quale si rimproverava di aver aderito a un partito che stupirà a lungo gli storici per la fragilità della sua dottrina: «Sono andato dietro al boulangismo come dietro a una fanfara». Questo stesso pensatore lasciava intendere che «cercando il contatto con le anime nazionali», la cosa più importante per lui era stato «mettere un po' di carbone sotto la sua sensibilità che cominciava a funzionare in maniera fiacca»344. Non credo d'ingannarmi avanzando l'ipotesi che gran parte dei nostri moralisti che denigrano la civiltà pacifica ed esaltano la vita guerriera lo fanno perché la prima sembra loro piatta e la seconda un'occasione di sensazioni345. Ce le ricordiamo le parole di un giovane pensatore, citato da Agathon, nel 1913: «La guerra, perché no? Sarebbe divertente». È la boutade di un giovane, mi si dirà; ma ecco le parole di un quinquagenario, per di più uomo di scienza (R. Quinton), che vedeva avvicinarsi il dramma del 1914 esclamando: «Si mangerà sull'erba!» Questo scienziato fu del resto un meraviglioso soldato, ma non più di Fresnel e Lamarck, di cui oso affermare che, se mai capitò loro d'approvare la guerra che stavano facendo, non fu certo perché essa soddisfaceva il loro gusto del pittoresco. Tutti coloro che hanno avvicinato l'autore delle Réflexions sur la violence sanno come per lui una dottrina fosse straordinariamente affascinante se era «divertente», atta ad esasperare le persone cosiddette ragionevoli. Quanti sono, in questi cinquant'anni, i pensatori di cui si sente dire che la loro «filosofia» ha come motivo fondamentale il piacere di lanciare paradossi irritanti, felici se i loro razzi ricadono giù come spade e soddisfano un bisogno di crudeltà che dichiarano essere il segno distintivo degli animi nobili. Questo prodigioso abbassamento del livello morale, questa sorta di sadismo intellettuale (molto germanico) si accompagna del resto, e apertamente, in quelli che lo praticano, a un grande disprezzo per il vero chierico, che la soddisfazione la chiede unicamente all'esercizio del pensiero e disdegna ciò che procura sensazioni (in particolare, le azioni sensazionali). Anche in questo, la nuova religione politica degli scrittori è dovuta a un cambiamento sopravvenuto nel più intimo del loro spirito, sempre lo stesso, del resto: l'abbassamento del rigore intellettuale — il che non vuol dire dell'intelligenza346.
L'avere abbracciato dottrine realistiche dipende anche, per molti chierici moderni, e lo ammettono essi stessi, dalla volontà di farla finita con lo scompiglio morale in cui li getta lo spettacolo delle filosofie, «nessuna delle quali reca una certezza», e non fanno che crollare le une sulle altre proclamando verso il cielo i loro assoluti in contraddizione. Anche in questo caso, l'atteggiamento politico del chierico è dovuto a un grande abbassamento del suo rigore intellettuale, sia che si consideri tale abbassamento nella sua convinzione che una filosofia possa recare una certezza, sia che lo si consideri nella sua incapacità di restare saldo sulle rovine delle scuole aggrappandosi alla ragione, che le supera tutte e le giudica. Non tralascerò infine, tra le cause del realismo dei chierici moderni, l'irritazione che produce in loro l'insegnamento di certi loro predecessori, voglio dire di certi maestri del 1848, con il loro idealismo visionario, la loro convinzione che la giustizia e l'amore sarebbero diventati di colpo l'essenza dell'anima dei popoli; irritazione che aumenta ancora alla vista dello spaventoso contrasto tra queste predizioni idilliache e gli avvenimenti che le hanno seguite. Il punto però su cui conviene qui soffermarsi è che i chierici moderni hanno risposto a questi errori gettando l'anatema su qualsiasi discorso idealista, visionario o meno, dimostrando così di non essere in grado di distinguere le specie, di essere incapaci di elevarsi dalla passione al giudizio, il che è solo un altro aspetto di quella perdita che si va producendo in loro delle buone abitudini dello spirito.
Riassumiamo queste cause della trasformazione dei chierici: imposizione degli interessi politici a tutti gli uomini senza eccezione, aumentata consistenza degli obbiettivi suscettibili di nutrire le passioni realistiche, desiderio e possibilità per gli scrittori di svolgere un ruolo politico, necessità per incrementare la propria fama di fare il giuoco di una classe che diventa ogni giorno più inquieta, sempre maggiore accesso della loro categoria alla condizione borghese e alle sue vanità, perfezionamento dello spirito romantico, declino della conoscenza dell'Antichità e del rigore intellettuale. Si vede come queste cause consistano in alcuni dei fenomeni che caratterizzano più profondamente e generalmente la nostra epoca. Il realismo politico dei chierici, lungi dall'essere un fatto superficiale, dovuto al capriccio di una corporazione, mi sembra legato all'essenza stessa del mondo moderno.
IV.
Sguardo d'insieme. Pronostici.
Insomma, se guardo l'umanità attuale dal punto di vista della sua condizione morale quale si manifesta attraverso la vita politica, vedo: 1) una massa di persone nelle quali la passione realista nelle sue due grandi forme - la passione di classe, la passione nazionale - raggiunge un grado di coscienza e d'organizzazione sconosciuti fino ad oggi; 2) una corporazione che, un tempo contraria a questo realismo delle masse, non solo non vi si oppone più, ma l'accetta, ne proclama la grandezza e la moralità; in breve, un'umanità che si abbandona al realismo con una unanimità, un'assenza di riserve, una santificazione della propria passione di cui la storia non aveva offerto alcun esempio.
Possiamo esprimere questa constatazione in altra forma. Immaginiamo nel XII secolo un osservatore che gettasse uno sguardo d'insieme sull'Europa di quel tempo; vede gli uomini sforzarsi, nell'oscurità dell'anima, di costituirsi in nazioni (per parlare dell'aspetto della volontà realista che più colpisce); vede che cominciano a riuscirci; vede dei gruppi sempre più consistenti che vogliono mettere le mani su una parte della terra e tendono a riconoscersi in ciò che li distingue dai gruppi che li circondano; ma nello stesso tempo egli vede tutta una categoria di uomini, e dei più riveriti, impegnarsi a contrastare questa tendenza; vede scienziati, artisti, filosofi mostrare al mondo un'anima che ignora le nazioni, usare tra di loro una lingua universale; vede quelli che forniscono valori morali a questa Europa predicare il culto di ciò che è umano, o almeno cristiano, e non di ciò che è nazionale, e sforzarsi di fondare, in contrasto con le nazioni, un grande impero universale basato su principî spirituali; di modo che egli può chiedersi: «Quale di queste due correnti prevarrà? L'umanità sarà nazionale o spirituale? Trarrà origine dalle volontà laiche o dai chierici?» E, ancora per molto tempo, il principio del realismo non è abbastanza vittorioso, il corpo spiritualista resta sufficientemente fedele a se stesso perché il nostro osservatore possa avere dei dubbi. Oggi la partita è chiusa; l'umanità è nazionale; ha vinto il laico. Ma il suo trionfo supera ogni sua aspettativa. Il chierico non è solamente vinto, è assimilato. Lo scienziato, l'artista, il filosofo sono attaccati alla propria nazione quanto il contadino e il mercante; coloro che producono i valori del mondo li producono per la nazione; i ministri di Gesù difendono ciò che è nazionale. Tutta l'umanità è diventata laica, compresi i chierici. Tutta l'Europa ha seguito Lutero, compreso Erasmo.
Dicevamo più sopra che nel passato, più esattamente nell'Europa del medioevo, l'umanità, con i valori che i suoi chierici le imponevano, faceva il male ma onorava il bene. Si può dire che l'Europa moderna, con i suoi uomini di cultura che le illustrano la bellezza degli istinti realistici, fa il male e onora il male. Essa assomiglia a quel brigante di un racconto di Tolstoi, di cui l'eremita che accoglie la confessione dice con stupore: «Gli altri, almeno, si vergognavano del loro brigantaggio; ma che fare con questo che ne va fiero!»
In effetti, se ci si domanda dove va una umanità in cui ciascun gruppo si chiude più duramente che mai nella coscienza del proprio interesse particolare in quanto particolare e si fa dire dai suoi moralisti che è sublime nella misura in cui non conosce altra legge al di fuori di questo interesse, anche un bambino troverebbe la risposta: essa va verso la guerra più totale e più perfetta mai vista al mondo, sia che abbia luogo tra nazioni, sia tra classi. Una stirpe di cui un gruppo porta alle stelle uno dei suoi maestri (Barrès) perché insegna: «Bisogna difendere da settari la parte essenziale di noi stessi», mentre il gruppo vicino acclama il suo capo perché dichiara nel momento in cui aggredisce un piccolo popolo senza difesa: «Necessità non ha legge», una simile stirpe è matura per quelle guerre zoologiche di cui parlava Renan, che somiglieranno, diceva, a quelle che per tutta la vita combattono tra loro le varie specie di roditori e di carnivori. E, in realtà, basta pensare, per quanto riguarda la nazione, all'Italia, e, per quanto riguarda la classe, alla Russia per vedere fino a che punto di perfezione sconosciuto fino ad oggi possa arrivare in un gruppo di uomini lo spirito di odio contro il diverso da sé grazie a un realismo cosciente e finalmente liberato da ogni morale non pratica. Aggiungiamo, e ciò non contraddice certo le nostre previsioni, che questi due popoli sono acclamati come modelli nel mondo intero da coloro che vogliono la grandezza della propria nazione o il trionfo della propria classe.
Questi foschi pronostici non mi sembra debbano essere modificati, come alcuni ritengono, perché si vedono atti risolutamente diretti contro la guerra, quali l'istituzione di un tribunale sovranazionale o le convenzioni adottate recentemente da popoli in conflitto. Imposte alle nazioni dai loro ministri piuttosto che volute da loro, dettate unicamente dall'interesse - il timore della guerra e dei suoi danni - non certo da un cambiamento di moralità pubblica, queste innovazioni, anche se forse si oppongono alla guerra, lasciano intatto lo spirito guerresco e niente autorizza a credere che un popolo che rispetta un contratto solo per ragioni pratiche non lo violi il giorno in cui troverà più conveniente violarlo. La pace, se mai esiste, non poggerà sulla paura della guerra ma sull'amore della pace; essa non sarà la rinuncia a un atto, sarà l'instaurarsi di uno stato d'animo 347. In questo senso, anche il più oscuro scrittore può servirla, così come i più potenti tribunali non interferiscono nelle guerre economiche fra nazioni e nelle guerre fra classi.
La pace, è opportuno ripeterlo, è possibile solo se l'uomo cessa di riporre la felicità nel possesso dei beni «che non si spartiscono», e se viene educato ad adottare un principio astratto e superiore ai suoi egoismi; in altri termini, non può essere ottenuta se non attraverso un miglioramento della sua moralità. Ora, come abbiamo dimostrato, l'uomo oggi non solo si afferma proprio nel senso contrario, ma la prima condizione della pace, quella di riconoscere la necessità di tale progresso dell'anima, è fortemente minacciata. Nel XIX secolo è stata fondata una scuola che invita l'uomo a cercare la pace in un interesse bene inteso, a convincersi che una guerra, anche vittoriosa, è disastrosa, soprattutto per le trasformazioni economiche, per l'«evoluzione della produzione», in una parola per fattori totalmente estranei al suo miglioramento morale, da cui del resto, dicono questi teorici, sarebbe poco serio aspettarsi qualcosa; di modo che l'umanità, se pure avesse qualche desiderio di pace, è invitata a non fare il solo sforzo con cui potrebbe ottenerla, e d'altra parte essa chiede solo di non farlo. La causa della pace, sempre così circondata da elementi che operano contro di essa, ne ha trovato ai giorni nostri uno in più: il pacifismo con pretese di scientismo 348.
Indicherò a questo proposito altri pacifismi, di cui oso dire che hanno, anch'essi, come effetto principale quello d'indebolire la causa della pace, almeno nelle persone serie:
1) Prima di tutto il pacifismo che chiamerò volgare, e definisco tale quello che non sa far altro se non deridere «l'uomo che uccide» e irridere i pregiudizi del patriottismo. Ammetto che, quando vedo certi uomini di cultura, fossero pure Montaigne, Voltaire o Anatole France, limitare tutta la requisitoria contro la guerra a dire che i ladruncoli di periferia non sono più criminali degli alti gradi dell'esercito e a trovare buffi uomini che si uccidono a vicenda perché gli uni sono vestiti di giallo e gli altri di blu, mi sento incline a disertare una causa che ha per campioni tali semplificatori e a guardare con simpatia quegli impulsi di profonda umanità che hanno creato le nazioni e che invece qui vengono tanto grossolanamente feriti 349.
2) Il pacifismo mistico, indicando con questo nome quello che non conosce se non l'odio cieco della guerra e rifiuta di indagare se essa è giusta o no, se coloro che la fanno attaccano o si difendono, se l'hanno voluta o la subiscono. Questo pacifismo, che è essenzialmente quello del popolo (quello di tutti i giornali popolari detti pacifisti) è stato efficacemente impersonato nel 1914 da uno scrittore francese, il quale, dovendo giudicare fra due popoli in lotta, dei quali l'uno si era scagliato contro l'altro a dispetto di tutti i suoi impegni e l'altro si difendeva, non ha saputo far altro che salmodiare: «Ho orrore della guerra», senza dar ragione a nessuno e accomunandoli nella stessa condanna. Sarebbe difficile esagerare le conseguenze di un gesto atto a dimostrare agli uomini che la mistica della pace, proprio come quella della guerra, può uccidere del tutto, in coloro che ne sono affetti, il senso della giustizia.
Credo di scorgere ancora un'altra causa negli scrittori francesi che nel 1914 adottarono la posizione di Romain Rolland: la paura, se davano ragione alla loro nazione, di apparire parziale e nazionalista. Si può affermare che questi maestri avrebbero abbracciato con slancio la causa della Francia se la Francia non fosse stata la loro patria. Al contrario di Barrès che dice: «Io do sempre ragione al mio paese anche se ha torto», questi singolari amici della giustizia direbbero volentieri: «Io do sempre torto al mio paese, anche se ha ragione». Ancora una volta, si è potuto vedere come la smania dell'imparzialità porta all'ingiustizia, proprio come qualsiasi altra passione.
Aggiungerò qualche parola a proposito della severità di questi «giustizieri» nei confronti dell'atteggiamento della Francia all'indomani della vittoria, perché voleva costringere l'avversario a risarcire i danni che le aveva causato e a prendere garanzie nel caso questi si rifiutasse di farlo. Il pensiero che animava questi moralisti, senza che essi ne dubitassero, mi sembra molto importante; è il concetto che il giusto deve necessariamente essere debole e patire; che la condizione di vittima serve in un certo senso a qualificarlo. Se il giusto comincia a diventare forte e ad avere i mezzi per farsi rendere giustizia, per quei pensatori cessa di essere giusto; se Socrate e Gesù fanno pagare il fio ai loro carnefici, non incarnano più il diritto; ancora un po' e sono i loro carnefici, divenuti vittime, che lo incarneranno. C'è qui una sostituzione del culto della giustizia con il culto della sventura, un romanticismo cristiano, piuttosto insospettato, per esempio, in un Anatole France. Senza dubbio, l'avvenimento del 1918 sconvolse tutte le abitudini degli avvocati del diritto: era il diritto violentato a diventare il più forte, era la toga aggredita ad avere ragione della spada, erano i Curiazi a trionfare. Forse ci voleva un certo sangue freddo per riconoscere che, anche sotto quest'apparenza di forza il diritto rimaneva il diritto. Ai pacifisti francesi è mancato tale sangue freddo. Insomma, il loro comportamento da dieci anni a questa parte è stato ispirato solo dal sentimento e niente indica meglio a quale grado di debolezza sia sceso ai nostri giorni in certi «principi dello spirito», il rigore intellettuale 350.
3) Il pacifismo con pretese patriottiche, voglio dire quello che pretende di esaltare l'umanitarismo, di predicare la rilassatezza dello spirito militare, della passione nazionale e tuttavia di non nuocere all'interesse della nazione, di non comprometterne la forza di resistenza di fronte allo straniero. Questa posizione - che è quella di tutti i pacifisti parlamentari - è tanto meno congeniale alle anime rette in quanto va necessariamente di pari passo con la seguente affermazione, quasi sempre contraria, anch'essa, alla verità, cioè che la nazione non è minimamente minacciata e che l'ostilità delle nazioni vicine è una pura invenzione di gente che auspica la guerra. Ma questo è solo un episodio di un fenomeno molto generale e di estrema importanza per l'argomento di cui mi occupo.
Alludo alla volontà del chierico di considerare i propri principî validi nell'ordine pratico, conciliabili con la salvaguardia delle conquiste della spada. Questa volontà, che affligge la Chiesa e si può quasi dire tutti gli idealisti (mi si indichi, dopo Gesù, chi mai si dichiara incompetente nell'ordine pratico) è per il chierico l'origine di tutti i suoi insuccessi. Si può dire che la sconfitta del chierico comincia esattamente nel momento in cui dice di essere pratico. Dal momento in cui il chierico pretende di non disconoscere gli interessi della nazione o delle classi costituite, egli è necessariamente sconfitto, per la ragione ovvia che è impossibile predicare di cose spirituali e universali senza minare edifici che hanno per fondamenta il possesso di beni temporali e la volontà di essere distinti. Un chierico vero (Renan) l'ha detto molto bene: «La patria è un oggetto terreno; chi vuol fare l'angelo sarà sempre un cattivo patriota». Così vediamo che il chierico che pretende di mantenere le opere terrene non ha da scegliere che tra due soluzioni: o garantirle e venir meno allora a tutti i suoi principî (è il caso della Chiesa che sostiene la nazione e la proprietà); o conservare i suoi principî e portare alla rovina gli organismi che dichiarava di sostenere (è il caso dell'umanitario che vuole salvaguardare l'interesse nazionale); nel primo caso il chierico si attira il disprezzo del giusto, che lo taccia di furberia e lo radia dall'ordine dei chierici; nel secondo crolla sotto i fischi dei popoli, che lo trattano da incapace, mentre provoca da parte del realista una reazione violenta e applaudita (come sta succedendo oggi in Italia) 351. Ne consegue che il chierico è forte solo se prende chiara coscienza della propria natura e della propria funzione e dimostra alla gente di avere questa chiara coscienza; cioè se dichiara che il suo regno non è di questo mondo, che questa assenza di valore pratico è appunto ciò che fa la grandezza del suo insegnamento e che, per la prosperità dei regni che sono invece di questo mondo, la migliore morale non è la sua, ma quella di Cesare. Se assume questa posizione il chierico viene crocifisso, ma è rispettato e le sue parole ossessionano la memoria degli uomini 352. La necessità in cui ci si trova di ricordare queste verità ai chierici moderni (neppure uno che non insorga se lo si tratta da utopista) è una delle constatazioni più suggestive sull'argomento di cui ci stiamo occupando; indica quanto sia divenuta generale la volontà di essere pratici, quanto questa pretesa sia necessaria per ottenere oggi un po' d'ascolto, e quanto la nozione di chierico sia confusa anche in coloro che ancora sono inclini a esercitare questo ministero.
È chiaro che io dissento completamente da chi vorrebbe che il chierico governasse il mondo e auspica con Renan il «regno dei filosofi», perché mi sembra che le cose umane non possano abbracciare le religioni del vero chierico se non a prezzo di diventare divine cioè di morire in quanto umane. È ciò che hanno potuto constatare tutti gli amanti del divino che non vollero però la distruzione dell'umano; è quanto esprime molto bene uno di loro quando fa dire a Gesù, rivolto al suo discepolo, queste profonde parole: «Io non debbo, figlio mio, darti un'idea chiara della tua sostanza... perché se tu vedessi chiaramente ciò che sei, non potresti più fare tutt'uno col tuo corpo. Non presteresti più cura alla conservazione della tua vita»353. Ma se considero negativo che la religione del chierico domini il mondo laico, ritengo però pericoloso che essa non gli sia più predicata e che così gli divenga lecito abbandonarsi alle sue passioni pratiche senza alcuna vergogna e senza il minimo desiderio, neppure ipocrita, di elevarsi almeno un poco al di sopra di esse. «Ci sono alcuni giusti che mi impediscono di dormire», diceva il realista dei suoi antichi filosofi. Nietzsche, Barrès, Sorel non tolgono il sonno a nessun realista, tutt'altro. È questa la novità che ho voluto sottolineare e che mi sembra grave. Mi sembra grave che un'umanità, più che mai posseduta dalle passioni terrene, riceva dai suoi capi spirituali questo comandamento: «Restate fedeli alla terra».
Il fatto che la specie umana abbia adottato il realismo integrale è definitivo o solo passeggero? Assistiamo, come pensano alcuni, all'avvento di un nuovo medioevo - molto più barbaro del primo, tuttavia, poiché se in questo il realismo veniva praticato, almeno non veniva esaltato – ma da cui nascerà un nuovo Rinascimento, un nuovo ritorno al culto del disinteresse? Le componenti del realismo attuale da noi individuate non permettono certo di sperarlo. È difficile immaginarsi che i popoli si impegnino davvero a non riconoscersi più in ciò che li rende distinti, o, se vi s'impegnano, che non lo facciano unicamente per concentrare l'odio interumano nel campo della classe; riesce difficile concepire un clero che riconquisti una vera potenza morale sui suoi fedeli e che possa, ammesso che ne abbia il desiderio, dir loro impunemente delle verità spiacevoli; è difficile immaginarsi che una corporazione di letterati (perché è l'azione corporativa che conta sempre di più) si metta a tener testa alle classi borghesi invece di adularle; e ancora più difficile è immaginarsi che risalga la corrente della sua decadenza intellettuale e cessi di credere che sia dar prova di alta cultura farsi beffe della morale razionale e inginocchiarsi davanti alla storia. Si parla invece di un'umanità che, esasperata dai suoi «sacri egoismi» e dai massacri ai quali la condannano, lasci un giorno cadere le armi e ritorni, come fece duemila anni fa, ad abbracciare un bene situato oltre se stessa, che lo abbracci con forza ancora maggiore di allora, sapendo con quante lacrime e sangue ha pagato l'essersene allontanata. Ancora una volta si avvererebbero le mirabili parole di Vauvenargues: «Le passioni hanno insegnato agli uomini la ragione». Ma un tale processo non mi sembra realizzabile se non in tempi lunghi, dopo che la guerra avrà portato al mondo molti più danni di quanti ne abbia fatti finora. Gli uomini non mettono in discussione i propri valori per guerre che durano solamente cinquanta mesi e uccidono in ciascuna nazione solo due milioni di uomini 354. D'altra parte si può dubitare che la guerra diventi mai tanto terribile da scoraggiare coloro che l'amano, tanto più che questi non sempre sono quelli che la fanno.
Ammettendo questa restrizione alle nostre previsioni pessimiste e ammettendo anche che l'avvento di una rinascita sia una cosa possibile, noi vogliamo dire che è solo possibile. Non potremmo concordare con chi dichiara che è una cosa certa, sia perché è già successa una volta, sia perché «la civiltà è qualcosa di dovuto alla specie umana». La civiltà come la intendo qui — il primato morale conferito al culto dei beni spirituali e al senso dell'universale – mi sembra, nello sviluppo dell'uomo, un felice accidente; essa vi è sbocciata, tremila anni fa, per un insieme di circostanze di cui lo storico ha sentito così bene il carattere contingente da chiamarlo il «miracolo» greco; non mi sembra affatto dovuta alla specie umana in virtù dei suoi dati naturali; mi sembra così poco una cosa del genere che vedo numerosi settori della specie (il mondo asiatico nell'antichità, quello germanico nell'età moderna) che si dimostrano incapaci di conseguirla e potrebbero rimanere tali. Vale a dire che se l'umanità giunge a perdere quest'ornamento, ci sono poche probabilità che lo ritrovi; ce ne sono invece molte che non lo ritrovi affatto, come se un uomo che avesse trovato un giorno una pietra preziosa nel fondo del mare e poi ve l'avesse lasciata ricadere, avrebbe pochissime possibilità di rivederla. Niente mi sembra meno fondato di quell'affermazione di Aristotele secondo la quale è probabile che le arti e la filosofia siano state più volte scoperte e più volte perdute. La posizione contraria che vuole che la civiltà, a dispetto di parziali eclissi, sia una cosa che l'umanità non può perdere mi sembra non avere altro valore — ma è un valore immenso per conservare proprio quel bene che vogliamo serbare - che quello di un atto di fede. Non crediamo che si voglia fare una obiezione seria quando ci viene fatto presente che la civiltà, già perduta una volta con la caduta del mondo antico, è stata però vista rinascere. Oltre al fatto che nessuno ignora come lo spirito greco-romano fu lungi dall'esserci veramente spento durante il medioevo e come il XVI secolo ha fatto rinascere solo ciò che non era morto, aggiungo che, anche se questa forma di spirito allora fosse «rinata» ex nihilo, questo esempio pur non mancando di turbarmi, per il fatto di essere unico non basterebbe a rassicurarmi.
Notiamo a questo proposito che forse non abbiamo abbastanza sottolineato quanto sia sempre irrisorio il numero degli esempi estratti dalla storia, su cui si fonda una «legge» che ha la pretesa di essere valida per ogni evoluzione, passata e futura, dell'umanità. Uno (Vico) afferma che la storia è un susseguirsi di alternanze fra un periodo di progresso e uno di regresso; ne cita due esempi; un altro (Saint-Simon), che è una serie di oscillazioni fra un'epoca organica e un'epoca critica; ne cita due esempi; un terzo (Marx) che è una sequenza di regimi economici in cui ciascuno elimina quello precedente con la violenza; ne cita un esempio! Mi si risponderà che questi esempi non potrebbero essere più numerosi, dato che la storia dura da così poco tempo, almeno quella che conosciamo. La verità, implicita proprio in questa risposta, è che la storia dura da troppo poco tempo perché se ne possano ricavare delle leggi che permettano di desumere l'avvenire dal passato. Quelli che lo fanno assomigliano a un matematico che facesse derivare la natura di una curva dalla forma che presenta in prossimità della sua origine. È vero che occorre una mentalità poco comune per ammettere che dopo molte migliaia di anni la storia umana è solo agli inizi. Non saprei dire quale raro valore intellettuale sembri testimoniare un La Bruyère quando scrive le righe seguenti, e in un secolo così fortemente incline a credere di essere il termine ultimo dello sviluppo umano: «Se il mondo dura solamente cento milioni di anni, è ancora in tutta la sua freschezza, ed è appena cominciato; noi stessi siamo confinanti con i primi uomini e i patriarchi; e chi potrà non confonderci con loro in secoli così remoti? Ma se si giudica l'avvenire dal passato quante cose nuove ci sono sconosciute nelle arti, nelle scienze, nella natura e oso dire nella storia! Quante scoperte si faranno! Quante rivoluzioni diverse avverranno su tutta la faccia della terra, negli Imperi! Che ignoranza la nostra! e come è scarsa l'esperienza di sei-settemila anni!»
Dirò di più, che se l'esame del passato potesse portare a qualche valido pronostico circa l'avvenire dell'uomo, questo pronostico sarebbe tutt'altro che rassicurante. Si dimentica che il razionalismo ellenico ha veramente illuminato il mondo solo per settecento anni, in seguito si è oscurato (mi sia consentito questo verdetto a minima) per dodici secoli e ha ricominciato a splendere appena da quattro; di modo che il più lungo periodo di tempo consecutivo sul quale, nella storia umana, possiamo fondare delle induzioni è, insomma, un periodo di oscurantismo intellettuale e morale. Più sinteticamente, guardando la storia sembra si possa dire che, tranne due o tre epoche luminose e di durata molto breve la cui luce però, come quella di certi astri, illumina ancora il mondo molto tempo dopo la loro estinzione, in generale l'umanità vive nella notte, così come in generale le letterature vivono nella decadenza e l'organismo nel disordine. Aggiungiamo, cosa che non manca di produrre turbamento, che l'umanità non sembra adattarsi poi così male a questo regime di caverna e di lunghe stagioni.
Per ritornare al realismo dei miei contemporanei e al loro disprezzo per l'esistenza disinteressata, aggiungerò che a tale proposito una questione angosciosa mi assilla talvolta la mente: mi domando se l'umanità, accettando oggi questo regime, non trovi la sua vera legge e non adotti finalmente la vera scala di valori richiesta dalla sua essenza. Il culto dei beni spirituali, dicevo più sopra, mi sembra nella storia dell'uomo un felice accidente; dirò di più, mi sembra un paradosso. È legge evidente della materia umana conquistare le cose ed esaltare i movimenti che garantiscono tali conquiste; solo commettendo il più prodigioso degli abusi un pugno di uomini da tavolino è riuscito a farle credere che i valori supremi fossero i beni dello spirito. Oggi essa si risveglia da questo miraggio, riconosce la sua vera natura e i suoi reali desideri, e lancia il grido di guerra contro coloro che per secoli l'hanno sottratta a se stessa. Non sarebbe più giusto se, invece di indignarsi per la perdita del loro dominio, questi usurpatori (per quanti ancora ne rimangono) apprezzassero il fatto che sia durato così a lungo? Orfeo non poteva certo pretendere che le fiere si lasciassero ammansire dalla sua musica fino alla fine dei secoli. Tuttavia si poteva forse sperare che lo stesso Orfeo non diventasse una fiera.
C'è bisogno di dire che il constatare queste volontà di realismo e il loro esasperato acuirsi non ci impedisce affatto di riconoscere che la dolcezza, la giustizia e l'amore sono prodigiosamente aumentati negli usi e nelle leggi di oggi e che di ciò i nostri avi più ottimisti sarebbero certo soddisfatti? Per non parlare della straordinaria distensione dei rapporti fra uomo e uomo all'interno dei gruppi che si combattono, in particolare all'interno della nazione, dove la sicurezza è la regola e dove l'ingiustizia fa scandalo, e restando nell'ambito dei rapporti che ci interessano, non si pensa forse abbastanza di quale incredibile grado di civiltà sia testimonianza, nella guerra tra le nazioni, il trattamento dei prigionieri, il fatto che ogni esercito curi i feriti nemici, e, nei rapporti fra le classi, l'istituzione dell'assistenza sia pubblica che privata. Negare il progresso, affermare che la barbarie dei cuori non è mai stata peggiore è un argomento naturale degli scontenti e dei poeti, e può darsi che sia esso stesso necessario al progresso; lo storico dal canto suo, rimane confuso, tanto se osserva la lotta degli Stati quanto quella delle classi, dalla trasformazione di una specie che, solo quattro secoli fa, faceva arrostire i prigionieri di guerra nei forni per il pane e che, solo due secoli fa, vietava agli operai di istituire una cassa di soccorso per i loro vecchi. Tuttavia osserverò che questo miglioramento dei costumi non dev'essere per niente attribuito all'epoca presente; esso è il risultato dell'insegnamento del XVIII secolo, contro il quale per l'appunto i «maestri del pensiero moderno» sono in rivolta; la fabbricazione delle ambulanze di guerra, il grande sviluppo dell'assistenza pubblica, sono opere del secondo impero francese e si rifanno ai «clichés umanitari» dei Victor Hugo, dei Michelet, mai abbastanza disprezzati dai moralisti di quest'ultimo mezzo secolo. Esse esistono in certo qual modo contro questi moralisti, di cui neanche uno ha fatto una campagna veramente umana e i più importanti fra loro, Nietzsche, Barrès, Sorel, arrossirebbero se potessero dire come Voltaire:
Ho fatto un po' di bene, è la mia opera migliore.
Aggiungo che queste opere di bene oggi non sono altro che consuetudini, cioè azioni compiute per abitudine, senza che la volontà vi prenda parte, senza che l'intelletto rifletta sul loro senso, e se un giorno venisse in mente ai nostri realisti di proibirle, non mi sembrerebbe affatto impossibile che lo facesse. Mi è facile immaginare una prossima guerra in cui un popolo decidesse di non curare più i feriti del nemico, uno sciopero in cui la borghesia deliberasse di non tenere più ospedali per una classe che la rovina e vuole la sua distruzione; immagino molto bene l'uno e l'altra che si vantano di essersi liberati di uno «stupido umanitarismo» e trovano dei discepoli di Nietzsche e di Sorel per acclamarli355. L'atteggiamento dei fascisti italiani o dei bolscevichi russi verso i loro nemici non è fatto per smentirmi. Il mondo moderno presenta ancora delle carenze dal punto di vista puramente pratico, delle macchie d'idealismo di cui potrebbe facilmente lavarsi.
Dicevamo più sopra che la logica sottile di questo realismo integrale professato dall'attuale umanità, è lo sterminio reciproco organizzato delle nazioni o delle classi. Se ne può concepire anche un'altra, che sarebbe invece la loro riconciliazione, per cui il bene da possedere diventerebbe la terra stessa, perché avrebbero finalmente capito che un buono sfruttamento è possibile solo grazie alla loro unione, mentre la volontà di collocarsi fuori del comune verrebbe trasferita dalla nazione alla specie, insorta orgogliosamente contro tutto ciò che le è estraneo. E, infatti, tale tendenza esiste; esiste, al di sopra delle classi e delle nazioni, una volontà della specie di rendersi padrona delle cose, e quando un esame umano in poche ore vola da un capo all'altro della terra, è tutta la razza umana a fremere d'orgoglio e ad adorare se stessa come distinta dal resto del creato. Aggiungiamo che questo imperialismo della specie, in fondo, è proprio ciò che predicano i grandi rettori della coscienza moderna; è l'uomo, non la nazione o la classe, che Nietzsche, Sorel, Bergson esaltano nel suo genio di rendersi padrone della terra; è l'umanità, e non una sua frazione, che Auguste Comte invita a compenetrarsi della coscienza di sé e ad assumersi infine come oggetto della propria religione. Si può pensare a volte che tale tendenza si affermerà sempre più e che per questa via si estingueranno le guerre tra gli uomini; si arriverà così a una «fraternità universale», che però, lungi dall'essere l'abolizione dello spirito di nazione con i suoi appetiti e i suoi orgogli, ne sarà invece la forma suprema, dove la nazione si chiama Uomo e il nemico Dio. E allora, unificata in un immenso esercito, in una immensa fucina, non conoscendo altro che eroismi, disciplina, invenzioni, irridendo a qualsiasi attività libera e disinteressata, avendo smesso di collocare il bene al di là del mondo reale e non avendo altro Dio che se stessa e le proprie volontà, l'umanità arriverà a grandi cose, voglio dire a una presa di possesso della materia che la circonda veramente grandiosa, a una coscienza della propria potenza e magnificenza veramente gioiosa. E la storia sorriderà al pensiero che Socrate e Gesù Cristo sono morti per questa specie.
1924-27.
Nota A (p. 73)
Le passioni politiche interessano oggi un numero ben maggiore di persone che una volta...
È molto difficile sapere in che misura le masse si sono emozionate per gli avvenimenti politici del loro tempo (beninteso tralascio i movimenti più specificamente popolari); le masse non scrivono le proprie memorie e quelli che lo fanno non parlano affatto di loro. Tuttavia la nostra affermazione sarà, credo, poco contestata. Per attenerci alla Francia e ai due esempi da noi citati, sembra che, se si ripetesse in questo paese un movimento come le Guerre di religione, non si vedrebbe più la stragrande maggioranza degli abitanti delle campagne non avere altra passione che l'odio per chi si fa la guerra, a qualunque partito appartenga 356, né si vedrebbero colti borghesi che tengono un diario consacrare a eventi quali la predicazione di Lutero due righe come ai mille fatterelli che riportano 357. Non credo neanche che un mese dopo un'azione come la presa della Bastiglia si vedrebbe uno straniero, in viaggio in Francia, scrivere: «13 agosto 1789. Prima di lasciare Clermont annoterò che mi è capitato di cenare cinque o sei volte in compagnia di venti o trenta persone, mercanti, negozianti, ufficiali, ecc. Non saprei ridire quanto fosse insignificante, vuota la conversazione; appena una parola di politica, mentre non si sarebbe dovuto pensare ad altro» (Arthur Young) 358.
Per quanto riguarda le guerre fra Stati, l'atteggiamento della gente sembra essere stato per molto tempo quello descritto da Voltaire in queste righe: «È un male, invero molto deplorevole, questa moltitudine di soldati continuamente mantenuti da tutti i principi; ma questo male, come è già stato notato, produce anche un bene: i popoli non si immischiano della guerra fatta dai loro padroni; gli abitanti delle città assediate passano spesso da una dominazione all'altra senza che ciò sia costata la vita a una sola persona; essi sono soltanto il premio per chi ha più soldati, cannoni e denaro» (Essai sur les Mœurs). - Nel 1870, una domestica prussiana diceva ancora ad un prigioniero francese occupato nella fattoria dove lavorava lei: «Quando la guerra sarà finita, ti sposerò; ti stupisce ciò che sto dicendo, ma sai, per noi, il patriottismo non vuol dire un gran che». Credo che nel 1914 molte domestiche, prussiane o d'altra nazionalità, abbiano ancora conosciuto in cuor loro, e messo in pratica, questa assenza di patriottismo; ma posso affermare che ben poche l'avrebbero espressa, anche a se stesse. Il vero fatto nuovo, oggi, non è forse che i popoli provino le passioni politiche, ma che dichiarino di provarle; questo basta, del resto, per renderli attivi e fornire un meraviglioso terreno di sfruttamento ai loro sobillatori.
Nota B (p. 84)
Luigi XIV si annette l'Alsazia e non pensa neanche per un istante a vietare la lingua tedesca...
Fu solo nel 1768 che la monarchia pensò di fondare in Alsazia «scuole dove fosse insegnato il francese». Vidal de La Blache, che racconta questa storia (La France de l'Est, I, VI), aggiunge: «Che questa indifferenza (verso la questione delle lingue) non ci scandalizzi troppo. Piuttosto tiriamone fuori la lezione che contiene. Essa ci eleva al di sopra delle concezioni anguste e gelose che in seguito, con il pretesto delle lingue, hanno armato popoli contro popoli. Essa ci trasporta in un tempo in cui regnava un altro spirito nelle relazioni fra gli uomini. Non c'erano allora questioni di lingua. Felice secolo XVIII, quando la guerra non generava odi durevoli, quando il veleno degli asti nazionali non veniva inoculato ed esasperato ad arbitrio con tutti i mezzi di cui oggi lo Stato dispone, ivi compresa la scuola». L'eminente storico dimentica che lo Stato dispone di quei mezzi con il consenso dei popoli. Sono i popoli, o almeno le loro classi colte, al comando degli scrittori, che da cento anni si contrappongono orgogliosamente gli uni agli altri nella lingua, nella cultura, a rischio di imbattersi in conseguenze inattese di questo comportamento, come succede oggi alla Francia nel suo difficile rapporto con l'Alsazia.
Nota C (p. 86)
Dell'alleanza del capitalismo, dell'antisemitismo, dell'antidemocraticismo con il nazionalismo.
Non lasciamoci ingannare dalla solidità di alcune di queste alleanze. Se le passioni conservatrici hanno capito l'immenso interesse che avevano a identificarsi con la passione nazionale e a beneficiare così della popolarità di questa, se si può anche ammettere che si siano lasciate prendere dal gioco e in questa tendenza siano diventate sincere, ciò non toglie che il conservatorismo (in primo luogo il capitalismo) sia, nella sua essenza, qualche cosa di totalmente differente dal patriottismo e che questa differenza, di cui non si contano più gli esempi nel corso della storia (quante volte la borghesia è venuta a patti con lo straniero quando le tornava comodo!), potrebbe un giorno farsi sentire di nuovo359. È molto facile immaginare una borghesia francese che, giudicando il suo patrimonio decisamente troppo minacciato dalla legislazione della Repubblica, si rivoltasse contro la Francia. Del resto è quanto mostra l'esempio di quelle famiglie che, da qualche anno, esportano i loro capitali all'estero. Lo stesso dirò per la passione monarchica. È altrettanto facile immaginare che certi adepti di questa passione prendano un giorno la decisione di nuocere a una nazione che respinge energicamente e definitivamente il regime che essi pretendono 360. È anche ciò che credo di constatare già da ora, quando vedo scrittori monarchici affermare che «dalla Sprea al Mekong, il mondo intero sa che la Francia è in uno stato di debolezza prossimo alla decomposizione» (J. Bainville). Tuttavia tali posizioni sono ancora eccezionali, e chi le pratica rifiuterebbe di ammettere, e forse in buona fede, che intende nuocere alla sua nazione.
La borghesia ha, del resto, un altro interesse a coltivare il nazionalismo e la paura della guerra. Questi sentimenti creano in una nazione una sorta di permanente spirito militarista. Più precisamente, facilitano nel popolo la tendenza ad ammettere la gerarchia, ad accettare un ordine, a riconoscere un superiore, vale a dire esattamente gli attributi che vogliono vedere in lui quelli che intendono continuare a tenerlo in schiavitù. È l'oscuro senso di questa verità a ispirare alla borghesia quel curioso malumore che essa manifesta di fronte a ogni tentativo di distensione internazionale, in qualunque forma gliela presentino i suoi governanti. Questo malumore, essa dice, viene dal fatto che ritiene ingenuo e imprudente credere all'estinzione degli odi nazionali. In fondo, viene dal fatto che essa non vuole che si produca questa estinzione. Essa sa che mantenere questi odî le costerà la vita dei suoi figli; ma non esita ad accettare tale sacrificio se è questo il prezzo a cui può conservare i suoi beni361 e il potere sui servi. Vi è in questo una grandezza dell'egoismo alla quale forse non si rende abbastanza giustizia.
Nota D (p. 94)
Sull'atteggiamento dei cattolici moderni nei confronti del cattolicesimo quando questo ostacola il loro nazionalismo.
Un buon esempio è l'atteggiamento assunto in questi venti anni dai cattolici tedeschi. È stato descritto con tutti i dettagli desiderabili da Edmond Bloud nel suo bel saggio: Il «nuovo Centro» e il cattolicesimo 362. Si vedrà che l'attuale atteggiamento di molti cattolici non tedeschi gli assomiglia stranamente.
Il «Centro» inizia col dichiararsi «un partito politico che si è assunto come dovere quello di rappresentare gli interessi dell'intera nazione in tutti i campi della vita pubblica, in accordo con i principî della dottrina cristiana» (Katholische Weltanschauung: concezione cattolica del mondo). Si annuncia ben presto un'azione politica fondata su di una «base cristiana» (christliche Basis), il cui spirito viene così definito da uno dei suoi apostoli (il Dott. Brauweiler, aprile 1913): «Nel campo dell'azione pratica i concetti sono determinati dal fine. La formazione dei concetti politici è paragonabile a quella che presiede alla formazione dei concetti giuridici. Il giurista forma i suoi concetti senza altra considerazione che quella del bisogno, unicamente in funzione del fine perseguito. Nessuno peraltro può rimproverargli che il suo concetto giuridico, così definito, sia falso. Nello stesso senso, in politica, possiamo parlare di Cristianesimo o di dottrina cristiana». Infine, nel 1914, il Dott. Karl Bachem, di Colonia, pubblica un opuscolo intitolato: Centro, Dottrina cattolica, Politica pratica, in cui dichiara che la dottrina del «Cristianesimo universale» non è che una formula politica destinata a rendere possibile la collaborazione di cattolici e protestanti, in primo luogo in Parlamento; che, dal punto di vista religioso, questa formula ha solo un significato negativo, che sottolinea solamente la volontà di lottare contro il materialismo, l'ateismo, il nichilismo; che, per quanto concerne il suo contenuto positivo, esso è determinato dalla Costituzione prussiana che, nei paragrafi dal 14 al 18, pone la «Religione cristiana» come «fondamento delle istituzioni dello Stato».
Così, conclude molto giustamente Edmond Bloud, per il Dott. Bachem, è la Costituzione prussiana che diventa la regola della Fede. - Al posto di Costituzione prussiana, mettete Interesse nazionale e avrete lo stato d'animo di molti cattolici francesi d'oggi.
L'atteggiamento dei cattolici tedeschi mi sembra anche rappresentativo di un certo cattolicesimo comune oggi ad altre nazioni con dichiarazioni di questo genere:
I membri cattolici del «Centro» restano cattolici individualmente, ma il partito, in quanto partito, non deve porsi sul terreno della concezione cattolica del mondo.
E ancora:
Il Papa e i vescovi sono delle autorità in materia religiosa, ma, ogni qualvolta si tratterà di affari politici, non ci lasceremo influenzare né dall'autorità del Papa né da quella dei vescovi. (Edmond Bloud allude a una conversazione riportata dalla «Gazzetta di Francoforte», nell'aprile 1914, in cui uno dei capi dei sindacati misti avrebbe dichiarato che «i cattolici tedeschi ne hanno fin sopra i capelli del Papa»).
Non riusciremmo neppure a fare a meno di cogliere una tendenza che non è specifica dei nostri vicini in ciò che Edmond Bloud chiama la «declericalizzazione del Centro» e nella gioia con cui il grande organo nazionalista tedesco (gli «Annali prussiani») constata che «l'idea cattolica dello Stato sta per disultramontanizzarsi per nazionalizzarsi» 363.
Infine l'atteggiamento dei cattolici tedeschi, in ciò che hanno in comune con certi cattolici di qualche altra nazione, mi sembra messo in rilievo eccezionalmente bene da queste due belle proteste che gli si sono levate contro e che Bloud riporta. Una del Reverendo Padre Weiss:
Esistono, dice l'eminente teologo, diverse specie di cattolicesimo politico... La peggiore di tutte consiste nel considerare la politica pura, la politica sociale, la politica nazionale, non solo come se fossero completamente indipendenti dal punto di vista della religione, ma come la misura stessa in base alla quale si deve determinare il grado di utilizzazione possibile del cattolicesimo o del cristianesimo nella vita pubblica.
L'altra del cardinale Kopp (allora vescovo di Fulda), in una lettera da questi scritta nel 1887:
Disgraziatamente soffia fra noi un vento di follia. In passato ci attenevamo al principio: prima la fede, poi la politica. Ora si dice: Politique d}abord! La Chiesa e la fede dopo.
Si vede che i nostri cattolici dell'Action française hanno inventato poco.
Nota E (p. 98)
Il chierico, adottando le passioni politiche, porta loro il formidabile contributo della sua sensibilità se è un artista, della sua forza di persuasione se è un pensatore, del suo prestigio morale in entrambi i casi.
Questo stesso prestigio è cosa nuova nella storia, almeno spinto fino al punto attuale. Effetti come quelli prodotti in Francia al tempo dell'affare Dreyfus, dall'intervento degli «intellettuali», o anche, quello prodotto nel 1914, non solo nel loro paese ma nel mondo intero, dal manifesto detto degli intellettuali tedeschi, sono cose di cui non trovo l'equivalente nel passato. Non riusciamo a immaginare che la Repubblica romana si sentisse sostenuta nella sua aggressione contro Cartagine dal consenso di Terenzio o di Varrone, né che il governo di Luigi XIV trovasse più forza nella guerra contro l'Olanda per l'approvazione di Racine o di Fermat. Del resto, il rafforzamento che oggi una causa riceve dall'approvazione degli intellettuali, o da chi è ritenuto tale, fa grande orrore al mondo moderno. V'è in ciò un omaggio all'intelletto di cui l'umanità non aveva ancora dato esempio.
Naturalmente questo prestigio è a doppio effetto. Se il chierico moderno rende più forte una causa dandole il suo suffragio, le arreca però un grave danno rifiutandoglielo. Se, nel 1915, uomini come Ostwald o Mach avessero rifiutato di approvare gli atti delle loro nazioni, gli avrebbero nuociuto molto. Il chierico che oggi condanna il realismo dello Stato di cui fa parte vi porta un reale pregiudizio 364. Ne consegue che questo, in nome dell'interesse pratico, la cui custodia costituisce tutta la sua funzione, ha il diritto e forse il dovere di colpirlo. Il giusto ordine delle cose ci appare dunque questo: il chierico, fedele alla sua essenza, condanna il realismo degli Stati; al che questi, non meno fedeli alla loro, gli fanno bere la cicuta. Il grave disordine del mondo moderno consiste nel fatto che i chierici non condannano più il realismo degli Stati, ma al contrario l'approvano: non bevono più la cicuta 365.
Aggiungiamo che oltre a questa confusione ne possiamo segnalare un'altra che si verifica quando il chierico condanna il realismo dello Stato e questo non lo punisce; come accadde per esempio in Francia al tempo dell'affare Dreyfus, dove l'ordine richiedeva che i chierici, come hanno fatto, reclamassero la giustizia astratta, ma forse richiedeva anche che lo Stato, compromesso nella sua forza dal loro idealismo, li gettasse in prigione. Si ha l'anarchia quando il chierico compie l'opera del laico, ma anche quando il laico agisce e parla da chierico, quando chi ha l'incarico di difendere la nazione manifesta il proprio culto per l'abolizione delle frontiere, l'amore universale o altre cose spirituali366. Quando vedo tanti filosofi occuparsi unicamente della sicurezza dello Stato mentre uno dei nostri ministri si adopera a far regnare l'amore fra gli uomini, penso all'apostrofe di Dante:
Ma voi tacete alla religione
tal che fia nato a cingersi la spada;
e fate re di tal ch'è da sermone:
onde la traccia vostra è fuori strada.
Tuttavia questa seconda confusione non aspetta me per essere denunciata, né è mio compito combatterla.
Nota F (p. 102)
Si pensi alla facilità con la quale oggi gli ecclesiastici accettano il servizio militare.
Questa facilità mi sembra in effetti degna di attirare l'attenzione dello storico. Essa evidentemente presuppone, in quelli che la manifestano e la cui legge è di essere morti per qualsiasi vincolo terrestre, un sincero attaccamento al proprio paese. Del resto sembra che, nell'ultima guerra, la maggior parte dei ministri di Gesù Cristo in condizione di portare le armi siano stati felici di difendere la patria, qualunque essa fosse e qualunque idea essi avessero riguardo alla purezza della causa. Ecco un fatto molto suggestivo: alcuni ordini monastici belgi (anche altri, mi dicono), stabilitisi all'estero al tempo della dichiarazione di guerra e autorizzati dal loro governo a restarvi, ci tennero a ritornare nella madrepatria per compiere il loro dovere militare. È vero che il comportamento di questi religiosi si spiega forse, non con il patriottismo, ma con il timore di essere giudicati severamente dai loro concittadini nel caso avessero agito in modo diverso, poiché i chierici moderni hanno smesso di capire che la prova di un atteggiamento veramente conforme alla loro funzione è appunto l'impopolarità presso i laici.
Tuttavia, per lo storico, la cosa più notevole è che l'imposizione del servizio militare agli ecclesiastici non sembra più sollevare alcuna protesta da parte della Chiesa. Alcuni di questi dottori arrivano perfino a sentenziare (Monsignor Batiffol, L'Eglise et le Droit de la guerre): «Sulla legittimità del servizio militare, ogni dubbio è eliminato» 367. È anche curioso vedere, nel Dictionnaire apologétique de la foi catholique (voce Paix et Guerre), i violenti sforzi dell'autore (Padre de la Brière) per stabilire che portar le armi, anche per i chierici, non è affatto contrario alla legge cristiana. Tuttavia l'autorità ecclesiastica superiore non sembra affatto condividere, almeno pubblicamente, l'opinione di questi teologi, poiché ogni chierico che indossa le armi continua ad essere, come per il passato, colpito da un interdetto - che viene rimangiato pochi minuti dopo essere stato pronunciato.
Il patriottismo dell'ecclesiastico, il suo consenso a fare la guerra, sono cose che, molto evidentemente, i laici moderni ascrivono a suo merito (si vedano molti testi di Barrès); i laici d'un tempo glielo rimproveravano invece e si compiacevano di richiamarlo a sentimenti da essi giudicati conformi al suo ministero. Gli ardori bellicosi di Giovanni XII e di Giulio II sono stati severamente biasimati dai loro contemporanei: oltre Erasmo - il tipico intellettuale profondamente convinto dell'alta funzione del chierico e che non cessa mai di ricordargliela («la tonsura non li informa del fatto che devono liberarsi da tutte le passioni di questo mondo e pensare solo alle cose del cielo») - un tizio italiano scrive: «È sorprendente che i pontefici, il cui ruolo è quello di essere pacifici è indipendenti, collaborino allo spargimento di sangue cristiano». Il poeta francese Jean Bouchet descrive la Chiesa in lacrime che scongiura Giulio II di por fine alla guerra (vero è che Giulio II fa guerra alla Francia):
«Il vostro signore ch'è san Pietro
per beni mondani giammai non guerreggiò...»
Nel Songe du vergier, una sorta di formulario delle dottrine morali correnti in Francia nel xiv secolo, troviamo un dialogo fra il Cavaliere e il Chierico in cui, a quest'ultimo che reclama il diritto alla guerra per la sua casta, il cavaliere ricorda che «le armi dei chierici sono le orazioni e le lacrime». È suggestivo vedere un uomo d'armi invitare un ministro del mondo spirituale ad adempiere alla propria funzione e trovare che questa adempienza è necessaria al buon andamento del mondo materiale; v'è in ciò un senso della funzione del chierico e del suo valore sociale che si trova raramente presso i laici moderni, anche non militari, stavo per dire soprattutto non militari368.
Nota G (p. 113)
... Quel ritorno su se stesso al quale ogni spettatore è portato di fronte a una rappresentazione dell'essere umano che sente vera e unicamente preoccupata del vero...
Sull'effetto civilizzatore d'una tale rappresentazione, citiamo questa bella pagina:
Questo spettacolo dell'uomo, offerto all'uomo, ha effetti morali notevoli. Prima di tutto, dall'abitudine così contratta di uscire da se stessi per entrare negli altri, per capire le azioni, unirsi alle passioni, compatire le pene, apprezzare le ragioni degli altri uomini deriva un prezioso esercizio dell'intelligenza, un aumento della capacità di riflettere, un allargamento dell'orizzonte in tutti i sensi. La facoltà dell'artista comunicata all'ascoltatore o allo spettatore, questa facoltà di partecipazione e di assimilazione, si stabilisce in contrasto con l'egoismo, è una condizione della tolleranza e della benevolenza, spesso anche della giustizia. Inoltre, per il solo fatto di essere messo nella situazione di lodare o disapprovare le azioni o i pensieri che gli vengono sottoposti, relativamente a casi in cui il suo interesse non è affatto in gioco, vengono impartite allo spettatore lezioni di virtù e non delle meno efficaci. Egli non tralascia di riconoscere la propria immagine nel protagonista dell'epopea, uomo come lui, agente volitivo e appassionato le cui prove, forse ingigantite, non sono tuttavia estranee alla sua esperienza. Allora, in colui che si vede così messo in scena nella persona di un altro, si producono i fenomeni essenziali che caratterizzano l'umanità cosciente e la moralità: obiettivizzazione disinteressata di sé di fronte a se stesso, generalizzazione della passione, della motivazione e della massima, giudizio fondato sull'universale, ritorno su se stesso per arrivare al dovere, senso preciso e definitivo della direzione della volontà.
Non crediamo per questo che il poeta abbia per oggetto l'utilità o la morale. Se fosse così, mancherebbe del sentimento artistico. Insegnare, moralizzare, questo per l'artista è un fine indiretto, cioè non esiste per lui sistematicamente; deve raggiungerlo senza esserselo proposto, e talvolta lo raggiunge, dando, in questo caso, l'impressione di allontanarsene. Ciò che vuole, è colpire, commuovere. Ora, accade che, in ciò stesso, egli eleva, purifica, moralizza. Il poeta, in effetti, ed è soprattutto di lui che parliamo, si rivolge a tutti. Vale a dire che egli non può cantare se non l'universale, per quanto bizzarra possa sembrare una tale associazione di parole. Sebbene lo canti sotto forma di particolare, senza di che la vita verrebbe meno alle sue finzioni, esclude tuttavia ciò che è puramente individuale, incomprensibile, inspiegabile, senza verità se non esprime un rapporto 369. Egli generalizza la passione, la nobilita dunque e la rende nello stesso tempo soggetto di osservazione, di riflessione e d'emozione disinteressate. L'ascoltatore strappato alle sue preoccupazioni private, relativamente basse, per sentirsi trasportato, senza speranza né tema, almeno troppo personali e presenti, nella sfera superiore della passione comune all'umanità, dimostra il beneficio di una elevazione dell'anima; la sua coscienza è temporaneamente liberata dall'egoismo (Renouvier, Introduction à la philosophie analytique de l'histoire, p. 354).
Nota H (p. 116)
... Napoleone, che incaricava il ministro di polizia di vegliare a che la Storia della Francia fosse scritta secondo quanto tornava utile al suo trono...
Riportiamo qualche frammento della nota dettata a questo proposito da Napoleone, a Bordeaux, nel 1808. Vedremo se essa non propugna la stessa concezione della storia praticata, mutatis mutandis, da molti dei nostri storici del passato:
Non approvo i principî enunciati nella nota del Ministro dell'Interno; erano veri vent'anni fa, lo saranno fra sessanta, ma non lo sono oggi. Velly è il solo autore che abbia scritto sulla storia della Francia in maniera un po' particolareggiata. Il compendio cronologico del presidente Hénault è un buon libro classico; è utilissimo continuarli entrambi. È di estrema importanza accertarsi con quale spirito scriveranno i continuatori. Ho incaricato il ministro di polizia di controllare la continuazione di Millot, e desidero che i due ministri si mettano d'accordo perché siano continuati Velly e il presidente Hénault...
Dobbiamo essere giusti verso Enrico IV, Luigi XIII, Luigi XIV e Luigi XV, ma senza essere adulatori. Dobbiamo dipingere i massacri di settembre e gli orrori della Rivoluzione con lo stesso pennello con cui abbiamo dipinto l'inquisizione e i massacri dei Sedici. Bisogna aver cura, parlando della Rivoluzione, di evitare qualsiasi reazione, nessun uomo vi si poteva opporre. Non sono da biasimare né i morti né i sopravvissuti. Non esisteva alcuna forza individuale capace di cambiare gli elementi e di prevenire gli avvenimenti prodotti dalla natura delle cose e dalle circostanze.
Bisogna far risaltare il perpetuo disordine delle finanze, il caos delle assemblee provinciali, le pretese dei Parlamenti, la mancanza di ordine e di energia nell'amministrazione; questa Francia variegata, senza unità di leggi e di amministrazione, piuttosto la sommatoria di venti regni che uno Stato unico, tanto che si respira quando si arriva all'epoca in cui si è goduto dei benefici dell'unificazione delle leggi, dell'amministrazione e del territorio... L'opinione espressa dal ministro, e che, se fosse seguita, lascerebbe tale opera all'industria privata e alle speculazioni di qualche libraio, non è esatta e non produrrebbe che risultati rovinosi.
Beninteso, i fautori dell'autoritarismo non sono i soli a intimare alla storia di servire i propri interessi. Leggo in Condorcet (Tableau historique, 10a epoca) che la storia deve servire «a mantenersi in uno stato di attiva vigilanza per saper riconoscere e soffocare sotto il peso della ragione i primi germi della superstizione e della tirannia, se mai osassero ricomparire».Nota I (p. 121)
Umanitarismo e Umanesimo.
Ecco su questa distinzione il curioso testo di un antico:
Chi ha creato la lingua latina e chi l'ha parlata correttamente non ha dato alla parola humanitas l'accezione volgare che è sinonimo del termine greco φιλανθροπία, il che significa attiva compiacenza, tenera benevolenza per tutti gli uomini. Ma ha attribuito a questa parola il senso di ciò che i greci chiamano παιδεία, di ciò che noi chiamiamo educazione, conoscenza delle belle arti. Quelli che mostrano più gusto e disposizione per questo studio sono anche i più degni di essere chiamati humanissimi. Giacché l'uomo, solo fra tutti gli esseri, può dedicarsi a coltivare tale studio, che per questo è stato chiamato humanitas. Questo è il senso dato alla parola dagli antichi, e in particolare da Varrone e da Cicerone; quasi tutte le loro opere ne offrono delle prove: pertanto mi limiterò a citare un solo esempio. Ho scelto l'inizio del primo libro di Varrone Delle cose umane: «Praxiteles, qui propter artificium egregium nemini est paulum modo humaniori ignotus (Prassitele, che per il suo notevole talento d'artista è conosciuto da ogni uomo un po' istruito nelle arti)». Qui humanior non ha l'accezione volgare di facile, trattabile, affabile, benché sprovvisto di conoscenza delle lettere; questo senso non tradurrebbe per niente il pensiero dell'autore; significa uomo istruito, saggio, che conosce Prassitele attraverso i libri e la storia. (Aulo Gellio, Notti attiche, libro VIII, XVI).Nota J (p. 135)
... li abbiamo visti lanciare anatemi a non finire contro le istituzioni fondate sulla libertà e la discussione...
Notiamo che qui la novità sta nella passione, nel furore con cui viene condannata la libertà di discussione. Altrimenti, vediamo nella storia che quasi tutti i pensatori cosiddetti liberali riconoscono loro stessi la necessità di sottomettersi al giudizio del sovrano. Spinoza dice che «non esiste governo possibile se ognuno si erge a difensore dei suoi diritti e di quelli degli altri»; troviamo, nelle lettere di Cartesio, passi in favore della ragion di Stato.
Non abbiamo forse sottolineato abbastanza come la principale funzione del sovrano sia, per i vecchi assolutisti francesi, la giustizia. «Il più importante diritto del re, dice uno di questi teorici (Guy Coquille, Institution du droit des Français, 1608), è quello di fare leggi e ordinanze generali per la polizia del suo regno». Un altro (Loyseau, Des Seigneuries, 1608): «L'uso della signoria pubblica deve essere regolato dalla giustizia...» E Bossuet (Instruction à Louis XIV): «Quando il re amministra la giustizia o la fa amministrare esattamente secondo le leggi, che è la sua funzione principale...» Gli assolutisti moderni, anche francesi, sembrano ispirarsi al teorico tedesco che dice: «Due funzioni spettano allo Stato: amministrare la giustizia e fare la guerra. Ma la guerra è di gran lunga la principale» (Treitschke).
Ricordiamo anche questa famosa pagina di Bossuet (Pol., libro VIII, art. II, par. I):
Una cosa è che esso (il governo) sia assoluto, un'altra è che esso sia arbitrario. È assoluto rispetto alla coercizione: non essendoci alcuna potenza capace di forzare il sovrano, che in questo senso è indipendente da qualsiasi autorità umana. Ma non ne consegue che il governo sia arbitrario; perché, oltre al fatto che tutto è sottomesso al giudizio di Dio, il che vale anche per quel governo che abbiamo appena chiamato arbitrario, ci sono delle leggi negli imperi, contro le quali tutto quello che si fa è privo di diritto.
Vediamo che l'apologia dell'arbitrio è una cosa nuova per i dottrinari francesi, anche rispetto a Bossuet. (Parlo delle dottrine di Bossuet, non dei suoi consigli pratici).Nota K (p. 142)
È l'insegnamento di Nietzsche...
Non ricorderò mai abbastanza che in tutta quest'opera ho preso in considerazione l'insegnamento di Nietzsche (e quello di Hegel) in quanto è stato il pretesto di una grande predicazione morale, non ignorando che, nella sua realtà, quest'insegnamento è molto più complesso. In quanto al fatto che certi filosofi debbano prendersela solo con se stessi del «travisamento del loro vero pensiero», citerò questa saggia osservazione:
Il nietzschismo è stato sottoposto alla stessa prova dell'hegelismo. E senza dubbio a entrambi i temi filosofici sono serviti soprattutto di pretesto per coprire il ritorno offensivo della barbarie. Ma il fatto che siano stati utilizzati, il modo in cui sono stati utilizzati, hanno un significato che non possiamo non cogliere. Il criterio per poter chiamare una filosofia, senza riserve e senza equivoci, razionale, non è che essa resti incorruttibilmente fedele a se stessa? Invece i sistemi che cominciano con l'accettare la contraddizione, riservandosi di aggiungere che saranno in grado di superarla o di «viverla», questi sistemi albergano il loro nemico dentro di sé. Il loro castigo sarà che anche l'antitesi assomigli a loro; ed è proprio quello che è successo a Nietzsche (L. Brunschvicg, Le Progrès de la conscience dans la philosophie occidentale, p. 431. - In quest'opera si troverà una eccellente esposizione dei «temi hegeliani» e dei «temi nietzschiani» proprio in quanto sono diventati breviari politici).Nota O (p. 163)
... Péguy ammira le filosofie unicamente nella misura in cui «si sono battute bene»373...
Questa volontà di lodare i filosofi per le loro virtù di azione più che per le loro virtù intellettuali è oggi molto frequente negli uomini di pensiero. Alain, nei suoi Souvenirs concernant Lagneau, volendo offrire un'immagine elevata del suo maestro, ne esalta l'energia e la risolutezza almeno tanto quanto l'intelligenza. È anche molto significativo, sebbene questa volta non si tratti che di letteratura, vedere un professore di scienza morale (Jacques Bardoux) attribuire un valore tutto particolare, fra i letterati francesi, a quelli che sono stati militari: Vauvenargues, Vigny, Péguy. In quanto ai letterati stessi, mi accontenterò di ricordare che uno di questi, e dei più applauditi della sua corporazione, recentemente dichiarava di ammirare D'Annunzio soprattutto per le sue qualità di ufficiale e di rimpiangere che fosse ritornato alla letteratura374. L'imperatore Giuliano esaltava Aristotele perché aveva detto di sentirsi più fiero di essere l'autore del Trattato di Teologia che se avesse distrutto la potenza dei Persiani; forse in Francia si troverebbero ancora dei militari pronti a sottoscrivere questo giudizio, ma pochissimi letterati. Ho cercato altrove (Les Sentiments de Critias, p. 206) di fare la cronistoria e di dare la spiegazione di questa volontà, così strana negli scrittori, di esaltare la vita militare e disprezzare la vita sedentaria. Si noterà che questa caratteristica è presente negli scrittori attuali già da molto prima del conflitto del 1914 e che coloro che la manifestano con maggiore forza non sempre so no quelli che la guerra l'hanno fatta.
Debbo forse ripetere che la novità non sta nel vedere letterati esaltare la vita attiva e disprezzare la vita a tavolino; sta invece nel vedere la mancanza d'ingenuità, il tono dottorale che essi vi mettono. Quando Ronsard esclama:
Oh Dei, chi vorrebbe lodare
Coloro che, incollati a un libro,
Non si curano mai di vivere375,
quando Bertrand de Born pretende che «nessun uomo di alto lignaggio abbia altra preoccupazione che quella di tagliar teste e braccia», quando Froissart canta la gloria dei cavalieri e vomita tutto il suo disprezzo in faccia ai borghesi, nessuno può prendere questi candidi suonatori di lira, che prediligono gli atteggiamenti fieri e non conoscono neanche l'esistenza della parola dottrina, per gli antenati dei nostri posati professori di estetica bellicista. Dubito, del resto, che l'autore delle Scènes et Doctrines du Nationalisme avrebbe accettato di essere un discendente di questi sempliciotti.
Trovo il disprezzo della vita dello spirito - e chiaramente professato con tono dogmatico - in uno scrittore del secolo xvii, che ricorda molto certi maestri moderni per il suo continuo impegno a umiliare la toga di fronte alla spada (è vero che questo scrittore è un gentiluomo della piccola nobiltà):
Certamente, non c'è metodo migliore per fiaccare le esuberanze virili che tenere occupati gli spiriti con esercizi tranquilli e sedentari, e l'ozio non può penetrare negli Stati che hanno raggiunto un certo grado di civiltà con un inganno più sottile e più pericoloso di quello delle lettere. Sono le persone oziose e pigre, che, in parte, hanno rovinato il commercio e l'agricoltura, che sono causa della debolezza del nostro Stato e della viltà del nostro secolo. (J.-L. de Balzac, Le Prince, 1631. Segue un diritto di cittadinanza accordato alle lettere e alle scienze nella misura in cui esse «conferiscono forza e lustro alla Patria»).
In compenso ecco, in un maestro dell'epoca d'oro francese, un elogio della vita dello spirito a spese della vita attiva, di cui mi domando se molti dei nostri moderni che venerano quel periodo lo ratificherebbero (penso soprattutto a quelli che ammirano il pensiero di Georges Sorel):
In Francia occorre molta fermezza e una grande larghezza di vedute per fare a meno delle cariche e degli impieghi, e acconsentire così a restarsene a casa a non far niente. Quasi nessuno possiede meriti sufficienti per svolgere questo ruolo con dignità, né è abbastanza profondo da riempire il vuoto del tempo, senza quello che il volgo chiama affari. Occorre tuttavia un nome migliore per l'ozio del saggio, e che il meditare, il parlare, il leggere e l'essere tranquillo si chiamino lavorare (La Bruyère, Du mérite personnel).Nota P (p. 166)
Il «Manifesto del partito dell'intelligenza» («Figaro», 19 luglio 1919).
Questo manifesto, firmato da 54 scrittori francesi di cui molti figurano tra gli uomini di cultura più ascoltati dai propri concittadini, è un documento della massima importanza per l'indagine che stiamo conducendo. Vi si leggono, oltre allo strano passo già citato sulla missione della Chiesa, cose come queste:
Il nazionalismo, imposto tanto alla condotta politica quanto all'ordine del mondo dalle concezioni intellettuali, è una norma logica e umana, e per di più francese.
E, più oltre:
Non è forse nazionalizzandosi che una letteratura acquista un significato più universale, un interesse più umano e generale?
E ancora:
Noi crediamo - e il mondo crede con noi - che rientri nel destino della nostra razza difendere gli interessi spirituali dell'umanità... La nostra sollecitudine va all'Europa e a tutto ciò che resta nel mondo di umanità. L'umanità francese ne è la garanzia sovrana.
E soprattutto:
La Francia vittoriosa vuole riprendere il suo posto nell'ordine dello spirito, che è il solo ordine attraverso cui si eserciti un dominio legittimo.
Donde la volontà di fondare (la sottolineatura è del manifesto):
La Federazione intellettuale dell'Europa e del mondo sotto l'egida della Francia vittoriosa, custode della civiltà.
La vittoria delle armi che conferisce il diritto di guidare l'ordine intellettuale, ecco che cosa ostentano oggi dei pensatori francesi! Vengono in mente gli scrittori romani, di cui questi pensatori si dicono i discendenti, che assunsero a direttrice dello spirito la Grecia militarmente vinta; vengono in mente anche gli uomini di cultura tedeschi del 1871 che reclamarono, essi pure, l'egemonia intellettuale per la loro nazione «vittoriosa», che affermarono essere «custode della civiltà»376.
Riflessioni di questo tipo sembra si siano affollate, al tempo della pubblicazione di questo manifesto, nel cervello di uno dei nostri grandi scrittori. In una lettera che tratta di questo documento377, Marcel Proust deplora il fatto di vedervi proclamata «una specie di "Frankreich über alles", gendarme della letteratura di tutti i popoli». Egli aggiunge, da vero sacerdote dello spirito: «Perché assumere di fronte agli altri paesi questo tono così reciso in un campo come quello delle lettere, in cui si regna solo con la persuasione?» Siamo contenti dell'occasione per rendere omaggio a questo vero «chierico» e dire che sappiamo che esistono ancora in Francia scrittori diversi da quelli che credono unicamente alla virtù delle armi.Nota Q (p. 178)
Di coloro che fanno dipendere i loro giudizi dalla propria sensibilità artistica.
L'origine artistica che ha in tanti letterati l'atteggiamento politico è stata descritta con molto acume, per Maurras, da Daniel Halévy. In un vecchio articolo (La Grande France, 1902), Halévy cita questa bella pagina dell'Anthinéa sull'andatura delle donne che portano una brocca d'argilla in equilibrio sopra la fronte: «Il petto si gonfia e si modella come un vaso, si schiude come un fiore. Il collo si assesta, le reni si tendono nervosamente: diventata più grave e più elastica, misurata con una inapprezzabile saggezza, l'andatura si snoda nello spirito come una musica. La colonna viva si sposta, si muove senza interrompersi con bruschi movimenti né soffrire alcuna rottura. Essa sposa la forma sfumata della terra, si compone con tutti i minimi rilievi e così assomiglia allo stelo di un bell'arboscello libero, che si muova sul suolo, senza abbandonarlo di un filo. Un'infinita moltitudine di semipause rende gli urti insensibili, o comunque non si ha coscienza se non della loro successione, armonia continua che lascia la sua curva nell'aria...» Daniel Halévy aggiunge: «Abbiamo citato per esteso questo passo perché contiene il pensiero stesso di Charles Maurras. Per la sua concezione classica, le cose sono belle non per le impennate del sentimento e della passione, ma per la forma e il ritmo che imprime loro la continuità, o, per dir di più e meglio, che dà loro l'esistenza nel senso umano della parola. Questo gusto della forma, Charles Maurras l'applica all'intelligenza della storia e costituisce tutta la sua «sociologia».
Non si potrebbe definire meglio questo tipo d'uomo per il quale le cose vanno bene nella misura in cui soddisfano la sua sensibilità artistica. A fronte, mettiamo il tipo esattamente opposto, lasciando al lettore la cura di giudicare quale dei due possa richiamarsi all'«intelligenza»:
... Giacché la perfezione delle cose si deve misurare solo in base alla loro natura, e le cose non sono più o meno perfette per il fatto di lusingare i nostri sensi o di offenderli (Spinoza).
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Finito di stampare il 13 novembre 1976
per conto della Giulio Einaudi editore s. p. a.
presso l'Officina Grafica Artigiana U. Panelli in Torino
C. L. 460.5-2