Una analisi puntuale, lucida e precisa, oltre il politicismo ed oltre tutte le propagande post referendum, dopo quelle prereferendum.
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Scrive Aldo Schiavone
Quella frattura sociale dietro la vittoria del No
Credo che la migliore spiegazione del voto al referendum — e la più tempestiva — si trovi negli ultimi dati appena diffusi dall’Istat. Un italiano su quattro sfiora la soglia della povertà, e la proporzione nel Mezzogiorno si avvicina al 50%, mentre cresce ancora il livello della diseguaglianza, indicato dalla concentrazione della ricchezza: la fotografia impietosa di un’Italia disequilibrata e ferma — l’accidentato retroterra in cui si colloca l’esito del referendum. In completa coincidenza con queste cifre, il risultato della consultazione mostra un Paese lacerato almeno lungo due versanti: e non si tratta di lesioni politiche. Queste sarebbero il meno: un referendum divide, si sa; e se no, cos’altro? Le fratture appaiono invece di altra natura, e assai più pericolose. Sono rotture sociali che spezzano in profondità, dividono mondi che si stanno reciprocamente perdendo.
La geografia (e la storia), innanzitutto. Per una Milano dove il Sì ha vinto (sia pure di misura), c’è la valanga dei No del Mezzogiorno: oltre il 70% in Sicilia, in Sardegna; quasi il 70 in Campania, il 67 in Puglia, in Calabria; oltre il 65 in Basilicata. E poi, l’età. Per un elettorato di adulti sopra i cinquantacinque anni che hanno scelto in prevalenza il Sì, c’è stata una maggioranza schiacciante di giovani al di sotto dei trentacinque che hanno votato in massa No (più di quattro su cinque: un dato impressionante, ben sottolineato da Renato Benedetto sul Corriere). Questa non è politica — o meglio: è politica scarnificata e ridotta all’osso, puro riflesso delle condizioni esistenziali; e temo che la Costituzione, purtroppo, c’entri poco: è il segno di una società che sta disintegrando i suoi legami, nazionali e generazionali, e si spacca secondo il destino sociale dei luoghi e delle classi di età: da un lato donne e uomini maturi o addirittura anziani, abitanti del centro Nord, dove sono riusciti a coltivare ancora speranze, prospettive, lavoro, e vivono in un contesto sociale che nell’insieme tiene; dall’altra tutto il resto, e soprattutto giovani e Sud, che si sentono del tutto abbandonati. Con il suo No, questa parte del Paese ha detto chiaro che non ce la fa, e che non vede luce, oltre il buio del presente.
Fra i grandi Paesi dell’Occidente, l’Italia è quello che sta scontando in modo più duro e severo gli effetti della globalizzazione. Non è solo la fatica nel riassorbire la crisi del 2008. C’è qualcosa di più strutturale che incide, e che viene da molto lontano: la recessione degli ultimi anni l’ha finora nascosto nella sua ombra. Ma adesso che quest’ultima si è quasi completamente dissolta (almeno oltre i nostri confini), ecco che affiora in tutta evidenza. Ed è la difficoltà di reggere il passo imposto all’economia globale dalle trasformazioni post-industriali, senza lasciare sole e indietro intere regioni e intere generazioni. E’ la fragilità di un sistema produttivo che non integra dentro di sé abbastanza tecnologia da riqualificare e proteggere in modo diffuso il lavoro presente sul mercato. E’ l’inadempienza di uno Stato che per decenni ha fatto a pezzi la propria scuola e la propria università, e non sa da tempo cosa significhi investire davvero in formazione e ricerca.
L’errore di Renzi — un errore micidiale, per uno come lui, che ha la politica nel sangue — è stato di non rendersi conto davvero della situazione del Paese, e di volere però, nello stesso tempo, proporsi agli italiani con un profilo alto, di chi non si accontenta di galleggiare, ma vuole guidare e risolvere. Fra le sue dichiarazioni e le asprezze della vita quotidiana di milioni e milioni di cittadini — la maggioranza degli italiani — si è aperto così uno scarto, una dismisura che ora il Presidente dimissionario sembra interpretare come «odio», ma che è solo delusione, unita al fastidio per l’ostentazione di un ottimismo della volontà che è diventato improponibile e stucchevole, se confrontato con i conti della realtà. Se Renzi vorrà ripartire, è dallo stato del Paese e dalle sue dolorose verità che dovrà farlo."