venerdì 30 marzo 2018




LILITH
Estratto da
Anais Nin
Il delta di Venere
Bompiani

Lilith era sessualmente fredda e il marito la sospettava, a dispetto di
tutte le sue finzioni. Questo fatto portò al seguente episodio. Lilith
non usava mai lo zucchero perché non voleva ingrassare, lo sostituiva
quindi con un succedaneo: pastigliette bianche che portava sempre con sé
nella borsetta. Un giorno le finì e chiese al marito di comprargliene
delle altre tornando a casa dall'ufficio. così lui le portò una boccetta
come quella che aveva chiesto, e Lilith mise le sue due pillole nel
caffè. Dopo cena, sedettero uno accanto all'altra e il marito prese a
guardarla con quell'espressione di dolce tolleranza che sfoderava spesso
di fronte alle sue esplosioni nervose, alle sue crisi di egoismo, di
autocondanna, di panico. A ogni suo comportamento drammatico egli
reagiva con un buon umore e una pazienza imperturbabili. Lilith era
sempre sola nelle sue tempeste, nelle sue furie, nei suoi sconvolgimenti
emotivi, ai quali lui non partecipava. Probabilmente questi sfoghi
simboleggiavano la tensione che non si scaricava tra loro sessualmente.
Il marito rifiutava le sue sfide violente, le sue ostilità primitive. Si
rifiutava di scendere con lei in questa arena emotiva e di accontentare
il suo bisogno di gelosia, di paure, di battaglie. Forse, se avesse
accettato le sue sfide e si fosse prestato di più ai suoi giochi, la
moglie avrebbe sentito la sua presenza con un maggior impatto fisico. Ma
il marito di Lilith non conosceva i preludi al desiderio sessuale, non
conosceva nessuno degli stimolanti che certe nature selvagge richiedono,
e così, invece di assecondarla, non appena la vedeva con i capelli
elettrici, il viso più vivace, gli occhi come fulmini, il corpo inquieto
e scattante come quello di un cavallo da corsa, si ritirava dietro a una
parete di comprensione oggettiva, a una gentile accettazione ironica di
lei, come uno che guarda un animale allo zoo, e sorride dei suoi giochi,
ma non riesce a condividerne l'umore. E questo lasciava Lilith in uno
stato di isolamento; davvero come un animale selvaggio in un deserto.
Quando infuriava e quando le si alzava la temperatura, il marito era
irreperibile. Era come un cielo mite che guardava in giù verso lei, in
attesa che il temporale si placasse. Se anche lui, come un animale
egualmente primitivo, fosse apparso all'altra estremità di questo
deserto, affrontandola con la stessa tensione elettrica di capelli,
occhi, pelle, se fosse apparso con lo stesso corpo da giungla,
muovendosi pesantemente, aspettando solo un pretesto per balzare,
abbracciare con furia, sentire il calore del suo avversario, allora
avrebbero potuto rotolarsi insieme, e i morsi sarebbero diventati
d'altro genere, e lo scontro avrebbe potuto trasformarsi in un
abbraccio, e gli strattoni ai capelli avrebbero potuto avvicinare le
bocche, i denti, le lingue. E nella furia i genitali avrebbero potuto
sfregare gli uni contro gli altri, liberando scintille, e i due corpi
avrebbero dovuto compenetrarsi per por fine alla tensione estrema. E
così, anche quella sera, lui sedeva con la solita espressione negli
occhi, mentre lei stava sotto una lampada a dipingere furiosamente un
oggetto come se, dopo averlo dipinto, fosse pronta a mangiarselo in un
boccone. Il marito le disse: "Non era saccarina quella che ti ho portato
e che hai messo nel caffè. Era cantaride, un afrodisiaco." Lilith era
sconcertata. "E tu mi hai fatto prendere una cosa del genere?" "Sì,
volevo vedere che effetto ti faceva. Pensavo potesse essere piacevole
per tutti e due." "Oh, Billy," disse Lilith, "che razza di scherzo! E ho
promesso a Mabel che saremmo andate al cinema insieme. Non posso
deluderla, è stata chiusa in casa per una settimana. Pensa se incomincia
a farmi effetto al cinema!" "Be', se gliel'hai promesso devi andare.
Vuol dire che starò sveglio ad aspettarti." Così, in uno stato di alta
tensione febbrile, Lilith andò a prendere Mabel. Non osò confessarle lo
scherzo del marito. Le vennero in mente tutte le storie che aveva
sentito sulla cantaride. Nel diciottesimo secolo, in Francia gli uomini
l'avevano usata senza parsimonia. Le venne in mente la storia di un
aristocratico che, all'età di quarant'anni, quando incominciava a
risentire delle assidue attenzioni amorose prestate a tutte le belle
donne del suo tempo, si innamorò così appassionatamente di una ballerina
di soli vent'anni, che passò tre giorni e tre notti intere a far l'amore
con lei, con l'aiuto della cantaride. Lilith cercò di immaginarsi come
poteva essere un'esperienza del genere, e incominciò a temere che
l'effetto della droga si scatenasse in un momento inaspettato,
costringendola a correre a casa e confessare al marito il proprio
desiderio. Seduta nel cinema al buio, non riuscì a seguire la pellicola.
Aveva un caos in testa. Era seduta rigidamente sull'orlo della poltrona,
e cercava di individuare gli effetti della droga. Si tirò su con uno
strattone quando si accorse che era rimasta seduta a gambe aperte e con
la sottana fin sopra le ginocchia. Pensò che fosse una manifestazione
della sua già crescente febbre sessuale. Cercò di ricordare se si era
mai seduta al cinema in quella posizione, prima d'allora. Considerava lo
stare a gambe aperte come una delle posizioni più oscene che si
potessero immaginare, e per di più si rese conto che le persone sedute
nella fila di fronte, molto più in basso, avrebbero potuto guardarle
sotto la sottana e regalarsi la bella vista delle sue mutandine e delle
giarrettiere nuove che aveva comprato proprio nel pomeriggio. Sembrava
che tutto cospirasse per una notte di orgia. Intuitivamente doveva aver
previsto tutto quando era andata a comprarsi le mutandine con le gale di
pizzo e le giarrettiere di un corallo intenso che si addicevano a
meraviglia alle sue gambe lisce da ballerina. Ricompose le gambe con
rabbia. Pensò che se questa violenta disposizione sessuale si fosse
impadronita di lei in quel momento, non avrebbe saputo cosa fare. Doveva
alzarsi di scatto e andarsene, adducendo un mal di testa? Oppure poteva
rivolgersi a Mabel? Mabel l'aveva sempre adorata. Avrebbe osato volgersi
a Mabel e accarezzarla? Aveva sentito parlare di donne che si
accarezzavano a vicenda al cinema. Una sua amica, una volta, si era
seduta nel buio di un cinema, e molto lentamente la mano della compagna
le aveva slacciato l'apertura della gonna, si era abbassata sul suo
sesso e l'aveva accarezzata a lungo, fino a farla venire. Quante volte
questa amica aveva ripetuto la deliziosa esperienza di sedere immobile,
controllando la metà superiore del corpo, seduta eretta e ferma, mentre
una mano la accarezzava nel buio, segretamente, lentamente,
misteriosamente? Era questo che sarebbe successo ora a Lilith? Non aveva
mai accarezzato una donna. A volte aveva pensato tra sé come doveva
esser bello accarezzare una donna, la rotondità del culo, la morbidezza
del ventre, quella pelle così morbida tra le gambe, e aveva cercato di
accarezzarsi, nel suo letto al buio, proprio per figurarsi cosa doveva
essere toccare una donna. Si era spesso accarezzata i seni, immaginando
che fossero di un'altra. Ora, a occhi chiusi, ricostruì l'immagine del
corpo di Mabel in costume da bagno, Mabel con i seni rotondi che quasi
sprizzavano dal reggiseno, con la bocca ridente, piena e morbida. Come
sarebbe stato bello! Ma tuttavia, tra le sue gambe non c'era ancora un
calore tale da farle perdere il controllo e spingerla ad allungare la
mano verso Mabel. Le pillole non avevano ancora fatto effetto. Era
ancora indifferente, persino repressa, tra le gambe c'era una rigidezza,
una tensione. Non riusciva a rilassarsi. Se toccava Mabel ora, non
avrebbe saputo far seguire un gesto più audace. Chissà se Mabel
indossava una gonna che si apriva di lato, chissà se le sarebbe piaciuto
essere accarezzata? Lilith diventava sempre più inquieta. Ogni volta che
dimenticava se stessa, le gambe le si spalancavano in quella posizione
che le sembrava tanto oscena e invitante, come quei movimenti che aveva
visto nelle danze balinesi, in cui le gambe si aprivano e si
allontanavano dal sesso, lasciandolo senza protezione. Il film terminò e
Lilith guidò silenziosamente la macchina lungo le strade buie. I fari
colpirono un'automobile parcheggiata sul bordo della strada e
illuminarono all'improvviso una coppia che non si stava accarezzando nel
solito modo sentimentale. La donna era seduta sulle ginocchia dell'uomo,
di schiena, l'uomo si stava sollevando tutto teso verso di lei, con
tutto il corpo nella posa di chi sta raggiungendo un orgasmo. Era in uno
stato tale, che non riuscì a interrompersi quando i fari lo
illuminarono. Si allungò tutto, in modo da sentire meglio la donna
seduta sopra di lui, e questa ondeggiò quasi priva di coscienza per il
piacere. Lilith rimase senza fiato a quella vista e Mabel disse: "Li
abbiamo sorpresi proprio nel momento migliore." E rise. Dunque Mabel
conosceva questo apice di piacere che a Lilith era ancora ignoto, e che
avrebbe tanto voluto sperimentare. Le venne voglia di chiedere
all'amica: "Com’è?" Ma l'avrebbe saputo presto. Sarebbe stata costretta
a dar libero corso a tutti quei desideri che di solito sperimentava solo
nelle sue fantasie, nei sogni a occhi aperti che riempivano le sue ore
quando era sola in casa. Seduta a dipingere pensava: Ora entra un uomo
di cui sono molto innamorata. Entra nella stanza e mi dice: "Lascia che
ti spogli." Mio marito non mi spoglia mai, si sveste da solo e si mette
a letto, poi, se mi vuole, spegne la luce. Ma quest'uomo entrerà e mi
svestirà lentamente, pezzo per pezzo, e questo mi darà modo di sentirlo,
di sentire le sue mani su di me. Prima di tutto mi toglierà la cintura,
mi prenderà la vita tra le mani e dirà: "Che bella vita hai, come è
sinuosa, com’è snella!" Poi mi sbottonerà la camicetta molto lentamente,
e io sentirò le sue mani che slacciano ogni bottone e che mi toccano i
seni a poco a poco, finché emergeranno dalla camicetta, e allora lui li
amerà e mi succhierà i capezzoli come un bambino, facendomi un po' male
coi denti, mi riempirà di sensazioni per tutto il corpo, sciogliendo
ogni nodo di tensione, dissolvendomi. Con la sottana sarà più
impaziente, e la strapperà un po': sarà in uno stato tale di desiderio!
Non spegnerà la luce, e continuerà a guardarmi bruciante di desiderio,
ammirandomi, adorandomi, scaldandomi il corpo con le mani, e aspetterà
finché non sarò completamente eccitata, in ogni particella della pelle.
Stava forse facendole effetto la cantaride? No, era illanguidita, e le
sue fantasie si riaffacciavano, per l'ennesima volta, tutto lì. Eppure,
la vista della coppia nella macchina, il loro stato di estasi, era
qualcosa che voleva conoscere. Quando arrivò a casa, suo marito stava
leggendo. La guardò e le sorrise maliziosamente. Lilith non voleva
confessargli che le pillole non le avevano fatto effetto: era una
delusione tremenda per lei. Che donna fredda era, non c'era niente che
riuscisse ad alterarla, neanche la droga che aveva permesso a un
nobiluomo del diciottesimo secolo di fare l'amore per tre giorni e tre
notti di fila, ininterrottamente. Si sentiva un mostro. Persino suo
marito doveva rimanerne all'oscuro. Avrebbe riso di lei. Avrebbe finito
per cercarsi una donna più sensuale. Allora incominciò a spogliarsi
davanti a lui, camminando avanti e indietro nuda, spazzolandosi i
capelli davanti allo specchio. Di solito non lo faceva mai perché non
voleva che lui la desiderasse. Non le piaceva. Era qualcosa da consumare
in fretta, a beneficio di lui soltanto. Per lei era un sacrificio. La
sua eccitazione e il suo piacere, che lei non condivideva, le
risultavano piuttosto ripugnanti. Si sentiva come una puttana che prende
dei soldi per cose del genere. Era una puttana priva di sentimenti che,
in cambio dell'amore e della devozione del marito, gli buttava in faccia
questo suo corpo vuoto e insensibile. Si vergognò di essere così morta,
in fondo al corpo. Ma quando finalmente si infilò a letto, lui le disse:
"Non credo che la cantaride ti abbia fatto abbastanza effetto. Ho sonno,
svegliami se..." Lilith cercò di dormire, ma non ci riuscì, aspettandosi
di impazzire di desiderio da un momento all'altro. Dopo un'ora si alzò e
andò in bagno. Trovò la boccetta e prese dieci pillole in un colpo solo,
pensando: "Adesso dovrebbe funzionare." E incominciò ad aspettare.
Durante la notte, il marito scivolò nel suo letto, ma Lilith era così
chiusa tra le gambe che non riuscì a bagnarsi, e dovette umettare con la
saliva il pene del marito. Il mattino dopo si svegliò piangendo. Il
marito le chiese co me mai, e lei gli disse la verità. Allora lui disse:
"Ma Lilith, era solo uno scherzo. Non c'era nessuna cantaride. Ti ho
solo fatto uno scherzo." Ma da quel momento, Lilith rimase ossessionata
dall'idea che potessero esserci dei modi per eccitarsi artificialmente.
Provò tutte le formule delle quali aveva sentito parlare. Provò a bere
grandi tazze di cioccolata con dentro un sacco di vaniglia. Provò a
mangiare cipolle. L'alcool non le faceva l'effetto che faceva ad altri,
perché fin dall'inizio era in guardia contro le sue conseguenze. Non
riusciva a dimenticare se stessa. Aveva sentito parlare di palline
speciali che venivano usate in India come afrodisiaci. Ma come
procurarsele? A chi rivolgersi? Le donne indiane le inserivano nella
vagina. Erano fatte di una gomma speciale, molto soffice, con una
superficie morbida, simile alla pelle. Quando venivano introdotte nel
sesso, si modellavano secondo la sua forma e si muovevano quando si
muoveva la donna, adattandosi con sensibilità a ogni movimento dei
muscoli, provocando una titillazione molto più eccitante di quella del
pene o di un dito. A Lilith sarebbe piaciuto trovarne una, e tenersela
dentro giorno e notte.



DIARIO DI UN DOLORE
C.S. Lewis
Traduzione di Anna Ravano
ADELPHI 2000


Nessuno mi aveva mai detto che il dolore assomiglia tanto alla paura. Non che io abbia paura: la somiglianza è fisica. Gli stessi sobbalzi dello stomaco, la stessa irrequietezza, gli sbadigli. Inghiotto in continuazione.
Altre volte è come un'ubriacatura leggera, o come quando si batte la testa e ci si sente rintronati. Tra me e il mondo c'è una sorta di coltre invisibile. Fatico a capire il senso di quello che mi dicono gli altri. O forse, fatico a trovare la voglia di capire. E così poco interessante. Però voglio avere gente intorno. Ho il terrore dei momenti in cui la casa è vuota. Ma vorrei che parlassero fra loro e non a me.
Ci sono momenti, del tutto inattesi, in cui qualcosa dentro di me cerca di rassicurarmi che soffro, sì, ma non così intollerabilmente. Nella vita di un uomo l'amore non è tutto. Ero felice già prima di conoscere H. Ho parecchie «risorse », come si dice. Queste sono cose che tutti superano. Ma sì, me la caverò. Ci si vergogna di ascoltare questa voce, ma per un po' gli argomenti sembrano persuasivi. Poi, d'un tratto, la stilettata rovente di un ricordo, e tutto quel «buonsenso» svanisce, come una formica nella bocca di una fornace.
Per reazione si passa all'emotività e alle lacrime. Al patetismo lacrimoso. Preferisco, quasi, i momenti di angoscia. Almeno sono puliti e onesti. Mentre il bagno di autocommiserazione, il crogiolarsi nella sofferenza, l'orrida e appiccicosa voluttà del pianto - che disgusto! E nell'atto stesso di cedervi, so che mi porta a un'immagine falsa di H. Se gli do via libera, in pochi minuti alla donna reale avrò sostituito un fantoccio su cui singhiozzare senza ritegno. Grazie a Dio, il ricordo di lei è ancora troppo forte (lo sarà sempre?) per permettermi di farla franca.
Perché H. era tutto il contrario. La sua mente era agile, scattante e muscolosa come un leopardo. Una mente che né passione, né affetto, né sofferenza potevano disarmare. Coglieva nell'aria il minimo sentore di ipocrisia o di vacuità; poi spiccava il balzo, e ti atterrava prima ancora che tu capissi che cosa era successo. Quante mie bolle di sapone ha fatto scoppiare! Ho imparato presto a non dire idiozie con lei, se non per il puro piacere (un'altra stilettata rovente) di essere smascherato e canzonato. Non sono mai stato meno fatuo che come amante di H.
E nessuno mi aveva mai detto della pigrizia del dolore. Tranne che nel lavoro, dove la macchina sembra funzionare più o meno come al solito, ho orrore di ogni sforzo, anche minimo. Non dico scrivere, ma perfino leggere una lettera è troppo. Perfino farmi la barba. Che importa ora se la mia guancia è liscia o ruvida? Dicono che chi è infelice vuole distrazioni - qualcosa che lo aiuti a non pensare. Sì, ma come un uomo stremato, in una notte fredda, vuole sul letto un'altra coperta: piuttosto che alzarsi a cercarla, preferisce continuare a battere i denti. Si capisce perché le persone sole diventano sciatte; e, alla fine, sporche e disgustose.
E intanto, dov'è Dio? Di tutti i sintomi, questo è uno dei più inquietanti. Quando sei felice, così felice che non avverti il bisogno di Lui, così felice che sei tentato di sentire le Sue richieste come un'interruzione, se ti riprendi e ti volgi a Lui per ringraziarlo e lodarlo, vieni accolto (questo almeno è ciò che si prova) a braccia aperte. Ma vai da Lui quando il tuo bisogno è disperato, quando ogni altro aiuto è vano, e che cosa trovi? Una porta sbattuta in faccia, e il rumore di un doppio chiavistello all'interno. Poi, il silenzio. Tanto vale andarsene. Più aspetti, più il silenzio ingigantisce. Non ci sono luci alle finestre. Potrebbe essere una casa vuota. È mai stata abitata? Un tempo, lo sembrava. Ed era una impressione altrettanto forte di quella di adesso. Che cosa significa? Perché il Suo imperio è così presente nella prosperità, e il Suo soccorso così totalmente assente nella tribolazione?
Ho cercato di spiegare alcuni di questi pensieri a C., oggi pomeriggio. Mi ha ricordato che la stessa cosa sembra essere accaduta a Cristo:« Perché mi hai abbandonato? ». Lo so. Questo la rende più facile da capire?
Non che io sia in pericolo (mi sembra) di smettere di credere in Dio. Il vero pericolo è di arrivare a credere di Lui queste cose orribili. La conclusione che pavento non è: «Dio, dunque, non esiste », ma: « È questa, dunque, al di là di ogni illusione, la vera realtà di Dio ».
I nostri antenati chinavano il capo e dicevano: «Sia fatta la Tua volontà ». Quante volte, per puro terrore, si era soffocata una protesta rabbiosa, nascondendo il tutto sotto una professione d'amore?
Una risposta, fin troppo facile, è che Dio sembra assente nel momento del nostro maggior bisogno appunto perché è assente, perché non esiste. Ma allora perché sembra così presente quando noi, per dirla con franchezza, non Lo cerchiamo?
Una cosa, comunque, devo al matrimonio. Mai più crederò che la religione sia un prodotto dei nostri appetiti inconsci e insoddisfatti e un surrogato del sesso. I pochi anni che io e H. abbiamo passato insieme sono stati un vero banchetto d'amore; l'amore in tutte le sue modulazioni: solenne e festoso, romantico e realistico, a volte clamoroso come un temporale, a volte dimesso e accogliente come infilarsi le pantofole. Non un angolo del cuore e del corpo è rimasto insoddisfatto. Se Dio fosse un surrogato dell'amore, avremmo dovuto perdere ogni interesse per Lui. Perché sprecare il tempo con i surrogati, quando si ha l'originale? Ma non è così. Sapevamo entrambi che volevamo qualcosa oltre l'altro - qualcosa di affatto diverso, il cui bisogno era affatto diverso. Tanto varrebbe dire che due amanti, ciascuno avendo l'altro, non vorranno mai più leggere, mangiare, o respirare.
Anni fa, dopo la morte di un amico, la certezza che la sua vita continuava, che anzi continuava su un piano più alto, fu per qualche tempo una sensazione nettissima. Ho supplicato che mi venga data anche solo la centesima parte di quella assicurazione per H. Non c'è risposta. Solo la porta sbarrata, la cortina di ferro, il vuoto, lo zero assoluto. «Chi chiede non ottiene». Sono stato uno sciocco a chiedere. Perché ora, anche se quella assicurazione venisse, ne diffiderei. La crederei un'autoipnosi indotta dalle mie preghiere.
In ogni caso, devo stare alla larga dagli occultisti. L'ho promesso a H. Lei ne sapeva qualcosa, di quegli ambienti.
Mantenere le promesse fatte ai morti, o a chiunque altro, è un ottimo proposito. Ma comincio a capire che il « rispetto per le volontà dei defunti» è una trappola. Ieri mi sono frenato appena in tempo mentre stavo per dire, a proposito di non so che sciocchezza: «A H. non sarebbe piaciuto». È un'ingiustizia verso gli altri. Presto userei « quello che sarebbe piaciuto a H. » come strumento di tirannia domestica e i presunti gusti di H. diventerebbero una maschera, sempre più trasparente, dei miei.
Non posso parlare di lei con i ragazzi. Al primo accenno, sul loro viso compare non il dolore, non l'amore, o la paura, o la pietà, ma ,quel micidiale isolante che è l'imbarazzo. E come se io commettessi una sconvenienza. Non vedono l'ora che la smetta. Anch'io reagivo allo stesso modo, dopo che morì mia madre, quando mio padre la nominava. Non gliene faccio una colpa. I ragazzi sono fatti così.
Qualche volta penso che la vergogna, la pura e semplice vergogna goffa e assurda, non sia da meno dei nostri vizi nell'impedire le buone azioni e una felicità schietta. E non solo nell'adolescenza.
O forse i ragazzi hanno ragione? Che cosa penserebbe H. di questo terribile quadernetto al quale ritorno incessantemente? Sono morbose, queste note? Ricordo una frase letta non so dove: «Passai una notte insonne con il mal di denti, pensando al mal di denti e alla mia insonnia ». È l'esempio di una verità generale. Ogni infelicità è in parte, per così dire, l'ombra o il riflesso di se stessa: non è soltanto il proprio soffrire, ma è anche il dover pensare continuamente al proprio soffrire. lo non solo vivo ogni interminabile giorno nel dolore per la sua morte, ma lo vivo pensando che vivo ogni giorno nel dolore. E se queste note servissero solo a esasperare questo secondo aspetto? A ribadire il monotono lavorio della mente intorno a un unico pensiero? Ma che cosa devo fare? Ho bisogno di un anestetico, e leggere, adesso, non è una droga abbastanza forte. Scrivere tutto (tutto? no: un pensiero su mille) mi serve, io credo, per discostarmene un poco. Questo direi a H. per difendermi. Ma lei, ci scommetto, troverebbe subito un punto scoperto nella mia difesa.
E non sono solo i ragazzi. Una strana conseguenza del mio lutto è che mi rendo conto di essere imbarazzante per tutti quelli che incontro. Al lavoro, al club, per strada, quando qualcuno mi avvicina, gli leggo in faccia l'incertezza se « accennarne » o no. Per me è odioso sia che ne parlino sia che non ne parlino. Alcuni, poi, battono in ritirata. R. mi evita da una settimana. Molto, molto meglio i giovanotti educati, poco più che ragazzi, che mi affrontano come se fossi il dentista, avvampano, si tolgono il peso e, appena le buone maniere lo permettono, sgattaiolano verso il bar. Forse chi è in lutto dovrebbe essere isolato in quartieri speciali, come i lebbrosi.
Per alcuni sono peggio che un imbarazzo: sono un teschio. Quando incontro due sposi felici, so che pensano: «Un giorno uno di noi due sarà come è lui ora».
All'inizio mi atterriva l'idea di ritornare nei posti dove H. e io siamo stati felici: il nostro pub preferito, il nostro bosco. Ma ho deciso di farlo subito: come quando si rimanda in servizio un pilota che ha appena avuto un incidente di volo. Con mia sorpresa, non è successo nulla. La sua assenza non è più insistente in quei luoghi che altrove. Non è un'assenza localizzata. Se ci venisse proibito il sale, probabilmente non ne sentiremmo la mancanza più in una pietanza che in un'altra. Tutto il cibo sarebbe diverso, ogn~ giorno, ad ogni pasto. Ora è lo stesso. E l'atto di vivere che è diverso in ogni momento. La sua assenza è come il cielo: si stende sopra ogni cosa.
No, non è del tutto vero. C'è un luogo dove avverto la sua assenza in modo localizzato, ed è un luogo che non posso evitare. Il mio corpo. Quando era il corpo dell'amante di H. aveva ben altra importanza. Adesso è come una casa vuota. Ma non voglio illudermi. Ridiventerebbe subito importante, eccome, se scoprissi che ha qualcosa che non va.
Cancro, cancro, e ancora cancro. Mia madre, mio padre, mia moglie. A chi toccherà ora?
Ma H. stessa, che ne moriva e lo sapeva, diceva di aver perduto gran parte del suo antico orrore. Quando giunse la realtà, il nome e l'idea erano ormai in qualche misura disarmati. E fino a un
certo punto arrivai quasi a capirlo anch'io. Questo è importante. Non si hanno mai di fronte semplicemente il Cancro, o la Guerra, o l'Infelicità (o la Felicità). Si ha di fronte ciascuna ora o momento singolarmente. Alti e bassi di ogni genere. Molti punti neri nei momenti buoni, molti punti luminosi nei momenti peggiori. Non si ha mai l'impatto totale di quella che chiamiamo «la cosa in sé ». Che è poi un termine sbagliato. La cosa in sé è semplicemente la somma di tutti quegli alti e bassi; il resto è un nome o un'idea.
È incredibile quanta felicità, e persino quanta allegria, abbiamo a volte conosciuto insieme, dopo che ogni speranza era scomparsa. Come abbiamo parlato a lungo, quietamente, nutrendoci l'uno con l'altra, quell'ultima sera!
E tuttavia, non completamente insieme. C'è un limite all' essere « una carne sola». La debolezza dell'altro, la sua paura, la sua sofferenza non puoi farle tue. Potrai aver paura e soffrire anche tu. E forse pensabile che tu possa aver paura e soffrire quanto l'altro, anche se diffiderei subito di chi mi assicurasse che è così. Ma sarebbe pur sempre un soffrire diverso. Quando dico paura, intendo la nuda paura animale, l'arretrare dell'organismo davanti alla propria distruzione; l'impressione di soffocare; il sentirsi un
topo in trappola. Questo non lo si può trasmettere. La mente riesce a immedesimarsi, il corpo meno. Meno che mai, in un certo senso, i corpi di due amanti, perché tutti i loro scambi amorosi li hanno addestrati ad avere l'uno per l'altro sentimenti non identici, bensì complementari, correlativi, addirittura opposti.
Noi questo lo sapevamo entrambi. lo avevo le mie infelicità, e non le sue. Lei aveva le sue, e non le mie. La fine delle sue avrebbe reso adulte le mie. Ci stavamo incamminando su strade diverse. Questa fredda verità, questa terribile regolamentazione del traffico («Lei a destra, signora... Lei, signore, a sinistra»), non è che l'inizio di quella separazione che è la morte stessa.
E questa separazione ci attende tutti, presumo. Finora mi era parso che H. e io, strappati così l'uno all'altra, fossimo stati particolarmente sfortunati. Ma forse tutti gli amanti lo sono. Una volta mi disse: «Anche se morissimo entrambi nello stesso istante, qui, sdraiati fianco a fianco, non sarebbe meno separazione di quella che tu temi tanto ». Naturalmente neanche lei sapeva. Ma era vicina alla morte, abbastanza vicina da sfiorare la verità. Era solita citare: «Soli nell'Uno e Solo ». L'impressione, diceva, era quella. E com'è immensamente improbabile che sia altrimenti! Il tempo, lo spazio e il corpo sono state le cose che ci hanno uniti, i fili telefonici grazie ai quali comunicavamo. Isola uno dei due, o tutti e due insieme. In un caso o nell'altro la conversazione non dovrà forzatamente interrompersi?
A meno di non postulare l'immediata consegna di un altro mezzo di comunicazione, affatto diverso, ma che svolga la medesima funzione. Ma allora, a che scopo fornirci quello vecchio? Dio è forse un pagliaccio che ti strappa di mano la scodella di minestra e un attimo dopo te ne dà un'altra colma della stessa minestra? Neanche la natura arriva a questi punti. Nulla viene mai ripetuto tale e quale.
È difficile non irritarsi con quelli che dicono: «La morte non esiste », oppure: «La morte non ha importanza ». La morte esiste. E tutto ciò che esiste ha importanza. E tutto ciò che accade ha conseguenze ed è, come queste, irrevocabile e irreversibile. Tanto varrebbe dire che la nascita non ha importanza. Alzo gli occhi al cielo notturno. Vi è qualcosa di più certo del fatto che in tutte quelle vastità di tempi e di spazi, se mi fosse dato di cercare, non troverei mai il suo viso, la sua voce, il tocco della sua mano? È morta. Morta. È così difficile imparare questa parola?
Non ho belle foto di lei. Non riesco nemmeno a vedere distintamente il suo viso nell'immaginazione. E invece la faccia di un qualsiasi sconosciuto colta al volo stamane tra la folla mi apparirà forse con perfetta chiarezza questa notte, non appena chiuderò gli occhi. Certo, la spiegazione è semplice. I visi di coloro che meglio conosciamo li abbiamo visti in modi così vari, da tante angolature, in tante luci, con tante espressioni - al risveglio, nel sonno, nel riso, nel pianto, mentre mangiano, parlano, pensano - che queste impressioni si affollano tutte insieme nella nostra memoria e si annullano a vicenda lasciando un'immagine sfocata. Ma la sua voce è ancora viva. Il ricordo della sua voce, che in qualsiasi momento può fare di me un bimbo singhiozzante.
Ho riletto queste note per la prima volta e ne sono sbigottito. Da come parlo, chiunque penserebbe che la morte di H. conti soprattutto per l'effetto che ha avuto su di me. Il suo punto di vista sembra del tutto scomparso. Ho dimenticato quel suo: «C'era tanto per cui vivere! », gridato in un momento di angoscia? La felicità non le era stata data presto nella vita. Mille anni di felicità ininterrotta non sarebbero bastati a renderla blasée. Per tutte le gioie dei sensi, dell'intelletto e dello spirito, aveva un gusto fresco e intatto. Nulla sarebbe stato sprecato per lei. Amava più cose e più intensamente di chiunque altro io abbia conosciuto. Una nobile fame, rimasta a lungo insoddisfatta, aveva finalmente trovato il proprio cibo, e un attimo dopo quel cibo le fu strappato via. Il fato (o che altro è) gode a produrre un grande talento e a renderlo poi vano. Beethoven diventò sordo. Uno scherzo meschino, ai nostri occhi; la beffa di un idiota malevolo.
Devo pensare di più a H. e meno a me stesso.
Sì, d'accordo, ma c'è un intoppo. lo penso a lei quasi sempre. Penso alle cose che erano lei: le sue parole, gli sguardi, le risate, le azioni. Ma chi le sceglie e le mette insieme è la mia mente. Non è passato neanche un mese dalla sua morte, e già sento il lento e insidioso inizio di un processo che farà della H. a cui penso una donna sempre più immaginaria. Basata sui fatti, certo: non vi metterò (così spero, almeno) nulla di inventato. Ma la composizione non diventerà inevitabilmente sempre più cosa mia? Non c'è piùla realtà a frenarmi, ad arrestarmi di netto, come faceva tante volte la vera H., e in modi tanto inaspettati, con il suo essere totalmente lei e non me.
Il dono più prezioso che ho avuto dal matrimonio è stato questo continuo impatto con qualcosa di molto vicino e intimo e tuttavia sempre e inconfondibilmente altro, resistente - in una parola, reale. Tutta quest'opera dovrà andare distrutta? Ciò che io continuerò a chiamare H. è destinato a ricadere orribilmente nella fumosità delle mie vecchie fantasticherie di scapolo? Oh mia cara, mia cara, torna per un momento solo a scacciare questo meschino fantasma. Oh Dio, Dio, perché ti sei tanto adoperato a tirar fuori questa creatura dal suo guscio, se ora è condannata a strisciarvi dentro nuovamente, a essere risucchiata in esso?
Oggi ho rivisto un uomo che non vedevo da dieci anni. In tutto questo tempo avevo sempre creduto di ricordarmelo bene: il suo aspetto, il suo modo di parlare, le cose che diceva. I primi cinque minuti dell'uomo reale hanno polverizzato l'uomo del ricordo. Non che fosse cambiato. Tutt'altro. Continuavo a dirmi: «Ma certo, avevo dimenticato che la pensava così, che questo non gli piaceva, che conosceva il tale, che gettava indietro la testa a quel modo ». Tutte queste cose un
tempo le sapevo e nel rivederle le ho subito riconosciute. Ma erano svanite dal ritratto mentale che avevo di lui, e quando la sua presenza le ha rimesse alloro posto, l'effetto complessivo è stato diversissimo dall'immagine che mi ero portato dietro per tutti questi dieci anni. Come posso sperare che la stessa cosa non accadrà al mio ricordo di H.? Che non stia già accadendo? Lentamente, silenziosamente, come fiocchi di neve – quei fiocchi lievi che preannunciano una nevicata che durerà tutta la notte - sulla sua immagine si stanno depositando piccole scaglie di me, mie impressioni, mie scelte. E alla fine la forma reale ne sarà completamente nascosta. Dieci minuti, dieci secondi, della vera H. basterebbero a correggere tutto ciò. Ma anche se mi venissero concessi, un secondo più tardi i piccoli fiocchi ricomincerebbero a cadere. Il sapore aspro, mordente, purificatore, della sua alterità è scomparso.
Com'è trito e ipocrita dire: «Sarà sempre viva nel mio ricordo! ». Viva? Ma è proprio quello che non sarà mai più. Tanto varrebbe credere, come gli antichi egizi, che si possono trattenere i morti imbalsamandoli. Non riusciremo mai a persuaderci che se ne sono andati? Che cosa resta? Un cadavere, un ricordo, e (in alcune versioni) un fantasma. Parodie oppure orrori. Tre modi in più per dire «morto ». Era H. che amavo. Come potrei pensare di innamorarmi del mio ricordo di lei, di un'immagine creata dalla mia mente? Sarebbe una specie di incesto.
Ricordo il mio moto di ripugnanza, un mattino d'estate di molti anni fa, quando un omone dalla faccia allegra, entrando nel nostro cimitero con una zappa e un
annaffiatoio e tirandosi dietro il cancello, gridò da sopra la spalla a due amici: « Faccio una visitina a Ma' e vi raggiungo ». Voleva dire che andava a riassettare la tomba della madre, a strappare le erbacce e bagnare i fiori. Ne provai ripugnanza perché questo modo di sentire (la tomba, i fiori e tutto il resto) lo trovavo e lo trovo ancora semplicemente odioso, per non dire inconcepibile. Ma alla luce dei miei recenti pensieri, comincio a chiedermi se il punto di vista di quell'uomo, per chi lo può adottare (io non posso), non abbia i suoi vantaggi. Un'aiuola di due metri per uno era diventata «Ma' ». Era il simbolo che lui aveva trovato per la madre, il suo aggancio con lei. Prendersi cura di quell'aiuola era farle una visitina. Non potrebbe essere meglio, in un certo senso, che conservare e accarezzare un'immagine nella memoria? La tomba e l'immagine sono entrambe agganci con ciò che è irrecuperabile e simboli di ciò che è inimmaginabile. Ma l'immagine ha in più lo svantaggio di essere pronta a fare tutto quello che vogliamo. Sorriderà o si rabbuierà, sarà tenera, gaia, sboccata o polemica, secondo ciò che chiede il nostro umore. È una marionetta di cui reggiamo i fili. Non ancora, naturalmente. La realtà è troppo fresca: ricordi genuini e del tutto involontari possono ancora, grazie a Dio, irrompere e strapparmi di mano quei fili. Ma la fatale obbedienza dell'immagine, la sua insipida arrendevolezza, inevitabilmente cresceranno. L'aiuola, invece, è una realtà ostinata, resistente, spesso intrattabile, come certo era Ma' da viva. Come era H.
O come è. Posso in tutta onestà dire di credere che ora H. è qualcosa? La stragrande maggioranza della gente che incontro, per esempio sul lavoro, direbbe senz'altro di no. Anche se naturalmente con me non insisterebbe. Non ora, almeno. E io, che cosa penso davvero? Sono sempre riuscito a pregare per gli altri morti, e lo faccio ancora, con una certa fiducia. Ma quando cerco di pregare per H. mi arresto. Sono sbigottito, sopraffatto dallo smarrimento. Ho un'orribile sensazione di irrealtà, mi sembra di parlare nel vuoto di qualcosa che non esiste.
La ragione di questa differenza è anche troppo ovvia. Non si può mai sapere con quanta convinzione si crede a qualcosa, fino a quando la verità o la falsità di questo qualcosa non diventano una questione di vita o di morte. Prendiamo una corda: è facile dire che la credi sana e robusta finché la usi per legare un baule. Ma immagina di doverci restare appeso sopra un precipizio. Non vorresti prima scoprire fino a che punto te ne fidi? Lo stesso vale con la gente. Per anni sarei stato pronto a dire che avevo completa fiducia in B.R. Poi venne il momento in cui dovetti decidere se confidargli o no un segreto molto grave, e questo dilemma gettò una luce del tutto nuova su quella che io chiamavo la mia «fiducia» in lui. Scoprii che questa fiducia non esisteva. Solo un rischio vero mette alla prova la realtà di una convinzione. A quanto pare, la fede (ciò che io credevo fosse fede) che mi permette di pregare per gli altri morti mi è sembrata forte solo perché non mi è mai importato gran che, non mi è mai importato disperatamente, che quei morti esistessero o no. Eppure ero convinto del contrario.
Ma ci sono altre difficoltà. «Dov' è lei ora? ». Ossia, in quale luogo è lei in questo momento? Ma se H. non è un corpo - e il corpo che amavo non è certo più lei - H. non è in nessun luogo. E «questo momento» è una data o un punto della nostra sequenza temporale. È come se lei
fosse in viaggio senza di me e io dicessi, guardando l'orologio: «Chissà se ora è a Euston ». Ma se lei non sta procedendo a sessanta secondi al minuto lungo la stessa linea temporale su cui viaggiamo noi viventi, che cosa significa ora? Se i morti non sono nel tempo, o non sono nel tempo che noi conosciamo, esiste una chiara differenza, quando parliamo di loro, tra era, è e sarà?
Persone di buon cuore mi hanno detto: « È con Dio». Almeno in un senso, questo è certissimo. Essa è, come Dio, incomprensibile e inimmaginabile.
Ma mi pare che questa domanda, per quanto importante possa essere in sé, non sia poi molto importante in relazione al dolore. Supponiamo che le vite terrene che lei e io abbiamo condiviso per qualche anno siano in realtà solo la base, o il preludio, o l'aspetto terreno, di due inimmaginabili entità sovracosmiche ed eterne, raffigurabili come sfere o globi. Là dove il piano della Natura le interseca, ossia nella vita terrena, esse appaiono come due cerchi (il cerchio è la sezione di una sfera). Due cerchi che si toccavano. Ma questi due cerchi, e soprattutto il punto in cui si toccavano, sono proprio ciò che io piango, ciò che mi manca, ciò che ho fame di riavere. «Il suo viaggio continua» mi dite. Ma il mio cuore e il mio corpo gridano: ritorna, ritorna. Sii un cerchio che tocca il mio cerchio sul piano della Natura. Ma so che è impossibile. So che quello che voglio è proprio quello che non potrò mai ottenere. La vita di un tempo, gli scherzi, bere insieme, discutere, fare l'amore, le piccole e struggenti banalità. Da qualsiasi punto di vista, dire: «H. è morta» è lo stesso che dire: «Tutte queste cose sono finite ». Sono parte del passato. E il passato èil passato e questo è ciò che si intende per tempo, e il tempo è uno dei tanti no
mi della morte, e quanto al Cielo, è uno stato dove «le cose di prima sono passate ».
Parlatemi della verità della religione e ascolterò con gioia. Parlate mi del dovere della religione e ascolterò con umiltà. Ma non venite a parlarmi delle consolazioni della religione, o sospetterò che non capite.
A meno, naturalmente, di non prendere per buone tutte quelle storie di ricongiungimenti «sull'altra riva », dipinti in termini affatto terreni. Ma sono cose che non hanno nulla a che fare con le Scritture, cose derivate da inni e litografie dozzinali. Nella Bibbia non ce n'è traccia. E poi suonano false. Lo sappiamo che non
può essere così. La realtà non si ripete. Ciò che viene tolto e ciò che viene ridato non sono mai la stessa identica cosa. Com'è astuta l'esca degli occultisti! « Qui da noi le cose non sono poi tanto diverse». Sigari in Paradiso. Perché è questo che vorremmo tutti: riavere indietro il passato felice.
E questo, proprio questo, è ciò che imploro, a mezzanotte, con teneri nomi e suppliche follemente rivolti all'aria vuota.
E il povero C. mi cita: « Non siate contristati, come gli altri che non hanno speranza ». Mi stupiscono, questi inviti a riferire a noi stessi parole così manifestamente rivolte a chi è migliore di noi. Quel che dice san Paolo può essere di conforto solo a chi ama Dio più dei morti, e i morti più di se stesso. Se una madre piange non ciò che ha perduto lei, ma ciò che il suo bambino morto ha perduto, le è di conforto credere che egli non ha perduto il fine per cui è stato creato. E le è di conforto credere che anche lei, nel perdere la sua prima o la sua sola felicità naturale, non ha perduto una cosa più grande, la continua speranza di « glorificare Iddio e goderlo per l'eternità ». Un conforto per lo spirito eterno che è in lei e che è proteso verso Dio. Ma non per il suo spirito materno. La felicità specificamente materna per lei è un capitolo chiuso. Mai, in nessun luogo o tempo, avrà più il suo bambino sulle ginocchia, gli farà il bagno, gli racconterà una storia, farà progetti per il suo futuro, vedrà i propri nipoti.
Mi dicono che H. ora è felice, mi dicono che è in pace. Da dove traggono questa certezza? Non che io tema ciò che vi è di peggio. Una delle ultime cose che disse fu: « Sono in pace con Dio ». Non lo era stata sempre. E non ha mai mentito. E neppure si lasciava ingannare facilmente, soprattutto a proprio favore. No, non è questo che voglio dire. Ma perché sono tanto sicuri che la morte metta fine ai tormenti? Più della metà del mondo cristiano e milioni di orientali credono il contrario. Come fanno a sapere che è « in pace»? Perché la separazione (per non dire altro) che tanto strazia chi rimane dovrebbe essere indolore per chi se ne va?
« Perché è nelle mani di Dio». Ma se è per questo, lo era anche prima, nelle mani di Dio, e io ho visto quel che esse le hanno fatto qui. Diventano tutt'a un tratto più delicate, appena siamo usciti dal corpo? E se sì, perché? Se la bontà di Dio è in contraddizione con le sofferenze che ci vengono inflitte, allora o Dio non è buono oppure non esiste: perché nell'unica vita che conosciamo Egli ci fa soffrire al di là delle nostre paure più terribili e di ogni nostra capacità immaginativa. E se non c'è contraddizione, allora anche dopo la morte Egli può infliggerci sofferenze non meno insopportabili di prima.
A volte è difficile non dire: « Che Dio perdoni Dio ». A volte è difficile dire anche questo. Ma se la nostra fede è vera, Egli non l'ha fatto. Egli Lo ha crocifisso.
Suvvia, a che serve svicolare? Siamo sotto la lama, senza possibilità di fuga. La realtà, guardata fissamente, è insopportabile. E in che modo o perché una realtà come questa ha prodotto qua e là il fiore (o il bubbone) di quel fenomeno tremendo che chiamiamo coscienza? Perché ha prodotto esseri come noi, che possono vederla e che, vedendola, arretrano per il ribrezzo? E che, più strano ancora, vogliono vederla, e si affannano per scoprire com' è fatta, anche quando nessun bisogno li spinge, anche se la sua vista apre nel loro cuore una piaga incurabile? Persone come H., che voleva la verità ad ogni costo.
Se H. « non è », allora non è mai stata, e io ho scambiato per una persona una nube di atomi. La gente non esiste, non è mai esistita. La morte non fa che rivelare il vuoto che c'era da sempre. I cosiddetti vivi sono semplicemente quelli che non sono stati ancora smascherati. Tutti in bancarotta, anche se per alcuni non ancora dichiarata.
Ma questo deve essere assurdo! Il vuoto rivelato a chi? Bancarotta dichiarata a chi? Ad altre scatole di fuochi d'artificio o nubi di atomi. Non crederò mai - meglio: non mi è possibile credere - che un insieme di eventi fisici possa essere, o commettere, un errore riguardo ad altri insiemi di eventi fisici.
No, la mia paura reale non è il materialismo. Se fosse vero, noi - o ciò che scambiamo per « noi» - potremmo sfuggire alla lama. Un tubetto di sonniferi e sarebbe fatta. Ho molta più paura che siamo in realtà topi in trappola. O peggio: topi di laboratorio. Qualcuno, mi pare, ha detto: «Dio geometrizza sempre ». E se la verità fosse: «Dio viviseziona sempre»?
Prima o poi dovrò affrontare la domanda in parole povere. A parte i nostri disperati desideri, che ragione abbiamo per credere che Dio, qualunque metro di giudizio possiamo immaginare, sia « buono»? Tutte le prove manifeste non indicano esattamente il contrario? Che cosa abbiamo da opporre?
Abbiamo Cristo. Ma se si fosse sbagliato? Tra le Sue ultime parole ce ne sono alcune il cui significato potrebbe essere chiarissimo: aveva scoperto che l'Essere da Lui chiamato Padre era orribilmente e infinitamente diverso da quello che Lui aveva creduto. La trappola, preparata da tempo con tanta cura e tanta sottile astuzia, scattò infine, sulla croce. L'infame beffa era riuscita.
Ciò che soffoca in gola ogni preghiera e ogni speranza è il ricordo di tutte le preghiere che H. e io abbiamo offerto e di tutte le nostre false speranze. Speranze nate non solo dalle nostre illusioni, ma incoraggiate, imposte addirittura, da false diagnosi, da radiografie, da strane remissioni, da una guarigione temporanea che aveva quasi del miracoloso. Un passo dietro l'altro, siamo stati «menati per il naso ». E Lui ogni volta, mentre faceva mostra di misericordia, in realtà stava preparando il nuovo supplizio.
Queste righe le ho scritte ieri sera. Più che u,n pensiero, è stato un urlo. Riproviamo. E razionale credere in un Dio cattivo? O comunque, in un Dio tanto cattivo? Il Sadico Cosmico, l'idiota malevolo?
Direi che, se non altro, è troppo antropomorfico. Molto più antropomorfico, a ben riflettere, che raffigurarcelo come un maestoso vecchio re con la barba fluente. Questa immagine è un archetipo junghiano. Accomuna Dio ai re buoni e saggi delle fiabe, ai profeti, ai sapienti, ai maghi. Pur essendo (formalmente) il ritratto di un uomo, accenna a qualcosa che trascende l'umanità. Quanto meno, suggerisce l'idea di qualcosa di più vecchio di noi, qualcosa di più sapiente, qualcosa di insondabile. Lascia intatto il mistero. E quindi lascia spazio alla speranza. E quindi spazio a un timore o a una soggezione che non devono necessariamente essere la paura degli arbitrii di un potentato malevolo. Il ritratto che tracciavo ieri sera, invece, è solo quello di un uomo come S.C., che sedeva vicino a me a cena e mi raccontava che cosa aveva fatto ai gatti nel pomeriggio. Ora, un essere come S.C., ingrandito quanto si vuole, non saprebbe inventare o creare o governare alcunché. Preparerebbe le trappole e cercherebbe le esche. Ma non gli sarebbero mai venute in mente esche come l'amore, le risate, i narcisi, un tramonto sulla campagna gelata. Lui, fare un universo? Ma se non saprebbe nemmeno fare una battuta, fare un inchino, fare penitenza, fare amicizia.
O forse si potrebbe introdurre seriamente l'idea di un Dio cattivo per così dire dal retro, attraverso una sorta di calvinismo esasperato? Si potrebbe dire che noi siamo esseri caduti e depravati. Siamo a tal punto depravati che le nostre idee di bontà non contano nulla; anzi, peggio che nulla: il fatto stesso che consideriamo buono qualcosa è indizio presuntivo della sua intrinseca malvagità. Ora, Dio ha in effetti (le nostre peggiori paure sono vere) tutte le caratteristiche che noi giudichiamo cattive: caparbietà, vanità, vendicatività, ingiustizia, crudeltà. Ma tutti questi neri (così,sembrano a noi) in realtà sono bianchi. E solo la nostra. depravazione che ce li fa apparire neri.
E allora? All'atto pratico (e speculativo), questo fa piazza pulita di Dio. La parola buono applicata a Lui perde ogni senso, diventa un mero abracadabra. Non abbiamo alcun mq,tivo per obbedirgli. N emmeno la paura. E vero che abbiamo le Sue minacce e le Sue promesse. Ma perché dovremmo crederci? Se dal Suo punto di vista la crudeltà è «bene », forse anche me ntire è « bene». E anche se fossero vere, noi che ci guadagneremmo? Se le Sue idee di bene sono tanto diverse dalle nostre, quello che Lui chiama « Cielo» potrebbe a rigore essere quello che noi chiameremmo Inferno e viceversa. Infine, se le radici stesse della realtà ci appaiono così prive di senso - oppure, capovolgendo il ragionamento, se noi siamo degli irrimediabili imbecilli -, a che pro speculare su Dio o su qualunque altra cosa? Ecco che, appena si comincia a stringere, questo nodo si disfa.
Perché do spazio nella mia mente a queste disgustose idiozie? Spero forse che, mascherati da riflessione, i sentimenti si facciano sentire meno? Tutte queste note non sono forse gli assurdi contorcimenti di chi non vuole accettare il fatto che nella sofferenza non si può fare altro che soffrire? Di chi è ancora convinto che esista un sistema (se solo riuscisse a trovarlo!) per cambiare il soffrire in non soffrire. Stringi i braccioli della poltrona del dentista o tieni le mani in grembo, la cosa non cambia. Il trapano continua a trapanare.
E il dolore assomiglia sempre alla paura. Forse, più esattamente, alla tensione. O all'attesa: andare su e giù in attesa che succeda qualcosa. Dà alla vita una sensazione di perenne provvisorietà. A che scopo cominciare qualcosa? Non ne vale la pena. Mi è impossibile star fermo. Sbadiglio, cincischio, fumo troppo. Prima avevo sempre troppo poco tempo. Adesso non c'è altro che tempo. Tempo quasi allo stato puro, vuota sequenzialità.
Una carne sola. O, se si preferisce, una nave. Il motore di dritta è andato. lo, il motore di sinistra, devo tirare avanti in qualche modo fino al porto. O meglio, fino alla fine del viaggio. Come posso essere sicuro che esista un porto? E molto più probabile una costa sottovento, una notte nera, una burrasca assordante, frangenti di prua - e se da terra brillano luci, saranno certo lanterne agitate da chi mi vuole fare naufragare sugli scogli. Così è stato l'approdo di H. Così quello d.i mia madre. L'approdo, dico, non l'arrivo.
Non è vero che penso sempre a H. Il lavoro e la conversazione lo rendono impossibile. Ma i momenti in cui non penso a lei sono forse i peggiori. Perché allora, anche se ne ho dimenticato la ragione, tutto è velato da una vaga sensazione di errore, di difetto. Come in quei sogni dove non accade nulla di spaventoso nulla che valga la pena raccontare il mattino dopo a colazione - ma dove l'atmosfera e le cose sanno di morte. Così ora. Vedo le bacche del sorbo che stanno volgendo al rosso e per un attimo non so perché proprio queste bacche debbano mettermi addosso tanta tristezza. Sento suonare una pendola e il suono non ha più quel qualcosa di sempre. Che cos'ha il mondo? Perché è diventato così piatto, così meschino e consunto? Poi mi ricordo.
Questa è una delle cose che mi fanno paura. Lo strazio, i momenti di follia notturna, passeranno un po' alla volta, com' è nell' ordine della natura. Ma che verrà dopo? Solo questa apatia, questa mortale piattezza? Arriverà il momento in cui non mi chiederò più che cosa ha trasformato il mondo in un vicolo grigio perché troverò normale il suo squallore? Il dolore si acqueta dunque in una noia soffusa di una vaga nausea?
Emozioni, emozioni, sempre emozioni. Proviamo invece con la riflessione. Dal punto di vista razionale, la morte di H. quale nuovo fattore ha introdotto nel problema dell'universo? Quali ragioni mi ha dato per mettere in dubbio tutto ciò a cui credo? Che ogni giorno accadano cose del genere, e peggio, lo sapevo, e credevo di averlo messo in conto. Ero stato avvertito - mi ero avvertito - che non dovevo fare assegnamento sulla felicità terrena. Ci erano state persino promesse sofferenze. Rientravano nel programma. Ci era stato detto persino: « Beati quelli che piangono» e io l'avevo accettato. Non ho nulla che non fosse nei patti. Certo, è diverso quando accade a te e non agli altri, nella realtà e non nella fantasia. Sì, ma per un uomo sano di mente la differenza deve essere così grande? No. E non lo sarebbe per un uomo la cui fede fosse stata vera fede, la cui partecipazione alle pene altrui fosse stata vera partecipazione. La risposta è fin troppo chiara. Se il mio castello è crollato al primo colpo, è perché era un castello di carte. La fede che «aveva messo in conto queste cose» non era fede ma fantasia. Metterle in conto non era vera partecipazione umana. Se mi fosse veramente importato, come credevo, dei dolori del mondo, non sarei poi stato travolto dal mio. Era una fede immaginaria che si trastullava con gettoni innocui con sopra scritto «malattia», «sofferenza», «morte », «solitudine ». Credevo di avere fiducia nella corda, finché è venuto il momento di sapere se essa mi avrebbe retto. Ora che deve reggermi, scopro che la mia fiducia non esiste.
Nel bridge, mi dicono, si deve giocare a soldi, «altrimenti il gioco non è serio». Qui è la stessa cosa, a quanto pare. La dichiarazione - Dio o nessun Dio, Dio buono o Sadico Cosmico, vita eterna o il nulla - non è seria se non c'è una posta di qualche valore. E fino a che punto sia seria lo si scopre solo quando le puntate diventano paurosamente alte, quando si capisce che la posta in gioco non è un pugno di gettoni o di monetine, ma la nostra intera ricchezza. Niente che sia meno di questo può scuotere l'uomo (non, almeno, un uomo come me) dalle sue riflessioni meramente verbali e dalle sue convinzioni meramente immaginarie. Per farlo tornare in sé, il colpo deve prima rincretinirlo. Solo la tortura tira fuori la verità. Solo con la tortura egli riesce a scoprirla.
E io devo sicuramente ammettere (H. mi ci avrebbe obbligato con una o due stoccate) che, se il mio era un castello di carte, lo si doveva abbattere al più presto. E solo la sofferenza poteva farlo. Ma in tal caso il Sadico Cosmico ed Eterno Vivisezionatore diventa un'ipotesi non necessaria.
Quest'ultima annotazione vuole forse dire che sono incurabile, che quando la realtà manda in pezzi il mio sogno mi avvilisco e ringhio sotto il primo shock, e poi, con pazienza idiota, comincio a ricomporne i frammenti? E così sempre? Tutte le volte che il castello crollerà, io tornerò immancabilmente a rimetterlo insieme? È questo che sto facendo ora?
In effetti è probabile che quello che, se avverrà, io chiamerò « ripristino della fede» non sarà altro che un nuovo castello di carte. E per scoprirlo dovrò aspettare il prossimo colpo... magari la diagnosi di una malattia senza scampo nel mio corpo, o una guerra, o la mia rovina professionale per qualche tremendo errore. Ma qui sorgono due domande. In che senso può essere un castello di carte? Nel senso che le cose a cui credo ora sono solo un sogno, o nel senso che io sogno di credere ad esse?
Quanto alle cose a cui credo ora, perché i miei pensieri di una settimana fa dovrebbero essere più attendibili di quelli, migliori, di adesso? Mi pare di essere, in generale, più sano di mente adesso che non allora. Perché le disperate elucubrazioni di un uomo intontito (ho detto che era come aver battuto la testa) dovrebbero essere più credibili?
Perché non contenevano pietose illusioni? Perché l'essere tanto orribili le rendeva molto più probabilmente vere? Ma è possibile sognare di veder realizzate le proprie paure, oltre che i propri desideri. E poi, erano davvero così ripugnanti? No. In un certo senso mi piacevano. Riconosco persino che c'era una lieve riluttanza ad accettare i pensieri di segno opposto. Tutto quel parlare di un Sadico Cosmico non veniva tanto da una riflessione, quanto dall'odio. Ne ricavavo l'unico piacere possibile per chi è tormentato: il piacere di restituire i colpi. Erano solo vituperi, insulti, «dire in faccia a Dio quello che pensavo di Lui». E naturalmente, come in tutti gli insulti, «quello che pensavo» non significava quello che ritenevo fosse la verità, bensì solo quello che ritenevo L'avrebbe offeso di più (e con Lui i Suoi adoratori). Sono cose che non si dicono mai senza un certo gusto. Ci si toglie «il peso dallo stomaco », e per un po' si sta meglio.
Ma lo stato d'animo non dimostra nulla. È chiaro che il gatto, sotto il bisturi, brontolerà e soffierà, e cercherà di mordere. Ma la vera questione è se chi opera è un vivisezionatore o un veterinario. Gli insulti del gatto non servono a scoprirlo.

Quando penso alle mie sofferenze, riesco a vedere in Lui il veterinario. Più difficile è quando penso alle sofferenze di lei. Che cos'è il dolore della mente di fronte a quello del corpo? Checché ne dicano gli sciocchi, il corpo può soffrire venti volte di più della mente. La mente ha sempre qualche via di fuga. Nel peggiore dei casi, il pensiero intollerabile ritorna continuamente, ma il dolore fisico può essere letteralmente ininterrotto. Il dolore spirituale è come un bombardiere che vola in cerchio e sgancia le sue bombe ogni volta che passa sull'obiettivo; il dolore fisico è come il fuoco di sbarramento in una trincea della Grande Guerra: ore e ore senza un momento di tregua. Il pensiero non è mai statico; il dolore fisico spesso lo è.
Ma che genere di amante sono, se in cima ai miei pensieri, molto prima di lei, metto la mia afflizione? Anche quel folle grido: «Ritorna! », l'ho lanciato pensando a me. Non mi è mai venuto in mente di chiedermi se un tale ritorno, ammettendo che fosse possibile, sarebbe un bene per lei. lo la rivoglio come ingrediente della restituzione del mio passato. Potevo augurarle qualcosa di peggio? Tornare indietro, dopo aver conosciuto la morte, e in un momento futuro dover ricominciare daccapo a morire? Stefano è detto il protomartire. Ma a Lazzaro non è toccato di peggio?
Comincio a capire. Il mio amore per H. era assai simile per qualità alla mia fede in Dio. Ma non voglio esagerare. Se nella fede ci fosse solo immaginazione, o nell'amore solo egoismo, questo lo sa Dio. lo no. Può darsi che ci fosse qualcosa di più; soprattutto nel mio amore per H. Ma né amore né fede erano quello che io credevo. C'era molto, in entrambi, del castello di carte.
Che importa come evolve questo mio dolore, o quel che io ne faccio? Che importa come la ricordo o se la ricordo? Nessuna di queste alternative allevierà o accrescerà i suoi tormenti passati.
I suoi tormenti passati. Come so che sono tutti passati? Non ho mai creduto mi è sempre parso sommamente improbabile - che un'anima, anche la più fedele, possa attingere d'un balzo la perfezione e la pace non appena cessato il rantolo della morte. Cominciare a crederlo ora sarebbe un'illusione doppiamente assurda. H. era un essere meraviglioso: un'anima diritta, scintillante e temprata come una spada. Ma non era una santa perfetta. Era una peccatrice sposata a un peccatore: due pazienti di Dio, non ancora guariti. So che non ci sono solo lacrime da asciugare, ma anche macchie da grattare via. La spada sarà resa ancora più scintillante.
Ma senza farle male, mio Dio! Senza farle troppo male! Già le spezzasti sulla ruota il corpo che essa vestiva, mese dopo mese, settimana dopo settimana. Non basta ancora?
La cosa terribile è che, sotto questo aspetto, un Dio perfettamente buono non incute meno paura di un Sadico Cosmico. Più siamo convinti che Dio ci fa soffrire solo per guarirci, meno credibile ci sembra che implorare di non far male serva a qualcosa. Un uomo crudele lo si potrebbe corrompere, potrebbe stancarsi del suo infame passatempo, potrebbe avere la sua parentesi di misericordia, come un alcoolizzato ha le sue parentesi di sobrietà. Ma mettiamo invece di avere a che fare con un chirurgo che ha a cuore solo il nostro bene. Più sarà buono e coscienzioso, più sarà inesorabile nel tagliare. Se cedesse alle suppliche, se interrompesse l'operazione prima della fine, tutto il dolore provato fino a quel momento sarebbe stato inutile. Ma è credibile che questi estremi di tortura siano necessari per noi? Ebbene, la scelta è presto fatta. Le torture ci sono. Se non sono necessarie, allora o Dio non esiste o è malvagio. Se c'è un Dio buono, allora queste torture sono necessarie. Perché, se non lo fossero, nessun Essere anche solo moderatamente buono potrebbe mai infliggerle o permetterle.
In un caso o nell'altro, non si scappa.
Che cosa vogliono dire quelli che proclamano: «Non ho paura di Dio, perché so che è buono »? Non sono mai stati da un dentista?
E tuttavia non lo si può sopportare. E allora si balbetta: «Potessi prendere su di me le sue sofferenze, o almeno le peggiori, o una parte». Ma è un' offerta non si sa quanto seria, perché non c'è posta in gioco. Se tutt'a un tratto lo scambio diventasse veramente possibile, allora, per la prima volta, scopriremmo se parlavamo sul serio. Ma viene mai concesso?
A Uno è stato concesso, ci dicono, e io scopro di poter ora nuovamente credere che Egli ha fatto in nostra vece ciò che in tal modo si può fare. Al nostro balbettare, Egli risponde: «Tu non puoi e non osi. lo potevo e ho osato».
È accaduta una cosa del tutto inattesa. Stamattina presto. Per una serie di ragioni, in sé niente affatto misteriose, mi sentivo il cuore più leggero di quanto non mi succedesse da settimane. Prima di tutto, è probabile che mi stia riprendendo dalla pura prostrazione fisica. L'altro ieri, poi, sono stato in movimento per dodici ore di fila, una stancata salutare, cui è seguito un sonno più lungo e più profondo del solito; e dopo dieci giorni di cielo basso e grigio e di umidità calda e immobile, è tornato il sole e si è levata una brezza leggera. E all'improvviso, proprio nel momento in cui il dolore per H. era meno forte, ho avuto di lei un ricordo vivo come non mai. Anzi, qualcosa di meglio (quasi) di un ricordo: è stata un'impressione istantanea, incontrovertibile. Dire che è stato come un incontro sarebbe troppo. Eppure aveva una qualità che quasi induce a usare quelle parole. E stato come se l'attenuarsi della pena avesse rimosso una barriera.
Perché nessuno mi ha mai detto queste cose? Come sarebbe stato facile essere ingiusto con un altro nella stessa situazione. Avrei detto forse: «Ne è venuto fuori. Ha dimenticato sua moglie», mentre la verità sarebbe stata: «La ricorda meglio perché ne è in parte venuto fuori ».
Questo il fatto. E credo di potergli dare un senso. E impossibile vedere bene quando,gli occhi sono offuscati dalle lacrime. E impossibile, il più delle volte, ottenere ciò che si vuole se lo si vuole troppo intensamente; o almeno, è impossibile trarne il meglio. «Facciamo una bella chiacchierata» è una frase che garantisce il silenzio generale. «Questa notte devo assolutamente dormire» è il preludio a ore di veglia. Le bevande più buone sono sprecate quando la sete è furibonda. Che sia quindi l'intensità stessa del rimpianto a far scendere la cortina di ferro, a darci l'impressione di fissare il vuoto quando pensiamo ai nostri morti? Chi chiede (o perlomeno, chi chiede con troppa insistenza) non ottiene. Forse se lo preclude.
Con Dio, forse, è lo stesso. A poco a poco ho cominciato a, sentire che la porta non è più sprangata. E stato il mio delirante bisogno a sbattermela in faccia? Forse, quando nell'anima non hai nulla se non un grido di aiuto, è proprio allora che Dio non può soccorrerti: sei come uno che annega e non può essere aiutato perché annaspa e si aggrappa alla cieca. Forse le tue stesse continue grida ti rendono sordo alla voce che speravi di sentire.
Però è stato detto: «Bussate e vi sarà aperto». Ma bussare significa dare pugni e calci alla porta come un invasato? E anche: «A chi ha sarà dato ». Dopotutto, a chi non ha la capacità di ricevere, neanche l'onnipotenza può dare. Forse il tuo stesso smaniare distrugge temporaneamente questa capacità.
Perché con Lui si può sbagliare in mille modi. Una volta, anni fa, quando non eravamo ancora sposati, H. fu assillata per tutta una mattina, mentre si occupava del suo lavoro, dall'oscura impressione che Dio, per così dire, le stesse «gomito a gomito », sollecitando la sua attenzione. E naturalmente, poiché non era una santa perfetta, pensò che si trattasse, come sovente accade, di qualche peccato di cui non si era pentita o di qualche noioso dovere. Alla fine si arrese (so anch'io come si continua a rimandare in questi casi) e Lo affrontò. Ma il messaggio era: «Voglio darti qualcosa», e di colpo fu piena di letizia.
Credo di cominciare a capire perché nel dolore di un lutto ci si sente come sospesi, in tensione: è per la frustrazione di tutti quegli impulsi che erano diventati abitudini. Pensieri, sentimenti, azioni, tutti, costantemente, avevano come oggetto H. Adesso il loro bersaglio non c'è più. Continuo a incoccare una freccia per forza di abitudine; poi mi ricordo, e devo mettere giù l'arco. Quante strade portano il pensiero a H. Ne prendo una, ma ora è sbarrata da un posto di blocco insormontabile. Quante strade un tempo; e ora, quanti culs-de-sac.
Perché una buona moglie racchiude in sé tante persone. Che cosa non era H. per me? Era mia figlia e mia madre, mia allieva e mia maestra, mia suddita e mia sovrana; e sempre, a mantenere tutte queste cose in soluzione, mio sodale, mio amico, mio camerata, mio compagno fidato. Mia amante, ma al tempo stesso tutto ciò che qualsiasi amico uomo (e ne ho di eccellenti) è stato ed è per me. Forse di più. Se non ci fossimo innamorati, saremmo rimasti ugualmente insieme per sempre, scandalizzando tutti. Questo volevo dire quella volta che la lodai per le sue «virtù maschili». Ma lei mi mise subito a tacere, chiedendo mi se mi sarebbe piaciuto essere lodato per le mie virtù femminili. Ben rintuzzato, cara. Però c'era qualcosa dell'Amazzone, qualcosa di Pentesilea e di Camilla. E tu, non meno di me, eri lieta che ci fosse. Eri lieta che io lo riconoscessi.
Salomone chiama la sua sposa «sorella ». Potrebbe una donna essere pienamente moglie se all'uomo, per un attimo, in uno stato d'animo particolare, non venisse quasi da chiamarla «fratello»?
« Era troppo perfetto per durare»: questo sono tentato di dire del nostro matrimonio. Ma lo si può intendere in due modi. Può essere un'espressione di cupo pessimismo: come se Dio, accortosi che due delle Sue creature erano felici, le avesse subito interrotte (« Basta! Finitela! »). Dio come la padrona di casa che durante un cocktail separa due ospiti che danno segno di aver cominciato una conversazione troppo seria. Ma potrebbe anche voler dire: «Aveva raggiunto la sua perfezione. Aveva realizzato ciò che era implicito in esso, e quindi non c'era motivo di prolungarlo». Come se Dio avesse detto: «Bravi, questo esercizio l'avete imparato proprio bene. Sono molto contento. Ora siete pronti per affrontare il prossimo ». Una volta che sappiamo risolvere le equazioni di secondo grado e ci proviamo gusto, l'insegnante non insiste e passa ad altro.
Perché noi abbiamo imparato qualcosa e abbiamo raggiunto qualcosa. Nascosta o esibita, c'è una spada che separa i sessi, finché un matrimonio totale non li riconcilia. È nostra arroganza definire « maschili» la schiettezza, la lealtà e la cavalleria quando le vediamo in una donna; è loro arroganza descrivere come « femminili» la sensibilità, il tatto o la dolcezza di un uomo. Ma, del resto, che poveri frammenti deformi di umanità devono essere gli uomini solo uomini e le donne solo donne, per rendere plausibili i sottintesi di tale arroganza. Il matrimonio sana questa frattura. Uniti, i due diventano pienamente umani. «A immagine di Dio Egli li creò». In questo modo, con un paradosso, questo carnevale di sessualità ci porta al di là del nostro sesso.
E poi uno dei due muore. E noi lo vediamo come un amore interrotto; come una danza arrestata a metà giravolta, o un fiore con la corolla miseramente strappata: qualcosa di troncato, e quindi privo della sua giusta forma. Ma è così? Se, come non posso fare a meno di sospettare, anche i morti sentono i tormenti della separazione (e questa potrebbe essere una delle loro pene purgatoriali), allora per entrambi gli amanti, e per tutte le coppie di amanti, senza eccezioni, la perdita dell'altro è una parte universale e integrante dell'esperienza d'amore. Essa segue il matrimonio con la stessa normalità con cui il matrimonio segue il corteggiamento o l'autunno l'estate. Non è un troncamento del processo, ma una delle sue fasi; non è l'interruzione della danza, ma la figura successiva. Noi siamo «tratti fuori di noi» dall'amata fin tanto che essa è qui. Poi viene la figura tragica della danza, nella quale dobbiamo imparare a essere ugualmente tratti fuori di noi, anche se la presenza corporea è stata tolta, dobbiamo imparare ad amare Lei, e a non ripiegare sull'amore del nostro passato, o del nostro ricordo, o del nostro dolore, o del nostro sollievo dal dolore, o sull'amore del nostro stesso amore.
Guardando indietro, vedo che solo poco tempo fa mi tormentava l'idea del mio ricordo di H. e di una sua possibile falsificazione. Per non so quale ragione (l'unica che mi venga in mente è il misericordioso buonsenso di Dio) ho smesso di preoccuparmene. E la cosa straordinaria è che, da quando ho smesso di preoccuparmene, lei mi viene incontro dappertutto. Venire incontro è un'espressione troppo forte. Non intendo nulla di lontanamente simile a un'apparizione o a una voce. E non intendo nemmeno un'esperienza fortemente emotiva legata a un momento particolare. E piuttosto come una sensazione discreta e tuttavia massiccia che lei sia, ora non meno di prima, una realtà con cui devo fare i conti.
«Fare i conti» è forse un'espressione poco felice. Viene in mente una donna dispotica, bisbetica. Come dire meglio? Forse «potentemente reale », oppure «ostinatamente reale»? E come se questa esperienza mi dicesse: «D'accordo, tu sei felicissimo che H. sia ancora una realtà. Ma ricorda che lo sarebbe comunque, ti piacesse o no. Le tue preferenze non sono state prese in considerazione ».
A che punto sono? Allo stesso punto, credo, di un vedovo d'altro genere che alla nostra domanda si fermerebbe un istante e, appoggiandosi alla vanga, risponderebbe: «Che volete? Non bisogna lamentarsi. Certo che è dura senza di lei. Ma, come si dice? sono tutte prove ». Siamo arrivati allo stesso punto, lui con la
sua vanga e io, che ora non sono molto bravo a scavare, col mio strumento. Ma è chiaro che il «sono tutte prove» deve essere capito nel modo giusto. Le prove non sono esperimenti che Dio fa sulla mia fede o sul mio amore per saggiarne la qualità. Lui, questa, già)a conosce; ero io che non la conoscevo. E piuttosto una chiamata in giudizio, dove Dio fa di noi gli imputati e al tempo stesso i testimoni e i giudici. Lui l'ha sempre saputo che il mio tempio era un castello di carte. L'unico modo per far sì che lo capissi anch'io era di buttarlo giù.
Venirne fuori così presto? Ma queste sono parole ambigue. Un conto è dire che un paziente sta venendone fuori dopo un'operazione di appendicite, altro è dirlo dopo l'amputazione di una gamba. In questo caso o il moncone si cicatrizza o l'uomo muore. Se si cicatrizza, il dolore atroce e incessante finirà; il paziente dopo qualche tempo ritroverà le forze e sarà in grado di muovere i primi passi sulla sua gamba di legno. N e sarà «venuto fuori ». Ma per tutta la vita, probabilmente, il moncone ogni tanto gli farà male, forse molto male; e lui sarà sempre un uomo con una gamba sola. Non avrà modo di dimenticarlo. Tutto sarà diverso: fare il bagno, vestirsi, sedersi e alzarsi in piedi, persino stare a letto. Tutto il suo modo di vivere sarà trasformato. Dovrà dire addio a piaceri e ad attività che prima dava per scontati. E anche a certi doveri. lo per ora sto imparando a muovermi con le stampelle. Forse tra un po' mi daranno una gamba di legno. Ma bipede non lo sarò mai più.
Però non posso negare che in un certo senso « mi sento meglio», e subito provo una sorta di vergogna, e l'impressione di avere per così dire l'obbligo di proteggere, coltivare e prolungare la mia infelicità. L'avevo letto nei libri, ma non avrei mai immaginato di sperimentarlo di persona. Sono sicuro che H. non approverebbe. Mi direbbe di non fare lo stupido. E lo stesso, ne sono convinto, farebbe Dio. Che cosa c'è dietro?
In parte, certo, la vanità. Vogliamo dimostrare a noi stessi che siamo amanti speciali, sublimi, eroi tragici: che nello sterminato esercito di chi ha subìto un lutto non siamo semplici fanti che affrontano pazientemente una lunga marcia. Ma questo non spiega tutto.
Credo che ci sia anche una confusione. In realtà noi non vogliamo il prolungarsi dello strazio iniziale: chi lo vorrebbe? Vogliamo un'altra cosa, di cui il dolore è un sintomo frequente, e poi scambiamo il sintomo per la cosa. L'altra sera ho scritto che la perdita della persona amata non è il troncamento dell'amore coniugale, bensì una delle sue fasi normali, come la luna di miele. Quello che vogliamo è vivere bene e fedelmente il nostro matrimonio anche in questa fase. Se fa male (come è inevitabile), accettiamo la sofferenza come sua parte necessaria. Non vogliamo sfuggirvi, se il prezzo è l'abbandono o il divorzio. Uccidendo il morto un'altra volta. Noi eravamo una carne sola. Ora che è stata tagliata in due, non vogliamo far finta che sia una e integra. Saremo sempre sposati, sempre innamorati. E perciò continueremo a sentir male. Ma questo male - se sappiamo capire noi stessi - non lo cerchiamo apposta. Meno lo sentiamo, meglio è, purché il matrimonio resti intatto. E se gioia può esserci nel matrimonio tra morto e vivente, tanto di guadagnato.

Tanto di guadagnato. Perché, come ho scoperto, l'abbandono al dolore, invece di legarci ai morti, ce ne distacca. Questo mi diventa sempre più chiaro. E proprio nei momenti in cui la pena è meno forte (al mattino, per esempio, quando entro nell'acqua del bagno) che H. invade di colpo la mia mente nella sua piena realtà, nella sua alterità. Non, come nei momenti peggiori, scorciata, resa patetica, resa solenne dalla mia cupezza, ma così come essa è, come è davvero. Questo fa bene, e tonifica.
Mi tornano in mente (ma non saprei citare nessun esempio) tutte quelle ballate e quei racconti popolari dove i morti vengono a dirci che il nostro pianto gli fa in qualche modo del male, e ci pregano di smettere. Sono storie nelle quali forse si cela una profondità che non sospettavo. E in tal caso, la generazione dei nostri nonni andava in una direzione completamente sbagliata. Tutti quei riti di cordoglio (magari per la vita) - visitare le tombe, celebrare gli anniversari, lasciare la camera da letto vuota esattamente come la teneva «lo scomparso », non pronunciare mai più il suo nome oppure pronunciarlo in tono speciale, e magari (come faceva la regina Vittoria) ordinare che ogni sera venissero preparati i suoi vestiti per la cena - erano una sorta di mummificazione. Che rendeva i morti ancora più morti.
O forse, inconsciamente, lo scopo era proprio questo? Forse qui entra in gioco qualcosa di molto primitivo. Assicurarsi che i morti restino ben morti, impedire loro di tornare di soppiatto tra i vivi, è una preoccupazione centrale del pensiero selvaggio. Bisogna ad ogni costo tenerli « giù ». Certo, tutti quei riti sottolineano il loro stato di morti. E forse questo risultato non era in realtà così sgradito, non sempre almeno, come credevano i ritualisti.
Non ho nessun diritto di giudicarli, però. Le mie sono solo supposizioni, e farei meglio a risparmiare il fiato per la mia minestra. Il mio programma, comunque, è chiaro: mi volgerò a lei quanto più spesso potrò in letizia. Magari salutandola con una risata. Meno la piango, mi sembra, più le sono vicino.
Un programma esemplare. Purtroppo non è realizzabile. Stanotte si sono riaperti gli abissi infernali del dolore, fresco come nei primi tempi: le parole folli, le proteste rabbiose, i sobbalzi dello stomaco, l'irrealtà da incubo, l'orgia di lacrime. Perché nulla resta «giù », nel dolore. Si è appena emersi da una fase, che ci si ritrova al punto di partenza. E poi ancora, e ancora. Tutto si ripete. È un girare in tondo, il mio, oppure oso augurarmi che sia una spirale? .
Ma se è una spirale, sto salendo o scendendo?
Quante volte (sarà per sempre?) dovrò contemplare sbigottito questo vuoto immenso come se lo vedessi per la prima volta, quante volte dovrò dire: «Solo adesso capisco ciò che ho perduto»? La gamba viene amputata una, dieci, cento volte. E sempre uguale ritorna il primo morso del coltello nella carne.
Dicono: «Il codardo muore molte volte ». Anche la persona amata. L'aquila di Prometeo non trovava a ogni pasto un fegato nuovo da straziare?
Questo è il quarto quaderno vuoto che ho trovato in casa, l'ultimo; non proprio vuoto, a dire il vero, perché in fondo ci sono alcune pagine con vecchi esercizi di matematica di J. Ho deciso che questo sarà il limite delle mie annotazioni. Non intendo cominciare a comprare quaderni apposta. Come argine al crollo totale, come valvola di sicurezza, questa cronaca è stata di qualche aiuto. Quanto all'altro fine che avevo in mente, ho scoperto che poggiava su un equivoco. Avevo pensato di poter descrivere uno stato, di fare una mappa dell'afflizione. Invece ho scoperto che l'afflizione non è uno stato, bensì un processo. Non le serve una mappa ma una storia, e se non smetto di scrivere questa storia in un punto del tutto arbitrario, non vedo per quale motivo dovrei mai smettere. Ogni giorno c'è qualche novità da registrare. Il dolore di un lutto è come una lunga valle, una valle tortuosa dove qualsiasi curva può rivelare un paesaggio affatto nuovo. Come ho già notato, ciò non accade con tutte le curve. A volte la sorpresa è di segno opposto: ti trovi di fronte lo stesso paesaggio che pensavi di esserti lasciato alle spalle chilometri prima. E allora che ti chiedi se per caso la valle non sia una trincea circolare. Ma no. Ci sono, è vero, ritorni parziali, ma la sequenza non si ripete.
Ecco, per esempio, una nuova fase, una nuova perdita. Cammino più che posso, perché sarei un idiota ad andare a letto non stanco. Oggi sono tornato a vedere vecchi luoghi familiari, in uno di quei lunghi giri in campagna che tanto amavo quando ero scapolo. E questa volta il viso della natura non era svuotato della sua bellezza e il mondo non sembrava (come lamentavo giorni fa) un vicolo grigio. Anzi, ogni orizzonte, ogni steccato, ogni macchia d'alberi, mi richiamava a una felicità antica, la mia felicità pre-H. Ma l'invito mi è sembrato orribile. La felicità alla quale mi chiamavano era insipida. Mi accorgo che non voglio tornare a essere felice a quel modo. Mi spaventa pensare anche solo alla possibilità di un semplice ritorno indietro. Perché questo destino mi parrebbe il peggiore in assoluto: raggiungere uno stato in cui i miei anni di amore e di matrimonio apparissero retrospettivamente come un gradevole episodio, una sorta di vacanza, che avesse per breve tempo interrotto la mia vita interminabile, per poi restituirmi immutato alla normalità. A poco a poco arriverei a sentirlo come irreale: come qualcosa di tanto estraneo alla trama consueta della mia storia da poter quasi credere che sia successo a un altro. E così H. mi morirebbe una seconda volta: un lutto peggiore del primo. Tutto, fuorché questo.
Hai mai saputo, cara, quanto ti sei portata via andandotene? Mi hai spogliato anche del mio passato, anche delle cose che non abbiamo mai conosciuto insieme. Sbagliavo a dire che il monco ne si stava riprendendo dal dolore dell'amputazione. Mi ingannavo, perché i suoi modi di far soffrire sono così numerosi che io li vado scoprendo soltanto a uno a uno.
Però ci sono le due grandi conquiste mi conosco troppo bene ormai per chiamarle «durevoli». Rivolta a Dio, la mia mente non trova più quella porta sbarrata; rivolta a H., non trova più quel vuoto, e neppure tutte quelle ansie sull'immagine che la mia mente ha di lei. I miei appunti rivelano parte di questo processo, ma non tanto quanto avevo sperato. Forse nessuno dei due cambiamenti era veramente osservabile. Non c'è stata una transizione improvvisa, evidente, emotiva. Come il riscaldarsi di una stanza fredda o il sorgere del giorno: te ne accorgi quando tutto è cominciato già da un pezzo.
Queste note parlano di me, di H. e di Dio. In quest'ordine. L'ordine e le proporzioni sono l'esatto contrario di quelli che avrebbero dovuto essere. E vedo che in nessun punto mi è accaduto di rivolgermi all'uno o all'altra con quel modo del pensiero che chiamiamo lode. Eppure sarebbe stata, per me, la cosa migliore. La lode è il modo dell'amore che ha sempre in sé un elemento di gioia. Lode nel giusto ordine: di Lui come donatore, di lei come dono. Non godiamo forse un poco, nella lode, ciò che lodiamo, anche se ne siamo lontani? Devo farlo più spesso. Ho perduto la fruizione che un tempo avevo di H. E sono lontano, lontanissimo, nella valle della mia dissimiglianza, dalla fruizione che potrò forse un giorno avere di Dio, se la Sua misericordia è infinita. Ma con la lode posso ancora, in qualche misura, godere lei, e posso già, in qualche misura, godere Lui. Meglio che niente.
Ma forse è un talento che non ho. Vedo che ho scritto di H. che è simile a una spada. È vero, certo. Ma così, da sola, è un'immagine del tutto insufficiente e fuorviante. Avrei dovuto completarla con un'altra. Avrei dovuto dire: «Ma anche simile a un giardino. Simile a un giardino fatto di tanti giardini uno dentro l'altro, con muri che cingono altri muri, siepi che racchiudono altre siepi, e via via che ci si addentra, sempre più segreto, sempre più pieno di una vita fertile e fragrante».
E poi, di lei, e di ogni cosa creata che lodo, dovrei dire: «In qualche modo, in un modo che le è unico, simile a Colui che l'ha fatta».
E così risalire dal giardino al Giardiniere, dalla spada al Fabbro. Alla Vita vivificante e alla Bellezza che dà bellezza.
«È nelle mani di Dio». L'idea ha una nuova energia quando penso a lei come una spada. Forse la vita terrena che ho diviso con lei era solo parte del processo di tempratura. Ora forse Egli stringe l'elsa, soppesa la nuova arma, ne fende l'aria traendo ne saette. «Una vera lama di Gerusalemme ».
C'è stato un momento, la notte scorsa, che può essere descritto per similitudini; non c'è altro modo per tradurlo in parole. Immaginiamo un uomo immerso nel buio assoluto. Egli è convinto di essere in un sotterraneo o in una segreta. A un certo punto si sente un suono. L'uomo pensa che venga da lontano: onde, o alberi agitati dal vento, o qualche animale laggiù nei campi. Ma allora non è in un sotterraneo: è libero, fuori, all'aperto. Oppure il suono è molto più lieve e vicino: una risata sommessa. Ma allora accanto a lui, nel buio, c'è un amico. In entrambi i casi, il suono è dolce, dolcissimo. N on sono così pazzo da credere che una simile esperienza sia prova di alcunché. E solo l'improvviso prender vita nell'immaginazione di un'idea che avrei sempre accettato in via teorica: l'idea che sia possibile, a me come a qualunque altro mortale in qualunque momento, formarsi un'opinione totalmente errata della vera natura della propria situazione.
Cinque sensi; un intelletto inguaribilmente astratto; una memoria che seleziona alla rinfusa; un bagaglio di preconcetti e di assunti così numerosi che non posso mal esaminarne se non un piccolo numero - mai aver coscienza di tutti. Quanta parte della realtà totale può lasciar passare una macchina simile?
Non intendo, se posso evitarlo, imboccare né la via sassosa né quella piana. Due concezioni diversissime fra loro mi assillano sempre più. Una è che l'Eterno Veterinario sia ancora più inesorabile e le operazioni possibili ancora più dolorose di quanto non presagiscano le nostre più terribili fantasie. Ma l'altra, che «tutto sarà bene, tutto sarà bene e ogni genere di cose sarà bene».
Non importa se tutte le fotografie di H. sono brutte. Non importa (non molto) se il mio ricordo di lei è imperfetto. Le immagini, sulla carta o nella mente, non sono importanti in sé. Sono solo agganci. Prendiamo un parallelo da una sfera infinitamente più alta: domattina un prete mi darà una piccola cialda rotonda, sottile, fredda e insapore. E uno svantaggio, o non forse in qualche modo un vantaggio, che questa cosa non possa ambire alla benché minima somiglianza con ciò a cui mi unisce?
Io ho bisogno di Cristo, e non di qualcosa che Gli somigli. Voglio H., e non qualcosa che sia simile a lei. Una fotografia veramente bella potrebbe alla fine diventare una trappola, un orrore, e un ostacolo.
Le immagini, devo supporre, hanno una loro utilità, o non sarebbero così diffuse. (Non fa differenza che siano dentro o fuori la mente, ritratti e statue oppure costrutti dell'immaginazione). Ma per me è più evidente il loro pericolo. Le immagini del Sacro diventano facilmente immagini sacre, sacrosante. La mia idea di Dio non è un'idea divina. Deve essere continuamente mandata in frantumi. Ed è Lui stesso a farlo. Lui è il grande iconoclasta. Non potremmo quasi dire che questa frantumazione è uno dei segni della Sua presenza? L'esempio supremo è l'Incarnazione, che lascia distrutte dietro di sé tutte le precedenti idee del Messia. I più sono « offesi» dall'iconoclastia; e beati quelli che non lo sono. Ma la stessa cosa accade nelle nostre preghiere private.
Tutta la realtà è iconoclastica. L'amata terrena, già in questa vita, trionfa incessantemente sulla semplice idea che abbiamo di lei. E noi vogliamo che sia così: la vogliamo con tutte le sue resistenze, i suoi difetti, la sua imprevedibilità. Ossia, nella sua realtà solida e indipendente. Ed è questo, e non un'immagine, o un ricordo, che dobbiamo continuare ad amare, dopo che è morta.

«Questo », però, non è immaginabile ora. H. e tutti i morti sono, in questo senso, simili a Dio. In questo senso amarla è diventato, nella sua misura, come amare Lui. In entrambi i casi devo tendere le braccia e le mani dell'amore (gli occhi qui non servono) verso la realtà, sforzando mi di superare tutta la mutevole fantasmagoria dei miei pensieri, delle mie passioni, delle mie fantasie. Non devo tenermi pago della fantasmagoria, e adorarla al posto di Lui, o amarla al posto di lei.
Non la mia idea di Dio, ma Dio. Non la mia idea di H., ma H. Sì, e anche non la mia idea del mio prossimo, ma il mio prossimo. Forse che non facciamo spesso questo errore con chi è ancora vivo, con chi è accanto a noi nella stessa stanza? Rivolgendo le nostre parole e le nostre azioni non all'uomo vero ma al ritratto, al riassunto, quasi, che ne abbiamo fatto nella nostra mente? E bisogna che lui se ne discosti in modo radicale perché noi arriviamo ad accorgercene. Nella vita reale (è una delle differenze tra la vita e i romanzi) le sue parole e le sue azioni, a osservarle bene, non sono quasi mai perfettamente « in carattere» con l'immagine che abbiamo di lui. N ella sua mano c'è sempre una carta di cui non sapevamo nulla.
Ciò che mi fa supporre di comportarmi in questo modo con gli altri è il vedere quante volte gli altri si comportano palesemente in questo modo con me. Ci illudiamo tutti di conoscerci l'un l'altro a menadito.
Ma anche tutto questo, forse, non è altro che un ennesimo castello di carte. E se è così, Lui me lo butterà giù di nuovo. E poi ancora, e ancora, tutte le volte che sarà necessario. A meno che, alla lunga, non mi si lasci perdere, come un caso senza speranza, a costruire palazzi di cartapesta all'Inferno, per sempre: « libero tra i morti».
Per esempio, sto semplicemente cercando di riappacificarmi con Dio perché so che, se c'è una strada che porta a H., passa attraverso di Lui? Però so anche benissimo che Lui non può essere usato come strada. Se ti avvicini a Lui come a una strada e non come alla meta, come a un mezzo e non come al fine, in realtà non ti stai affatto avvicinando a Lui. Era questo l'errore di tutti quei quadretti di gioiosi ricongiungimenti « sull'altra riva»: non l'ingenuità e la terrestrità dei particolari, ma il fatto che essi offrono come Fine ciò che noi possiamo ricevere solo come conseguenza del vero Fine.
Signore, sono dunque queste le tue condizioni? Potrò ritrovare H. solo s'e imparerò ad amarti al punto che non mi importerà più se la ritrovo o no? Considera, Signore, come questo appare a noi. Che impressione darei se dicessi ai ragazzi: « Niente dolci, ora. Però, quando sarete grandi e i dolci non vi interesseranno più, potrete averne quanti ne vorrete» ?
Se sapessi che essere diviso da H. per l'eternità e per l'eternità dimenticato da lei accrescerebbe la gioia e lo splendore del suo essere, è chiaro che direi: « Ci sto! ». Così come, qui in terra, se il non rivederla mai più avesse potuto farla guarire dal cancro, avrei fatto in modo di non rivederla mai più. Non avrei potuto fare diversamente. Qualunque persona di coscienza farebbe lo stesso. Ma no, non va bene. La situazione in cui mi trovo ora è tutt'altra.
Quando pongo queste domande davanti a Dio, non ricevo nessuna risposta. Ma è un «nessuna risposta» di tipo speciale. Non è la porta sprangata. Assomiglia piuttosto a un lungo sguardo silenzioso, e tutt'altro che indifferente. Come se Lui scuotesse il capo non in segno di rifiuto, ma per accantonare la domanda. Come a dire: «Zitto, bimbo; tu non capisci ».
Può un mortale fare domande che Dio trova senza risposta? Facilissimo, direi. Ogni domanda senza senso non ha risposta. Quante ore ci sono in ~n metro? Giallo è quadrato o rotondo? E probabile che buona parte dei nostri interrogativi - buona parte delle nostre grandi questioni teologiche e metafisiche - siano domande di questo genere.
E ora che ci penso, davanti a me non c'è nessunissimo problema pratico. Conosco i due grandi comandamenti, ed è ora che cominci ad osservarli. Anzi, la morte di H. ha messo fine al problema pratico. Finché era viva, avrei potuto, in pratica, anteporla a Dio; ossia avrei potuto fare la volontà di lei, invece che quella di Lui; se fossero state in conflitto. Quello che resta non è un problema che riguardi l'agire. Riguarda solo il peso dei sentimenti, delle motivazioni, e simili. E un problema che mi pongo io. Non credo che Dio c'entri per niente.
La fruizione di Dio. Il ricongiungimento con i morti. Entrambi non possono figurare nel mio pensiero se non come gettoni. Assegni in bianco. L'idea che ho della prima (se si può chiamarla idea) è un'enorme e rischiosa estrapolazione da alcune poche e brevi esperienze qui sulla terra. Probabilmente esperienze di assai minor valore di quanto io creda. Forse addirittura inferiori ad altre cui non bado nemmeno. L'idea che ho del secondo è anch'essa un'estrapolazione. La realtà dell'una o dell'altro - la riscossione dell'uno o dell'altro assegno - manderebbe probabilmente in mille pezzi tutte queste idee su di loro, e a maggior ragione quelle sui loro rapporti.
L'unione mistica da un lato. La resurrezione del corpo dall'altro. lo non so raggiungere neppure la parvenza di un'immagine, di una formula, anche solo di una sensazione, che le combini. Eppure, secondo quello che ci viene detto, la realtà lo fa. La realtà, ancora una volta iconoclastica. Il cielo risolverà i nostri problemi, ma non, credo, mostrandoci sottili riconciliazioni fra tutte le idee che a noi apparivano contraddittorie. Quelle idee ci verranno strappate da sotto i piedi. Scopriremo che non c'era mai stato alcun problema.
E, più di una volta, quell'impressione che non so descrivere se non dicendo che è come il suono di una risatina nel buio. La sensazione che la vera risposta sia di una sconvolgente e disarmante semplicità.
Si pensa spesso che i morti ci vedano. E noi assumiamo, ragionevolmente o no, che, se è davvero così, essi ci vedono più chiaramente di prima. H. vede ora quanta superficialità o quanti orpelli c'erano in quello che lei chiamava, che io chiamo, il mio amore? Così sia. Guarda fino in fondo, cara. Non mi nasconderei nemmeno se potessi. Noi non ci siamo idealizzati l'un l'altro. Abbiamo cercato di non avere segreti fra noi. Tu già conoscevi gran parte delle mie zone guaste. Se ora vedi di peggio, posso sopportarlo. E anche tu. Rimprovera, spiega, canzona, perdona. Perché questo è uno dei miracoli dell'amore: che esso dà - a entrambi, ma forse soprattutto alla donna - la capacità di vedere al di là dei suoi incantamenti, ma senza che l'incanto scompaia.
Vedere, in qualche misura, come Dio. Il Suo amore e la Sua conoscenza non sono distinti l'uno dall'altra, né sono distinti da Lui. Potremmo quasi dire che Egli vede perché ama, e quindi ama benché veda.
A volte, Signore, viene la tentazione di dire che se tu ci volevi come i gigli della campagna avresti potuto darci un'organizzazione più simile alla loro. Ma proprio qui, immagino, sta il tuo grande esperimento. Anzi, no: non un esperimento, perché tu non hai bisogno di scoprire nulla. Meglio dire: la tua grande impresa. Fare un organismo che sia anche uno spirito; fare quel terribile ossimoro che è un «animale spirituale». Prendere un povero primate, una bestia coperta di terminazioni nervose, una creatura con uno stomaco che vuole essere riempito, un animale riproduttivo che ha bisogno di un compagno, e dire: «Avanti, forza! Diventa un dio ».
Molti taccuini fa, ho detto che, anche se ricevessi ciò che potrebbe sembrare un'assicurazione della presenza di H., non ci crederei. Facile a dirsi. Anche adesso, però, non intendo accettare nulla del genere come prova. E la qualità dell' esperienza di ieri notte, non ciò che prova ma ciò che era, che mi spinge a registrarla. E stata, incredibilmente, spoglia di qualsiasi emozione. Solo l'impressione della sua mente, per un attimo di fronte alla mia. Mente, non «anima» nel senso che comunemente intendiamo. E comunque il contrario di quel che si dice uno «slancio dell'animo ». Tutt'altro che un estatico ricongiungimento di due amanti. È stato piuttosto come ricevere una sua telefonata o un telegramma su una questione concreta, fattuale. Non che ci fosse un « messaggio»: solo intelligenza e attenzione. Nessun senso di gioia o di mestizia. E nemmeno amore, nel senso corrente del termine. O dis-amore. Mai, in nessuno stato d'animo, avevo immaginato i morti così... così asciutti ed efficienti, ecco. E tuttavia c'era un'intimità fortissima e allegra. Un'intimità che non ~ra. passata attraverso i sensi o le emozioni.
Se è stato un rigurgito dell'inconscio, vuol dire che il mio inconscio è una regione più interessante di quanto non mi avessero indotto a credere gli psicologi del profondo. Tanto per cominciare, lo si direbbe molto meno primitivo del mio io cosciente.
Da qualsiasi parte sia venuto, ha dato alla mia mente una, diciamo così, bella ripulita. Questo potrebbero essere i morti: puro intelletto. Un filosofo greco non si sarebbe sorpreso di un'esperienza come la mia. Per lui era evidente che, se di noi resta qualcosa dopo la morte, deve essere quello e nient'altro. A me l'idea era parsa finora arida e raggelante. L'assenza di emozione mi ripugnava. Ma in questo contatto (reale o apparente che fosse) non c'è stato nulla del genere. Non c'era bisogno di emozione. L'intimità era già completa, e insieme corroborante e ristoratrice. È possibile che questa intimità sia puro amore, quell'amore che è sempre accompagnato, in questa vita, dall'emozione non perché sia un' emozione o abbia bisogno della presenza di un' emozione, ma perché questo è l'unico modo in cui possono reagire la nostra anima animale, il nostro sistema nervoso, la nostra immaginazione? Se è così, quanti preconcetti devo eliminare! Una società, una comunione, di pura intelligenza non sarebbe fredda, uggiosa, squallida. Ma nemmeno sarebbe ciò che di solito si ha in mente quando si usano parole come «spirituale », «mistico », «santo ». Sarebbe, se davvero ne ho intravisto un barlume... ho quasi paura degli aggettivi che dovrei usare. Energica? allegra? penetrante? attenta? intensa? vigile? Ma soprattutto, solida. Assolutamente affidabile. Costante. I morti sono gente quadrata.
Quando dico «intelletto» includo la volontà. L'attenzione è un atto di volontà. L'intelligenza in azione è volontà par excellence. Ciò che mi è sembrato venirmi incontro era pieno di risolutezza.
Quando la fine fu vicina, le dissi: «Se puoi... se è permesso... vieni da me quando sarò anch'io sul letto di morte ». «Se è permesso!» rispose. «Il Cielo avrebbe un bel daffare a trattenermi. Quanto all'Inferno, lo ridurrei in briciole ». Sapeva di usare una sorta di linguaggio mitologico, con una nota di arguzia, perfino. Negli occhi, insieme alle lacrime, le brillava una risata. Ma non c'erano miti o scherzi nel lampo della volontà, più profonda di qualsiasi sentimento.
Tuttavia, l'esser giunto a fraintendere un po' meno totalmente che cosa potrebbe essere una pura intelligenza non deve farmi sporgere troppo in là. C'è anche, qualunque ne sia il significato, la resurrezione della carne. Non possiamo capire. Il meglio è forse ciò che meno comprendiamo.
Non si disputava un tempo per stabilire se la visione finale di Dio fosse soprattutto un atto di intelligenza oppure di amore? E probabilmente una delle tante domande senza senso.
Che malvagità sarebbe, se ne avessimo il potere, richiamare in vita i morti! Non a me, ma al cappellano, disse: «Sono in pace con Dio ». E sorrise, ma non a me. Poi si tornò all'etterna fontana.