DIARIO
DI UN DOLORE
C.S. Lewis
Traduzione
di Anna Ravano
ADELPHI 2000
Nessuno
mi aveva mai detto che il dolore assomiglia tanto alla paura. Non che
io abbia paura: la somiglianza è fisica. Gli stessi sobbalzi dello
stomaco, la stessa irrequietezza, gli sbadigli. Inghiotto in
continuazione.
Altre
volte è come un'ubriacatura leggera, o come quando si batte la testa
e ci si sente rintronati. Tra me e il mondo c'è una sorta di coltre
invisibile. Fatico a capire il senso di quello che mi dicono gli
altri. O forse, fatico a trovare la voglia di capire. E così poco
interessante. Però voglio avere gente intorno. Ho il terrore dei
momenti in cui la casa è vuota. Ma vorrei che parlassero fra loro e
non a me.
Ci
sono momenti, del tutto inattesi, in cui qualcosa dentro di me cerca
di rassicurarmi che soffro, sì, ma non così intollerabilmente.
Nella vita di un uomo l'amore non è tutto. Ero felice già prima di
conoscere H. Ho parecchie «risorse », come si dice. Queste sono
cose che tutti superano. Ma sì, me la caverò. Ci si vergogna di
ascoltare questa voce, ma per un po' gli argomenti sembrano
persuasivi. Poi, d'un tratto, la stilettata rovente di un ricordo, e
tutto quel «buonsenso» svanisce, come una formica nella bocca di
una fornace.
Per
reazione si passa all'emotività e alle lacrime. Al patetismo
lacrimoso. Preferisco, quasi, i momenti di angoscia. Almeno sono
puliti e onesti. Mentre il bagno di autocommiserazione, il
crogiolarsi nella sofferenza, l'orrida e appiccicosa voluttà del
pianto - che disgusto! E nell'atto stesso di cedervi, so che mi porta
a un'immagine falsa di H. Se gli do via libera, in pochi minuti alla
donna reale avrò sostituito un fantoccio su cui singhiozzare senza
ritegno. Grazie a Dio, il ricordo di lei è ancora troppo forte (lo
sarà sempre?) per permettermi di farla franca.
Perché
H. era tutto il contrario. La sua mente era agile, scattante e
muscolosa come un leopardo. Una mente che né passione, né affetto,
né sofferenza potevano disarmare. Coglieva nell'aria il minimo
sentore di ipocrisia o di vacuità; poi spiccava il balzo, e ti
atterrava prima ancora che tu capissi che cosa era successo. Quante
mie bolle di sapone ha fatto scoppiare! Ho imparato presto a non dire
idiozie con lei, se non per il puro piacere (un'altra stilettata
rovente) di essere smascherato e canzonato. Non sono mai stato meno
fatuo che come amante di H.
E
nessuno mi aveva mai detto della pigrizia del dolore. Tranne che nel
lavoro, dove la macchina sembra funzionare più o meno come al
solito, ho orrore di ogni sforzo, anche minimo. Non dico scrivere, ma
perfino leggere una lettera è troppo. Perfino farmi la barba. Che
importa ora se la mia guancia è liscia o ruvida? Dicono che chi è
infelice vuole distrazioni - qualcosa che lo aiuti a non pensare. Sì,
ma come un uomo stremato, in una notte fredda, vuole sul letto
un'altra coperta: piuttosto che alzarsi a cercarla, preferisce
continuare a battere i denti. Si capisce perché le persone sole
diventano sciatte; e, alla fine, sporche e disgustose.
E
intanto, dov'è Dio? Di tutti i sintomi, questo è uno dei più
inquietanti. Quando sei felice, così felice che non avverti il
bisogno di Lui, così felice che sei tentato di sentire le Sue
richieste come un'interruzione, se ti riprendi e ti volgi a Lui per
ringraziarlo e lodarlo, vieni accolto (questo almeno è ciò che si
prova) a braccia aperte. Ma vai da Lui quando il tuo bisogno è
disperato, quando ogni altro aiuto è vano, e che cosa trovi? Una
porta sbattuta in faccia, e il rumore di un doppio chiavistello
all'interno. Poi, il silenzio. Tanto vale andarsene. Più aspetti,
più il silenzio ingigantisce. Non ci sono luci alle finestre.
Potrebbe essere una casa vuota. È mai stata abitata? Un tempo, lo
sembrava. Ed era una impressione altrettanto forte di quella di
adesso. Che cosa significa? Perché il Suo imperio è così presente
nella prosperità, e il Suo soccorso così totalmente assente nella
tribolazione?
Ho
cercato di spiegare alcuni di questi pensieri a C., oggi pomeriggio.
Mi ha ricordato che la stessa cosa sembra essere accaduta a Cristo:«
Perché mi hai abbandonato? ». Lo so. Questo la rende più facile da
capire?
Non
che io sia in pericolo (mi sembra) di smettere di credere in Dio. Il
vero pericolo è di arrivare a credere di Lui queste cose orribili.
La conclusione che pavento non è: «Dio, dunque, non esiste », ma:
« È questa, dunque, al di là di ogni illusione, la vera realtà di
Dio ».
I
nostri antenati chinavano il capo e dicevano: «Sia fatta la Tua
volontà ». Quante volte, per puro terrore, si era soffocata una
protesta rabbiosa, nascondendo il tutto sotto una professione
d'amore?
Una
risposta, fin troppo facile, è che Dio sembra assente nel momento
del nostro maggior bisogno appunto perché è assente, perché non
esiste. Ma allora perché sembra così presente quando noi, per dirla
con franchezza, non Lo cerchiamo?
Una
cosa, comunque, devo al matrimonio. Mai più crederò che la
religione sia un prodotto dei nostri appetiti inconsci e
insoddisfatti e un surrogato del sesso. I pochi anni che io e H.
abbiamo passato insieme sono stati un vero banchetto d'amore; l'amore
in tutte le sue modulazioni: solenne e festoso, romantico e
realistico, a volte clamoroso come un temporale, a volte dimesso e
accogliente come infilarsi le pantofole. Non un angolo del cuore e
del corpo è rimasto insoddisfatto. Se Dio fosse un surrogato
dell'amore, avremmo dovuto perdere ogni interesse per Lui. Perché
sprecare il tempo con i surrogati, quando si ha l'originale? Ma non è
così. Sapevamo entrambi che volevamo qualcosa oltre l'altro -
qualcosa di affatto diverso, il cui bisogno era affatto diverso.
Tanto varrebbe dire che due amanti, ciascuno avendo l'altro, non
vorranno mai più leggere, mangiare, o respirare.
Anni
fa, dopo la morte di un amico, la certezza che la sua vita
continuava, che anzi continuava su un piano più alto, fu per qualche
tempo una sensazione nettissima. Ho supplicato che mi venga data
anche solo la centesima parte di quella assicurazione per H. Non c'è
risposta. Solo la porta sbarrata, la cortina di ferro, il vuoto, lo
zero assoluto. «Chi chiede non ottiene». Sono stato uno sciocco a
chiedere. Perché ora, anche se quella assicurazione venisse, ne
diffiderei. La crederei un'autoipnosi indotta dalle mie preghiere.
In
ogni caso, devo stare alla larga dagli occultisti. L'ho promesso a H.
Lei ne sapeva qualcosa, di quegli ambienti.
Mantenere
le promesse fatte ai morti, o a chiunque altro, è un ottimo
proposito. Ma comincio a capire che il « rispetto per le volontà
dei defunti» è una trappola. Ieri mi sono frenato appena in tempo
mentre stavo per dire, a proposito di non so che sciocchezza: «A H.
non sarebbe piaciuto». È un'ingiustizia verso gli altri. Presto
userei « quello che sarebbe piaciuto a H. » come strumento di
tirannia domestica e i presunti gusti di H. diventerebbero una
maschera, sempre più trasparente, dei miei.
Non
posso parlare di lei con i ragazzi. Al primo accenno, sul loro viso
compare non il dolore, non l'amore, o la paura, o la pietà, ma ,quel
micidiale isolante che è l'imbarazzo. E come se io commettessi una
sconvenienza. Non vedono l'ora che la smetta. Anch'io reagivo allo
stesso modo, dopo che morì mia madre, quando mio padre la nominava.
Non gliene faccio una colpa. I ragazzi sono fatti così.
Qualche
volta penso che la vergogna, la pura e semplice vergogna goffa e
assurda, non sia da meno dei nostri vizi nell'impedire le buone
azioni e una felicità schietta. E non solo nell'adolescenza.
O
forse i ragazzi hanno ragione? Che cosa penserebbe H. di questo
terribile quadernetto al quale ritorno incessantemente? Sono morbose,
queste note? Ricordo una frase letta non so dove: «Passai una notte
insonne con il mal di denti, pensando al mal di denti e alla mia
insonnia ». È l'esempio di una verità generale. Ogni infelicità è
in parte, per così dire, l'ombra o il riflesso di se stessa: non è
soltanto il proprio soffrire, ma è anche il dover pensare
continuamente al proprio soffrire. lo non solo vivo ogni
interminabile giorno nel dolore per la sua morte, ma lo vivo pensando
che vivo ogni giorno nel dolore. E se queste note servissero solo a
esasperare questo secondo aspetto? A ribadire il monotono lavorio
della mente intorno a un unico pensiero? Ma che cosa devo fare? Ho
bisogno di un anestetico, e leggere, adesso, non è una droga
abbastanza forte. Scrivere tutto (tutto? no: un pensiero su mille) mi
serve, io credo, per discostarmene un poco. Questo direi a H. per
difendermi. Ma lei, ci scommetto, troverebbe subito un punto scoperto
nella mia difesa.
E
non sono solo i ragazzi. Una strana conseguenza del mio lutto è che
mi rendo conto di essere imbarazzante per tutti quelli che incontro.
Al lavoro, al club, per strada, quando qualcuno mi avvicina, gli
leggo in faccia l'incertezza se « accennarne » o no. Per me è
odioso sia che ne parlino sia che non ne parlino. Alcuni, poi,
battono in ritirata. R. mi evita da una settimana. Molto, molto
meglio i giovanotti educati, poco più che ragazzi, che mi affrontano
come se fossi il dentista, avvampano, si tolgono il peso e, appena le
buone maniere lo permettono, sgattaiolano verso il bar. Forse chi è
in lutto dovrebbe essere isolato in quartieri speciali, come i
lebbrosi.
Per
alcuni sono peggio che un imbarazzo: sono un teschio. Quando incontro
due sposi felici, so che pensano: «Un giorno uno di noi due sarà
come è lui ora».
All'inizio
mi atterriva l'idea di ritornare nei posti dove H. e io siamo stati
felici: il nostro pub preferito, il nostro bosco. Ma ho deciso di
farlo subito: come quando si rimanda in servizio un pilota che ha
appena avuto un incidente di volo. Con mia sorpresa, non è successo
nulla. La sua assenza non è più insistente in quei luoghi che
altrove. Non è un'assenza localizzata. Se ci venisse proibito il
sale, probabilmente non ne sentiremmo la mancanza più in una
pietanza che in un'altra. Tutto il cibo sarebbe diverso, ogn~ giorno,
ad ogni pasto. Ora è lo stesso. E l'atto di vivere che è diverso in
ogni momento. La sua assenza è come il cielo: si stende sopra ogni
cosa.
No,
non è del tutto vero. C'è un luogo dove avverto la sua assenza in
modo localizzato, ed è un luogo che non posso evitare. Il mio corpo.
Quando era il corpo dell'amante di H. aveva ben altra importanza.
Adesso è come una casa vuota. Ma non voglio illudermi.
Ridiventerebbe subito importante, eccome, se scoprissi che ha
qualcosa che non va.
Cancro,
cancro, e ancora cancro. Mia madre, mio padre, mia moglie. A chi
toccherà ora?
Ma
H. stessa, che ne moriva e lo sapeva, diceva di aver perduto gran
parte del suo antico orrore. Quando giunse la realtà, il nome e
l'idea erano ormai in qualche misura disarmati. E fino a un
certo
punto arrivai quasi a capirlo anch'io. Questo è importante. Non si
hanno mai di fronte semplicemente il Cancro, o la Guerra, o
l'Infelicità (o la Felicità). Si ha di fronte ciascuna ora o
momento singolarmente. Alti e bassi di ogni genere. Molti punti neri
nei momenti buoni, molti punti luminosi nei momenti peggiori. Non si
ha mai l'impatto totale di quella che chiamiamo «la cosa in sé ».
Che è poi un termine sbagliato. La cosa in sé è semplicemente la
somma di tutti quegli alti e bassi; il resto è un nome o un'idea.
È
incredibile quanta felicità, e persino quanta allegria, abbiamo a
volte conosciuto insieme, dopo che ogni speranza era scomparsa. Come
abbiamo parlato a lungo, quietamente, nutrendoci l'uno con l'altra,
quell'ultima sera!
E
tuttavia, non completamente insieme. C'è un limite all' essere «
una carne sola». La debolezza dell'altro, la sua paura, la sua
sofferenza non puoi farle tue. Potrai aver paura e soffrire anche tu.
E forse pensabile che tu possa aver paura e soffrire quanto l'altro,
anche se diffiderei subito di chi mi assicurasse che è così. Ma
sarebbe pur sempre un soffrire diverso. Quando dico paura, intendo la
nuda paura animale, l'arretrare dell'organismo davanti alla propria
distruzione; l'impressione di soffocare; il sentirsi un
topo
in trappola. Questo non lo si può trasmettere. La mente riesce a
immedesimarsi, il corpo meno. Meno che mai, in un certo senso, i
corpi di due amanti, perché tutti i loro scambi amorosi li hanno
addestrati ad avere l'uno per l'altro sentimenti non identici, bensì
complementari, correlativi, addirittura opposti.
Noi
questo lo sapevamo entrambi. lo avevo le mie infelicità, e non le
sue. Lei aveva le sue, e non le mie. La fine delle sue avrebbe reso
adulte le mie. Ci stavamo incamminando su strade diverse. Questa
fredda verità, questa terribile regolamentazione del traffico («Lei
a destra, signora... Lei, signore, a sinistra»), non è che l'inizio
di quella separazione che è la morte stessa.
E
questa separazione ci attende tutti, presumo. Finora mi era parso che
H. e io, strappati così l'uno all'altra, fossimo stati
particolarmente sfortunati. Ma forse tutti gli amanti lo sono. Una
volta mi disse: «Anche se morissimo entrambi nello stesso istante,
qui, sdraiati fianco a fianco, non sarebbe meno separazione di quella
che tu temi tanto ». Naturalmente neanche lei sapeva. Ma era vicina
alla morte, abbastanza vicina da sfiorare la verità. Era solita
citare: «Soli nell'Uno e Solo ». L'impressione, diceva, era quella.
E com'è immensamente improbabile che sia altrimenti! Il tempo, lo
spazio e il corpo sono state le cose che ci hanno uniti, i fili
telefonici grazie ai quali comunicavamo. Isola uno dei due, o tutti e
due insieme. In un caso o nell'altro la conversazione non dovrà
forzatamente interrompersi?
A
meno di non postulare l'immediata consegna di un altro mezzo di
comunicazione, affatto diverso, ma che svolga la medesima funzione.
Ma allora, a che scopo fornirci quello vecchio? Dio è forse un
pagliaccio che ti strappa di mano la scodella di minestra e un attimo
dopo te ne dà un'altra colma della stessa minestra? Neanche la
natura arriva a questi punti. Nulla viene mai ripetuto tale e quale.
È
difficile non irritarsi con quelli che dicono: «La morte non esiste
», oppure: «La morte non ha importanza ». La morte esiste. E tutto
ciò che esiste ha importanza. E tutto ciò che accade ha conseguenze
ed è, come queste, irrevocabile e irreversibile. Tanto varrebbe dire
che la nascita non ha importanza. Alzo gli occhi al cielo notturno.
Vi è qualcosa di più certo del fatto che in tutte quelle vastità
di tempi e di spazi, se mi fosse dato di cercare, non troverei mai il
suo viso, la sua voce, il tocco della sua mano? È morta. Morta. È
così difficile imparare questa parola?
Non
ho belle foto di lei. Non riesco nemmeno a vedere distintamente il
suo viso nell'immaginazione. E invece la faccia di un qualsiasi
sconosciuto colta al volo stamane tra la folla mi apparirà forse con
perfetta chiarezza questa notte, non appena chiuderò gli occhi.
Certo, la spiegazione è semplice. I visi di coloro che meglio
conosciamo li abbiamo visti in modi così vari, da tante angolature,
in tante luci, con tante espressioni - al risveglio, nel sonno, nel
riso, nel pianto, mentre mangiano, parlano, pensano - che queste
impressioni si affollano tutte insieme nella nostra memoria e si
annullano a vicenda lasciando un'immagine sfocata. Ma la sua voce è
ancora viva. Il ricordo della sua voce, che in qualsiasi momento può
fare di me un bimbo singhiozzante.
Ho
riletto queste note per la prima volta e ne sono sbigottito. Da come
parlo, chiunque penserebbe che la morte di H. conti soprattutto per
l'effetto che ha avuto su di me. Il suo punto di vista sembra del
tutto scomparso. Ho dimenticato quel suo: «C'era tanto per cui
vivere! », gridato in un momento di angoscia? La felicità non le
era stata data presto nella vita. Mille anni di felicità
ininterrotta non sarebbero bastati a renderla blasée. Per tutte le
gioie dei sensi, dell'intelletto e dello spirito, aveva un gusto
fresco e intatto. Nulla sarebbe stato sprecato per lei. Amava più
cose e più intensamente di chiunque altro io abbia conosciuto. Una
nobile fame, rimasta a lungo insoddisfatta, aveva finalmente trovato
il proprio cibo, e un attimo dopo quel cibo le fu strappato via. Il
fato (o che altro è) gode a produrre un grande talento e a renderlo
poi vano. Beethoven diventò sordo. Uno scherzo meschino, ai nostri
occhi; la beffa di un idiota malevolo.
Devo
pensare di più a H. e meno a me stesso.
Sì,
d'accordo, ma c'è un intoppo. lo penso a lei quasi sempre. Penso
alle cose che erano lei: le sue parole, gli sguardi, le risate, le
azioni. Ma chi le sceglie e le mette insieme è la mia mente. Non è
passato neanche un mese dalla sua morte, e già sento il lento e
insidioso inizio di un processo che farà della H. a cui penso una
donna sempre più immaginaria. Basata sui fatti, certo: non vi
metterò (così spero, almeno) nulla di inventato. Ma la composizione
non diventerà inevitabilmente sempre più cosa mia? Non c'è piùla
realtà a frenarmi, ad arrestarmi di netto, come faceva tante volte
la vera H., e in modi tanto inaspettati, con il suo essere totalmente
lei e non me.
Il
dono più prezioso che ho avuto dal matrimonio è stato questo
continuo impatto con qualcosa di molto vicino e intimo e tuttavia
sempre e inconfondibilmente altro, resistente - in una parola, reale.
Tutta quest'opera dovrà andare distrutta? Ciò che io continuerò a
chiamare H. è destinato a ricadere orribilmente nella fumosità
delle mie vecchie fantasticherie di scapolo? Oh mia cara, mia cara,
torna per un momento solo a scacciare questo meschino fantasma. Oh
Dio, Dio, perché ti sei tanto adoperato a tirar fuori questa
creatura dal suo guscio, se ora è condannata a strisciarvi dentro
nuovamente, a essere risucchiata in esso?
Oggi
ho rivisto un uomo che non vedevo da dieci anni. In tutto questo
tempo avevo sempre creduto di ricordarmelo bene: il suo aspetto, il
suo modo di parlare, le cose che diceva. I primi cinque minuti
dell'uomo reale hanno polverizzato l'uomo del ricordo. Non che fosse
cambiato. Tutt'altro. Continuavo a dirmi: «Ma certo, avevo
dimenticato che la pensava così, che questo non gli piaceva, che
conosceva il tale, che gettava indietro la testa a quel modo ».
Tutte queste cose un
tempo
le sapevo e nel rivederle le ho subito riconosciute. Ma erano svanite
dal ritratto mentale che avevo di lui, e quando la sua presenza le ha
rimesse alloro posto, l'effetto complessivo è stato diversissimo
dall'immagine che mi ero portato dietro per tutti questi dieci anni.
Come posso sperare che la stessa cosa non accadrà al mio ricordo di
H.? Che non stia già accadendo? Lentamente, silenziosamente, come
fiocchi di neve – quei fiocchi lievi che preannunciano una nevicata
che durerà tutta la notte - sulla sua immagine si stanno depositando
piccole scaglie di me, mie impressioni, mie scelte. E alla fine la
forma reale ne sarà completamente nascosta. Dieci minuti, dieci
secondi, della vera H. basterebbero a correggere tutto ciò. Ma anche
se mi venissero concessi, un secondo più tardi i piccoli fiocchi
ricomincerebbero a cadere. Il sapore aspro, mordente, purificatore,
della sua alterità è scomparso.
Com'è
trito e ipocrita dire: «Sarà sempre viva nel mio ricordo! ». Viva?
Ma è proprio quello che non sarà mai più. Tanto varrebbe credere,
come gli antichi egizi, che si possono trattenere i morti
imbalsamandoli. Non riusciremo mai a persuaderci che se ne sono
andati? Che cosa resta? Un cadavere, un ricordo, e (in alcune
versioni) un fantasma. Parodie oppure orrori. Tre modi in più per
dire «morto ». Era H. che amavo. Come potrei pensare di innamorarmi
del mio ricordo di lei, di un'immagine creata dalla mia mente?
Sarebbe una specie di incesto.
Ricordo
il mio moto di ripugnanza, un mattino d'estate di molti anni fa,
quando un omone dalla faccia allegra, entrando nel nostro cimitero
con una zappa e un
annaffiatoio
e tirandosi dietro il cancello, gridò da sopra la spalla a due
amici: « Faccio una visitina a Ma' e vi raggiungo ». Voleva dire
che andava a riassettare la tomba della madre, a strappare le erbacce
e bagnare i fiori. Ne provai ripugnanza perché questo modo di
sentire (la tomba, i fiori e tutto il resto) lo trovavo e lo trovo
ancora semplicemente odioso, per non dire inconcepibile. Ma alla luce
dei miei recenti pensieri, comincio a chiedermi se il punto di vista
di quell'uomo, per chi lo può adottare (io non posso), non abbia i
suoi vantaggi. Un'aiuola di due metri per uno era diventata «Ma' ».
Era il simbolo che lui aveva trovato per la madre, il suo aggancio
con lei. Prendersi cura di quell'aiuola era farle una visitina. Non
potrebbe essere meglio, in un certo senso, che conservare e
accarezzare un'immagine nella memoria? La tomba e l'immagine sono
entrambe agganci con ciò che è irrecuperabile e simboli di ciò che
è inimmaginabile. Ma l'immagine ha in più lo svantaggio di essere
pronta a fare tutto quello che vogliamo. Sorriderà o si rabbuierà,
sarà tenera, gaia, sboccata o polemica, secondo ciò che chiede il
nostro umore. È una marionetta di cui reggiamo i fili. Non ancora,
naturalmente. La realtà è troppo fresca: ricordi genuini e del
tutto involontari possono ancora, grazie a Dio, irrompere e
strapparmi di mano quei fili. Ma la fatale obbedienza dell'immagine,
la sua insipida arrendevolezza, inevitabilmente cresceranno.
L'aiuola, invece, è una realtà ostinata, resistente, spesso
intrattabile, come certo era Ma' da viva. Come era H.
O
come è. Posso in tutta onestà dire di credere che ora H. è
qualcosa? La stragrande maggioranza della gente che incontro, per
esempio sul lavoro, direbbe senz'altro di no. Anche se naturalmente
con me non insisterebbe. Non ora, almeno. E io, che cosa penso
davvero? Sono sempre riuscito a pregare per gli altri morti, e lo
faccio ancora, con una certa fiducia. Ma quando cerco di pregare per
H. mi arresto. Sono sbigottito, sopraffatto dallo smarrimento. Ho
un'orribile sensazione di irrealtà, mi sembra di parlare nel vuoto
di qualcosa che non esiste.
La
ragione di questa differenza è anche troppo ovvia. Non si può mai
sapere con quanta convinzione si crede a qualcosa, fino a quando la
verità o la falsità di questo qualcosa non diventano una questione
di vita o di morte. Prendiamo una corda: è facile dire che la credi
sana e robusta finché la usi per legare un baule. Ma immagina di
doverci restare appeso sopra un precipizio. Non vorresti prima
scoprire fino a che punto te ne fidi? Lo stesso vale con la gente.
Per anni sarei stato pronto a dire che avevo completa fiducia in B.R.
Poi venne il momento in cui dovetti decidere se confidargli o no un
segreto molto grave, e questo dilemma gettò una luce del tutto nuova
su quella che io chiamavo la mia «fiducia» in lui. Scoprii che
questa fiducia non esisteva. Solo un rischio vero mette alla prova la
realtà di una convinzione. A quanto pare, la fede (ciò che io
credevo fosse fede) che mi permette di pregare per gli altri morti mi
è sembrata forte solo perché non mi è mai importato gran che, non
mi è mai importato disperatamente, che quei morti esistessero o no.
Eppure ero convinto del contrario.
Ma
ci sono altre difficoltà. «Dov' è lei ora? ». Ossia, in quale
luogo è lei in questo momento? Ma se H. non è un corpo - e il corpo
che amavo non è certo più lei - H. non è in nessun luogo. E
«questo momento» è una data o un punto della nostra sequenza
temporale. È come se lei
fosse
in viaggio senza di me e io dicessi, guardando l'orologio: «Chissà
se ora è a Euston ». Ma se lei non sta procedendo a sessanta
secondi al minuto lungo la stessa linea temporale su cui viaggiamo
noi viventi, che cosa significa ora? Se i morti non sono nel tempo, o
non sono nel tempo che noi conosciamo, esiste una chiara differenza,
quando parliamo di loro, tra era, è e sarà?
Persone
di buon cuore mi hanno detto: « È con Dio». Almeno in un senso,
questo è certissimo. Essa è, come Dio, incomprensibile e
inimmaginabile.
Ma
mi pare che questa domanda, per quanto importante possa essere in sé,
non sia poi molto importante in relazione al dolore. Supponiamo che
le vite terrene che lei e io abbiamo condiviso per qualche anno siano
in realtà solo la base, o il preludio, o l'aspetto terreno, di due
inimmaginabili entità sovracosmiche ed eterne, raffigurabili come
sfere o globi. Là dove il piano della Natura le interseca, ossia
nella vita terrena, esse appaiono come due cerchi (il cerchio è la
sezione di una sfera). Due cerchi che si toccavano. Ma questi due
cerchi, e soprattutto il punto in cui si toccavano, sono proprio ciò
che io piango, ciò che mi manca, ciò che ho fame di riavere. «Il
suo viaggio continua» mi dite. Ma il mio cuore e il mio corpo
gridano: ritorna, ritorna. Sii un cerchio che tocca il mio cerchio
sul piano della Natura. Ma so che è impossibile. So che quello che
voglio è proprio quello che non potrò mai ottenere. La vita di un
tempo, gli scherzi, bere insieme, discutere, fare l'amore, le piccole
e struggenti banalità. Da qualsiasi punto di vista, dire: «H. è
morta» è lo stesso che dire: «Tutte queste cose sono finite ».
Sono parte del passato. E il passato èil passato e questo è ciò
che si intende per tempo, e il tempo è uno dei tanti no
mi
della morte, e quanto al Cielo, è uno stato dove «le cose di prima
sono passate ».
Parlatemi
della verità della religione e ascolterò con gioia. Parlate mi del
dovere della religione e ascolterò con umiltà. Ma non venite a
parlarmi delle consolazioni della religione, o sospetterò che non
capite.
A
meno, naturalmente, di non prendere per buone tutte quelle storie di
ricongiungimenti «sull'altra riva », dipinti in termini affatto
terreni. Ma sono cose che non hanno nulla a che fare con le
Scritture, cose derivate da inni e litografie dozzinali. Nella Bibbia
non ce n'è traccia. E poi suonano false. Lo sappiamo che non
può
essere così. La realtà non si ripete. Ciò che viene tolto e ciò
che viene ridato non sono mai la stessa identica cosa. Com'è astuta
l'esca degli occultisti! « Qui da noi le cose non sono poi tanto
diverse». Sigari in Paradiso. Perché è questo che vorremmo tutti:
riavere indietro il passato felice.
E
questo, proprio questo, è ciò che imploro, a mezzanotte, con teneri
nomi e suppliche follemente rivolti all'aria vuota.
E
il povero C. mi cita: « Non siate contristati, come gli altri che
non hanno speranza ». Mi stupiscono, questi inviti a riferire a noi
stessi parole così manifestamente rivolte a chi è migliore di noi.
Quel che dice san Paolo può essere di conforto solo a chi ama Dio
più dei morti, e i morti più di se stesso. Se una madre piange non
ciò che ha perduto lei, ma ciò che il suo bambino morto ha perduto,
le è di conforto credere che egli non ha perduto il fine per cui è
stato creato. E le è di conforto credere che anche lei, nel perdere
la sua prima o la sua sola felicità naturale, non ha perduto una
cosa più grande, la continua speranza di « glorificare Iddio e
goderlo per l'eternità ». Un conforto per lo spirito eterno che è
in lei e che è proteso verso Dio. Ma non per il suo spirito materno.
La felicità specificamente materna per lei è un capitolo chiuso.
Mai, in nessun luogo o tempo, avrà più il suo bambino sulle
ginocchia, gli farà il bagno, gli racconterà una storia, farà
progetti per il suo futuro, vedrà i propri nipoti.
Mi
dicono che H. ora è felice, mi dicono che è in pace. Da dove
traggono questa certezza? Non che io tema ciò che vi è di peggio.
Una delle ultime cose che disse fu: « Sono in pace con Dio ». Non
lo era stata sempre. E non ha mai mentito. E neppure si lasciava
ingannare facilmente, soprattutto a proprio favore. No, non è questo
che voglio dire. Ma perché sono tanto sicuri che la morte metta fine
ai tormenti? Più della metà del mondo cristiano e milioni di
orientali credono il contrario. Come fanno a sapere che è « in
pace»? Perché la separazione (per non dire altro) che tanto strazia
chi rimane dovrebbe essere indolore per chi se ne va?
«
Perché è nelle mani di Dio». Ma se è per questo, lo era anche
prima, nelle mani di Dio, e io ho visto quel che esse le hanno fatto
qui. Diventano tutt'a un tratto più delicate, appena siamo usciti
dal corpo? E se sì, perché? Se la bontà di Dio è in
contraddizione con le sofferenze che ci vengono inflitte, allora o
Dio non è buono oppure non esiste: perché nell'unica vita che
conosciamo Egli ci fa soffrire al di là delle nostre paure più
terribili e di ogni nostra capacità immaginativa. E se non c'è
contraddizione, allora anche dopo la morte Egli può infliggerci
sofferenze non meno insopportabili di prima.
A
volte è difficile non dire: « Che Dio perdoni Dio ». A volte è
difficile dire anche questo. Ma se la nostra fede è vera, Egli non
l'ha fatto. Egli Lo ha crocifisso.
Suvvia,
a che serve svicolare? Siamo sotto la lama, senza possibilità di
fuga. La realtà, guardata fissamente, è insopportabile. E in che
modo o perché una realtà come questa ha prodotto qua e là il fiore
(o il bubbone) di quel fenomeno tremendo che chiamiamo coscienza?
Perché ha prodotto esseri come noi, che possono vederla e che,
vedendola, arretrano per il ribrezzo? E che, più strano ancora,
vogliono vederla, e si affannano per scoprire com' è fatta, anche
quando nessun bisogno li spinge, anche se la sua vista apre nel loro
cuore una piaga incurabile? Persone come H., che voleva la verità ad
ogni costo.
Se
H. « non è », allora non è mai stata, e io ho scambiato per una
persona una nube di atomi. La gente non esiste, non è mai esistita.
La morte non fa che rivelare il vuoto che c'era da sempre. I
cosiddetti vivi sono semplicemente quelli che non sono stati ancora
smascherati. Tutti in bancarotta, anche se per alcuni non ancora
dichiarata.
Ma
questo deve essere assurdo! Il vuoto rivelato a chi? Bancarotta
dichiarata a chi? Ad altre scatole di fuochi d'artificio o nubi di
atomi. Non crederò mai - meglio: non mi è possibile credere - che
un insieme di eventi fisici possa essere, o commettere, un errore
riguardo ad altri insiemi di eventi fisici.
No,
la mia paura reale non è il materialismo. Se fosse vero, noi - o ciò
che scambiamo per « noi» - potremmo sfuggire alla lama. Un tubetto
di sonniferi e sarebbe fatta. Ho molta più paura che siamo in realtà
topi in trappola. O peggio: topi di laboratorio. Qualcuno, mi pare,
ha detto: «Dio geometrizza sempre ». E se la verità fosse: «Dio
viviseziona sempre»?
Prima
o poi dovrò affrontare la domanda in parole povere. A parte i nostri
disperati desideri, che ragione abbiamo per credere che Dio,
qualunque metro di giudizio possiamo immaginare, sia « buono»?
Tutte le prove manifeste non indicano esattamente il contrario? Che
cosa abbiamo da opporre?
Abbiamo
Cristo. Ma se si fosse sbagliato? Tra le Sue ultime parole ce ne sono
alcune il cui significato potrebbe essere chiarissimo: aveva scoperto
che l'Essere da Lui chiamato Padre era orribilmente e infinitamente
diverso da quello che Lui aveva creduto. La trappola, preparata da
tempo con tanta cura e tanta sottile astuzia, scattò infine, sulla
croce. L'infame beffa era riuscita.
Ciò
che soffoca in gola ogni preghiera e ogni speranza è il ricordo di
tutte le preghiere che H. e io abbiamo offerto e di tutte le nostre
false speranze. Speranze nate non solo dalle nostre illusioni, ma
incoraggiate, imposte addirittura, da false diagnosi, da radiografie,
da strane remissioni, da una guarigione temporanea che aveva quasi
del miracoloso. Un passo dietro l'altro, siamo stati «menati per il
naso ». E Lui ogni volta, mentre faceva mostra di misericordia, in
realtà stava preparando il nuovo supplizio.
Queste
righe le ho scritte ieri sera. Più che u,n pensiero, è stato un
urlo. Riproviamo. E razionale credere in un Dio cattivo? O comunque,
in un Dio tanto cattivo? Il Sadico Cosmico, l'idiota malevolo?
Direi
che, se non altro, è troppo antropomorfico. Molto più
antropomorfico, a ben riflettere, che raffigurarcelo come un maestoso
vecchio re con la barba fluente. Questa immagine è un archetipo
junghiano. Accomuna Dio ai re buoni e saggi delle fiabe, ai profeti,
ai sapienti, ai maghi. Pur essendo (formalmente) il ritratto di un
uomo, accenna a qualcosa che trascende l'umanità. Quanto meno,
suggerisce l'idea di qualcosa di più vecchio di noi, qualcosa di più
sapiente, qualcosa di insondabile. Lascia intatto il mistero. E
quindi lascia spazio alla speranza. E quindi spazio a un timore o a
una soggezione che non devono necessariamente essere la paura degli
arbitrii di un potentato malevolo. Il ritratto che tracciavo ieri
sera, invece, è solo quello di un uomo come S.C., che sedeva vicino
a me a cena e mi raccontava che cosa aveva fatto ai gatti nel
pomeriggio. Ora, un essere come S.C., ingrandito quanto si vuole, non
saprebbe inventare o creare o governare alcunché. Preparerebbe le
trappole e cercherebbe le esche. Ma non gli sarebbero mai venute in
mente esche come l'amore, le risate, i narcisi, un tramonto sulla
campagna gelata. Lui, fare un universo? Ma se non saprebbe nemmeno
fare una battuta, fare un inchino, fare penitenza, fare amicizia.
O
forse si potrebbe introdurre seriamente l'idea di un Dio cattivo per
così dire dal retro, attraverso una sorta di calvinismo esasperato?
Si potrebbe dire che noi siamo esseri caduti e depravati. Siamo a tal
punto depravati che le nostre idee di bontà non contano nulla; anzi,
peggio che nulla: il fatto stesso che consideriamo buono qualcosa è
indizio presuntivo della sua intrinseca malvagità. Ora, Dio ha in
effetti (le nostre peggiori paure sono vere) tutte le caratteristiche
che noi giudichiamo cattive: caparbietà, vanità, vendicatività,
ingiustizia, crudeltà. Ma tutti questi neri (così,sembrano a noi)
in realtà sono bianchi. E solo la nostra. depravazione che ce li fa
apparire neri.
E
allora? All'atto pratico (e speculativo), questo fa piazza pulita di
Dio. La parola buono applicata a Lui perde ogni senso, diventa un
mero abracadabra. Non abbiamo alcun mq,tivo per obbedirgli. N emmeno
la paura. E vero che abbiamo le Sue minacce e le Sue promesse. Ma
perché dovremmo crederci? Se dal Suo punto di vista la crudeltà è
«bene », forse anche me ntire è « bene». E anche se fossero
vere, noi che ci guadagneremmo? Se le Sue idee di bene sono tanto
diverse dalle nostre, quello che Lui chiama « Cielo» potrebbe a
rigore essere quello che noi chiameremmo Inferno e viceversa. Infine,
se le radici stesse della realtà ci appaiono così prive di senso -
oppure, capovolgendo il ragionamento, se noi siamo degli
irrimediabili imbecilli -, a che pro speculare su Dio o su qualunque
altra cosa? Ecco che, appena si comincia a stringere, questo nodo si
disfa.
Perché
do spazio nella mia mente a queste disgustose idiozie? Spero forse
che, mascherati da riflessione, i sentimenti si facciano sentire
meno? Tutte queste note non sono forse gli assurdi contorcimenti di
chi non vuole accettare il fatto che nella sofferenza non si può
fare altro che soffrire? Di chi è ancora convinto che esista un
sistema (se solo riuscisse a trovarlo!) per cambiare il soffrire in
non soffrire. Stringi i braccioli della poltrona del dentista o tieni
le mani in grembo, la cosa non cambia. Il trapano continua a
trapanare.
E
il dolore assomiglia sempre alla paura. Forse, più esattamente, alla
tensione. O all'attesa: andare su e giù in attesa che succeda
qualcosa. Dà alla vita una sensazione di perenne provvisorietà. A
che scopo cominciare qualcosa? Non ne vale la pena. Mi è impossibile
star fermo. Sbadiglio, cincischio, fumo troppo. Prima avevo sempre
troppo poco tempo. Adesso non c'è altro che tempo. Tempo quasi allo
stato puro, vuota sequenzialità.
Una
carne sola. O, se si preferisce, una nave. Il motore di dritta è
andato. lo, il motore di sinistra, devo tirare avanti in qualche modo
fino al porto. O meglio, fino alla fine del viaggio. Come posso
essere sicuro che esista un porto? E molto più probabile una costa
sottovento, una notte nera, una burrasca assordante, frangenti di
prua - e se da terra brillano luci, saranno certo lanterne agitate da
chi mi vuole fare naufragare sugli scogli. Così è stato l'approdo
di H. Così quello d.i mia madre. L'approdo, dico, non l'arrivo.
Non
è vero che penso sempre a H. Il lavoro e la conversazione lo rendono
impossibile. Ma i momenti in cui non penso a lei sono forse i
peggiori. Perché allora, anche se ne ho dimenticato la ragione,
tutto è velato da una vaga sensazione di errore, di difetto. Come in
quei sogni dove non accade nulla di spaventoso nulla che valga la
pena raccontare il mattino dopo a colazione - ma dove l'atmosfera e
le cose sanno di morte. Così ora. Vedo le bacche del sorbo che
stanno volgendo al rosso e per un attimo non so perché proprio
queste bacche debbano mettermi addosso tanta tristezza. Sento suonare
una pendola e il suono non ha più quel qualcosa di sempre. Che
cos'ha il mondo? Perché è diventato così piatto, così meschino e
consunto? Poi mi ricordo.
Questa
è una delle cose che mi fanno paura. Lo strazio, i momenti di follia
notturna, passeranno un po' alla volta, com' è nell' ordine della
natura. Ma che verrà dopo? Solo questa apatia, questa mortale
piattezza? Arriverà il momento in cui non mi chiederò più che cosa
ha trasformato il mondo in un vicolo grigio perché troverò normale
il suo squallore? Il dolore si acqueta dunque in una noia soffusa di
una vaga nausea?
Emozioni,
emozioni, sempre emozioni. Proviamo invece con la riflessione. Dal
punto di vista razionale, la morte di H. quale nuovo fattore ha
introdotto nel problema dell'universo? Quali ragioni mi ha dato per
mettere in dubbio tutto ciò a cui credo? Che ogni giorno accadano
cose del genere, e peggio, lo sapevo, e credevo di averlo messo in
conto. Ero stato avvertito - mi ero avvertito - che non dovevo fare
assegnamento sulla felicità terrena. Ci erano state persino promesse
sofferenze. Rientravano nel programma. Ci era stato detto persino: «
Beati quelli che piangono» e io l'avevo accettato. Non ho nulla che
non fosse nei patti. Certo, è diverso quando accade a te e non agli
altri, nella realtà e non nella fantasia. Sì, ma per un uomo sano
di mente la differenza deve essere così grande? No. E non lo sarebbe
per un uomo la cui fede fosse stata vera fede, la cui partecipazione
alle pene altrui fosse stata vera partecipazione. La risposta è fin
troppo chiara. Se il mio castello è crollato al primo colpo, è
perché era un castello di carte. La fede che «aveva messo in conto
queste cose» non era fede ma fantasia. Metterle in conto non era
vera partecipazione umana. Se mi fosse veramente importato, come
credevo, dei dolori del mondo, non sarei poi stato travolto dal mio.
Era una fede immaginaria che si trastullava con gettoni innocui con
sopra scritto «malattia», «sofferenza», «morte », «solitudine
». Credevo di avere fiducia nella corda, finché è venuto il
momento di sapere se essa mi avrebbe retto. Ora che deve reggermi,
scopro che la mia fiducia non esiste.
Nel
bridge, mi dicono, si deve giocare a soldi, «altrimenti il gioco non
è serio». Qui è la stessa cosa, a quanto pare. La dichiarazione -
Dio o nessun Dio, Dio buono o Sadico Cosmico, vita eterna o il nulla
- non è seria se non c'è una posta di qualche valore. E fino a che
punto sia seria lo si scopre solo quando le puntate diventano
paurosamente alte, quando si capisce che la posta in gioco non è un
pugno di gettoni o di monetine, ma la nostra intera ricchezza. Niente
che sia meno di questo può scuotere l'uomo (non, almeno, un uomo
come me) dalle sue riflessioni meramente verbali e dalle sue
convinzioni meramente immaginarie. Per farlo tornare in sé, il colpo
deve prima rincretinirlo. Solo la tortura tira fuori la verità. Solo
con la tortura egli riesce a scoprirla.
E
io devo sicuramente ammettere (H. mi ci avrebbe obbligato con una o
due stoccate) che, se il mio era un castello di carte, lo si doveva
abbattere al più presto. E solo la sofferenza poteva farlo. Ma in
tal caso il Sadico Cosmico ed Eterno Vivisezionatore diventa
un'ipotesi non necessaria.
Quest'ultima
annotazione vuole forse dire che sono incurabile, che quando la
realtà manda in pezzi il mio sogno mi avvilisco e ringhio sotto il
primo shock, e poi, con pazienza idiota, comincio a ricomporne i
frammenti? E così sempre? Tutte le volte che il castello crollerà,
io tornerò immancabilmente a rimetterlo insieme? È questo che sto
facendo ora?
In
effetti è probabile che quello che, se avverrà, io chiamerò «
ripristino della fede» non sarà altro che un nuovo castello di
carte. E per scoprirlo dovrò aspettare il prossimo colpo... magari
la diagnosi di una malattia senza scampo nel mio corpo, o una guerra,
o la mia rovina professionale per qualche tremendo errore. Ma qui
sorgono due domande. In che senso può essere un castello di carte?
Nel senso che le cose a cui credo ora sono solo un sogno, o nel senso
che io sogno di credere ad esse?
Quanto
alle cose a cui credo ora, perché i miei pensieri di una settimana
fa dovrebbero essere più attendibili di quelli, migliori, di adesso?
Mi pare di essere, in generale, più sano di mente adesso che non
allora. Perché le disperate elucubrazioni di un uomo intontito (ho
detto che era come aver battuto la testa) dovrebbero essere più
credibili?
Perché
non contenevano pietose illusioni? Perché l'essere tanto orribili le
rendeva molto più probabilmente vere? Ma è possibile sognare di
veder realizzate le proprie paure, oltre che i propri desideri. E
poi, erano davvero così ripugnanti? No. In un certo senso mi
piacevano. Riconosco persino che c'era una lieve riluttanza ad
accettare i pensieri di segno opposto. Tutto quel parlare di un
Sadico Cosmico non veniva tanto da una riflessione, quanto dall'odio.
Ne ricavavo l'unico piacere possibile per chi è tormentato: il
piacere di restituire i colpi. Erano solo vituperi, insulti, «dire
in faccia a Dio quello che pensavo di Lui». E naturalmente, come in
tutti gli insulti, «quello che pensavo» non significava quello che
ritenevo fosse la verità, bensì solo quello che ritenevo L'avrebbe
offeso di più (e con Lui i Suoi adoratori). Sono cose che non si
dicono mai senza un certo gusto. Ci si toglie «il peso dallo stomaco
», e per un po' si sta meglio.
Ma
lo stato d'animo non dimostra nulla. È chiaro che il gatto, sotto il
bisturi, brontolerà e soffierà, e cercherà di mordere. Ma la vera
questione è se chi opera è un vivisezionatore o un veterinario. Gli
insulti del gatto non servono a scoprirlo.
Quando
penso alle mie sofferenze, riesco a vedere in Lui il veterinario. Più
difficile è quando penso alle sofferenze di lei. Che cos'è il
dolore della mente di fronte a quello del corpo? Checché ne dicano
gli sciocchi, il corpo può soffrire venti volte di più della mente.
La mente ha sempre qualche via di fuga. Nel peggiore dei casi, il
pensiero intollerabile ritorna continuamente, ma il dolore fisico può
essere letteralmente ininterrotto. Il dolore spirituale è come un
bombardiere che vola in cerchio e sgancia le sue bombe ogni volta che
passa sull'obiettivo; il dolore fisico è come il fuoco di
sbarramento in una trincea della Grande Guerra: ore e ore senza un
momento di tregua. Il pensiero non è mai statico; il dolore fisico
spesso lo è.
Ma
che genere di amante sono, se in cima ai miei pensieri, molto prima
di lei, metto la mia afflizione? Anche quel folle grido: «Ritorna!
», l'ho lanciato pensando a me. Non mi è mai venuto in mente di
chiedermi se un tale ritorno, ammettendo che fosse possibile, sarebbe
un bene per lei. lo la rivoglio come ingrediente della restituzione
del mio passato. Potevo augurarle qualcosa di peggio? Tornare
indietro, dopo aver conosciuto la morte, e in un momento futuro dover
ricominciare daccapo a morire? Stefano è detto il protomartire. Ma a
Lazzaro non è toccato di peggio?
Comincio
a capire. Il mio amore per H. era assai simile per qualità alla mia
fede in Dio. Ma non voglio esagerare. Se nella fede ci fosse solo
immaginazione, o nell'amore solo egoismo, questo lo sa Dio. lo no.
Può darsi che ci fosse qualcosa di più; soprattutto nel mio amore
per H. Ma né amore né fede erano quello che io credevo. C'era
molto, in entrambi, del castello di carte.
Che
importa come evolve questo mio dolore, o quel che io ne faccio? Che
importa come la ricordo o se la ricordo? Nessuna di queste
alternative allevierà o accrescerà i suoi tormenti passati.
I
suoi tormenti passati. Come so che sono tutti passati? Non ho mai
creduto mi è sempre parso sommamente improbabile - che un'anima,
anche la più fedele, possa attingere d'un balzo la perfezione e la
pace non appena cessato il rantolo della morte. Cominciare a crederlo
ora sarebbe un'illusione doppiamente assurda. H. era un essere
meraviglioso: un'anima diritta, scintillante e temprata come una
spada. Ma non era una santa perfetta. Era una peccatrice sposata a un
peccatore: due pazienti di Dio, non ancora guariti. So che non ci
sono solo lacrime da asciugare, ma anche macchie da grattare via. La
spada sarà resa ancora più scintillante.
Ma
senza farle male, mio Dio! Senza farle troppo male! Già le spezzasti
sulla ruota il corpo che essa vestiva, mese dopo mese, settimana dopo
settimana. Non basta ancora?
La
cosa terribile è che, sotto questo aspetto, un Dio perfettamente
buono non incute meno paura di un Sadico Cosmico. Più siamo convinti
che Dio ci fa soffrire solo per guarirci, meno credibile ci sembra
che implorare di non far male serva a qualcosa. Un uomo crudele lo si
potrebbe corrompere, potrebbe stancarsi del suo infame passatempo,
potrebbe avere la sua parentesi di misericordia, come un alcoolizzato
ha le sue parentesi di sobrietà. Ma mettiamo invece di avere a che
fare con un chirurgo che ha a cuore solo il nostro bene. Più sarà
buono e coscienzioso, più sarà inesorabile nel tagliare. Se cedesse
alle suppliche, se interrompesse l'operazione prima della fine, tutto
il dolore provato fino a quel momento sarebbe stato inutile. Ma è
credibile che questi estremi di tortura siano necessari per noi?
Ebbene, la scelta è presto fatta. Le torture ci sono. Se non sono
necessarie, allora o Dio non esiste o è malvagio. Se c'è un Dio
buono, allora queste torture sono necessarie. Perché, se non lo
fossero, nessun Essere anche solo moderatamente buono potrebbe mai
infliggerle o permetterle.
In
un caso o nell'altro, non si scappa.
Che
cosa vogliono dire quelli che proclamano: «Non ho paura di Dio,
perché so che è buono »? Non sono mai stati da un dentista?
E
tuttavia non lo si può sopportare. E allora si balbetta: «Potessi
prendere su di me le sue sofferenze, o almeno le peggiori, o una
parte». Ma è un' offerta non si sa quanto seria, perché non c'è
posta in gioco. Se tutt'a un tratto lo scambio diventasse veramente
possibile, allora, per la prima volta, scopriremmo se parlavamo sul
serio. Ma viene mai concesso?
A
Uno è stato concesso, ci dicono, e io scopro di poter ora nuovamente
credere che Egli ha fatto in nostra vece ciò che in tal modo si può
fare. Al nostro balbettare, Egli risponde: «Tu non puoi e non osi.
lo potevo e ho osato».
È
accaduta una cosa del tutto inattesa. Stamattina presto. Per una
serie di ragioni, in sé niente affatto misteriose, mi sentivo il
cuore più leggero di quanto non mi succedesse da settimane. Prima di
tutto, è probabile che mi stia riprendendo dalla pura prostrazione
fisica. L'altro ieri, poi, sono stato in movimento per dodici ore di
fila, una stancata salutare, cui è seguito un sonno più lungo e più
profondo del solito; e dopo dieci giorni di cielo basso e grigio e di
umidità calda e immobile, è tornato il sole e si è levata una
brezza leggera. E all'improvviso, proprio nel momento in cui il
dolore per H. era meno forte, ho avuto di lei un ricordo vivo come
non mai. Anzi, qualcosa di meglio (quasi) di un ricordo: è stata
un'impressione istantanea, incontrovertibile. Dire che è stato come
un incontro sarebbe troppo. Eppure aveva una qualità che quasi
induce a usare quelle parole. E stato come se l'attenuarsi della pena
avesse rimosso una barriera.
Perché
nessuno mi ha mai detto queste cose? Come sarebbe stato facile essere
ingiusto con un altro nella stessa situazione. Avrei detto forse: «Ne
è venuto fuori. Ha dimenticato sua moglie», mentre la verità
sarebbe stata: «La ricorda meglio perché ne è in parte venuto
fuori ».
Questo
il fatto. E credo di potergli dare un senso. E impossibile vedere
bene quando,gli occhi sono offuscati dalle lacrime. E impossibile, il
più delle volte, ottenere ciò che si vuole se lo si vuole troppo
intensamente; o almeno, è impossibile trarne il meglio. «Facciamo
una bella chiacchierata» è una frase che garantisce il silenzio
generale. «Questa notte devo assolutamente dormire» è il preludio
a ore di veglia. Le bevande più buone sono sprecate quando la sete è
furibonda. Che sia quindi l'intensità stessa del rimpianto a far
scendere la cortina di ferro, a darci l'impressione di fissare il
vuoto quando pensiamo ai nostri morti? Chi chiede (o perlomeno, chi
chiede con troppa insistenza) non ottiene. Forse se lo preclude.
Con
Dio, forse, è lo stesso. A poco a poco ho cominciato a, sentire che
la porta non è più sprangata. E stato il mio delirante bisogno a
sbattermela in faccia? Forse, quando nell'anima non hai nulla se non
un grido di aiuto, è proprio allora che Dio non può soccorrerti:
sei come uno che annega e non può essere aiutato perché annaspa e
si aggrappa alla cieca. Forse le tue stesse continue grida ti rendono
sordo alla voce che speravi di sentire.
Però
è stato detto: «Bussate e vi sarà aperto». Ma bussare significa
dare pugni e calci alla porta come un invasato? E anche: «A chi ha
sarà dato ». Dopotutto, a chi non ha la capacità di ricevere,
neanche l'onnipotenza può dare. Forse il tuo stesso smaniare
distrugge temporaneamente questa capacità.
Perché
con Lui si può sbagliare in mille modi. Una volta, anni fa, quando
non eravamo ancora sposati, H. fu assillata per tutta una mattina,
mentre si occupava del suo lavoro, dall'oscura impressione che Dio,
per così dire, le stesse «gomito a gomito », sollecitando la sua
attenzione. E naturalmente, poiché non era una santa perfetta, pensò
che si trattasse, come sovente accade, di qualche peccato di cui non
si era pentita o di qualche noioso dovere. Alla fine si arrese (so
anch'io come si continua a rimandare in questi casi) e Lo affrontò.
Ma il messaggio era: «Voglio darti qualcosa», e di colpo fu piena
di letizia.
Credo
di cominciare a capire perché nel dolore di un lutto ci si sente
come sospesi, in tensione: è per la frustrazione di tutti quegli
impulsi che erano diventati abitudini. Pensieri, sentimenti, azioni,
tutti, costantemente, avevano come oggetto H. Adesso il loro
bersaglio non c'è più. Continuo a incoccare una freccia per forza
di abitudine; poi mi ricordo, e devo mettere giù l'arco. Quante
strade portano il pensiero a H. Ne prendo una, ma ora è sbarrata da
un posto di blocco insormontabile. Quante strade un tempo; e ora,
quanti culs-de-sac.
Perché
una buona moglie racchiude in sé tante persone. Che cosa non era H.
per me? Era mia figlia e mia madre, mia allieva e mia maestra, mia
suddita e mia sovrana; e sempre, a mantenere tutte queste cose in
soluzione, mio sodale, mio amico, mio camerata, mio compagno fidato.
Mia amante, ma al tempo stesso tutto ciò che qualsiasi amico uomo (e
ne ho di eccellenti) è stato ed è per me. Forse di più. Se non ci
fossimo innamorati, saremmo rimasti ugualmente insieme per sempre,
scandalizzando tutti. Questo volevo dire quella volta che la lodai
per le sue «virtù maschili». Ma lei mi mise subito a tacere,
chiedendo mi se mi sarebbe piaciuto essere lodato per le mie virtù
femminili. Ben rintuzzato, cara. Però c'era qualcosa dell'Amazzone,
qualcosa di Pentesilea e di Camilla. E tu, non meno di me, eri lieta
che ci fosse. Eri lieta che io lo riconoscessi.
Salomone
chiama la sua sposa «sorella ». Potrebbe una donna essere
pienamente moglie se all'uomo, per un attimo, in uno stato d'animo
particolare, non venisse quasi da chiamarla «fratello»?
«
Era troppo perfetto per durare»: questo sono tentato di dire del
nostro matrimonio. Ma lo si può intendere in due modi. Può essere
un'espressione di cupo pessimismo: come se Dio, accortosi che due
delle Sue creature erano felici, le avesse subito interrotte («
Basta! Finitela! »). Dio come la padrona di casa che durante un
cocktail separa due ospiti che danno segno di aver cominciato una
conversazione troppo seria. Ma potrebbe anche voler dire: «Aveva
raggiunto la sua perfezione. Aveva realizzato ciò che era implicito
in esso, e quindi non c'era motivo di prolungarlo». Come se Dio
avesse detto: «Bravi, questo esercizio l'avete imparato proprio
bene. Sono molto contento. Ora siete pronti per affrontare il
prossimo ». Una volta che sappiamo risolvere le equazioni di secondo
grado e ci proviamo gusto, l'insegnante non insiste e passa ad altro.
Perché
noi abbiamo imparato qualcosa e abbiamo raggiunto qualcosa. Nascosta
o esibita, c'è una spada che separa i sessi, finché un matrimonio
totale non li riconcilia. È nostra arroganza definire « maschili»
la schiettezza, la lealtà e la cavalleria quando le vediamo in una
donna; è loro arroganza descrivere come « femminili» la
sensibilità, il tatto o la dolcezza di un uomo. Ma, del resto, che
poveri frammenti deformi di umanità devono essere gli uomini solo
uomini e le donne solo donne, per rendere plausibili i sottintesi di
tale arroganza. Il matrimonio sana questa frattura. Uniti, i due
diventano pienamente umani. «A immagine di Dio Egli li creò». In
questo modo, con un paradosso, questo carnevale di sessualità ci
porta al di là del nostro sesso.
E
poi uno dei due muore. E noi lo vediamo come un amore interrotto;
come una danza arrestata a metà giravolta, o un fiore con la corolla
miseramente strappata: qualcosa di troncato, e quindi privo della sua
giusta forma. Ma è così? Se, come non posso fare a meno di
sospettare, anche i morti sentono i tormenti della separazione (e
questa potrebbe essere una delle loro pene purgatoriali), allora per
entrambi gli amanti, e per tutte le coppie di amanti, senza
eccezioni, la perdita dell'altro è una parte universale e integrante
dell'esperienza d'amore. Essa segue il matrimonio con la stessa
normalità con cui il matrimonio segue il corteggiamento o l'autunno
l'estate. Non è un troncamento del processo, ma una delle sue fasi;
non è l'interruzione della danza, ma la figura successiva. Noi siamo
«tratti fuori di noi» dall'amata fin tanto che essa è qui. Poi
viene la figura tragica della danza, nella quale dobbiamo imparare a
essere ugualmente tratti fuori di noi, anche se la presenza corporea
è stata tolta, dobbiamo imparare ad amare Lei, e a non ripiegare
sull'amore del nostro passato, o del nostro ricordo, o del nostro
dolore, o del nostro sollievo dal dolore, o sull'amore del nostro
stesso amore.
Guardando
indietro, vedo che solo poco tempo fa mi tormentava l'idea del mio
ricordo di H. e di una sua possibile falsificazione. Per non so quale
ragione (l'unica che mi venga in mente è il misericordioso buonsenso
di Dio) ho smesso di preoccuparmene. E la cosa straordinaria è che,
da quando ho smesso di preoccuparmene, lei mi viene incontro
dappertutto. Venire incontro è un'espressione troppo forte. Non
intendo nulla di lontanamente simile a un'apparizione o a una voce. E
non intendo nemmeno un'esperienza fortemente emotiva legata a un
momento particolare. E piuttosto come una sensazione discreta e
tuttavia massiccia che lei sia, ora non meno di prima, una realtà
con cui devo fare i conti.
«Fare
i conti» è forse un'espressione poco felice. Viene in mente una
donna dispotica, bisbetica. Come dire meglio? Forse «potentemente
reale », oppure «ostinatamente reale»? E come se questa esperienza
mi dicesse: «D'accordo, tu sei felicissimo che H. sia ancora una
realtà. Ma ricorda che lo sarebbe comunque, ti piacesse o no. Le tue
preferenze non sono state prese in considerazione ».
A
che punto sono? Allo stesso punto, credo, di un vedovo d'altro genere
che alla nostra domanda si fermerebbe un istante e, appoggiandosi
alla vanga, risponderebbe: «Che volete? Non bisogna lamentarsi.
Certo che è dura senza di lei. Ma, come si dice? sono tutte prove ».
Siamo arrivati allo stesso punto, lui con la
sua
vanga e io, che ora non sono molto bravo a scavare, col mio
strumento. Ma è chiaro che il «sono tutte prove» deve essere
capito nel modo giusto. Le prove non sono esperimenti che Dio fa
sulla mia fede o sul mio amore per saggiarne la qualità. Lui,
questa, già)a conosce; ero io che non la conoscevo. E piuttosto una
chiamata in giudizio, dove Dio fa di noi gli imputati e al tempo
stesso i testimoni e i giudici. Lui l'ha sempre saputo che il mio
tempio era un castello di carte. L'unico modo per far sì che lo
capissi anch'io era di buttarlo giù.
Venirne
fuori così presto? Ma queste sono parole ambigue. Un conto è dire
che un paziente sta venendone fuori dopo un'operazione di
appendicite, altro è dirlo dopo l'amputazione di una gamba. In
questo caso o il moncone si cicatrizza o l'uomo muore. Se si
cicatrizza, il dolore atroce e incessante finirà; il paziente dopo
qualche tempo ritroverà le forze e sarà in grado di muovere i primi
passi sulla sua gamba di legno. N e sarà «venuto fuori ». Ma per
tutta la vita, probabilmente, il moncone ogni tanto gli farà male,
forse molto male; e lui sarà sempre un uomo con una gamba sola. Non
avrà modo di dimenticarlo. Tutto sarà diverso: fare il bagno,
vestirsi, sedersi e alzarsi in piedi, persino stare a letto. Tutto il
suo modo di vivere sarà trasformato. Dovrà dire addio a piaceri e
ad attività che prima dava per scontati. E anche a certi doveri. lo
per ora sto imparando a muovermi con le stampelle. Forse tra un po'
mi daranno una gamba di legno. Ma bipede non lo sarò mai più.
Però
non posso negare che in un certo senso « mi sento meglio», e subito
provo una sorta di vergogna, e l'impressione di avere per così dire
l'obbligo di proteggere, coltivare e prolungare la mia infelicità.
L'avevo letto nei libri, ma non avrei mai immaginato di sperimentarlo
di persona. Sono sicuro che H. non approverebbe. Mi direbbe di non
fare lo stupido. E lo stesso, ne sono convinto, farebbe Dio. Che cosa
c'è dietro?
In
parte, certo, la vanità. Vogliamo dimostrare a noi stessi che siamo
amanti speciali, sublimi, eroi tragici: che nello sterminato esercito
di chi ha subìto un lutto non siamo semplici fanti che affrontano
pazientemente una lunga marcia. Ma questo non spiega tutto.
Credo
che ci sia anche una confusione. In realtà noi non vogliamo il
prolungarsi dello strazio iniziale: chi lo vorrebbe? Vogliamo
un'altra cosa, di cui il dolore è un sintomo frequente, e poi
scambiamo il sintomo per la cosa. L'altra sera ho scritto che la
perdita della persona amata non è il troncamento dell'amore
coniugale, bensì una delle sue fasi normali, come la luna di miele.
Quello che vogliamo è vivere bene e fedelmente il nostro matrimonio
anche in questa fase. Se fa male (come è inevitabile), accettiamo la
sofferenza come sua parte necessaria. Non vogliamo sfuggirvi, se il
prezzo è l'abbandono o il divorzio. Uccidendo il morto un'altra
volta. Noi eravamo una carne sola. Ora che è stata tagliata in due,
non vogliamo far finta che sia una e integra. Saremo sempre sposati,
sempre innamorati. E perciò continueremo a sentir male. Ma questo
male - se sappiamo capire noi stessi - non lo cerchiamo apposta. Meno
lo sentiamo, meglio è, purché il matrimonio resti intatto. E se
gioia può esserci nel matrimonio tra morto e vivente, tanto di
guadagnato.
Tanto
di guadagnato. Perché, come ho scoperto, l'abbandono al dolore,
invece di legarci ai morti, ce ne distacca. Questo mi diventa sempre
più chiaro. E proprio nei momenti in cui la pena è meno forte (al
mattino, per esempio, quando entro nell'acqua del bagno) che H.
invade di colpo la mia mente nella sua piena realtà, nella sua
alterità. Non, come nei momenti peggiori, scorciata, resa patetica,
resa solenne dalla mia cupezza, ma così come essa è, come è
davvero. Questo fa bene, e tonifica.
Mi
tornano in mente (ma non saprei citare nessun esempio) tutte quelle
ballate e quei racconti popolari dove i morti vengono a dirci che il
nostro pianto gli fa in qualche modo del male, e ci pregano di
smettere. Sono storie nelle quali forse si cela una profondità che
non sospettavo. E in tal caso, la generazione dei nostri nonni andava
in una direzione completamente sbagliata. Tutti quei riti di
cordoglio (magari per la vita) - visitare le tombe, celebrare gli
anniversari, lasciare la camera da letto vuota esattamente come la
teneva «lo scomparso », non pronunciare mai più il suo nome oppure
pronunciarlo in tono speciale, e magari (come faceva la regina
Vittoria) ordinare che ogni sera venissero preparati i suoi vestiti
per la cena - erano una sorta di mummificazione. Che rendeva i morti
ancora più morti.
O
forse, inconsciamente, lo scopo era proprio questo? Forse qui entra
in gioco qualcosa di molto primitivo. Assicurarsi che i morti restino
ben morti, impedire loro di tornare di soppiatto tra i vivi, è una
preoccupazione centrale del pensiero selvaggio. Bisogna ad ogni costo
tenerli « giù ». Certo, tutti quei riti sottolineano il loro stato
di morti. E forse questo risultato non era in realtà così sgradito,
non sempre almeno, come credevano i ritualisti.
Non
ho nessun diritto di giudicarli, però. Le mie sono solo
supposizioni, e farei meglio a risparmiare il fiato per la mia
minestra. Il mio programma, comunque, è chiaro: mi volgerò a lei
quanto più spesso potrò in letizia. Magari salutandola con una
risata. Meno la piango, mi sembra, più le sono vicino.
Un
programma esemplare. Purtroppo non è realizzabile. Stanotte si sono
riaperti gli abissi infernali del dolore, fresco come nei primi
tempi: le parole folli, le proteste rabbiose, i sobbalzi dello
stomaco, l'irrealtà da incubo, l'orgia di lacrime. Perché nulla
resta «giù », nel dolore. Si è appena emersi da una fase, che ci
si ritrova al punto di partenza. E poi ancora, e ancora. Tutto si
ripete. È un girare in tondo, il mio, oppure oso augurarmi che sia
una spirale? .
Ma
se è una spirale, sto salendo o scendendo?
Quante
volte (sarà per sempre?) dovrò contemplare sbigottito questo vuoto
immenso come se lo vedessi per la prima volta, quante volte dovrò
dire: «Solo adesso capisco ciò che ho perduto»? La gamba viene
amputata una, dieci, cento volte. E sempre uguale ritorna il primo
morso del coltello nella carne.
Dicono:
«Il codardo muore molte volte ». Anche la persona amata. L'aquila
di Prometeo non trovava a ogni pasto un fegato nuovo da straziare?
Questo
è il quarto quaderno vuoto che ho trovato in casa, l'ultimo; non
proprio vuoto, a dire il vero, perché in fondo ci sono alcune pagine
con vecchi esercizi di matematica di J. Ho deciso che questo sarà il
limite delle mie annotazioni. Non intendo cominciare a comprare
quaderni apposta. Come argine al crollo totale, come valvola di
sicurezza, questa cronaca è stata di qualche aiuto. Quanto all'altro
fine che avevo in mente, ho scoperto che poggiava su un equivoco.
Avevo pensato di poter descrivere uno stato, di fare una mappa
dell'afflizione. Invece ho scoperto che l'afflizione non è uno
stato, bensì un processo. Non le serve una mappa ma una storia, e se
non smetto di scrivere questa storia in un punto del tutto
arbitrario, non vedo per quale motivo dovrei mai smettere. Ogni
giorno c'è qualche novità da registrare. Il dolore di un lutto è
come una lunga valle, una valle tortuosa dove qualsiasi curva può
rivelare un paesaggio affatto nuovo. Come ho già notato, ciò non
accade con tutte le curve. A volte la sorpresa è di segno opposto:
ti trovi di fronte lo stesso paesaggio che pensavi di esserti
lasciato alle spalle chilometri prima. E allora che ti chiedi se per
caso la valle non sia una trincea circolare. Ma no. Ci sono, è vero,
ritorni parziali, ma la sequenza non si ripete.
Ecco,
per esempio, una nuova fase, una nuova perdita. Cammino più che
posso, perché sarei un idiota ad andare a letto non stanco. Oggi
sono tornato a vedere vecchi luoghi familiari, in uno di quei lunghi
giri in campagna che tanto amavo quando ero scapolo. E questa volta
il viso della natura non era svuotato della sua bellezza e il mondo
non sembrava (come lamentavo giorni fa) un vicolo grigio. Anzi, ogni
orizzonte, ogni steccato, ogni macchia d'alberi, mi richiamava a una
felicità antica, la mia felicità pre-H. Ma l'invito mi è sembrato
orribile. La felicità alla quale mi chiamavano era insipida. Mi
accorgo che non voglio tornare a essere felice a quel modo. Mi
spaventa pensare anche solo alla possibilità di un semplice ritorno
indietro. Perché questo destino mi parrebbe il peggiore in assoluto:
raggiungere uno stato in cui i miei anni di amore e di matrimonio
apparissero retrospettivamente come un gradevole episodio, una sorta
di vacanza, che avesse per breve tempo interrotto la mia vita
interminabile, per poi restituirmi immutato alla normalità. A poco a
poco arriverei a sentirlo come irreale: come qualcosa di tanto
estraneo alla trama consueta della mia storia da poter quasi credere
che sia successo a un altro. E così H. mi morirebbe una seconda
volta: un lutto peggiore del primo. Tutto, fuorché questo.
Hai
mai saputo, cara, quanto ti sei portata via andandotene? Mi hai
spogliato anche del mio passato, anche delle cose che non abbiamo mai
conosciuto insieme. Sbagliavo a dire che il monco ne si stava
riprendendo dal dolore dell'amputazione. Mi ingannavo, perché i suoi
modi di far soffrire sono così numerosi che io li vado scoprendo
soltanto a uno a uno.
Però
ci sono le due grandi conquiste mi conosco troppo bene ormai per
chiamarle «durevoli». Rivolta a Dio, la mia mente non trova più
quella porta sbarrata; rivolta a H., non trova più quel vuoto, e
neppure tutte quelle ansie sull'immagine che la mia mente ha di lei.
I miei appunti rivelano parte di questo processo, ma non tanto quanto
avevo sperato. Forse nessuno dei due cambiamenti era veramente
osservabile. Non c'è stata una transizione improvvisa, evidente,
emotiva. Come il riscaldarsi di una stanza fredda o il sorgere del
giorno: te ne accorgi quando tutto è cominciato già da un pezzo.
Queste
note parlano di me, di H. e di Dio. In quest'ordine. L'ordine e le
proporzioni sono l'esatto contrario di quelli che avrebbero dovuto
essere. E vedo che in nessun punto mi è accaduto di rivolgermi
all'uno o all'altra con quel modo del pensiero che chiamiamo lode.
Eppure sarebbe stata, per me, la cosa migliore. La lode è il modo
dell'amore che ha sempre in sé un elemento di gioia. Lode nel giusto
ordine: di Lui come donatore, di lei come dono. Non godiamo forse un
poco, nella lode, ciò che lodiamo, anche se ne siamo lontani? Devo
farlo più spesso. Ho perduto la fruizione che un tempo avevo di H. E
sono lontano, lontanissimo, nella valle della mia dissimiglianza,
dalla fruizione che potrò forse un giorno avere di Dio, se la Sua
misericordia è infinita. Ma con la lode posso ancora, in qualche
misura, godere lei, e posso già, in qualche misura, godere Lui.
Meglio che niente.
Ma
forse è un talento che non ho. Vedo che ho scritto di H. che è
simile a una spada. È vero, certo. Ma così, da sola, è un'immagine
del tutto insufficiente e fuorviante. Avrei dovuto completarla con
un'altra. Avrei dovuto dire: «Ma anche simile a un giardino. Simile
a un giardino fatto di tanti giardini uno dentro l'altro, con muri
che cingono altri muri, siepi che racchiudono altre siepi, e via via
che ci si addentra, sempre più segreto, sempre più pieno di una
vita fertile e fragrante».
E
poi, di lei, e di ogni cosa creata che lodo, dovrei dire: «In
qualche modo, in un modo che le è unico, simile a Colui che l'ha
fatta».
E
così risalire dal giardino al Giardiniere, dalla spada al Fabbro.
Alla Vita vivificante e alla Bellezza che dà bellezza.
«È
nelle mani di Dio». L'idea ha una nuova energia quando penso a lei
come una spada. Forse la vita terrena che ho diviso con lei era solo
parte del processo di tempratura. Ora forse Egli stringe l'elsa,
soppesa la nuova arma, ne fende l'aria traendo ne saette. «Una vera
lama di Gerusalemme ».
C'è
stato un momento, la notte scorsa, che può essere descritto per
similitudini; non c'è altro modo per tradurlo in parole. Immaginiamo
un uomo immerso nel buio assoluto. Egli è convinto di essere in un
sotterraneo o in una segreta. A un certo punto si sente un suono.
L'uomo pensa che venga da lontano: onde, o alberi agitati dal vento,
o qualche animale laggiù nei campi. Ma allora non è in un
sotterraneo: è libero, fuori, all'aperto. Oppure il suono è molto
più lieve e vicino: una risata sommessa. Ma allora accanto a lui,
nel buio, c'è un amico. In entrambi i casi, il suono è dolce,
dolcissimo. N on sono così pazzo da credere che una simile
esperienza sia prova di alcunché. E solo l'improvviso prender vita
nell'immaginazione di un'idea che avrei sempre accettato in via
teorica: l'idea che sia possibile, a me come a qualunque altro
mortale in qualunque momento, formarsi un'opinione totalmente errata
della vera natura della propria situazione.
Cinque
sensi; un intelletto inguaribilmente astratto; una memoria che
seleziona alla rinfusa; un bagaglio di preconcetti e di assunti così
numerosi che non posso mal esaminarne se non un piccolo numero - mai
aver coscienza di tutti. Quanta parte della realtà totale può
lasciar passare una macchina simile?
Non
intendo, se posso evitarlo, imboccare né la via sassosa né quella
piana. Due concezioni diversissime fra loro mi assillano sempre più.
Una è che l'Eterno Veterinario sia ancora più inesorabile e le
operazioni possibili ancora più dolorose di quanto non presagiscano
le nostre più terribili fantasie. Ma l'altra, che «tutto sarà
bene, tutto sarà bene e ogni genere di cose sarà bene».
Non
importa se tutte le fotografie di H. sono brutte. Non importa (non
molto) se il mio ricordo di lei è imperfetto. Le immagini, sulla
carta o nella mente, non sono importanti in sé. Sono solo agganci.
Prendiamo un parallelo da una sfera infinitamente più alta:
domattina un prete mi darà una piccola cialda rotonda, sottile,
fredda e insapore. E uno svantaggio, o non forse in qualche modo un
vantaggio, che questa cosa non possa ambire alla benché minima
somiglianza con ciò a cui mi unisce?
Io
ho bisogno di Cristo, e non di qualcosa che Gli somigli. Voglio H., e
non qualcosa che sia simile a lei. Una fotografia veramente bella
potrebbe alla fine diventare una trappola, un orrore, e un ostacolo.
Le
immagini, devo supporre, hanno una loro utilità, o non sarebbero
così diffuse. (Non fa differenza che siano dentro o fuori la mente,
ritratti e statue oppure costrutti dell'immaginazione). Ma per me è
più evidente il loro pericolo. Le immagini del Sacro diventano
facilmente immagini sacre, sacrosante. La mia idea di Dio non è
un'idea divina. Deve essere continuamente mandata in frantumi. Ed è
Lui stesso a farlo. Lui è il grande iconoclasta. Non potremmo quasi
dire che questa frantumazione è uno dei segni della Sua presenza?
L'esempio supremo è l'Incarnazione, che lascia distrutte dietro di
sé tutte le precedenti idee del Messia. I più sono « offesi»
dall'iconoclastia; e beati quelli che non lo sono. Ma la stessa cosa
accade nelle nostre preghiere private.
Tutta
la realtà è iconoclastica. L'amata terrena, già in questa vita,
trionfa incessantemente sulla semplice idea che abbiamo di lei. E noi
vogliamo che sia così: la vogliamo con tutte le sue resistenze, i
suoi difetti, la sua imprevedibilità. Ossia, nella sua realtà
solida e indipendente. Ed è questo, e non un'immagine, o un ricordo,
che dobbiamo continuare ad amare, dopo che è morta.
«Questo
», però, non è immaginabile ora. H. e tutti i morti sono, in
questo senso, simili a Dio. In questo senso amarla è diventato,
nella sua misura, come amare Lui. In entrambi i casi devo tendere le
braccia e le mani dell'amore (gli occhi qui non servono) verso la
realtà, sforzando mi di superare tutta la mutevole fantasmagoria dei
miei pensieri, delle mie passioni, delle mie fantasie. Non devo
tenermi pago della fantasmagoria, e adorarla al posto di Lui, o
amarla al posto di lei.
Non
la mia idea di Dio, ma Dio. Non la mia idea di H., ma H. Sì, e anche
non la mia idea del mio prossimo, ma il mio prossimo. Forse che non
facciamo spesso questo errore con chi è ancora vivo, con chi è
accanto a noi nella stessa stanza? Rivolgendo le nostre parole e le
nostre azioni non all'uomo vero ma al ritratto, al riassunto, quasi,
che ne abbiamo fatto nella nostra mente? E bisogna che lui se ne
discosti in modo radicale perché noi arriviamo ad accorgercene.
Nella vita reale (è una delle differenze tra la vita e i romanzi) le
sue parole e le sue azioni, a osservarle bene, non sono quasi mai
perfettamente « in carattere» con l'immagine che abbiamo di lui. N
ella sua mano c'è sempre una carta di cui non sapevamo nulla.
Ciò
che mi fa supporre di comportarmi in questo modo con gli altri è il
vedere quante volte gli altri si comportano palesemente in questo
modo con me. Ci illudiamo tutti di conoscerci l'un l'altro a
menadito.
Ma
anche tutto questo, forse, non è altro che un ennesimo castello di
carte. E se è così, Lui me lo butterà giù di nuovo. E poi ancora,
e ancora, tutte le volte che sarà necessario. A meno che, alla
lunga, non mi si lasci perdere, come un caso senza speranza, a
costruire palazzi di cartapesta all'Inferno, per sempre: « libero
tra i morti».
Per
esempio, sto semplicemente cercando di riappacificarmi con Dio perché
so che, se c'è una strada che porta a H., passa attraverso di Lui?
Però so anche benissimo che Lui non può essere usato come strada.
Se ti avvicini a Lui come a una strada e non come alla meta, come a
un mezzo e non come al fine, in realtà non ti stai affatto
avvicinando a Lui. Era questo l'errore di tutti quei quadretti di
gioiosi ricongiungimenti « sull'altra riva»: non l'ingenuità e la
terrestrità dei particolari, ma il fatto che essi offrono come Fine
ciò che noi possiamo ricevere solo come conseguenza del vero Fine.
Signore,
sono dunque queste le tue condizioni? Potrò ritrovare H. solo s'e
imparerò ad amarti al punto che non mi importerà più se la ritrovo
o no? Considera, Signore, come questo appare a noi. Che impressione
darei se dicessi ai ragazzi: « Niente dolci, ora. Però, quando
sarete grandi e i dolci non vi interesseranno più, potrete averne
quanti ne vorrete» ?
Se
sapessi che essere diviso da H. per l'eternità e per l'eternità
dimenticato da lei accrescerebbe la gioia e lo splendore del suo
essere, è chiaro che direi: « Ci sto! ». Così come, qui in terra,
se il non rivederla mai più avesse potuto farla guarire dal cancro,
avrei fatto in modo di non rivederla mai più. Non avrei potuto fare
diversamente. Qualunque persona di coscienza farebbe lo stesso. Ma
no, non va bene. La situazione in cui mi trovo ora è tutt'altra.
Quando
pongo queste domande davanti a Dio, non ricevo nessuna risposta. Ma è
un «nessuna risposta» di tipo speciale. Non è la porta sprangata.
Assomiglia piuttosto a un lungo sguardo silenzioso, e tutt'altro che
indifferente. Come se Lui scuotesse il capo non in segno di rifiuto,
ma per accantonare la domanda. Come a dire: «Zitto, bimbo; tu non
capisci ».
Può
un mortale fare domande che Dio trova senza risposta? Facilissimo,
direi. Ogni domanda senza senso non ha risposta. Quante ore ci sono
in ~n metro? Giallo è quadrato o rotondo? E probabile che buona
parte dei nostri interrogativi - buona parte delle nostre grandi
questioni teologiche e metafisiche - siano domande di questo genere.
E
ora che ci penso, davanti a me non c'è nessunissimo problema
pratico. Conosco i due grandi comandamenti, ed è ora che cominci ad
osservarli. Anzi, la morte di H. ha messo fine al problema pratico.
Finché era viva, avrei potuto, in pratica, anteporla a Dio; ossia
avrei potuto fare la volontà di lei, invece che quella di Lui; se
fossero state in conflitto. Quello che resta non è un problema che
riguardi l'agire. Riguarda solo il peso dei sentimenti, delle
motivazioni, e simili. E un problema che mi pongo io. Non credo che
Dio c'entri per niente.
La
fruizione di Dio. Il ricongiungimento con i morti. Entrambi non
possono figurare nel mio pensiero se non come gettoni. Assegni in
bianco. L'idea che ho della prima (se si può chiamarla idea) è
un'enorme e rischiosa estrapolazione da alcune poche e brevi
esperienze qui sulla terra. Probabilmente esperienze di assai minor
valore di quanto io creda. Forse addirittura inferiori ad altre cui
non bado nemmeno. L'idea che ho del secondo è anch'essa
un'estrapolazione. La realtà dell'una o dell'altro - la riscossione
dell'uno o dell'altro assegno - manderebbe probabilmente in mille
pezzi tutte queste idee su di loro, e a maggior ragione quelle sui
loro rapporti.
L'unione
mistica da un lato. La resurrezione del corpo dall'altro. lo non so
raggiungere neppure la parvenza di un'immagine, di una formula, anche
solo di una sensazione, che le combini. Eppure, secondo quello che ci
viene detto, la realtà lo fa. La realtà, ancora una volta
iconoclastica. Il cielo risolverà i nostri problemi, ma non, credo,
mostrandoci sottili riconciliazioni fra tutte le idee che a noi
apparivano contraddittorie. Quelle idee ci verranno strappate da
sotto i piedi. Scopriremo che non c'era mai stato alcun problema.
E,
più di una volta, quell'impressione che non so descrivere se non
dicendo che è come il suono di una risatina nel buio. La sensazione
che la vera risposta sia di una sconvolgente e disarmante semplicità.
Si
pensa spesso che i morti ci vedano. E noi assumiamo, ragionevolmente
o no, che, se è davvero così, essi ci vedono più chiaramente di
prima. H. vede ora quanta superficialità o quanti orpelli c'erano in
quello che lei chiamava, che io chiamo, il mio amore? Così sia.
Guarda fino in fondo, cara. Non mi nasconderei nemmeno se potessi.
Noi non ci siamo idealizzati l'un l'altro. Abbiamo cercato di non
avere segreti fra noi. Tu già conoscevi gran parte delle mie zone
guaste. Se ora vedi di peggio, posso sopportarlo. E anche tu.
Rimprovera, spiega, canzona, perdona. Perché questo è uno dei
miracoli dell'amore: che esso dà - a entrambi, ma forse soprattutto
alla donna - la capacità di vedere al di là dei suoi incantamenti,
ma senza che l'incanto scompaia.
Vedere,
in qualche misura, come Dio. Il Suo amore e la Sua conoscenza non
sono distinti l'uno dall'altra, né sono distinti da Lui. Potremmo
quasi dire che Egli vede perché ama, e quindi ama benché veda.
A
volte, Signore, viene la tentazione di dire che se tu ci volevi come
i gigli della campagna avresti potuto darci un'organizzazione più
simile alla loro. Ma proprio qui, immagino, sta il tuo grande
esperimento. Anzi, no: non un esperimento, perché tu non hai bisogno
di scoprire nulla. Meglio dire: la tua grande impresa. Fare un
organismo che sia anche uno spirito; fare quel terribile ossimoro che
è un «animale spirituale». Prendere un povero primate, una bestia
coperta di terminazioni nervose, una creatura con uno stomaco che
vuole essere riempito, un animale riproduttivo che ha bisogno di un
compagno, e dire: «Avanti, forza! Diventa un dio ».
Molti
taccuini fa, ho detto che, anche se ricevessi ciò che potrebbe
sembrare un'assicurazione della presenza di H., non ci crederei.
Facile a dirsi. Anche adesso, però, non intendo accettare nulla del
genere come prova. E la qualità dell' esperienza di ieri notte, non
ciò che prova ma ciò che era, che mi spinge a registrarla. E stata,
incredibilmente, spoglia di qualsiasi emozione. Solo l'impressione
della sua mente, per un attimo di fronte alla mia. Mente, non «anima»
nel senso che comunemente intendiamo. E comunque il contrario di quel
che si dice uno «slancio dell'animo ». Tutt'altro che un estatico
ricongiungimento di due amanti. È stato piuttosto come ricevere una
sua telefonata o un telegramma su una questione concreta, fattuale.
Non che ci fosse un « messaggio»: solo intelligenza e attenzione.
Nessun senso di gioia o di mestizia. E nemmeno amore, nel senso
corrente del termine. O dis-amore. Mai, in nessuno stato d'animo,
avevo immaginato i morti così... così asciutti ed efficienti, ecco.
E tuttavia c'era un'intimità fortissima e allegra. Un'intimità che
non ~ra. passata attraverso i sensi o le emozioni.
Se
è stato un rigurgito dell'inconscio, vuol dire che il mio inconscio
è una regione più interessante di quanto non mi avessero indotto a
credere gli psicologi del profondo. Tanto per cominciare, lo si
direbbe molto meno primitivo del mio io cosciente.
Da
qualsiasi parte sia venuto, ha dato alla mia mente una, diciamo così,
bella ripulita. Questo potrebbero essere i morti: puro intelletto. Un
filosofo greco non si sarebbe sorpreso di un'esperienza come la mia.
Per lui era evidente che, se di noi resta qualcosa dopo la morte,
deve essere quello e nient'altro. A me l'idea era parsa finora arida
e raggelante. L'assenza di emozione mi ripugnava. Ma in questo
contatto (reale o apparente che fosse) non c'è stato nulla del
genere. Non c'era bisogno di emozione. L'intimità era già completa,
e insieme corroborante e ristoratrice. È possibile che questa
intimità sia puro amore, quell'amore che è sempre accompagnato, in
questa vita, dall'emozione non perché sia un' emozione o abbia
bisogno della presenza di un' emozione, ma perché questo è l'unico
modo in cui possono reagire la nostra anima animale, il nostro
sistema nervoso, la nostra immaginazione? Se è così, quanti
preconcetti devo eliminare! Una società, una comunione, di pura
intelligenza non sarebbe fredda, uggiosa, squallida. Ma nemmeno
sarebbe ciò che di solito si ha in mente quando si usano parole come
«spirituale », «mistico », «santo ». Sarebbe, se davvero ne ho
intravisto un barlume... ho quasi paura degli aggettivi che dovrei
usare. Energica? allegra? penetrante? attenta? intensa? vigile? Ma
soprattutto, solida. Assolutamente affidabile. Costante. I morti sono
gente quadrata.
Quando
dico «intelletto» includo la volontà. L'attenzione è un atto di
volontà. L'intelligenza in azione è volontà par excellence. Ciò
che mi è sembrato venirmi incontro era pieno di risolutezza.
Quando
la fine fu vicina, le dissi: «Se puoi... se è permesso... vieni da
me quando sarò anch'io sul letto di morte ». «Se è permesso!»
rispose. «Il Cielo avrebbe un bel daffare a trattenermi. Quanto
all'Inferno, lo ridurrei in briciole ». Sapeva di usare una sorta di
linguaggio mitologico, con una nota di arguzia, perfino. Negli occhi,
insieme alle lacrime, le brillava una risata. Ma non c'erano miti o
scherzi nel lampo della volontà, più profonda di qualsiasi
sentimento.
Tuttavia,
l'esser giunto a fraintendere un po' meno totalmente che cosa
potrebbe essere una pura intelligenza non deve farmi sporgere troppo
in là. C'è anche, qualunque ne sia il significato, la resurrezione
della carne. Non possiamo capire. Il meglio è forse ciò che meno
comprendiamo.
Non
si disputava un tempo per stabilire se la visione finale di Dio fosse
soprattutto un atto di intelligenza oppure di amore? E probabilmente
una delle tante domande senza senso.
Che
malvagità sarebbe, se ne avessimo il potere, richiamare in vita i
morti! Non a me, ma al cappellano, disse: «Sono in pace con Dio ».
E sorrise, ma non a me. Poi
si tornò all'etterna fontana.