TRE MORTI
Estratto da I COSACCHI E ALTRI RACCONTI
Tre morti è una specie di parabola di a sfondo morale: muoiono una ricca signora, un contadino e un albero:la donna nei tormenti, il contadino serenamente, l'albero in perfetta armonia. Questo Tolstoj maturo ci insegna che dobbiamo imparare ad ascoltare la natura, a riprodurre nelle nostre vite il suo ritmo.
TRE MORTI
I
Era autunno. Sulla strada maestra andavano veloci al trotto due vetture. Nella carrozza davanti c'erano due donne. Una era la padrona, emaciata e pallida. L'altra - la cameriera, rubiconda e piena. Quando gli aridi capelli corti sfuggivano da sotto un cappellino scolorito, la mano rossa in un guanto lacero li aggiustava nervosamente. L'alto petto, coperto da un fazzoletto con una fantasia da tappeto, spirava salute; gli occhi neri vivaci ora seguivano attraverso il finestrino i campi che correvano via, ora lanciavano sguardi timorosi alla padrona, ora osservavano inquieti gli angoli della carrozza. Davanti al naso della cameriera ondeggiava il cappellino della padrona appeso alla retina; sulle sue ginocchia era accucciato un cagnolino; i piedi erano rialzati dalle scatole che stavano sul pavimento, e vi sbattevano sopra in modo appena percettibile, al suono degli scossoni delle molle e del tintinnio dei vetri.
Con le mani unite sulle ginocchia e gli occhi chiusi, la padrona sobbalzava debolmente sui cuscini sistemati dietro la schiena, e, corrugando leggermente la fronte, soffocava una tosse insistente. Aveva in testa una cuffietta da notte bianca e uno scialletto azzurro, annodato sul morbido e pallido collo. Una scriminatura dritta, che scompariva sotto la cuffietta, divideva i capelli castano chiari impomatati, straordinariamente lisci, e c'era qualcosa di secco, di morto nel biancore della pelle di quell'ampia scriminatura. La pelle appassita, un po' giallastra, non copriva in modo compatto i bei tratti fini del volto ed era arrossata sulle guance e sugli zigomi. Le labbra erano secche e inquiete, le rade ciglia non erano arricciate, e la veste di panno da viaggio formava delle pieghe dritte sul petto incavato. Nonostante gli occhi fossero chiusi, il viso della signora esprimeva stanchezza, irritazione e una sofferenza abituale.
Un lacchè, coi gomiti poggiati al sedile, sonnecchiava a cassetta; il postiglione, lanciando di tanto in tanto svelto un grido, conduceva la forte quadriglia sudata, gettando a tratti un'occhiata all'altro postiglione, che lanciava di tanto in tanto un grido dalla vettura di dietro. Le larghe impronte parallele dei cerchioni si allungavano regolari e profonde sul fango calcinoso della strada. Il cielo era grigio e freddo; un'umida foschia si spandeva sui campi e sulla strada. Nella carrozza l'aria era soffocante e c'era odore di acqua di colonia e di polvere. La malata gettò indietro la testa e lentamente aprì gli occhi. I grandi occhi erano brillanti e di uno splendido colore scuro.
«Di nuovo», disse, respingendo nervosamente con la bella mano smagrita un lembo della mantella della cameriera, che le sfiorava appena il piede, - e la sua bocca si contrasse dolorosamente. Matrëša raccolse con le due mani la mantella, si sollevò sulle forti gambe e si sedette più in là. Il suo viso fresco si era coperto di vivo rossore. Gli splendidi occhi scuri della malata seguivano avidamente i movimenti della cameriera. La signora si puntellò con le due mani al sedile e cercò anche lei di sollevarsi per mettersi a sedere più su; ma le forze non la seguirono. La bocca le si contrasse, e tutto il suo viso si alterò in un'espressione di impotente, feroce ironia. «Se almeno tu mi aiutassi!... Ah! Non serve! Ce la faccio da sola, però non mettermi dietro quelle tue specie di sacchi, fammi il favore!.. E poi è meglio se non mi tocchi, visto che non sei capace!». La signora chiuse gli occhi e, risollevate le palpebre velocemente, diede un'occhiata alla cameriera. Matrëša, guardandola, si mordeva il rosso labbro inferiore. Un profondo sospiro si alzò dal petto della malata, ma il sospiro, ancor prima di finire, si mutò in tosse. Si voltò, contrasse il viso e si tenne il petto con le due mani. Quando la tosse fu passata, richiuse gli occhi e continuò a sedere immobile. La carrozza e la carrozzella entrarono in un villaggio. Matrëša tirò fuori una mano paffuta da sotto il fazzoletto e si segnò.
«Che c'è?», chiese la padrona.
«Una fermata, signora».
«Perché ti segni ti sto chiedendo!».
«Una chiesa, signora».
La malata si voltò verso il finestrino e prese a segnarsi lentamente, guardando con gli occhi spalancati la grande chiesa del paese, che la carrozza della malata stava sorpassando.
La carrozza e la carrozzella si fermarono insieme alla stazione di posta. Dalla carrozzella scesero il marito della donna malata e il dottore, e si avvicinarono alla carrozza.
«Come vi sentite?», chiese il dottore, sentendole il polso.
«Allora, come stai, mia cara, non ti sei stancata?», chiese il marito in francese, «non vuoi scendere magari?».
Matrëša, raccolti i fagottini, stava rannicchiata in un angolo per non disturbare la conversazione.
«Non c'è male, lo stesso», rispose la malata. «Non scenderò».
Il marito, rimasto un po' in piedi, entrò nell'edificio della stazione; Matrëša, saltata giù dalla carrozza, corse in punta di piedi, nel fango, verso la porta.
«Se mi sento male io, questa non è una ragione per cui voi non dobbiate far colazione», disse la malata, sorridendo leggermente, al dottore che stava in piedi accanto al finestrino.
«A nessuno di loro importa niente di me», aggiunse tra sé, appena il dottore, allontandandosi da lei a passo lento, ebbe salito di corsa i gradini della stazione. «Loro stanno bene, così è lo stesso. Oh! Mio Dio!».
«Allora, Eduard Ivanoviè», disse il marito, andando incontro al dottore e fregandosi le mani con un sorriso allegro, «ho ordinato di portare la cesta da viaggio, cosa ne pensate in proposito?».
«Non male», rispose il dottore.
«Allora, come sta?», chiese con un sospiro il marito abbassando la voce e sollevando le sopracciglia.
«Lo dicevo, non solo non ce la farà ad arrivare in Italia, ma voglia Dio che resista fino a Mosca. Specialmente su questa strada».
«Cosa fare dunque? Ah, Dio mio! Dio mio!». Il marito si coprì gli occhi con la mano. «Dai qui», aggiunse verso l'uomo che portava la cesta da viaggio.
«Bisognava restare», rispose il dottore dopo aver stretto le spalle.
«Ma dite, cosa mai potevo fare?», replicò il marito, «eppure ho usato ogni mezzo per trattenerla: ho parlato delle nostre risorse economiche, dei bambini che dobbiamo lasciare, dei miei affari, - non vuol sentire niente. Fa piani per la vita all'estero come se fosse sana. E dirle delle sue condizioni significherebbe ucciderla».
«Ma è già morta, dovete saperlo, Vasilij Dmitriè. Una persona non può vivere quando non ha polmoni, e i polmoni non possono ricrescere. È triste, è atroce, ma che fare? Il nostro e il vostro compito consiste solo nel rendere la sua fine, per quanto possibile, serena. A questo punto è necessario un confessore».
«Ah, mio Dio! Ma voi afferrate la mia situazione, come posso ricordarle le ultime volontà? Sia quel che sia, questo non glielo dirò. Sapete bene com'è buona...».
«Comunque cercate di convincerla ad aspettare l'inverno per il viaggio», disse il dottore, scuotendo significativamente la testa, «altrimenti per strada potrebbe essere peggio...».
«Aksjuša, ehi Aksjuša!», strillava la figlia del mastro di posta, infilato dalla testa il giacchino bordato e dondolando sui due piedi all'ingresso posteriore infangato, «andiamo a vedere la signora di Širkino, dicono che la portano all'estero per una malattia di petto. Non ho ancora mai visto come sono i malati di tisi».
Aksjuša comparve sulla soglia, e ambedue, presesi per mano, corsero fuori dal portone. Rallentato il passo, passarono accanto alla carrozza e diedero un'occhiata dal finestrino abbassato. La malata voltò la testa verso di loro, ma, notata la loro curiosità, si rabbuiò e si rivoltò.
«MM-a-mma mia!», disse la figlia del mastro di posta, girando svelta la testa. «Che bellezza straordinaria era, e ora che è successo? Fa persino paura. Hai visto, hai visto, Aksjuša?».
«Sì, com'è magra!», annuì Aksjuša. «Andiamo a vedere ancora, come se andassimo al pozzo. Guarda, si è voltata, ma io l'ho vista ancora. Che pena, Maša».
«Ma che fango anche!», rispose Maša, e ambedue rientrarono di corsa dal portone.
«Devo essere diventata orribile», pensava la malata. «Si potesse arrivare più in fretta, più in fretta all'estero, là mi rimetterò presto».
«Allora, come stai, mia cara?», disse il marito, avvicinandosi alla carrozza mentre ancora masticava un boccone.
«Sempre una stessa e unica domanda», pensò la malata, «e lui mangia!».
«Non c'è male», lanciò attraverso i denti.
«Lo sai, mia cara, temo che starai peggio se viaggiamo con questo tempo, e Eduard Ivanyè dice lo stesso. Non sarebbe meglio rientrare?».
Ella taceva risentita.
«Il tempo forse si rimetterà, la strada si riassesterà, e tu staresti meglio; potremmo anche andare tutti insieme».
«Scusami. Se non ti avessi dato ascolto per tanto tempo, ora sarei a Berlino e sarei del tutto guarita».
«Che fare, angelo mio, non era possibile, lo sai. Ma ora, se rimanessi per un mese, ti rimetteresti benissimo, io porterei a termine i miei affari, e potremmo prendere i bambini...».
«I bambini stanno bene, io invece no».
«Eppure devi capire, mia cara, che con questo tempo, se ti sentissi peggio per la strada... allora, almeno, a casa».
«Che cosa a casa?... Morire a casa?», rispose con stizza la malata. Ma la parola morire, evidentemente, la spaventò; guardò il marito con aria supplichevole e interrogativa. Quello abbassò gli occhi e taceva. La bocca della malata si contrasse all'improvviso in una smorfia infantile, e le lacrime cominciarono a scenderle dagli occhi. Il marito si coprì il viso con un fazzoletto e in silenzio si allontanò dalla carrozza.
«No, voglio andare», disse la malata, alzò gli occhi al cielo, unì le mani e iniziò a sussurrare parole sconnesse. «Mio Dio! Perché mai?», diceva, e le lacrime le scendevano più copiose. Pregò a lungo e con fervore, ma nel petto provava sempre lo stesso dolore e la stessa oppressione; nel cielo, nei campi e per la strada era sempre grigio e nuvoloso, e la stessa foschia autunnale, né più fitta, né più rada, continuava a spandersi sul fango della strada, sui tetti, sulla carrozza e sui tulupy dei postiglioni, che, chiacchierando con voci forti e allegre, ungevano e attaccavano la carrozza...
...
II
La carrozza era stata attaccata, ma il postiglione indugiava. Era passato un momento nell'izba riservata ai postiglioni. Nell'izba c'era caldo, soffocante, scuro e opprimente; c'era odore di abitato, di pane al forno, di cavolo e di pelle di pecora. Alcuni postiglioni erano nella stanza; la cuoca si dava da fare accanto alla stufa; sulla stufa, avvolto in pelli di pecora, era steso un malato.
«Zio Chvëdor! Ehi, zio Chvëdor!», disse un ragazzo, un postiglione con un tulup e la frusta alla cintola, entrando nella camera e rivolgendosi al malato.
«Tu, parolaio, cosa vuoi da Fed'ka?», replicò uno dei postiglioni; «bada, ti aspettano in carrozza».
«Voglio chiedergli gli stivali; ho rotto i miei», rispose il ragazzo, mandando indietro i capelli e aggiustando i guanti alla cintola. «O forse dorme? Ehi, zio Chvëdor?», ripeté, avvicinandosi alla stufa.
«Che vuoi?», si sentì una debole voce, e un volto magro e rossiccio si sporse giù dalla stufa. Una larga mano smagrita e impallidita, coperta di peli, stava tirando l'armjak sulla spalla aguzza dentro una camicia sporca. «Dammi da bere, fratello, che vuoi?».
Il ragazzo porse l'attingitoio con l'acqua.
«Ebbene, Fedja», disse quello, dondolandosi, «gli stivali nuovi, dico, ora non ti servono; dalli a me, dico, non ci devi camminare».
Il malato, avvicinata la testa stanca all'attingitoio lucente e bagnando i baffi radi e pendenti nell'acqua scura, beveva fiaccamente e avidamente. La barba ispida era sporca; gli occhi infossati e smorti si sollevarono con fatica sul volto del ragazzo. Lasciata l'acqua, egli voleva alzare una mano, per asciugare le labbra bagnate, ma non poté e si asciugò con la manica dell'armjak. Tacendo e respirando pesantemente col naso, guardò dritto negli occhi del ragazzo, mentre raccoglieva le forze.
«Forse li hai già promessi a qualcuno», disse il ragazzo, «allora è inutile. Il fatto principale è che in cortile è bagnato, e io devo partire per lavoro; così ho pensato: chiederò gli stivali a Fed'ka, dico, a lui non servono. Ma se invece servono a te, dillo...».
Nel petto del malato qualcosa iniziò a scorrere e a gorgogliare; si sporse e quasi soffocava per una irrisolvibile tosse di gola.
«Macché gli servono», si mise a blaterare per tutta l'izba la cuoca, in preda ad una inaspettata collera, «è più di un mese che non scende dalla stufa. Guarda, si spolmona, perfino a te fa male dentro quando lo senti. E a che gli servono gli stivali? Non lo seppelliranno con gli stivali nuovi. Ed è già tempo da un pezzo, perdona Signore il mio peccato. Guarda, si spolmona. Almeno bisognerebbe portarlo da qualche parte in un'altra izba o chissà dove! Ospedali del genere, sai, in città ci sono; altrimenti è un vero affare, ha occupato tutto l'angolo, e fine. Non hai spazio. E chiedono pure la pulizia».
«Ehi, Serëga! Su, monta, i signori aspettano», gridò dalla porta il mastro di posta.
Serëga voleva andarsene senza aspettare la risposta, ma il malato, mentre tossiva, gli aveva fatto cenno con gli occhi che voleva rispondere.
«Prenditi pure gli stivali, Serëga», disse, dopo aver soffocato la tosse e aver ripreso un po' fiato. «Questo solo, compra una lapide quando sarò morto», aggiunse roco.
«Grazie, zio, allora li prendo e la lapide, te lo giuro, la comprerò».
«Ecco ragazzi, avete sentito», poté aggiungere il malato e nuovamente si sporse giù e quasi soffocava.
«Bene, abbiamo sentito», disse uno dei postiglioni. «Vai a metterti a cassetta, Serëga, altrimenti ecco che torna di corsa il vecchio. La signora di Širkino, sai, è malata».
Serëga si tolse agilmente gli stivali rotti sproporzionatamente grandi e li gettò sotto una panca. Gli stivali nuovi di zio Fëdor gli stavano a pennello, e Serëga, guardandoseli, uscì verso la carrozza.
«Che stivali importanti! Dammeli che te li lucido», disse il postiglione, con il grasso in mano, nel momento in cui Serëga, arrampicandosi a cassetta, raccoglieva le redini. «Te li ha dati per niente?».
«Non sarai invidioso», rispose Serëga, tirandosi su e girando intorno alle gambe i lembi dell'armjak. «Partiamo! Ehi voi, carini!», gridò ai cavalli, schioccando la frusta; e la carrozza e la carrozzella con i loro passeggeri, le loro valigie e i loro bagagli, scomparendo nella grigia nebbia autunnale, partirono velocemente per la strada bagnata.
Il postiglione malato rimase sulla stufa dell'izba soffocante e, senza smettere di tossire, a stento si girò sull'altro fianco e si chetò.
Nell'izba fino a sera arrivarono, se ne andarono, mangiarono, - il malato non si sentiva. Prima che fosse notte la cuoca si arrampicò sulla stufa e, scavalcando le gambe di lui, prese il tulup.
«Non essere in collera con me, Nastas'ja», disse il malato, «presto te lo libererò quest'angolo».
«D'accordo, d'accordo, non fa niente», borbottava Nastas'ja. «Ma cos'è che ti fa male, zio? Di'».
«L'interno non fa che spasimare. Lo sa Dio cos'è».
«Forse ti fa male anche la gola quando tossisci?».
«Mi fa male dappertutto. La mia ora è arrivata - ecco cosa. Oh, oh, oh!», gemette il malato.
«Copriti le gambe, così», disse Nastas'ja, stendendogli addosso l'armjak mentre scendeva dalla stufa.
Per tutta la notte nell'izba splendette debolmente un lumino. Nastas'ja e una decina di postiglioni, russando forte, dormivano sul pavimento e sulle panche. Solo il malato ansimava debolmente, tossiva e si rigirava sulla stufa. Verso mattina si acquietò del tutto.
«È strano quello che mi sono sognata stanotte», diceva la cuoca, stiracchiandosi nella penombra il mattino seguente. «Sogno che zio Chvëdor è sceso dalla stufa ed è andato a far legna. "Su, Nastja", dice, "ti darò una mano"; allora io gli dico: "Macché far legna", ma lui afferra l'ascia e comincia a tagliare, così svelto, così svelto che volano le schegge. "Insomma", dico io, "eppure eri malato". "No", dice, "sto bene", ma come alza il braccio sono stata presa dal panico. Come mi metto a gridare mi sono svegliata. - È già morto forse? Zio Chvëdor! Ehi zio!».
Fëdor non rispondeva.
«Non è che è davvero morto? Andiamo a vedere», disse uno dei postiglioni che si erano svegliati.
La povera mano che pendeva dalla stufa, coperta di peli rossicci, era fredda e pallida.
«Andiamo a dire al mastro di posta che forse è morto», disse un postiglione.
Fëdor non aveva parenti - era di lontano. Il giorno seguente lo seppellirono nel nuovo cimitero, dietro il boschetto, e Nastas'ja per alcuni giorni raccontò a tutti del sogno che aveva fatto e del fatto che lei per prima si era accorta che zio Fëdor se n'era andato.
III
Arrivò la primavera. Per le strade bagnate della città, tra pezzi di letame ghiacciato, mormoravano frettolosi ruscelli; i colori dei vestiti e i suoni dei discorsi dei passanti erano vivaci. Nei giardinetti oltre gli steccati si gonfiavano le gemme degli alberi, e i loro rami oscillavano in modo appena percettibile per il vento fresco. Ovunque si versavano e picchiettavano gocce trasparenti... I passeri pigolavano goffamente e svolazzavano con le loro alucce. Sul lato soleggiato, sugli steccati, le case e gli alberi, tutto si muoveva e luceva. C'era gioia, gioventù e in cielo, e in terra, e nel cuore degli uomini.
In una delle strade principali, davanti a una grande casa signorile, era stata stesa della paglia fresca; nella casa era in fin di vita la stessa malata che viaggiava in fretta verso l'estero.
Accanto alla porta chiusa della camera stavano in piedi il marito della malata e una donna anziana. Sul divano sedeva il prete, con gli occhi bassi, tenendo qualcosa avvolto nell'epitrachelio. In un angolo, su una poltrona alla Voltaire, era stesa una vecchietta - la madre della malata - e piangeva amaramente. Accanto a lei una cameriera teneva in mano un fazzoletto da naso pulito, aspettando che la vecchietta glielo chiedesse; una seconda le strofinava con qualcosa le tempie e le soffiava sotto la cuffietta sulla testa canuta.
«Be', Cristo sia con voi, amica mia», diceva il marito alla donna anziana che stava in piedi accanto a lui sulla porta, «ha una tale fede in voi, voi sapete parlarle in un modo, convincetela per bene, colombella, andate dunque». Egli voleva già aprirle la porta; ma la cugina lo trattenne, avvicinò più d'una volta il fazzoletto agli occhi e scosse la testa.
«Ecco, ora mi sembra di non avere più gli occhi bagnati di lacrime», disse e, aperta lei stessa la porta, la passò.
Il marito era in grande agitazione e sembrava totalmente smarrito. Si stava dirigendo verso la vecchietta; ma, fatti solo pochi passi, si girò, attraversò la camera e si avvicinò al prete. Il prete lo guardò, alzò le sopracciglia al cielo e sospirò. Anche la folta barbetta brizzolata si alzò all'insù e si abbassò.
«Mio Dio! Mio Dio!», disse il marito.
«Che fare?», disse sospirando il prete, e nuovamente le sopracciglia e la barbetta si alzarono all'insù e si abbassarono.
«C'è qui anche sua madre!», disse il marito quasi con disperazione. «Non lo sopporterà. Le vuole tanto di quel bene... non lo so. Se almeno voi, padre, cercaste di tranquillizzarla e di convincerla ad andarsene di qui».
Il prete si alzò e si avvicinò alla vecchietta.
«È proprio vero, nessuno può sapere quanto vale il cuore di una mamma», disse, «tuttavia Dio è misericordioso».
Il viso della vecchietta improvvisamente prese a contrarsi tutto, e le venne un singulto isterico.
«Dio è misericordioso», continuò il prete, quando quella si fu un po' calmata. «Vi posso raccontare che nella mia parrocchia c'era un malato, molto più di Mar'ja Dmitrevna, e invece un borghesuccio qualsiasi lo guarì in breve tempo con delle erbe. E quello stesso borghese ora è a Mosca. Dicevo a Vasilij Dmitreviè - si potrebbe tentare. Almeno per la malata sarebbe un conforto. Per Dio tutto è possibile».
«No, non ha più da vivere», disse la vecchietta; «invece di me, Dio si prende lei». E il singulto isterico riprese talmente forza che perse i sensi.
Il marito della malata si coprì il volto con le mani e corse fuori dalla stanza.
Nel corridoio la prima persona che gli venne incontro fu un bambino di sei anni, che rincorreva a perdifiato una bambina più piccola.
«Allora, non mi dite di portare i bambini dalla mammina?», chiese la njanja.
«No, non li vuole vedere. La sconvolge».
Il bambino si fermò un minuto, continuando a fissare il viso del padre, poi improvvisamente scalciò e con un grido allegro corse oltre.
«Fa' finta di essere una morella, papino!», gridò il bambino, indicando la sorella.
Intanto, nell'altra stanza, la cugina sedeva accanto alla malata e con un discorso condotto ad arte cercava di prepararla al pensiero della morte. Il dottore, all'altra finestra, mescolava una bevanda.
La malata, con una vestaglia bianca, completamente circondata da cuscini, sedeva nel letto e guardava in silenzio la cugina.
«Ah, amica mia», disse, interrompendola inaspettatamente, «non mi dovete preparare. Non prendetemi per una bambina. Sono una cristiana. So tutto. So che non ho molto da vivere, so che, se mio marito mi avesse dato ascolto prima, sarei stata in Italia e, forse, anzi sicuramente, sarei guarita. Questo glielo dicevano tutti. Ma che fare, evidentemente Dio desidera così. Noi tutti abbiamo molti peccati, questo lo so; ma confido nella grazia di Dio: tutti vengono perdonati, di sicuro, tutti vengono perdonati. Io cerco di capire me stessa. Anch'io avevo molti peccati, amica mia. Ma in cambio quanto ho sofferto. Ho cercato di sopportare con pazienza le mie sofferenze...».
«E se chiamassi il prete, amica mia? Vi sentireste ancora più leggera, se vi comunicaste», disse la cugina.
La malata abbassò la testa in cenno di assenso.
«Dio! Perdona me peccatrice», mormorò.
La cugina uscì e fece un cenno con gli occhi al prete.
«È un angelo!», disse al marito con le lacrime agli occhi. Il marito si mise a piangere; il prete passò la porta; la vecchietta era ancora senza conoscenza, e nella prima camera si fece un gran silenzio. Dopo cinque minuti il prete uscì dalla porta e, toltosi l'epitrachelio, si ravviò i capelli.
«Grazie a Dio è più tranquilla ora», disse, «desidera vedervi».
Il marito e la cugina entrarono. La malata piangeva sommessamente, guardando un'immagine.
«Felicitazioni, mia cara», disse il marito.
«Grazie! Come mi sento meglio ora, che dolcezza incomprensibile provo», diceva la malata, e un leggero sorriso giocava sulle sue labbra sottili. «Come è misericordioso Dio. Non è vero che Egli è misericordioso e onnipotente?» E di nuovo rivolse uno sguardo ardentemente supplice all'immagine, con gli occhi pieni di lacrime.
Poi all'improvviso fu come se le fosse venuto qualcosa alla mente. A cenni fece avvicinare a sé il marito.
«Non vuoi mai fare niente di quello che ti chiedo», disse con voce debole e scontenta.
Il marito, allungato il collo, l'ascoltava mansueto.
«Cosa, mia cara?».
«Quante volte ti ho detto che questi dottori non capiscono niente, ci sono delle semplici guaritrici, quelle guariscono... Ecco, il padre diceva... un borghese... Manda a chiamarlo».
«Chi, mia cara?».
«Mio Dio! Non vuoi capire niente!...». E la malata contrasse il viso e chiuse gli occhi.
Il dottore, avvicinandosi a lei, le prese la mano. Le pulsazioni andavano sensibilmente indebolendosi. Fece un cenno al marito. La malata notò questo gesto e spaventata si guardò intorno. La cugina si voltò e iniziò a piangere.
«Non piangere, non tormentare te stessa e me», diceva la malata, «ciò mi toglie quel po' di tranquillità che mi resta».
«Sei un angelo!», disse la cugina, baciandole la mano.
«No, baciami qui, solo ai morti si bacia la mano. Mio Dio! Mio Dio!».
Quella stessa sera la malata era già un cadavere, e il cadavere stava in una bara nel salone della grande casa. Nella grande stanza con le porte chiuse sedeva un sacrestano e, con voce nasale e cadenzata, leggeva i salmi di Davide. La viva luce dei ceri cadeva dagli alti candelabri d'argento sulla pallida fronte della defunta, sulle pesanti mani ceree e sulle pieghe pietrificate della coltre funebre che si sollevava paurosamente sulle ginocchia e sulle dita dei piedi. Il sacrestano, senza capire le proprie parole, leggeva cadenzatamente, e nella stanza silenziosa le parole risuonavano e morivano in un modo strano. Di tanto in tanto, da una remota camera, arrivavano suoni di voci infantili e il loro scalpitio.
«Se nasconderai il Tuo volto - si turberanno», suonava il salterio, «se prenderai loro l'anima - moriranno e ritorneranno polvere. Se ridarai la Tua anima - risorgeranno e rinnoveranno il volto della terra. Sia gloria al Signore nei secoli».
Il volto della defunta era severo, sereno e maestoso. Niente si muoveva, né sulla fredda e pura fronte, né sulle labbra fortemente serrate. Era al colmo dell'attenzione. Ma capiva forse, almeno ora, quelle solenni parole?
IV
Un mese dopo sulla tomba della defunta era innalzata una cappella in pietra. Sulla tomba del postiglione, invece, non c'era ancora una lapide, e solo l'erba verdolina si faceva strada sopra il tumulo, che fungeva da unico segno dell'esistenza passata di un uomo.
«Farai peccato, Serëga», diceva una volta la cuoca alla stazione, «se non compri la lapide a Chvëdor. Dicevi: "È inverno, è inverno", ma ora perché mai non mantieni la parola? Eppure è stato davanti a me. È già venuto da te una volta a chiedere; se non la compri, tornerà un'altra volta, si metterà a soffocarti».
«Ebbene, sto forse ritrattando?», rispondeva Serëga, «comprerò la lapide, come ho detto, la comprerò, la comprerò da un rublo e mezzo. Non ho dimenticato, ma bisogna andarla a prendere. Quando capiterò in città, allora la comprerò».
«Avresti dovuto metterci almeno una croce, ecco cosa», disse un vecchio postiglione, «altrimenti è proprio brutto. Gli stivali, però, li porti».
«Dove gliela trovi una croce? Non la puoi mica sgrossare da un ceppo!».
«Ma che dici? Non la puoi sgrossare da un ceppo, prendi l'ascia e vai nel boschetto al mattino presto, allora la sgrosserai. Puoi tagliare un frassino, o qualche altra cosa. E avrai pronta la croce. Se no puoi anche andare ad offrire da bere della vodka al guardaboschi. Per ogni schifezza non c'è modo di dissetarlo. Ecco, giorni fa ho spezzato una leva, ne ho abbattuta una nuova, pesante, nessuno mi ha detto una parola».
Al mattino presto, ai primi albori, Serëga prese l'ascia e andò nel boschetto.
Su tutto era steso un freddo velo opaco di rugiada ancora cadente, non illuminata dal sole. L'oriente si schiariva impercettibilmente, spandendo la sua debole luce sulla volta del cielo velata da sottili nubi. Non si muovevano né un'erbetta in basso, né una foglia sul ramo più alto di un albero. Solo di quando in quando suoni appena percettibili di ali nel folto di un albero o fruscii per terra interrompevano il silenzio del bosco. Improvvisamente uno strano suono estraneo alla natura si diffuse e morì al margine della boscaglia. Ma nuovamente si sentì il suono e iniziò a ripetersi regolarmente, in basso, accanto al tronco di uno degli alberi immobili. Una delle cime cominciò a trepidare singolarmente, le sue foglie succose iniziarono a sussurrare qualcosa, e un capirosso che stava su uno dei suoi rami, con un fischio svolazzò due volte e, contraendo la codina, si posò su di un altro albero.
L'ascia, in basso, suonava sempre più sordamente; bianche schegge succose volavano sull'erba rugiadosa, e si sentiva un leggero crepitio sotto i colpi. L'albero sussultò con tutto il corpo, si piegò e velocemente si raddrizzò, oscillando spaventato sulla sua radice. Per un attimo tutto si acquietò, ma nuovamente l'albero si piegò, nuovamente si sentì il crepitio sul suo tronco, e, rompendo i ramoscelli e abbassati i rami, esso piombò sull'umida terra con la cima. I suoni dell'ascia e dei passi si spensero. Il capirosso fischiò e volò più in alto. Il ramo che aveva toccato con le sue ali, oscillò per un po' e si fermò, come anche gli altri, con tutte le foglie. Gli alberi si distinguevano ancora più gioiosamente nel nuovo spazio con i loro rami immobili.
I primi raggi del sole, perforata una nuvola trasparente, splendettero nel firmamento e passarono di corsa per la terra e il cielo. La nebbia, a ondate, iniziò a spandersi nei valloncelli; la rugiada, splendendo, iniziò a giocare sul verde; le nuvolette biancastre trasparenti, frettolose, si dispersero per la volta celeste. Gli uccelli facevano chiasso nel folto degli alberi e, come persi, cinguettavano qualcosa di felice; le foglie succose mormoravano gioiosamente e tranquillamente sulle cime, e i rami degli alberi vivi lentamente, maestosamente cominciarono ad agitarsi sull'albero morto, accasciato.