Il governo del cambiamento è una Prima repubblica squattrinata
Filippo Taddei
3 NOVEMBRE, 2018
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Mentre la nostra economia e lavoro stentano, la politica del governo Lega-M5s sceglie incertezza e debito pubblico. Siamo tornati alla Prima Repubblica, ma senza la solidità dei partiti costituzionali. La produzione industriale rimane più bassa del 2007 di oltre il 16 per cento, il prodotto interno lordo è ancora al di sotto di oltre il 6 per cento e solo il tasso di occupazione è tornato ai livelli pre-crisi. L’occupazione fatica a trovare la stabilità sperata. Nel mercato del lavoro si snatura il Jobs Act e torna a crescere l’incertezza istituzionale e normativa. Se non sappiamo competere accrescendo il nostro saper fare al lavoro – il capitale umano, dobbiamo tenere a mente che rimane l’alternativa peggiore della riduzione dei salari e della svalutazione del lavoro. Il nostro paese oggi dovrebbe essere ossessionato dalle proprie difficoltà a sostenere le competenze nel lavoro, cioè la produttività.
Se il governo fosse stato interessato a investire su competenze e capitale umano per sostenere il futuro ai lavoratori, avrebbe fatto un’offerta che nessuno in parlamento avrebbe potuto rifiutare: concentrare risorse su formazione e politiche attive, usare la leva della agenzia nazionale delle politiche attive per costruire una rete di sostegno attivo dei disoccupati e dei lavoratori in crisi. Con una rete di questo tipo in essere, persino il reddito di cittadinanza sarebbe potuto divenire uno strumento di riattivazione con qualche credibilità.
Invece il governo ha scelto di assecondare la tempesta perfetta, sostanziata da tre scelte. Prima ha introdotto un provvedimento poco più che simbolico, ribattezzandolo con la prosopopea da neofiti decreto dignità. In realtà si è trattato di un aumento degli indennizzi per licenziamento introdotti dal Jobs Act, un limite temporale all’uso del tempo determinato e un irrigidimento della disciplina dei contratti a termine che ne ha reso il loro utilizzo non meno frequente ma solo più barocco. L’effetto è stato un aumento dell’incertezza nell’uso dei contratti a termine che, in maniera non sorprendente, non è andato a beneficio del lavoro a tempo indeterminato ma ha ricominciato a riallargare l’area del falso lavoro autonomo.
Poi è arrivata la sentenza della Corte costituzionale che ha di fatto rimosso uno dei principi cardine del contratto a tutele crescenti, centrale nel favorire l’assunzione a tempo indeterminato, quello della prevedibilità dei costi di indennizzo in caso di licenziamento. Ridando centralità al giudice nella definizione della quantità dell’indennizzo sulla base di una applicazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, la Corte costituzionale ha rifiutato la logica del contratto a tutele crescenti. La crescita della incertezza giudiziale che ne è conseguita avrebbe richiesto un intervento riordinativo del governo ma, nella assenza di questo intervento, il contratto a tempo indeterminato torna ad essere penalizzato dalla incertezza normativa.
Infine, in ritardo più che mai, è arrivata la legge di Bilancio per il 2019 in cui il lavoro risulta grande assente: nessuna risorsa per ridurre il costo del lavoro stabile, nulla per la formazione e un ammontare ad oggi imprecisato per sostenere una non meglio definita riforma dei centri per l’impiego che si prepariamo ad accogliere milioni (5?) di poveri.
Controriforme del lavoro
Gli ultimi dati sull’andamento del mercato del lavoro non fanno che rispondere a questa sequenza di controriforme. Il Jobs Act aveva due obiettivi paralleli. Da una parte la riduzione della precarietà e l’aumento del contratto a tempo indeterminato nella consapevolezza che questi contratti in Italia favoriscono la formazione. Il secondo era ridurre questa spropositata area del lavoro autonomo, che rende il mercato del lavoro italiano un’assoluta eccezione nel confronto con tutte le principali economie europee.
Mentre l’occupazione è cresciuta dal 2015 a oggi, la percentuale dei contratti a tempo indeterminato è rimasta sostanzialmente stabile. Poco più di 63 occupati su 100 oggi lo sono a tempo indeterminato. Ricordando quanto ancora manchi in termini di pil e produzione industriale, cioè al netto della fragilità dell’economia italiana, questo risultato non deve essere dato per scontato. Specialmente da tutti quelli che affermano che le regole del mercato del lavoro non contano perché conta solo la domanda di lavoro. La seconda trasformazione ha visto la percentuale di lavori autonomi calare dal 24 al 22%. Per quanto questa percentuale rimanga ancora alta nel confronto internazionale, è interessante accompagnarla alla crescita della percentuale del lavoro a termine. E’ evidente che la crescita del lavoro a termine è stata maggiore della diminuzione del lavoro autonomo. Eppure, per ogni lavoratore uscito dalla falsa autonomia per entrare nel lavoro a termine, questo passaggio ha significato un accrescimento delle tutele nel posto di lavoro e al di fuori di esso.
Dopo avere passato mesi ad annunciare grandiosi cambiamenti mentre l’unica cosa che cambiava era lo spread, il governo ha deciso di finire per riproporre il più classico dei ritorni al passato. E’ la versione aggiornata del pentapartito: vorrebbero il ritorno alla lira e nel mentre producono debito pubblico in più.
Senza quasi nessuna coscienza di queste ultime trasformazioni in atto, il governo si è mosso con la grazia di un pistolero in cerca di vendetta invece che di un riformatore delle istituzioni. Non è un caso se i suoi interventi nel mondo del lavoro sembrano destinate alla inefficacia se non al danno. Se l’obiettivo del decreto dignità era la riduzione del lavoro a termine, questo è stato disatteso dai dati di questi mesi in cui si è vista la continuazione della crescita del lavoro a tempo determinato. Anche a settembre questo è cresciuto. L’incertezza giudiziale introdotta dalla sentenza della Consulta non è stata minimamente affrontata e tanto meno ci si attende che questo possa avvenire in futuro. Le scelte di bilancio poi non hanno alcuna intenzione di sostenere la ripresa del lavoro a tempo indeterminato. Per un governo che sta puntando quasi tutto sul Reddito di Cittadinanza, le statistiche delle forze lavoro possono almeno offrire una utile indicazione. Infatti, se vedessimo che il numero di inattivi continuasse a calare, come è successo nell’ultimo mese, mentre continuano anche a ridursi gli occupati, potremmo concludere, con buona approssimazione, che la speranza di un reddito garantito conta più di quella di trovare una opportunità di lavoro. Alla fine, in politica economica, si ottiene sempre quello che si vuole veramente. Peccato che non sia anche quello che si afferma di desiderare di promuovere.
Perché va veloce solo la caduta del pil.
Il nostro dibattito pubblico ruota intorno ad un'illusione coltivata da 50 anni di retorica sul primato della politica. E’ l’illusione che basti un aggiustamento nelle politiche di bilancio per creare vero lavoro e trasformare in profondità un’economia. Di questa retorica sono caduti, vittime per lo più inconsapevoli, anche i partiti di Grillo e Salvini. Nutriti dalla paura e dal rancore, hanno promesso agli italiani un veloce cambiamento a colpi di “onestà”. L’unica velocità che abbiamo visto è quella della frenata del pil, del calo dell’occupazione e dell’aumento del costo del credito trainato dallo spread. Il vero problema della politica economica è che in realtà non si riesce quasi mai a sopravvivere politicamente per vedere i risultati delle proprie scelte. Si può essere cinici e spendere denaro pubblico con scuse creative, oppure si può pensare al futuro perché tende ad accadere sempre prima di quanto ci si aspetti. Così sta accadendo anche oggi: l’autunno dell’economia italiana sta calando sull'estate del “governo del cambiamento”. La frenata della crescita reale del reddito italiano nel terzo trimestre e la riduzione dell’occupazione a settembre preparano l’inverno del nostro scontento. Questi dati in realtà misurano la fragilità della nostra economia e sono particolarmente preoccupanti perché accadono mentre l’economia mondiale e quella europea continuano a crescere. Se analisti e politici di mezzo mondo si preoccupano del futuro, in Italia ne abbiamo abbastanza col presente. Evitiamo però ambiguità: questo governo ha avuto troppo poco tempo per rendersi unico responsabile di questo calo dell’occupazione e della prima crescita zero del pil da quattro anni. Questa maggioranza ha però generato grande confusione e incertezza sul nostro futuro interrompendo quel faticoso processo di riforma con cui il nostro paese lottava, con alterne fortune, dal 2011 in avanti. La nostra fragilità economica è la misura di quanto sia necessario continuare a trasformare in profondità la società italiana. Anche se oggi la parola “strutturale” – per la verità anche quella “riforma” – è stata cancellata dal dibattito pubblico, per un malato ventennale di bassa crescita come l’Italia rimane sempre e solo questo l’unico argomento di cui varrebbe la pena discutere. Dopo avere passato mesi ad annunciare grandiosi cambiamenti mentre l’unica cosa che cambiava era lo spread, il governo ha deciso di finire per riproporre il più classico dei ritorni al passato. In continuità con i “primatisti della politica”, responsabili storici del nostro debito pubblico, i gialloverdi hanno prima approvato un intervento cosmetico sulla legislazione del lavoro per poi proporre una legge di Bilancio in cui manca il lavoro, si incita l’evasione fiscale a colpi di condono, si manda qualche migliaio di persone in pensione ad una età che non si può garantire a tutti gli altri e si promette un generale, poco credibile, assistenzialismo. I nuovi governanti sono solo una versione aggiornata della politica economica del pentapartito: vorrebbero il ritorno alla lira e nel mentre producono debito pubblico in più, chiedendo un ennesimo pagherò a carico delle generazioni più giovani che dicono di proteggere. L’unica consolazione è che questa Prima Repubblica durerà molto meno della precedente. Torneremo presto a parlare di lavoro, più forti grazie alla memoria di questi ultimi colpevoli ritardi