venerdì 2 novembre 2018



IL SOGNO DI UNA COSA

Pier Paolo Pasolini
Edizione Garzanti.
(Dalla Presentazione di Edoardo Albinati)
"Forse il segreto di questo romanzo sta in una sfasatura di tempi.
Il sogno di una cosa viene concepito e scritto da Pasolini nel 1948 e 1949, cioè prima di Ragazzi di vita (1955) e di Una vita violenta (1959); ma viene pubblicato dopo, nel 1962. Così si trova a essere, al tempo stesso, romanzo d'esordio e di conclusione, cartone preparatorio di una stagione narrativa e ripensamento finale sulla brevità e la ricchezza di quell'esperimento. Chi, nel 1962, lesse il Sogno - che Pasolini aveva opportunamente «restaurato, verniciato e incorniciato» in vista della pubblicazione - non poté non leggerlo a contrasto degli altri due, i romanzi romani, ricavandone l'ambigua sensazione di essere trascinato indietro nel tempo, verso un punto fisso dal quale, però, il tempo aveva continuato a scorrere in avanti, macinando gli anni, distruggendo e
«restaurando», fino a creare un'incolmabile distanza che era poi la distanza tra un Italia contadina appena uscita dalla guerra (il 1948) e l'Italia appena entrata nell'età neo-industriale (il 1962). [....]"

IL SOGNO DI UNA COSA
1

Fin dal mattino, se la giornata è serena, la strada provinciale e i viottoli campestri che conducono a Casale, si riempiono di gente che va alla sagra del Lunedì di Pasqua. Un po' alla volta le immense radure, d'un verde ancora invernale, freddo e leggero, colorato qua e là da qualche ramo rosa di pesco, formicolano di gente che passeggia, si diverte, gioca, corre; i cavalli sciolti dalle carrette trottano pascolando lungo i fossi, cavalcati da qualche ragazzo vestito a festa; i bambini corrono agitando le loro spade di rami scortecciati, tra i grandi depositi delle biciclette, e le bambine con le loro bluse arancione, viola o verde, giocano tranquille sotto i sambuchi appena ingemmati. Le piattaforme per il ballo sono ancora vuote e le mille bandierine di carta, sospese ai fili delle lampade, si muovono appena a una leggerissima aria che soffia dal mare. A nord il cerchio dei monti della Carnia affonda nel biancore, lucido e velato, dei primi giorni di primavera.
Da Ligugnana, Rosa e San Giovanni, che erano i loro paesi, senza sapere l'uno dell'altro, Nini Infant, Milio Bortolus e Eligio Pereisson, si erano mossi fin dalle prime ore del pomeriggio con le loro compagnie alla volta della festa.
Essi si conoscevano, è vero, ormai da molto tempo, di vista, perché si erano incontrati in molte altre sagre, e tutti tre facevano parte della migliore gioventù della riva destra. Il Nini giunse a Casale in bicicletta con il suo compagno di Ligugnana; sul manubrio aveva piantato un ramo di biancospino, e dato che era già un po' ubriaco alla mattina, non passava ragazza che egli non assalisse con grida pazze e galanti. Era in gran vena: appena giunto a Casale gettò la bicicletta nella custodia col gesto di chi si sente uno dei protagonisti della festa, benché straniero, e i ragazzi della custodia presero subito, con lui, un'aria di servizievole, scanzonata e un poco ironica simpatia. Abbandonata la bicicletta nelle loro mani, e tenendo un solo rametto di mandorlo che si cacciò tra le labbra, andò subito a prendere possesso dell'ambiente.
Non meno scalmanati di lui, da Rosa frattanto giungeva una compagnia di ragazzi dai quindici ai venti anni, con la giacchetta sulle spalle e le maglie dalle grandi striscie colorate intorno al petto; tra essi, biondo, appena ondulato, con due occhi che parevano di cristallo azzurro, Milio pedalava con l'armonica a tracolla, e, non appena come aveva fatto il Nini, la sua compagnia si fu liberata delle biciclette, egli attaccò furiosamente un passo doppio, tra le risa e i gridi dei compagni.
Poi giunse il terzo, Eligio Pereisson, in piedi sul carro pieno di ragazze e di ragazzetti; egli guidava il cavallo bianco che scuoteva la testa slittando in mezzo alla folla; le ragazze intanto cantavano agitando i fazzoletti e i ramoscelli di mandorlo che avevano strappato per la strada; appena giunti sulla radura della sagra, le ragazze spingendosi e gridando sciamarono via ed Eligio rimase ad occuparsi del cavallo aiutato da suo fratello Onorino. Quando fu tutto a posto si voltò intorno a cercare i compagni che si erano dileguati in mezzo alla confusione.
Il Nini, Eligio, Milio avevano tutti l'età in cui una fisarmonica è una cosa importante: fu così che si conobbero, per mezzo della fisarmonica di Milio, che, sotto due cespugli di biancospino, stava suonando tra i suoi compagni, e il Nini era già lì con le mani in tasca che stava a sentirlo. Aveva un'aria un po' ironica e provocante, e sembrava che stesse per dire qualcosa: forse era una critica al passo doppio, o un'osservazione, o forse un complimento.
Comunque aveva uno sguardo molto sicuro e allegro; ma gli altri ragazzi di Rosa non si erano quasi accorti di lui: non così Milio, però, che lo aveva adocchiato subito e ora suonava con particolare foga, ce la metteva tutta, quasi stesse suonando per lui.
Intanto anche l'altro si era avvicinato, ed era andato a mettersi al fianco del Nini: si guardavano di sottecchi, ma non avevano coraggio di attaccare discorso. Ad un tratto però la gioventù di Rosa decise di andare altrove, forse verso le piattaforme del ballo (che non era ancora incominciato) o forse verso la baracca dell'osteria: e trascinarono con loro Milio che continuava a suonare. Rimasti così soli presso i biancospini, il Nini e Eligio si diedero ancora un'occhiata e fu il Nini finalmente a decidersi: «Lei è di San Giovanni, vero?» domandò.
«Sì,» rispose l'altro galante. «E lei se non sbaglio è di Ligugnana: ci siamo visti tante volte per le sagre...» «Domenica l'ho incontrato a Mure, con una bella ragazza: la conosco, è una di Gruaro...
e aveva una compagna molto bella, anche lei, con cui non sono riuscito mai a parlare...» «Oggi forse vengono qui,» disse Eligio, «se vuole, posso fargliela conoscere...» «Benissimo allora!
Andiamo a bere un bicchiere?» «Andiamo!» fece contento Eligio.
Ormai l'amicizia era fatta: era tanto che i due giovani desideravano conoscersi, che si guardavano: una volta c'era stata anche quasi una lite tra di loro per colpa di una involontaria spinta che si erano dati ballando: ed era da allora che si amavano. Adesso, dopo le prime parole, cominciava a entrare nei loro discorsi un entusiasmo, un calore che rendeva bella qualsiasi cosa: l'idea di andare a bere un bicchiere, la più comune che si potesse avere in quel momento, gli parve stupenda; e specie dopo che ebbero bevuto non uno, ma due o tre bicchieri di vino, pendevano uno dalle labbra dell'altro come se certe cose, l'organizzazione di una sagra, la bravura di un'orchestrina da ballo e le ragazze di Gruaro, fossero argomenti trattati per la prima volta dalla creazione del mondo. Il Nini era leggero, Eligio un matto: ma in quel momento avevano tutti due un'aria molto severa, quasi superba; ridevano con l'aspetto di ridere fra loro per fatti tutti speciali, che l'altra gioventù intorno doveva ascoltare ammirata.
Le due sorelle di Gruaro giunsero dopo una mezzora ed essi, avvistandole, corsero subito ad abbordarle: Eligio rideva con la sua faccia di biondo appena un poco rossiccio e le lame azzurre dei suoi occhi trasparenti, ma, avvicinatosi alle due ragazze, si fece d'improvviso quasi serio e dopo averle salutate con confidenza da vecchio amico, disse: «Voglio presentarvi un mio compagno!»
Il Nini se ne stava un po' in disparte col suo sorriso capriccioso e splendente. Eligio gli mise una mano sulla spalla e disse il suo nome: «Nini», e allora il Nini si avvicinò, tese cortesemente la mano e ripeté, con un imbarazzo nascosto dietro la fresca impertinenza: «Giovanni Infant, ho molto piacere di conoscerle.» Ed esse, contente, dissero a loro volta e molto cerimoniose, i loro nomi. Erano belle e ben accomodate: con le loro capigliature castane con la permanente di moda due o tre anni prima; abbondanti, del resto, fin sulle spalle; bei seni altrettanto abbondanti, sotto i vestiti leggeri, uno turchino e l'altro marrone, indossati per la prima volta il giorno precedente che era Pasqua, e ancora immacolati come sulla tavola della sartoria. Le sarte, anzi, erano esse stesse, e infatti le loro mani non erano arrossate e nel comportamento avevano qualcosa che le rendeva diverse dalle contadine. Era proprio quello che ci voleva per il Nini e Eligio; essi presero subito un'aria di protezione e di spregiudicatezza: volevano sembrare anch'essi qualcosa di meglio che contadini; il Nini indossava infatti una camicia alla cow-boy, e Eligio una americana dello stesso celeste dei suoi occhi.
L'orchestrina aveva incominciato a suonare: la musica si spandeva allegramente intorno, disperdendosi per le praterie. Le due coppie non aspettavano che questo, e cominciarono a ballare fin dal primo giro; erano soli sulla piattaforma, insieme solo a un'altra coppia di due giovanotti, forse due dei festeggeri; e gli occhi dei ragazzetti e dei giovani che erano subito accorsi intorno alla piattaforma, erano puntati su di loro. Erano, due ballerini in gamba, di quelli che danno vita a una festa. Diedero subito prova della loro bravura, fin dal terzo o quarto giro, nella piattaforma semi-vuota, con la scusa di approfittare, appunto, dello spazio libero: ballarono un boogie-woogie che incantò gli spettatori imberbi, e scandalizzò un poco, ma facendole ridere, le vecchie madri che tenevano d'occhio le ragazze. Il Nini e Eligio volevano essere superiori a se stessi per potersi ammirare a vicenda. Finito il giro, si cercavano fra le altre coppie e andavano sotto la baracca dell'orchestrina a chiacchierare, accennando a certi nuovi passi di ballo che erano i soli a conoscere.
Con quelli dell'orchestrina erano in confidenza: e potevano chiedere le canzoni che desideravano. Il violinista, che era il direttore, un giovincello bruno e mattacchione di Rosa, li conosceva tutti due; e ogni tanto si chinava verso di loro, a dire qualche spiritosaggine: nuova fonte di ammirazione, da parte dei giovani coetanei e dei giovinetti, verso i due stranieri.
Milio comparve sulla piattaforma solo per una mezzora insieme a una ragazza sconosciuta; egli non era un gran ballerino, come il Nini e Eligio: e rimase un poco nell'ombra. Poi, dopo non poche occhiate scambiate coi due sconosciuti amici, se ne andò via.
Lo ritrovarono il dopocena. Le due sorelle di Gruaro se ne erano andate. Le ragazze scarseggiavano, quelle di San Giovanni venute con Eligio non erano capaci di ballare. Se ne stavano in mucchio, coi fratelli più piccoli di Eligio, Onorino e Livo; e nella piattaforma c'era una gran ressa. Il Nini e Eligio giravano su e giù per la folla insieme ai loro compagni, che si erano presentati. Ballarono poco; si divertirono piuttosto a fare gli insolenti con le ragazze di Codroipo.
Fu così che si imbatterono nella compagnia di Rosa. Era una compagnia allegrissima, in vena di grandi cose: parevano degli incendiari, in cerca di incendiare qualcosa, farne un gran falò per dimostrare a quelli di Casale o di Codroipo quanto valesse la gioventù dell'altra riva del Tagliamento. Da bruciare non avevano trovato nulla: però, a giudicare dallo splendore dei loro occhi, era proprio come se l'avessero fatto. Il Nini e Eligio, quando tra la folla avvistarono Milio con la sua compagnia, gridarono: «Ehi, ragazzi!», e quelli risposero: «Ehi!» L'altra amicizia della giornata, così, era fatta.
Milio abbrancò la fisarmonica e intonò un Te Deum a passo di marcia. Ormai la baracca stava prendendo la strada buona. Andarono in osteria e lì crismarono l'amicizia: si fecero le rapide e allegre confidenze col calore che rendeva bella e nuova qualsiasi cosa; poi man mano che l'atmosfera si accendeva, si venne alle barzellette: era ancora la fase calma dei discorsi. Eligio era un magnifico raccontatore di barzellette: tutti ridevano eccitati, a sentirlo, concludendo ogni volta con la stessa, regolare sghignazzata; tutte le cose più audaci vennero passate in rassegna: era una specie di esame che i tre nuovi amici superarono con lode speciale. Poi si passò al periodo dei canti: fu un coro infernale, quelli di Rosa, ormai da un pezzo ubriachi, cantavano come dannati una canzone dietro l'altra, le più empie che conoscevano. Quando il repertorio pareva esaurito, c'era sempre uno che attaccava una canzone ancora più animosa della precedente, se fosse stato possibile. Il Nini, infiammato dal vino e leggero come un uccello, teneva in serbo per il momento opportuno i Misteri; e quando i ragazzi di Rosa furono spremuti, li attaccò.
Subito il coro gli tenne dietro muggendo, con solennità, sui fiaschi vuoti e i bicchieri rovesciati.
La notte era già alta, dovevano essere almeno le una e mezzo. Le praterie erano già quasi vuote; il ballo terminato, e i festeggeri andavano svitando le lampadine dai tavolati. Tuttavia la baracca della frasca sarebbe restata ancora aperta per un pezzo. Era la compagnia dell'altra riva del Tagliamento che teneva alto il morale, facendo di quella baracca una fiera: i giovinetti di Rosa coi piedi sul tavolo continuavano a cantare a più non posso, guardandosi ridendo negli occhi e ingoiando ogni tanto una nuova sorsata di vino.
Il Nini era seduto sulle ginocchia di Basilio, il suo compagno di Ligugnana, e cantava con gli occhi stravolti e ridenti e i ricci neri come il carbone lucidi di sudore e brillantina. Sapere una canzone era per tutti loro molto importante, e ognuno cercava di imporre le sue canzoni, a turno, seguendo però con sviscerato abbandono quelle dei compagni.
Eligio Pereisson aveva il genio della canzone. Era seduto sulla tavola, tra i bicchieri rossi di vino, e teneva in mano una scopa come se fosse una ghitarra. A un certo momento si mise a cantare: che cosa cantava mai? Tutti, sorpresi, stavano ad ascoltarlo, senza capirci niente.
Era un ritmo di boogie, che Eligio cantava proprio come un negro: tving, ca ubang, bredar, lov, aucester, tving tving, morrou thear...
Se ne stava tutto raggomitolato sulla scopa, accavallando le gambe; guardava negli occhi ridendo gli ascoltatori, non cessava un momento di ridere con quei suoi occhi ardenti che sembravano due pezzi di vetro. Non si riusciva a capire che cosa cantasse, se fosse uno scherzo o una cosa da pazzo, comunque non finiva mai, e lui rideva sempre battendo con le dita sulla scopa un ritmo perfetto, e cercando chissà dove le parole e il motivo: den bredar tuinding fear... Poi improvvisamente la smise, con una gran risata, gettando via la scopa; gli altri ridendo anch'essi come pazzi ripresero il coro, ma Eligio, raccolto sulla sedia, dopo un po' continuò a cantare per conto suo la misteriosa canzone.
Poi ad un tratto il Nini resuscitò dal suo deliquio; si alzò in piedi e gridò disperatamente:
«Abbasso le donne quelle puttane!» e ricadde sulle ginocchia di Basilio ingoiando un bicchiere di vino.
Gli altri urlarono come lui: «Abbasso le donne, evviva la f...» E intonarono una canzone imparata dai soldati romagnoli a Casarsa: «Io tengo la pistola caricata con le palline d'oro.» A questo canto il Nini riaprì gli occhi a metà, e guardando fisso davanti a sé col bicchiere in mano, confermò: «Sì, sacramento sacramentaccio cane.» Pareva straordinariamente felice di dare questa sua approvazione; poi i suoi occhi corsero alla sua mano alzata col bicchiere, vi indugiarono curiosi e dopo un istante il bicchiere, lanciato a tutta forza, andò a fracassarsi contro la parete della baracca.
«Sono contento, sacramentaccio cane,» aggiunse. Eligio prese piano piano un bicchiere, lo rigirò tra le mani e lo mandò a far compagnia all'altro, con un colpo secco.
Il padrone della frasca venne brontolando a dire che i bicchieri costavano cari, e che la smettessero; gli altri giovanotti che affollavano la baracca si voltarono verso il tavolo dei forestieri, con un'aria inespressiva, ma appunto per questo non senza un fondo di minaccia. Il Nini si considerò molto offeso, e fece alcune osservazioni, tra cortesi e risentite, che non erano altro che un preparativo per discorsi ben più tempestosi. Il padrone lo rimbeccò, ancora con tono sommesso, ma anche lui già con un certo nervosismo.
Allora il Nini scattò, prendendosela contro l'intero paese «di gente maleducata e contadina»; ma il padrone se ne andò. I ragazzi di Rosa ricominciarono a cantare per mandare in vacca la baruffa; il Nini tuttavia non se la dava per inteso e continuava a lanciare delle insolenze contro la gente del luogo. Poi improvvisamente gli passò.
Lui e Milio si guardavano con grande simpatia: ma Milio era un po' meno ubriaco, e ragionava ancora con una certa saggezza. Così quando da un momento all'altro il Nini gridò alla compagnia che aveva bisogno di pisciare e che avrebbe pisciato sotto il tavolo, Milio cercò ridendo di impedirglielo: ma non ci fu niente da fare, il Nini avvicinò la sedia al tavolo e mantenne la sua parola. Gli altri intorno a lui cantavano con entusiasmo rinnovato.
Da Casale a San Giovanni c'era una decina di chilometri di strada.
Andarono alla custodia dove erano rimaste soltanto le loro biciclette e un giovanetto tutto assonnato li aspettava. Non appena egli vide il Nini cominciò a sorridere con confidenza, maliziosamente, e il Nini ubriaco lo squadrava dalla testa ai piedi. L'altro per simpatizzare gli offrì un bicchiere di vino, poiché anche i custodi sbarbatelli si erano dati alla pazza gioia quella sera, ed era rimasto un mezzo fiasco di vino. «Da' qua,» gridò il Nini, «sacr...» Si attaccò al collo e bevve, poi lasciò cadere il fiasco per terra e mentre gli altri si occupavano delle biciclette, finì la pisciata cominciata nella frasca, cantando. «Accidenti!» fece il ragazzo della custodia e per mostrare la sua meraviglia allegra si piegava ridendo fin quasi a terra. Eligio era stato abbandonato dalla sua compagnia di San Giovanni partita già da alcune ore col carro guidato dai fratelli minori: bisognava portarlo sul ferro della bicicletta. Ma egli non voleva che un altro facesse fatica, e voleva essere lui a pedalare: così tra lui e Milio ci fu una lunga discussione. Finalmente Eligio la spuntò dicendo che mentre lui lo portava, Milio avrebbe potuto suonare l'armonica. Allora Milio si sedette sul manubrio, appoggiò il capo sulla spalla del nuovo compagno, e cominciò a suonare. E la compagnia partì verso l'altra riva del Tagliamento tra le grida del ragazzo della custodia e dei festeggeri.
Ma la corsa in bicicletta e l'aria fredda della notte anziché riordinare le idee non fece altro che ubriacarli ancora di più.
«Queste puttane di biciclette!» urlava il Nini vedendo che la sua sbandava continuamente verso il ciglio della strada, però senza mai superarlo. Sotto la luce lunare che sfavillava nelle praterie, essi correvano urlando come diavoli, solo un po' scontenti forse che non ci fosse nessuno a sentirli: infatti la strada che da San Daniele sboccava nella Venezia-Udine poco sotto Codroipo è la più deserta di tutto il Friuli. A sinistra, sotto la luna, si stendevano abbandonati i depositi della polveriera, che una volta, di tanto in tanto scoppiavano rompendo i vetri di tutti i paesi vicini. E i ragazzi di Rosa, rasentandoli, parevano voler evocare assordandoli i loro antichi frastuoni. Poi sotto l'immenso fascio di luce azzurra e polverosa della luna, comparve sconfinato, dai monti alla pianura, il greto del Tagliamento: i ragazzi imboccarono a tutta velocità il lunghissimo ponte della Delizia, ma dopo nemmeno cento metri uno di Rosa frenò di colpo, gettò la bicicletta lunga e distesa sull'asfalto come se fosse un giocattolo, gridando: «Aspettate ragazzi che ho una pisciata per le mani!»; tutti frenarono e gli fecero compagnia, mettendosi in fila lungo la spalletta: anche il Nini si schierò con loro, ma dopo un istante si chiese con quanto fiato aveva in gola: «Che cosa sto facendo qui con l'affare in mano? Non ho mica più bisogno io!», risollevò la bicicletta da terra come se fosse di piume e si allontanò a gran carriera cantando. Gli altri ridevano in fila lungo il ponte. «Diamo acqua al Tagliamento,» gridò Milio, «che non ce n'ha mai!» Alle prime case di Casarsa ripresero a cantare a squarciagola.
Volevano svegliare tutto il paese. E quando furono in piazza, Milio, sempre appoggiato addosso a Eligio e seduto sul manubrio, li fece star tutti zitti un momento, con un grido, e con la sua fisarmonica attaccò: «Avanti popolo...» E tutti gli andarono dietro urlando.
Milio e il Nini non andarono a casa con gli altri, ma si fermarono a San Giovanni da Eligio ancora per un pezzo.
Entrarono in casa di Eligio come in quella di un vecchio amico.
Mentre lui era andato a prendere il vino e un po' di formaggio, essi si misero a guardare le fotografie infilate nella vetrina della credenza, osservando le cugine e le amiche, vestite a festa, statuarie; mentre nella piccola cucina, col pavimento rosso di mattoni, le travi nel soffitto affumicato e le pareti bianche di calce, regnava il silenzio fitto delle ultime ore della notte. Si sentivano nelle stanze superiori i respiri di quelli che dormivano, mentre dal porcile, ogni tanto, veniva il grufolare della scrofa che stava sognando. Eligio comparve col fiasco e un pezzo di formaggio.
«Dovremo mangiare polenta,» sussurrò, «il pane è finito.» Si sedettero sotto la nappa del focolare, coi piedi sopra la pietra e mangiarono conversando. Non sapevano bene quello che dicevano: conversavano. E questo li soddisfaceva immensamente. Quando il boccale fu finito Milio e il Nini si congedarono da Eligio. Egli li accompagnò fin sul portone del cortile. «Addio Eligio,» gridava il Nini, «ti saluto, addio, stammi bene!» Ma fatti alcuni passi, tornò indietro: «Anzi, voglio darti un bacio,» disse, «vieni qua!» Eligio ridendo gli porse la guancia.
«No, sulla bocca sacramento,» disse il Nini, «ci dobbiamo baciare sulla bocca.» Si baciarono scimmiottando due innamorati.
«Addio Eligio!» gridarono i due filando via in bicicletta.
«Addio, addio,» gridò Eligio dal portone, sulla strada deserta, colpita dalla luna.
«Addio Eligio!» gridò ancora una volta il Nini voltandosi indietro.

2

All'Enal l'aria bruciava; gli ultimi gruppi di giovani, e anche di anziani, ubriachi, se ne stavano intorno ai tavolini in disordine, umidi di vino rovesciato. Dalle finestre aperte entrava a fiotti, fresca e buia, l'aria primaverile. Tutti urlavano e schiamazzavano, rintronati dal vino; il Nini, Eligio e Milio se ne stavano intorno a un tavolino in compagnia di un gruppo di ragazzi di San Giovanni, e avevano cominciato il finale della loro domenica; la loro allegria era però un poco forzata.
Ognuno aveva molti pensieri in cuore e pochi soldi in tasca. Eligio cominciò allora a raccontare barzellette e intorno alla sua voce che suscitava già col suo tono la voglia di ridere, si raccolsero tutti, riservando per i momenti culminanti le loro poderose risate. Poi cominciarono a cantare: ma due o tre di Romans se ne andarono via sul più bello perché ormai era tardi e il giorno dopo, all'alba, li aspettava la stalla. Anche i fratelli più giovani di Eligio, Onorino e Livo, coi loro amici, Chini, Ivano, se ne andarono salutando timidamente, perché avevano ancora i calzoni corti. Gli altri che restavano, pareva che non riuscissero mai a liberarsi del tutto dal pensiero che in tasca non avevano più di cinquanta lire; e che le altre due o trecento erano volate via durante la festa come il fumo. Il Nini, si sarebbe detto, cantava da solo i suoi Misteri: col capo nero appoggiato alla parete e le ginocchia puntate contro il tavolo. A un certo momento si avvicinò a loro un vecchio, con un bicchiere in mano.
«Come va gioventù?» gridò ai ragazzi traballando.
«Bene noi e voi?» gli fece Milio.
«Puàh, io son vecchio,» disse, e ammiccò cogli occhi.
«Evviva la f...» disse il Nini con gli occhi chiusi. Il vecchio allora si piegò su di lui e cominciò a raccontargli all'orecchio, ma a voce alta, per farsi sentire da tutti, un episodio di donne che gli era capitato quando era emigrante nella Germania prima dell'altra guerra. Era un racconto sconclusionato, e quando ebbe finito, il Nini aprendo gli occhi, gli disse: «Siete ubriaco, andate a dormire!» «Ubriaco? io?» fece il vecchio con aria solenne e indignata e piegandosi sulle gambe con un ridicolo gesto da avvocato in piena arringa. «Quando io cominciavo a bere i miei due fiaschi di vino al giorno tu non eri neanche nella pancia di tua madre! ricordati!» «Lo ricorderò!»
fece il Nini alzando le spalle, e, richiudendo gli occhi, ricominciò a cantare: «E io che son piccino...» Il vecchio si rivolse a tutta la compagnia: «Io ho girato tutte le Americhe e tutte le Germanie quando avevo la vostra età!» gridava, con una faccia ridente, gonfia, e rossa come il fuoco.
«E cosa ci avete ricavato?» gli chiese Eligio, con aria di scherno, ma familiarmente. Tutti, aspettandosi che raccontasse qualche grandezza, si preparavano a riderne.
«Un calcio nel culo,» rispose il vecchio, e se ne tornò alla sua compagnia, presso il banco; ma poco dopo, piano piano, si riavvicinò.
«Voi, giovani,» si mise a gridare, «siete dei minchioni. Cosa state a fare in Italia! L'Italia! Ah, via, via! Potrete girare tutto il mondo, ma porcherie come in Italia non le troverete mai. L'italiano è ladro. Se può fregarti ti frega in tutti i modi. E i poveri peggio dei ricchi. Basta che uno abbia due palanche in tasca perché dimentichi i suoi compagni e cominci a fare il porco anche lui. Via, via, gioventù, via all'estero! Fate come me, ragazzi, che ho girato tutto il mondo, le Americhe, il Belgio, la Germania! Andate via ragazzi da questo sacramento di un'Italia. Fate come me, che sono tornato più povero di prima e coi pidocchi.» Tutti risero; il vecchio fece una piroetta, come per andarsene di nuovo tra la compagnia degli anziani, Pieri Susanna, il segretario della sezione, Blasut e gli altri che chiacchieravano al banco. Ma quando era già mezzo voltato, i suoi occhi si puntarono sul gruppo dei ragazzi e fissandoli serio, disse, con aria astuta e confidenziale: «Guardate l'altro giorno... il figlio di Domenico...
quel biondo... come si chiama...»
«Rico,» fece Eligio.
«Sì, Rico, proprio Rico,» esclamò il vecchio, «doveva andare in Argentina e aveva prenotato il posto sul bastimento che partiva in agosto l'anno passato... Ma due o tre giorni prima di partire gli arriva una lettera dove è scritto che il suo posto nel bastimento era stato dato a uno che doveva andare su per incarico del Governo... Eh, eh, sapete che cos'era successo? Tu, moro...» «Io?» fece il Nini, «cosa volete che ne sappia io? S'arrangino!» «Eh, eh, altro che uno del Governo! Il posto se l'aveva preso un tizio che poteva disporre di dieci o dodicimila lire da passare a quello dell'agenzia. Ecco com'è l'italiano.» «E voi non fareste lo stesso?» disse Eligio ridendo.
«L'altro giorno,» continuò l'anziano, «arriva a Rico una nuova lettera dove è scritto, sacramento, che anche stavolta il posto era stato preso da uno del Governo: doveva partire questo marzo e è ancora a casa. Aveva chiesto in banca duecentomila franchi, in prestito, per il viaggio, è un anno che è a casa, senza lavoro e si è mangiato quasi tutto. Per fortuna aveva un amico, a Genova, che gli ha detto che con dieci o dodicimila lire si poteva far passare anche lui per uno del Governo!»
«Così,» continuò il vecchio, dallo stipite della porta che conduceva nella stanzetta del banco, «un disgraziato in qualche altro paese d'Italia, si vedrà arrivare una lettera dove è scritto che il suo posto è stato riservato per uno del Governo. E questo uno del Governo è Rico, quello di Domenico!» Si diresse per la terza volta verso i vecchi, saltellando; poi appena nell'altra stanza si impennò e voltandosi minaccioso verso i ragazzi sussurrò: «Ammazzarli tutti!» e si passò la mano a coltello rasente la gola.
«Ammazzarli tutti!» ripeté gridando, e si riavvicinò alla sua compagnia, dopo aver strizzato l'occhio ancora una volta ai giovani.
In quel momento era entrato Jacu, il cugino di Eligio, ubriaco, e aveva sentito le ultime parole del vecchio.
«Ammazzarli tutti, sacramento,» disse anche lui e si lasciò cadere su una sedia vicino a Eligio.
«Come va, cugino,» gli fece questi.
«Va come quando non si ha un soldo in tasca,» disse, e tirò fuori dalla tasca interna della giacca un portafoglio, lo aprì accuratamente e, a parte qualche fotografia e la carta d'identità, fece vedere che era vuoto.
«Ehi, compagno,» gridò il Nini, «coraggio!» Si alzò, versò un bicchiere di vino e gli disse: «Bevi e manda tutto in malora!» Jacu vuotò il bicchiere con una sorsata, ricacciò in tasca il portafoglio e ripeté: «Ammazzarli tutti.» «Su col morale,» gli disse Eligio allegro, «verrà bene il momento che gliela faremo pagare! Ma intanto è inutile prendersela in questo modo!» Il vecchio di prima, traballando e col cappello in testa, si era riavvicinato, e rideva fisso e malizioso con gli occhi su Jacu; stette un pezzo così, poi gli si chinò addosso e gli mormorò con una smorfia: «Cinghia!»
«Crepa,» gli disse Jacu, livido per l'ubriachezza e con la pelle del viso quasi verde. «Son passati quei tempi,» gridò il vecchio ghignando, «quando andavi a lavorare alla Todt!» «Perché, tu e tuo figlio non ci andavate?» disse sprezzante Jacu, «tutti ci andavamo.» «E lui,» disse Eligio, «se ne fregava anche dei bombardamenti: era bello, eh, andare a Campoformido!» Ma il vecchio non stava neanche a sentirli: sfregando l'indice e il pollice, gridava rivolto a tutta la compagnia: «Soldi, soldi! Quanti treni avete svaligiato a Casarsa, voi di San Giovanni? Eh? Perché? I tedeschi sparavano alle stelle?» E fece, trionfante, una piroetta. «Dovevamo lasciare che si portassero tutto nelle Germanie?» disse Milio con aria di sufficienza.
«Lasciatelo perdere questo coglione d'un vecchio,» disse il Nini.
«Tu, moro,» disse tranquillo il vecchio, senza cessar mai di ghignare, «con che soldi ti andavi a divertire l'altr'anno?» «Coi soldi che guadagnavo lavorando!» «E che cosa facevi?» chiese serio il vecchio.
Il Nini si mise a ridere. «Il cuoco al Comando degli inglesi a Casarsa,» disse.
«Adesso è finita la cuccagna, è finita la cuccagna,» gridò il vecchio. «Adesso gli inglesi se ne sono andati in Inghilterra, e i campi dell'Arar sono chiusi.» «E ringraziate il Signore,» disse Eligio, «così vostro figlio non rischia più di essere preso e fucilato per andare a rubare copertoni.»
«Tu,» disse il vecchio puntandogli contro il dito, «non lavoravi all'Arar?» «Sì,» disse Eligio.
«E ci si stava bene?»
«Magari così tutta la vita!»
Il vecchio lo guardò un momento sbattendo le palpebre: poi si slacciò la cinta dei calzoni, e la restrinse di tre o quattro buchi.
E si mise a ridere rumorosamente.
«Va', va' a dormire,» gli disse Milio.
«Tu di dove sei?» gli chiese il vecchio.
«Di Rosa, sono,» disse Milio in tono di sfida.
«E che cosa fai?»
«Il contadino, l'ho sempre fatto e sempre lo farò.» «Adesso,» sentenziò il vecchio, «non ci sono più le tessere, e le triestine non vengono più da Trieste. Ne avete fregata poca farina ai padroni, voi mezzadri!» «Che discorsi,» disse Milio.
Il vecchio, calcandosi il cappello fin sugli occhi, corse verso la porta che dava sulla strada, ridendo come un matto; poi sulla porta si fermò, divenne improvvisamente serio, e protendendosi con aria misteriosa verso i ragazzi, ripeté a bassa voce: «Ammazzarli tutti.» E se ne andò per la strada, cantando. Il Nini si alzò in piedi e attaccò la vecchia canzone della sua compagnia: «Io tengo la pistola caricata con le palline d'oro.» Era un anno ormai che il Nini, Eligio e Milio si erano conosciuti, e insieme ne avevano passate da quel lunedì di Pasqua in cui a Casale di Costa avevano cominciato col darsi del lei! Oltre alla festa della classe del '29, c'erano state le sagre in tutti i paesi dei dintorni, a Cintello, Savorgnano, Gleris, e poi quella famosa di S' Pietro e Paolo a Valvasone, e a Saletto, Morsano, Teglio, Cordovado... A Cordovado era stata bella; dopo aver ballato tutta la notte, e bevuto, verso le due avevano deciso di andarsene a fare il bagno.
Giunsero gridando e cantando al Pacher. Il laghetto splendeva liscio liscio sotto le stelle. Essi si spogliarono svelti in mezzo alla boschina e si gettarono nudi nell'acqua. Era appena piovuto e l'erba era bagnata, i rami delle acacie gocciolanti: tutto riluceva sotto la luna. I ragazzi di Rosa, nudi, correvano tra gli alberi per scaldarsi. Il Nini, infilandosi le mutande sotto il fascio di luce della luna, raccontava agli altri della ragazza di Ramuscello che aveva accompagnato a casa, e Eligio non credendogli lo sfotteva...
Adesso erano tornate le feste di Pasqua. «Domani,» gridò Eligio nell'Enal ormai mezzo vuoto, «si va a Casale di Costa!» «Allegria!» gridò contento il Nini.
«Eh queste,» disse invece Milio, «sono le ultime baracche, compagni. Qua o morire di fame o andarsene!» «Ti sono arrivate le carte?» chiese Eligio.
«Non ancora: ma dovrebbero arrivarmi fra pochi giorni.» «Anch'io forse andrò via,» disse il Nini guardandosi intorno.
«E dove?» fece Pieri Susanna che si era avvicinato: si grattava stupito la testa sotto il berretto, perché era la prima volta che il Nini accennava a emigrare,» e lo diceva con tanta spavalderia e leggerezza che era impossibile prenderlo sul serio.
«In Jugoslavia,» rispose il Nini con tutta semplicità, «là almeno c'è il comunismo!» «Tu da solo?» «No, a Ligugnana siamo in cinque o sei che abbiamo questa idea... E poi c'è qualcun altro qui», e ammiccò verso Eligio. «Ma ancora tutto è indeciso... vedremo!» E bevve quel po' di vino che era rimasto nel fiasco.
«Ehi, compagno,» gli gridò Jacu, «lasciamene una goccia!» Ce n'era ancora un poco e Jacu lo succhiò dal collo del fiasco. Erano ormai gli ultimi avventori dell'Enal; gli altri erano già usciti, ma stavano ancora parlando, in strada, nel silenzio fresco e sonoro della notte di Pasqua.

3

Il 14 luglio 1948 il Nini ed Eligio, con Antonio e Pietro Nonis, Basilio Nio e Germano Giacomuzzi, partirono da Ligugnana per andare in Jugoslavia.
Tutta la loro compagnia venne ad accompagnarli alla stazione di Casarsa a prendere il treno, e a bere l'ultimo bicchiere di bianco insieme: Milio aveva portato la fisarmonica, e si salutarono cantando e gridando.
E piangendo anche. Ma quelli erano i giorni della speranza: la guerra pareva ormai lontana e, per la gioventù, cominciava la vita.
Verso le quattro del pomeriggio arrivarono a Gorizia e per passare il tempo vollero salire sul castello. Da lassù, in cima ai bastioni che sorgevano sopra un colle, si poteva vedere lungo una distesa verde e azzurra di alture e montagne, il confine con la Jugoslavia e la Jugoslavia stessa, come addormentata nel sole.
Coi loro fagotti ai piedi, i ragazzi guardavano zitti verso quell'orizzonte limpido, turchino e imbevuto di una luce che toglieva il respiro, lungo le curve delle prealpi, tra boschi, borgate e radure. Proprio sotto il castello, sul costone di una collina, si vedeva a non più di due o trecento metri, una strada bianca, disegnata tra case e orticelli; degli uomini vi camminavano; una donna venne alla finestra a sbattere un panno. Là non c'era più l'Italia: pareva che non ci fosse più mondo, o che avesse inizio un mondo del tutto nuovo, libero, luminoso.
Il giorno dopo, la mattina presto, giunsero a Cividale.
Lasciati i bagagli in un'osteria, andarono in giro per la città in cerca dell'uomo di cui, a Gorizia, gli aveva parlato il fratello di Germano. Invece dell'uomo trovarono i carabinieri. E furono fortunati ad andare in giro senza bagagli; passarono in caserma buona parte della mattina e del pomeriggio e quando verso le cinque li rilasciarono, ripresero subito le loro ricerche. Ma dove pescare l'uomo?
L'aria andava già facendosi scura e avevano fame. Si diressero verso la campagna, a caso, e passarono sopra il ponte del Diavolo, sul Natisone che risplendeva sotto il cielo rannuvolato; da lì svoltarono giù per un viottolo che costeggiando il fiume si spingeva lungo prati a terrazza, tra muretti di sasso e macchie di rovi e sambuchi. Si sedettero in uno spiazzo e cominciarono a mangiare il pane e salame che avevano in tasca. Tacevano tutti: non lo dicevano, ma erano stanchi e avviliti. Dove avrebbero potuto trovare l'uomo in grado di fargli da guida? E, intanto, dove avrebbero potuto andare a dormire quella notte? Il Nini, come il solito, pareva che facesse tutto per gioco, alzava le spalle e diceva: «Eh sacramento compagni, combineremo!» Trovarono finalmente, nell'osteria dove avevano lasciato i bagagli, mezzo ubriaco davanti al litro di vino nero, un uomo che dopo un po' di chiacchiere si offrì di guidarli oltre il confine.
Erano ormai le undici di sera; egli disse, portandoli fuori nel cortile, che andassero avanti ad aspettarlo in una località poco oltre il paese, ai piedi della montagna. Pioveva; essi attesero per un bel pezzo sotto la pioggia, sul crinale, tra le piante. Infine, quando ormai non lo aspettavano più, giù dalla montagna arrivò l'uomo.
«Ci sono sei o sette ore di cammino,» disse. Cominciarono a camminare, coi loro fagotti pesanti, dirigendosi verso l'interno del Collio; l'uomo era ubriaco.
Camminarono così per tutta la notte, e la marcia era molto difficile, perché non ci si vedeva a due passi di distanza, il sentiero era pieno di pietre e i rami degli alberi sbattevano contro il viso.
Pioveva forte.
Il viottolo correva sempre in mezzo al bosco; solo di tanto in tanto passava per una radura in ripido pendio; allora accadeva che la fitta oscurità si interrompesse un poco e la vista potesse spingersi nel vuoto di una vallata o lungo i fianchi delle montagne nere di boschi. Molte volte si doveva abbandonare la strada, e spingersi tra il folto degli alberi, lungo sentieri che si distinguevano appena.
Verso l'alba lo sloveno disse: «Ecco ragazzi, questo è il confine.» Per il suo lavoro volle seimila lire e se ne tornò indietro.
Essi ripresero a camminare verso il luogo che egli aveva indicato: ma non trovarono nulla.
Camminarono ancora per un quattro ore, e il confine non si vedeva. Era già mattina pioveva ancora; fradici e morti di sonno, essi mangiarono un pezzo di pane seduti sulle roccie.
Dopo un po' ripresero la marcia. «Saremo ormai in Jugoslavia!» disse il Nini, «il confine l'avremo ormai passato!» Niente però era cambiato intorno: sempre il solito bosco, e, di tanto in tanto, le vallate e le montagne che comparivano allo sguardo in scorci sempre uguali, perdute nel silenzio e nella solitudine.
Il Nini, che ormai un po' alla volta si era convinto di aver passato il confine, non dava più segno di stanchezza, e camminava contento e leggero, gridando ogni tanto agli altri ragazzi: «Allegri compagni, siamo in Jugoslavia!» Germano, invece, che camminava in testa alla compagnia, alto e magro, con la sua grande capigliatura partigiana, sembrava ancora incerto e il Nini lo sfotteva. Egli era eccitato, e mancava poco che si mettesse a cantare; del resto anche gli altri si sentivano già quasi tranquilli, e avevano tirato fuori una sigaretta, da fumare un po' ciascuno. Ad un tratto -
stavano camminando per una vallata, ed era ormai quasi giorno fatto - videro a due o trecento metri di distanza la bandiera italiana, e, sotto, una sentinella. Restarono senza fiato; stavolta non c'era da scherzare. Si gettarono a terra, e restarono per un po' di tempo fermi tra i cespugli.
«Cosa facciamo?» disse il Nini.
«Comincia a parlare più piano,» mormorò rabbiosamente Basilio.
«Fermi!» disse Germano ai due Nonis che curiosavano verso il posto dove sventolava la bandiera.
Per fortuna era cessato di piovere da una mezzora, e il sole di luglio stava rasserenando il cielo.
Stettero fermi per un pezzo, senza sapere che cosa fare. Finalmente il Nini si decise.
«Io vado,» disse, «in Italia non ci torno!»
«Via!» sussurrò Germano.
Strisciarono tra i cespugli e gli alberi del bosco abbastanza fitto, inerpicandosi su per la china.
Quando furono molto fuori dalla visuale della sentinella, si misero a correre, stando gobbi e cercando di mantenersi sempre al riparo dei rami; fu così che senza saperlo passarono correndo la fila di paletti bianchi del confine.
Camminarono ancora in fretta per una ventina di minuti, poi, in mezzo a una radura, trovarono un uomo, forse un boscaiolo, e a lui chiesero se erano in Italia o in Jugoslavia.
Egli li guardò senza dire nulla, e poco dopo si allontanò dietro la boscaglia. Era andato a chiamare gli slavi. I ragazzi si misero a sedere sull'erba: Eligio vi si distese, benché fosse bagnata, e dopo un minuto era addormentato. Gli altri fumavano in silenzio. Non lo dicevano, ma erano preoccupati e pensavano a casa loro, a Ligugnana, a San Giovanni, così lontani, ormai, in un altro tempo; e i loro compagni, laggiù, che in quel momento, col primo sole, appena alzati dal letto si trovavano nello spiazzo delle scuole a chiacchierare...
Ma dopo nemmeno un quarto d'ora il boscaiolo comparve con un soldato slavo armato di mitra.
Furono condotti a un chilometro da lì, al comando, dove ebbero un interrogatorio. «Perché siete espatriati clandestinamente?» chiese un ufficiale. «Per lavorare in Jugoslavia!» risposero pronti i ragazzi, che avevano all'occhiello il distintivo comunista e ne erano orgogliosi Non dubitavano infatti che gli slavi avrebbero pensato subito a farli dormire e mangiare. Invece gli fu dato l'ordine di partire, e sotto la guida di due militari armati, dovettero farsi diciotto chilometri di strada, digiuni e fradici com'erano.
Camminavano come in sogno, senza capire più niente. Davanti ai loro occhi passavano colline, boschi, strade, borghi sconosciuti e quasi deserti.
Prima Germano, e poi i Nonis caddero per terra sfiniti. Gli altri li aiutarono a rialzarsi e a camminare, quasi piangendo. «Coraggio, compagni,» dicevano, «che fra poco saremo arrivati.» Il Nini camminava bestemmiando. Giunsero a Tolmino che era già notte. Lì li fecero girare per più di un'ora attraverso il paese in cerca di un posto dove dormire. Ma non si trovò nulla, e allora li condussero in una prigione. Era già tardi: essi dormirono per terra, chi nella cucina, chi nei corridoi. Alla mattina dopo gli diedero un po' di caffelatte, e li fecero ripartire, questa volta senza scorta, con l'ordine di andare a Santa Lucia di Tolmino.
Giunti a Santa Lucia, dopo una camminata di quindici chilometri, furono fatti nuovamente partire, questa volta in treno: e arrivarono a Verpoile.
Il paese pareva disabitato. Sparso in fondo a una piccola valle, il sole colpiva i muri bianchi delle casette e degli orti, e oltre a qualche raro rumore nella stazione deserta, giù lungo il borgo, e intorno, sui fianchi neri e verdi dei monti, non c'era segno di vita.
Andarono verso il centro di Verpoile, una grande piazza in salita, anch'essa deserta; nella casa, tutta scrostata e bucata da pallottole di mitragliatrice, dove una volta c'era la sede dei carabinieri, trovarono una guardia slava, che bestemmiando e sudando, li condusse un po' fuori dal paese, in un edificio grande e disadorno come un'officina: era la casa dei clandestini. Alla sera non gli diedero niente da mangiare, e li fecero dormire per terra o su delle brande senza materasso. Il giorno seguente, mangiarono qualcosa solo a mezzogiorno: e, alla sera, niente altro che un po' di pane.
Erano avviliti: il Nini e gli altri, al loro paese, qualche volta, durante le notti di sagra, si divoravano perfino quattro pagnotte con la mortadella, alla fine del ballo, verso mattina. Ora a Verpoile morivano di fame. Avevano preso l'abitudine, digiuni com'erano, di passeggiare su e giù per il paese senza far nulla; o di starsene distesi con le gambe larghe per delle ore sui cigli della strada o dei marciapiedi. Qualche volta giocavano alle carte: ma con nessun gusto, perché le pancie erano vuote. Un giorno si stavano facendo una camminata fuori del paese muti e avviliti; Eligio e il Nini dicevano una bestemmia diversa a ogni passo e gli altri a sentirli ridevano.
Quand'ecco dal paese farsi avanti un contadino che si diresse verso di loro: era uno slavo, ma parlava bene l'italiano.
«Qualcuno di voi vorrebbe lavorare per me in campagna?» chiese.
«Che cosa ci dà?» chiese a sua volta Germano, duro, con le mani in tasca e la faccia rabbuiata: voleva combinare un buon affare.
«Venti dinari,» disse il contadino, «e da mangiare.» «Io!» gridò il Nini: gli altri erano stati battuti in velocità, e il Nini seguì l'uomo, sperando finalmente in una buona mangiata.
Era una mattina meravigliosa: le colline piene d'ombra verdeggiavano con le loro schiene rotonde al sole e la vallata era piena di luce. Il Nini e l'uomo andarono prima a casa a prendere le falci e i rastrelli, poi con gli attrezzi in spalla si incamminarono.
Il Nini si sentiva allegro: era tanto che non falciava, e benché fosse il lavoro più faticoso del contadino, ne sentiva quasi nostalgia.
Il prato che si doveva lavorare, però, non compariva mai, benché camminassero da quasi un'ora: finalmente dopo un sei o sette chilometri, eccolo, immenso, tra i boschi, pieno di medica folta e verde. Da falciare c'era poco: per non più di un ora; poi andarono più in giù a rastrellare il fieno.
Intanto era venuto mezzogiorno; la campana di un paese lontanissimo fece echeggiare appena i suoi rintocchi fiochi e festosi dietro la collina. Le praterie erano immense e non se ne arrivava mai alla fine: il Nini era così affamato che aveva le traveggole, tuttavia si accaniva a rastrellare di lena per far vedere al contadino slavo quanto valessero i ragazzi italiani. Vennero la una, le due, le tre: e, del desinare, nemmeno l'ombra. Ecco infine arrivare sul carro la donna con una sporta. I due uomini gettarono i rastrelli e le corsero incontro, al margine del bosco. Il pranzo consisteva in una minestra con due patate.
Il Nini, che stava quasi per piangere, dopo nemmeno un minuto aveva già finito di ingoiare i due cucchiai di brodo e le due patate, e con tanta furia che il contadino guardandolo sorridente gli diceva: «Mangia, mangia, ragazzo, che i giovani hanno fame!» Poi ripresero il lavoro: mancavano ancora due altagni, poi c'era da caricare il fieno sul carro. Quando verso le sei e mezzo o sette il carro fu carico, il terreno acquitrinoso cedette, le ruote vi si affondarono e i cavalli spaventati ruppero il timone. Così dovettero lasciare lì tutto il fieno perché era troppo tardi ormai per ricaricarlo e ritornarono verso casa: arrivarono che era già notte col contadino che bestemmiava in italiano, ma freddo e sommesso, non come da noi; il Nini, al quale del fieno non importava niente perché l'uomo il giorno dopo lo avrebbe aspettato per un pezzo, non pensava ad altro che alla cena.
Quel po' di brodo gli aveva appena lavato lo stomaco vuoto: ma sperava che la cena sarebbe stata meglio, pensando che da quelle parti usasse così; e intanto moriva di fame. La cena invece fu come il pranzo: una scodella di polenta e latte. Così il Nini coi venti dinari in tasca tornò dai suoi compagni che lo stavano aspettando; e mentre andava a letto con lo stomaco più leggero delle altre sere, Eligio ridendo lo sfotteva: «Mangia, mangia ragazzo!» Ma il giorno dopo cominciarono a lavorare per gli slavi: c'era da ricostruire la scuola di Verpoile fatta saltare dai tedeschi.

Lavorarono per una quindicina di giorni, gratis, e quasi senza mangiare. Il 2 luglio furono chiamati al Comando, dove ebbero l'ordine di fare un diario della loro vita dal '43 al '47; il giorno dopo il Nini, Eligio, Germano e Basilio, ebbero il permesso di partire. Accompagnati da un poliziotto slavo, prima in corriera e poi in treno, arrivarono a Fiume.

4

Il mare, la notte in cui erano arrivati a Fiume - e avevano girato morti di fame e di stanchezza per più di tre ore a cercare il silurificio, dove dovevano lavorare - gli era sembrato un'immensa colata di pece, freddo, tenebroso, alla luce dei lampi che facevano rosseggiare le coste della Dalmazia. Da far spavento. Altro che il mare di Caorle: quello che avevano visto per la prima volta in vita loro, appena finita la guerra, quando erano andati in gita, con le «Avanguardie garibaldine», e con Pieri Susanna in testa, ancora tutto pieno di speranze che gridava: «Ragazzi, forza che si fa la rivoluzione!» Un bel mare tutto calmo e azzurro, dove compagnie di contadini facevano colazione, riempiendo la spiaggetta di carte gialle e di fiaschi vuoti. E Milio che suonava la fisarmonica. E
Eligio che cantava come un matto. E il Nini che si grattava la pancia...
Dopo una quindicina di giorni che stavano a Fiume, ed erano stati presi nel silurificio, le cose però cominciarono a andare un po' meglio. Il Nini e gli altri compagni cominciarono a fare l'abitudine alla città e al mare. Fino alle tre del pomeriggio lavoravano in fabbrica, poi erano liberi; così per passare un po' più allegramente il resto del pomeriggio, Basilio un giorno ebbe l'idea di andare in spiaggia. «Chissà quanto costa!» disse Germano. «Non ti ricordi a Caorle?» fece il Nini, «chi voleva, pagava lo stabilimento o i capanni, chi non voleva, andava a spogliarsi nella spiaggia libera.» Così si spinsero lungo la spiaggia, a cercare un posto dove fare il bagno senza pagare.
Ormai il mare per loro era tale e quale come a Caorle, solo che, in fondo, si vedevano distintamente i monti della Dalmazia e delle isole: ed era sempre calmo, sotto un sole splendido.
Camminarono un bel pezzo per il lungomare, e finalmente arrivarono in un punto dove la spiaggia si restringeva, diveniva selvatica, quasi nera e piena di scogli. C'erano molti ragazzi di Fiume, sloveni e italiani, che vi si erano accampati assordando l'aria e l'acqua con le loro grida. «Ci mettiamo qui?» disse Eligio. «C'è troppo casino,» disse Germano, «andiamo un po' più avanti.» «Io mi fermo qui,» fece il Nini. Saltò in mezzo alla sabbia tra i cespugli, e dopo neanche un minuto era in mutande. Mentre gli altri si svestivano egli andò ad attaccare discorso con un ragazzo di Fiume.
«Quanto si paga per andare in uno stabilimento?» gli chiese: il ragazzo disse una somma in dinari, e il Nini, fatto il calcolo, scoprì che erano circa cinquanta lire. Andò a dirlo a Germano. «Domani andiamo allo stabilimento,» concluse contento.
Il fiumano si era avvicinato: «Di dove siete?» chiese. «Friulani,» disse il Nini galante. «In Italia,»
aggiunse, «non si poteva più vivere, con quel governo cane. Evviva Tito, per la madonna!» Il ragazzo di Fiume tacque ridendo. «Di' un po',» continuò il Nini, «negli stabilimenti ci sono delle belle signorine?» «Ci sono certe f...» disse l'altro. «Ah ragazzi,» gridò il Nini ai compagni, «che voglia di divertirmi. Domani chi ci sta senza andare a far conoscenza con le belle fiumane?» Così il giorno seguente andarono allo stabilimento. Le belle fiumane c'erano, e erano anzi bellissime; ragazze come il Nini e gli altri non avevano mai visto, bionde, coi capelli lunghi e lisci sulle spalle, o raccolti dentro le cuffiette di gomma, con certe gambe lunghe, affusolate e limpide come il marmo, e certi costumini di lana bianca, rossa, azzurra, stretti intorno alle coscie, tesi sull'orlo del ventre un poco gonfio, pieno di verginità e di amore.
Il Nini era tutto occhi, e aveva perduto la parola; e così anche gli altri. Esse, le belle fiumane, non si accorgevano nemmeno di loro, chiacchierando insieme ai loro compagni e le loro amiche, con un fare franco e spigliato; oppure giocando alla palla, o leggendo sotto gli ombrelloni, tutte splendenti di olio. Pareva che fossero completamente felici, che non avessero bisogno di nulla, che non si potesse nemmeno toccarle. Il Nini e gli altri se ne stavano distesi in silenzio sulla sabbia.
Un gruppo di ragazze passò vicino a loro, gridando come uno stormo di uccelli. Corsero verso il frangente e si gettarono in mare.
«Andiamo!» disse allora il Nini. D'intesa, gli altri si alzarono e seguirono le ragazze. Esse indugiavano in mezzo alle onde che quel giorno erano più gonfie e alte del solito, e vi si lasciavano cullare ridendo. Il Nini si avvicinò a una di esse, e in italiano con la sua pesante pronuncia friulana, le gridò allegro: «Mi aspetti, signorina, se no si annega.» La ragazza gli diede un'occhiata inespressiva, poi rivolta alle compagne scoppiò a ridere. «Cosa vuole questo mulo!» gridò: e tutte insieme si gettarono verso il largo battendo perfettamente il crawl, e si allontanarono in direzione del molo. Il Nini non si fidava a andare dove non si toccava, Eligio e Germano sapevano nuotare solo a cane, e Basilio non sapeva nuotare per niente. Restarono vicino alla riva a sguazzare un po'
tra le onde, poi riguadagnarono scornati la spiaggia; ma le mutande di tela, di cui già tanto si vergognavano, ora zuppe com'erano, restavano tutte incollate addosso più ridicole che mai. Si rotolarono sulla sabbia,» e restarono lì per un pezzo, ridendo sulle loro disgrazie. Poi il Nini disse:
«Facciamo una camminata?» Così finirono per andarsene al posto del giorno prima, tra gli scogli.
Alle loro spalle la spiaggia era tutta un fervore di grida e di giochi; intorno le villette e le pensioni, tra il verde e i fiori, parevano le immagini stesse della serenità e del benessere: il mare ribolliva sconfinato, tutto pieno di sole fino alle stupende coste lontane tinte di azzurro. E mentre essi camminavano verso la spiaggia libera, la spiaggia dei ragazzi e della povera gente, tutto intorno a loro, come se loro non ci fossero, era in festa.
Ritrovarono i ragazzi del giorno prima e il biondo salutò il Nini.
«Come va, friulani,» disse. «Bene, compagno,» rispose il Nini sorridente. «Sì, bene,» borbottò Eligio, «con questa Sant'Anna che batte.» «Belle le fiumane?» domandò il biondino. «Non c'è male,» fece il Nini, come se esse ormai per lui non avessero più segreti; ma non era allegro come il solito. Pensava alle altre estati, ai bagni nel Tagliamento. Ogni dopopranzo appena mangiato partivano da Ligugnana, verso Rosa, dove il braccio d'acqua del Tagliamento, dalle distese di ghiaia e di rovi, veniva a lambire la riva destra, fresca di saggine, di sambuchi, di pioppi; e, dietro l'argine, i vigneti dove l'uva stava diventando grigia; e i massi di cemento del riparo dove prendere il sole. A Rosa venivano ragazzi di tutti i paesi, Casarsa, San Giovanni, Gleris e San Vito, perché del Tagliamento, quello era il posto più bello; l'acqua, benché verde e profonda, era così limpida che si vedevano nel fondo i sassolini di ghiaia lucente.
Erano tutti amici, lassù. Verso sera tornavano e si fermavano fino a ora di cena in piazza a Ligugnana, seduti sull'erba o sugli scalini a chiacchierare.
Adesso, a guardarsi intorno, il cuore si stringeva. Il Nini andò a distendersi solo in mezzo agli scogli. Dopo un poco, lasciati i ragazzi di Fiume, anche gli altri vennero a distendersi vicino a lui, avviliti. «Ah madonna, compagni!» sospirò il Nini. «Qui le ragazze saranno belle,» disse Basilio,
«ma io ho meglio le nostre.» «Avere qui la Onorina, o la Ines,» disse Eligio. «O la Gemma...»
continuò Basilio. «O quella p... della Regina,» aggiunse il Nini, «vi ricordate di quella festa che l'ho accompagnata dentro il suo orto?» Germano, che era sempre stato zitto, ad un tratto si mise a canticchiare, a voce sempre più alta, una delle loro più care canzoni di Ligugnana: «Forse l'ultimo incontro d'amore, forse l'ultimo bacio sarà...» Gli altri gli andarono dietro in coro: il Nini e Basilio facevano da primo, Eligio da secondo, e Germano da basso. La domenica sera, al paese, quando cantavano nelle osterie, all'Enal o al Montenegro, tutti stavano ad ascoltarli.
«Cantiamo canzoni friulane, mondo cane!» disse il Nini. E a squarciagola attaccò: «O se biel ciastel di Udin - o se biela zoventut...» (1) Cantavano con molto sentimento, benché quella fosse una villotta allegra.
Poi ne cantarono una più nostalgica, con tutto il cuore: «Al ciante il gial - al criche il dì - adio bambine - j ài di partì...» (2) I ragazzi di Fiume si erano raccolti intorno a loro, e stavano ora ad ascoltarli attenti. «E io canto, canto, canto,» cantava il Nini, «ma non so il perché - e io canto solamente - che per consolarmi me...» E poi la grande villotta, la villotta tradizionale del Friuli:
«Se tu vens cassù tas cretis - là che lor mi han soterat...» (3) Ormai avevano quasi un nodo alla gola: facevano uno strano effetto quei canti della domenica sera, cantati ora all'aperto in pieno sole, davanti al mare. Però sentendosi ascoltati dai ragazzi fiumani, il Nini e gli altri lasciarono le malinconie, e attaccarono le villotte allegre. Le loro voci risuonavano chiare nella luce del sole che stava ormai declinando sul mare deserto, tra i gridi di qualche gabbiano e il brusio lontano della spiaggia. Eligio attaccò: «Ho sentito, ho sentito, ho sentito - la mia ragazza - a far pss, a far pss, a far pss - nell'orinale.» Tutti ormai ridevano.
Nei due o tre giorni seguenti, il Nini e gli altri si fecero un po' di coraggio. Il Nini ebbe fortuna con una ragazza di Parenzo che serviva in un albergo, e che presentò agli altri le sue compagne.
Infine Eligio aveva concluso: «Belle ragazze, sì, ma troppa fame.» Infatti avevano ricominciato la lotta con la fame: dopo i primi due o tre giorni i pasti erano andati sempre peggio: due cucchiai di minestra e un boccone di carne dura e nera, e anche il pane era contato. Dalla mensa si alzavano più affamati di prima, e andavano a distendersi sulla sabbia a covare il loro digiuno. Poi dopo una ventina di giorni, il 28 agosto, ci fu una novità. Alla mensa un dirigente disse loro che per mangiare occorrevano le tessere, dalla sera stessa.
«Che tessere?» fece Germano.
«Le tessere,» disse il dirigente, «senza tessere non si mangia, qui.» Al Nini venne da piangere.
«Che tessere, che puttane di tessere!» diceva.
Germano si rivolse a un altro operaio istriano che era lì al silurificio da tempo, e si fece dire come dovevano fare. Cominciarono così subito il giro degli uffici: ne passarono una mezza dozzina, nelle fabbriche e fuori. Nessuno sapeva nulla, tutti avevano altro da fare: la sera saltarono la cena.
Alla mattina dopo si alzarono presto, per andare al municipio. Lì si fecero cacciare da un'altra fila di uffici; l'afa della mattina premeva sullo stomaco vuoto. «Ho le traveggole,» disse il Nini, coi sudori freddi.
Erano quelli i giorni in cui il Cominform aveva messo sotto processo la Jugoslavia. Tutta una confusione regnava nella città, dalle fabbriche agli uffici, dalle botteghe alle piazze. C'era l'aria spaventata di una città in stato di allarme.
I ragazzi si allontanarono pian piano dal municipio, in direzione di una piccola collina, il cui verde riarso splendeva in mezzo alle pareti delle case e dei palazzi, in fondo a una piazza. Giunsero alla collina, e andarono a distendersi sulle panche dei giardinetti.
E adesso?, ognuno pensava in silenzio, dove sarebbero andati a battere la testa? Come la sera prima avevano saltato la cena, così oggi avrebbero saltato il pranzo, e poi ancora la cena...
«Qua moriamo di fame,» disse Eligio. Il Nini e gli altri tacquero.
«Qua si muore di fame, perché tutto è tesserato,» insistette Eligio. «Bisogna fare qualcosa se non vogliamo morire.» «E che cosa?» disse Germano.
«Andiamo a rubare,» disse il Nini.
«Sì, con questi cani,» disse Germano.
«Slavi schifosi, toh,» fece il Nini e sputò per terra. In quel momento in fondo a un vialetto si vide passare una ragazza.
«Ehi, bionda!» gridò il Nini.
La bionda se ne andava via dritta per i fatti suoi, tranquilla.
«Signorina, signorina!» tornò a gridare il Nini.
«E piantala!» brontolò Germano. Il Nini balzò a sedere sulla panchina dove stava disteso. «No,»
disse incapricciato, «no, voglio chiedere informazioni a lei.» La raggiunse. Prese un'aria seria e galante. «Scusi, signorina,» disse, «noi siamo stranieri, avremmo bisogno di un favore...» La ragazza lo guardò, e fu rassicurata dalla sua espressione bruna, candida e quasi ingenua. «Se posso...» disse. Il Nini, contento, si voltò verso gli altri e li chiamò. Gli altri vennero e fecero cerchio, un po' timidi, intorno alla ragazza. «Ecco,» disse il Nini, «sono due giorni che giriamo per gli uffici per farci fare le tessere e non siamo riusciti. Senza le tessere non si mangia, così da ieri a mezzogiorno siamo digiuni... Lei non saprebbe darei qualche indicazione?» «Lavorate in qualche fabbrica?» chiese la ragazza. «Sì, al silurificio.» «E non siete di qui, voglio dire non siete istriani?»
«Noi veniamo dall'Italia,» disse Nini.
«Allora bisogna andare in municipio,» disse la ragazza. «Ci siamo stati,» esclamò il Nini, «ma nessuno sa niente.» «E' perché bisogna andare in un ufficio speciale. Be' venite,» aggiunse dopo essere stata un po' indecisa, «che vi conduco io.» «Oh grazie, grazie,» gridò il Nini con galante gratitudine. Scesero giù dalla collinetta, verso il municipio, e per la strada chiacchierarono «Di dove siete?» chiese la ragazza. «Di Ligugnana, siamo, vicino a Udine,» risposero, poi parlando un po' ciascuno raccontarono alla ragazza tutta la loro avventura. Giunsero al municipio col cuore quasi leggero.
La ragazza li condusse attraverso un cortile e due o tre corridoi.
«Ecco,» disse davanti a una porta sfasciata, «è lì di dietro», e li salutò guardando il Nini. L'ufficio era proprio quello, ma davanti allo sportello c'era una coda lunghissima di gente. L'aria era bollente, c'era puzza di stracci sporchi e di sudore. Erano arrivati troppo tardi, e ormai per il pranzo non c'era più niente da fare.
L'ufficio chiudeva alle una. «Torneremo domani,» fece Germano.
E uscirono, a girare di nuovo per la città bruciata dal sole, in cerca di qualcosa da mangiare.
Entrarono in diverse botteghe, ma senza tessera non c'era nulla, neanche a morire. Ormai non ne potevano più dal caldo e dalla fame: così si decisero a comprare, a un prezzo altissimo, un vaso di marmellata, l'unico genere che era fuori tessera. Con quello sotto il braccio, se ne andarono nella loro stanza. Dopo mezzo minuto il vaso era tutto pulito.
Col dolce della marmellata dentro lo stomaco vuoto si distesero nel letto. Stavano tutti zitti: attraverso le imposte rompeva nella stanza il solleone: coi suoi ronzii, i rumori stagnanti, e il respiro del mare fragoroso ma attutito dalla distanza, che rendevano più fitto il silenzio.
Però nessuno dormiva, anche se non avevano o voglia o coraggio di parlare. Tacevano sudati ognuno con la sua fame.
Ad un tratto fu Basilio che ruppe il silenzio.
«Ragazzi, io torno a casa,» disse. Gli altri non risposero niente.
«Qui si patisce troppa fame,» riprese Basilio.
«Sì, andiamo via di qui,» disse Eligio, che in quei giorni stava poco bene, quasi col pianto alla gola. Non si era alzato a sedere sul letto, come Basilio, ma vi restava disteso, con la faccia contro le coperte.
«Ehi, compagni,» disse il Nini, «che cosa avete?» «Piene le palle, abbiamo,» disse Basilio.
«E cosa volete fare?» borbottò Germano.
«Andarcene,» disse Basilio. «Io me ne vado.» Eligio balzò in piedi.
«Io non sto qui neanche un giorno di più,» gridò. Era riuscito a vincere la commozione che prima gli stringeva la gola, ragionava più franco, adesso, ma pareva ormai fissato nella sua idea. Il Nini e Germano invece continuavano a tacere, distesi sui loro letti, e per qualche minuto ricaddero nella camera il silenzio e l'afa.
«Io me ne vado, avete capito,» ricominciò Eligio, «non voglio morire di fame. Sperate che domani avremo le tessere? A voler proprio illudersi, ce le daranno forse fra tre o quattro giorni. E intanto, vivremo di marmellata? E i soldi? E poi quando avremo le tessere, col mangiare che ci danno al silurificio moriremo di fame lo stesso un poco alla volta. A casa un piatto di fagioli e la polenta sono sicuri, anche se non si lavora. No, un po' di fagioli e polenta e una fetta di salame, a casa, non mancano mai, non mancano.» «In Italia non si lavorerà,» continuò Basilio, «ma almeno, dicono in Italia, di fame non si muore. Noi ne abbiamo passati di brutti momenti a casa, ma una fame così non ce la siamo neanche sognata. Io, compagni, per conto mio, me ne vado. Ce ne andiamo io e te, Eligio.» Germano disse: «Tentiamo di resistere ancora qualche giorno. Può darsi che dopo che abbiamo le tessere, ci diano da mangiare un poco meglio.» Eligio gli rispose violento, di nuovo quasi piangendo: «Restaci tu, restaci. E' un mese e mezzo ormai che resistiamo, ed è andata sempre peggio, sacramento. Basta, io ritorno.» «Bravo,» disse il Nini, «e come lo passi il confine? A venire ce l'abbiamo fatta, ma come? per caso. Se era per quell'uomo, a quest'ora eravamo ancora sul Collio, a mangiare radici. Sperate che ci vada bene un'altra volta? E poi fin che ci prendevano gli italiani, be' si era in famiglia, ma se ti pescano questi figli di cani, chissà che cosa sono capaci di farti.» «Ti ammazzano,» fece Germano.
«Il comunismo sarà bello,» disse il Nini, «io ormai ho questa idea, e l'avrò fino alla morte, ma questi cani...» «Dite quel che volete,» interruppe Eligio, «io rischio anche la foiba, ma la morte di fame è la più brutta morte che ci sia. E poi in ogni caso ti prendi una fucilata nella schiena, mentre passi il confine, e amen.» «Venire,» ripeté Germano, «è stato facile, ma tornare...» «Mi pare un secolo che non vedo l'Italia,» disse con voce rauca il Nini.
«E' lontana, è lontana,» disse Germano.
«Quante storie,» esclamò Basilio, «si prende il treno e in una notte si è a Gorizia.» «Va bene,»
gridò ad un tratto il Nini, «io ci sto. Parto anch'io.» E si alzò in piedi come se il treno fosse fuori dalla porta già pronto.
«E tu Germano?» chiese Eligio.
«Vuoi che resti qua solo?» disse Germano. «Se voi tre tornate in Italia, ci torno anch'io.» Quella notte stessa, alle una e mezzo presero il treno per Gorizia.
Il pomeriggio avevano preparato le valigie e si erano comprati della marmellata e un po' di pane.
Era un vecchio treno italiano, coi segni dei bombardamenti, tutto scrostato e senza vetri.
Trovarono tutto per loro uno scompartimento di terza e vi si rintanarono; Eligio e il Nini si sdraiarono sui sedili, Germano e Basilio per terra. Ma non potevano addormentarsi.
Il treno correva sbuffando, rantolando, scrollandosi, in continue curve tra le montagne istriane incollate alla notte senza luna come fantasmi. Fiume e il mare scomparivano alle spalle, come ingoiati da una luce irreale. E attraverso quelle terre non italiane né slave, pareva che il treno corresse senza nessuna meta, unicamente diretto verso il buio della notte.
«Addio Fiume,» diceva il Nini con le mani incrociate sotto il capo.
«Addio Tito!»
Malgrado l'incertezza del futuro, verso l'alba, c'era l'Italia: e la Jugoslavia si perdeva lentamente, restando alle spalle con la sua fame e la sua miseria.
«Quando la faremo noi la rivoluzione,» disse Germano, «le cose non andranno come qui.» «Ah,»
esclamò il Nini, «e intanto andiamo a mangiare i fagioli di De Gasperi.» «Oilè, oilè, oilè,» sospirò Basilio, «e con De Gasperi non si magna...» «Eh, ha fatto bene Milio,» disse, quasi tra sé il Nini, con gli occhi sul soffitto nero del vagone. «Ha fatto bene Milio, a fare le carte per andarsene in Svizzera!...» Il treno si fermò bruscamente dopo aver dato due o tre fischi laceranti che erano scheggiati nel vuoto di una valletta. Il Nini andò al finestrino e vide una stazione: sul costone di una collina si intravedeva una fila lattiginosa di case. «Un paese,» disse.
Gli sportelli sbattevano, si sentiva un grande scalpiccio di passi, grida, richiami, urti. Il treno pareva svuotarsi. «Che cosa succede?» disse Eligio. Il Nini aprì lo sportello e scese sui binari.
«Scendono tutti quanti,» gridò.
Presero in fretta e furia i loro fagotti e scesero anch'essi. Tutta la folla si era ammassata sulla banchina, schiamazzando, agitandosi.
C'era buio pesto ancora, non dovevano essere neanche le tre. Il Nini e gli altri andarono a mettersi in mezzo alla folla, che era quasi tutta di profughi. Il treno per Gorizia doveva arrivare dopo una mezzora. I ragazzi aspettarono seduti sui loro fagotti.
Il nuovo treno era pieno zeppo; la folla lo assalì furiosamente, lottando nel buio. Alcuni si misero sui predellini attaccandosi alle maniglie, altri si sedettero sui respingenti, e qualcuno si arrampicava fin sul tetto. I bambini e le donne, rimasti a terra, gridavano. Più della metà della gente non era riuscita a salire, e correva su e giù per i binari e le banchine, in una confusione indescrivibile. Ad un tratto il Nini si accorse che era rimasto solo.
Cominciò a guardarsi intorno, tra la gente, ma i suoi compagni non si vedevano. Allora cominciò a girare su e giù lungo il treno gridando: «Eligio, Germano!» La sua voce non si sentiva nemmeno tanto era il caos in mezzo ai binari. Passarono cinque minuti, dieci, un quarto d'ora: ormai chi era dentro, era dentro e la gente non cercava nemmeno più di aggrapparsi agli sportelli, ma gridava e protestava.
Il Nini disperato continuava ad andare avanti e indietro, cercando e gridando quasi senza più accorgersene: «Eligio, Germano!» «Attaccano un altro vagone,» gli disse improvvisamente la voce di Germano alle spalle. «Ah sei qui,» gridò felice il Nini, «e gli altri?» «Non so,» gridò Germano.
Corsero verso la coda del treno.
Attaccavano infatti un nuovo vagone, ed essi vi si cacciarono dentro tra i primi. Lì ritrovarono anche Eligio. Basilio invece si era perduto.
Viaggiarono per tutto il resto della notte. Finché sull'Istria sbiancò l'alba. La luce guadagnò le cime nude dei monti, nacque il sole, caldo e rotondo, e dall'orizzonte invase il treno di un chiarore di calce. Il Nini riaprì gli occhi in mezzo al carnaio che gremiva gli scompartimenti e i corridoi.
«Ragazzi!» chiamò; gli altri si ridestarono, sbadigliando, e poco dopo il treno si fermò.
Era una stazioncina isolata. Quasi tutti scendevano lì. I ragazzi si guardavano intorno senza saper cosa fare. Tra quelli che scendevano c'era un ragazzetto di tredici anni, e il Nini si rivolse a lui.
«Siamo vicini al confine qui?» gli sussurrò. «Sì,» disse il ragazzo. «Scendiamo,» gridò il Nini. Gli altri erano incerti. «Su, scendiamo,» ripeté il Nini, e afferrato il suo fagotto andò dietro al ragazzo.
Gli altri lo seguirono. Sulla banchina il Nini riattaccò discorso con il ragazzo che era solo. «Di',»
egli fece, «come si fa ad avvicinarsi al confine?» «Oggi è difficile,» rispose il ragazzo, «è festa.
Non ci sono mezzi.» «Allora... ci conviene rimontare in treno.» «Quello no, non va a Gorizia,»
disse il ragazzo. «E come possiamo arrivare a Gorizia?» «Oggi è festa, non ci sono mezzi.» «Che cosa si può fare allora?» «Potete andare a piedi fino all'altra stazione, e lì aspettare il treno per Gorizia. Vi accompagno se volete.» «Oh grazie,» disse il Nini. «Bravo ragazzo!» Il Nini lo prese a braccetto, e usciti insieme dalla stazione, svoltarono prima di entrare in paese per una strada polverosa, che si perdeva lungo il fianco della collina tutta di pietra e senza un'ombra sotto il fuoco del sole. In poco più di un'ora giunsero alla nuova stazione, ma il treno sarebbe passato solo a mezzogiorno. Essi si buttarono a terra a dormire in uno spiazzo erboso vicino alla stazione. Poi partirono e verso sera giunsero a Gorizia.
Scesero sotto le pensiline in mezzo a una folla di poliziotti. Ma la confusione dei profughi, con le donne che gridavano e i bambini che piangevano, era così grande che essi vi si perdevano in mezzo.
«Coraggio ragazzi,» diceva piano Germano.
«Signore, dacci questa grazia,» fece il Nini. Uscirono insieme alla fila dei profughi senza che nessuno dicesse niente. Erano liberi, in Italia. Nel piazzale della stazione volavano le rondini, la gente chiacchierava, si sentiva il profumo della terra bagnata, dei focolari. Al Nini pareva di essere a Ligugnana, all'ora in cui i contadini tornano dal campo sul carro del fieno, e le cucine son piene di gente, chi parla, chi litiga, chi canta, mentre i piccoli portano le bestie ad abbeverarsi alla vasca della pompa, e le ragazze si pettinano preparandosi a portare il latte in latteria; la piazza del paese si anima, prende quasi un'aria di festa, col buon odore della polenta nell'aria tiepida della sera, e le prime luci che cominciano ad accendersi qua e là. Lì, nel borgo della stazione, le piccole case di sassi, coi cortili e le stalle, i gelsi, le vigne, i cigli della strada campestre, erano proprio uguali a quelli di Ligugnana o San Giovanni, anche se, intorno, i monti erano più vicini. Anche il dialetto della gente era quasi uguale. E lontano dietro le ultime case, dietro la distesa della città, si distingueva il corso dell'Isonzo, tra i monti e la pianura, l'Isonzo col suo letto di ghiaia e i suoi canali di acqua azzurra e trasparente, tanto uguali a quelli del Tagliamento.
«Siamo a casa nostra, ragazzi,» disse il Nini allegro, respirando a pieni polmoni l'aria dei paesi friulani.
«Andiamo a bere un bicchiere,» disse Basilio.
«Anche due,» gridò il Nini.
«Andate piano, ragazzi,» disse Germano, «non è ancora detta che ci vada bene.» Entrarono in un'osteria: ma appena dentro si accorsero che c'era un comando di polizia: fecero giusto in tempo ad andarsene prima che qualcuno li fermasse. Tagliarono giù per una stradina secondaria, saltarono un fosso e andarono a cacciarsi in mezzo a un campo di granoturco: volevano mangiare quel po' di pane e marmellata che erano rimasti, prima di proseguire. Se ne stettero una mezzora dentro il nascondiglio delle pannocchie, sulle zolle fresche. Poi uscirono, e si misero a camminare per la strada, verso la città. Ma dietro una curva, inaspettatamente, videro venire verso di loro un pattuglione di poliziotti. Non poterono né tornare sui loro passi, né gettarsi sui campi, oltre il fosso. Furono fermati, e portati subito al comando, da dove passarono alla prigione di Gorizia.
Restarono in prigione per un bel pezzo: sarebbero tornati a casa loro solo alla fine di settembre.
NOTE:
(1) Oh che bel castello a Udine - oh che bella gioventù...
(2) Canta il gallo - spunta il giorno - addio bambina - devo partire.
(3) Se tu vieni quassù tra le rupi - dove io sono sotterrato.

5

«Siamo arrivati in Svizzera di notte,» cominciò a raccontare Milio ai compagni, «e la stazione di Briga era tutta illuminata; si vedeva dietro la cittadina con i monti che la circondavano, belli, alti, e pieni di piccole luci.
«Ho fatto sosta a Briga fino al mattino, e subito ho telefonato a Fribourg, alla mia compagna Lina per dirle di aspettarmi perché entro neanche mezzora partivo da Briga. A mezzogiorno così arrivai a Fribourg. Scesi dal treno e andai fuori dalla stazione cercando quella signorina perché eravamo d'accordo che sarebbe venuta a accompagnarmi fino a Salvenach, dove io dovevo andare. Dopo che ebbi aspettato per un bel pezzo, ecco che me la vidi venire incontro, lei e sua sorella Catina; ci abbracciammo affettuosamente da buoni amici, e andammo subito a casa loro.
«Là mi offrirono dei dolci e della birra: mi domandarono come stava la loro famiglia e tutti i parenti di Rosa. Ma era già tardi, le cinque del dopopranzo; e, come d'accordo, la Lina è venuta ad accompagnarmi fino al paese dove io dovevo andare a lavorare, che era poco distante da Fribourg.
«Scendemmo a una stazione che si chiamava Cressier, da dove bisognava fare un chilometro a piedi. Ma già di lassù si vedeva Salvenach. Ci incamminammo per un bel stradoncino asfaltato, tutto circondato da alberi da frutti. In fondo, ecco che vediamo una bella casa, tutta ben intonacata, e io dico alla signorina: Così vorrei fosse quella dove devo andare!
«Arrivammo nella plaza maiòr del paesetto, lì trovammo un vecchio e gli domandammo: «Dov'è l'abitazione di Walter Berninger?» E lui ci disse gentilmente: «La prima casa a destra.» Allora tornammo indietro, come lui ci aveva indicato: era proprio la villetta che avevamo visto prima! Io ero tutto contento; era così bella, là in alto, proprio una casa di signori... Ma non c'era nessuno, soltanto un grosso cane. Io rimasi fermo, perché mi faceva un po' paura; ma la mia amica attendeva il signor Berninger passeggiando su e giù pel giardino, senza badargli.
«Ad un tratto vedemmo un uomo sui cinquanta anni e la signorina gli chiese in francese se era lui Walter Berninger: e lui era infatti. Ci fece entrare in casa tutti due, ci offrì da mangiare, da bere, da fumare. Un'accoglienza che non si può neanche immaginare. Dopo un po' andai ad accompagnare la ragazza e la ringraziai molto per il disturbo... Ed ecco che venne ora di cena: il padrone mi chiamò in cucina e vidi la tavola già apparecchiata. Io mi demoralizzai subito nel vedere la tavola senza la tovaglia e un brodo che sembrava una minestra di zucca, e caffè e latte senza sale e senza zucchero.
Quello era il mangiare. Il padrone vedeva che io ero piuttosto serio, e per darmi un po' di coraggio mandò a chiamare altri due italiani che abitavano a Salvenach già da un anno. Abbiamo parlato di tante cose; mi incoraggiarono e mi dissero: «Un po' alla volta farai l'abitudine, va là.» «Io col mio padrone non andavo tanto d'accordo perché non voleva darmi il salario che aveva pattuito: però ero stimato da tutto il paese, perché ero un bravo lavoratore. Ma non capivo bene tante cose...
perché, dopo che io avevo fatto il mio dovere, quelli erano così sgarbati e duri con me? Là la gente non è come dalle nostre parti...
Una sera, però, ho avuto occasione di parlare con una certa signorina Leich, che stava nel paese dove lavoravo. Era di origine tedesca, ma aveva studiato e era stata in Italia parecchie volte, e amava gli italiani; parlava l'italiano e molte altre lingue. Lei con molta gentilezza mi diede tante spiegazioni sul mio padrone, perché lo conosceva; egli possedeva molta campagna ma tutta ipotecata, nelle mani del Governo, e così, non potendomi saldare ogni mese, si mostrava serio e scuro in viso.
«Così le cose peggioravano di giorno in giorno tra continui dispiaceri; perfino il paese era dispiacente che io fossi capitato in una famiglia tanto in disordine. Ormai, ero fissato che in Natale io avrei fatto ritorno; ma il tempo per me non passava mai. Il tre novembre a Morat ci fu una grandissima fiera, che per gli svizzeri era tradizionale. I padroni c'erano andati tutti, e così io ero rimasto solo a casa.
«Il dopopranzo me ne andai a pascolare con le mucche in un prato, presso il quale passava la linea ferroviaria. Stavo tranquillamente a sorvegliare le bestie, quando poco dopo vidi arrivare da dietro l'argine della ferrovia una bella ragazza bionda, anche lei con le bestie. Io la conoscevo già: era di Cressier, il paese vicino al mio.
Le andai incontro e facemmo una bella chiacchierata seduti vicino ai binari.
«Anche lei mi conosceva di vista. Ma se ne stava piuttosto seria leggendo un libro, mentre io aspettavo... Ad un tratto domandai alla bella Germane: «Che cosa stai leggendo?» «E lei gentilmente mi rispose: «Le due Orfanelle». Pareva già che fossimo innamorati uno dell'altra.
Allora io feci alla signorina la mia domanda, così, come potevo arrangiarmi, in francese:
«Germane, je vous aime!» Ed essa accolse affettuosamente le mie parole. Ci lasciammo d'accordo: dopo, nelle sere di libertà, io la praticai spesso e ce ne andavamo a ballare o al cinema, da buoni fidanzati.
«Un giorno, il mio padrone mi disse: «La prossima festa a Libistorf è una grande manifestazione, voi andateci perché è interessante, specialmente per voi che siete italiani.» «Allora ci riunimmo in sei o sette italiani, e il giorno della festa partimmo per Libistorf. Era distante un cinque chilometri da Salvenach, ed era proprio uno dei paesetti dove non ero mai stato.
Per le strade si camminava sempre rasente la costa di un bosco, e dall'altra si vedeva la valle verdeggiante. Ad un tratto arrivammo a Libistorf, che era piccolissimo ma formato tutto da belle palazzine, benché gli abitanti fossero contadini. Il paese mi piaceva molto, perché era ricco e per di più anche differente dagli altri: aveva intorno, da una parte dei piccoli laghi e dall'altra delle belle piante di pino e di abete.
«Arrivati nel centro del paese, si stava in ansia nell'attesa della festa, che non era ancora preparata. Così, intanto, noi italiani ci sedemmo in un ciglio del fosso a mangiare della frutta e ci dicevamo: «Qui si sta bene perché la processione ci deve passare proprio davanti.» «Poi, dopo un'oretta la processione cominciò a fare il primo giro intorno al paese. In testa c'era uno con il tamburello che suonava e camminava all'indietro, guardando tutta la compagnia; il tamburello veniva suonato per far ballare due cavalli dei più belli del paese, con sulla sella due fantini vestiti di una divisa militare antica; dietro ancora un grosso pino lungo venticinque metri e molto fitto di rami tirato da otto cavalli ben forniti. In mezzo a questo pino c'era in piedi un ragazzo tutto vestito di piccoli rametti di pino, che predicava continuamente, ma noi non lo capivamo perché parlava in tedesco: soltanto pareva che dicesse delle buffonate per far ridere la gente. Dietro veniva un matrimonio tra una bella ragazza vestita di bianco e un giovanotto tutto in nero. Poi una gran compagnia che cantava, e dietro ancora un carro con quattro ragazzi vestiti male che facevano la piantagione dei pini, e un altro con delle signorine, anch'esse vestite male, che trebbiavano il frumento, una per ogni angolo del carro. Poi venivano dei giovani con delle biciclette da corsa rivestite tutte di carte di vari colori: dietro ad essi si vedeva un furgone carico di bidoni, e una mandria di mucche, le più belle del paese, selezionate, ognuna con una campana al collo che pendeva fino a terra; e infine due cacciatori vestiti come una volta con lo schioppo in spalla e un cane ciascuno, bianco e piccolino.
«Nel paese c'era tutta una gran folla, con le ragazze vestite col costume contadino e in mano delle piccole bandiere. Si sentivano continuamente gli spari dai tiri-a-segno, e in mezzo alla piazza, tra la gran confusione, c'era un uomo su un banchetto con un cerchio in mano: in mezzo al cerchio stavano un litro di bianco e due bicchieri, uno per parte, ed egli li faceva girare molto forte senza farli cadere; e intanto predicava in tedesco per tenere allegra la gente.
In ultimo, verso sera, ci fu una grande festa da ballo, in una bellissima sala, dovevate vedere.
«I contadini in Svizzera sono molto diversi che da noi. Hanno maggiori possibilità, perché non sono quasi mai famiglie numerose, come le nostre, e perciò possono vendere quasi tutto il loro raccolto. Hanno delle case molto più belle delle nostre; e che stalle! sembrano dei modellini. E poi ognuno nella propria casa ha la radio, il telefono. Ma la gran differenza con noi è nel mangiare: noi, pur essendo più poveretti, mangiamo come i più ricchi dei loro.
A me pare che sia gente più dura e che abbia molto meno umanità di noi: anche se vanno a scuola fino a sedici anni, sono però meno intelligenti, e poi hanno l'avarizia nel sangue. Sfortunati quelli che si trovano a lavorare sotto di loro! Perché è gente che non ha tanti riguardi né per se stessa né per gli altri. Lavorano sempre senza mai stancarsi, magari anche sotto la pioggia, e d'estate sotto il solleone del pieno dopopranzo. Non c'è nessuno dopo i cinquant'anni che non abbia i dolori artritici, ed essi credono che non sia per il lavoro! Alla sera, dopo avere sgobbato senza sosta, non vanno come noi a fare la chiacchierata sulla strada; restano sempre solitari nelle loro case. Ma questo, però, andava bene per noi italiani, che così eravamo meno osservati quando andavamo a passeggio con le belle bionde.
«Il mio padrone era un tipo che non aveva esperienza di vita, e lasciava andare in rovina i propri interessi. Lui era molto viziato, gli piaceva mangiare bene, e anche bere e fumare senza far niente.
La sua sola occupazione era sua moglie. Era molto criticato nel paese perché non lavorava, e per di più aveva grandi debiti; così quello che possedeva era suo solo in apparenza, mentre in verità era già sotto altri padroni. Aveva un podere di quaranta posar di terreno, e quindici bestie in stalla, e tutto andava avanti solo per il lavoro di due garzoni: io e il mio compagno Ernst Gubler, che era svizzero, ma abitava al nord, nella città di Alten. Il mio padrone era tedesco, e a Salvenach parlavano tutti la sua lingua, il tedesco. Si era sposato a venti anni e aveva quattro figli, che si chiamavano Peter, Cartli, Hans e Anna Marì. Erano tutti protestanti, in famiglia: ma pur essendo protestanti seguivano molto la religione: ogni domenica dovevano fare quattro chilometri di strada per andare a messa, perché a Salvenach non c'era la loro chiesa.
«Per fortuna il mio compagno mi voleva bene: il padrone infatti spesse volte era triste perché le cose gli andavano a rovescio, e allora si vendicava con noi garzoni. Ma non c'era niente da fare, perché Ernst, che parlava la sua lingua, gli dimostrava senza paura che era dalla parte del torto e così mi salvavo anch'io. Il signor Berninger era un uomo sempre riservato e dava poca confidenza.
A Salvenach c'erano quattro famiglie Berninger parenti fra loro: erano le più vecchie del paese e stavano molto bene. La disgrazia del mio padrone era stata quella di aver perduto troppo giovane il padre, che era deputato, e, a causa della sua inesperienza, non aveva saputo amministrare bene la sua proprietà che adesso era in rovina.
«Salvenach avrà avuto un cinquecento abitanti. Appena scesi dalla stazione di Cressier lo si vedeva tutto sul costone della collina.
«In Svizzera quasi tutti i villaggi sono costruiti sui cucuzzoli del terreno collinoso. Ma, per me, Salvenach era il più bello.
«Da Cressier si vedevano le sue casette bianche, e, dietro, il pendio della montagna tutta piena di pini e ville. Si trovava lungo la strada provinciale a otto chilometri da Friburgo e tre dal lago di Morat. Gli altri paesi che io conoscevo invece erano lontani dalla strada, in aperta campagna.
Vedendo apparire Salvenach in fondo alla strada, con la sua distesa di belle case, si sarebbe detto che avesse molto più di cinquecento abitanti.
«Andando verso Fribourg da Salvenach la vita appariva molto diversa che andando verso Morat.
Dalla parte di Fribourg si vedeva solo campagna verdeggiante, e a destra e a sinistra, lungo la strada, si incontravano parecchi paesi: Cormond, Iois e molti altri. Invece verso Morat bastava salire in bicicletta, e non occorreva dare una pedalata fino alla piazza del paese.
«Da quella parte la vista era molto bella: si vedevano piccoli boschetti dentro i quali si internavano sentieri tortuosi, tutti pieni di ghiaia bianca e luccicante, e qua e là sul ciglio del bosco, delle panche di legno verde, dove, d'estate, si riposavano gli svizzeri che andavano a passeggio col loro zaino sulle spalle, ma specialmente gli innamorati.
«La campagna dove io lavoravo si stendeva intorno al paese per un chilometro quadrato, da una parte e dall'altra della strada provinciale, e si spingeva verso gli altri villaggi, circondata, sempre in pianura, da un grande bosco.
«Che bella cittadina Friburgo! Non avrei mai immaginato una bellezza simile. Appena entrai in città la prima volta, mi sentii tutto pieno di gioia nel vedere quelle piazze larghe, quelle strade così pulite: e alberghi, pasticcerie, vetrine in quantità... I palazzi non erano alti come quelli delle nostre città, ma avevano delle incorniciature bellissime, dipinte con ornamenti di fiori e ricami, com'è l'uso tradizionale svizzero. A Friburgo trovai una gioventù sportiva e bella: le signorine piuttosto alte, snelle, con delle capigliature lunghe, ondulate e bionde. Le feste le trascorrevano in comitiva sulle rive dei loro laghi. Un giorno io fui invitato a suonare a Fribourg dalle amiche della mia padroncina, e quella volta ho capito quanto la Svizzera sia tradizionale. Le ragazze avevano da mangiare per merenda jambon, che è carne di maiale, e indossavano i vestiti alla moda friburghese: lunghi, neri e stretti; le scarpe erano nere e i calzetti bianchi; avevano poi un grembiulino color marrone, tutto ricamato dalle spalle ai fianchi; dalle parti pendevano due catenine dorate e in testa tenevano una bellissima cuffia stretta da una cresta fatta tutta di velo.
«Le ragazze in Svizzera sono molto più progredite che da noi. E la mia padroncina... Ah, mi ricorderò sempre di lei...
«Un dopopranzo avevo dovuto andare a Cressier a prendere in stazione due grosse valigie, perché era arrivato Peter che era studente a Lausanne. Così con queste due pesanti valigie mi toccò fare la strada dalla stazione in paese; e c'era da fare una bella salita, perché Salvenach era uno dei villaggi più alti. Quando fui a mezza strada mi fermai a riposarmi e a fumare una mezza sigaretta. Ad un tratto vidi in fondo, vicino alla stazione, tre o quattro ragazze avviate verso il paese. Io restai ad aspettarle pensando: «Forse le conosco, così mi aiuteranno a portare il peso di queste valigie.»
«Arrivarono vicino, ed era proprio come io pensavo: le conoscevo tutte e tre dal giorno che ero stato a Friburgo. Senza che io glielo chiedessi, loro presero le valigie e mi domandarono: «Come va, dove sei a lavorare?» ««A Salvenach,» risposi io, «da Berninger.» ««Ci stai bene,» dissero allora le ragazze ridendo, «perché là c'è una bella signorina...» ««Non scherzate,» feci io, «è la mia padrona.» «Ma da quella volta io cominciai a pensare a Anna Marì, la mia padroncina, mentre prima che quelle tre ragazze me ne parlassero non mi era neanche mai passato per la testa. La famiglia Berninger dove lavoravo era formata da papà, mamma e quattro fratelli, tre maschi e una donna, Anna Marì. La campagna era del padre, ma lui l'aveva data da lavorare al figlio Cartli. Hans lavorava lontano dal paese, in un bosco; invece Peter era uno studioso, sapeva l'italiano, e veniva a casa dalla scuola ogni quindici giorni. Hans invece ogni due o tre mesi. Anna Marì faceva le faccende di casa e, quando in campagna c'era molto lavoro, veniva ad aiutarci anche lei.
«Una bella sera del primo del mese Peter era a casa in licenza; io mi ero messo a suonare la fisarmonica nella mia camera; ad un tratto vidi entrare Anna Marì, Peter e il figlio del maestro del paese, Armando. Essi organizzarono senza pensarci tanto una piccola festicciola: cominciarono a ballare un po' per ciascuno con Anna Marì; poi andarono a prendere del vino spumante, della cioccolata e altri dolci. Così, dopo un paio di ore, eravamo tutti un po' allegri.
Ma venne il momento che dovemmo sciogliere la compagnia: infatti Peter doveva andare in paese.
Però io e l'altro mio amico Armando restammo in camera ancora per più di un'oretta, chiacchierando. Già il mio amico l'aveva praticata, Anna Marì, e me lo faceva capire strizzandomi l'occhio. Mi aiutava per far piacere tanto a me come a lei; e mentre egli guardava fuori dalla finestra la bella sera stellata, io le dicevo piano: «Trè jolì, trè jolì», e la sbaciucchiavo.
«Anna Marì era una ragazza bionda, un poco grassa, non tanto alta ma bianca di faccia, con una bella carnagione bianca e liscia. Era pettinata coi capelli indietro, che le cadevano a onde sul collo.
Quella sera aveva un bel golf bianco di lana. Lei era da tempo che mi diceva: «Tu sei molto gentile.» Ed io, dentro di me, l'ammiravo, ma non mi facevo intendere dai suoi familiari, perché sapevo che sarebbero stati gelosi. La signorina mi trovava gentile perché mi sentiva parlare con tutti allo stesso modo: e io guardavo sempre di rendermi simpatico, perché tutti lassù mi volessero bene.
«Io non avevo capito prima Anna Marì; era, fra le ragazze, una di quelle che mi dimostravano più simpatia, ma io non volevo pensarci e non la comprendevo nemmeno in quello che pensava lei di me.
«Ma una volta c'erano state fra noi delle questioni, per cui avevamo quasi litigato e non eravamo andati più d'accordo; anzi, da quella volta non ci parlavamo quasi più. Della prima questione, la colpa l'aveva avuta il ballo: una volta in una festa a Salvenach un italiano che si chiamava Olivieri le aveva chiesto di fare un giro con lui, e lei gli aveva risposto che non ballava con gli italiani perché suo padre, gli italiani, non li amava.
«Io, sentendo queste parole, dato che ero un italiano e ero a lavorare da suo padre, mi ero avvilito.
E il giorno dopo raccontai tutto al suo fratello Cartli; e dico la verità glielo raccontai quasi piangendo, perché mi sentivo molto offeso e avvilito. «Perché Anna Marì si è comportata in questo modo?» gli chiesi. «Forse io, sono più civile di quello che voi svizzeri credete,» dicevo a Cartli, «e le donne pensano che noi siamo tutti mascalzoni, invece non è vero, e forse siamo più onesti di voi svizzeri.» ««Ah, amico,» mi rispose Cartli, «non andar dietro a Anna Marì, perché è una bambina, credimi, è una bambina, è una bambina.» «Cartli era il fratello con cui Anna Marì non andava d'accordo; per lei non c'era che Peter. La seconda questione che abbiamo avuto io e lei è stata perché Anna Marì si è arrabbiata ancora di più a causa di sua cognata, che mi voleva troppo bene.
La moglie di Cartli si chiamava Cecilia, era ancora giovane e io le ero molto entrato in simpatia: ogni volta che andava a fare la spesa giù in bottega mi portava dei dolci. Anche lei io non l'ho mai capita proprio bene; ma si comportava in un modo molto strano con me, ed era una sciocca a portarmi a casa ogni volta qualche piccolo regalo. Anna Marì era gelosa, perché era innamorata di me; e andò a dire fuori in paese, ad Armando e agli altri giovanotti, che io in casa di Cartli ci stavo bene perché andavo d'accordo con Cecilia.
«Allora, sapendo di queste chiacchiere, io andai a protestare con lei e le dissi che si era comportata male. Così da quella volta Anna Marì non mi disse più che ero gentile. E io badavo a fare meglio che potevo il mio lavoro senza darle retta e cercando di farmi voler bene da tutti gli altri.
«La sera in cui abbiamo fatto quella festa ci parlammo per la prima volta dopo tante settimane.
Poi venne il momento che Armando disse che doveva andarsene a casa; così pian piano, già d'accordo, andammo fuori dalla cucina in modo che non ci sentisse il fratello. Appena all'aperto l'amico Armando ci diede la buona notte, ma Anna Marì non aveva ancora voglia di andare a dormire, e diceva che le sembrava che quella fosse la più bella sera della sua vita perché stava insieme ad un giovane straniero italiano che la baciava. Essa mi portò fuori attraverso la stalla, e andammo a passeggiare per i campi. La bella bionda era molto attraente, ma io nel tempo stesso mi sentivo incerto, perché pensavo a tante cose; le dicevo: «E se ci trovassero i tuoi fratelli? che cosa sarebbe di me?» «Ma lei non se ne preoccupava; e io non sapevo che cosa fare perché sentendomi quella ragazza tra le braccia mi era venuta troppa voglia di fare l'amore. Lei però mi incoraggiò un poco dicendomi che il fratello Cartli che era a dormire non si sarebbe preoccupato di lei e se ci avesse visti Peter non ci avrebbe detto niente perché lui capiva la nostra gioventù.
«Passeggiando pian piano trovammo un bel posticino, dove ci sedemmo a riposare, coi due cuori innamorati uno vicino all'altro.
«La casa dove io ero a lavorare era proprio una delle ultime di Salvenach, che, come tutti i paesi svizzeri, era posto sul cucuzzolo di una collinetta, e sotto si stendeva la campagna. Dalla porta della casa dei Berninger si vedevano sotto i piedi le altre case del villaggio, il colle e tutto il bosco intorno ai campi.
«Io e Anna Marì, usciti dal cortile, eravamo discesi giù per il paese, avevamo attraversato la ferrovia ed eravamo giunti fin sotto i primi pini. E lì nell'ombra avevamo trovato il nostro cantuccio.
«Io le mettevo le mani da per tutto, ma non troppo in basso, perché avevo paura di sbagliare e di offenderla. Ma non feci bene, però, e tutti i miei compagni dopo mi dissero che lei lo desiderava e io avrei potuto fare tutto quello che volevo con lei. Noi ci siamo soltanto baciati e detti tutte quelle cose che si dicono i buoni innamorati.
««Io non resto più a casa,» diceva Anna Marì, «me ne vado a lavorare a Fribourg.» ««Se mi trovi un posto con te,» io le dicevo, «poi ci sposeremo...
Si toi cherger du travail plus jolì, moi travailler avec toi... moi avec toi... aprè nous marrier, et aprè nous seron trè content toujour...
promener, moi avec toi... dancer... et aprè nous aurion del garçons...» ««Oui, oui, moi farai le possible,» diceva Anna Marì.
««Ma non farti vedere tanto gentile con me dai tuoi genitori,» le raccomandavo io con tutto il cuore. E infatti avevo osservato che suo padre e sua madre quando eravamo insieme ci osservavano e stavano con le orecchie tese per sentire quello che dicevamo. Ma il giorno che avevo parlato conCartli a proposito del ballo, gli avevo anche fatto notare il modo di fare di papà Walter. «Non occorre che il signor Berninger faccia tante osservazioni,» gli dissi, «se io e Anna Marì parliamo tante volte insieme è perché come io voglio sentire delle parole francesi, lei forse ne vuole sentire di italiane. Noi italiani non siamo come voi credete.» «E Cartli aveva raccontato tutto a suo padre Walter e a sua madre Adelaide. Allora un giorno il padrone mi aveva mandato a comperare due bottiglie di birra; quando tornai per portargliele andai su in camera sua. «Vieni,» mi disse, «che beviamo la birra insieme.» Io capii che voleva dirmi qualcosa, certamente a proposito di quanto avevo detto a Cartli di Anna Marì. Andammo nella sua camera che era tutta ben fornita, piena di mobili lustri e di lusso. Lì bevemmo la birra e mangiammo anche dei biscotti. Egli poi mi portò a vedere anche l'altra stanza, dove c'erano tutti i suoi ricordi; alla parete stavano appesi due o tre diplomi, e in una scatoletta di vetro una medaglia d'oro, che si era guadagnata perché per quarant'anni di seguito aveva fatto parte di una scuola di cantori.
««Ah,» gli dissi io, «mi basterebbe un quarto di tutto quello che c'è qua dentro per potermi sposare.» ««Su, bevi amico,» mi diceva il padrone.
««E la signora Adelaide?» domandai io.
«Il vecchio andò giù a chiamarla, così tutti e tre insieme continuammo a chiacchierare. Erano molto cortesi e io capivo che volevano dirmi qualche cosa. Quando bevemmo la birra ci guardammo bene negli occhi, perché là si usa in questo modo: e per fortuna io lo sapevo, altrimenti avrei fatto la figura del maleducato. Lo sapevo perché ero molto amico di Armando, e una sera eravamo andati a bere, insieme a un gruppo di amici. Bevemmo appunto la birra e mentre si beveva io mi guardavo attorno. Allora un ragazzo mi si avvicinò e mi chiese se ero arrabbiato con lui. «No,» dissi io: e un altro italiano che era fra noi mi avvertì che gli svizzeri mentre bevevano usavano guardarsi negli occhi. Così quella sera con il vecchio Walter sapevo di quell'abitudine, e mentre bevevo lo guardavo; anch'egli mi guardava sorridendo; e anche mamma Adelaide. Non ci dicemmo niente a proposito di Anna Marì e delle chiacchiere al ballo: ma io capivo che era di questo che i due vecchi volevano parlarmi. Così senza dirci una parola ci perdonammo e ci compatimmo a vicenda.
«Per questo adesso avevo una gran paura che Anna Marì facesse indovinare ai suoi genitori che era stata al bosco con me.
«Dal cantuccio dove ci eravamo nascosti alla nostra casa c'era circa un chilometro, ma quel chilometro era lungo come dieci per uno che avesse dovuto percorrerlo da solo, perché era tutto in salita.
Noi si faceva la strada stando abbracciati pian piano, e non si pensava al male, alle nostre condizioni, alla miseria, ma si pensava soltanto a quanto fosse bello l'amore. Alla fine però la nostra camminata sotto le stelle e la luna che ci rischiaravano, ci aveva un po' stancati: e così l'ultimo pezzo di salita fu faticoso come se quel poggio fosse stato una montagna. Già avanzavano le prime ore del lunedì: era venuto il momento di lasciarci; il distacco fu molto lungo, e Anna Marì, prima di dirmi buona notte, mi diede venti o trenta bacetti contro le labbra. Da quella volta tornammo a parlarci gentilmente di tante cose, ma non molto spesso, e non più d'amore.
«Alla sera quasi sempre mi prendeva una grande malinconia. Mi ricordavo di Rosa che a quell'ora era tanto bella e piena di vita: tutti erano stanchi per il lavoro nella campagna, ma nel tempo stesso intorno c'era tanta allegria. I fratellini minori caricavano il bidone del latte sul manubrio della bicicletta e partivano pedalando contenti e fischiettando verso la piazza del paese. Per lo stradone, estate o inverno, c'era sempre un viavai di carrette o di carri o di biciclette, che andavano da Rosa a Gruaro; e le donne accendendo il fuoco o raccogliendo i panni messi ad asciugare nel cortile parlavano fra di loro gridando e ridendo. Erano belle quelle ore: noi giovanotti ci lavavamo alla pompa mentre i vecchi o i ragazzetti portavano ad abbeverare gli animali, e poi andavamo a cambiarci perché verso sera, nei nostri paesi, c'è sempre un po' di festa.
«In Svizzera, invece, a quell'ora, veniva subito buio e freddo, e tutti si ritiravano nelle loro belle case.
«Mi ricordo che una di quelle sere il padrone mi disse: «Gabli non può più venire da noi a lavorare, e perciò adesso andrai tu coi cani in latteria a portare il latte.» Io dovetti rispondergli di sì, ma ero molto avvilito per quell'incarico. Non sapevo come fare a mettere tutti quei piccoli finimenti ai due cani. Io non ero abituato, e mi vergognavo a fare quel lavoro: non sapevo cosa dargli da mangiare per farmeli amici. Ringhiavano, abbaiavano, non stavano mai fermi. Io accarezzandoli li fornii pazientemente, poi li misi sotto il carrettino. La latteria era abbastanza distante, e quella sera piovigginava. Prima che scendessi in paese, dalla porta il padrone mi gridò:
«Se hai pratica puoi montare anche tu sul carretto.» «Io tranquillo partii, e dopo un cento metri saltai sul carretto per farmi tirare da quelle bestiacce, che per l'abitudine andavano verso la latteria senza bisogno di essere guidate. Ma ad un tratto in fondo alla strada, videro degli altri cani, e cominciarono a corrergli dietro, abbaiando come diavoli.
«Io non ero più capace di frenarli, e dopo una lunga corsa tra le prime case del paese, con la gente che gridava e rideva, andammo a rovesciarci sul fosso io, cani, carretto e bidoni. In quel momento passava per la strada in bicicletta Anna Marì, col suo golf bianco, e vedendomi andare a gambe all'aria si mise a ridere, e continuò a ridere per un bel pezzo continuando a pedalare senza voltarsi.
«Il giorno dopo era festa e io con alcune compagne andai a ballare a Cormond. La festa era in mezzo al bosco, e io ballai con Anna Marì e Lilian. Poi io me ne andai per mio conto e loro restarono ancora al ballo fin tardi.
«La casa dei Berninger era vuota, quando io ci tornai, e tutta lucida come uno specchio. Attaccai i cani e andai in latteria. Anche Salvenach era quasi vuoto: la gioventù era a divertirsi a Cormond, alla festa da ballo in mezzo al bosco. A Salvenach c'erano solo i vecchi che si ubriacavano a forza di birra. Io ero solo nella casa dei miei padroni mentre scendeva la sera, e su tutti i colli intorno si accendevano i lumicini, e cominciavano già a brillare le stelle nel cielo pulito e fresco per le piogge del giorno prima. Me ne stavo nella mia cameretta, che era a pianterreno vicino alla cucina, e dalla malinconia mi veniva quasi voglia di piangere. Verso tardi, quando già tutti gli altri della famiglia erano andati a dormire, sentii in cucina dei rumori e mi accorsi che erano Anna Marì e Lilian coi loro due corteggiatori che chiacchieravano fra loro. Poi sentii che facevano uno spuntino e bevevano il caffè. Io però senza pensare più a loro stavo perdendomi via nel sonno, ma la loro continua conversazione mi svegliava sempre. Dalla mia camera per mezzo del tubo di una stufa, potevo vedere se in cucina c'era buio o luce; così io che conoscevo il trucco stavo con le orecchie tese per accorgermi di quello che sarebbe accaduto. Le ore per loro passavano presto, e io dalla mia camera vedevo che in cucina la luce continuava a rimanere accesa, e sentivo che tutti quattro chiacchieravano a bassa voce, e Anna Marì diceva: «Parlate piano perché può sentirci il garzone che forse è venuto a dormire da poco.» Poi ad un tratto mi accorsi che la luce era stata spenta e che c'era in cucina tutto un silenzio; ma sentivo scricchiolare i banchetti sui quali ci sedevamo a tavola per mangiare. Io non potevo dormire e avrei pianto di rabbia. Alla mattina, quando vidi Anna Marì, io la guardavo e ridevo, ma lei non immaginava il perché. Io per caso quel giorno dovevo lavorare in casa, e verso le dodici passò di lì anche Lilian, che non la finiva mai di chiacchierare con Anna Marì della bella serata che avevano passato. Ad un tratto io dissi: «Avete passato bene la notte?», e loro restarono con la bocca aperta e mi domandarono se fossi stato ad ascoltare i loro discorsi. Io dissi: «Per caso non dormivo stanotte e vi ho proprio sentiti. Ma in ogni modo sono affari vostri.»
«Anna Marì, perché io avessi rabbia, invece di negare, raccontava piuttosto il doppio di quello che era accaduto. Ma Lilian rideva perché tanto noi si andava d'accordo lo stesso come tutte le altre sere. Anna Marì si era molto riscaldata, ma un po' alla volta si calmò e alla fine mi disse: «Ti raccomando di non fare chiacchiere.» «Lei era stata molto innamorata, ma la colpa fu mia se non continuammo, perché la sera della nostra passeggiata al bosco non avevo avuto coraggio di fare con lei quello che lei voleva; però io ormai ero annoiato di Anna Marì, e non me ne importava che le cose fossero finite in quel modo.
«Molte sere, al tramonto del sole, lei veniva su per lo stradoncino in salita perché durante il giorno andava ad aiutare sua cugina; e io me ne stavo a scrivere qualche lettera sul davanzale della mia finestra, verso la campagna.
«Allora lei si sedeva in cortile su un mucchio di assicelle e parlavamo da amici. Veramente mi faceva un po' di rabbia quando mi accorgevo che aveva dato un appuntamento a qualcun altro. Una domenica, che tutti erano usciti e io ero rimasto solo in casa per risparmiare un po' di soldi, mi accorsi che veniva su per la salita con un altro giovane. Si era fidanzata con lui e se lo portava in camera. La mattina dopo io le dissi: «Ah, Anna Marì, ça va bien en ault a fair l'amour!» ««Oui, oui,» mi rispondeva lei come per farmi dispiacere.
««Eh bien, chère Anna Marì,» io le dicevo, «pour moi en fait rien!
Pour moi en Italie c'est une amie plus jolie que toi, plus jolie, plus jolie!» 6 Una sera dei primi di ottobre, benché piovesse dirottamente, e fosse ormai tardi, a San Giovanni molte luci erano ancora accese.
Alle osterie le porte erano aperte e gettavano sulle strade allagate e in ombra delle macchie scintillanti di luce, attraverso le quali passavano di corsa, chinati sotto gli ombrelli o coperti con dei sacchi, gli avventori affondando con tutto il piede nelle rotaie di fango.
Alla funzione della sera non era andato quasi nessuno, la grande chiesa e la piazza erano rimaste vuote. E borgo Romans, davanti, era perduto nello scroscio di quella pioggia ormai quasi invernale; e anche borgo Monte, salvo qualche movimento intorno al bar: l'animazione insolita riguardava solo il borgo Braida, la strada centrale di San Giovanni, intorno ai locali dell'Enal.
Le porte e le finestre dell'osteria - che del resto non avevano imposte - erano spalancate e gettavano sulla strada e i tetti delle casupole vicine dei fasci di luce gialla, a cui si mescolavano le voci e il brusio dell'interno. Dentro, infatti, nelle due stanzette a pianterreno, e sopra, nelle altre due che formavano la sede del partito, era radunata una eccezionale folla di uomini - e, cosa insolita, anche di donne. Le stanze, così sopra come sotto, erano invase dal fumo: era già molto, dunque, che quella gente vi stava raccolta. Infatti ormai la riunione era per finire. Pieri Susanna, il segretario della sezione, accanto al banco, parlava serio con un giovane della federazione venuto apposta da Pordenone per partecipare a quell'adunanza, e che ora, prima di andarsene, prendeva gli ultimi accordi. Intorno a loro due c'erano i più anziani, sia della sezione del partito che della Federterra; e ascoltavano quasi gravi, coi loro visi bruciati dall'aria e dal vino, i discorsi dei due dirigenti.
Anche gli altri chiacchieravano, seduti ai tavolini, o ammassati in piedi a empire le due stanzette dal pavimento lucido di chiazze d'acqua.
Sopra, continuava ancora la riunione delle Avanguardie Garibaldine; anche lassù, a differenza del solito, c'era molta serietà e quasi raccoglimento.
I giovani stavano seduti sulle panche, o in piedi lungo le pareti, fumando, coi loro pesanti blusoni o con le tute che odoravano fortemente di acqua e di strame.
C'era Eligio, ancora pallido e magro per gli strapazzi della vita in Jugoslavia, con la pelle tirata sugli zigomi come un tisico, e gli occhi azzurri che parevano disfarsi da un momento all'altro: ma allegro come sempre, sempre pronto a ridere e a cantare. C'era suo cugino Jacu; c'erano i suoi fratelli più piccoli, Onorino e Livo, che intanto erano cresciuti, anche se avevano ancora i calzoni corti; e i loro compagni Chini, Ivano, Rino, e tutti gli altri dei borghi di San Giovanni.
Quella sera si erano radunati lì anche i giovani di Casarsa, del Comunale, di Sile. Ed erano venute perfino quattro o cinque ragazze di Romans.
Il segretario aveva appena finito di parlare: ma adesso restavano ancora insieme un po' ad aspettare che spiovesse, un po' a discutere e a prendere gli ultimi accordi. I ragazzi erano però intimiditi.
Eligio che stava vicino al tavolo sfasciato sotto il Crocifisso e il ritratto di Stalin, rivolto ai compagni, arrossendo, chiese: «Non avete niente da dire? Coraggio, parlate!» Gli altri si guardavano tra loro e tacevano. «Cosa vuoi che diciamo noi ignoranti,» esclamò ridendo suo fratello Onorino. «Va bene così.» Livo, il terzo fratello, quello più piccolo, che si trovava in piedi nell'angolo vicino alla porta, fece due passi verso la parete opposta, dove, dietro l'armadio, stava appoggiata la bandiera, e ridendo la tirò fuori di tra i calcinacci e la srotolò. «Domani sventolerai in testa alle Avanguardie di San Giovanni,» disse.
«Auguri!» Gli altri risero divertiti alle sue parole.
«Domani,» continuò un adolescente di Braida, afferrandola, «ti metteremo sotto il naso dei Pitotti e degli Spilimbergo.» «Che sentano bene di che cosa sai!» gridò Onorino, e la scosse forte per un lembo: la bandiera si spiegò del tutto e quasi ricoperse le teste di quelli che erano accanto. «Evviva la nostra bella bandiera,» gridò Eligio, cominciando ad agitarla allegramente...
Fuori continuava a piovere forte, e si sarebbe detto che tutta la zona lungo il Tagliamento, dalla pedemontana al mare, dovesse essere quasi senza vita sotto quella burrasca: i borghi desolati, le strade impraticabili, i campi abbandonati... Invece, come a San Giovanni, così in tutti i paesi del mandamento, c'era la stessa animazione, lo stesso inconsueto brillare di luci. Come Eligio e Jacu a San Giovanni, così Milio era andato alla riunione nella sua sezione di Rosa, e il Nini a Ligugnana, dove, si sarebbe detto che tutti fossero in piedi, come alla vigilia di una festa piena di preparativi.
I delegati di tutte le sezioni del gruarese vi erano stati convocati, ed era laggiù che i dirigenti di Pordenone e anche di Udine si erano raccolti. La sezione del partito aveva la sua sede dentro la stessa caserma dove si trovava la sala da ballo; la custodia delle biciclette nel corridoio era gremita quasi come alla sera della domenica sotto le polverose lampade elettriche.
Anche il segretario Pieri Susanna, se a impedirlo non ci fosse stata la pioggia, avrebbe dovuto essere a Ligugnana: al suo posto era andato giù suo figlio Mariano; ed era lui infatti, con le ultime disposizioni, che tutti restavano ad aspettare all'Enal. Gli altri approfittavano per bere qualche bicchiere di più, in attesa della buona riuscita dell'indomani, e finirono col mettersi a cantare; giovani e vecchi si erano riuniti presso il banco, Eligio aveva portato giù la bandiera.
Solo verso le undici cominciò a cessare di piovere; e quelli che abitavano lontano si fecero sulla porta dell'Enal a respirare l'aria cruda e umida e a scrutare il cielo ancora gonfio di nuvole che lo solcavano in disordine. Ogni tanto qualche ventata di scirocco rovesciava ancora uno scroscio di pioggia su San Giovanni, facendo tremare la tabella rossa che pendeva alla porta dell'Enal con lo stemma del partito.
Ma sfidando le ultime malefatte del maltempo, quelli di Casarsa, del Comunale e del Bosco, se ne andarono via in bicicletta, cantando, per la strada fangosa. Del resto, poco dopo il figlio di Pieri Susanna arrivò da Ligugnana, senza portare contrordini per il giorno dopo; perciò anche gli altri s'incamminarono verso casa, continuando a discorrere, eccitati, nel sonno e nel silenzio invernale del paese.
Il giorno seguente il cielo era ancora smorto, bagnato: non pioveva, ma nella pelle e nei vestiti si sentiva il freddo dell'acqua, benché continuasse a soffiare dall'Adriatico un'aria di scirocco. Le case e gli orti erano bui, giù, da Casarsa, lungo il viale della Rimembranza, a San Giovanni, San Floreano, fino alle prime villette di Gruaro, in fondo alla lunga strada alberata. Alla mattina presto, quando non si era ancora cancellato dall'aria il rintocco del mattutino, e le vecchie ancora non erano rientrate dalla chiesa ad accendere il fuoco, all'Enal di San Giovanni cominciavano già a raccogliersi gli uomini e i ragazzi, e anche qualche donna. Con le ruote affondate nel fango, odorosi di pioggia e di concime, cinque o sei carri erano in fila lungo la strada, nell'ombra fredda, coi cavalli guardati dai ragazzi più giovani. Intorno, impazienti, gridavano quelli delle Avanguardie, che erano quasi una cinquantina, con le loro biciclette, pronti per partire verso Rosa.
«Che cosa si aspetta?» diceva Jacu. «Non ci muoviamo più da San Giovanni se andiamo dietro a questi pazzi di vecchi.» «Gruaro non se ne va!» gridò Eligio da lontano.
«Possono scappare i Pitotti e gli altri signori,» gli rispose Jacu.
«Ci basta anche parlare coi loro fattori!» gridò Onorino ridendo.
«Perché invece,» gli disse Jacu, «non vai a dire a Susanna che andiamo avanti noi intanto?» «E'
meglio che stiamo tutti insieme,» disse indeciso Eligio.
Gli altri intanto chi a cavalcioni della bicicletta, chi tenendola per il manubrio, occupavano tutta la strada, parlando forte, chiamandosi e gridando.
Col distintivo, all'occhiello, avevano legato un nastro rosso. «E a chi diamo la bandiera?» disse Eligio. «A me,» gridò pronto Onorino, che era lì accanto. «Avanti, diamola a lui,» fece Jacu; corse su nelle stanzette vuote della sede e presero la bandiera.
Quando Onorino comparve sulla porta con la bandiera tutti i ragazzi si radunarono intorno, con grida allegre, e Onorino, eccitato, cominciò a sventolarla. «Calma, gioventù!» disse Susanna. «Noi andiamo avanti,» disse Eligio approfittando del buon umore. «Così,» aggiunse, «gli altri vedendo che arriviamo almeno noi giovani, non grideranno se ritardate.» «Sì,» disse Giovanni Blasut, «forse è meglio che vadano loro intanto.» «Andate,» disse allora Susanna, «ma state attenti per la strada!
Niente sciocchezze e grande serietà.
Dite a Leon che noi veniamo subito.»
«Si parte, ragazzi!» gridò Eligio Pereisson. Suo fratello Onorino, con la bandiera, e Livo si misero in testa, e il gruppo dei giovani partì giù per borgo Braida, gridando, in direzione di San Floreano, e lì, invece di prendere il viale di Gruaro, tagliarono per un viottolo di campi verso Madonna di Rosa.
Davanti alle macerie del santuario, lavate dalla pioggia, e per tutto il grande piazzale, c'era già una gran folla che aspettava il momento di incamminarsi verso Gruaro. Al centro, in mezzo ai gruppi che si incrociavano, carri e biciclette, si vedeva Leon, coi dirigenti di Ligugnana e delle sezioni più importanti, che discuteva insieme ai sindacalisti venuti giù da Udine e da Pordenone.
Tutt'intorno, una schiera di giovani di Ligugnana stava per ascoltarli, guardandoli con famigliarità ma anche con rispetto e tenendosi a una certa distanza. Con una gamba sulla sella della bicicletta, appoggiando una spalla al tronco di un castagno, Nini Infant stava anche lui con gli altri, tranquillo, ad attendere gli ordini.
Aveva intorno al collo un lungo fazzoletto rosso, annodato sotto il mento con due o tre nodi.
«Nini!» gridò da lontano Eligio, arrivando verso il centro del piazzale con la banda di San Giovanni. «Vecchio!» gridò il Nini staccandosi dal castagno e pedalandogli incontro.
«Sono qui quelli di San Giovanni!» disse Germano a Leon. «Come mai così pochi?» chiese questi. «Sono i giovani soltanto,» disse Germano.
«E gli altri?» gridò Leon verso il gruppo che veniva avanti.
«Arrivano tra poco,» gridò Eligio. «Voi mettetevi insieme alle Avanguardie di Ligugnana.
Lavorerete con loro,» disse Leon, riprendendo la discussione interrotta con gli altri dirigenti.
«Oggi, oggi!» gridò il Nini.
«Se fossi nei calzoni del conte Spilimbergo non sarei molto contento,» disse Eligio. Tutti parlavano, gridavano, si cercavano in mezzo alla confusione; nel piazzale di Madonna di Rosa c'era quasi la ressa del giorno della sagra della Madonna: centinaia di giovani, quasi tutti coi fazzoletti rossi al collo, e di anziani, a piedi, si accalcavano, muovendosi e agitandosi, sul pantano tra le piante. Le porte e le finestre delle case erano chiuse, e sotto, qua e là rosseggiavano le bandiere delle sezioni.
Su Gruaro cadeva una luce quasi accecante, dal cielo tutto coperto.
Nere, nude, si vedevano profilarsi dietro il terrapieno della stazione, le montagne della Carnia. Ma in piazza, prima che dalla parte di Madonna di Rosa e Prodolone, dove si erano raccolti, arrivassero i più di tremila dimostranti, pareva che si trattasse di una qualunque giornata di autunno: al chiarore dell'aria, nella piazza tra le due vecchie porte veneziane, si svolgevano, consuete, le vicende del mattino; dalla corriera di Udine i conducenti erano scesi e entrati nel grosso bar sotto i portici a bere il caffè; qualche vecchia entrava o usciva dalla chiesa; delle ragazze andavano su e giù, in piedi o in bicicletta, dalle botteghe della piazza alla pescheria. Ma quasi in silenzio, come intimoriti, da borgo Fontanis e da borgo Favria, i dimostranti cominciarono a dilagare in lunghe e disordinate colonne, e in un quarto d'ora invasero tutto il paese.
Non si vedevano, in piazza e per le strade, né carabinieri né polizia; la gente di Gruaro che era rimasta fuori non si mostrava allarmata, e anzi alcune ragazze, rincasando con le loro sporte piene, alzando i pugni chiusi contro le case dei ricchi, gridavano: «Fateli vergognare!»; i dimostranti, ammassandosi nella piazza, le ascoltavano ridendo. In tutte le strade che portavano al centro, si vedevano gruppi di ragazzi, con le tute e i fazzoletti rossi, o antiche divise di partigiani coi berrettini mimetizzati, e i calzoni e gli stivali presi ai tedeschi e agli americani; si sedevano sui paracarri o sugli scalini delle case e impedivano l'accesso. Nessuno poteva più entrare o uscire dal centro del paese.
Sotto i portici davanti alla chiesa, si erano stretti quelli di San Giovanni insieme a qualcuno di Ligugnana. Ormai cominciava a piovigginare, nell'aria che a poco a poco si era fatta scura. «Dov'è il Nini?» chiese Eligio a Basilio che passava di corsa in bicicletta.
«E' di guardia alla porta di Fontanis,» gridò Basilio. Nella confusione dell'entrata in paese si erano persi: «Vado a vedere di lui,» disse Eligio. «No, è meglio che tu resti insieme a noi,» disse Onorino. «Possono arrivare ordini.» Eligio alzò le spalle: «Vado e torno,» esclamò prendendo la bicicletta. «Bisogna tenersi pronti!» insistette Onorino. Ma Eligio ormai si allontanava sotto la pioggia non forte, ma densa, piuttosto, come una nebbia. «Torno subito!» gridò. Sotto l'arco della porta, un giovane lo fermò e gli chiese serio: «Dove vai? Non si può uscire.» Ma in quel momento apparve il Nini. «Eligio,» gridò «vieni qua, amore.» Le sentinelle della porta si erano già procurate due fiaschi di vino. «Bevi,» disse il Nini.
Eligio ridendo si attaccò al collo e ne inghiottì due sorsate.
«Voi cosa fate?» gli chiese il Nini.
«Per adesso niente,» disse Eligio. «Ho una voglia...» gridò il Nini, col gesto di stringere alla gola qualcuno. «Calmati,» disse quello che aveva fermato Eligio, «non hai sentito le raccomandazioni di Leon e degli altri della Camera del Lavoro? Ouh non compromettere tutto con delle sciocchezze: noi comunisti non siamo manigoldi.» Il Nini alzò le spalle, ma la discussione fu interrotta dalla voce di Livo che dal centro della piazza, in mezzo alla folla, chiamava Eligio. Gli faceva dei cenni agitati mentre, prima di venirsene via, stava dando un'altra tirata al fiasco. Livo era scuro in viso:
«Gli altri se ne vanno,» gridò. «Muoviti, muoviti.» Appena Eligio gli fu vicino, invece di dirigersi in fondo ai portici dov'erano prima, Livo si mise a correre in direzione della pescheria. Nella piazza centinaia di persone si incrociavano gridando, ridendo, bestemmiando.
«Ecco, adesso li abbiamo persi,» diceva arrabbiato Livo senza guardare il fratello. Ma in quel momento passò vicino a loro uno di Ligugnana. «Ehi,» gli gridò Livo, «hai visto i nostri, Susanna e quelli di San Giovanni?» «Sono andati in giù, verso la villa dei Pitotti,» rispose il moro, con un gesto di minaccia. «Forza compagni!» aggiunse, gridando dietro ai due fratelli che si erano messi a correre giù per la strada delle Scuole. Dietro a queste, al di là della roggia che nei secoli passati circondava le mura di cinta di Gruaro, sorgeva in mezzo a un piccolo giardino, la villa dei Pitotti.
Il giardino, la strada davanti, lungo il ciglio della roggia, erano tutti occupati; le finestre della facciata della casa erano chiuse. Livo e Eligio raggiunsero i loro proprio mentre Susanna, con Giovanni Blasut e Jacu, stavano battendo alla porta.
Battevano già da cinque minuti, ma nessuno veniva ad aprire.
«Sono là dentro che muoiono di paura,» disse Livo.
«Ehi, padroni, aprite,» gridava Susanna, facendo qualche passo indietro sulla ghiaia, e guardando verso le finestre. «Aprite, altrimenti vi sfondiamo la porta.» Dopo qualche minuto il battente si aprì e apparve sul vano un uomo di cinquant'anni, grosso, alto, calvo, che teneva a tracolla una doppietta. Era lo stesso Pitotti, uno dei più ricchi proprietari del mandamento. «Che cosa volete?»
domandò.
«Vogliamo parlare con lei,» disse a voce molto alta Susanna.
«Siete un centinaio qui,» disse Pitotti, «non vorrete mica entrare tutti quanti in casa mia.» «Per parlare basta anche uno solo,» disse sempre gridando Susanna.
«Va bene,» esclamò Pitotti, «ma entri una commissione formata il massimo da quattro dei vostri.»
Dopo qualche minuto di incertezza entrarono nel corridoio Susanna, Blasut, Jacu e Eligio.
«Di qua,» disse Pitotti.
Li fece entrare nel suo studio, dove c'era una grande scrivania, lucidata e lustrata accuratamente, come tutti gli altri mobili e le scansie, che si riflettevano sul pavimento, ma ricoperta da scartoffie e volumi polverosi e ingialliti. Alla scrivania stava seduto lo zio di Pitotti, lui pure alto e calvo, ma, per la vecchiaia o la paura, le mani gli tremavano. Pitotti andò a mettersi in piedi dietro alla scrivania.
«E allora?» disse. Nessuno degli operai aveva coraggio di parlare.
«Sto aspettando che mi diciate quello che volete: se voi foste così gentili...» Egli parlava nel dialetto veneto di terraferma usato in Friuli dai borghesi. «Parla tu,» disse Blasut, in friulano, a Susanna, che era il più vecchio. Susanna cominciò a parlare, balbettando e tenendo gli occhi abbassati. «Noi siamo venuti,» disse, «come abbiamo fatto e faremo con tutti gli agrari della zona, perché...
lei dia da lavorare ai disoccupati... questo è il suo dovere, adesso che hanno fatto il lodo De Gasperi.» «Il lodo De Gasperi!» esclamò Pitotti. «Di questo affare sono mesi che se ne parla, e mi pare, anche, che ci sia stata una sentenza del tribunale di Udine...» «Bella sentenza! Non ha valore per noi,» rispose Susanna, sempre guardando a terra, «i rappresentanti dei mezzadri si sono ritirati prima che quella sentenza fosse emessa.» «Prima di tutto, caro lei,» disse con improvvisa violenza Pitotti, «l'educazione insegna che ci si deve guardare in faccia quando si parla insieme...» «Si calmi, si calmi, abbassi le ali,» interruppe allora Eligio deciso, «lei vuole approfittare di noi ignoranti perché ha studiato e è ricco: a noi l'educazione nessuno ce l'ha insegnata.» Aveva un'aria minacciosa, che gli bruciava negli occhi fissi e senza colore.
«Volevo dire,» disse Pitotti cambiando tono, «che pareva che cercasse qualcosa nel mio pavimento. Accampate anche lì dei diritti?» «Nessun diritto abbiamo sul suo pavimento,» gridò Eligio, «noi abbiamo soltanto diritto di lavorare.» «E che cosa ci posso fare io? Non sono mica al governo.» «Assuma degli operai,» disse Susanna. «Se tutti gli agrari del gruarese assumessero ciascuno un piccolo numero di disoccupati, anche qui si applicherebbe pacificamente il lodo De Gasperi.» «Vi ho già detto che c'è una sentenza del tribunale di Udine. E io mi tengo a quella.»
«Quella sentenza è sbagliata: perché il lodo deve essere applicato solo ad un quinto del Friuli? Sì, nessuno dice niente, a Cervignano, a Nimis, nei territori allagati della Bassa, ci sarà forse più ancora miseria che qua. Ma per questo noi dobbiamo morire di fame?» «Ve l'ho già detto che io non c'entro. Io sono un cittadino privato come voi, ho la mia famiglia e lavoro per lei...» «Voi mangiate tutti i giorni,» disse Eligio. «Ma c'è qualcuno che alla mattina quando si alza non sa se alla sera quando andrà a dormire avrà mangiato o no.» Pitotti allargò le braccia. «Ah, lei non ci pensa?» disse Eligio.
«Lei non ci pensa? E chi ci deve pensare allora?»
«Il nostro sindacato,» fece Pitotti, «aveva fatto delle proposte per venirvi incontro...» «Belle proposte! E poi queste proposte avete cominciato a farle dopo settimane di agitazioni, se no vi sarebbe mai venuto in mente di dire a questi disgraziati: Toh, ecco un piatto di minestra, mangia, cane?» «Insomma: quello che potevamo fare noi l'abbiamo fatto.» «Ah, no, assumendo centoventi disoccupati voi arrivavate solo al quattro per cento della miglioria fondiaria! La Camera del Lavoro ha avuto ragione di non accettare: in tutta la zona del gruarese dare lavoro a seicento disoccupati: non è una grande pretesa che abbiamo noi.» «Queste sono tutte scuse,» gridò improvvisamente, incollerito, Pitotti, «tutte scuse per mascherare il fondo politico delle vostre manifestazioni!» «Fondo politico?» replicò arrossendo Eligio. «I disoccupati ci sono, e se non ci crede venga con me, che la porto per le loro case, a vedere che cos'è la miseria. Là può star sicuro che non trova i pavimenti di marmo,» aggiunse, battendo il piede a terra.
«In conclusione,» tagliò corto Pitotti, «voi vorreste che io così, di mia iniziativa, cominciassi ad assumere degli operai Vi dico subito che non lo faccio! Io non posso andare contro la legge, e nemmeno contro quella che è la linea di condotta del mio sindacato.» «Ma se lei ha un po' di cuore, non gliene importa niente, né del tribunale, né del sindacato. Assumendo degli operai, lei aiuta delle famiglie che muoiono nella miseria.» «Capisco,» disse Pitotti, «ma io non posso mettermi da solo contro tutta la mia categoria.» Detto questo, fece l'atto di muoversi verso il corridoio.
«Questa è la sua ultima parola?» disse un po' pallido Susanna spostandosi il berrettone sulla testa.
«Sì.»
I quattro restavano fermi, indecisi su quello che dovevano fare.
«Ma non la nostra!» urlò ad un tratto Jacu. «Andiamo, compagni.» Uscì alla svelta dallo studio, seguito dagli altri; quando furono sulla porta del giardino, il centinaio di dimostranti che stavano aspettando il risultato della discussione, si ammassarono intorno ai delegati, fermi tra i battenti della porta.
«Non vuole! Non vuole!» gridò Jacu.
«Bastonatelo, vedrete che vuole,» gridò uno della folla. «Calma, compagni,» gridò Susanna. Ma ormai essi erano eccitati; tutti premevano verso l'entrata, agitando i pugni. «Che vogliono?» disse Pitotti che aveva seguito i quattro alla porta. «Ammazzarti,» gli gridò in friulano Jacu. Susanna riuscì a far tacere gli uomini per un momento. «Va bene,» disse. «Se dobbiamo occupare questa casa, occupiamola: adesso entriamo tutti qui dentro. Ma attenti a quello che fate, compagni. Io mando a chiamare Leon, e verrà lui a discutere.» «Dentro, compagni,» gridò Eligio; tutti si precipitarono nel corridoio e vi si accalcarono fino allo scalone che portava ai piani superiori. I ragazzi si sedettero contro le pareti, per terra, e cominciarono a fumare. Susanna, Eligio, Jacu e Blasut entrarono con Pitotti nello studio, e si sedettero alla scrivania. A chiamare Leon avevano mandato Livo. «Ma chi lo trova il Leon adesso?» disse Susanna. «Non può mica essere in cento parti come Sant'Antonio!» Intanto però tutta la casa risuonava delle grida, delle risa e delle discussioni degli operai; un gruppetto di quattro o cinque che era andato a mettersi sugli scalini sotto la ringhiera di marmo, dopo una ventina di minuti, poiché tutti cominciavano a stancarsi, cominciò a cantare una canzone. Passarono quasi un'ora, cantando, mentre fuori andava cessando di piovere, e col mezzogiorno l'aria si schiariva.
«Arriva subito!» gridò Livo, entrando sudato nello studio; e infatti pochi minuti dopo giunse Leon, con due dirigenti della Camera del Lavoro. Egli era un uomo di trent'anni, alto, con due grandi spalle; aveva una faccia bianca, squadrata, col naso aquilino, due baffetti spioventi, e gli occhi pieni di una luce squallida e decisa.
Entrò in fretta dentro la villa, e tutti quanti gli si strinsero intorno, salutandolo con confidenza, gridando. «Dov'è Susanna?» chiese Leon, sbrigativo; in quel momento Susanna disse in poche parole come erano andate le cose. «Fatelo venire qui,» disse Leon.
Susanna andò a prendere nello studio Pitotti.
Dopo un quarto d'ora di discussione, davanti a tutti, Pitotti dichiarò che avrebbe firmato un accordo in cui egli prometteva di assumere gli operai.
Ormai suonavano le campane del mezzogiorno. Pareva che tornasse bel tempo; la luce stanca e cruda si attenuava sui muri e i tetti del paese che, dietro la roggia, si stendeva scuro intorno al campo sportivo. Seguendo il Leon che discuteva coi dirigenti forestieri, il gruppo ripassò il ponte, e ritornò in paese verso la piazza. Con lo schiarirsi della luce e il suono delle campane, c'era quasi aria di festa. Torrenti di dimostranti attraversavano la piazza; altri erano seduti sotto i portici; alle torri, sparse qua e là, c'erano sempre le sentinelle. Stavano in ozio, appoggiate ai muri, chiacchierando fra loro o gridando con i compagni che passavano per la piazza.
Eligio, appena tornato, era corso subito dal Nini, che si era seduto per terra, sul bagnato, col suo fazzoletto rosso come il sangue che gli si era attorcigliato al collo. «San Zuan,» gridò, «bèif!» (1) e allungò a Eligio il fiasco.
«Chi non ha avuto ordine di stare a Gruaro,» gridò Basilio arrivando in bicicletta, «il Leon ha detto che può andarsene a casa a mangiare.» Il Nini e gli altri di guardia non si muovevano, ascoltando indifferenti Basilio.
«Tu resti qui?» Eligio chiese al Nini.
«Sì, restiamo, noi della porta,» fece il Nini.
«E che cosa mangi?»
«Ci portano le donne da Ligugnana.»
Invece, in quel momento li chiamò una voce: «Ehila, compagni!» Era Milio, bianco e rosso, coi suoi occhi duri come il vetro, azzurri azzurri, che li guardava ridendo.
«Milio! da dove salti fuori?» gli gridò ridendo anche lui il Nini.
«Da dove vuoi che salti fuori! Sono qui anch'io, come voi!» «Bevi!» gli gridò il Nini.
«Sì, bevo! Ho una Sant'Anna che vedo scuro!» disse Milio; e poi, tutto allegro: «Io vado a mangiare un boccone dai miei zii, qua vicino. Perché non venite anche voi?» «Veniamo, sacramento!» disse il Nini. «Dai, Eligio.» E andò dietro a Milio, con Eligio alle spalle, proprio mentre gli altri se ne andavano dall'altra parte: Onorino aveva ripreso la sua bandiera, e la sventolava, in testa al gruppo, che lo seguiva cantando.
NOTE:
(1) San Giovanni, bevi!
fine note.
Il casolare degli zii di Milio, i Faedis, era a mezza strada tra Gruaro e Rosa, in mezzo alla campagna.
Subito dietro cominciavano i magredi del Tagliamento, e, ancora più dietro, il vuoto del greto del fiume, grande come un lago, contro le ombre delle montagne.
Era venuto fuori un po' di sole, e i tre amici pedalavano allegri, per la strada di campagna, con le siepi intorno mezze sventrate dall'autunno, gocciolanti di pioggia.
La prima cosa che videro, in fondo a un pianello, lì, sulla strada fangosa, tra i filari scompigliati delle viti, fu una ragazzetta pallida pallida, con una grande treccia in testa, che non si sapeva come faceva a reggerla, magra e minuta com'era. Aveva certi grossi occhi d'agnellino - essi sì, degni della treccia - ma che pareva che non potessero vedere, appunto come quelli degli agnellini appena nati.
Doveva avere però almeno i suoi sedici diciassette anni: e vicino ce n'era un'altra, più piccola di età, ma molto meno timida, che, invece, guardava fissa i tre soci che arrivavano allegri e inzaccherati.
«Ciao Cecilia, ciao Ilde!» fece Milio. «No mi saludàisu?» (1) La Ilde, la più piccola, un «ciao», debole debole, almeno lo disse.
Ma Cecilia, invece, non fece altro che abbassare gli occhi, e abbassare la testa, come se la trecciona l'avesse vinta e fosse riuscita a piegarla.
Ma i tre amici non la guardarono neanche, loro: non ci fecero caso, a quella vitellina da latte, lì sul pianello, coi piedi nell'erba molle d'acqua, che stava a curiosare chissà cosa. Entrarono di corsa nel cortile dei Faedis, attraverso il cancello mezzo mangiato dalle piogge. E lì di nuovo Milio salutò:
«Salve, cugini!» Erano due ragazzetti, che stavano lavando al vascone un cavallo.
«Ehi, Nisiuti!» fece ridendo Milio, «sei sempre lì con quel cavallo, eh, meglio che se fosse una morosa!» Il piccolino lo guardò ridendo, col ciuffetto sulla fronte, piantato sulle gambe larghe coi calzerotti bianchi: «Eh sì, per forza!» fece. Il più grande, che si chiamava Nesto, invece, disse:
«Adesso lo sentirai, mio padre! Chissà che cosa ti dirà che sei andato in piazza a fare lo stupido!»
«Che cosa vuoi che mi dica,» fece Milio alzando le spalle, «ho fatto anche il suo interesse, mica solo il nostro!» «Sì, sì,» ribatté Nesto, strigliando con forza Marco, il puledro, «ma mica quello del pievano!» «Bravo ragazzo!» fece il Nini, appoggiando con Eligio la bicicletta contro il muro di sassi. «Dopopranzo vieni anche tu con noi in piazza, eh? E al pievano gli diamo fuoco al sedere!» Tutti i Faedis erano dentro in casa, nel cucinone col focolare.
Loro non erano di quelli che andavano a fare confusione, per questo e per quello, per la falce o per il martello. «Siamo nati poveri e poveri moriremo,» diceva sempre il padre di Nesto e Nisiuti, il vecchio Erminio Faedis, ch'era il capofamiglia.
Adesso era là, con un piede sopra la pietra del focolare, che si accendeva la pipa, frugando tra le braci che scoppiettavano nel mucchio dei legni.
«Ciao barba, (2) buongiorno a tutti!» fece Milio entrando, con la voce più alta e più acuta che gli veniva quando era allegro o quando era un po' imbarazzato.
«Vi presento questi miei due compagni!» disse poi. «Ci sarà anche per loro un po' di pane e formaggio!» aggiunse, sempre allegramente.
«Sedetevi, sedetevi,» disse la vecchia Anuta, anche lei vicino al focolare.
«Chi sono?» disse il vecchio Faedis, espettorando con violenza inaudita, e tirando furiosamente la pipa.
«Questo è Nini Infant, di Ligugnana, e questo è Eligio Pereisson, di San Giovanni,» disse Milio.
Il fratello più giovane del vecchio Faedis, Francesco, ch'era un uomo piccolo e tutto sdentato, ma con una faccia piena di bontà e di gentilezza, disse a Eligio: «Io sono amico di tuo padre, abbiamo fatto il soldato insieme. Eh siamo vecchi compari!» Eligio e il Nini si erano messi a sedere sull'orlo delle seggiole di paglia, intorno al tavolone in mezzo alla cucina.
«Sì, mi ha detto!» fece Eligio.
«In quanti siete?» chiese Francesco.
«Siamo io, due fratelli più piccoli e mia sorella Alba,» fece Eligio.
«Allora tuo padre è stato più bravo di me,» disse Francesco spalancando la bocca sdentata, «ne ha fatti quattro e invece io solo tre: due femmine, quelle che avete visto là fuori, quelle due matte, e questo qua!» E indicò un bambinetto di due tre anni, insaccato nei suoi stracci, che giocava come un cagnolino sul pavimento.
«Macaco mio padre!» fece Eligio. «Meno bocche si è e meglio si sta!» Tutti risero, la vecchia Anuta, Francesco, le spose più giovani, e, specialmente, le figlie, che erano quelle che, da appena entrato, il Nini stava osservando. Adesso erano lì che ridevano, fresche e sode come statue, con tanti capelli ricci crespi intorno alle guance rotonde. La più bella era una certa Regina, la figlia maggiore del più vecchio dei Faedis.
«Ma a me mi pare di conoscerla!» fece il Nini guardandola.
«Forse!» fece Regina, arrossendo come una brace, perché tutti gli occhi si erano posati su di lei.
«Ma lei non è la morosa di Ernesto Castellarin, quello che lavora alla Mangiarotti?» «Sì,» disse Regina, arrossendo ancora di più.
«E' un mio amico,» disse il Nini. «Eh, beato lui,» aggiunse, «che ha un bel posto!» «Certo che ha un bel posto!» fece scatarrando il vecchio Faedis.
«Se no chi gliela dava mia figlia!»
«Ecco cosa vuol dire,» commentò il Nini, «a essere amico del prete: si hanno i posti meglio, e gli altri che vadano a quel paese!» Il vecchio Faedis lo guardò incollerito: «Perché tu non sei suo amico? E allora vuol dire che anche tu sei amico del prete!» «Io sono amico di tutti,» disse il Nini,
«ma nessuno mi farà cambiare la mia idea!» «Bravo!» fece il vecchio Erminio, ch'era di pelo rosso, e facile a arrabbiarsi.
Ma in quel momento si sentì dal cortile una voce urlante, acuta, da far male alle orecchie.
«Zent!» (3) gridava quella voce di donna.
«A è la Gufa,» fece con aria di vecchia conoscenza Anuta, e si preparò alla visita, con tutti gli altri.
Infatti subito entrò la Gufa, una giovane sposa, bianca e rossa, che scoppiava dentro i vestiti e i capelli tirati.
«Oooh,» fece, appena entrata, mettendosi una mano davanti alla bocca. Aveva visto che c'erano ospiti, e allora si azzittava, esagerando il suo stupore e il suo imbarazzo.
Era proprio quello che ci voleva per sviare una discussione che poteva diventare poco simpatica: a Rosa tutti sapevano che i Faedis erano dalla parte dei preti, mentre il Nini, che era di Ligugnana, non poteva saperlo.
Tutti avevano gli occhi ridenti, rivolti verso la Gufa, che se ne stava lì con una mano davanti alla bocca e con nell'altra la bottiglia dell'olio.
«Parla, parla,» fece protettrice la vecchia Anuta.
«Sono rimasta senza olio,» disse mortificata la Gufa, «e ero venuta a vedere se potevate darmene in prestito...» «Sì, sì,» disse Anuta, «vieni qua!» E Regina, per fare un po' la spiritosa, con un po'
di sfacciataggine: «Basta che ce lo torni!» «Non mi chiamo mica Regina io!» disse la Gufa, a testa alta, col pomo della sua faccia ben in mostra, alludendo a qualcosa che chissà quando e chissà come era successo, lì, tra lei e quelle donne, e che in quel momento pareva tornare tutto a favore suo.
«Matta! Matta!» le diceva Anuta, piegandosi un po' sulla vita, mentre le versava l'olio. E tutti a ridere, con le facce che parevano scottate da un fuoco di allegria.
A mescolare la polenta, era la moglie di Francesco, e la cognata di Erminio, Giuditta, una donna rubiconda quasi come la Gufa, sebbene più anziana, con le labbra grosse e gli occhi piccoli, quasi tumefatta dal riso: finì di dare gli ultimi giri col manico nella caldiera, e rovesciò la polenta.
«Dai, chiamate tutti, che è pronto!» gridò indaffarata. Regina si fece alla porta sul cortile e cominciò a gridare come una dannata: «Nesto! Nisiuti! Ceciliaaaa!» Nesto e Nisiuti erano lì, corsi dalla stalla dove avevano portato il puledro Marco, tutto luccicante che pareva d'oro: ma Cecilia e la Ilde, quelle là...
«Ceciliaaa!» continuò a gridare Regina.
Eh sì! Figurarsi se quelle venivano. La voce di Regina si perdeva inutilmente per il cortile, pieno di attrezzi, dietro la vasca del letame, dietro il piccolo brolo di meli, dietro i campi con tutte le file delle viti quasi spoglie tra i gelsi neri, lontano lontano, nella pace dei campi del mezzogiorno.
L'unica voce che rispondeva a quella di Regina erano le campane di Rosa, portate da un vento di mare un po' caldiccio, che scuoteva, laggiù, le cime dei pioppi, qua, i pampini verdognoli delle viti.
«Quella là non viene neanche se l'ammazziamo!» disse Francesco, con un sorriso un po'
impacciato nella bocca di gatto senza un dente.
«Perché?» fece Eligio. «Di cosa ha paura?»
«Di voi, che siete giovanotti!» fece pronto Nesto, anche lui con quello speciale sorriso che dovevano avere sempre i Faedis, quando era in ballo la timidezza di Cecilia.
«Non la mangiamo mica!» fece il Nini, che si sentiva un po' rimescolare all'idea di quella bella giovincella timida.
Il più piccolino dei fratelli, Nisiuti, fece la faccia da birbante, e disse: «Se uno gli dice che è fidanzata si mette a piangere, per la vergogna!» «Taci, tu, che pisci ancora a letto,» gli fece la madre, mettendolo a tacere. Ma lui, per niente impressionato, si avvicinò al suo piatto, facendo, come un uomo: «Non è ancora pronto?» Dopo un po' tutti cominciarono a mangiare la polenta con la salsiccia: che aveva un odore da far risuscitare un morto. La Gufa se ne stava lì in piedi, con la sua boccetta di olio in mano, a continuare la visita, perché era troppo interessante, per andarsene.
E fece bene, perché Erminio mandò Nesto tre o quattro volte a tirare il vino in cantina, e dopo mezzora erano tutti mezzi ubriachi, specialmente le donne, che erano meno abituate dei maschi a bere il vino.
Avevano tutte la ridarella, ma non erano tanto ubriache da non accorgersene, e, per nasconderlo, facevano dei gesti goffi e ingenui, pulendosi le mani fuligginose nella traversa, e alzando le braccia al cielo per invocare il Signore, col risultato di vergognarsi sempre più e di ritrovare in chissà quali pieghe della pelle screpolata, un rossore da spose giovani.
Anche i giovincelli si divertivano all'allegria delle anziane, e le prendevano in giro.
«Chissà come rideranno loro alle nostre spalle!» diceva rubiconda Anuta.
Il Nini e Eligio, che erano al centro della festa, le rassicuravano: «Ma no, ma no signora, perché dobbiamo ridere?» «Diranno che siete delle vecchie matte!» gridò da accanto al focolare Regina, che aveva finito di mangiare e se ne stava là con le altre giovani, tutte col viso in fiamme.
«Tu taci, stupidina!» le disse la madre. La ragazza si coprì il viso con un braccio, ridendo, e un'altra, ancora più giovane, la difese: «Abbiamo il diritto di dire anche noi la nostra!» «Pensate prima a trovare un babbeo che vi sposi, e quando sarete padrone di casa potrete dire tutto quello che vi viene in mente!» «Be', forse anche adesso diciamo meno stupidaggini di voi.» «Si danno arie perché leggono il Grand Hotel!» disse Nesto beffardo.
«Proprio! Il ragazzo ha ragione,» gridò la moglie di Francesco, Giuditta, «ha più giudizio lui di voi due messe insieme !» Allora saltò su Milio, a cui il vino aveva arrossato la pelle bianca di porcellana e reso guizzanti gli occhi azzurri.
«Ma che cosa dite!» esclamò, correndo presso il focolare; e, prendendo una ragazza sotto il mento, la costrinse a voltarsi e a farsi vedere da tutti. «Che cosa dite!» ripeté. «Voi siete vecchia, agna, (4) e tirate fuori il giudizio. Ma loro cosa volete che se ne facciano del giudizio, con quelle due facce da baci!» La ragazza si svincolò e lo minacciò con la scopa ch'era lì appoggiata alla pietra del focolare. E la vecchia indignata gridò: «Lascia stare mia figlia, sacr...» «Sacramento!»
finì Nesto.
«Senti quell'altro,» esclamò la vecchia Anuta, «tutto suo cugino!» Il cugino degenere, intanto, prese la scopa con cui era stato minacciato, e la buttò tra le braccia di Eligio, facendola volare attraverso tutta la cucina: «Toh, canta!» gridò.
Eligio afferrò a volo la scopa, si accoccolò sulla sedia, tenendo la scopa tra le braccia come una ghitarra, e cominciò a cantare la sua canzone di quando beveva: «Dia bredar, then darling squear, bredar, iù nou mai ert, tuinghling then...» Era pallido come un morto, con la pelle bianca sotto il ciuffo biondo che gli cadeva sugli occhi come uno straccio, e gli occhi azzurri cerchiati di rosso.
Non era stato più bene, da quando era tornato dalla Jugoslavia.
«Va' a tirare ancora un po' di vino!» ordinò Erminio Faedis al nipote Nesto, che corse subito.
«Oh, non vi disturbate per noi!» fece il Nini, mentre intorno tutti ridevano a sentire la canzone di Eligio con l'accompagnamento della scopa.
«Miseria ce n'è, ma per un bicchiere di vino!» esclamò Anuta, sfiorando le parole come se fossero ordigni esplosivi, per essere più educata possibile: e le altre sentendola discorrere così cerimoniosa, non si tenevano dal ridere.
«Stupide!» diceva la vecchia, vergognosa, e ridendo anche lei. I maschi bevvero, mentre le donne, a malincuore, facevano finta di non volerne più.
«Fate tanti complimenti per farvi vedere!» disse quell'angelo di Francesco con la sua povera bocca senza denti.
«E poi quando non ci siamo noi, vanno in cantina e trincano di nascosto!» aggiunse con la sua vociaccia di rosso, Erminio Faedis.
«Poveri vecchiacci!» dissero le donne, un po' a mezza voce, ridendo. Pareva che i due uomini dessero meno importanza delle femmine agli ospiti, invece si vede che Erminio non aveva fatto altro che pensarci per tutto il tempo. Si rivolse infatti al Nini, e accendendosi la pipa, disse: «Nelle grosse famiglie contadine le cose non vanno mai bene, uno grida, uno piange, uno protesta... un...
un...» Cercava la parola, il termine di paragone, ma, benché parlasse meglio delle donne, la sua sicurezza lo aveva tradito.
«Un casino,» concluse Milio, da dietro il focolare. Le ragazze gettarono un grido.
«Vergognoso!» gridarono. E la Gufa, che era mezza sfiatata a forza di parlare e fare commenti, cantò, per nascondere tutto: «Sempre allegri@ non si può stare@ e nemmeno@ malinconiaaa...»
Milio, rivolto al vecchio, imperterrito, chiese: «Non era così che volevate dire?» Il vecchio borbottò qualcosa, tirando le prime boccate dalla pipa che era finalmente riuscito ad accendere, gettò sul focolare lo stecco di cui si era servito, e continuò il suo discorso: «Qua siamo in sedici, e ognuno vuol fare valere i suoi diritti: uno deve farsi un vestito, un altro ha bisogno delle punture, un altro questo, un altro quello... E noi poveri uomini guai se non si pensa a tutto, se non si è sempre lì con gli occhi puntati...» E fece un gesto goffo, chinandosi in avanti, stringendo la pipa tra le mani e sbarrando gli occhi: ci mancò poco che non ruzzolasse per terra.
«Le grosse famiglie,» proseguì rivolto agli ospiti con aria confidenziale, «dovrebbero dividersi.
Ognuno per conto suo! Ma come si fa? Guardate qui! Due ragazze che hanno ancora le labbra sporche di latte...» «Iiiih, Signore!» gridarono le ragazze alzando le braccia al cielo.
«Tutta una fila di vitellini giovani che non hanno ancora finito le elementari... Nesto, lì, in bottega... E allora chi la lavora la campagna? Per forza ci tocca stare tutti uniti!» Il Nini che se ne era stato taciturno, col boccolo nero sulla faccia impallidita dal vino, allora gridò: «Ah, padrone, come avete coraggio di lamentarvi voi, con tutta la terra che avete!» Mentre il Nini parlava, piano piano la porta si aprì, e, come una fantasma, entrò Cecilia: e stette lì a guardarlo.
Nessuno si era accorto di lei, perché tutti erano presi dalla discussione. E, meno di tutti, il Nini.
«Sì! Guarda qua,» fece il vecchio pronto, «quante bocche da sfamare!» «Quando c'è il necessario da dar loro, basta. Il male è quando il necessario manca!» disse il Nini.
«Non dico questo,» borbottò il vecchio, «ringraziando il cielo non ci manca il pane...» «E il vino!» gridò Milio.
«E il rossetto per le ragazze!» volle aggiungere Nesto.
«Sentiteli, i due cugini sacramenti!» intervenne la vecchia Anuta.
«Parla bene,» la investì il capofamiglia.
«Ignoranti e sboccati siamo nati e così moriremo,» ribatté Anuta.
«Vi lamentate voi,» riprese il Nini, «e cosa dovrei dire io, allora, che sono un povero bracciante e non ho neanche un metro quadro di terra mia? Lavorare tutto l'anno con lo scopo di non avere mai un soldo in tasca.» «Noi siamo nati per lavorare e sacrificarci: è inutile avere idee per la testa!»
Col Nini il vecchio era piuttosto duro, e, per proseguire, stavolta si rivolse piuttosto a Eligio.
«Ecco,» disse quasi con intenzione, «se qui in questa famiglia non ci fosse un po' di religione, a tenerci uniti, a farci capire il nostro dovere e rassegnarci...» «Rassegnarci a che cosa?» lo interruppe il Nini. Aveva gli occhi che gli brillavano, nella faccia di moro: e, al collo, ben stretto, il fazzoletto rosso, che gli dava un'aria quasi da bandito.
Cecilia, dal suo angolo, lo guardava, e quasi si metteva a piangere, sotto la sua trecciona, per paura che tra lui e il vecchio zio nascesse qualche brutto discorso.
«Rassegnarsi!» ripeté cupo il Nini. «A voi magari non vi manca niente, avete il granaio e la cantina pieni, coi vostri cinquanta ettolitri di vino potete comprarvi un vestito per la festa all'anno, tutti quanti, e per di più mettere qualche soldo da parte... So anch'io che poi siete di Chiesa, e se a qualcuno scappa una bestemmia come a Anuta poco fa, vi scandalizzate!» Parlava scherzando, sì, ma con una sincerità un po' forzata, con della rabbia in fondo allo sguardo.
«Per forza, andate d'accordo coi preti, voi!» concluse.
Un'altra volta, per affondare la discussione, la Gufa, dall'angolo accanto al focolare, aprì la bocca e con quanto fiato aveva in gola, e ne aveva tanto, cominciò a cantare da rompere i timpani a tutti:
«Sempre allegri@ non si può stare@ e nemmeno@ malinconiaaa.» E Eligio riprese la scopa, stavolta in piedi, con le gambe larghe ben puntate sul pavimento di mattoni; e cominciò a cantare in inglese un ritmo di boogie-woogie: «Then then blin fadar fadar, bounding...» A quel ritmo, Milio prese la Gufa per i fianchi, e la costrinse a ballare, facendola girare come una trottola sul pavimento, benché lei protestasse gridando come un'aquila.
Tutti si misero a ridere, come prima, con le facce scottate dall'allegria e le bocche aperte, piegandosi sulla vita: i figli più forte dei grandi, approfittando della loro buona disposizione, e i grandi più forte dei figli, approfittando di quel momento di tregua dai pensieri e dalle preoccupazioni.
Anche le due ultime entrate, le due selvatiche, Cecilia e Ilde, ridevano, poverine: Cecilia aveva quasi un pianto negli occhi di agnellino; eppure rideva, anche lei, con gli altri, rideva, rideva.
Poi i tre giovani se ne andarono. Quel po' di sole che era spuntato sul mezzogiorno tra le nuvole, era di nuovo scomparso, e intorno era tutto nero. Ma non nel cuore dei ragazzi.
Pedalarono a tutta velocità verso Gruaro, cantando.
A Gruaro era tutto pieno di gente, già pronta alla lotta: non si era mai vista tanta gioventù tutta insieme. Era come se, tre quattro anni prima, fossero venuti giù dai monti tutti i partigiani.
Erano tutti in piazza, intorno al palazzetto dei conti Spilimbergo, che non erano né i Pitotti né i Malacart: erano un osso duro, loro.
Non c'era nessuno in casa, quelli abitavano quasi sempre a Roma.
Dapprima Leon e gli altri dirigenti pazientarono, telefonando ai fattori e qua e là, poi diedero via libera ai loro uomini. In quattro e quattr'otto i dimostranti buttarono giù il cancello, e entrarono nella villa, che era una reggia.
Il Nini, Milio, Eligio, Jacu, i più piccoli andarono a sedersi sulle poltrone di velluto.
Poi, soddisfatti, entrarono nelle cantine, e lì giù vino e salsicce. E tanti portarono via sacchi di zucchero e di farina, che le loro vecchie madri di Ligugnana o di Rosa li benedissero.
Ma ecco che, sul più bello, arrivarono da Pordenone dei reparti di polizia, con un'autoblinda. I giovani delle Avanguardie, dentro la villa, da assediatori così divennero assediati. Ma non c'era niente da fare, quel giorno, con la forza del popolo. Quando l'autoblinda buttò giù il muretto di cinta e entrò nel giardino, con sopra i poliziotti con le armi puntate, ecco che una donna, poi due, poi tre, poi cento andarono a distendersi per terra, sul fango, sotto la pioggia che cadeva fitta. E
stettero lì distese, e chi poteva muoverle?, gridando ai poliziotti: «Passate, passate, se avete coraggio, figli di cani!» Così i poliziotti, un po' alla volta, dovettero tornare da dove erano venuti, e, verso sera, arrivò anche la telefonata dell'amministratore degli Spilimbergo che accettava le condizioni dei dimostranti.
Il Nini e gli altri erano nella cantina della villa, quando arrivò la notizia: «L'amministratore a Codroipo ha accettato le condizioni che hanno già accettato gli altri agrari!» Jacu, che era ubriaco fradicio, gettò per aria la treccia di salsicce che aveva arraffato, e prese a calci i fiaschi vuoti.
«Fuori, fuori, compagni!» gridava Susanna. «Abbiamo vinto!» L'aria era ormai buia, e si vedevano le ombre dei poliziotti e dei soldati sconfitti, al di là degli archi delle porte. Già gran parte della folla si era rovesciata fuori dal giardino, sulla piazza, riempiendola di clamori e grida e canti. Qua e là cominciavano a accendersi le luci delle finestre delle case, non in piazza, ma intorno, nei borghi, dietro il fossato. Tutti si chiamavano, si salutavano, allegramente.
In un angolo Onorino, sempre con la sua bandiera, era a cavalcioni della bicicletta, sul fango che risplendeva, insieme agli altri di San Giovanni. «Domani tocca a San Giovanni!» disse il Nini, salutando Eligio e la compagnia. «Domani,» gridò torvo Jacu, «gli facciamo vedere noi ai signori!» «Allora a domani,» fece il Nini. «Muoviti, Infant,» gli gridavano i suoi compagni partendo verso Ligugnana. «A domani!» gli gridò dietro Eligio. Poi ognuno pedalò verso casa sua, col cuore leggero per la bella vittoria.
NOTE:
(1) Non mi salutate?
(2) Zio.
(3) Gente!
(4) Zia.