BAUMGARTNER
Paul Auster
Recensione
"Baumgartner” è l’ultimo romanzo di Paul Auster: ritorna la sua ossessione per le coincidenze e la casualità della tragedia.
Ci sono storie, dentro altre storie. Una vita umana si compone di una narrazione generale, che si frammenta nelle vite di chi l’ha preceduta, di chi la seguirà e di chi incontra. Paul Auster è ossessionato dall’intrecciarsi delle esistenze e dalla casualità delle circostanze
Leggendo il romanzo mi sono quasi subito affezionato a questo "vecchietto" dal nome quasi impronunciabile, così brillante e divertente, che rivendica il suo status di uomo ancora valente, rifiutando anche solo l'idea di essere trattato come un bambino.
Una storia incentrata sulla memoria, sulla perdita della stessa, sui significati che le assegniamo, su quanto conta e quanto poco ce ne rendiamo conto prima di perderla.
...la storia di un uomo che si rende conto di essere arrivato all' ultimo capitolo della sua vita e guarda indietro, per quanto può, ai momenti più importanti del suo passato.
"...con una scrittura pacata e sicura, pulita ed elegante, che occupa la pagina con la naturalezza di chi può padroneggiare i più diversi toni, sempre lasciandosi dietro un non detto di tensione, di inquietudine, la paura dell’annichilimento, di un’apocalittica catastrofe per quanto privata – non per niente ci sono delle amputazioni vere, degli smembramenti addirittura, all’inizio del romanzo. La realtà sarebbe poi, capovolgendo la prospettiva, questa scommessa letteraria, affascinante e terribile, in cui si muovono appaiati Baumgartner e il suo creatore – oltretutto i due condividono almeno un nonno che ha fatto per di più una morte misteriosa, Harry Auster: approdato in USA dalla Galizia, appare e scompare a pag. 102-103." (Luca Martini)
"... una bella riflessione sulla vita, sui ricordi, sull’elaborazione del lutto e sul tempo che passa. Quasi un trattato filosofico."
La memoria e la mancanza hanno una cosa in comune – ne hanno molte, in verità – la più fastidiosa di tutte è, per me, la fallacità. Avete presente quel momento in cui cercate di recuperare un ricordo e lo inseguite in un testa a testa impari, e lui vola più veloce, e voi correte. Ma lui vola. E avete perso. È andato via, lontano e non sapete se riuscirete mai più a riprenderlo. Ecco. Quel frangente di impotenza ha a che fare con la fallacità della memoria, con la fallacità della mancanza.
[...]come mai alcuni momenti fugaci e imprevedibili restano impressi nella memoria, e invece altri, in teoria piú importanti, svaniscono per sempre.[...]
BAUMGARTNER
Capitolo primo
Baumgartner è seduto alla scrivania della stanza al piano di sopra che di volta in volta definisce il suo studio, il suo pensatoio, la sua tana. Penna in mano, è a metà di una frase del terzo capitolo della monografia sugli pseudonimi di Kierkegaard quando gli viene in mente che il libro da cui deve citare per finire la frase è giú in salotto, dove lo ha lasciato ieri sera prima di andare a dormire. Mentre scende a recuperare il libro gli viene in mente anche che ha promesso di chiamare la sorella stamane alle dieci, e siccome ora sono quasi le dieci, decide che andrà a fare la telefonata in cucina e poi recupererà il libro in salotto. Quando entra in cucina, però, si ferma di botto per via di un odore forte, pungente. Sta bruciando qualcosa, si rende conto, e mentre avanza verso i fornelli, vede che uno dei fuochi davanti è rimasto acceso e che una fiamma bassa e persistente sta mangiando piano piano la parte inferiore del pentolino d’alluminio con cui tre ore fa si è preparato due uova alla coque per colazione. Lo spegne e poi, senza pensarci due volte, cioè, senza preoccuparsi di adoperare una presina o uno strofinaccio, solleva dai fornelli il pentolino distrutto e fumante e si scotta la mano. Baumgartner grida di dolore. Una frazione di secondo dopo lascia cadere il pentolino che atterra con un deng improvviso, fragoroso, e poi, sempre mugolando di dolore, corre al lavandino, apre l’acqua fredda, mette la mano destra sotto il getto e ce la tiene per tre o quattro minuti mentre il flusso gelido gli scroscia sulla pelle.
Sperando di aver scongiurato eventuali vesciche alle dita e sul palmo, Baumgartner si asciuga cautamente la mano con uno strofinaccio, si interrompe un attimo per flettere le dita, si tampona un altro paio di volte, e poi si domanda cosa ci fa in cucina. Neanche il tempo di ricordarsi che dovrebbe chiamare la sorella, che squilla il telefono. Alza la cornetta e mormora pronto in tono guardingo. Sua sorella, si dice ricordando finalmente perché è in cucina, e dato che sono le dieci passate e deve ancora chiamarla, è sicurissimo che la persona all’altro capo del filo sia Naomi, quella bisbetica della sorella minore che aprirà senz’altro la telefonata rimproverandolo perché si è scordato di chiamarla, di nuovo, come sempre, ma appena la persona all’altro capo del filo comincia a parlare, si scopre che non è Naomi ma un uomo, uno sconosciuto con una voce mai sentita che balbettando si scusa del ritardo. Ritardo per cosa? chiede Baumgartner. Per la lettura del contatore, dice lo sconosciuto. Dovevo essere lí alle nove, ricorda? No, Baumgartner non se lo ricorda, non gli risulta di aver mai pensato nelle settimane o nei giorni scorsi che il letturista dell’azienda elettrica dovesse essere lí alle nove, e quindi gli dice di non preoccuparsi, tanto lui ha intenzione di restare in casa mattina e pomeriggio, ma l’addetto dell’azienda elettrica, che sembra giovane e inesperto e molto ansioso di far bene, insiste a spiegargli che adesso non ha tempo di spiegargli come mai non è arrivato puntuale, ma un motivo c’è, un motivo indipendente dalla sua volontà, e che arriverà prima possibile. Bene, dice Baumgartner, a dopo. Riattacca e si guarda la mano destra, che ha cominciato a pulsare a causa dell’ustione, ma quando si esamina il palmo e le dita non vede segni di vesciche né di desquamazione, solo un arrossamento generale. Non è niente, pensa, non muoio mica, e poi, rivolgendosi a se stesso in seconda persona, pensa: Ti ha detto bene, stupido somaro che non sei altro…
Gli viene in mente che sarà meglio chiamare Naomi, subito, seduta stante, per giocare d’anticipo ma, proprio mentre alza la cornetta per fare il numero, suonano alla porta. Dai polmoni di Baumgartner parte un sospiro prolungato. Con il segnale di libero che ancora gli ronza in mano, riattacca e si incammina verso l’ingresso, scostando con una pedata stizzosa il pentolino bruciacchiato mentre esce dalla cucina.
Il suo umore migliora quando apre la porta e vede che è Molly, la fattorina dell’Ups, una visitatrice abituale che con il passare del tempo è assurta al rango di… di cosa? Non è esattamente un’amica, ma ormai è piú di una semplice conoscenza, dato che da cinque anni si affaccia alla sua porta due o tre volte alla settimana, e la verità è che il solitario Baumgartner, che ha perso la moglie da quasi dieci anni, è segretamente invaghito di questa trentacinquenne tarchiata di cui non sa nemmeno il cognome, perché anche se lei è nera e sua moglie no, Molly ha negli occhi qualcosa che lo fa pensare alla sua Anna ogni volta che la guarda. Succede puntualmente, ma lui fatica a dire di preciso cosa sia questa cosa. La sua prontezza, forse, anche se è molto piú di questo, oppure la si potrebbe definire radiosa attenzione, oppure, se non è questo, semplicemente la potenza di una personalità luminosa, vitalità umana in tutto il suo vibrante splendore che si sprigiona dall’interno verso l’esterno in un balletto serrato e complesso fra ragione e sentimento – una cosa cosí, forse, ammesso che abbia senso, ma comunque si volesse definire la cosa che aveva Anna, ce l’ha anche Molly. Ecco perché Baumgartner si è messo a ordinare libri che non gli servono e che non aprirà mai, e che finirà per donare alla biblioteca pubblica locale, al solo scopo di passare un paio di minuti in compagnia di Molly ogni volta che lei suona il campanello per consegnarne uno.
Buongiorno, professore, dice lei, concedendogli il suo luminoso sorriso come se fosse una benedizione. Le ho portato un altro libro.
Grazie, Molly, dice Baumgartner, ricambiando il sorriso mentre lei gli porge lo smilzo pacchetto marrone. Come sta oggi?
È presto ancora – poi vedremo – ma per adesso piú alti che bassi. Difficile sentirsi tristi in una mattinata cosí splendida.
La prima bella giornata di primavera – la giornata migliore dell’anno. Godiamocela finché possiamo, Molly. Non si sa mai cosa c’è dietro l’angolo.
Proprio vero, risponde Molly. Si lascia uscire una risatina complice, e poi, senza dargli il tempo di pensare a una frase intelligente o spassosa che prolungherebbe la conversazione, lo saluta con la mano e si riavvia verso il furgoncino.
È un’altra delle tante cose che a Baumgartner piacciono di Molly. Ride sempre alle sue battute sceme, anche le piú insulse, quelle che proprio non si possono sentire.
Torna in cucina e, senza aprirlo, deposita il pacchetto con il libro in cima al mucchio di altri pacchetti con i libri mai aperti e stipati in un angolo vicino al tavolo. Negli ultimi tempi la torre è diventata cosí alta che minaccia di crollare a ogni nuovo rettangolo marroncino. Baumgartner si segna mentalmente di togliere i libri dagli involucri di cartone piú tardi e di trasferire in veranda quelli spacchettati nel meno pieno dei tanti scatoloni contenenti gli altri libri indesiderati da donare alla biblioteca pubblica. Sí, sí, si dice Baumgartner, lo so che avevo promesso di farlo l’ultima volta che è passata Molly, e anche la volta precedente, ma stavolta dico davvero.
Guarda l’orologio e vede che sono le dieci e un quarto. Si sta facendo tardi, pensa, ma forse non è troppo tardi per giocare d’anticipo e chiamare Naomi prima che lei cominci a coprirlo di insulti volgari. Si allunga verso il telefono, ma proprio mentre sta per alzare la cornetta, il piccolo satana bianco squilla di nuovo. E di nuovo lui pensa che sia sua sorella e, di nuovo, si sbaglia.
Mormora pronto, e una vocina tremula risponde con una domanda quasi impercettibile: Il signor Baumgartner? Le parole sono pronunciate da una persona cosí giovane e cosí chiaramente in difficoltà che Baumgartner entra subito in allarme, come se all’improvviso ogni organo del suo corpo stesse lavorando al doppio della velocità normale. Quando chiede chi parla, la voce risponde Rosita, e di colpo lui capisce che deve essere successo qualcosa alla signora Flores, la donna che era venuta per la prima volta a fare le pulizie in casa pochi giorni dopo il funerale di Anna e che da allora viene due volte alla settimana a lavare i pavimenti e a passare l’aspirapolvere sui tappeti e a fargli il bucato e a sbrigare le tante altre faccende domestiche che negli ultimi nove anni e mezzo gli hanno impedito di vivere nello squallore e nel disordine, la brava e fidata signora Flores, quasi sempre taciturna e chiusa in se stessa, con il marito operaio edile e tre figli, due maschi grandi e la piccola, Rosita, una dodicenne mingherlina con due bellissimi occhi marrone che ogni anno ad Halloween passa da casa a prendere il suo sacchettino di caramelle.
Che c’è, Rosita? chiede Baumgartner. È successo qualcosa a tua madre?
No, dice Rosita, non a mia madre. A mio padre.
Baumgartner aspetta qualche istante mentre le lacrime represse dalla ragazzina sfociano in una breve crisi di pianto soffocato, e siccome la piccola sta cercando di trattenersi e rifiuta di lasciarsi andare completamente, il suo respiro si rompe in una serie di gemiti affannosi e tremuli. Baumgartner capisce che siccome doveva arrivare da lui dopo pranzo, e siccome la figlia non è a scuola per via delle vacanze di primavera, la signora Flores ha incaricato Rosita di avvertirlo dell’emergenza mentre lei va a vedersela con quello che è successo al marito.
Appena l’affanno e le lacrime strozzate si smorzano un po’, Baumgartner passa alla domanda successiva. Mettendo insieme il racconto frammentario di quello che la ragazzina ha saputo dalla madre, la quale a sua volta lo ha sentito da qualcun altro, deduce che stamane il signor Flores stava rifacendo una cucina, e mentre tagliava dei travetti con la sega circolare nel seminterrato del suo cliente, operazione che in passato ha eseguito centinaia se non migliaia di volte, è riuscito non si sa come a tranciarsi due dita della mano destra.
Baumgartner vede le due dita mozzate cadere sopra un mucchio di segatura sul pavimento. Vede il sangue scorrere dai moncherini nudi, senza pelle. Sente urlare il signor Flores.
Alla fine dice: Sta’ tranquilla, Rosita. Lo so che sembra orribile, ma i medici possono aggiustarle. Possono riattaccare le dita alla mano di tuo padre, e in autunno, quando ricomincerà la scuola, lui sarà già tornato in perfette condizioni.
Davvero?
Sí, certo. Te lo giuro.
Siccome la ragazzina è sola in casa, e siccome è in uno stato di panico puro, pietrificata da quando la madre è uscita per andare in ospedale, Baumgartner continua a parlare con lei per altri dieci minuti. A un certo punto, verso la fine della conversazione, riesce a strapparle una specie di risata, e quando riagganciano, quella risata cosí cosí non lo lascia, perché è quasi certo che rappresenterà la cosa piú importante che avrà realizzato quel giorno.
Comunque Baumgartner è scosso. Prende una sedia e si mette seduto, occhi puntati sul cerchio nero di una vecchia macchia lasciata da una tazza di caffè mentre immagina la scena passo passo. Angel Flores, falegname esperto di quarantotto anni, nell’atto di fare una cosa che da molti anni fa spesso e bene, all’improvviso, inspiegabilmente, sbaglia e, in un solo attimo di disattenzione, si ferisce in maniera grave. Perché? Cosa gli ha fatto perdere la concentrazione distogliendolo dal suo compito, che è semplice se uno si concentra e pericoloso se è soprappensiero? Lo avrà distratto un collega scendendo le scale in quel momento? Gli sarà spuntato un pensiero dal nulla? Gli si sarà posata una mosca sul naso? Gli sarà presa una fitta allo stomaco? Avrà bevuto troppo ieri sera o litigato con la moglie prima di uscire di casa o… A un tratto gli viene in mente che forse il signor Flores si è mozzato le dita nel preciso istante in cui lui, Baumgartner, si è ustionato la mano con il pentolino. Ognuno è causa del proprio male, anche se il male di uno è stato ben peggiore di quello dell’altro, eppure, in entrambi i casi…
Suonano alla porta, interrompendo le divagazioni di Baumgartner. Mannaggia, dice, mentre si alza lentamente dalla sedia e si trascina verso l’ingresso, neanche di pensare sono piú padrone.
Quando apre, Baumgartner si ritrova a guardare in faccia il letturista, un giovanotto alto e gagliardo con la regolamentare camicia azzurra dell’azienda elettrica, lo stemma PSE&G stampato sul taschino sinistro e, subito sotto, ricamato in giallo vivo, il nome dell’uomo dentro la camicia: Ed. A quanto può giudicare Baumgartner, l’espressione negli occhi di Ed è speranzosa e stravolta. Strano connubio, pensa Baumgartner, e quando Ed gli rivolge un sorriso incerto a mo’ di saluto, l’effetto è ancora piú confuso – come se il letturista si aspettasse di vedersi chiudere la porta in faccia. Per calmare i patemi del giovanotto, Baumgartner lo invita a entrare.
Grazie, signor Bum Garden, dice il letturista, varcando la soglia con una falcata. Lei è molto gentile.
Piú divertito che offeso dal suo nome storpiato, Baumgartner dice: Perché non ci diamo del tu? Il tuo nome lo so già – Ed –, allora perché non lasciamo perdere le formalità e mi chiami Sy?
Sai? dice Ed. E che razza di nome è?
Non è «sai» nel senso di sapere – solo Sy, esse-ipsilon. È il diminutivo di Seymour, il nome ridicolo che mi hanno messo i miei genitori quando sono nato. Sy non è granché, lo ammetto, ma almeno è meglio di Seymour.
Tu pure, eh? dice il letturista.
Io pure, cosa? dice Baumgartner.
Ti hanno appioppato un nome che non ti piace.
Cosa c’è che non va in Ed?
Niente. È il cognome che mi sta qua.
Ah! E sarebbe?
Papadopoulos.
Va benissimo. È un bel cognome greco.
Per uno che vive in Grecia, forse. Ma qui in America fa ridere. A scuola gli altri ragazzini mi ridevano dietro, e quando ero lanciatore in Singolo A, scoppiavano tutti a ridere appena sentivano annunciare il mio nome dall’altoparlante. Finisce che poi ti viene il coso… il complesso.
Se ti dà cosí fastidio perché non lo cambi?
Non posso. Darei un gran dispiacere a mio padre.
Baumgartner sta cominciando a stufarsi. Se non metterà un freno a queste sciocchezze senza capo né coda, tra poco Ed Papadopoulos gli narrerà l’intera storia della vita di suo padre o rievocherà gli alti e bassi della sua carriera ai livelli inferiori della Minor League e cosí Sy, diminutivo di Seymour, cambia bruscamente discorso e chiede a Ed se gli va di andare a dare uno sguardo al contatore nel seminterrato. Lí viene a sapere che quello è il primo giorno di lavoro del giovanotto e che il contatore nel seminterrato sarà il primo che leggerà da dipendente a tutti gli effetti della Public Service Electric & Gas Company, e questo spiega perché non si è presentato all’orario stabilito – mica per colpa sua, sia chiaro, ma perché una banda di colleghi anziani gli ha fatto uno scherzo proprio stamattina (la sua prima mattina di lavoro!) svuotandogli il serbatoio della benzina, lasciandogliene solo un goccio per fare un chilometro scarso, dopodiché il furgone si è spento in mezzo a una strada affollata con il traffico dell’ora di punta causando il vergognoso ritardo. Gli dispiace, dice, gli dispiace davvero tanto per il disagio. Se solo avesse avuto il buon senso di controllare la spia della benzina prima di partire per il suo giro, sarebbe arrivato puntuale, ma quegli stupidi buontemponi dovevano fargli uno scherzo, solo perché lui è l’ultimo arrivato, e vedrai tu se non becca una ripassata dal suo superiore. Un’altra cazzata del genere e lo sospendono. Altre due e lo cacciano di sicuro.
Baumgartner sta per mettersi a urlare. Da dove arriva questo bisteccone logorroico, si domanda, e con quali mezzi è possibile fermare il suo inesauribile fiume di parole? Eppure, malgrado la crescente irritazione, non può fare a meno di provare un po’ di simpatia per questo imbranato giuggiolone, e cosí, invece di aprire i polmoni e uscirsene con un urlo a squarciagola, Baumgartner emette un sospiro lieve, quasi impercettibile, e si avvia verso la porta che conduce al seminterrato.
È lí sotto, dice, sulla parete in fondo a sinistra, ma quando gira l’interruttore per accendere la luce, il seminterrato rimane al buio. Mannaggia, dice Baumgartner, sforzandosi di non perdere la calma, cosí come Rosita si è sforzata di non piangere quando parlavano prima, mi sa che si è fulminata la lampadina.
Nessun problema, dice Ed. Ho una torcia elettrica. Fa parte dell’equipaggiamento.
Bene. Sono sicuro che riuscirai a trovarlo.
Forse sí, ma forse no, dice il letturista principiante. Ti dispiacerebbe scendere a farmi vedere dov’è? Solo per oggi, cosí la prossima volta evito di scocciarti.
A Baumgartner viene in mente che Ed Papadopoulos ha paura del buio, o forse solo paura dei seminterrati bui, soprattutto nelle vecchie case come questa, con le ragnatele che penzolano dalle travi e scarafaggi giganteschi che zampettano sul pavimento e Dio sa quali oggetti invisibili che ostruiscono il passaggio verso il contatore, e perciò, suo malgrado, anche se non dubita che appena poserà il piede sull’ultimo gradino lo chiamerà Naomi, Baumgartner si lascia convincere a fargli strada.
Le scale del seminterrato sono decrepite e traballanti, altra cosa che Baumgartner ha promesso a se stesso di riparare senza averlo ancora fatto, neanche dopo anni che fa questa identica promessa con identico piglio risoluto, perché il pensiero di occuparsi delle scale non lo sfiora mai tranne quando si trova a scendere nel seminterrato, ma appena torna di sopra e chiude la porta, se ne scorda completamente. Ora, senza una plafoniera che illumini le scale, soltanto con la torcia elettrica di Ed a fargli luce da dietro, Baumgartner si aggrappa cautamente alla ringhiera di legno scheggiato ma, appena la stringe piú forte, mille aghi fantasma gli trafiggono il palmo e le dita bruciate – come se si stesse scottando di nuovo. Ritrae subito la mano, e siccome a sinistra la ringhiera non c’è, non ha piú niente a cui aggrapparsi, fatto sta che, credendo di conoscere bene le scale perché vive in quella casa da tanti anni, prova a scendere un gradino, lo manca di un centimetro, perde l’equilibrio al buio e ruzzola ai piedi delle scale, urtando un gomito, urtando l’altro gomito, e poi sbatte il ginocchio sul pavimento duro di cemento.
Per la seconda volta stamane, Baumgartner grida di dolore.
Il grido si stempera in una serie di lamenti convulsi mentre il suo corpo rattrappito si contorce sul pavimento umido. Non si accorge che gambe e braccia gli si muovono, ma sa di essere ancora cosciente, perché in testa gli rimbalzano tanti pensieri sconnessi, però sono pensieri vaghi e incomprensibili, e questo, suppone lui, li esclude dal novero dei pensieri veri e propri, declassandoli a quasi-pensieri o non-pensieri, se non che, malgrado il dolore che gli aggredisce i gomiti e il ginocchio destro, non sente dolore alla testa, e questo suggerisce che il cranio è scampato alla caduta senza contusioni gravi, e questo a sua volta suggerisce che in fin dei conti l’incidente non lo trasformerà in un perfetto idiota bavoso pronto per la rottamazione. Un momento dopo, però, mentre Ed lo guarda dall’alto e gli punta la torcia in faccia, Baumgartner non riesce a trovare le parole per dirgli di spostare la torcia e caccia un altro lamento riparandosi gli occhi con la mano destra. L’incapacità di dare voce ai propri pensieri lo turba, anzi lo spaventa. Quantomeno dimostra che l’attività mentale è ancora disordinata, se non danneggiata per sempre, oppure solo momentaneamente compromessa dal dolore che ha continuato a conficcarsi in varie parti del suo corpo salvo la testa, soprattutto nel gomito destro, che sembrava sul punto di incendiarsi quando ha sollevato il braccio per coprirsi gli occhi con la mano destra, la stessa che si è già ustionato stamane e che gli fa ancora male, senza dubbio perché nel tentativo di ammortizzare la fase finale della caduta con le mani ha picchiato contro il pavimento di cemento in fondo alle scale, anche se non ricorda per niente di averlo fatto.
Porca troia, dice Ed. Stai bene?
Dopo una lunga pausa, Baumgartner riesce finalmente a spiccicare qualcosa. Difficile dirlo, dice. Benché gli dia soddisfazione scoprire di non aver perso l’uso della parola, il dolore è ancora troppo forte per poter gioire della vittoria. Almeno non sono morto, continua. Non è da sputarci sopra, immagino.
Infatti, replica il letturista, mica è da sputarci sopra. Ma dimmi, Sy, dove ti fa male?
Mentre Baumgartner elenca le zone contuse del suo corpo, Ed si cala nei panni dell’allenatore professionista, valutando con attenzione i possibili danni a ogni muscolo, tendine e osso ammaccato e, una volta concluso l’inventario, chiede a Baumgartner se ha la forza per farsi sollevare da terra e accompagnare su per le scale.
Proviamoci, dice Baumgartner. Lo capiremo subito se non ce la faccio.
E cosí Ed Papadopoulos, uno sconosciuto entrato in casa di Baumgartner da meno di dieci minuti, solleva il vecchio da terra con la mano destra mentre impugna la torcia elettrica con la sinistra, e poi, cingendo saldamente il busto di Baumgartner, intraprende la laboriosa manovra per trasportarlo su per le scale strette e sgangherate. Fra tutte le cose che gli fanno male, scopre Baumgartner, il ginocchio è quello che gli fa piú male, cosí tanto che appena ci appoggia il peso sente un dolore che urla, che urla e strepita come un coro stonato di quaranta bestie selvatiche, eppure, mosso dalla gratitudine per le cure premurose di Ed e per il suo braccio forte e muscoloso, Baumgartner è deciso a fare del proprio meglio per non lamentarsi, a sopportare urli e strepiti in tenace e stoico silenzio. Perciò, perfino quando Ed si lancia in un lungo resoconto del suo infortunio al ginocchio di quattro anni fa, un menisco rotto che lo ha messo fuori gioco per gran parte della stagione e che alla fine gli ha stroncato la carriera di lanciatore, Baumgartner non emette neanche un fiato, a parte qualche grugnito ogni tanto, né parla o grida appena Ed passa a spiegargli che quando era tornato a giocare il suo lancio superveloce aveva perso mordente e le sue curve avevano perso effetto, e cosí era finita, dice Ed, addio caro, è stato bello finché è durato, e anche allora, mentre rimane ostaggio del racconto interminabile dei sogni infranti dell’ex lanciatore e della sua carriera mai decollata, che dura per tutti e quattro i minuti necessari a salire le scale, Baumgartner non ce l’ha con Ed anzi, si aggrappa alle parole del letturista perché sono un’amara ma benvenuta distrazione dal dolore.
Una volta arrivati in cima alle scale, Baumgartner, sempre appoggiato a Ed, entra zoppicando in salotto, dove il suo protettore lo adagia sul divano e poi gli sistema sotto la testa un paio di cuscini ricamati. Conviene metterci un po’ di ghiaccio, su quel ginocchio, dice il giovanotto, e prima che Baumgartner possa avvisarlo che il dispenser del ghiaccio è rotto, Ed si dilegua. Baumgartner sente aprire e richiudere il congelatore. Qualche secondo dopo riappare Ed, un po’ stupito e un po’ contrariato. Niente ghiaccio, dice, parlando con il tono desolato di un bambino che ha appena scoperto che Babbo Natale non esiste o di un semplice adolescente che ha appena scoperto che Dio non esiste o di un moribondo che ha appena scoperto che il domani non esiste.
Non ti preoccupare, dice Baumgartner, me la caverò.
Non ne sarei cosí sicuro, dice il letturista. Sei parecchio malridotto, Sy. Hai tutti i capelli per aria, i calzoni sporchi e impataccati. Conviene portarti in ospedale a fare le lastre. Giusto per controllare che non ci sia niente di rotto.
Ma neanche per sogno, dice Baumgartner. Niente ospedale e niente lastre. Mi serve solo un po’ di riposo, il tempo di riprendermi. Tornerò subito in pista.
Come ti pare, dice Ed, scrutando il suo paziente con attenzione, mentre piccole, invisibili rotelline si mettono in moto nella sua testa. Almeno un bicchiere d’acqua te lo posso portare?
Grazie. Un bicchiere d’acqua sarebbe l’ideale.
Un minuto e mezzo dopo, mentre Baumgartner sta bevendo l’acqua, Ed si siede di colpo sul pavimento e si sporge in avanti finché non ha il viso a un pelo da quello di Baumgartner. Di’ un po’, Sy, in che anno siamo?
Baumgartner si ferma a metà sorso, manda giú l’acqua che ha in bocca e dice: Ma che domanda è?
Fammi contento, Sy. In che anno siamo?
Be’, vediamo. Se possiamo escludere il 1906 e il 1687, insieme al 1777 e al 1944, dovrebbe essere il 2018. Allora? Ci ho quasi azzeccato?
Ed sorride e dice: Proprio in mezzo al piatto. Bravo!
Soddisfatto?
Altre due o tre – giusto per sfizio.
Con un profondo sospiro di esasperazione, Baumgartner valuta se tirargli un cazzotto sul muso o stare al gioco per educazione. Chiude gli occhi, sospeso tra il vecchio burbero intrattabile e il mistico estraniato dal mondo, e alla fine dice: D’accordo, dottore. Prossima domanda.
Dove siamo?
Dove? Ma come, siamo qui, è ovvio, dove siamo sempre – ognuno di noi prigioniero del suo presente dal momento in cui nasce fino al giorno in cui muore.
Hai ragione, ma io pensavo piú a qualcosa della serie in quale città siamo. Il posto sulla cartina dove ci troviamo in questo momento.
Be’, in tal caso, siamo a Princeton, no? Princeton, New Jersey, per la precisione. Un posto stupendo però monotono secondo me, ma è solo la mia opinione. Tu che ne pensi?
Boh. Mai stato qui prima. Per me è carino, però a differenza tua non ci vivo, per cui in realtà non saprei dire.
Mentre procedono con le altre domande, Baumgartner vorrebbe continuare a sfottere Ed, ma ci rinuncia. La forza della buona volontà del giovanotto prevale sulla voglia di prenderlo in giro, e cosí, completato il piccolo questionario, una volta che il letturista ha appurato che il suo paziente non ha commozioni cerebrali né altri sintomi potenzialmente letali, Baumgartner gli annuncia che gli ha già rubato abbastanza tempo e gli consiglia di ripartire per i suoi giri, a tamburo battente, perché oggi dovrà leggere altri contatori, e di colpo Ed si ricorda che, nella gran confusione seguita al ruzzolone di Baumgartner, si è scordato di leggere il contatore, e cosí, zac, afferra la torcia elettrica ed esce in fretta dal salotto per portare a termine il suo primo incarico da impiegato in pianta stabile dell’azienda elettrica PSE&G.
Mentre ascolta il tonfo degli scarponi giú per le scale del seminterrato, Baumgartner riflette sul curioso gomitolo di concause che lo hanno messo al tappeto con due gomiti doloranti e un ginocchio gonfio e indolenzito che lo farà senz’altro zoppicare per diverse settimane, se non fino alla fine dell’estate o forse addirittura fino alla fine dei suoi giorni. Non c’è niente da fare, si dice, e poi i suoi pensieri vanno al povero signor Flores e allo spaventoso incidente delle due dita mozzate. Che orrore sarà stato vedersi fare una cosa simile al proprio corpo, pensa Baumgartner, non solo guardare le dita staccarsi dalla mano ma anche sapere che la colpa di quella mutilazione era solo sua. A quanto ha sentito, ormai i medici sono abituati a ricucire le dita amputate e a farle rifunzionare normalmente, ma lui non conosce nessuno che si sia sottoposto a uno di questi interventi miracolosi e perciò spera di non aver detto una bugia a Rosita quando le ha giurato che il padre alla fine sarebbe tornato tutto intero, perché non bisogna mai dire bugie ai bambini, mai, in nessun caso, anche se a volte, quando ci sono di mezzo gli adulti, uno strappo alla regola si può fare.
Ormai ha già dimenticato il suo saggio su Kierkegaard e il libro che aveva intenzione di portare di sopra per chiudere la frase che stava scrivendo. Ha anche dimenticato di telefonare alla sorella nonché il fatto stesso di avere una sorella, perché ne sono capitate cosí tante dacché queste cose gli premevano, gli interessavano, che potrebbero benissimo aver fatto parte della vita di un altro. Per il momento ha solo intenzione di riposare un altro po’ e aspettare che Ed torni dal seminterrato, poi lo ringrazierà delle sue mille premure e lo congederà. Chiude gli occhi, e per un minuto o due i suoi pensieri continuano a vagare da un oggetto all’altro, ma poco dopo gli oggetti non ci sono piú e ai pensieri subentrano una serie di immagini oniriche, soprattutto di Anna da giovane, e la vede di volta in volta che gli sorride o lo guarda con disapprovazione o volteggia per una stanza da qualche parte o siede su una sedia da qualche parte o si solleva sulle punte dei piedi e tende le braccia al soffitto.
Quando si sveglia, la luce che filtra nella stanza suggerisce che è trascorso un po’ di tempo. Baumgartner immagina che non siano piú di dodici o quindici minuti ma, quando guarda l’orologio, le lancette segnano l’una meno dieci, ciò significa che è svenuto per tre quarti d’ora o un’ora. Si volta verso il tavolino da caffè a destra e vede un biglietto scritto a mano appoggiato su una pila di libri. Se vuole leggerlo, dovrà stendere il braccio destro e pinzare il foglio con i polpastrelli, cosa che lo obbligherà a verificare le condizioni del gomito, ma sí, al diavolo, pensa Baumgartner, coraggio, prendilo, e cosí lo prende e, benché il gomito sia infiammato e dolorante, il dolore non è cosí tremendo da esigere altro che un sonoro grugnito.
Caro Sy, quando sono tornato di sopra stavi dormendo. Non mi andava di disturbarti, e cosí sono uscito. Quando finisco il turno vado a comprarti una busta di ghiaccio. Farà bene al ginocchio, lo sgonfierà un po’. Prendo anche una lampadina nuova per il seminterrato. Arrivo tra le 6 e le 6,30. Cordiali saluti, Ed Papadopoulos.
Straordinario, si dice Baumgartner. Un perfetto estraneo che si prodiga in questo modo. In un mondo pieno di teste di cazzo e bestie egoiste, questo innocente di buon cuore arriva come un angelo della misericordia e, sí, il ghiaccio mi farà sicuramente bene, visto che il ginocchio è troppo indolenzito e la zona intorno alla rotula ormai è molle e tumefatta per via del sangue e del tessuto danneggiato o insomma di tutto quello che si accumula sottopelle quando una parte del corpo comincia a gonfiarsi.
Baumgartner si segna mentalmente di chiamare il superiore di Ed alla PSE&G e decantare le eccezionali qualità del loro nuovo acquisto.
L’unico telefono al pianterreno è in cucina, e appena gli viene in mente di andare in cucina Baumgarten capisce che ha fame, una fame mostruosa, e decide che se e quando ce la farà ad avventurarsi fin laggiú, non solo telefonerà alla PSE&G ma si preparerà anche qualcosa per pranzo.
Rotolare giú dal divano è meno difficile del previsto, ma sollevarsi in piedi si rivela una tortura, cosí come muovere in avanti la gamba destra, soprattutto quando appoggia il piede a terra. Grugnire lo aiuta un po’, ma non tanto, e benché la soluzione ideale sarebbe attraversare la stanza saltellando sulla gamba sinistra, Baumgartner ha paura di perdere l’equilibrio e cadere, anche se da ragazzo era considerato un grande atleta, uno dei migliori della sua scuola, ma questo succedeva tanto tempo fa, anzi, una vita fa, se si fermasse a pensare quanti anni sono trascorsi da allora, e Baumgartner capisce che sarebbe una stupidaggine anche solo prendere in considerazione un rischio simile, benché un tempo fosse capace di tenersi il piede sinistro con la mano destra e scavalcare con un salto la gamba sinistra con la destra senza lasciare il piede sinistro nella mano destra. Una prodezza che suscitava l’ammirazione dei suoi amici e lasciava le ragazze senza fiato, perché lui era l’unico a riuscire in quel numero bizzarro, insensato, ma un conto era allora e un conto è adesso, si dice, e per adesso non ha altra scelta che zoppicare e grugnire a passi lenti e misurati fino alla cucina, e pregare di non crollare prima di arrivarci.
Sta quasi per crollare, ma non crolla, sta quasi per non farcela ma ce la fa, e quando taglia il traguardo è cosí stremato dallo sforzo che si lascia cadere su una delle sedie sparse intorno al tavolo della cucina. Va da sé che è la sedia piú vicina alla porta da cui è appena entrato, ma anche l’unica da cui si può guardare fuori dalla finestra e vedere tutto il giardino e, voltando un pochino la testa in un’altra direzione, vedere tutta la cucina. Ansante e rintronato dalla fatica che ha appena fatto, Baumgartner sa che gli ci vorrà un bel po’ per rialzarsi e affrontare la traversata dalla sedia ai pensili, e da lí al frigorifero, ai fornelli, al lavandino e al telefono a parete, e per il momento se ne sta lí annebbiato dal dolore e dalla stanchezza, indifferente a dove guarda o a ciò che vede, o perfino al fatto di vedere qualcosa. Per puro caso è atterrato sulla sedia con la testa rivolta verso la cucina, e mentre il suo respiro torna gradualmente a un ritmo piú o meno normale, comincia a guardarsi intorno e alla fine avvista il pentolino bruciacchiato sul pavimento. Eccolo, l’inizio di tutto, si dice, il primo incidente della giornata, che ha scatenato tutti gli altri di questa giornata di continui incidenti, ma mentre guarda ancora il pentolino di alluminio carbonizzato all’altro capo della stanza, i suoi pensieri si allontanano piano piano dai capitomboli da mimo di stamane e tornano al passato, il lontano passato che balugina ai confini della memoria e, un pezzo minuscolo alla volta, gli torna tutto in mente, il mondo perduto di Allora, ed eccolo lí, nel suo corpo di quasi ventunenne, studente universitario povero in canna nell’Upper-Upper West Side di Manhattan che s’incammina nella luce di un pomeriggio di fine settembre alla ricerca di qualche oggetto per il primo appartamento in cui abbia mai vissuto da solo, diretto da Goodwill in Amsterdam Avenue a comprare tutte le stoviglie usate e di seconda scelta che riuscirà a fare entrare nel pensile del suo microscopico angolo cottura, ed ecco il negozio squallido ma stracolmo con le pareti ingiallite e la luce debole dei neon dove aveva visto per la prima volta Anna, la ragazza dagli occhi lucenti, onniveggenti, che aveva sí e no diciotto anni e studiava anche lei da quelle parti. Non avevano scambiato nemmeno una parola, giusto un paio di sguardi per studiarsi, valutare i possibili pro e contro di quello che poteva o non poteva cominciare a succedere se fosse cominciato a succedere qualcosa, un piccolo sorriso lei, un piccolo sorriso lui, ma non c’era stato altro, e lei se ne era andata nel pomeriggio di settembre mentre il signor Timido era rimasto lí da bravo asino che era ed è tuttora, e aveva finito per comprare quella schifezza di pentolino d’alluminio, che gli era costato dieci centesimi e non lo aveva piú lasciato per tutti quegli anni finché stamane non è andato definitivamente distrutto.
Erano passati otto mesi prima che la incontrasse di nuovo, ma ovviamente si ricordava di lei, e per motivi che ancora gli sfuggono, anche lei si ricordava di lui, e cosí era iniziata, era iniziata poco alla volta finché cinque anni dopo si erano sposati e lui aveva cominciato la sua vera vita, la sua sola e unica vita, che era durata fino a nove estati fa, quando lei era corsa incontro ai cavalloni di Cape Cod imbattendosi nell’onda mostruosa e feroce che le aveva spezzato la schiena e l’aveva uccisa, e da quel pomeriggio, da quel pomeriggio – no, si dice Baumgartner, non ci devi pensare, stronzo patetico che non sei altro, stringi i denti e stacca gli occhi da quel pentolino, coglione, o ti strozzo con le mie mani.
E cosí Baumgartner stacca gli occhi dal pentolino per terra e guarda fuori in giardino, poco piú di un fazzoletto d’erba incolta con un solo albero di corniolo, non è ancora fiorito ma comincia a buttare germogli, e come per incanto, guarda là, dice fra sé Baumgartner, sull’erba si è posato un pettirosso, sicuramente per fare un sopralluogo e andare a caccia di vermi e to’, guarda, ne ha trovato uno, lo sta tirando fuori con il becco, e poi, sbam, lo sbatte sull’erba e saltella qualche secondo in giro per guardare altro ma poi, all’improvviso, piomba sul verme e lo scrolla con il becco, ne stacca un pezzetto e poi, sbam, lo risbatte sull’erba, saltella un altro po’ in giro e poi abbassa la testa un’ultima volta, afferra il verme e lo inghiottisce in un sol boccone.
Baumgartner tiene gli occhi fissi sul pettirosso che continua ad acchiappare e divorare vermi, perché ci sono molte di quelle piccole creature nascoste sotto la superficie del giardino, piú di quante avesse mai immaginato, e alla fine, mentre il pettirosso continua a estrarli dal terreno, Baumgartner comincia a chiedersi di cosa sapranno i vermi e che effetto farebbe mettersi in bocca un verme vivo che si contorce e inghiottirlo.Capitolo secondo
Baumgartner sta lavorando a una nuova idea. È giugno e, avendo ultimato il suo piccolo libro su Kierkegaard, con il ginocchio che non gli fa quasi piú male, sta indagando a fondo l’intricato, insolubile enigma mente-corpo chiamato sindrome dell’arto fantasma. Suppone di essersi messo in testa quell’idea in aprile, quando Rosita gli ha raccontato dell’incidente del padre con la sega circolare, perché anche se lei non ne sapeva abbastanza per fornirgliene i dettagli, Baumgartner li aveva desunti per conto proprio, immaginando la scena cruenta cosí spesso nelle ore successive che gli pareva di aver visto la lama affondare nella carne del falegname con i propri occhi. Per fortuna avevano ricucito le due dita mozzate al signor Flores quella mattina stessa, ma come ha imparato da allora Baumgartner, nei casi di amputazione permanente quasi tutte le persone che perdono un braccio o una gamba continuano ad avere per anni la sensazione che l’arto mancante sia attaccato al corpo, spesso associata a dolore acuto, prurito, contrazioni involontarie, e a sentirsi l’arto rimpicciolito o contorto in una posizione dolorosissima. Baumgartner ha consultato con il solito scrupolo tutta la letteratura medica sull’argomento, studiando il lavoro di Mitchell, Sacks, Melzack, Pons, Hull, Ramachandran, Collins, Barbin e numerosi altri, pur comprendendo che il suo interesse risiede, piú che negli aspetti biologici e/o neurologici della sindrome, nella sua capacità di prestarsi a metafora della sofferenza e della perdita.
È l’immagine che Baumgartner andava cercando fin dalla morte repentina e inattesa di Anna dieci anni fa, l’analogia piú convincente ed efficace per descrivere cosa gli è successo da quel pomeriggio caldo e ventoso dell’agosto 2008, quando gli dei hanno ritenuto giusto portargli via la moglie nel suo pieno vigore di donna ancora giovane, e cosí, come niente, gli hanno strappato gli arti, tutti e quattro insieme, braccia e gambe allo stesso tempo, e se la testa e il cuore hanno resistito all’assalto è stato solo perché gli dei perfidi e dispettosi gli hanno concesso il discutibile diritto di continuare a vivere senza di lei. Adesso è un moncone umano, un mezzo uomo che ha perso la metà di se stesso che lo rendeva intero, e sí, gli arti mancanti ci sono ancora, e fanno ancora male, cosí male che a volte gli sembra che il suo corpo stia per prendere fuoco e incenerirsi all’istante.
Per i primi sei mesi aveva vissuto in uno stato di confusione cosí profonda che a volte si svegliava al mattino senza ricordare che Anna era morta. Si era sempre alzata prima di lui, era già in piedi almeno quaranta minuti o un’ora prima che lui riuscisse ad aprire gli occhi, perciò era abituato a scendere dal letto vuoto e a entrare come un sonnambulo nella cucina deserta a prepararsi una tazza di caffè, spesso accompagnato dal ticchettio sommesso di una macchina da scrivere nella piccola stanza in fondo al corridoio o dai passi di lei che si aggiravano in una delle stanze al piano di sopra oppure dall’assenza totale di rumori, segno inequivocabile che Anna stava leggendo un libro o guardando fuori dalla finestra o era impegnata in qualche silenziosa attività in un’altra parte della casa. Questo spiega perché tutti i suoi grotteschi vuoti di memoria si verificavano di prima mattina, quando era ancora in stato di semincoscienza e agiva intontito sotto l’influsso delle vecchie abitudini formate in tanti anni di vita in comune con Anna, come la mattina in cui, solo dieci giorni dopo il funerale, mentre si accomodava su una delle sedie in cucina con la sua tazza di caffè fumante, gli era caduto l’occhio su un fascio di riviste aperte disordinatamente sul tavolo. Una pagina in particolare spiccava su tutte le altre, dove lui aveva letto quello che sembrava un titolo della «New York Review of Books» che diceva: Che tempo fa. Il libro che veniva recensito si chiamava Acque del mondo, e l’autrice era una certa Sarah Dry.
Acque del mondo – di Sara Dry! Ovverosia: «Acque del mondo, di Sarah Asciutta».
La combinazione era cosí inattesa eppure cosí grossolana nella sua sciocca simmetria che Baumgartner era sbottato in una breve risata di stupore, aveva appoggiato di scatto le mani sul tavolo e si era alzato.
Anna, guarda un po’ qua, aveva detto, incamminandosi verso il salotto. Te la farai addosso dal ridere.
Sarà andata in salotto, aveva pensato, dato che la macchina da scrivere taceva e le assi del pavimento di sopra non facevano rumore. Ciò significava che era rannicchiata sul divano con un libro, mano destra armata di matita per sottolineare i brani che le interessavano, e se in quel momento non stava usando la matita, l’aveva senz’altro messa in bocca e stava masticando distrattamente la fascetta metallica stretta intorno al gommino rosa. Tutte immagini che gli erano passate per la testa mentre camminava verso di lei nella nebbia della dimenticanza – poi era entrato nel salotto deserto e si era ricordato. Col pensiero, era tornato immediatamente al funerale, ed eccolo lí, dieci giorni prima, insieme a tutti gli altri, davanti alla tomba aperta, nell’aria pesante e ventosa portata dalla tempesta tropicale che risaliva la costa con raffiche sempre piú forti, cosí violente che una addirittura aveva fatto volare via il cappello a sua sorella, un oggetto nero e vorticoso che aveva zigzagato in cielo come un uccello impazzito prima di posarsi sui rami piú alti di un albero.
La psicologa gli aveva detto: Lei non sente niente. Ancora non ha preso davvero coscienza di quello che le è successo.
Quello che è successo, aveva risposto Baumgartner, non è successo a me, ma ad Anna, che di conseguenza è morta, e siccome io ho visto il suo corpo senza vita sulla spiaggia, siccome io quel corpo senza vita l’ho portato in braccio, ho preso coscienza eccome di quello che le è successo. Mi fa rabbia che abbia insistito per tornare in acqua un’ultima volta, anche se tirava vento e il mare era agitato, arrivavano onde sempre piú grosse, ma quando le ho detto che si stava facendo tardi e che dovevamo tornare a casa, mi ha riso in faccia ed è corsa incontro ai cavalloni. Anna era cosí, una che faceva comunque quello che voleva, senza sentire ragioni, un’impulsiva piena di entusiasmo, e una nuotatrice provetta, per giunta.
Quindi incolpa se stesso, aveva detto la psicologa. Sembra che mi stia dicendo questo.
No, non incolpo me stesso. Sarebbe stato inutile insistere. Non era una che prendeva ordini o si lasciava comandare a bacchetta. Era un’adulta, non una bambina, e da adulta ha deciso che sarebbe tornata in acqua, e io non l’avrei fermata. Non ne avevo il diritto.
Se non è senso di colpa, allora è rimpianto, magari anche rimorso.
No e no. Lei pensa che io le stia remando contro, lo vedo dalla sua espressione, ma non è cosí. È solo che prima di metterci al lavoro dobbiamo fare chiarezza. Sí, se non fosse tornata in acqua sarebbe ancora viva, ma non saremmo stati insieme piú di trent’anni se per esempio avessi provato a impedirle di entrare in acqua quando voleva. La vita è pericolosa, Marion, e può succederci di tutto in qualsiasi momento. Lo sa lei, lo so io, lo sanno tutti – e se non lo sanno, be’, si vede che non sono stati attenti, e se non si sta attenti, non si è vivi fino in fondo.
Come si sente adesso, in questo momento?
Malissimo, un disastro. Ridotto in mille pezzi.
In altre parole, dissociato, non è piú lei.
Immagino di sí. Ma poiché sono in grado di capire cosa sto passando in questo momento, posso dire sinceramente che non faccio la vittima, né mi piango addosso né alzo lamenti al cielo: Perché proprio a me? Perché a me no? Le persone muoiono. Muoiono giovani, muoiono vecchie e muoiono a cinquantotto anni. Mi manca, tutto qui. Era l’unica persona al mondo che io abbia mai amato, e ora devo trovare un modo per continuare a vivere senza di lei.
Quella sera di dieci anni fa, dopo la sua prima e ultima seduta di terapia del lutto con Marion, Baumgartner era entrato nel piccolo studio di Anna al pianterreno e per diverse ore aveva esaminato le sue carte e i suoi manoscritti. L’armadio era pieno zeppo di prime stesure e bozze delle sue traduzioni pubblicate, almeno quindici o sedici libri negli ultimi venticinque anni, in gran parte dal francese e dallo spagnolo, ma anche un paio dal portoghese, grosso modo lo stesso numero di romanzi e di raccolte poetiche, che lui, avendoli letti tutti due o tre volte, conosceva a menadito, cosí aveva chiuso l’armadio e si era spostato allo schedario nell’angolo della stanza, quattro cassetti ampi e profondi contenenti i suoi scritti nelle varie fasi della lavorazione, una pila rigonfia di poesie che risalivano ai tempi del liceo e procedevano fino a tre settimane prima che lei annegasse, dattiloscritti corretti a mano di due romanzi abortiti, svariati racconti, una decina di recensioni letterarie, una scatola né grande né piccola di testi autobiografici che riposava in solitudine nel cassetto in basso. Baumgartner l’aveva tirata fuori, era andato a metterla sulla scrivania di Anna, si era accomodato sulla sua sedia e aveva sollevato il coperchio. Il primo testo era tenuto assieme da una graffetta arrugginita, segno che era vecchio, che era stato scritto anni e anni prima, forse quando erano appena sposati, forse ancora in precedenza. Lo aveva preso in mano, cominciando a leggerlo.
FRANKIE BOYLE
Agli albori della mia infanzia, l’epoca da bambocci di cinque, sei, sette e otto anni, giocavo a baseball e bazzicavo i maschi, una posizione che mi ero dovuta conquistare facendo sanguinare il naso a Marvin Howells, il capobranco, e una volta guadagnato il rispetto della banda e ricevuto il permesso di partecipare alle loro partitelle dopo scuola e nel fine settimana, mi dimostrai all’altezza se non migliore della maggior parte dei maschi, perché ai tempi della mia gloria androgina e fanciullesca correvo piú forte di loro e ottenevo il posto da esterno centro in tutte le squadre in cui giocavo. Oltre a gambe e piedi veloci, avevo un braccio piú che discreto, perché ero una femmina che non tirava da femmina ma da maschio, e benché ancora mi mancassero i muscoli per battere con potenza, sfornavo tante di quelle singole e qualche volta una valida nel corridoio tra gli esterni che raramente non arrivavo in base, al punto che mi ritagliai un ruolo al primo posto nell’ordine di battuta e di principale istigatrice di inning da molti punti. Poi compimmo tutti nove anni, e i signori dell’ignoranza mi assestarono la prima sonora sberla. Ormai eravamo abbastanza grandi per entrare nella Little League, prima possibilità di praticare il baseball a livello agonistico dopo anni passati a giocare nei parchi pubblici e nei giardini delle abitazioni, un mondo nuovo e fulgido di campi regolamentari, divise da gioco, allenatori, arbitri e tribune per gli spettatori, la versione in miniatura dell’originale, ma, stando alle regole di allora, regole medievali durate troppo a lungo perché io potessi beneficiare della loro abolizione, la Little League era riservata ai maschi, e cosí l’esterno centro mano lesta e piè veloce fu esclusa da quel regno incantato, e la sua breve carriera nel Grande Gioco Americano ebbe fine.
Cacchi loro, come si diceva ai tempi, ma presi male la delusione e mi feci il sangue amaro per molto piú a lungo del dovuto, gira e rigira per quasi un anno, l’unica consolazione spirituale la trovai nelle classi miste di ginnastica che continuavano fino alla fine della quinta elementare, cioè fino a quando non avevamo dieci e undici anni, le partite miste a softball e dodgeball in cui mi facevo ancora valere contro i privilegiati dal pisello piccolo e la candida divisa della Little League, i fortunati che a quel punto mi si erano rivoltati contro, decisi a dimostrare che ero davvero una femmina mezzacalzetta, inutile e buona a nulla, e che pacchia correre sulle loro battute tese nell’esterno centro sinistro e rubargli le battute valide sicure, seguita dal piacere ancor piú grande di vederli alzare le mani scandalizzati mentre con calma tiravo la palla nel diamante, o, se pioveva ed era inverno, quando giocavamo a dodgeball al coperto, che goduria beccarli in faccia con uno dei miei tiri perniciosissimi, una volta arrivai perfino al punto di far sanguinare il naso allo stesso Marvin Howells a cui lo avevo già fatto sanguinare a suo tempo. Ma il massimo, perché mi davano una soddisfazione senza pari, erano le gare di velocità dopo la scuola, quando li sfidavo a battermi nei sessanta metri sprint, i duelli in cortile dopo la campanella delle tre, femmina contro maschio davanti a un nugolo di altri maschi. Nei primi due anni vincevo sempre, e quelle vittorie mi resero cosí sicura di me da portarmi all’erronea conclusione che sarei stata veloce in eterno, senonché arrivò il terzo anno, e arrivò anche un certo Frankie Boyle, un giovanotto snello e pimpante dalle virtú ineccepibili, l’unico maschio della classe che non mi si era rivoltato contro e che continuava a essermi amico, e anche se in passato lo avevo battuto due volte in quel tipo di corsa, durante l’estate Frankie era cresciuto tutto d’un botto, tanto che, quando cominciammo l’ultimo anno delle elementari, il ragazzino che prima era un po’ piú basso di me si era allungato di almeno otto o dieci centimetri piú di quanto ero riuscita ad allungarmi io, ed eccoci in cortile in quel luminoso pomeriggio di settembre, due giorni dopo il primo giorno di scuola, con la solita banda di maschi pronti a fare i tifo per il loro uomo, e quella volta persi, persi nettamente, perché alla settima o all’ottava falcata Frankie Boyle mi sfrecciò davanti e poi aumentò il distacco fino al traguardo, lasciandomi cosí indietro che alla fine sarò arrivata un secondo abbondante dopo di lui. Grande giubilo tra gli astanti, ricordo, seguito da una serie di battute al fiele – Non vali piú niente, non vali piú niente, fu una, Che finaccia ha fatto, la stronza, fu un’altra – ma va detto a imperituro onore di Frankie Boyle che, essendo lui d’animo immensamente misericordioso, non stette lí a godersi gli applausi degli altri maschi ma mi posò un braccio sulla spalla (prima volta che un maschio lo faceva) e mi portò via dal cortile della scuola, e mentre camminavamo insieme mi spiegò con serenità che la gara non era stata leale perché ormai lui era molto piú grosso e piú forte di me, cosa che lo aveva trasformato in un peso massimo mentre io ero ancora un peso leggero, e non si era mai sentito che un peso leggero mettesse fuori combattimento un peso massimo ma, tutto sommato, disse, ero la migliore velocista della scuola, anzi la migliore velocista del New Jersey, e se avessi voluto allenarmi per le Olimpiadi una volta raggiunta l’età giusta per partecipare alle selezioni della nazionale americana, mi avrebbe allenato lui e mi avrebbe fatto diventare cosí brava e cosí veloce che mi sarei portata a casa la medaglia d’oro battendo il record del mondo. Fu probabilmente la cosa piú bella che mi avessero mai detto, ma quando perdevo perdevo, e capii che la sconfitta di quel giorno nel cortile della scuola ne lasciava presagire altre nei mesi a venire. Anziché starmene a piangere per i miei poteri ridotti al lumicino, mi ritirai in silenzio da quelle sfide di velocità contro i maschi e trovai nuove attività che appagassero la mia sete di movimento, che il mio corpo irrequieto, agitato sembrava esigere in dosi massicce, regolari, e cosí cambiai marcia e nei weekend cominciai ad andare a tutte le feste, dove ballavo come una pazza scatenata finché sulla pista non rimanevo solo io, oppure mi buttavo nei laghi, nelle piscine o nei mari e nuotavo in preda a quella che ora ricordo con affetto come una appassionata solitudine, senza pensare proprio a niente, solo a macinare bracciate, mentre la mia mente si svuotava e sprofondavo in una trance che mi staccava da me stessa e mi rendeva tutt’uno con l’acqua. Sola e senza peso, in costume da bagno intero scivolavo col mio petto piatto già ingrossato dai primi segni dei cambiamenti futuri, né qua né là né in nessun altro posto dello strano mondo che mi girava intorno.
Quanto al dolce Frankie Boyle, caddi ai suoi piedi appena mi mise un braccio intorno alla spalla e mi condusse via dalla scuola. Tutta colpa di quella mano, la scossa elettrica che mi percorse quando mi sfiorò con il corpo, una sensazione prolungata dalla pressione costante del suo braccio sulla mia schiena, mentre la sua mano restava saldamente posata sulla mia spalla e lui diceva tutte quelle frasi suadenti e strampalate per rincuorarmi e aiutarmi a sopravvivere alla perdita del trono da re dei sessanta metri sprint e, nel frattempo, trasformarmi nella regina di tutte le distanze. Quel pomeriggio non solo mi innamorai di lui, ma continuai ad amarlo per l’intero anno scolastico, anche se i genitori severi non gli permettevano di andare a nessuna festa nei weekend, cosa che limitava drasticamente le occasioni di rimanere soli per le intense sessioni di baci e abbracci agognate da entrambi a cui però potemmo dedicarci solo tre o quattro volte perché eravamo sempre circondati da altri ragazzini. Alla fine dell’anno ci sparpagliammo tutti per l’estate, e in autunno, quando le cose si rimisero in moto, mi spostai alle scuole medie statali insieme alla maggior parte dei miei compagni di classe, ma Frankie non era piú con noi. I genitori lo avevano mandato alla scuola cattolica che, come se non bastasse, si trovava a vari paesini di distanza nella lontana South Orange, Our Lady of Sorrows, si chiamava, la Maria Addolorata, ovvero il peggior nome che abbiano mai inventato per una scuola, anche se esprimeva adeguatamente il dolore che provai quando Frankie mi chiamò per darmi la notizia. A settembre scambiammo qualche altra telefonata, piú che altro conversazioni imbarazzate senza molti argomenti al di là del lamentarsi di quanto il mondo fosse diventato cupo e senza speranza, ma dato che all’epoca eravamo poco piú che bambini, e dato che nessuno dei due faceva piú parte della vita quotidiana dell’altro, alla fine smettemmo di sentirci.
Ci perdemmo di vista per parecchi anni ma, a metà della terza liceo, eccolo lí di nuovo, davanti al distributore di benzina del padre appena fuori città, dove aveva da poco iniziato a lavorare il sabato mattina e la domenica pomeriggio, ormai diciassettenne, alto, spalle larghe e con l’espressione dolce di sempre. La nostra amicizia riprese come se cinque anni e mezzo di interruzione fossero passati in quindici minuti contati, che suona strano ma non lo era affatto. È vero che da allora avevo già baciato molti ragazzi e perso la verginità con uno di loro, ed è anche vero che quella mattina Frankie fu cosí gentile da mostrarmi una foto della sua ragazza, che aveva tutta l’intenzione di sposare prima o poi, facendomi capire con delicatezza e con estrema eleganza che lui era off-limits, ma il giovane signor Boyle era la stessa splendida persona di sempre, e io avevo un debole per lui come ai tempi della mia fase da peso leggero, e cosí gli facevo il filo ogni volta che passavo a trovarlo nel fine settimana e lui pure mi faceva il filo, chiamandomi Rossa (per via dei miei capelli castano rossicci) mentre io lo chiamavo Flash, lampo (come Fordham Flash, soprannome di un altro Frankie, il vecchio seconda base Frankie Frish). Schermaglie scherzose e senza senso tra due amici d’infanzia, ma comunque piacevoli, dal momento che non eravamo piú esattamente bambini e stavamo crescendo in fretta.
Le mansioni di Frankie presso il distributore di benzina e autoriparazioni Boyle non erano troppo onerose, piú che altro puliva i parabrezza, metteva benzina super e normale nei serbatoi, controllava il livello dell’olio e la pressione delle gomme. In primavera, dopo aver riallacciato i rapporti, non passavo a trovarlo regolarmente, giusto ogni due o tre settimane, forse, ma cercavo sempre di palesarmi poco prima che finisse il turno, di modo che nei giorni in cui non aveva impegni dopo il lavoro potevamo girare un po’ sull’auto di mia madre e chiacchierare. È difficile ricordare di cosa parlassimo di preciso, ma mi tornano in mente brandelli di conversazione su Albert Camus e i Beatles contro gli Stones e la Guerra dei sei giorni in Israele, e anche se Frankie veniva da una famiglia conservatrice dura e pura, con un padre veterano dell’esercito che aveva combattuto nella battaglia di Anzio, convinto sostenitore della Guerra del Vietnam, Frankie invece era contrario, come me del resto, e questo contribuí a formare l’ennesimo legame fra noi.
Era un periodo tremendo per essere giovani, soprattutto per un ragazzo di quasi diciotto anni alle soglie del diploma, e soprattutto in quel momento, nella seconda metà del 1967 e la prima metà del 1968, quando sul fronte interno stava andando tutto a scatafascio e le commissioni di leva lavoravano a pieno ritmo, risucchiando decine di migliaia di maschi adolescenti e spedendoli a combattere in giungle lontane senza che nessuno di loro riuscisse a spiegarsi perché. Eravamo all’ultimo anno delle superiori, io sgobbavo alla Livingston High School e lui alla Seton Hall Prep, e a confondere ancora di piú Frankie nei primi mesi del ’68, quando Johnson annunciò che non si sarebbe ricandidato alle presidenziali e Martin Luther King fu assassinato a Memphis e in tutto il paese decine di città andavano a fuoco, ci si mise anche la ragazza con cui stava da tre anni, Mary Ellen Vattelapesca, che decise di lasciarlo, definendolo un pesantone deprimente che non somigliava piú al ragazzo che amava, e come se non bastasse c’erano gli scontri sempre piú accesi con il padre, che cominciò a chiamarlo vigliacco comunista perché era contrario alla guerra, e neanche morto gli avrebbe dato un centesimo per il college se non cambiava registro e cominciava a fare il suo dovere. Fu nel pieno di quella tregenda che io e Frankie non riuscimmo piú a staccarci e consumammo la nostra breve avventura, nelle settimane tra l’assassinio di Robert Kennedy e la fine delle superiori, per l’esattezza quattro disperate ma deliziose maratone d’amore tutti nudi sui sedili posteriori della Buick di mia madre, che parcheggiavamo nel cuore della foresta nella South Mountain Reservation dove eravamo invisibili perfino ai gufi. Benché fossi felice di trovarmi tra le braccia di Frankie, mi rendevo conto che non avremmo fatto molta strada insieme, che di lí a poco le circostanze ci avrebbero diviso ancora, e questo rendeva ancora piú prepotente il bisogno di aggrapparci uno all’altra con tutte le nostre forze.
Ma Frankie continuava ad avvitarsi su se stesso e poco dopo cominciò a perdere l’equilibrio. A quel punto lo avevano già ammesso in tre o quattro università, tra cui la Rutgers, l’ateneo statale, dove la retta era piuttosto bassa, perciò, anche se suo padre avesse mantenuto la parola rifiutandosi di pagarla, Frankie se la sarebbe potuta cavare con un prestito studentesco o una borsa di studio o un lavoro nel campus o un insieme di tutte queste cose, che gli avrebbe permesso di iscriversi come matricola a pieno titolo, che a sua volta gli avrebbe dato diritto al rinvio del servizio militare per altri quattro anni. Era l’unica decisione sensata che un giovane contrario alla guerra potesse prendere all’epoca, e per gran parte della primavera ne parlò come se fosse orientato in quel senso, senonché, da un giorno all’altro, cambiò idea.
Non mi spiegò mai in dettaglio perché ci avesse ripensato, magari non poteva, o non voleva, o non lo capiva bene neanche lui ma, dopo averci riflettuto a fondo negli anni passati da allora, credo che Frankie fosse in collera con il padre, che lo attaccava senza tregua da due anni, definendolo un frocio pappamolla e un cocco di mamma smidollato e antiamericano, che non era una semplice opinione politica espressa in termini volgari ma un vero e proprio assalto alla virilità del figlio, e da giovane uomo orgoglioso che ormai disprezzava la crudeltà imbecille del padre e però troppo educato e troppo perbene per rivoltarsi contro quel padre e ordinargli di chiudere il becco, Frankie glielo chiuse preferendo andare sotto le armi, cosa che intendeva fare all’indomani del diploma. Frank senior fu felicissimo della decisione del figlio, ma la verità è che Frankie non aveva agito cosí per assecondare il padre ma per ripicca, per sfregio, anche se non si rendeva bene conto di quello che stava facendo.
Quanto piansi, quanto lo supplicai e continuai a supplicarlo nei giorni seguenti, ma malgrado le mie sfuriate melodrammatiche, niente di quello che dicevo sortiva effetto. Frankie era stranamente in pace con se stesso, e fino all’attimo in cui entrò nel centro di reclutamento locale e firmò, galleggiò nell’aria allegro, espansivo, come se il pianoforte che da due anni trasportava sulla schiena fosse misteriosamente svanito e lui potesse di nuovo muoversi in libertà, senza piú dubbi né ripensamenti, e senza l’amarezza che nasceva da un carico cosí pesante.
– Se ci pensi, non è poi cosí male, – disse. – In cambio di due anni della mia vita allo Zio Sam mi passano quattro anni di università gratis, ciò significa che me la vedrò da solo e non dovrò supplicare mio padre di pagarmi la retta. – D’accordo, dissi io, ma che succede se ti mollano nella giungla e uno squadrone di uomini invisibili inizia a tempestarti di proiettili? – Tranquilla, – disse lui, sfoderando un sorriso. – Se a undici anni sono riuscito a correre piú veloce della magnifica Anna Blume, ormai correrò molto piú veloce di quei proiettili.
Frankie Boyle non arrivò mai nelle giungle del Vietnam. Cinque settimane dopo essersi arruolato rimase vittima di un incidente durante l’addestramento base a Fort Dix, quando un lanciarazzi s’inceppò e gli scoppiò in mano. L’esplosione lo dilaniò e lo trasformò in una massa di frammenti volanti, trasportati dall’aria, che si disseminarono in ogni direzione e poi ricaddero a terra. Quando arrivarono con un’ambulanza a cercare i brandelli sparsi, setacciarono la zona per oltre due ore, raccogliendo pezzi di dita delle mani e dei piedi, di braccia e gambe, di mani e piedi, insieme a numerose scaglie di carne bruciata e ossa scheggiate, ma alla fine, siccome il sole cominciava a scendere verso l’orizzonte e stava facendo buio, dovettero abbandonare le ricerche. Malgrado i loro sforzi, era rimasto cosí poco di Frankie Boyle che il giorno in cui lo seppellirono il contenuto della sua bara pesava solo ventisette chili.
Baumgartner conosceva questa storia. Già dalle loro primissime conversazioni nel 1969, Anna gli aveva parlato di Frankie Boyle rivivendo l’orrore della sua fine spaventosa, che l’aveva trafitta come una spada, disse, lasciandole una ferita permanente nell’anima. Gli aveva anche raccontato che quando era venuta a sapere di Fort Dix, era rimasta nella sua stanza da matricola nello studentato del Barnard College a singhiozzare come una disperata per dieci ore di fila, a singhiozzare come non le era mai successo prima né le sarebbe mai successo dopo, perché a singhiozzare cosí tanto e cosí a lungo si rasenta la distruzione, e un corpo non è fatto per essere squassato da certe convulsioni piú di una volta nella vita. Non aveva parlato di quell’episodio nel suo testo, e in fondo quel testo non conteneva niente che a lui fosse davvero nuovo, ma malgrado ciò, e a maggior ragione, vedere i suoi ricordi di ragazzina danzare sulle pagine del manoscritto ingiallito lo aveva commosso nel profondo, perché appena aveva cominciato a leggere le parole di Anna gli era parso di sentire la sua voce levarsi dalla carta, come se lei gli stesse davvero parlando ancora, anche se ormai era morta, anche se ormai se n’era andata e non gli avrebbe mai piú detto una parola.
Baumgartner aveva ruotato la sedia a sinistra e cominciato a guardare la vecchia macchina da scrivere manuale di Anna. Era posata su un’asse di legno scorrevole che sporgeva da un’apertura di cinque centimetri proprio sotto il ripiano della scrivania, un’imponente reliquia degli anni Trenta o Quaranta in mogano scuro comprata per sessanta dollari in un negozio di mobili usati in Columbus Avenue una settimana prima che lasciassero New York e si trasferissero nella casa in Poe Road a Princeton. La macchina da scrivere era un regalo dei genitori per il suo quindicesimo compleanno – 7 maggio 1965 – e lei aveva continuato a usare la Smith Corona portatile grigio scuro / verde chiaro fino alla fine, escluso un breve intervallo in cui aveva provato a passare a un computer da tavolo scoprendo che non le piaceva, soprattutto perché la tastiera era troppo morbida e le faceva male alle dita, aveva detto, mentre battere sui tasti piú resistenti della sua macchina portatile le irrobustiva le mani, e cosí aveva abbandonato il Mac cedendolo al figlio sedicenne della cugina carnale piú grande ed era tornata al piacere tattile di infilare i fogli di carta nella Smith Corona e riempirsi lo studio con la musica assordante di un picchio. Filtrava dalle pareti e saliva al soffitto, insinuandosi debolmente in ogni parte della casa e, ovunque si trovasse, Baumgartner amava ascoltare quel crepitio smorzato, da mortaretto, sia quando entrava o usciva dalle stanze al piano di sotto sia quando si trovava nel suo studio al piano di sopra chino sul proprio strumento di scrittura, che nel suo caso era diventato un computer perché non poteva essere altrimenti, visto che Baumgartner lavorava all’università e il suo dipartimento insieme a tutti gli altri dipartimenti e uffici amministrativi era passato al digitale. Come autrice e traduttrice freelance, Anna non doveva rendere conto a nessuno e conduceva la sua attività come e dove voleva, il che significava comunicare per lettera, telefono e fax anziché per email, e continuare a fare il proprio lavoro con l’aiuto della sua logora ma indistruttibile compagna. Grazie a Dio, si era detto Baumgartner, e grazie a Dio per tutte quelle splendide sonate mattutine, quando si svegliava al suono delle dita di Anna che martellavano sui tasti, al suono della mente di Anna che cantava attraverso le dita che martellavano sui tasti, e dopo un mese di vita da solo nella casa vuota, quei suoni gli mancavano cosí tanto che a volte entrava nello studio, si sedeva davanti alla macchina muta e scriveva qualcosa – qualunque cosa – solo per risentirli.
Era andato avanti cosí per sei mesi, una fenditura nel tempo che in seguito Baumgartner avrebbe chiamato La scomparsa o Uomo folle di dolore. Per la metà di un anno era quasi diventato irriconoscibile ai propri occhi, un essere diverso da quello che aveva conosciuto e abitato fin da bambino, e in quella momentanea zona di spaesamento e impulsi irrazionali, aveva affrontato le giornate a tentoni, dedicandosi a una serie di attività bizzarre, strampalate. Non solo buttando giú parole senza senso con la macchina da scrivere di Anna ma anche passando due intere serate a piegare e ripiegare le cose nei cassetti del suo comò – mutandine di pizzo, mutandine di cotone, reggiseni, sottovesti, calze, collant, calzini, calzoncini da ginnastica, calzoncini da tennis, costumi da bagno, magliette –, a metterle per bene in fila prima di risistemare ogni pila ordinata nei cassetti, o comprando costose grucce di legno per sostituire quelle di metallo e di plastica per poi riappendere nell’armadio vestiti, gonne, camicette, pantaloni di seta, pantaloni di lana, pantaloni di cotone, felpe con il cappuccio, giacche e jeans di Anna, o ancora, comprando cinque o sei custodie trasparenti con la cerniera per riporre i suoi maglioni sul ripiano in alto, o versando ogni mattina una tazza di caffè per lei quando si sedeva al tavolo della cucina con la propria tazza di caffè, che alzava in segno di saluto prima di iniziare a bere, o scrivendole decine di lettere d’amore pornografiche che spediva per posta prendendosi la briga assurda di infilarle in una busta, scrivere l’indirizzo, incollare un francobollo e imbucarle, seguita dal piacere di riceverle uno o due giorni dopo, immaginando il piacere di Anna se fosse stata lí a riceverle di persona.
Probabilmente non aveva giovato il fatto che fosse in congedo durante il semestre autunnale di quell’anno, ma la pausa era prevista già da un po’ di tempo, e lui e Anna avevano deciso di trascorrere quei quattro mesi e passa senza lezioni a Parigi, una città dove avevano vissuto entrambi e in cui desideravano vivere ancora, anche solo per pochi mesi. Avevano affittato un appartamento, comprato il biglietto andata e ritorno con l’intenzione di partire il 20 agosto, due giorni dopo il rientro dal soggiorno di una settimana da certi loro vecchi amici a Cape Cod. Però il 20, anziché trasvolare l’Atlantico con Anna, Baumgartner si era ritrovato davanti a una fossa a Princeton, New Jersey, a guardare una macchina che calava sotto terra la bara di Anna mentre un vento micidiale gli sbatteva sulla faccia e il suo amico Jim Freeman lo stringeva a sé con il braccio destro per stare certo che non cadesse di sotto – una misura precauzionale che non dipendeva affatto dal vento ma dalle gambe di Baumgartner, che sembravano sul punto di cedere, nel qual caso era molto probabile che nella fossa ci sarebbe finito anche lui.
Nessun impegno didattico, quindi, e dunque nessuna responsabilità, nessuna ripercussione sul suo tempo e nessun bisogno urgente di schiodarsi da casa. Per quanto riguardava l’università, ufficialmente lui era assente, e anche se durante quell’assenza non si era mosso né aveva lasciato casa, avrebbe potuto benissimo trovarsi a Parigi, a Parma o in Patagonia, per l’amministrazione era indifferente. Se n’era andato ma era rimasto lí, per cosí dire, in ostaggio, con i piedi incollati al pavimento, a vivere in uno spazio intimo precario che lo aveva trasformato in una persona con troppo tempo a disposizione, e siccome Baumgartner non era in condizioni di riprendere il lavoro sul suo libro su Thoreau né di mettere mano a nient’altro, quel tempo era stato lungo e vuoto all’inverosimile, una sequela di giornate vuote che aveva riempito quasi sempre piegando e ripiegando biancheria intima e riversando sulle poste statunitensi un fiume ininterrotto di lettere spinte e pecorecce a una donna che non avrebbe piú visto né toccato.
Comunque quelle ore non erano andate sprecate in distrazioni senza senso, e mentre continuava a studiare i manoscritti inediti delle duecentosedici poesie composte da Anna nell’arco di circa quarant’anni, aveva capito che era materiale piú che degno di essere messo in circolazione. Non proprio tutto, forse, ma con le ottanta o cento poesie migliori poteva venire fuori un bel libro, e cosí Baumgartner si era lanciato nell’impresa di mettere insieme una raccolta delle poesie di Anna, unica cosa tangibile che aveva portato a termine in quei mesi persi, amorfi, perché alla fine il libro era stato pubblicato da una piccola ma stimata casa editrice cosiddetta d’avanguardia, la Redwing Press, con un distributore che era stato capace di vendere la prima edizione in diciotto mesi e di sputarne fuori una seconda a stretto giro, e poi una terza quattro anni dopo. I numeri erano irrisori, certo, ma dato che la poesia non era un pianeta ma un minuscolo asteroide a zonzo per gli spazi celesti della letteratura americana, Anna aveva trovato il suo posticino in quel firmamento.
Avrebbe potuto occuparlo fin da subito, secondo lui, ma per qualche motivo ignoto e inespresso, Anna non aveva mai mosso un dito per fare circolare le sue poesie. Era quello che lo aveva lasciato piú stupito di lei, che per il resto si faceva valere e lottava duramente per le cose in cui credeva, e lei sapeva molto bene che le sue poesie erano belle. Dubbi, sí, momenti di disperazione, sí, ma esiste forse uno scrittore o un artista che non vive in quel territorio instabile tra fiducia e disprezzo di sé? Prova ne era il fatto che gli aveva sempre dato da leggere le sue poesie, non perché glielo chiedesse lui ma perché le andava, gliele recitava ad alta voce o gliene metteva in mano sei o sette fogli, e quei nuovi testi lo avevano indotto infinite volte a dirle di alzare il culo e pubblicarle, e Anna puntualmente scrollava le spalle con diffidenza e ogni tanto aggiungeva: «Hai ragione» oppure «Uno di questi giorni» oppure «Vediamo», a seconda dell’umore. Quelle risposte laconiche gli davano la certezza, o quasi, che Anna non avrebbe trovato da ridire su ciò che lui stava facendo ora, perché uno di quei giorni era arrivato, e la scoppiettante, frizzante poetessa con cui aveva vissuto per quasi due terzi della sua vita meritava di essere letta da un altro o da molti altri, non solo da quel vecchio sacco d’ossa che era stato suo marito.
La poesia meno recente che Baumgartner aveva deciso di inserire nella raccolta era stata scritta nel settembre 1971, quattro mesi dopo il ventunesimo compleanno di Anna e un mese dopo il suo ritorno da un anno di studio a Parigi (stretto in mezzo a due estati a Madrid), e il titolo di quel testo iniziale era diventato il titolo della raccolta: Lessico. Poesie scelte, 1971-2008. Non era affatto la poesia migliore, ma Baumgartner adorava la sua originalità stralunata, la verve effervescente che riusciva a rivelare allo stesso tempo sia Anna sia lo spirito delle sue opere. Ma soprattutto, i suoi ricordi di se stesso da giovane erano saturi di quella poesia, perché non solo era stata scritta nel preciso momento in cui stava perdendo la testa per lei, ma era anche la prima poesia che lei gli avesse mai letto ad alta voce – senza niente addosso, seduta sul letto dopo una gloriosa scopata sulle lenzuola nude e sgualcite del suo vecchio appartamento in subaffitto sulla Ottantacinquesima Ovest.
Lessico
Il fiorellino era cosí piccino
che non aveva un nome
cosí chiamai la mia scoperta
la «Nticchia»
senonché ci ripensai
e cosí rinominai, quel puntino ino ino
di ardente rosso acceso
il «Come butta
Mrs Dolittle e Dove
ti eri nascosta già?»
Poiché il puntino rosso era un fiore
non mi rispose niente
perciò non saprò mai
se il nome che gli avevo dato gli piaceva
o no. Andai per la mia strada.
Quando tornai il mattino dopo
a vedere se il fiore fosse cresciuto di notte
il puntino rosso era sparito.
Dove sei Mrs Dolittle
e se sei andata via per sempre
qualcuno prego mi dica perché
quell’uomo birichino ino ino
mi sorride bel bello di là della strada
con un cosino rosso all’occhiello
che luccica al buio come un fiammifero acceso.
Dieci anni dopo, Baumgartner si meraviglia che per lui sia cambiato cosí poco da quei primi mesi in cui ha sfiorato la follia. Logicamente lui ha finto il contrario, e appena è riuscito a risollevarsi da terra, a stare in piedi e rimettersi a camminare, ha dato l’impressione di essere tornato nel mondo dei vivi. Ha ripreso a fare lezione. Dopo un mese si è riavvicinato al suo lavoro in punta di piedi, ci si è rituffato, e ne è venuto fuori un libro, poi un secondo libro e adesso un terzo – piú libri che in ogni altro decennio della sua vita. Le vecchie amicizie si sono approfondite, ne sono nate di nuove, e dopo un anno di quieta castità, segnato da mesti intervalli di masturbazione durante i quali si immaginava di nuovo a letto con Anna, ha iniziato a correre dietro alle donne per la prima volta in quasi quarant’anni. Segni di vita, o apparenti tali, che hanno indotto gli amici a credere che Baumgartner abbia scoperto come andare avanti senza Anna. Di solito ci crede perfino lui, ma solo perché si è talmente abituato agli arti artificiali attaccati al suo corpo privo di braccia e gambe che quasi non si accorge della loro presenza. Pur funzionando, però, e con tutto l’aiuto che forniscono agli afflitti, quelle appendici di titanio sono cose senza vita, incapaci di emozioni. Baumgartner si emoziona ancora, ama ancora, desidera ancora, vuole ancora vivere, ma nell’intimo è morto. Sono dieci anni che lo sa, e sono dieci anni che fa il possibile per ignorarlo.
È andato tutto in pezzi il giorno del pentolino bruciato e del capitombolo per le scale. Prima di allora non aveva capito quanto fosse profondamente combattuto rispetto a tutto ciò che riguardava Anna, di non aver fatto altro che allontanarla e aggrapparsi a lei allo stesso tempo, liberando la casa da ogni sua traccia ma mantenendo intatta la stanza dove lavorava, dando via il voluminoso assortimento di vestiti che aveva riordinato e riappeso con cura metodica quando era andato in crisi dopo la sua morte, cambiando poi il letto, i fornelli, il frigorifero, il tavolo e le sedie in cucina, i mobili del salotto, le lenzuola, i cuscini, gli asciugamani, le posate, i piatti, le scodelle, le tazzine, le tazze, i bicchieri, la teiera, la caffettiera, e un migliaio di altri oggetti piccoli e grandi in ogni stanza al piano di sopra o al piano di sotto salvo uno, eppure, anche se ormai Baumgartner non metteva quasi piú piede in quella stanza, lei era ancora lí in casa con lui, in agguato da qualche parte lí vicino, a volte troppo vicino, ma sempre appena oltre la cornice del suo sguardo, e poi gli era piombata addosso quel pomeriggio tremendo di aprile mentre lui dal tavolo della cucina guardava il pentolino carbonizzato per terra, l’unica cosa che non si era preso la briga di far sparire, e anziché cogliere l’occasione per passare un po’ di tempo divagando con Anna, l’aveva scacciata, l’aveva estromessa con una foga cosí brutale, incosciente da lasciarlo atterrito. Poi era arrivato lo spettacolo del pettirosso che divorava i vermi in giardino, e poi il crollo, perché solo allora, dopo nove anni e otto mesi in cui si era sforzato di vivere tra due stati d’animo contraddittori e reciprocamente distruttivi, si era reso conto di aver combinato un gran pasticcio. Vivere è provare dolore, si era detto, e vivere con la paura del dolore significa non voler vivere.
Due mesi dopo è immerso nel suo saggio sulla sindrome dell’arto fantasma, che ha cominciato a chiamare sindrome della persona fantasma via via che le corrispondenze metaforiche gli sono apparse sempre piú evidenti. Non sa ancora in quale direzione sta andando con questo saggio, non è nemmeno certo che lo finirà, ma per il momento sta rispondendo a un bisogno, e questo gli basta per continuare a documentarsi sulle mappe cerebrali, i recettori sensoriali e i circuiti neuronali nel tentativo di tradurre il dolore mentale e spirituale nel linguaggio del corpo. Pensa alle madri e ai padri che piangono i figli morti, ai figli che piangono i genitori morti, alle donne che piangono i mariti morti, agli uomini che piangono le mogli morte e alla loro sofferenza che somiglia da vicino ai postumi di un’amputazione, perché la gamba o il braccio che non c’è piú un tempo era attaccato a un corpo vivo, e la persona che non c’è piú un tempo era attaccata a un’altra persona viva, e se siamo quelli che continuano a vivere, scopriremo che la nostra parte amputata, la nostra parte fantasma, può essere ancora fonte di un dolore profondo, indegno. A volte certi rimedi possono alleviare i sintomi, ma la cura definitiva non esiste.
È quasi mezzanotte. Baumgartner è steso a letto da un’ora, pronto per dormire ma ancora sveglio mentre al buio medita sul suo saggio e sulla direzione che intende fargli prendere domattina. A poco a poco, però, i suoi pensieri cominciano a scomporsi e a ridursi in frammenti sempre piú piccoli mentre i muscoli del collo e delle spalle si allentano e si fondono con i muscoli delle braccia, delle gambe e della schiena che si sciolgono lentamente. Sta dormendo ma non lo sa. Immagina di essere soltanto sul punto di addormentarsi e quindi di non aver perso il contatto con quello che lo circonda. Sa che il letto su cui è sdraiato è il suo letto, e che il letto è nella sua camera da letto, e che la sua camera da letto è nella sua casa, la stessa casa dove per ventiquattro anni ha vissuto con Anna e ora vive da solo. Lei è morta il 16 agosto 2008, e oggi è il 20 giugno 2018 o, se è già passata la mezzanotte, il 21 giugno. Baumgartner sente un rumore da qualche parte della casa, molto probabilmente in una delle stanze al piano di sotto, un debole ronzio che dura qualche secondo, si interrompe per un secondo, ricomincia per qualche secondo, poi si interrompe ancora per un secondo, una pulsazione sonora intermittente seguita da un silenzio seguito da una pulsazione sonora, una sequenza di rumori piú lunghi e silenzi piú brevi che si ripete per dieci o dodici volte e poi s’interrompe. A quel punto Baumgartner ha già acceso la lampada sul comodino, è sceso dal letto e si è coperto il corpo nudo con la vestaglia a quadri stretta da una cintura. Sono rumori abbastanza inconsueti da imporre un’indagine, e anche se ormai si sono interrotti, Baumgartner si incammina verso il piano di sotto, accende la luce in corridoio, scende le scale, accende la luce del corridoio al pianterreno, poi la luce in soggiorno, dove non nota segni di disordine né d’intrusione, e infine la luce in cucina, dove tutto è esattamente come lo aveva lasciato prima di salire di sopra alle dieci, compreso il pentolino incrostato e pieno d’acqua nel lavandino, che ha messo a mollo per finire di lavarlo domattina.
Infine c’è la stanza dove lavorava Anna, che Baumgartner teme sia esposta alle visite dei ladri o ad altri tipi di malintenzionati per via della porta a vetri che dà direttamente in giardino. Sebbene di questi tempi lui vada poco in quella stanza, ogni due martedí la signora Flores entra risoluta a passare l’aspirapolvere, lavare e spolverare per trenta o quaranta minuti, seguendo scrupolosamente le istruzioni di Baumgartner che vuole mantenere tutto pulito e in perfetto ordine. Baumgartner accende la plafoniera e vede con sollievo che la porta che dà sul giardino è chiusa e che i vetri sono intatti. Soprattutto sembra non esserci niente fuori posto. Comunque, visto che ormai è sveglissimo e per niente stanco, decide di restare dove si trova anziché tornare di sopra e rimettersi a letto – giusto per controllare che non manchi nulla.
La macchina da scrivere di Anna è ancora posata sull’asse di mogano che sporge dalla scrivania. Le matite e le penne sono ancora infilate dentro la tazza dei New York Mets che si trova a una decina di centimetri a nord del tappetino verde. I due oggetti che usava come fermacarte sono ancora sul tappetino, uno nell’angolo in alto a sinistra e uno in quello in alto a destra; un calcinaccio proveniente dal Muro di Berlino regalatole nel 1989 da un’amica tedesca; un frammento di ammonite fossile che ha oltre un milione di anni, su cui era inciampata tanto tempo prima durante un’escursione in Ardèche, nella Francia centro-meridionale. E poi c’è il telefono rosso, che è ancora al suo posto a sud-est del tappetino, anche se il servizio su quella linea è stato disattivato e il telefono non squillerà mai piú.
L’armadio è ancora zeppo di scatole con le sue traduzioni, e gli altri manoscritti sono ancora nello schedario nell’angolo in fondo alla parete a destra della scrivania. Accanto allo schedario c’è la libreria di legno, tre ripiani lunghi un metro e mezzo con i libri che non ci entrano ammucchiati sopra, ad altezza inguine di Baumgartner, un metro e ottantacinque, ad altezza cintola di Anna, un metro e settantatre. Accanto alla libreria, nell’angolo piú vicino della parete c’è il fax con la spina disinserita, che sonnecchia in silenzio sopra a uno stretto tavolo per macchina da scrivere, con le prolunghe abbassate che pendono parallele alle gambe. La parte superiore della parete a cui sono addossati questi tre mobili è tappezzata di oggetti incorniciati e non, nessuno dei quali è stato manomesso o tolto: una decina di piccole tele e disegni di vari amici, ritratti e foto delle sue figure predilette (tra le quali Emily Dickinson ed Emma Goldman), il Pen Translation Award 1997 per le sue Poesie scelte di Fernando Pessoa, una foto di scena di La bionda e l’avventuriero con Joan Blondell che tira un cazzotto in faccia a James Cagney, un foglio da disegno incorniciato che riporta una battuta tratta da un altro film di Blondell, Abbasso le donne: «Ho diciassette centesimi e i vestiti che indosso, ma ancora non è detta l’ultima parola», la copertina originale del primo libro pubblicato da Baumgartner, L’io incarnato (1976), e una striscia con quattro istantanee di loro due abbracciati che si baciano come matti in uno dei primi appuntamenti, scattate alla macchinetta delle fototessere.
Baumgartner sorride ai due ragazzini arrapati di quelle foto sgranate in bianco e nero, poi, con un gesto teatrale, china il capo in omaggio al paese perduto della gioventú. È contento che nulla abbia turbato l’ordine, che la parete e la stanza e tutte le altre stanze siano com’erano quando si è messo a letto. E però, se in casa non è entrato nessuno, come si spiegano i rumori misteriosi che dal letto lo hanno portato in questa stanza al piano di sotto? Possibile che li abbia solo immaginati? Dopo tutto si trovava tra veglia e sonno, in quello stato ipnagogico che trasforma la mente in un circo a tre piste di strane allucinazioni visive, e magari ha avuto anche un’allucinazione uditiva. Difficile, pensa lui, data la complessità dei rumori che ha sentito, ma non da escludere dal regno del possibile.
Baumgartner si siede alla scrivania. Appena sistema le terga in posizione comoda, il telefono squilla. Il telefono rosso. Il telefono staccato che non può squillare ma che comunque ha squillato e continua a squillare.
Spaventato e incuriosito, Baumgartner capisce che i suoni del telefono che squilla sono gli stessi che sentiva mentre era a letto al piano di sopra, la stessa sequenza alternata di intervalli piú lunghi e piú brevi di rumore e di silenzio, debole e smorzata al piano di sopra, ma forte e chiara al piano di sotto, e se è cosí, allora qualunque persona o buontempone o agente invisibile abbia chiamato prima sta richiamando adesso.
Baumgartner alza la cornetta e azzarda un pronto incerto, smarrito – un pronto accompagnato da un punto interrogativo. Segue un silenzio, durante il quale si dice che sta sicuramente sognando, anche se è sveglio e non è possibile che stia sognando, e poi Anna gli parla, gli parla con la stessa voce sonora che aveva da viva, gli si rivolge chiamandolo caro e mio caro, spiegandogli che la morte non è come l’ha sempre immaginata chiunque, che loro due e tutti gli altri materialisti sbagliavano a credere che non esiste un aldilà, ma che sbagliavano anche i cristiani, gli ebrei, i musulmani, gli indú, i buddisti e tutti gli altri con i loro aldilà. Non esistono punizioni né ricompense divine, né trombe né fiamme della dannazione, né giardini delle delizie, e nessun essere umano si reincarnerà in una farfalla, in un coccodrillo, e nemmeno in Marilyn Monroe. Dopo la morte si entra nel Grande Nulla, uno spazio nero dove tutto è invisibile, un vuoto assoluto e silenzioso, l’oblio sconfinato. Non si entra in contatto con nessun altro defunto, nessun ambasciatore dal cielo o dagli inferi viene a spiegare cosa ci attende. Perciò lei non ha idea di quanto durerà la sua condizione presente, ammesso che presente possa ancora essere un termine valido in un luogo simile, che non è nemmeno un luogo ma un nulla, uno spazio indefinito sottratto a un’infinità di spazi indefiniti. Non vede niente e non sente niente perché non ha piú un corpo, nessuna estensione, come dicevano i filosofi antichi, ragion per cui non è mai stanca né affamata e non prova dolore né piacere né niente di niente, e se la si potesse misurare nello spazio, ammesso che spazio possa ancora essere un termine valido, probabilmente non sarebbe piú grande di una particella subatomica, il frammento piú minuscolo, infinitesimo del mistero cosmico. La considerasse pure un mistero, se vuole, o uno spirito, o un’emanazione dello spazio immenso e informe che ci circonda, o, molto semplicemente, una monade che pensa, e quando pensa a volte le capita di riuscire a vedere le cose che sta immaginando, a vederle bene con l’occhio della mente, se avesse ancora una mente o un occhio, che invece non ha, eppure riesce a vederle bene, quasi come quando era viva sulla terra.
Baumgartner non dice niente. Vorrebbe parlare, vorrebbe raccontarle centinaia di cose e farle centinaia di domande, ma sembra avere perso la capacità di aprire la bocca e parlare. Non importa, dice fra sé. La telefonata potrebbe interrompersi da un momento all’altro, e a che scopo parlare quando lui vorrebbe solo continuare ad ascoltare la voce di Anna finché il tempo non sarà scaduto e lei svanirà di nuovo nel buio?
Non può essere sicura di niente, dice lei, ma suppone che sia proprio lui a tenerla in quell’incomprensibile aldilà, quel paradossale stato di coscienza nella non-esistenza, che prima o poi dovrà finire, secondo lei, ma finché lui sarà vivo e ancora in grado di pensarla, continuerà a risvegliarle la coscienza con i suoi pensieri, tanto che a volte lei riesce perfino a entrare nella sua testa e a udire quei pensieri e a vedere attraverso i suoi occhi quello che sta vedendo lui. Non ha idea di come succeda, né capisce perché sia in grado di parlargli in questo momento, sa soltanto che tra i vivi e i morti c’è un legame, e che un legame profondo come quello che c’era tra loro quando lei era in vita può proseguire anche dopo la morte, perché se uno muore prima dell’altro, il vivo può mantenere il morto in una specie di limbo provvisorio tra la vita e la non-vita, ma quando muore anche il vivo, allora è la fine, e la coscienza del morto si spegne per sempre. Anna si ferma un attimo per inspirare, poi, mentre espira, gli fa una domanda per la prima volta da quando lui ha alzato la cornetta: Tu ci capisci qualcosa? Prima che Baumgartner possa risponderle, Anna smette di respirare, smette di parlare e cade la linea.Capitolo terzo
Dopo quel sogno, qualcosa in Baumgartner comincia a cambiare. Sa benissimo che il telefono è staccato e non ha squillato, che non ha sentito la voce di Anna, che i morti non continuano a vivere in uno stato di coscienza nella non-esistenza eppure, per quanto irreale sia il contenuto di quel sogno, lo ha vissuto come un’esperienza reale, e le cose che ha vissuto nel sonno quella notte non sono sparite dai suoi pensieri come succede quasi sempre ai sogni. Sono passati sei giorni da allora. Un periodo breve, eppure Baumgartner si sente come se lo avessero introdotto a forza in un nuovo spazio interiore che ha modificato le circostanze della sua vita. Non è piú imprigionato in un antro sotterraneo, senza finestre, ma in un luogo di superficie, ancora bloccato nella sua stanza, forse, ma almeno in questa c’è una finestra con le sbarre nella parte alta della parete che dà verso l’esterno, ciò significa che di giorno entra la luce e, se si stende sul pavimento con la testa nella giusta angolazione, può guardare in su e studiare le nuvole che passano nel cielo. Ecco il potere dell’immaginazione, si dice. O, molto semplicemente, il potere dei sogni. Cosí come una persona può essere trasformata dai fatti immaginari narrati in un’opera di finzione, Baumgartner è stato trasformato dalla storia che si è raccontato nel sogno. E se la camera cieca ora ha una finestra, magari un domani le sbarre spariranno e lui sarà finalmente libero di sgusciare fuori all’aria aperta.
Sarebbe assurdo credere che i suoi pensieri mantengano Anna in un aldilà disincarnato, di puro spirito, che già solo restando in vita sulla terra le abbia permesso di rimanere in contatto con lui dall’avamposto subatomico del Grande Nulla, ma dato che l’autore di queste assurdità è proprio lui, non può liquidarle subito come tali né fingere che non gli abbiano donato un po’ di conforto spirituale, perché lui è sempre stato in contatto con Anna dal giorno in cui è annegata, e se adesso ha evocato un mondo alternativo in cui lei sa che la sta pensando, può sentire che la sta pensando, può pensare che lui la sta pensando, chi può dire che non ci sia un po’ di verità? Non una verità scientifica, forse, né una verità riscontrabile, ma una verità emotiva, che alla fine è l’unica cosa che conta – i sentimenti del nostro uomo, e ciò che prova rispetto a quei sentimenti. S. T. Baumgartner, rinomato autore di nove libri e numerosi altri testi di argomento filosofico, estetico e politico, da quarantacinque anni beneamato membro del corpo docente di Princeton, anziano fenomenologo che ha passato la vita nel regno del concreto, viaggiatore solitario che arranca immerso fino alle ginocchia nelle profonde paludi ontologiche della percezione umana, ha finalmente scoperto la religione. O quella che può essere presa per religione da un uomo che non è religioso e non crede in niente all’infuori del dovere di fare buone domande sul significato di essere vivi, pur sapendo che non sarà mai in grado di trovare delle risposte.
Sei giorni dopo, le sbarre alla finestra spariscono. Neanche il tempo di capire come arrampicarsi e strisciare fuori da quel buco, che spariscono anche le pareti della stanza, e si ritrova all’aperto. È in un prato da qualche parte in piena campagna, non si vedono case né pali del telefono né altre tracce di presenza umana. L’erba alta alle ginocchia lo circonda da ogni lato e il cielo grigio sopra di lui è carico di nuvoloni sempre piú scuri. Minaccia pioggia da un momento all’altro. Si infila le mani in tasca e comincia a camminare.
Ed è cosí che Baumgartner riscopre i piaceri vivificanti, propriocettivi del movimento, il semplice gesto di mettere un piede davanti all’altro e proiettarsi nello spazio, tutto il corpo allineato sui ritmi paralleli del cuore che batte, i polmoni che si espandono e si contraggono, e il movimento costante delle gambe, sinistra-destra-sinistra-destra, e nei giorni seguenti, una volta trovata l’andatura giusta, si sente sempre piú sicuro di sé mentre continua ad attraversare il vasto prato interiore che gli si stende davanti. Poco importa se il passo è piú lento di prima, poco importa se a volte viene bersagliato da un acquazzone o percosso da un vento furioso e tagliente che soffia da est, lui resta in posizione eretta e deambulante, e ora che cuore, polmoni e gambe sono in sincrono per sostenerlo nella lunga distanza, Baumgartner ha acquisito simultaneamente una nuova lucidità mentale e una rinnovata fiducia nell’avvenire sulla base delle quali deve agire subito – altrimenti sono guai. In fondo ha settant’anni e non è piú tempo di incertezze.
Innanzitutto conclude che è arrivato il momento di andare in pensione. Abbandonerà l’attività didattica e assumerà l’augusta sia pure ininfluente carica di professore emerito, cedendo il suo posto al dipartimento a un giovane esponente della nuova generazione. Si metterà a riposo, per cosí dire, ma senza andare in esilio perpetuo, perché gli sarà permesso di mantenere il suo legame con l’università grazie all’accesso illimitato alla biblioteca e il diritto di continuare a usare il suo indirizzo email di Princeton. Le tante amicizie con i colleghi dei vari dipartimenti andranno avanti come prima, continuerà a partecipare a conferenze, dibattiti e incontri informali se e quando sarà in vena, ma per fortuna tutti gli aspetti gravosi del suo lavoro spariranno di colpo: niente piú riunioni di commissione, niente piú contrattazioni con gli studenti scontenti dei voti, niente piú beghe burocratiche. In altre parole, una vita indipendente, senza limitazioni – con l’entrata mensile della pensione che grosso modo sarà pari se non un tantino superiore allo stipendio che guadagnava in servizio attivo. Negli ultimi mesi un nuovo libro ha preso forma dentro di lui, un progetto peregrino, balzano, diverso da tutto quello che ha tentato in passato, un discorso semiserio, quasi romanzesco, sull’io in relazione all’io degli altri, chiamato Misteri del volante, a cui vuole dedicare piú tempo possibile, perché ormai il tempo stringe, e lui non ha idea di quanto gliene resti. Non solo quanti anni gli restino prima di tirare le cuoia ma, piú precisamente, quanti gliene restino di vita attiva, produttiva prima che la mente o il corpo o tutti e due comincino ad abbandonarlo, trasformandolo in un rimbambito buono a nulla, tormentato dai dolori, incapace di leggere o pensare o scrivere, di ricordare cosa gli hanno detto quattro secondi prima o di trovare le energie per farselo rizzare ancora, una mostruosità che non vuole nemmeno contemplare. Cinque anni? Dieci anni? Quindici anni? I giorni e i mesi corrono ancora piú veloci, e il tempo che gli resta volerà via in un batter d’occhio. Che orrore sarebbe crepare in abiti accademici, mentre è rannicchiato sulla scrivania a scrivere note ai margini dell’ennesima tesina. No, non deve accadere, e quando arriverà la fine, che almeno gli venga concesso di spegnersi con dignità mentre sta sfornando un’ultima frase delle sue, preferibilmente le parole finali di un sonoro vaffanculo indirizzato ai pazzi assetati di potere che governano il mondo. O, meglio ancora, di rendere l’anima mentre cammina per strada per andare a un appuntamento notturno con la donna che ama.
Si chiama Judith, ed è l’altra cosa su cui Baumgartner ha deciso che deve agire – in settimana, ora, seduta stante. Il sogno lo ha finalmente reso possibile dopo due anni di crescente intimità con lei, l’improvviso allentarsi della presa di Anna su di lui dopo dieci anni di tormento autolesionista che gli ha impedito di buttarsi anima e corpo in una delle tante storie avute con le vedove e le divorziate che sono entrate e uscite dalla sua vita durante gli anni tra Anna e Judith, ma stavolta è diverso, stavolta è innamorato, stavolta è pronto a riprovarci con il matrimonio, se lei lo vorrà, ovviamente, il che non è proprio certissimo ma alquanto probabile – si augura.
Judith ora, ma solo perché il sogno ha prodotto una nuova svolta nel suo rapporto con il fantasma di Anna, che gli ha permesso di tornare nelle stanze del passato senza piú timore di restarci intrappolato, e ora che ha rivisitato quelle stanze e ne è già di nuovo uscito, è pronto a consacrare tutte le sue energie al presente, cioè a Judith, e questo significa che il presente che ha in testa Baumgartner si riverserà inevitabilmente nel futuro – purché lei gli dica di sí anziché no.
In previsione di questo momento, di oggi, ha trascorso gran parte delle ultime tre settimane immerso nel mondo di Ieri, a rimuginare, rievocare e ripercorrere i quarant’anni trascorsi tra la prima volta che ha visto Anna quando era una ragazza di diciotto anni e l’ultima volta che l’ha vista quando era una donna di cinquantotto, morta sulla spiaggia. Stranamente non si è sentito solo. Anna era al suo fianco, hanno camminato insieme e chiacchierato dal principio alla fine, ascoltandosi e parlandosi mentre entravano e uscivano dalle stanze e attraversavano i corridoi semibui del palazzo della memoria, rivisitando centinaia di piccole e grandi cose vissute in quei quarant’anni. Inutile dire che Anna non era lí in carne e ossa, ma leggendo le sue lettere e i suoi manoscritti per la prima volta da Dio sa quanto, Baumgartner ha ritrovato la sua voce, e studiando le innumerevoli foto che lui e altri le hanno scattato nel corso della vita, ha ritrovato il suo corpo. Non il suo vero corpo, è logico, né la sua vera voce – ma quasi. Ecco il potere della memoria concesso a un uomo che ha ascoltato la voce della moglie morta che gli parlava attraverso i fili staccati di un telefono defunto.
Dalla scatola nel cassetto in basso dello schedario: l’ultimo testo autobiografico di Anna, scritto nemmeno un anno prima della morte ma che torna al lontano passato per raccontare la storia di come, perché e in quali circostanze Baumgartner alla fine le aveva chiesto di sposarla – nelle ore piccole dell’intensa notte di novembre del 1972 in cui Anna aveva rischiato la morte.
COMBUSTIONE SPONTANEA
Quando mi laureai ero già innamorata di S. Ormai non mi interessava nessun altro, neanche lontanamente, segno che il mio cuore era tutto nelle sue mani, e siccome S. mi amava esattamente quanto lo amavo io, il suo cuore era tutto nelle mie mani, segno che potevamo considerarci una coppia, due solitari innamorati cotti che andavano d’accordo sulle cose importanti e non avevano nessuna intenzione di separarsi. Malgrado tali certezze, non ci venne mai in mente di mettere su casa insieme, e nessuno dei due pronunciò mai la parola matrimonio. Eravamo ancora troppo giovani per fare progetti, troppo inquieti per esserci formati un’idea chiara del futuro, e quando riuscivamo a pensare in prospettiva, dubito che andassimo piú in là di qualche settimana o mese. Per il non ancora venticinquenne S., il futuro significava finire la tesi su Merleau-Ponty entro metà primavera e conseguire il dottorato in filosofia, dopodiché avrebbe deciso cosa fare. Per l’appena ventiduenne che ero io, il futuro significava continuare a scrivere le mie piccole poesie gnomiche e adattarmi alle esigenze del mio primo lavoro a tempo pieno, che mi fruttava ottantasette dollari e cinquanta centesimi a settimana.
A quei tempi Heller Books era una nuova impresa, una casa editrice non ancora nata ufficialmente che faceva i salti mortali per pubblicare la sua prima lista di titoli in autunno. Le disponibilità erano limitate, tanto che quell’estate eravamo solo in tre a lavorare con il ventottenne Morris Heller – un caporedattore, un responsabile di produzione e la sottoscritta, l’elemento piú giovane della squadra, impegnata nel doppio ruolo di redattrice e assistente personale di Morris, che mi aveva assunta perché i romanzi tradotti rappresentavano una parte fondamentale del catalogo e io sapevo bene il francese e lo spagnolo. Prendevamo tutti uno stipendio bassissimo, e ogni mattina raggiungevamo uno squallido ufficio di Lower West Broadway, appena dieci isolati a nord del cantiere per il World Trade Center, proprio in mezzo al quartiere attualmente noto come Tribeca, che a quei tempi non aveva ancora un nome. Triangle below Canal, il triangolo sotto Canal Street. Una zona abbandonata di edifici industriali ottocenteschi dove un pugno di artisti avevano allestito i loro atelier e dove dopo le cinque diventava tutto buio, ma nei primi anni Settanta gli affitti laggiú erano bassi, piú bassi che in qualsiasi altra parte di Lower Manhattan, e Morris doveva farsi bastare i pochi soldi che aveva.
Trentacinque anni dopo vedo ancora noi quattro sgobbare alle rispettive scrivanie nello stanzone con tre pareti rivestite di librerie e schedari in metallo, un vecchio loft, grezzo, essenziale, con il soffitto di latta e il pavimento di legno scheggiato, senza aria condizionata ma con tre finestre gigantesche che correvano lungo la parete prospiciente la strada offrendoci luce in abbondanza, e in estate, quando faceva caldo, ovvero sempre, non si poteva fare altro che accendere i tre ventilatori industriali a piantana e aspettare la raffica scarmigliatrice ogni cinque secondi virgola due. Una tregua breve ma piacevole dalle sudate di quei giorni canicolari, però che groviglio orrendo mi si formava sul cucuzzolo della testa per colpa di quei ventilatori, e cosí il primo sabato di riposo entrai con passo marziale da una parrucchiera, mostrai una foto di Jean Seberg in Fino all’ultimo respiro, poi un’altra di Audrey Hepburn in Vacanze romane e chiesi una via di mezzo tra le due. Sicché mi tosarono la chioma, e quando S. mi disse che stavo da dio con quel taglio sbarazzino, mi lasciai i capelli cosí e da allora non ho mai smesso di portarli corti.
Visto che lavoravo nella zona sud di Manhattan, sarebbe stato logico abitare a due passi dall’ufficio, preferibilmente sotto la Quattordicesima, ma anche la topaia piú sordida del Village era fuori dalla mia portata. Dopo due settimane di ricerca accanita, non mi riuscí di meglio che restare a Morningside Heights, il mio vecchio quartiere negli ultimi quattro anni nonché una parte della città da cui volevo andarmene a tutti i costi, ma poi un’amica del Barnard stava lasciando il suo appartamento in Claremont Avenue e io presi il suo posto, dividendo quell’alloggio grande e brutto con altre tre ragazze, due dottorande della Columbia e un’attrice dallo sguardo triste e di sempre meno speranze che faceva la cameriera in una tavola calda di Broadway qualche isolato piú a sud. Beata lei. Un lavoro a due passi da casa. Intanto io andavo avanti e indietro sulle linee del trasporto locale dell’Irt fra la Centosedicesima e Chambers cinque volte a settimana, all’incirca undici chilometri in ciascuna direzione, quasi due ore di pendolarismo al giorno. Il lavoro valeva la pena, secondo me, ma l’appartamento era repellente, una stamberga in macerie, infestata di scarafaggi in un quartiere in sfacelo, che pullulava di tossici e di schiere di matti sbattuti per le strade dopo la chiusura dei manicomi. Un periodo sciagurato, turbolento della capitale del mondo, alias la Città del divertimento. Mattone dopo mattone, New York demoliva se stessa. Le casse pubbliche si stavano prosciugando, e i numeri crescevano da una settimana all’altra: piú aggressioni, piú omicidi, piú scippi, piú stupri. Con tutti gli eroinomani che giravano dalle mie parti, serravo automaticamente i pugni ogni volta che incrociavo uno di quegli spaventapasseri inscimmiati con gli occhi a capocchia di spillo, chiedendomi se non fosse venuto anche per me il momento di vedermi puntare un coltello mentre una voce tremula annunciava che sarei finita con la gola tagliata se non consegnavo subito questo, quest’altro e tutto il resto che avevo addosso.
Per fortuna avevo le mie possibilità di fuga, e durante quei primi mesi di lavoro, metà delle notti le passai da S. Però, anche se a quel punto avessimo voluto vivere insieme, ma non era cosí, lí dentro non sarebbe stato possibile. Il microalloggio del mio amore era formato da una sola stanza, e poiché in quella stanza mancava già lo spazio per vivere da soli con un minimo di comodità, occuparla stabilmente in due era proprio impensabile. Immaginate la coppia felice dividere un angusto monolocale con due finestre luride affacciate su un muro di mattoni, un materasso di gommapiuma appoggiato sopra nove casse del latte a mo’ di talamo nuziale, una scrivania e una sedia per due persone che passavano la maggior parte del tempo scrivendo, una delle quali era anche una redattrice, una libreria con sei mensole stracolme, un angolo cottura con un lavandino di metallo poco profondo, un fornello a due fuochi senza forno, e un minifrigo incastrato nello spazio in teoria destinato al forno, un tavolo microscopico per mangiare, provvisto di due sgabelli bassi che quando non servivano stavano sotto il tavolo, un armadio con una sbarra orizzontale per le grucce e una cassettiera tozza che sfiorava l’orlo delle giacche e le camicie appese, e infine un bagno abbastanza grande per un’antiquata vasca con i piedini ad artiglio e parecchie altre torri di libri addossate a una parete. S. non si raccontava favole sul suo appartamento al terzo piano senza ascensore e ammetteva senza problemi che era di una bruttezza inenarrabile ma io ci ho trascorso alcune delle ore piú belle della mia vita e adesso, ogni volta che ripenso a quel periodo, vedo piú che altro noi due nudi e insaziabili che ci rotoliamo nel letto durante le nostre estatiche abbuffate di sesso notturno, o me che mi sveglio presto per correre al lavoro mentre S. continua a dormire e io mi fermo a guardarlo sbracato sul materasso, il mio uomo geniale, con le gambe lunghe, i capelli arruffati e gli occhi incredibili, il mio complice, il mio amico-amante, il mio fedele, spiritoso compagno di strada per l’avvenire, e siccome mi dispiaceva andarmene senza salutarlo, nebulizzavo sopra di lui qualche spruzzatina d’acqua di colonia al mughetto, cosí quando avrebbe aperto gli occhi una parte di me sarebbe stata ancora lí.
Poi arrivò la sera di mercoledí 22 novembre, vigilia del Ringraziamento e nono anniversario dell’assassinio di Kennedy a Dallas. Dopo una giornata di lavoro particolarmente lunga, Morris offrí una cena prefestiva a tutti i suoi collaboratori in un ristorante francese del Village. Ne venne fuori una serata chiassosa e piena di brio che andò avanti per tre ore o tre ore e mezza, e appena l’allegra combriccola di guerrieri della letteratura finí di scolarsi l’ultimo goccio di cognac, andai a prendere la metropolitana in Sheridan Square con sette dollari e qualche spicciolo in borsa, chiedendomi se mi conveniva prendere l’Irt locale fino alla Centosedicesima o scendere e prendere l’espresso alla Quattordicesima e poi riprendere il locale alla Novantaseiesima – i pensieri profondi di una ragazza un po’ brilla che rincasa alle undici di sera dopo quindici ore passate ad ammazzarsi di lavoro e di cibo. Non ricordo se presi un treno soltanto o se cambiai, ma arrivai nel mio quartiere verso mezzanotte meno un quarto. Una buia notte di novembre, con il freddo che entrava nelle ossa e una nebbia che avvolgeva i lampioni in un alone lucente, sfocato. La luna si nascondeva dietro le nuvole, nel cielo non c’era neanche una stella. Per prima cosa l’incrocio tra Broadway e la Centosedicesima, poi la Centosedicesima in discesa verso il fiume, seguita dalla brusca svolta a destra in Claremont Avenue, e i sei isolati a piedi davanti a me. Qualche passante solitario nei primi duecento metri, poi nessuno. Una distesa buia fra me e casa, e nient’altro che il rintocco dei miei passi sul marciapiede mentre immaginavo di entrare nell’appartamento e infilarmi nel letto. Tra la Centodiciannovesima e la Centoventesima, un uomo sbucò dall’ombra, girò su se stesso lentamente, con indolenza, e si piantò in mezzo al marciapiede, sbarrandomi la strada. Troppo buio, troppa nebbia, non si vedeva bene. Forte o debole, vecchio o giovane, impossibile capirlo, anche il viso, benché a pochi centimetri dal mio, era solo il lampo bianco degli occhi, il crittogramma di una persona, una macchia nella notte, ma sentivo il suo odore, respiravo il fiato acre che gli usciva di bocca e mi arrivava in faccia, mi entrava nel naso, mi invadeva da capo a piedi, poi lui disse: – Fuori i soldi, sennò ti sventro –. Sentii scattare la lama e quando vidi avvicinarsi alla mia faccia quello che doveva essere il coltello, in testa cominciò ad andarmi tutto al rallentatore, e capii o credetti di capire che era rallentato tutto perché stavo guardando la morte in faccia, e che quelli erano gli ultimi momenti della mia vita. Quanti secondi mancano, mi chiesi, e mentre il mio respiro accelerava e si mischiava col suo che si aggiungeva al mio, di colpo ricordai che quel mattino mi ero messa le scarpe basse, e se quelli erano i miei ultimi momenti sulla terra, mi dissi, meglio non arrendersi e vendere cara la pelle, e cosí, anziché aprire la borsa, sganciargli i miei sette dollari e aspettare che mi desse una coltellata perché erano troppo pochi, mi voltai e mi misi a correre, a correre a rotta di collo, a correre come non correvo dai tempi in cui Frankie Boyle mi aveva superato in quinta elementare, a correre come avrei corso se Frankie mi avesse allenato a correre piú veloce della morte, e me ne andai, sfrecciando in Claremont Avenue nella nebbiosa notte di novembre, correndo piú forte che potevo per sfuggire all’uomo con il coltello, e anche se intuivo che era rimasto troppo stupito dal mio scatto improvviso per inseguirmi o che era troppo lento o troppo debole per provarci, continuai a correre verso la Centosedicesima e su per la salita, proseguii lungo Broadway per cinque o sei o sette isolati e poi, quando mi fermai un attimo a riprendere fiato, vidi venirmi incontro un taxi, alzai il braccio e, incredibile ma vero, il tassista si fermò. Montai su e gli dissi di portarmi sull’Ottantacinquesima tra Columbus e Amsterdam Avenue. Sudavo col cappotto invernale e avevo i brividi allo stesso tempo, avevo caldo e freddo allo stesso tempo, e mi sentivo svuotata, senza neanche un pensiero in testa.
Quando arrivammo nei pressi dell’Ottantacinquesima, mi venne l’ansia di non trovare S. Forse era andato al bar con gli amici del basket, o a trovare un collega filosofo, o stava facendo il filo a quella bonona della cameriera bionda ossigenata della tavola calda aperta tutta la notte in Columbus Avenue, tra l’Ottantaduesima e l’Ottantatreesima, e quando suonai il campanello del suo appartamento, mi preparai a non ricevere risposta. Infatti. Suonai di nuovo, giusto per sicurezza, ma di nuovo nessuna risposta. Mi misi seduta nel piccolo androne, sul pavimento con le mattonelle rotte, appoggiai la schiena alla parete con il citofono e le cassette della posta e chiusi gli occhi, sforzandomi di pensare alla mia prossima mossa, ma ero ancora troppo svuotata e non riuscivo a pensare a niente. Un bel pianto mi avrebbe fatto bene, mi dissi, e mentre cercavo di spremermi le lacrime, il portone si aprí, ed ecco S., reduce da una scappata a comprare le sigarette. Si era assentato al massimo dieci minuti. Per il resto, era rimasto tutta la sera in casa a lavorare alla tesi.
Si spaventò, è logico, rimase profondamente turbato e si arrabbiò parecchio. Non potevo tornare lí, gli spiegai, ero stufa di Claremont Avenue e della Centoventiduesima, mi sarei cercata un’altra casa, ma intanto cosa potevo fare? Stare da lui, è logico, rispose, che ci voleva a capirlo? Ma non ci entriamo, dissi.
– Lo so, – disse lui, – però sarebbe solo per poco, un mese forse, al massimo due. Intanto cominciamo a cercare un appartamento piú grande. In fondo qui sono in subaffitto, e devo comunque sgombrare entro febbraio. Potremmo andare ad abitare a downtown, giú in fondo a downtown, cosí in ufficio ci vai a piedi, e tanti saluti all’Irt.
– Nel senso di andare a vivere insieme? Sei sicuro?
– Stanotte ti potevano uccidere, e se penso a come mi sarei sentito, sono sicuro, sí. Anzi, piú sicuro che mai, del resto lo ero già la prima volta che ti ho visto. E adesso, Anna, sono cosí sicuro che non solo voglio vivere con te, ma voglio vivere con te per sempre.
– Per sempre?
– Per sempre.
– Mi stai chiedendo di sposarti?
– Esatto. Ti sto chiedendo di sposarmi. Prima è meglio è.
Non sapevo cosa dire, cosí restai in silenzio e lasciai quell’idea folle e inaudita sospesa nell’aria mentre S. entrava in bagno e apriva i rubinetti della vasca. Mi ci voleva proprio un bel bagno caldo e cosí lo seguii, mi spogliai e mi adagiai nell’acqua con gli occhi chiusi mentre S. mi lavava delicatamente con una spugna liscia e spessa. Ricordo che sentivo lo sciabordio nella vasca, ma per il resto nell’appartamento non c’era nessun rumore, nessun rumore al mondo. Poi, dopo quelle che sembrarono ore, aprii gli occhi e cominciai a ridere, e un attimo dopo risposi di sí.
Quarantasei anni piú tardi, mentre per la seconda volta in vita sua si prepara a chiedere a una donna di sposarlo, Baumgartner teme soprattutto che Judith lo respinga perché è troppo vecchio per lei. Con Anna c’erano solo due anni e mezzo di differenza. Con Judith sedici, e a cinquantaquattro anni lei viaggia ancora a tutta birra, mentre lui no, non piú, ma procede lemme lemme (nelle giornate migliori), e qualche volta arranca (nelle peggiori). Finora questo scarto non ha causato gravi problemi a livello di sesso, né gliene vengono in mente ad altri livelli, e a quanto gli sembra, nello scorrere immediato e quotidiano del presente nulla minaccia l’affetto che li lega, ma una proposta di matrimonio cambierà le carte in tavola e la spingerà senz’altro a pensare al futuro, e se considerasse come sarà la sua vita tra dieci o vent’anni, la prospettiva di dormire accanto a un uomo di ottanta o novant’anni potrebbe farla scappare a gambe levate. Grazie, vecchio mio, ma non m’interessa, tra l’altro come diavolo ti è venuto in mente? Baumgartner teme un’eventuale umiliazione, ma allo stesso tempo sa che se non trova il coraggio di farle la proposta, si sentirà un vigliacco e si ridurrà un po’ alla volta a un vecchio amareggiato, un Prufrock traballante, eternamente roso dal rimpianto.
Il nome per intero è Judith Feuer, insegna teoria e critica del cinema a Princeton. È arrivata al campus all’inizio degli anni Duemila, prima della tragedia di Cape Cod, in tempo per fare amicizia con Anna, che andava matta per i vecchi film americani degli anni Trenta e Quaranta e aveva trovato un’interlocutrice ideale in Judith, che sembrava la massima esperta mondiale di quei film, e siccome all’epoca Judith era ancora sposata con Joseph Frederickson – ex romanziere promettente ma fallito che si guadagnava da vivere sfornando gialli di successo ma di seconda categoria – le due coppie ogni tanto univano le forze cenando al ristorante o nelle rispettive abitazioni. Baumgartner ha sempre apprezzato Judith, molto meno il marito, ma all’epoca quello che gli importava di piú era che lei e Anna andassero cosí d’accordo, perché Anna aveva molte amiche ma poche amiche vere, e stavolta sembrava averne trovata una, solo che poi Anna era morta, e addio. Judith era stata di una gentilezza incredibile con lui durante i primi mesi della sua crisi – lunghe chiacchierate al telefono, visite improvvisate per controllare come stava che gliela avevano fatta apprezzare ancora piú di prima – e poi il suo profondo cordoglio per la morte di Anna che in un certo senso aveva consolato anche lui. Dopodiché si era presa un anno sabbatico, e quando era tornata Baumgartner era già partito alla febbrile e disordinata conquista di varie vedove e divorziate di Princeton, New Brunswick, Brooklyn, Manhattan, spingendosi addirittura fino a Shelter Island, un grumo di terra tra la North e la South Fork nella parte orientale di Long Island. Giri a vuoto su una strada verso il nulla, ma quelle avventure occasionali lo avevano distratto e tenuto occupato, e senza dubbio lui all’epoca non cercava né era capace di fare altro. Era rimasto in contatto con Judith, ma meno legato a lei, e si sentivano sempre piú di rado. Poi, nel 2014, quel bestione di Joe Frederickson era scappato nel New Mexico con un’agente immobiliare che aveva la metà dei suoi anni, e Judith si era improvvisamente ritrovata nel pieno di un divorzio che si era trascinato per oltre un anno. Era stato allora che aveva ripreso a chiamarlo e a chiedergli consigli, spiegando che siccome lui aveva vissuto un’unione lunga e felice con una persona preziosa (testuali parole, preziosa) come Anna, pensava di poter contare sul suo aiuto per superare la tempesta. Poi gli aveva detto che era saggio, parola che nessuno, all’infuori di Anna, aveva mai usato nei suoi riguardi, e siccome era saggio, aveva aggiunto, era la persona di cui si fidava di piú in assoluto. Lusingato e scombussolato da quell’elogio, Baumgartner si era schiarito ripetutamente la gola e le aveva chiesto come l’avevano presa i figli. Per fortuna, aveva detto Judith, erano tutti e due dalla sua parte, e tutti e due, in successione, le avevano confessato di essere contenti che si fosse finalmente liberata di quel maniaco (Eric, ventiquattro anni, genio informatico che lavorava a Boulder, Colorado) e quell’egocentrico maschio di merda (Libby, ventidue anni, aspirante documentarista a Berkeley). Baumgartner si era messo a ridere e aveva detto, secondo me sei già un pezzo avanti, Judith, e quando si era messa a ridere anche lei era cominciato il balletto lento e solenne che ha portato alla sua imminente proposta di matrimonio.
Dopo aver riflettuto parecchio sull’argomento, Baumgartner ha concluso che nell’ambito delle tante differenze piccole e grandi tra Anna e Judith, la piú grande è la seguente: Judith è una madre e Anna non lo era. Lui e Anna avrebbero voluto fare un figlio, forse addirittura piú di uno, ma quando ci si erano messi di buzzo buono dopo circa sei anni di matrimonio, non era successo niente. Con zero risultati, dopo centinaia di notti, mattine e pomeriggi di sesso non protetto in tutte le angolazioni e le posizioni contorte possibili e immaginabili, avevano preso a consultare i medici, sia insieme sia separatamente, prima un’équipe, poi una seconda équipe e infine una terza équipe, e tutte avevano convenuto che né lui né Anna avevano il corredo genetico per procreare, un dato scientifico inverosimile ma tre volte dimostrato che si traduceva in un’unione senza figli per entrambi a prescindere dalle persone con cui si sarebbero accompagnati.
Era stato un duro colpo, senza dubbio la cosa piú difficile che avevano dovuto affrontare insieme, ma almeno avevano potuto condividere la delusione, visto che erano responsabili allo stesso modo della brutta carta che gli era toccata, e questo aveva fugato ogni possibile rancore o muta recriminazione e li aveva lasciati liberi di continuare ad amarsi come prima, se non piú di prima. Un mattino avevano parlato di adozione per un paio d’ore, ma né lui né lei ne erano particolarmente entusiasti. Non volevano il figlio di una sconosciuta, ne volevano uno loro o nessuno, e se il destino aveva decretato che non ce ne sarebbe stato nessuno, cosa potevano fare se non accettarlo? Il tempo era passato e con gli anni si erano trasformati in una di quelle coppie perennemente giovani, due ragazzi che invecchiavano lentamente, liberi dalle responsabilità e dalle preoccupazioni di quasi tutti gli altri coniugi, Baumgartner e Blume, spesso compatiti e a volte invidiati, quelli sterili che non avevano figli e quindi vivevano soltanto l’uno per l’altra e per il proprio lavoro. A Baumgartner era bastato, gli era bastato e avanzato per tutti gli anni trascorsi con Anna, e anche adesso, quando pensa a quanto sarebbe stata diversa la loro vita se fossero riusciti a mettere al mondo dei figli, gli basta ancora. Non gli avanza, ma gli basta.
Questo è il primo dato – la maternità – ma ci sono numerose altre differenze, a cominciare dal loro aspetto, diametralmente opposto, che in fondo è un particolare quasi ininfluente per Baumgartner, ma che vale la pena di tenere presente. Anna, col fisico slanciato da nuotatrice, il seno piccolo e i fianchi stretti, le braccia lunghe e le eleganti spalle squadrate, i capelli corti castano rossicci e gli occhi ardenti grigio-verdi, l’opposto di Judith, che è piú morbida, piú rotonda, e piú larga di fianchi, piú grossa di sedere, piú prosperosa di petto, con gli occhi castano scuro e la capigliatura folta dello stesso colore, non la bellezza cocente che Baumgartner vedeva ogni volta che guardava Anna, ma pur sempre una donna seducente, molto attraente, dalle movenze piú lente e languide dell’agile e scattante Anna, con un viso caldo, accogliente che lo cattura ogni volta che la guarda e lo tiene nella sua orbita, incantato e vigile, avvincendolo proprio come un tempo lo avvinceva Anna. Nessun’altra donna gli ha mai fatto questo effetto. Solo Anna e Judith – il che forse spiega perché si è innamorato di entrambe e gli è venuto il desiderio di sposarle e passare la vita con loro, prima con una e adesso con l’altra.
Diverso il fisico, diversa anche l’indole. Questione di caratteristiche innate, per certi versi, e del modo in cui le madri le avevano toccate, tenute in braccio e accudite quando erano in fasce e poi bambinette, ma anche il risultato del modo diverso in cui avevano reagito alle circostanze quasi identiche della loro infanzia. Uno privo di mezzi come Baumgartner, nato in una famiglia piccolo-borghese che faticava a tirare avanti, stenta ancora a capacitarsi delle ricchezze e delle comodità che circondavano Anna e Judith da bambine. Il dottor Leo Blume, nato anche lui in una famiglia priva di mezzi e costretto a lavorare per pagarsi gli studi di medicina, si era trasformato in un otorinolaringoiatra con un ambulatorio cosí ben avviato che nel 1954 aveva permesso a lui, alla moglie e alla loro unica figlia di trasferirsi da un bilocale nel quartiere di Crown Heights a Brooklyn a Livingston, New Jersey, in una villa a piú livelli dove Anna aveva abitato per quattordici anni, fino alla fine delle superiori. Nello splendore di quel regno erboso e pieno d’alberi, la piccolina era stata benedetta da tutte le fortune che poteva offrirle il denaro paterno: una camera spaziosa solo per lei, mensole e scatole stracolme di giocattoli, lezioni di piano, lezioni di danza, una moltitudine di libri, vestiario di ottima qualità, pasti sani e abbondanti, campi estivi, feste di compleanno con torte personalizzate, un cane, un altro cane dopo la morte del primo e, in breve, tutto quello che voleva anche quando non lo voleva. Di solito non lo voleva. Almeno non a undici o dodici anni, cioè da quando aveva imparato a pensare con la propria testa, e a quel punto il suo atteggiamento verso la vita che conduceva in quanto figlia supercoccolata della frangia piú ristretta dell’alta borghesia aveva cominciato a trasformarsi da cieca complicità a sorda resistenza a ribellione in piena regola. Sapeva che i genitori l’amavano, e nonostante tutto li amava anche lei, ma allo stesso tempo li detestava perché avevano dato credito al mito americano secondo cui il denaro era la misura di tutte le cose proprio mentre si fingevano in pena per i milioni di persone ridotte in povertà, rimaste schiacciate dalle ruote dello stesso sistema grazie al quale loro si erano ritrovati dalla parte dei cosiddetti vincitori. Buon per i suoi genitori, pensava Anna, ma lei non c’entrava niente con quelle idiozie e in futuro non le avrebbe mai accettate, ma nel frattempo, poiché era ancora un’adolescente senza né arte né parte imprigionata nel castello di Livingston, poteva fare ben poco se non lottare per ritagliarsi un territorio indipendente all’interno del regno governato dai suoi genitori. Non era stato facile difendere quello spazio, e negli anni successivi aveva combattuto battaglie a non finire, ma un po’ alla volta era riuscita ad abituare i genitori a rispettare i confini che aveva tracciato, sostenendo che i bei voti a scuola la esentavano da qualsiasi rimprovero, e se le loro visioni del mondo divergevano, bastava solo farsene una ragione. In fondo l’avevano incoraggiata loro a leggere, e adesso che era emigrata nel paese dei libri e aveva deciso di diventare una poetessa, dovevano essere contenti che non si fosse lasciata traviare come molte sue amiche negli ultimi due anni, Debbie e Alice, per dire, che si erano trasformate in due fricchettone che si facevano le canne, o Maureen, quella cicciottella che allargava le gambe al primo che la degnava di uno sguardo, o Angela, che si era innamorata di un disadattato che rubava le auto, mentre loro erano fortunati, diceva ai genitori, ad aver prodotto una cosí brava ragazza.
A un certo punto, nelle prime settimane dell’ultimo anno delle superiori, con i pensieri rivolti ancora piú insistentemente al futuro, Anna aveva fatto un patto con i genitori. Voleva andare al college, aveva detto, ne aveva bisogno, e siccome sapeva che lo volevano anche loro e che erano ben felici di pagarglielo, lei avrebbe accettato volentieri – e con gratitudine – i soldi con cui l’avrebbero mantenuta per quei quattro anni. Ma poi basta, aveva annunciato, da quel momento in avanti se la sarebbe cavata da sola come un’adulta indipendente, senza alcun aiuto da genitori, parenti o chicchessia. Il padre Leo e la madre Rachel avevano reagito a quella dichiarazione con molta piú calma del previsto, senza dubbio perché la loro cocciuta e intrattabile figlia stava parlando di qualcosa che sarebbe avvenuto solo di lí a cinque anni, ed era probabile che a quel punto fosse già maturata abbastanza per cambiare idea. Una posizione ammirevole, aveva detto il padre, rivolgendosi ad Anna con il tono piú ragionevole che poteva, ma se ti trovassi in difficoltà economiche? Dovremmo starcene a guardare senza muovere un dito mentre tu muori di fame? Anna si era messa a ridere. No, certo che no, aveva detto, al che loro avevano preso la palla al balzo strappandole la promessa che li avrebbe chiamati appena si fosse trovata nei guai. La trattativa era andata avanti, ma alla fine Anna li aveva costretti a dargliela vinta sul fatto che guai significava Rompere il vetro solo in caso di massima emergenza.
Ovviamente l’avevano sottovalutata. I cinque anni erano trascorsi, la diciassettenne Anna si era trasformata nella ventiduenne Anna, e il giorno dopo aver ricevuto il diploma di laurea dalle mani del preside del Barnard College, era scesa dal trono di principessa americana borghese correndo immediatamente al circo. Poco importa che le attrazioni principali di quello squallido tendone fossero la topaia di Claremont Avenue, l’ancor piú piccola topaia di Baumgartner sulla Ottantacinquesima Ovest, e il lavoro sottopagato da Heller Books – il punto era che se la stava cavando, si stava facendo strada da sola. Come aveva detto per scherzo Baumgartner un mattino, piazzandole un microfono immaginario sotto il naso: Signorina Blume, molti economisti e sociologi potrebbero interpretare questa sua nuova vita semiproletaria come un esempio estremo di mobilità accelerata verso il basso. Lei cosa ne pensa? Al che Anna aveva risposto: Grazie, signor Baumgartner. Ai professori posso solo dire questo: Ancora non avete visto niente, ragazzi!
Poi era arrivata la notte del 22 novembre, cominciata con Anna che offuscata dalla nebbia e dalla paura sfuggiva in velocità all’incontro con la morte, e finita con lei esultante che prometteva di sposare Baumgartner appena possibile. Il pomeriggio seguente avevano preso un autobus al Port Authority Terminal ed erano andati a Livingston per la cena del Ringraziamento a casa dei genitori di Anna. Durante i cento e uno minuti che avevano impiegato ad arrivarci, Baumgartner era riuscito a convincere Anna che i loro problemi abitativi avevano tutti i requisiti di un caso di massima emergenza, dato che dovevano assolutamente spostarsi in un alloggio piú grande, e la dura realtà era che non potevano permetterselo, visto che per firmare un contratto d’affitto bisognava sborsare la rata del primo mese, la rata dell’ultimo mese e un deposito cauzionale che equivaleva alla rata di un altro mese – tutto in una volta. Lui comprendeva la sua decisione di non accettare oboli dai genitori, e capiva i tanti motivi per cui non voleva piú dipendere da loro, ma quel giorno li avrebbero informati dei loro progetti matrimoniali e, nell’emozione che sarebbe inevitabilmente seguita, la madre di Anna avrebbe attaccato a parlare del ricevimento, che senz’altro le frullava per la testa da anni e che ormai si era tramutato in un evento costoso e spettacolare, una prospettiva orrenda e indigesta per entrambi, ma alla fine, aveva detto Baumgartner, sarebbero stati spesi migliaia di dollari per loro, che gli piacesse o no, perciò l’unica soluzione sensata era dire ai genitori di Anna di non buttare soldi per un baraccone inutile ed effimero di un giorno ma di investirli, almeno parzialmente, nel futuro della figlia e del genero, che cosí avrebbero potuto stabilirsi in un appartamento decente da qualche parte e cominciare insieme con il piede giusto. Me ne occupo io, aveva detto Baumgartner. Dopo vent’anni di pratica, avranno imparato tutti i trucchi su come discutere con te, mentre invece non hanno mai battagliato col sottoscritto, e se lasci parlare me, credo che avremo piú possibilità. Ci sposiamo in municipio, dirò, i testimoni saranno solo loro due, dopodiché si va tutti e quattro a fare un pranzo favoloso in un ristorante chic di Midtown. Quando tua madre obietterà dicendo che le stiamo dando una delusione, anzi, un dolore immenso, le tirerò su il morale proponendole di organizzare una festa per noi all’incirca due settimane dopo, una cosa di domenica pomeriggio a casa loro, che gli costerà un millesimo di quanto gli sarebbe costato un matrimonio in pompa magna, una cosa informale, insomma, dove potranno esibirti in sexy tubino nero da cocktail alle tue due nonne e cinque zie e quattro zii e dodici cugini e a qualche decina di amici, e una volta concluso il mio discorsetto, quell’uomo pratico e gentile di tuo padre si girerà verso quella donna intelligentissima ma un po’ svampita di tua madre e dirà: Il ragazzo ha ragione, Rachel, e se vogliono un matrimonio cosí, bisogna accontentarli. Anna aveva sorriso, riducendo gli occhi a due fessure, scrutando Baumgartner come se non lo riconoscesse. Senti un po’, aveva detto, da quant’è che mi sei diventato cosí subdolo e calcolatore, Herr Baumgartner? Anziché risponderle, Herr Baumgartner aveva baciato sulle labbra la sua futura sposa e aveva detto: Un’ultima cosa, Anna. Non lasciarti sfuggire neanche mezza parola su quello che ti è successo ieri sera in Claremont Avenue, intesi? Intesi, disse lei. Né oggi, né domani, neanche mezza parola, mai.
Erano stati gli unici soldi che avevano preso dai genitori di Anna, ma a quei tempi diecimila dollari come regalo di nozze erano una somma talmente colossale che li aveva messi in condizione di alzare gli occhi al cielo senza piú dovere preoccuparsi di quando gli sarebbe crollato addosso. Avevano trovato un comodo appartamento con due camere da letto e uno studiolo in Barrow Street nel West Village, e l’autunno seguente, quando Baumgartner si era aggiudicato un incarico da ricercatore nel dipartimento di filosofia della New School, entrambi avevano potuto andare al lavoro a piedi. Non era cambiato niente per altri dodici anni. Avevano continuato a vivere nel loro rifugio di Barrow Street, Anna aveva continuato a lavorare da Heller Books, dove da redattrice era diventata caporedattrice e si era messa anche a tradurre, e Baumgartner aveva continuato a insegnare alla New School, dove era passato da ricercatore a professore associato a professore ordinario e aveva scritto i suoi libri sulla fenomenologia della lettura e la politica della paura, composti dalla prima all’ultima parola nel suo studiolo in fondo all’appartamento, dall’altro lato del corridoio rispetto alla stanzetta dove Anna scriveva le sue poesie, rivedeva i testi dei suoi autori e traduceva i suoi libri. Il punto era questo: era la prima età d’oro della loro vita insieme, che non sarebbe mai andata com’era andata se quella testarda idealista di Anna non avesse ceduto un po’ di terreno e accettato i soldi dei genitori per trasformare la guerra che aveva combattuto per se stessa in una guerra per entrambi.
Con Judith, era tutto uguale ma al contrario. Famiglia ebrea facoltosa dei sobborghi di New York (Westport, Connecticut), padre ambizioso, lavoratore indefesso, con studio legale a Manhattan specializzato in diritto societario, madre casalinga e lettrice assidua, e infanzia con un fratello e una sorella minori colma dello stesso tipo di vantaggi toccati ad Anna, ma a differenza della tormentata Anna, la giovane Judith aveva abbracciato il benessere in cui era nata senza metterlo in discussione. Cheerleader al liceo, pensa te, capoclasse al terzo anno, voti alti e tanti amici, una vincente che con quattro salti era arrivata fino a Yale. Malgrado la medesima estrazione, lei e Anna non hanno niente o pressoché niente in comune, ed è proprio quel niente a stupire di piú Baumgartner ogni volta che prova a domandarsi come ha fatto a innamorarsi di due donne tanto diverse. La ruvida, diretta e spontanea Anna e adesso la calma e sofisticata Judith, la strepitosa e spigliata Judith, personalità eminente nel mondo del cinema che ha fatto parte delle giurie dei festival piú prestigiosi e che finora ha pubblicato quattro libri e ne ha in serbo un quinto, mentre l’esuberante ma introspettiva Anna ha consacrato il suo immenso talento letterario alla traduzione di testi altrui e nascosto il meglio di sé tenendo nascoste le sue poesie al mondo.
Judith le ha lette e sa che sono molto belle, e una sera di nove mesi fa, poco tempo dopo essersi finalmente reso conto di quanto sia ormai importante Judith per lui, Baumgartner ha imbastito una conversazione tra il serio e il faceto uscendosene con una teoria folle e strampalata sul fatto che in una delle sue ultime poesie Anna gli aveva predetto una storia d’amore con una donna di nome Feuer, una poesia scritta da tanto di quel tempo che Judith era ancora in seconda o terza elementare, ma intanto eccola lí, le ha detto quella sera, mentre sedevano vicini sul divano del salotto di lei, eccola lí, non c’erano santi, e poi le ha spiegato che appena pensa al nome Feuer, che in tedesco significa fuoco, pensa anche alla piccola poesia di Anna, Lessico, quella sul fiorellino senza nome, il puntino rosso acceso che spunta dall’asfalto e la avvolge nel suo incantesimo, e siccome Anna di cognome fa Blume, che in tedesco significa fiore, immagina che per qualche strana alchimia, il fiore che si trasforma in fiamma in realtà è Blume che si trasforma in Feuer, la fiaccola che passa da Anna a Judith, ed eccolo lí alla fine della poesia, proprio Herr Baumgartner, l’uomo birichino ino ino che sorride ad Anna dall’altro lato della strada, con il fiore-fuoco fiammeggiante nell’occhiello della giacca, che sorride perché è felice e vuole ringraziarla del regalo che gli ha fatto, che saresti tu, cara Judith, ha detto Baumgartner, mia ardente, raggiante donna-fuoco, che luccica al buio come un fiammifero acceso.
Era il suo modo per dirle che ormai occupa un posto accanto ad Anna nella sua mente, e quando Judith gli ha preso la mano, se l’è portata alla bocca e l’ha baciata, Baumgartner ha avuto la certezza che lei capisce le sue intenzioni. Era ancora troppo presto per andare allo sbaraglio con un’esplicita dichiarazione d’amore, e cosí è ricorso a quel sofistico esercizio di stravagante analisi letteraria, il primo passo verso il momento in cui troverà il coraggio di mettersi a nudo. Dopo quella sera sono andati avanti come prima, vedendosi due o tre volte alla settimana, preparando la cena da lui o da lei e poi guardando un film oppure non guardandone nessuno perché continuavano a parlare di lavoro o dei figli di Judith o dell’Ubu psicopatico alla Casa Bianca o si raccontavano aneddoti del loro passato e poi andavano a dormire insieme fino al mattino. Stesso tran tran, ma Baumgartner ha sentito che si stanno avvicinando e che le barriere invisibili tra loro (cautela? insicurezza? paura?) stanno crollando a poco a poco. Poi Baumgartner ha fatto quel sogno, la lunga passeggiata con Anna nel palazzo della memoria, e una volta tornato, la sua cautela, la sua insicurezza e la sua paura si sono dissolte a poco a poco. Quel niente in comune ancora lo confonde, ma anziché interpretarlo come l’ennesimo segno del suo approccio incoerente e difettoso alla vita, ora vede quel niente come una forza positiva. Judith non è Anna, e se e quando la convincerà a sposarlo, la vita che condurrà con lei non sarà il proseguimento della sua vita con Anna ma una vita nuova, completamente diversa, e cosa potrebbe chiedere di piú uno che è giunto alla sua età? La possibilità di ricominciare. La possibilità di correre ancora dei rischi e cavalcare il vortice di tutto il bello e il brutto che lo attende.
È sabato 11 agosto 2018. Alle sette di sera in punto, Baumgartner si incammina per i quattro isolati da casa sua a quella di Judith, portando dodici rose rosse nell’incavo del braccio destro e stringendo saldamente i gambi senza spine con la mano sinistra, mentre valuta dove e in quale momento converrà farle la proposta. Meglio subito, pensa, poiché rimandare servirebbe solo a renderlo nervoso ogni minuto di piú, e se è meglio non perdere tempo, perché non passare subito all’azione? Comincia a figurarsi la scena, che dovrebbe svolgersi piú o meno nel modo seguente: appena Judith aprirà la porta lui le porgerà i fiori, lei sorriderà e lo ringrazierà con un tenero buffetto sulla guancia, poi andranno tutti e due in cucina a scartare i fiori e a cercare un vaso abbastanza grande dove metterli, e siccome la cucina è un posto cosí accogliente, cosí intimo, senza dubbio il posto migliore della casa per fare domande difficili, di quelle che cambiano la vita, riempirà d’acqua il vaso mentre Judith spunta i gambi, e una volta sollevato il vaso pieno dal lavandino, lo porterà da lei e lo appoggerà sul piano di lavoro, e Judith metterà le rose nel vaso e ci perderà un po’ di tempo, spostandole e rispostandole finché non sarà soddisfatta, e a quel punto lui si avvicinerà da dietro, le cingerà i fianchi, si sporgerà in avanti ad accarezzarle il collo con le labbra e dirà, con il suo tono piú suadente e confidenziale: Stavo pensando…
È la fine di un altro caldo pomeriggio nel New Jersey centrale, la terra delle paludi di mirtilli, degli sciami di zanzare e delle lunghe estati umide. Come aveva previsto chiudendo la porta di casa, Baumgartner ha già la camicia sudata quando imbocca la strada di Judith. Manca ancora un’ora al tramonto ma il cielo comincia già a mostrare i primi deboli segni del crepuscolo e del buio che avanza, con furtivi tocchi di rosa e arancione ai bordi delle nuvole e uno stormo di rondini in picchiata in lontananza, piccole meraviglie visive che ripagano delle ore di sudore e pelle appiccicosa. Baumgartner sta percorrendo l’isolato di Judith, mancano solo sei case. Sente una stretta ai polmoni, gli sta venendo un nodo allo stomaco, ma proprio mentre la tremarella lo invade da capo a piedi, si costringe ad accelerare il passo, sapendo che deve portare a termine la sua missione, anche se finirà per costargli la vita. Prende a sinistra il vialetto di Judith, si ferma un attimo a risistemare i fiori che ha in braccio, si riferma un attimo a riempire d’aria i polmoni, e un attimo dopo ancora suona il campanello.
All’inizio tutto sembra andare come immaginava, ma una volta che lei ha finito di perdere tempo con i fiori, spostandoli e rispostandoli finché non è soddisfatta, quando si avvicina ad abbracciarla da dietro, cingendole i fianchi, lui non esordisce dicendo Stavo pensando… ma facendole una domanda: Ti basta cosí… o vuoi di piú? È una frase oscura, formulata male, e Judith fatica a capirla. Che intende con cosí, gli chiede, e che cosa dovrebbe volere di piú? È una domanda proprio strana, dice, perché lei è assolutamente felice di essere proprio dov’è in questo momento, in cucina con lui che la tiene abbracciata e le strofina la bocca sul collo, e come potrebbe chiedere di piú se già le basta e avanza quello che ha? Baumgartner si scusa di non essere stato chiaro. Non sta parlando di questo momento, dice, che non potrebbe essere migliore o piú perfetto di cosí, ma siccome (la bacia sul collo) si sente esattamente come lei, e siccome (la ribacia sul collo) quello che hanno creato insieme negli ultimi due anni è cosí profondo e cosí bello, le ha fatto quella domanda balorda per scoprire se vuole lasciare le cose come stanno o fare qualche cambiamento (le massaggia il seno mentre la ribacia sul collo), perché la verità, dice, è che due o tre volte a settimana a lui non bastano piú e vorrebbe che iniziassero a passare piú tempo insieme, il piú possibile, e si chiede se non è mai venuto in mente anche a lei, e in ogni caso, se l’idea le piace oppure no.
Ah, dice Judith, ora capisce. Dentro quel suo cervello incredibile girano un centinaio di piccole trottole, per cui vorrebbe sedersi e parlarne, giusto? Liberando il braccio sinistro dalla sua presa, gli indica il tavolo della cucina mentre Baumgartner lascia cadere le braccia lungo i fianchi e Judith, con il passo felpato dalle eleganti pantofole cinesi, va a prendere una bottiglia di vino fresco in frigo. Nel frattempo Baumgartner prende due bicchieri da un pensile sopra il piano di lavoro e tira fuori un cavatappi dal primo cassetto, e quando li mette sul tavolo, Judith gli sta già mettendo la bottiglia accanto. Prendono le sedie e si siedono, faccia a faccia ai lati opposti del tavolo, e all’improvviso ecco che è arrivato per lui il grande momento.
Baumgartner apre il vino e ne versa due bicchieri. Li alzano per brindare, bevono un sorso, e appena riabbassano i bicchieri e li rimettono sul tavolo, Judith comincia.
Stanno vivendo un periodo stupendo, dice, e prima d’ora non era mai stata cosí felice con un uomo. Poco ma sicuro. Lo ama e, anche se lui non si è mai dichiarato, sa che la ama, e ora che ha piú facilità a seguire i suoi percorsi mentali, capisce che quel discorso di passare piú tempo insieme è un modo per prepararla alla domanda ben piú importante che ha intenzione di farle fra tre o quattro minuti.
Mi leggi nel pensiero, eh? dice Baumgartner.
Veramente no. È solo che io pure ci avrò pensato seicento volte negli ultimi due mesi.
E che cosa hai deciso?
Ho deciso che sono entusiasta ogni volta che ci penso. Ho deciso che sono spaventata ogni volta che ci penso. Ho deciso che mi serve piú tempo per decidere, e che per il momento voglio andare avanti come siamo andati avanti finora e poi si vedrà.
Mentre le ultime parole di Judith si fanno strada dentro di lui, Baumgartner comincia a perdere lucidità. Si sente la testa strana, come se il cranio gli si stesse dilatando e riempiendo di vuoto, di vuoto, e ancora altro vuoto, lasciandolo stordito, disorientato, sempre piú distante. Come un pugile, pensa lui, come un pugile che combatte un incontro fuori categoria, lo hanno steso con un gancio sinistro, ma Baumgartner è ancora cosciente, non è ancora sconfitto, e mentre si rialza lentamente dal tappeto sulle gambe malferme, riesce a dire: Prima che iniziassimo a dormire insieme, ho vissuto otto anni da solo senza soffrirci troppo, ho tirato avanti con quella che definirei una forma sopportabile di isolamento angoscioso, ma appena sei entrata nella mia vita, tutto è cambiato, e ormai io odio vivere da solo. Quando dormiamo da me, al mattino vai via e io mi ritrovo solo nel vuoto di tutte quelle stanze a rimpiangere la tua presenza, e quando dormiamo qui da te, sono io che al mattino me ne devo andare e tornare in quella casa vuota, infestata dai fantasmi. La solitudine uccide, Judith, ti divora un po’ alla volta finché non resta piú niente. Non si può vivere senza legami con gli altri, e se abbiamo la fortuna di essere profondamente legati a un’altra persona, cosí tanto che teniamo all’altra persona come a noi stessi, vivere diventa non solo possibile, ma anche bello. Quello che abbiamo è bello, ma non basta piú, o comunque a me no, e non capisco perché dovrebbe spaventarti il pensiero di sposarmi.
Vede l’intensa concentrazione negli occhi di Judith, la guarda raccogliere le idee, poi, con la massima delicatezza, lei dice: Le nostre situazioni sono completamente diverse, Sy. Tu hai perso Anna, dopo un’unione lunga e stupenda, e sei rimasto distrutto per anni. Io sono uscita da un’unione lunga e brutale con un uomo che ho finito per disprezzare, e nessuno era piú felice di me quando ha fatto le valigie e se n’è andato. Sono passati solo quattro anni, e da allora sono una donna libera, naturalmente devo sempre rispondere del mio lavoro, ma per il resto non dipendo da nessuno, ho il controllo assoluto di ogni decisione che prendo. Ecco perché sto a New York cosí spesso: perché mi va. Mi invitano da tutte le parti, e se voglio andare a una conferenza o una proiezione o una prima, ci vado. Mi piace tutto quel movimento, mi dà la carica, poi torno a Princeton per fare lezione e stare con te, l’uomo che amo, l’uomo che voglio continuare ad amare finché mi sopporterà, cioè per sempre, spero, e quindi come potrei volere di piú? È la vita che ho sempre sognato, Sy, e ora che la sto vivendo davvero, me la godo il piú possibile.
La conversazione va avanti per un’ora e mezza, ma dopo venti o trenta minuti stanno già cominciando a ripetersi, rivangando sempre gli stessi argomenti, variando giusto un poco l’approccio al problema, perché pur non essendo d’accordo sul da farsi, hanno ben chiari i rispettivi punti di vista e arrivano perfino a comprenderli, ma benché condivida la sua brama di libertà, autonomia e realizzazione, dice a Judith, Baumgartner non capisce affatto perché dovrebbe credere che verrebbero a mancarle se andassero a vivere insieme, e qui si ritrovano ad affrontare il tema delicato delle loro unioni precedenti, perché lui e Anna sono riusciti a essere liberi e realizzati vivendo insieme nella stessa casa, mentre Judith si è sentita sempre piú soffocare da quel trombone incattivito di Joe, ecco perché lei esita a buttarsi, dice, e lui invece saltella sulla tavola del trampolino, impaziente di tuffarsi. Le serve tempo, dice, e lui non deve spingerla a prendere una decisione se non è pronta, ed è un’osservazione giusta, si rende conto Baumgartner, quasi un altolà, perciò invece di portare avanti il proprio ragionamento lascia perdere, chiudendosi la bocca proprio quando sta per dirle che tutto questo non c’entra niente con Anna o Joe, e che questa storia è piú urgente per lui che per lei perché lei ha piú tempo di lui, e visto come lei interpreta la parola tempo, c’è da credere che lui sarà morto molto prima che lei arrivi a prendere una decisione. Ciò nonostante, la ritirata strategica nel silenzio comincia ad abbassare la temperatura in cucina, e poco dopo lei gli sta già facendo una piccola ma importante concessione. Una delle difficoltà della loro organizzazione attuale sta nel fatto che due o tre giorni alla settimana è troppo vago, dice lui. È piú o meno acquisito che i due giorni siano martedí e mercoledí, ma il terzo giorno è una continua fonte di problemi che sfocia sempre in un’ansiosa giostra di telefonate e messaggi per capire se è confermato o no, e se è confermato, parte un’altra giostra per stabilire dove, come e quando, e se invece non è confermato succede che alla fine si fa schifo da solo visti i suoi sforzi inutili per una cosa che poi si risolve in una bolla di sapone grossa come una casa. Ti serve piú tempo per rispondere alla mia proposta piú grande, non lo metto in dubbio, le dice, ma qui si tratta di una proposta molto piú piccola, e secondo me sarebbe meglio per entrambi se combinassimo per il terzo giorno, che di solito cade di sabato, per cui vada per il sabato, costi quel che costi, e se capita che è sabato e tu vuoi andare a New York, vengo anch’io e ti accompagno ovunque hai intenzione di andare, a una conferenza o una proiezione o una prima, e poi dormiamo in un albergo superlusso e alla domenica mattina ordiniamo il servizio in camera. Sempre se non hai qualche bel maschione in fregola nascosto in un rifugio segreto sulla Seconda Avenue, nel qual caso, ovviamente, non insisto.
Davanti alla sua patetica imitazione di un duro del cinema, Judith scoppia a ridere. Fa’ poco lo spiritoso con me, cocco, dice. Io un bel maschione nella mia vita ce l’ho già, chiaro? E ha le iniziali uguali alle tue, chiaro? Perciò chiudi il becco e baciami.
Fine della conversazione. Judith ha rifiutato, ma allo stesso tempo gli ha offerto una briciola, di cui in teoria dovrebbe essere grato, e forse lo è, eppure, contentandosi di cosí poco dopo aver sperato in cosí tanto, si rende conto che è stato ridotto al livello di un mendicante che bussa all’uscio secondario di un palazzo e chiede alla sguattera di corte qualche misero avanzo raggranellato dal piatto della regina.
Quando torna a casa l’indomani pomeriggio, ovvero quattro giorni prima dell’anniversario della morte di Anna, sa che sarà sposato una volta sola nella vita. Judith continuerà a nicchiare finché lui non si arrenderà e se ne andrà oppure rimarrà dov’è e accetterà di stare alle sue regole finché non arriverà il giorno che sarà lei ad andarsene. È troppo vecchio per lei, non lo sposerà mai, anche se a modo suo lo ama davvero, forse quanto la ama lui, che però è solo una parentesi nella sua vita mentre guarisce dalle ferite che Joe le ha inferto negli anni, e appena si sarà ripresa del tutto cadrà fra le braccia di uno piú giovane ed eccitante di lui e amen.
Siccome tutto questo si verifica nel giro di nove mesi, e siccome Judith non solo lascia Baumgartner per un altro ma lascia anche il New Jersey e se ne va in California perché ha accettato una cattedra presso il dipartimento di cinema alla Ucla, faremo a meno di un resoconto particolareggiato di quei mesi. Finiremo invece il capitolo con Baumgartner seduto alla sua scrivania, penna in mano, un’ora dopo essere tornato da casa di Judith il 12 agosto 2018. Sta buttando giú un’altra delle tante favolette che ha scritto negli anni, cose da nulla che scarica in un cassetto e che non si è mai curato di far leggere a nessuno, nemmeno ad Anna. Tuttavia continua a scriverle nei momenti in cui è molto provato, e poiché quel pomeriggio Baumgartner ha il morale sotto le scarpe mentre piange la morte di quella che gli sembra sia stata la sua ultima possibilità amorosa, forse questa piccola confabulazione aiuterà il lettore a comprendere lo stato d’animo del nostro eroe in quel particolare momento di quel giorno in particolare.
CONDANNA ALL’ERGASTOLO
Avevo appena compiuto diciassette anni quando il presidente del tribunale del Northern District emise la sentenza e mi condannò, stando alla sua definizione, a un ergastolo a scrivere frasi. Questo accadeva piú di mezzo secolo fa, e da allora vivo da solo in una cella al terzo piano del Penitenziario n. 7. Obiettivamente la pena fu severa ma, a onore delle autorità, va detto che la porta della mia cella non è mai stata chiusa a chiave, e non dubito che, volendo, sarei potuto uscire di qui in qualunque momento. La tentazione, certo, mi è venuta ma, per motivi che non ho mai compreso fino in fondo, ho scelto di rimanere.
Il mio carceriere, che adesso è vecchio almeno quanto me se non di piú, non mi ha mai rivolto la parola. Da oltre cinquant’anni viene a portarmi i pasti tre volte al giorno, e nei primi vent’anni ha riso tre volte al giorno quando entrava e mi vedeva ingobbito sul tavolo al lavoro sulle mie frasi. Nei vent’anni successivi ha ridacchiato coprendosi la bocca con la mano. Ora si limita a scuotere la testa e a sospirare.
Nella cella a due porte di distanza dalla mia c’era un altro detenuto, un certo Bronson o Brownson, e a volte parlavamo del vitto scadente e delle coperte sottili dei nostri letti, ma da cinque o sei anni Bronson o Brownson non mi dice piú niente, e ciò probabilmente significa che è morto. Lo avranno senz’altro portato via una notte mentre dormivo.
A giudicare dal silenzio in corridoio in questi giorni, mi sa che sono l’ultimo rimasto nel reparto isolamento della prigione. Sembra triste, forse, ma non è cosí male. Scrivere una frase richiede un grande sforzo, e un grande sforzo richiede grande concentrazione, e, siccome per costruire un’opera composta da frasi, a una frase deve inevitabilmente seguirne un’altra, questa grande concentrazione è richiesta per tutto il giorno, ragion per cui le mie giornate passano in fretta, come se ogni ora segnata dall’orologio non durasse piú di un minuto. Dopo cinquant’anni abbondanti di giornate che passano in fretta, è come se la mia vita fosse trascorsa in un baleno. Sono diventato vecchio, ma siccome le giornate passavano in fretta, nel complesso mi sento ancora giovane, e finché riesco ancora a tenere una matita in mano e a vedere ancora la frase che ho davanti, immagino che continuerò con lo stesso tran tran che seguo dal mattino del mio arrivo qui. E se poi verrà il momento in cui non potrò piú continuare, non dovrò fare altro che alzarmi e andarmene. E se a quel punto sarò troppo vecchio per camminare, chiederò al mio carceriere di aiutarmi. Sono sicuro che sarà lieto di vedermi andar via.