INTIFADA PATINATA E RIVOLUZIONE DA 20.000 DOLLARI AL METRO QUADRO
Alex West
2025-06-26
Non è ancora sindaco di New York, ma è già entrato nella storia. Zohran Mamdani ha vinto le primarie democratiche nella città più simbolica d’America, e lo ha fatto con una campagna tanto radicale nei contenuti quanto seducente nella forma. Al centro della sua proposta politica c’erano l’abolizione della polizia, la revoca dello status di nonprofit per varie organizzazioni ebraiche, la legalizzazione della prostituzione, l’eliminazione delle carceri giovanili, la rottura con ICE e una visione dell’America modellata sulla retorica BDS.
Ma la novità è il modo in cui queste posizioni sono state veicolate: non attraverso toni rabbiosi, bensì con un’estetica morbida, levigata e filtrata ad arte. Il risultato è stato la creazione di un candidato–influencer capace di apparire al tempo stesso radicale e rassicurante, rivoluzionario e cool, ma soprattutto fotogenico.
La vittoria di Mamdani segna un punto di svolta non tanto per i suoi contenuti—già presenti da tempo nel repertorio dell’estrema sinistra americana—quanto per la loro estetizzazione. Ogni video diffuso sul social durante la sua campagna utilizzava lo stesso filtro morbido, con toni caldi, ritmo pacato, primi piani sorridenti. Il messaggio era chiaro: non state votando un militante, ma un volto amico. Non un incendiario, ma un giovane gentile, sensibile, alla mano. Il merito va in gran parte attribuito alla madre del candidato, regista di fama internazionale, che ha saputo costruire attorno al figlio una narrazione visiva coerente, patinata, vagamente utopica. Quella che alcuni commentatori americani hanno già definito una forma di “vibe warfare”.
Non ha però funzionato con gli elettori neri e latini, che infatti lo hanno in larga parte ignorato, appoggiando Cuomo.
In particolare, molti afroamericani accusano Mamdani di una forma di “anti-Blackness” mascherata da radicalismo: un progressismo estetico che ignora le priorità concrete delle comunità nere, latine e in generale working-class, impone un codice ideologico paternalista e idealizza cause lontane più di quelle locali. La sua base elettorale non è quindi arrivata dai quartieri popolari, ma da un’America molto bianca, giovane e benestante. Figli di famiglie altoborghesi che vivono a Park Slope, Carroll Gardens, Williamsburg—i quartieri radical chic in cui giovani in Birkenstock e look grunge sventolano bandiere palestinesi dalle finestre di appartamenti da 20mila dollari al metro quadrato, in cui vivono a carico dei genitori. Elettori spesso non avvezzi a votare, ma attratti dall’idea di partecipare a un atto di Giustizia Sociale.
Uno degli aspetti più preoccupanti è l’effetto Mamdani sul discorso pubblico. Appena confermata la sua vittoria alle primarie, migliaia di utenti su X e Instagram hanno cominciato a pubblicare post minacciosi o sarcastici all’indirizzo della comunità ebraica di New York: “Domani si fanno le liste”, “E vai coi rastrellamenti”, “Giornata storica – paura eh?”, “fuori i sionisti da NY!”, “tornerete alle docce”, ecc. Non solo da parte di adolescenti radicalizzati, ma da professionisti, giornalisti, account con nome e cognome e foto reali. L’elezione di Mamdani ha accelerato lo sdoganamento e la normalizzazione dell’antisemitismo che già era evidente nei college e nelle proteste. Ora si esterna apertamente, senza alcuna remora.
D’altronde, lo stesso Mamdani non ha mai fatto mistero delle sue posizioni. Durante una convention DSA ha esordito scherzando “se non applaudite El-Yateem, siete sionisti”—una battuta che nessuno si sarebbe permesso di fare riferendosi ad altri gruppi etnici o religiosi. In un video circolato durante le proteste per Gaza, Mamdani viene ripreso mentre insulta membri della comunità indiana definendoli “Hindu bastards” per non essersi uniti alla causa palestinese. Il fatto che una simile frase—che pochi anni fa avrebbe distrutto la carriera di qualsiasi politico—non abbia avuto conseguenze, è indicativo dell’immunità simbolica di cui gode chi si presenta come rappresentante degli Oppressi.
In generale però il suo linguaggio resta volutamente ambiguo: si presenta come pacifista ma simpatizza per chi invoca la dissoluzione di Israele; parla di inclusività, ma celebra “intifade globalizzate”.
Proprio questa ambiguità è il segreto del suo successo. Secondo Christopher Rufo, Mamdani non è un islamista, ma un “regime leftist” che ha compreso perfettamente il valore simbolico dell’Altro esotico all’interno della galassia progressista terzomondista – perfetto per una sinistra estetizzante, più attratta dalla rappresentazione che dal contenuto, per la quale le categorie del marxismo classico sono state sostituite da segni, rappresentazioni, identità. Non importa cosa si propone in termini concreti, ma ciò che si sa evocare. E Mamdani evoca alla perfezione l’immaginario desiderato: il volto gentile dell’utopia anticolonialista, il profeta sorridente della giustizia poetica, il sogno filtrato dell’America Buona e Giusta.
C’è un precedente, ed è quello della campagna di Obama. Anche lì, il contenuto contava meno del linguaggio visivo, della promessa generica di speranza, del tono, dell’icona. Con una differenza fondamentale, però: Obama era un uomo di straordinaria intelligenza e preparazione, con una reale esperienza politica. Mamdani, al contrario, non ha mai avuto un lavoro vero. È il simulacro di un leader.
A questo si aggiunge un ulteriore elemento di inquietudine: la maggior parte delle misure da lui promesse non solo sono economicamente insostenibili, ma esulano del tutto dalle competenze dell’amministrazione municipale. Qualcuno glielo avrà pur fatto notare. Il che solleva un dubbio: e se fosse tutto calcolato? Se il suo obiettivo non fosse realizzare qualcosa, ma solo vincere? L’intera campagna sarebbe allora fondata su un profondo cinismo mascherato da idealismo, in cui le promesse impossibili servono a mobilitare l’entusiasmo, e l’inevitabile fallimento verrà imputato ad altri. Ai poteri forti, o magari al “complotto ebraico”.
A novembre, comunque, si vota davvero. Il ballottaggio per la carica di sindaco sarà determinato da un elettorato molto più ampio rispetto a quello delle primarie, e le priorità potrebbero cambiare. Temi come la sicurezza, il degrado urbano, la scuola, la metro, la gestione dei servizi pesano molto più delle battaglie simboliche. L’attuale sindaco Eric Adams, con i suoi limiti, conserva un certo consenso nelle comunità nere e latine. Andrew Cuomo, pur segnato dagli scandali che lo hanno travolto durante la pandemia, ha ancora una base moderata. Se il fronte centrista non sarà troppo frammentato, la vittoria finale di Mamdani non è del tutto garantita.
Come osservato da Rufo, il vecchio asse politico basato sul compromesso tra leadership bianche (soprattutto italo-irlandesi), voto nero e voto latino sta perdendo potere, mentre emergono nuove alleanze tra attivisti bianchi radicalizzati e blocchi etnici organizzati, in particolare sud-asiatici. La sinistra progressista ha creato un’identità ideologica che si fonda sul rifiuto simbolico della “whiteness” e sulla sacralizzazione della vittima. In questo nuovo schema morale, Mamdani è il candidato perfetto: un simbolo vivente, una maschera rituale, un filtro patinato con cui le nuove élite possono giocare alla rivoluzione.
Non è detto che diventi sindaco, ma è già un simbolo. E in un’epoca dominata dalla politica dell’immagine, questo può contare ancor più di un semplice mandato elettorale.