IL MEDIORIENTE E LA SINDROME DI STOCCOLMA DELLE NOSTRE ÉLITE
Di Alessandro Tedesco
Tempo fa, su queste pagine, avevamo proposto ai nostri lettori un pezzo sferzante della scrittrice femminista americana Phyllis Chesler. Con sgomento, Chesler si interrogava su come le giovani donne americane, privilegiate ed eredi delle lotte femministe, potessero manifestare in favore di Hamas e del regime iraniano, tifando di fatto per i misogini più sadici del pianeta.
Poteva sembrare un fenomeno lontano, una bizzarria confinata ai campus della Ivy League, uno di quegli eccessi che solo l’America sa produrre. Ma si sa, come sempre, l’America ci precede nelle mode. E non solo in quelle innocue. Dalle abitudini alimentari alle più astruse battaglie culturali, gli States tracciano la rotta, e il Vecchio Continente, con un ritardo quasi comico, si accoda.
E così, oggi, assistiamo alla messa in scena della versione italiana di quel copione. La stessa, sconcertante dinamica si manifesta qui da noi.
Questa “moda” intellettuale ha un nome, o forse due. Esiste in psicologia una perversione dell’istinto di sopravvivenza nota come Sindrome di Stoccolma: la vittima, in una situazione di prigionia, sviluppa un legame affettivo, quasi una forma di amore, per il proprio carceriere. È l’atto estremo di difesa di una mente che, per non soccombere, si costringe a vedere umanità nel carnefice. Questa dinamica, che sembra confinata ai manuali di criminologia, trova oggi una sbalorditiva applicazione nel dibattito pubblico occidentale, dove intere élite intellettuali sembrano aver sviluppato una bizzarra empatia per i nemici giurati della loro stessa civiltà.
Ma c’è di più. A questa sindrome potremmo affiancarne un’altra, una sorta di Sindrome di Stendhal rovesciata. Se la sindrome classica fa vacillare i sensi di fronte al sublime della bellezza, al capolavoro che toglie il fiato, la sua versione perversa e contemporanea paralizza l’intelletto di fronte al sublime dell’orrore.
Invece di provare repulsione per il brutto assoluto – la violenza, la tirannia, l’oppressione – una certa intellighenzia ne resta estasiata. Si perde ad analizzarne le “complessità”, le “sfumature”, le “contraddizioni”, fino a smarrire il giudizio morale. Il boia non è più solo un boia: diventa un affascinante oggetto di studio, quasi un’opera d’arte dark da interpretare.
È in questo incrocio tra la Stoccolma politica e la Stendhal dell’orrore che prosperano le più contorte giustificazioni per regimi come quello iraniano. E le protagoniste di questo cortocircuito sono spesso donne, giornaliste e politiche, che in teoria dovrebbero essere le prime a ululare di rabbia per le sorelle iraniane. Invece, ci offrono analisi così raffinate da far scomparire le vittime dall’equazione.
Prendiamo a esempio alcuni post scritti sulla piattaforma X.
Come quello di Natalie Tocci, politologa e editorialista e direttrice dell’Istituto Affari Internazionali, che lamenta la “confusione orwelliana in Europa” e ci spiega, con la pacatezza di chi la sa lunga, che “il regime iraniano potrà anche essere spregevole”, ma il vero problema è Israele che lo ha attaccato “in palese violazione della Carta delle Nazioni Unite”. Un’argomentazione impeccabile, se non fosse che tratta la Repubblica Islamica come un qualsiasi stato-nazione e non come una teocrazia carceraria che da decenni destabilizza il Medio Oriente (e non solo). La preoccupazione non è per chi muore dentro l’Iran, ma per la violazione di una norma internazionale da parte del suo nemico. Le vittime del regime? Dettagli trascurabili sull’altare dell’anti-americanismo.
Le fa eco Laura Boldrini, paladina dei diritti che, di fronte alla possibilità che il regime degli ayatollah venga messo in discussione, rispolvera il grande classico: “la democrazia non si esporta con le bombe”. Cita Iraq, Libia, Afghanistan, dimenticando che nessuno di quei disastri assolve la brutalità intrinseca del regime di Khamenei. Anzi, la sua preoccupazione più grande è che un attacco esterno possa “ricompattare la società iraniana” attorno ai suoi aguzzini. È un’idea quasi commovente nella sua ingenuità: il popolo che lotta per la libertà, sotto le bombe, si stringerebbe per amore attorno agli ayatollah. Un capolavoro di pensiero magico che riflette “un atteggiamento indulgente quando non addirittura di collaborazione con gruppi che rappresentano un islam fondamentalista”.
E poi c’è la narrazione più sottile, quella che incarna perfettamente, purtroppo, l’elemento tragico della sindrome di Stoccolma e la Stendhal rovesciata: Cecilia Sala. Lei non difende il regime, ci tiene a precisarlo. Si limita a descrivere un Iran pieno di rave, di donne laureate in materie STEM, di una società vibrante che “si diverte quanto noi, forse più di noi”. Un quadro affascinante, quasi romantico.
Peccato che questa narrazione, pur partendo da elementi di verità, serva a creare una nebbia che offusca la realtà delle gru e dei cappi, delle torture e delle soppressioni. “Impiccano tre iraniani al giorno”, scrive, ma subito dopo ci ricorda che le donne pilotano gli aerei. È una tecnica retorica geniale: si ammette l’orrore per poi annegarlo in un mare di dettagli “cool”. Il risultato? Chi definisce l’Iran “medievale” è un ignorante. Il boia resta, ma ha un volto più moderno e interessante. Non è una difesa, è peggio: è un’operazione di rebranding estetico dell’orrore.
Ma se queste sono le forme più o meno intellettualizzate della sindrome, c’è chi getta la maschera della diplomazia e della nuance e arriva al punto. È il caso della giornalista Stefania Maurizi, che in un impeto di sincerità disarmante, dichiara: “Sono un po’ delusa che l’Iran non abbia bombardato un po’ più di basi militari israeliane o magari anche una bella base militare americana in Italia, così, tanto per chiarire l’antifona.”
Qui, il salto di qualità è vertiginoso. Non siamo più nel campo della geopolitica da salotto o della fascinazione culturale. Siamo al tifo esplicito per un’aggressione militare contro il proprio paese o i suoi alleati. Il “dispiacere” della giornalista non è per le donne impiccate o per gli oppositori torturati, ma per la presunta inefficacia militare del regime. È il punto di arrivo della Sindrome di Stoccolma: la vittima non solo si innamora del carnefice, ma lo incita a essere più spietato, auspicando che una bomba sul suolo italiano possa finalmente “chiarire l’antifona” a chi, evidentemente, non ha ancora capito.
Come si spiega questa strana attrazione? La brillante psicologa Phyllis Chesler, nel suo articolo fulminante già citato nell’ introduzione, ci offre una chiave di lettura spietata. Parlando delle giovani americane che tifano per Hamas, si chiede perché “donne così privilegiate ed istruite […] dovrebbero tifare per gli stupratori maschi e gli assassini maschi”. Forse, scrive, è la sindrome della “Bella che vuole domare la Bestia”. O forse, più cinicamente, è “opportunismo politico di persone privilegiate che si atteggiano come vittime-paria”. Phyllis Chesler
Questa tesi si salda perfettamente con la riflessione dello psicanalista Massimo Recalcati sulla fuga dalla libertà. Come il popolo ebraico nel deserto che rimpiange la schiavitù, forse c’è una parte dell’Occidente che, terrorizzata dalla “vertigine della libertà e della responsabilità”, cerca inconsciamente un Padrone.
Così, mentre le donne iraniane rischiano la vita, le ragazze e i ragazzi si guardano bene dal riprodurre in pubblico note diverse dalle musiche prodotte dal tar, il setar, il kamancheh, (guardatevi il fantastico film del regista iraniano Bahman Ghobadi “I gatti persiani”) le nostre opinioniste, al sicuro nelle loro democrazie, giocano a fare le analiste sofisticate. Vittime di una doppia sindrome, quella di Stoccolma e quella di una Stendhal perversa, si innamorano della “complessità” del mostro. Sono convinte di essere dalla parte giusta della storia mentre, nei fatti, forniscono alibi intellettuali a un sistema di morte, ipnotizzate dalla bruttezza che hanno scambiato per profondità.