domenica 1 giugno 2025

LA PASSEGGIATA Robert Walser

 


LA PASSEGGIATA
 

Robert Walser

In questi giorni in cui, essendo  esplosa la primavera dopo tanta pioggia, è bello passeggiare il mio pensiero è andato ad un piccolo capolavoro della letteratura mondiale.

L’impianto è in apparenza realistico, il protagonista esce per una lunga passeggiata durante la quale incontra persone, animali, piante, cose, descritte con profonda sensibilità. Il cammino durerà l’intera giornata, dalla mattina alla sera, quasi una metafora del viaggio della vita.

Robert Walser, grande amante delle passeggiate, è  un sognatore un po’ anarchico che s’intestardisce nel cercare di fermare l’inafferrabile bellezza delle cose. Ciò che mi colpisce della sua passeggiata è la leggerezza che a tratti contrasta con la prosaicità e pesantezza del mondo reale che incontra nel suo cammino. Un’attenzione costante e delicata viene riservata alla natura, presenza assai rassicurante.

Ma La passeggiata ha anche un significato peculiare in rapporto a tutta l’opera di Walser: è in certo modo la metafora della sua scrittura nomade, perpetuamente dissociata e abbandonata agli incontri più incongrui, casuali e sorprendenti, come lo è appunto ogni accanito passeggiatore – e tale Walser era –, che abbraccia amorosamente ogni particolare del circostante e insieme lo osserva da una invalicabile distanza, quella del solitario, estraneo a ogni rapporto funzionale col mondo. In un décor di piccola città svizzera, e della campagna che la circonda, il passeggiatore Walser ci guida, con la sua disperata ironia, in un labirinto della mente, abitato da figure disparate, dalle più amabili alle più inquietanti. Da Eichendorff a Mahler, il vagabondaggio è stato un archetipo ricchissimo della più radicale letteratura moderna. Tutta quella grande tradizione sembra condensarsi, quasi clandestinamente, nella Passeggiata di Walser, a cui lo scrittore ci invita col suo irresistibile tono: «Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore d’incontrare professori, visiti di passata librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e con attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi azzuffi fieramente con sarti perfidi e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto».

LA PASSEGGIATA

Un mattino, preso dal desiderio di fare una passeggiata, mi misi il cappello in testa, lasciai il mio scrittoio o stanza degli spiriti, e discesi in fretta le scale, diretto in strada. Sulle scale mi venne incontro una donna dall’aspetto di spagnola, di peruviana o di creola, che ostentava non so quale pallida e appassita maestà.

Per quanto mi riesce di ricordare, appena fui sulla strada soleggiata mi sentii in una disposizione d’animo avventurosa e romantica, che mi rese felice. Il mondo mattutino che mi si stendeva innanzi mi appariva così bello come se lo vedessi per la prima volta. Tutto ciò che scorgevo mi dava una piacevole impressione di affettuosità, di bontà, di gioventù. In breve dimenticai che fino a poco prima, su nella mia stanzetta, ero rimasto ad almanaccare tetramente su un foglio bianco. Mestizia, dolore e tutti i pensieri cupi erano come scomparsi, sebbene continuassi a percepire acutamente, dinanzi e dietro di me, una certa nota grave.


Mi riempiva un’attesa gioiosa di tutto ciò che avrebbe potuto venirmi incontro o presentarmisi. I miei passi erano misurati e tranquilli, e credo di aver mostrato, mentre così camminavo, un contegno abbastanza dignitoso. Mi piace nascondere le mie sensazioni agli occhi del prossimo, senza però farmene un problema angosciante, cosa che riterrei sbagliata.


Non avevo fatto più di venti passi attraverso una piazza vasta e piena di movimento, quando mi venne incontro svelto il signor professor Meili, una testa di prim’ordine.


Serio, solenne, imponente, il professor Meili procedeva come l’autorevolezza indiscussa, reggendo in mano un inflessibile bastone da scienziato che m’incuteva spavento e timorato rispetto. Il naso del professor Meili era un severo, imperioso, tagliente naso aquilino o nobiliare. La bocca era giuridicamente stretta e sigillata. L’incedere del celebre dotto somigliava a una legge ferrea. Dai seri occhi del professor Meili, nascosti dietro sopracciglia arruffate, lampeggiava la storia universale e il riflesso di eroiche, remotissime gesta. Il suo cappello sembrava un inamovibile autocrate. Nell’insieme il professor Meili si conduceva tuttavia con molta mitezza, come se non avesse la minima necessità di far notare quale somma di potenza e d’importanza s’impersonava in lui. Potendo ben dirmi che le persone incapaci di un dolce sorriso sono pur gente leale e degna di fiducia, la sua figura, ad onta di ogni inesorabilità, mi riusciva simpatica. Com’è noto, ci sono degli esseri che sanno perfettamente nascondere le proprie malefatte dietro un comportamento suadente e cordiale.


Mi par di fiutare nell’aria una libreria, libraio compreso; e tra poco, come già presento e avverto, sarà una bottega di fornaio a imporsi, col nome scritto a lettere d’oro. Prima, però, dovrei far menzione di un parroco. Un chimico cittadino corre pedalante-cicleggiante, il viso atteggiato ad affabilità, sfiorando chi va a passeggio; altrettanto dicasi di un medico di comando o di reggimento. Non è da lasciar passare inosservato un modesto pedone: si tratta di un rigattiere e cenciaiolo arricchito. Notevole è la libertà sfrenata con cui bambini e bambinette sciamano nel sole.


«Meglio lasciare che si sfrenino così,» mi dico «ci penseranno anche troppo presto gli anni a intimorirli e a frenarli».


Un cane si disseta all’acqua della fontana, nell’aria azzurra cinguettano rondini. Una o due signore, dalle gonne sbalorditivamente corte e dagli stivaletti mirabilmente alti, stretti, belli, eleganti, morbidi, colorati, attirano su di sé l’attenzione, non meno di un’infinità di altre cose. Più in là, dànno nell’occhio due cappelli estivi o di paglia. La faccenda delle pagliette maschili sta nei seguenti termini: tutt’a un tratto, nell’aria chiara, vedo due stupendi cappelli; sotto i cappelli ci sono due distinti signori che, a quanto pare, si scambiano il buongiorno sventolando i copricapi con bella e gagliarda gentilezza; in questa manifestazione i cappelli hanno visibilmente maggiore importanza dei loro portatori e proprietari. L’autore è comunque pregato con tutto il rispetto di guardarsi un tantino dai frizzi e da consimili superfluità. È sperabile che l’abbia capito una volta per tutte.


Una ben fornita libreria mi attrasse straordinariamente e mi venne voglia di dedicarle una visita fugace, sicché non esitai ad entrarvi con molto garbo, supponendo naturalmente di aver più l’aria di un severo revisore contabile, di un ispettore, di un collezionista di novità e fine intenditore, che non di un ricco, amato e ben accolto compratore o buon cliente.


Con voce cortese e sommamente riguardosa, usando – non occorre dirlo – le più elette espressioni, m’informai di tutto ciò che di nuovo e migliore offriva il campo delle belle lettere.


«Posso» chiesi timidamente «conoscere e apprezzare sul momento quanto v’è di più valido e di più serio e al tempo stesso (s’intende) di più letto e prontamente ammirato e acquistato? Ella mi obbligherebbe in modo eccezionale se mi volesse usare la compiacenza di esibirmi il libro che, come nessuno può sapere meglio di lei, ha ottenuto il maggior favore sia tra il pubblico che legge, sia presso la temuta e perciò vezzeggiata critica, e il cui successo continua a mantenersi vivo.


«In verità m’interessa sommamente apprendere quale sia, fra le opere della penna qui accumulate o messe in mostra, il fortunato libro in questione, la vista del quale farà di me, con ogni probabilità, un acquirente sollecito, lieto, entusiasta. Il desiderio di vedermi dinanzi lo scrittore prediletto dal mondo della cultura, nonché il suo ammirato e freneticamente applaudito capolavoro, per poi, come le dissi, comprarlo subito, mi pervade tutte le membra.


«Potrei cortesemente rivolgerle la più viva preghiera di mostrarmi questo libro d’impareggiabile successo, sicché l’ansia che si è impadronita di me si plachi e cessi alfine di agitarmi?».


«Con piacere» disse il libraio.


Ratto come una freccia sparì alla mia vista, per ripresentarsi un attimo dopo all’avido amatore tenendo in mano il libro di non effimera validità, venduto e letto più d’ogni altro.


Quel prezioso parto dell’intelletto era da lui recato con la stessa solenne compostezza di una reliquia santificante. Il suo volto era estatico; l’espressione irradiava sommo rispetto. Con le labbra atteggiate a quel sorriso che è proprio solo di chi sia intimamente compenetrato, egli depose innanzi a me, col fare più suadente, l’oggetto della sua pronta ricerca. Io gettai al libro uno sguardo severo e chiesi: «Può lei giurarmi che questo è il libro di maggior successo dell’anno?».


«Senza dubbio».


«Può affermare che questo è il libro che bisogna assolutamente aver letto?».


«Assolutamente».


«È davvero un bel libro?».


«La sua domanda è del tutto superflua e inopportuna!».


«La ringrazio molto» dissi imperturbabile, lasciai dove si trovava il libro che aveva ottenuto il massimo successo di vendita perché bisognava assolutamente averlo letto, e uscii senz’altro aggiungere, ossia in perfetto silenzio.


«Uomo ignorante e incolto!» non mancò di gridarmi dietro il libraio, nel suo giustificato corruccio. Ma io lo lasciai dire e continuai per la mia strada, dirigendomi tosto, come in appresso spiegherò e chiarirò, verso l’attigua, imponente banca.


Dove infatti pensavo di dover compiere una visita per ottenere attendibili chiarimenti in merito a certi valori. «Fare un salto di passaggio in un istituto di credito» dissi tra me «per trattare questioni finanziarie e porre domande che si formulano solo sottovoce, è una cosa piacevole e fa senza dubbio ottima impressione».


«Buona, eccellente combinazione che lei in persona sia venuto qui» mi disse allo sportello il funzionario responsabile con tono assai gentile; e sorridendomi con aria quasi d’intesa ma pur sempre cordiale aggiunse:


«Volevamo appunto indirizzarle una lettera per darle la notizia certamente lieta – e che ora possiamo darle a voce – che, per incarico di un’associazione o gruppo di signore caritatevoli e filantrope, animate da simpatia nei suoi riguardi, le abbiamo non già addebitato, ma bensì, con misura certo assai più gradita per lei, accreditato la somma di


franchi mille


cosa di cui ella vorrà cortesemente prendere immediatamente nota nella sua testa, o dove meglio le aggrada. La notizia le farà indubbiamente piacere, perché, parlando con franchezza, lei ci dà l’impressione, se così possiamo esprimerci, di abbisognare in modo addirittura inquietante di una delicata assistenza. Il denaro è a sua disposizione a partire da oggi.


«In questo momento è visibile il diffondersi di un’intensa letizia sui tratti del suo viso. I suoi occhi risplendono. La sua bocca, con la quale lei forse, impedito da assillanti cure quotidiane che le causavano umor nero e infiniti pensieri tristi, da gran tempo non rideva più, ecco, decisamente assume un che di sorridente. La sua fronte, finora rannuvolata, appare del tutto serena.


«Lei può ben fregarsi le mani di contentezza e rallegrarsi che alcune nobili, amabili benefattrici, mosse dal pensiero elevato che è bello lenire la miseria e giusto diminuire la sofferenza, abbiano desiderato fornire un appoggio a un povero scrittore senza fortuna.


«Per il fatto che alcune persone si siano degnate di ricordarsi di lei, e per la fortunata circostanza che vi sia chi non sa rimanere indifferente di fronte alla tanto disprezzata esistenza dei poeti, si abbia le nostre congratulazioni».


«Quella somma di denaro che mi giunge inattesa da benevole mani di dame, o stavo per dire di fate,» risposi «la lascerò certo presso di voi, che già la custodite nel migliore dei modi e che disponete delle necessarie cassette di sicurezza, refrattarie al fuoco e difese dai ladri, nelle quali i tesori sembrano essere gelosamente preservati da qualsiasi distruzione o da qualsivoglia rovina. Per di più, nevvero?, pagate anche interessi. Posso pregarla di una ricevuta?


«Immagino che avrò la libertà di prelevare in ogni momento, a mio piacere e all’occorrenza, piccoli importi dal grande importo.


«Poiché sono economo, saprò comportarmi con questo dono da uomo concreto e positivo. Alle gentili donatrici esprimerò la mia riconoscenza in una lettera meditata e cortese: lo farò anzi già domattina, così che il rinvio non degeneri in oblio.


«Può darsi che la congettura che io sia povero, da lei poco fa schiettamente se pur cautamente espressa, si fondi su un’osservazione giusta e perspicace. Comunque, è più che sufficiente che io sappia quello che so, e che sia io ad essere il più informato sulla mia modesta persona. Molte volte l’apparenza inganna, e l’esprimere un giudizio su qualcuno è meglio lasciarlo a lui stesso, giacché un uomo che ne abbia vissute di tutte si conosce più a fondo di chiunque altro.


«Effettivamente in passato vagavo nella nebbia e mi dibattevo tra mille difficoltà, vedendomi brancolante e spesso in penoso abbandono. Ma io credo che bella sia soltanto la lotta. Non sono le gioie e i piaceri a procurare orgoglio all’uomo dabbene. Orgoglioso e lieto lo fanno solo gli sforzi superati con coraggio nell’intimo dell’anima, le rinunce pazientemente sopportate. Ma sprecar parole su questo non è affatto piacevole.


«Dov’è l’uomo che in vita sua non si sia mai sentito derelitto? Quale essere umano non ha visto distrutti almeno in parte, coll’andar degli anni, i suoi progetti, le sue speranze, i suoi sogni? Quando mai c’è stata un’anima che, senza nulla sacrificare, abbia visto compirsi ogni sua ardita aspirazione, ogni dolce, sublime idea di felicità?».


Una ricevuta per l’importo di mille franchi fu rilasciata e rimessa nelle mani del nostro spettabile depositante e titolare di conto corrente, che a questo punto poté accomiatarsi e poi andarsene.


Pieno di allegria per il capitaletto così magicamente toccatomi in sorte, quasi caduto dal cielo azzurro, uscii di corsa dal grande salone per continuare, fuori all’aperto, la passeggiata.


Posso forse anche aggiungere (dato che al momento non mi viene in mente nulla di nuovo né d’interessante) che avevo in tasca un biglietto nel quale cortesemente mi si invitava a presentarmi alle dodici e mezzo precise a casa della signora Aebi per una frugale colazione. Mi proporsi fermamente di accogliere l’apprezzabile invito e di comparire presso la dama in questione all’esatta ora indicata.


Mentre tu, caro lettore, ti prendi la briga di procedere coscienziosamente nel chiaro, festoso mattino insieme all’inventore e scrittore di queste righe, senza fretta né urgenza, bensì con ogni delicatezza, agio e lucidità, prudentemente, pianamente e tranquillamente, ecco che arriviamo davanti alla già citata panetteria dalla squillante insegna dorata, dove ci arrestiamo con raccapriccio perché, al cospetto di tanta grossolana boria e della strettamente connessa deturpazione del più delizioso panorama, ci sentiamo mossi a forte corruccio e sincero sbalordimento.


«A buon diritto, per Dio,» mi venne spontaneo esclamare «c’è da indignarsi di fronte a tali barbare dorature di un’insegna di negozio! Esse imprimono alla circostante rusticità un marchio di egoismo, di cupidigia, di miserabile abbrutimento spirituale. Ha davvero bisogno un fornaio di mettersi così vistosamente in mostra, di risplendere e scintillare al sole col suo pazzesco annuncio, come una dama vanesia ed equivoca? Farebbe meglio a cuocere e a impastare il suo pane con modestia proba e assennata! In che mondo d’imbrogli cominciamo a vivere se comunità, vicini, autorità e opinione pubblica non solo tollerano, ma purtroppo, com’è evidente, anche esaltano ciò che offende ogni cortesia, ogni senso di bellezza e di onestà, codesta morbosa smania stracciona di millantare, di darsi delle arie ridicole e penose, di gridare a cento metri di distanza nell’aria pura: “Io sono il tal dei tali! Ho tanti e tanti soldi e mi arrogo il diritto di farmi notare sgradevolmente. Nessun dubbio che con questo mio laido sfoggio io sia un tanghero, un cretino e uno screanzato. Ma nessuno mi deve impedire di comportarmi da tanghero”.


«Quale rapporto accettabile e giustificato, quale mai sana relazione di parentela può esserci tra delle lettere d’oro sfolgoranti da lontano con orribile spocchia – e il pane? Nemmeno l’ombra!


«Ma spacconeria e vanità esecrabili hanno allignato in qualche parte del mondo, hanno compiuto progressi su progressi, simili a malaugurata alluvione, trascinando seco sporcizia e follia; e hanno ghermito anche il bravo fornaio, fino a corrompere il suo antico buon gusto e a minare la sua innata costumatezza. Darei magari il braccio sinistro o la gamba sinistra, se con un sacrificio del genere potessi contribuire al ritorno del buon vecchio senso di purezza, dell’antica, benedetta frugalità, se potessi rendere al paese e alla gente quella rispettabilità e quella modestia che, tra il rimpianto di tutti gli intelletti onesti, sono certo andate smarrite.


«Al diavolo la miserabile frenesia di voler apparire più di quel che si è! È un’autentica catastrofe. Cose come queste diffondono nel mondo pericoli di guerra, morte, miseria, odio e vilipendio, e impongono a tutto ciò che esiste una deprecanda maschera di cattiveria, di egoismo abominevole. Un artigiano, per quanto faccia, non mi si può gabellare per un Monsieur, né una brava donna per una Madame. Ma oggi tutto ha da essere lucente e brillante, nuovo, raffinato e bello e distinto e superelegante, tutti vogliono essere Monsieur e Madame, roba da vergognarsi. Forse però verrà il tempo che le cose torneranno a cambiare. Almeno così spero».


In quanto a pavoneggiarsi e a comportarsi da persona di gran classe, anch’io, del resto, come risulterà, dovrò darmi una tiratina d’orecchi. E si vedrà in che modo. Non sarebbe affatto bello che io volessi criticare spietatamente gli altri e insieme trattare me stesso con ogni tenerezza e riguardo. A mio avviso non si deve far cattivo uso della professione di scrittore, e oso sperare che questa frase riscuota generale consenso, sia accolta da applausi convinti e desti viva soddisfazione.


Qui sulla sinistra della strada una fonderia piena di operai fa un ragguardevole baccano. A tale incontro provo sincera vergogna di andarmene così a spasso, mentre tanti altri lavorano e sgobbano. È vero che anch’io, forse, sgobbo e produco in ore in cui tutti questi operai si godono in pace il loro tempo libero.


Un meccanico passandomi accanto mi grida: «Vai sempre a spasso, mi pare, in pieno giorno di lavoro!». Io lo saluto ridendo e riconosco con piacere che ha ragione.


Senza prendermela minimamente per essere stato còlto in fallo – sarebbe stato proprio stupido – continuai allegro a passeggiare.


Nel mio vestito inglese giallo chiaro avuto in regalo mi sembrava infatti di essere – lo confesso apertamente – un lord, un gran signore, un marchese che passeggiasse su e giù per il parco, sebbene quella dove mi trovavo non fosse che una semplice e simpatica strada mezzo di campagna e mezzo di periferia, un quartiere di poveri, misero e modesto, e niente affatto un parco come ho avuto ora l’ardire di chiamarlo: termine che anzi buono buono mi rimangio, poiché ogni riferimento a parchi è del tutto campato in aria e qui assolutamente fuori di posto.


Fabbriche e officine meccaniche più o meno grandi erano graziosamente sparse qua e là per il verde. Una calda, pingue agricoltura sembrava quasi dare il braccio con cordialità alla rumorosa, martellante industria, che ha sempre un che di scarno, di spossato; alberi di noce, ciliegi, susini conferivano alla morbida strada tondeggiante un che di attraente, di dilettevole e di gentile.


Attraverso la strada, già di per sé bella e piacevole ai miei occhi, era sdraiato un cane. Ma quasi tutto ciò che andavo vedendo mi accendeva di istantaneo entusiasmo. Un’altra graziosa scenetta canina fu questa: un cagnone grande e grosso, ma buffo, inoffensivo e giocherellone, se ne stava zitto a guardare un bimbetto che, rannicchiato sui gradini di una scala e spaventato dall’attenzione rivoltagli dall’animale, bonaccione ma di aspetto un po’ temibile, si abbandonava a un prolungato piagnisteo infantile. Trovai la scena incantevole.


Più graziosa e più incantevole ancora me ne sembrò un’altra, pure recitata da bambini sul piccolo teatro quotidiano della via maestra.


Nella polvere della strada giacevano, come in un giardino, due fanciullini. Uno disse all’altro: «Dammi un bel bacetto». L’altro ubbidì. Allora il primo disse: «Bene, ora alzati pure». Probabilmente senza quel bacetto non gli avrebbe consentito quello che ora gli concedeva.


«Come s’intona quest’ingenua scena al cielo azzurro che dall’alto sorride così divinamente bello alla gioconda e chiara terra!» dissi tra me, e tenni il seguente, breve ma serio discorso:


«I bambini sono celestiali, perché sono sempre in una specie di cielo. Quando crescono, il cielo scompare d’intorno a loro. Dall’infanzia precipitano nell’esistenza arida, noiosa, calcolatrice degli adulti, e non pensano più che al tornaconto e al decoro. Per i bambini dei poveri la strada d’estate è come la stanza dei giochi. Dove potrebbero stare, sennò, dato che i giardini gli sono avaramente sbarrati? Guai alle automobili che, fredde e cattive, penetrano sfrecciando nel cielo dei giochi infantili e mettono quei piccoli, innocenti esseri umani in pericolo di essere sfracellati. Alla terribile idea che un bambino possa davvero essere travolto da uno di quei pacchiani carri trionfali, non ci voglio nemmeno pensare, altrimenti l’ira mi farebbe prorompere in parolacce; e si sa che con le parolacce non si combina mai niente».


Alle persone che siedono in una sbuffante automobile io mostro sempre la faccia feroce. Credono allora che io sia un severo e spietato sorvegliante o poliziotto in borghese, incaricato dall’alta autorità di vigilare il traffico per prendere nota del numero del veicolo e poi riferirlo in luogo competente. Io guardo accigliato le ruote, la macchina, ma mai quelli che vi stanno dentro: a costoro va il mio disprezzo, non certo a titolo personale ma in via di principio, giacché non potrò mai capire che gusto ci sia a passare velocissimi davanti a tutte le immagini e gli oggetti che la nostra bella terra ci offre, come se si fosse impazziti e si dovesse correre per non disperare.


In realtà io amo la calma e ciò che è calmo, la parsimonia e la moderazione, e rifuggo nel modo più assoluto da ogni fretta e precipitazione. Dio sa quanto questo sia vero, e non ho bisogno di dire di più; eppure è certo che le mie parole non serviranno ad arrestare di colpo gran parte del traffico automobilistico con tutto il suo fetore ammorbante, che sicuramente nessuno apprezza ed ama. A proposito di questi olezzi, sarebbe innaturale se il naso di chicchessia li aspirasse compiaciuto, ciò che peraltro è ben improbabile si verifichi. Basta, e senza offesa per alcuno. E ora, avanti con la passeggiata! Che cosa c’è di più delizioso, di più semplice e bello, dal tempo dei tempi, che l’andare a piedi (ammesso che la partita scarpe e stivali sia in ordine)?


Vorranno gli onorati signori miei protettori e lettori, gradendo e scusando benevoli uno stile così solenne e impettito, avere ora la bontà di concedermi che attiri nei modi dovuti la loro attenzione su due figure o personaggi femminili di speciale rilievo, e cioè primieramente, o meglio in primo luogo, su una presunta ex attrice, e in secondo luogo su una giovanissima e – ritengo – esordiente cantante?


Considero queste due persone eccezionalmente notevoli e perciò ho creduto bene, prima che si affaccino e figurino nella realtà, di darne opportuno annuncio, così che un sentore d’importanza e di celebrità preceda le due gentili creature ed esse, al loro mostrarsi, vengano ricevute e guardate con quell’attenzione e quel sollecito amore che, a mio sommesso avviso, spettano quasi necessariamente a simili esseri.


Verso mezzogiorno e mezzo, com’è noto, l’autore, a ricompensa delle molteplici fatiche superate, s’impinzerà, pranzerà e mangerà nel palagio o casa della signora Aebi. Fino a quel momento, però, avrà da lasciarsi indietro considerevoli tratti di strada, nonché da scrivere parecchie righe. Comunque, è largamente risaputo che a lui piace altrettanto passeggiare quanto scrivere, anche se magari questa seconda cosa un’ombra meno della prima.


Davanti a una graziosa casetta, linda come uno specchio, vidi, al margine della strada, una donna seduta su una panchina; e non appena l’ebbi scorta, mi feci ardito di rivolgerle la parola. Usando le più educate e cortesi espressioni le esternai quanto segue:


«Perdoni se alle labbra di una persona a lei totalmente sconosciuta urge, al vederla, una domanda certo temeraria: lei non è stata un tempo attrice? Il suo aspetto è in tutto e per tutto quello di una grande e già celebrata regina delle scene. Certamente ella ha ogni diritto di stupirsi dell’incredibile sfacciataggine delle mie parole; ma il suo volto è così bello, le sue sembianze così avvenenti e – vorrei aggiungere – interessanti, la sua figura così gradevole, il suo sguardo così retto, calmo e maestoso nel posarsi su di me come sul resto del mondo, che tutto avrei potuto fuorché passarle davanti senza osare dirle qualcosa di lusinghiero; e spero che lei non se n’abbia a male, quantunque per la mia sconsideratezza io debba temere, se non un castigo, almeno un biasimo.


«Quando l’ho vista, ho concepito immediatamente l’idea che lei debba essere stata attrice; e oggi se ne sta qui seduta presso una semplice strada di campagna, davanti a questo grazioso negozietto di cui mi sembra essere la proprietaria.


«Forse finora non le è mai capitato di essere interpellata così senza cerimonie da qualcuno. La sua graziosa figura, la bella presenza, l’affabile calma, l’apparenza gaia, elegante e nobile nonostante la non più giovane età, mi hanno incoraggiato a rivolgerle la parola di sulla strada. E anche la bella giornata, felicemente libera e serena, ha suscitato in me un’allegrezza per cui forse, nell’avvicinare una signora sconosciuta, mi sono permesso troppo.


«Lei sorride! Dunque non me ne vuole per questo mio disinvolto discorso? A me sembra meraviglioso che ogni tanto due persone che non si conoscono parlino fra loro in piena libertà e confidenza: è a questo fine, dopotutto, che a noi abitanti di questo errante ed enigmatico pianeta sono state date una bocca, una lingua, la facoltà di parlare, cosa quest’ultima, in particolare, tanto singolare e bella.


«In ogni modo, lei mi è subito sinceramente piaciuta. Può questa mia franca ammissione provocare il suo rancore?».


«Al contrario, non può che farmi piacere,» disse con serenità la bella donna «ma quanto alla sua congettura, devo darle una delusione: non sono mai stata attrice».


Al che risposi: «Da qualche tempo sono giunto qui, fuggendo una situazione di gelida ostilità, senza aver certezza né credere in nulla, intimamente malato, privo di ogni fiducia. Al mondo e a me stesso ero nemico, estraneo. Ansia e sospetto accompagnavano ogni mio passo. Poi, un po’ alla volta, perdetti quel sordido, triste pregiudizio, originato da angustie d’ogni sorta; ricominciai a respirare tranquillo e libero, e fui di nuovo un uomo migliore, più affettuoso, più felice. Vidi svanire le mie tante apprensioni; lo sconforto e l’insicurezza che avevo dovuto trascinarmi dietro si mutarono a poco a poco in appagamento sereno, nel rinnovato, piacevole sentimento di una fervida partecipazione. Ero come morto; adesso mi sembra quasi che qualcuno mi abbia rialzato e rincorato, o di essere appena risorto dalla tomba e ritornato a vivere. Dove credevo di conoscere solo bruttezza, difficoltà e inquietudine incontro invece grazia e benevolenza e non trovo che cose tranquille, consolanti, edificanti e buone».


«Meglio così» disse la signora con gentilezza di espressione e di voce.


Poiché mi sembrò giunto il momento di por fine a quel colloquio iniziato con un tantino di petulanza e di allontanarmi, salutai la signora – posso dirlo – con cortesia ricercata e assai riguardosa, facendole un rispettoso inchino, e continuai pacifico per la mia strada come se nulla fosse accaduto.


Una domanda discreta: per un civettuolo negozio di mode tra la verzura non ci sarebbe, al limite, una certa provvista di spiccato interesse e magari qualche applauso?


Ne sono fortemente convinto, e perciò ardisco dare la notizia che, nel camminare e procedere lungo la più bella di tutte le strade, cacciai un assurdo, fanciullesco grido di gioia da una gola che per suo conto non lo avrebbe mai creduto possibile.


Che cosa avevo scoperto di nuovo e di inaudito? Oh, facilissimo a spiegarsi: un delizioso negozio di mode o bottega di cappelli per signora.


Parigi e Pietroburgo, Bucarest e Milano, Londra e Berlino, tutto quello che è eleganza, frivolezza, atmosfera stracittadina, mi venne incontro, mi sorse davanti agli occhi, abbagliante, affascinante, incantevole. Ma nelle capitali e nelle metropoli non c’è il morbido verde addobbo degli alberi, la magìa benefica degli amici prati, l’ornamento delle tante care foglie, per non dimenticare il profumo dei fiori: e tutto ciò io qui l’avevo.


«Tutto questo lo descriverò,» promisi fermamente a me stesso «ne parlerò al più presto in uno scritto o in una specie di fantasia, che chiamerò La passeggiata. In particolare voglio assolutamente che vi figuri questa bottega di modista, poiché altrimenti verrebbe meno al mio scritto un grande motivo di fascino».


Le piume, i nastri, i frutti e i fiori finti su quei divertenti cappellini erano per me attraenti quasi come la stessa familiare natura, che con l’amenità del suo verde e gli altri suoi caldi colori incorniciava quelle tinte fittizie e forme fantasiose, quasi che la bottega di cappelli fosse nient’altro che un quadro squisito. Faccio qui assegnamento sull’acuta perspicacia del lettore. Di ogni sorta di lettori io ho sincera e costante paura. Questa penosa confessione di vigliaccheria la ritengo fin troppo comprensibile: anche agli autori più coraggiosi è successo così.


Dio! che bella botteguccia scorsi, anch’essa in mezzo al fogliame: una graziosissima piccola macelleria con una mostra rosso-rosa di carni di maiale, di manzo, di vitello. Il macellaio si dava da fare all’interno, dove c’erano anche alcuni clienti. Questa macelleria non è degna di un grido in suo onore, almeno quanto il negozio di cappelli?


Sia poi fatta delicata menzione di una drogheria.


Di osterie d’ogni specie discorrerò più avanti: ce ne sarà sempre tempo, credo. Con le osterie l’ora non è mai abbastanza tarda per cominciare, perché poi si verificano delle conseguenze che ciascuno, ahimè, conosce anche troppo. Anche il più virtuoso non può negare di non saper dominare completamente certi vizi. Comunque, per fortuna, sotto quest’aspetto siamo tutti uomini e, come tali, incredibilmente facili da scusare, dato che ciascuno si richiama con paurosa semplicità alle innate debolezze organiche.


A questo punto bisogna che mi orienti di nuovo.


Devo premettere che il prendere nuove misure e modificare le posizioni mi riesce altrettanto bene come a un qualunque generale in capo, che ha una visione d’insieme di tutte le circostanze e sistema nella rete della sua – mi sia concesso dirlo – geniale valutazione tutte le eventualità e tutti gli insuccessi. Oggi, di notizie del genere una persona attenta ne legge ogni giorno sui giornali, e senza dubbio ricorda magnifiche espressioni, come: azione sul fianco, e simili.


Mi è lecito confessare di essere arrivato negli ultimi tempi alla convinzione che l’arte della guerra sia altrettanto difficile e richieda altrettanta pazienza quanto l’arte dello scrivere, e viceversa?


Anche gli scrittori, non diversamente dai generali, devono compiere spesso i più complicati preparativi prima di passare all’attacco e di dar battaglia, in altri termini di azzardarsi a lanciare sul mercato un libro oppure un’opera d’arte o da strapazzo: cosa che non di rado suscita violenti contrattacchi. Com’è noto, ogni libro provoca la relativa recensione, la quale talvolta è così feroce che il libro deve immediatamente eclissarsi, mentre il povero, indegno e miserevole autore soffoca tristemente e puntualmente si dispera.


Non deve far meraviglia se dico che tutte queste – così spero – ornate frasi, lettere e righe le scrivo con una penna della Suprema Corte tedesca. Donde la brevità, incisività e pregnanza forse rilevabili in alcuni punti e di cui mi auguro nessuno abbia più a stupirsi.


Ma quando mi deciderò ad arrivare al ben meritato pranzetto dalla mia signora Aebi? Temo che mi ci vorrà ancora un po’, perché occorre sgomberare il terreno da diversi e svariati ostacoli. Quanto ad appetito, già da tempo ne avrei in abbondanza.


Nel mentre me ne andavo bel bello per la mia via, come un perfetto bighellone, distintissimo vagabondo, giramondo, fannullone e perdigiorno, passando davanti a una quantità di floridi orti pieni di ogni bendidio di prosperi legumi, a fiori e a profumi di fiori, ad alberi da frutta e a filari di fagioli pieni di baccelli, davanti a stupendi campi lussureggianti di cereali come segale, avena e frumento, davanti a un deposito di legname con legna e trucioli di legna, davanti a erbe ricche di linfa e ad acque dal gentile scroscio, torrenti o fiumi che fossero, passando pian piano davanti a ogni sorta di gente come simpatiche donne del mercato dedite ai loro traffici, passando davanti a un circolo ricreativo adorno di allegre bandiere, come a tante altre cose utili e buone, davanti a un incantevole piccolo melo e a Dio sa cos’altro ancora, per esempio passando educatamente davanti a gemme di fragole o meglio ancora alle rosse fragole già mature, e in quel mentre ero fortemente assorto in ogni sorta di pensieri, perché sempre, quando si passeggia, idee, lampi di luce e luci di lampi si presentano e si affollano da sé per essere elaborati con cura, mi venne incontro un uomo, un’apparizione inconsueta e formidabile, che oscurò quasi del tutto la strada luminosa: uno spilungone sinistro che conoscevo benissimo, un tipo assolutamente straordinario: il gigante Tomzack.


In qualsiasi altro luogo, su qualsiasi altro cammino mi sarei aspettato di trovarlo, fuorché su quella dolce strada campestre. La sua triste, spaventevole figura mi riempì di terrore, e la sua tragica, mostruosa presenza spense all’istante in me ogni bellezza e chiarità di vista, ogni gioia ed allegria.


Tomzack! Non ti sembra, caro lettore, che già il nome stesso abbia un’eco di cose paurose e malinconiche? «Perché mi perseguiti? Che bisogno hai d’incontrarmi qui a mezza via?» gli gridai. Ma Tomzack non mi rispose.


Mi guardò dall’alto, ossia dall’altissimo in basso. Mi superava d’un bel pezzo in lunghezza e in altezza; vicino a lui sembravo un nano, o un misero, debole bambinello. Con la massima facilità quel gigante avrebbe potuto schiacciarmi e calpestarmi.


Ah, lo sapevo chi era! Per lui non v’era pace. Non dormiva in un soffice letto, non abitava in una casa accogliente e confortevole. Alloggiava dappertutto e in nessun luogo. Non aveva un suolo natìo e nemmeno, quindi, diritto di cittadinanza. Priva di felicità, di amore, di patria, di umana gioia, tale era la sua vita.


Non partecipava a nulla, né v’era chi partecipasse alle sue vicende e alla sua esistenza. Passato, presente e futuro erano per lui come uno spopolato deserto, e la vita sembrava essergli troppo piccola, andargli troppo stretta. Nulla aveva significato per lui; e per converso egli non significava nulla per nessuno. Dai suoi occhi brillava l’angoscia di mondi sepolti e di mondi eccelsi, e un dolore inesprimibile parlava da ogni suo stanco, flaccido gesto.


Non era morto ma neanche vivo, non vecchio ma nemmeno giovane. Centomila anni mi pareva avesse sulle spalle, e mi sembrava pure che dovesse vivere eternamente, per essere eternamente non vivo. Moriva ogni momento, eppure non riusciva a morire. In nessun luogo c’era per lui una tomba fiorita. «Addio, amico Tomzack,» mormorai tra me schivandolo «e cerca di passartela comunque per il meglio».


Senza guardare più verso quel fantasma, quel colosso miserando, quello spettro infelice, cosa di cui ovviamente non avevo la minima voglia, proseguii e giunsi ben presto, continuando a camminare nel soave tepore e dimenticando la tristezza lasciatami dall’incontro col gigantesco spauracchio, a una selva d’abeti. Un sentiero la attraversava serpeggiando con grazia sorridente, quasi maliziosa, ed io lo seguii compiaciuto.


La strada e il terreno boscoso somigliavano a un tappeto. Là dentro c’era silenzio come in un’anima felice, come in un tempio, in un castello fatato o in un fantastico palazzo di fiaba: come nel castello di Rosaspina, dove tutto dorme e tace da centinaia di lunghi anni. Io mi addentravo sempre più, e forse adopero troppo belle parole, ma mi pareva d’essere un principe dai capelli d’oro chiuso in un’armatura guerriera.


Tutto nella selva era così solenne che nell’animo del sensibile viandante sorgevano, come spontanee, mirabili immaginazioni. Quel dolce silenzio della foresta quanto mi rendeva felice!


Di quando in quando un lieve rumore veniva a rompere la solitudine, la cara, deliziosa oscurità: un tonfo, un fischio o qualche altro sussurro, la cui risonanza lontana non faceva che rendere più percepibile la profonda quiete dominante, che aspiravo a pieni polmoni, bevendo e assaporando la sua virtù.


Qua e là nell’aria silenziosa, da qualche nascondiglio incantevole e arcano, un uccello faceva udire la sua voce chiara. Io mi fermai in ascolto. Tutt’a un tratto mi invase un indicibile sentimento dell’universo, e insieme, strettamente unito, un fiotto di gratitudine prorompente con forza dall’anima lieta. Gli abeti si ergevano come colonne, neppure una foglia si moveva nella grande, serena foresta: sembrava solo echeggiarvi e risonarvi un concerto di voci inudibili, aggirarvisi una schiera di evanescenti figure. Suoni di un mondo primordiale giungevano, provenienti chissà da dove, al mio orecchio.


«Così sarei contento anch’io di morire, se così dev’essere. Un ricordo mi ravviverà ancora nella morte, una gioia mi allieterà nella tomba: un atto di grazie per quanto goduto e il gaudio per l’atto di grazie».


Di lassù, dalle cime degli abeti, veniva un fruscìo lontano e lieve. «Qui dovrebbe essere divinamente bello amare, baciare» dissi a me stesso. Il semplice muovere passi sul suolo era già un godimento. La pace risvegliava preghiere nell’anima commossa. «Giacere qui discretamente sepolto nella fresca terra silvestre, oh, sarebbe dolce! Sentire e gustare da morto anche la stessa morte! Sì, sarebbe bello avere una tomba nel bosco. Forse potrei udire sopra di me gli uccelli cantare e gli alberi stormire. Ecco quel che mi auguro». Una colonna di raggi di sole cadeva risplendente fra i tronchi delle querce, e la selva mi appariva come una verde e bella tomba. Ma presto ritornai alla vita, alla luce del cielo libero.


Toccherebbe ora farsi avanti a una gentile, simpatica osteria con un gran bel giardinetto, pieno di ombra ristoratrice. Il giardinetto sarebbe posto su una bassa collina dal bel panorama; lì vicino starebbe o sorgerebbe un’altra collinetta artificiale o belvedere, dove si potrebbe sostare a lungo e godere la magnifica vista. Anche un bicchiere di birra o di vino non andrebbe male. Ma il vostro camminatore si ricorda però in tempo di non stare certo compiendo una lunga marcia. Le affaticanti montagne si stendono laggiù, in un’azzurrina, biancovelata lontananza. Onestamente egli ammette che la sua sete non è né infernale né micidiale, poiché il cammino finora percorso è relativamente breve. Quella che sta facendo è più una simpatica e semplice passeggiata che non una gita o un viaggio, più un bel giretto che una cavalcata o una marcia forzata. Perciò, giustamente non meno che ragionevolmente, rinuncia ad entrare in quel luogo di spasso e di ristoro, e tira avanti.


Tutte le persone serie che leggono queste pagine daranno senza dubbio il loro plauso convinto a tale decisione. Un’ora fa non avevo preso l’impegno di annunciarvi una giovane cantante? Eccola apparire.


Dove, di preciso? A una finestra a pianterreno.


Infatti, non appena ripresa la strada maestra dopo la deviazione nel bosco, udii... Un momento! Qui ci vuole una piccola pausa di rispetto.


Gli scrittori che s’intendono a sufficienza del loro mestiere lo praticano con la maggior calma possibile. Gradiscono ogni tanto posare per un poco la penna. Scrivere ininterrottamente stanca come lavorar di vanga.


Ciò che udii provenire dalla finestra a pianterreno fu il più gradevole e fresco dei canti: melodie popolari e arie d’opera, che risonarono del tutto gratuitamente ai miei orecchi sorpresi, a guisa di mattutino banchetto auditivo, di musicale albata.


Affacciata alla misera finestrella di periferia vidi una giovinetta in vesti chiare, quasi ancora una scolara, eppure già alta e snella; e cantava nell’aria limpida in modo semplicemente delizioso.


Colpito piacevolmente dal canto inatteso, mi fermai un po’ in disparte, sia per non disturbare la cantante, sia per non perdere il mio privilegio di ascoltatore e il relativo godimento. La canzone che cantava quella fanciulla mi sembrava straordinariamente felice e allegra. Le note fluivano giovani e innocenti al pari della felicità stessa: felicità della vita, felicità dell’amore. Come figure d’angeli dal niveo, gioioso piumaggio, volavano verso il cielo turchino e parevano ricaderne per morire in letizia. Era come la morte per struggimento, o forse per esuberanza di gioia, come un vivere e amare in esultanza, un non poter più vivere a causa di un’immagine troppo bella, ricca, dolce della vita: talché quell’idea soavissima, traboccante di affetto e di giubilo, sembrava, irrompendo prepotente nell’esistenza, precipitare e infrangersi su se stessa.


Terminato che ebbe la giovane il suo canto semplice quanto stupendo, aria mozartiana o melopea pastorale che fosse, mi avanzai alla sua volta, la salutai, chiesi di potermi congratulare con lei per la bella voce e le feci i miei complementi per quel canto che sgorgava dal profondo dell’anima.


La piccola artista, simile a un cerbiatto o a una sorta di antilope in forma di fanciulla, mi gettò dai begli occhi bruni uno sguardo tra meravigliato e interrogativo. Aveva un viso gentile e dolce e sorrideva con seducente grazia.


«Se lei saprà» le dissi «educare e coltivare saggiamente la sua bella voce (e a questo scopo è necessario molto giudizio da parte sua come altrui), le si apre dinanzi uno splendido avvenire: giacché, in tutta franchezza, io vedo in lei la futura grande cantante d’opera in persona.


«L’intelligenza, evidentemente, non le manca; la sua personalità è morbida e duttile, e se l’impressione non m’inganna del tutto, lei possiede decisamente una forte spiritualità. Ha anche fuoco e una palese nobiltà di cuore: l’ho capito subito da quella canzone che ha cantato così egregiamente. Lei ha talento, dirò di più: ha del genio!


«Quello che le dico non è vacuo né insincero. Tutto al contrario, ciò che voglio è soltanto pregarla di dedicare la più grande attenzione alle sue rare doti, di preservarle con cura da ogni deformazione e storpiamento, da una sconsiderata, precoce dissipazione e negligenza. Per il momento posso solo dirle in tutta sincerità che lei canta eccezionalmente bene; ed è una cosa molto seria e che significa molto. Significa innanzitutto che bisogna raccomandarle di continuare a cantare diligentemente ogni giorno.


«Si eserciti e canti con misura e giudizio. Lei stessa sicuramente non conosce la grandezza e l’estensione del tesoro che le è dato.


«Nel suo modo di cantare è già avvertibile un alto grado di temperamento, la ricchezza di una natura vivace e istintiva, una somma di poesia e di umanità tali da indurre a darle per certo che lei promette in ogni senso di diventare una cantante autentica. Bisogna dirlo: lei è veramente un essere che per sua natura è portato a cantare, che solo quando incomincia a cantare sembra riuscire a vivere e a godere la vita, convogliando ogni slancio e forza vitale nella sua arte, a tal punto che tutto quanto ha un significato umano e individuale, ogni pienezza d’animo e d’intelletto, si sublima in un qualcosa di più alto, in un ideale.


«Direi che in un bel canto si concentra e si condensa sempre un’esperienza, un sentimento, un agglomerato esplosivo di energie di vita oppressa e di animo commosso; e con un canto di questo genere una donna, se sappia avvalersi di tutte le circostanze favorevoli e ascenda una scala di coincidenze numerose e singolari, può, come stella nel cielo dell’arte canora, commuovere molti spiriti, guadagnare grandi ricchezze, trascinare un pubblico a tempestose ed entusiastiche manifestazioni di plauso e cattivarsi l’amore e la sincera ammirazione di re e di regine».


Con serietà stupita la giovinetta ascoltò le mie parole; in verità, io le pronunziai più per mio piacere che non aspettandomi da lei quell’apprezzamento e quella comprensione per i quali le mancava la necessaria maturità.


Vedo già da lontano un passaggio a livello che dovrò superare; ma per il momento non ci sono ancora arrivato. Occorre assolutamente sapere che prima ho da sbrigare due o tre altre incombenze e da prendere accordi su alcune faccende urgenti e indifferibili. Sul che mi permetto di riferire nel modo più circostanziato.


Mi si vorrà cortesemente concedere di far presente che, se possibile, devo far sosta di passaggio in un’elegante sartoria maschile per un abito nuovo da provare o da far ritoccare. Secondariamente devo andar a pagare forti tasse al municipio o palazzo degli uffici. In terzo luogo devo portare alla posta una lettera importante e gettarla nell’apposita cassetta. Inoltre, dato che è passato non poco tempo, dovrei tornare a farmi tagliare i capelli.


Si vede dunque che ho da fare molte cose e che questa mia passeggiata, all’apparenza indolente e pacifica, brulica in realtà d’impegni pratici, di appuntamenti d’affari. Si abbia perciò la bontà di perdonare gli indugi, giustificare i ritardi e tener per buone le lunghe discussioni con funzionari e altrettali intendenti, e anzi di voler considerare tutto ciò con benevolenza, quale contributo e apporto allo svago. Per tutte le lungaggini, divagazioni e prolissità che ne derivano, chiedo in anticipo umilmente scusa.


Quale scrittore di provincia o di città si è mai condotto più dimessamente e cortesemente nei confronti della sua cerchia di lettori? Nessuno, credo; e pertanto, proseguendo con tranquillissima coscienza a narrare e a conversare, passo a quanto segue.


In nome di tutti i santi, è gran tempo che mi affretti dalla signora Aebi per la prevista colazione o asciolvere. Mezzogiorno e mezzo è appena sonato. Fortunatamente quella brava donna abita qui a due passi. Non ho che da scivolare come un’anguilla entro la sua casa come in un ricettacolo, come in un posto di ristoro per poveri affamati e pietosi decaduti. La mia puntualità fu un capolavoro. Si sa quanto i capolavori siano rari. La signora Aebi mi accolse con grande affabilità, sorridendomi nel modo più cortese; mi porse la sua vezzosa manina con una cordialità che oserei definire incantevole e mi guidò subito nella stanza da pranzo. Qui giunti, m’invitò a sedermi a tavola, ciò che feci col maggior piacere e la più grande disinvoltura immaginabili.


Lasciando da parte ogni ridicola cerimonia cominciai tranquillo a mangiare e a servirmi senza soggezione, neppur da lontano presago di ciò che mi aspettava.


Iniziai dunque a servirmi abbondantemente e a mangiare con impegno – un impegno che, com’è noto, costa poca fatica. Intanto mi accorgevo, non senza un certo stupore, che la signora Aebi mi fissava quasi religiosamente. La cosa era piuttosto strana. Evidentemente l’affascinava il guardarmi mentre mi servivo e mangiavo. Il fatto curioso mi sorprese, ma non gli diedi grande importanza.


Allorché tentai di chiacchierare e di fare un po’ di conversazione, la signora Aebi me lo impedì, dicendomi che rinunciava con la più grande gioia a ogni discorso. Quelle strane parole mi sbalordirono e mi assalì una certa paura. In segreto cominciai a spaventarmi della signora Aebi. Quando poi volli smettere di lavorare di coltello e forchetta perché mi sentivo sazio, ella mi disse dolcemente, con voce in cui vibrava un lieve rimbrotto materno:


«Ma lei non mangia niente. Aspetti, ora le taglierò un’altra bella porzione succulenta».


Rabbrividii di terrore. Con gentilezza osai protestare che ero venuto lì soprattutto per far sfoggio di un tantino di spiritualità; ma la signora Aebi, col più grazioso dei sorrisi, rispose di non ritenerlo affatto necessario.


«Mi è impossibile mangiare altro» dissi incupito e tetro. Ero sul punto di soffocare e sudavo già di paura. La signora Aebi disse:


«Non posso assolutamente ammettere che lei non voglia più affettare e rimpinzarsi, e neanche per un momento credo che sia davvero sazio. Se afferma che sta per scoppiare, sono sicura che non dice la verità. Sono in dovere di credere che faccia solo dei convenevoli. Rinuncio con piacere, le ho detto, a ogni chiacchierata intellettuale. Lei certamente è venuto soprattutto per dar prova di essere un forte mangiatore e per dimostrare che ha appetito. A nessun costo mi sento di mutare opinione al riguardo, e vorrei anzi vivamente pregarla di accettare di buon animo l’inevitabile: giacché, gliel’assicuro, lei non ha altro scampo per alzarsi da tavola che ingoiare e far sparire diligentemente tutto ciò che le ho messo e che continuerò a metterle nel piatto.


«Temo che ormai lei sia perduto senza speranza, perché, deve sapere, ci sono delle padrone di casa che costringono gli ospiti a servirsi e a ingozzarsi fino a scoppiare. È un triste, compassionevole destino quello che l’aspetta, ma lei lo sopporterà da valoroso. Ogni giorno dobbiamo sottoporci a qualche grave sacrificio!


«Ubbidisca e mangi! È così dolce ubbidire. E se anche ciò dovesse costarle la vita, che male c’è?


«Guardi che grande, bella, delicata porzione: lei la divorerà subito, ne son certa. Coraggio, amico mio! Tutti abbiamo bisogno di coraggio. A che ci ridurremmo, se volessimo sempre ostinarci nei nostri propositi?


«Raccolga tutte le sue forze e si applichi a dare il meglio di se stesso, a sopportare e a fronteggiare le prove più severe.


«Non può credere di quanta gioia mi riempia il vederla mangiare fino al punto di perdere conoscenza; e non immagina neppure quanto mi rattristerei se lei vi si sottraesse. Ma non lo farà, nevvero? Non è vero che continuerà a sgranocchiare e a servirsi anche quando sarà pieno fino al collo?».


«Tremenda donna, cosa pretende da me?» gridai, alzandomi con un balzo da tavola e facendo l’atto di darmela a gambe. Ma la signora Aebi mi trattenne, rise di gran cuore e mi confessò che aveva voluto farmi uno scherzo, del quale – disse – avrei avuto la bontà di non adontarmi.


«Ho voluto solo darle un esempio di come si comportano certe padrone di casa, che traboccano addirittura di cortesia verso i loro ospiti».


Anch’io risi, e devo confessare che la signora Aebi, col suo umore mattacchione, mi riusciva molto simpatica. Avrebbe voluto che restassi da lei l’intero pomeriggio, e fu quasi un po’ indignata quando le dissi che purtroppo era escluso che potessi tenerle compagnia più a lungo, a causa delle importanti faccende cui dovevo dedicarmi, e che mai e poi mai avrei potuto rinviare. Le sue espressioni di vivo rammarico perché dovevo e volevo andarmene così presto, furono per me estremamente lusinghiere. Mi chiese se davvero avevo tanta fretta di svignarmela, al che replicai con la solenne assicurazione che solo l’urgenza più pressante poteva strapparmi così per tempo da un luogo tanto gradito e da una compagnia tanto attraente e stimabile; e fu con queste parole che presi commiato da lei.


Era ora la volta di un sarto o marchand tailleur cocciuto, caparbio, chiaramente persuaso sotto ogni aspetto dell’infallibilità della sua indiscussa maestria, totalmente compenetrato del suo valore come delle sue capacità professionali, e affatto incrollabile in tale sua sicumera. Si trattava di sconfiggerlo, domarlo, soverchiarlo e scompaginarlo.


Scuotere la fermezza dei grandi sarti merita di essere annoverato tra le più difficili e faticose bisogne, di quelle che esigono ardire nell’intraprendere e temeraria decisione nel procedere. Per i sarti e per il loro modo di pensare nutro infatti una costante e forte paura, cosa della quale non mi vergogno affatto, dato che in questo caso la paura è spiegabilissima.


Non mi attendevo dunque nulla di buono, anzi diciamo che mi aspettavo il peggio, e in vista di quella pericolosa guerra offensiva mi armavo di doti quali coraggio, tenacia, collera, sdegno, disprezzo e addirittura disprezzo della morte, armi indubbiamente impareggiabili e con le quali speravo di scendere vittoriosamente e felicemente in campo contro l’ironia mordace e lo scherno mascherato d’ipocrito candore.


Ma non andò così. Per il momento, tuttavia, voglio tacere su questo punto, perché prima devo spedire una lettera. Decisi subito, infatti, di andare prima alla posta, poi dal sarto e infine a pagare le tasse governative.


D’altronde, l’appetitoso edificio della posta mi stava proprio davanti al naso. Vi entrai tutto allegro e chiesi all’impiegato addetto un francobollo che appiccicai sulla lettera. Mentre lasciavo cadere con cura quest’ultima nella cassetta, riflettevo e riandavo nella memoria ciò che avevo scritto. Come sapevo benissimo, il contenuto della lettera era il seguente:


«Molto venerando signore,1


la strana apostrofe da me usata è tale da indurla nella certezza che i sentimenti del mittente sono assolutamente freddi nei Suoi riguardi. So che da Lei e da quelli che Le somigliano non v’è da aspettarsi per me considerazione alcuna: questo perché Lei e quelli che Le somigliano hanno di se stessi un’opinione smodata, che toglie loro capacità di giudizio nonché ogni e qualsiasi riguardo verso gli altri. So con precisione che Lei appartiene a quel genere di persone che si sentono importanti perché sono scortesi e irrispettose, che si figurano d’esser potenti perché godono di protezione, che credono d’esser sagge perché di tanto in tanto la paroletta ‘saggio’ frulla loro per il capo.


«Quelli come Lei si permettono d’esser duri, villani, sfrontati e dispotici con i miseri e con inermi. Quelli come Lei possiedono la non comune furberia di credere che sia necessario essere sempre al primo posto, avere sempre il sopravvento e menar trionfo a qualunque ora del giorno. Quelli come Lei non si accorgono che ciò è follia, che è fuori dal campo delle possibilità e che non è neppure desiderabile. Quelli come Lei sono degli spacconi, pronti ad ogni momento a sfoggiare brutalità. Quelli come Lei pongono il massimo coraggio nell’evitare accuratamente ogni atto coraggioso, perché sanno che per loro il vero coraggio è sempre foriero di danno; e pongono pure coraggio nel manifestare desiderio e gran zelo a spacciarsi per buoni e per belli. Quelli come Lei non hanno rispetto né verso l’età, né verso il merito, e meno che meno verso il lavoro. Quelli come Lei rispettano il denaro, e tale rispetto impedisce loro di stimare altamente qualsiasi altra cosa.


«Chi lavora con coscienza e si prodiga con devozione è, agli occhi di quelli come Lei, un pezzo d’asino. Non mi sbaglio su questo punto: il mio dito mignolo mi dice che ho ragione. Devo aver animo di dichiararglielo in faccia: Lei abusa della Sua carica, perché sa quanti fastidi e quante traversie costerebbe darle delle bacchettate sulle mani. Provvisto com’è di ogni grazia e favore, contornato com’è da circostanze propizie, si trova nondimeno ad essere aspramente combattuto, proprio perché sa quanto traballante è la Sua situazione.


«Lei fa torto alla fiducia, non mantiene la parola, danneggia senza scrupolo la riputazione e la stima goduta da coloro che hanno rapporto con Lei; sfrutta spietatamente nell’attimo stesso in cui asserisce di far del bene, tradisce il servigio e diffama chi Gliel’ha prestato, è incostante e malfido e dà prova di vizi di carattere facilmente scusabili in una ragazzina, ma non già in un uomo.


«Perdoni se mi permetto di giudicarla estremamente debole e gradisca, insieme alla sincera assicurazione che per l’avvenire lo scrivente ritiene consigliabile tenersi il più possibile lontano da Lei nei rapporti d’affari, la pur sempre adeguata dose e il grado obiettivamente dovuto d’ossequio da parte di qualcuno cui fu data in sorte la prerogativa nonché il decisamente moderato piacere di poter fare la Sua conoscenza».


Quasi quasi rimpiansi d’aver affidato al recapito postale quella lettera furfantesca: tale infatti essa mi sembrò retrospettivamente, giacché la persona alla quale avevo annunciato con tanta chiarezza la rottura dei rapporti diplomatici, o meglio d’affari, provocando un fierissimo stato di guerra, era per certo tra le più in vista e influenti. Tuttavia lasciai che la lettera di sfida seguisse il suo corso, dicendomi a mo’ di consolazione che quel tale – cioè il molto venerando signore – forse non avrebbe neppure letto fino in fondo il mio messaggio, e tanto meno l’avrebbe riletto, perché dopo due o tre parole sarebbe già stato sazio di così prelibata lettura e, senza perdere tempo né sprecare preziose energie, avrebbe probabilmente gettato la mia incandescente effusione nella tomba o ricettacolo d’ogni arrivo malaugurato: il cestino della carta.


«Per di più, roba del genere la si dimentica nello spazio di sei mesi o anche di tre, è un fatto di natura» conclusi filosoficamente, e mi diressi baldanzoso dal sarto.


Il quale se ne sedeva tutto allegro, e in apparenza con la più tranquilla coscienza del mondo, nella sua elegante bottega di mode o laboratorio, pieno zeppo di beneodoranti pezze e scampoli di panno. Un chiassoso uccello ingabbiato e un solerte e accorto aiutante che manovrava con perizia le forbici, sembravano voler completare l’idillico quadro.


Il signor Dünn, maestro di taglio, appena mi scorse si alzò con cortesia dal suo seggio, dove lottava alacre con l’ago da cucire, per accogliere urbanamente il nuovo arrivato.


«Lei viene per il vestito che quanto prima la mia ditta deve consegnarle bell’e pronto, un vestito che indubbiamente le starà a pennello» disse, mentre con gesto quasi troppo cameratesco mi porgeva la mano, che peraltro non esitai punto a stringere.


«Vengo» risposi «per sottopormi intrepido e speranzoso alla prova, nutrendo non pochi motivi di apprensione».


Il signor Dünn disse che ogni apprensione gli sembrava fuor di luogo: egli garantiva il taglio e la rifinitura. Così dicendo, mi condusse in un camerino attiguo, dal quale subito si ritirò. Le sue ripetute asserzioni e garanzie non mi giungevano troppo gradite. Infatti seguì ben presto la prova, accompagnata inscindibilmente da profonda delusione.


Cercando con sforzo di reprimere il mio ribollente malumore, chiamai a voce alta e irritata il signor Dünn, al quale, con la massima calma e la più distaccata insoddisfazione possibile, gettai in faccia l’esclamazione seguente, destinata senza dubbio ad annientarlo:


«Me l’aspettavo!».


«Signor mio carissimo, non si agiti inutilmente».


Ribattei proferendo a fatica: «Di motivi di agitazione e di sconforto qui ce ne sono a bizzeffe. Abbia la gentilezza di tenere per sé codeste esortazioni tutt’altro che confacenti, e smetta subito, la prego, di cercar di calmarmi. Quanto lei ha fatto per preparare un vestito inappuntabile è inquietante al massimo grado. Tutte le possibili apprensioni, lievi o gravi che fossero, si sono puntualmente avverate e i peggiori presentimenti hanno trovato conferma sotto ogni aspetto. Come può osare di garantirmi l’irreprensibilità del taglio e della rifinitura, come può aver tanto coraggio da asserire d’essere maestro nella sua arte, quando dovrebbe bastarle un nonnulla di onestà, una sia pur minima dose di attenzione e di sincerità per ammettere senza discussione che il mio è un caso assolutamente disgraziato e che il vestito inappuntabile che la sua spettabile e celebrata ditta doveva fornirmi è un fiasco bell’e buono?».


«Mi consenta di respingere il termine ‘fiasco’»


«Cercherò di controllarmi, signor Dünn».


«Gliene sono grato e mi compiaccio di sì lodevole intenzione».


«Lei permetterà che le chieda di apportare a questo vestito, che in base all’accurata prova or ora effettuata presenta un visibilio di difetti, imperfezioni e manchevolezze, significative e radicali modifiche».


«Questo è possibile».


«Lo scontento, l’irritazione e la tristezza che provo mi costringono a dichiararle che lei mi ha fatto andare in collera».


«Le giuro che la cosa mi addolora».


«La prontezza che lei dimostra nel giurare di essere addolorato per avermi fatto incollerire e messo di malumore, non cambia assolutamente nulla al fatto che il vestito sia difettoso, che io rifiuti decisamente di approvarlo anche in minima misura, e che respinga energicamente l’ipotesi di accettarlo, poiché non si può parlare né di elogio né di gradimento da parte mia.


«Per quanto riguarda la giacca, avverto chiaramente che mi fa diventare gobbo e perciò brutto: deturpazione che in nessun caso potrei ammettere e contro la quale, al contrario, elevo formale protesta.


«Le maniche soffrono di un eccesso di lunghezza addirittura allarmante. Caratteristica vistosa del panciotto è quella di suscitare la penosa impressione, di produrre lo sgradevole effetto che chi lo indossa abbia una gran pancia.


«I calzoni sono semplicemente abominevoli. Il loro disegno o progetto m’ispira un ribrezzo profondissimo. Là dove questo miserabile, ridicolo, atrocemente sciocco capolavoro di pantalone dovrebbe espandersi con una certa ampiezza, si restringe in una strozzatura, e dove dovrebbe essere stretto, è più che largo.


«Il suo lavoro, signor Dünn, è, tutto sommato, privo di fantasia. La sua opera denota scarsa intelligenza. Un vestito come questo ha in sé qualcosa di misero, di squallido, di meschino, denuncia una mentalità puerile, timorosa, casereccia. Colui che lo ha confezionato non può certo definirsi una natura esuberante. In ogni caso, una così completa assenza di qualsivoglia talento non può che essere sommamente spiacevole».


Il signor Dünn ebbe la sfrontatezza di rispondermi:


«Non comprendo la sua indignazione e non sarò mai disposto a comprenderla. I numerosi e gravi appunti che ella ha creduto di muovermi mi riescono inconcepibili, e tali per me rimarranno con ogni probabilità. Il vestito le sta benissimo, e nessuno potrà farmi cambiare opinione. Sono fermissimamente convinto, lo sappia, che esso le dona in maniera straordinaria. A certi particolari che gli conferiscono speciale distinzione lei farà presto ad abituarsi. I più alti funzionari statali vengono da me per i loro pregiati ordini. Del pari, non pochi presidenti di tribunale mi concedono la loro graziosa fiducia. Questo le basti come prova inconfutabile delle mie capacità! Non mi è possibile prendere in considerazione richieste esorbitanti, e davanti ad esigenze cervellotiche il maestro di taglio Dünn sa serbarsi, grazie a Dio, completamente freddo. Signori più distinti, personaggi più altolocati di lei si sono dichiarati del tutto soddisfatti della mia perizia e della mia abilita, e con ciò mi permetterei di osservare che spero di aver spuntato tutte le sue armi».


Una volta che fui persuaso dell’impossibilità di nulla ottenere e mi fui detto che la mia offensiva, forse troppo veemente e focosa, s’era mutata, ahimè, nella più dolorosa e vituperevole di tutte le sconfitte, ritirai le mie truppe dalla sfortunata tenzone, tagliai corto senza insistere e me la battei umiliato.


In tal modo ebbe termine l’ardimentosa avventura col sarto. Senza guardarmi attorno in cerca d’altro, mi affrettai verso la cassa comunale per la faccenda delle tasse. A questo punto è necessario rettificare un errore grossolano.


Infatti, come ora mi sovviene in ritardo, non si trattava di pagamento, bensì, momentaneamente, di un semplice colloquio col signor presidente della spettabile commissione delle imposte, nonché della presentazione o rilascio di una formale dichiarazione. Nessuno vorrà, spero, aversene a male per questo equivoco, ma si preferirà anzi ascoltare con cortesia quanto avrò da dire in proposito.


Non diversamente dall’energico signor sarto Dünn, che mi aveva garantito l’irreprensibilità del suo prodotto, io qui prometto e garantisco, per quanto concerne la richiestami dichiarazione fiscale, esattezza e completezza di notizie, insieme a concisione e brevità.


Desidero entrare subito nel merito della simpatica situazione:


«Mi permetta di chiarirle» dissi in tutta franchezza al reggitore, o meglio all’alto e rispettabile funzionario delle imposte che mi prestava il suo accreditato orecchio per ascoltare attentamente la relazione che gli andavo facendo «che io, nella mia qualità di povero scrittore o homme de lettres, posso contare su un reddito assai precario.


«Ovviamente, nel mio caso non si dà neppure l’ombra di qualsiasi possibile accumulo di capitali, cosa che qui le dichiaro con mio grave disappunto, pur senza versare lagrime su tale spiacevole dato di fatto.


«Non mi abbandono alla disperazione, però non posso neppure emettere grida di tripudio e di giubilo. Mi limito, come si dice, a cavarmela a stento.


«Non mi concedo alcun lusso: di questo lei si convincerà al primo sguardo. Del cibo che mangio si può dire che è sufficiente e parco.


«A lei evidentemente è venuta in mente l’idea che io disponga di molteplici introiti. Io mi trovo peraltro nella necessità di oppormi con cortese fermezza a tale opinione, come pure ad ogni analoga congettura, e di dire la pura e schietta verità, la quale, comunque la si consideri, è la seguente: che io sono oltremodo privo di ricchezze, mentre al contrario sono carico di ogni specie di povertà; e di ciò la prego di voler cortesemente prendere nota.


«La domenica non posso neanche mostrarmi per la strada, dato che non ho un abito della festa. Il mio ritmo di vita, regolato e frugale, somiglia a quello di un topo campagnolo. Perfino un passero sembra avere più possibilità di diventare benestante di quante ne abbia il qui presente denunciante e soggetto fiscale. Ho scritto alcuni libri, che però non hanno trovato la minima eco tra il pubblico. Le conseguenze di una simile situazione sono tali da stringere il cuore. Nemmeno per un istante dubito che ella vorrà tener conto di tutto ciò, e di conseguenza comprendere la mia particolare condizione finanziaria.


«Posizione borghese, considerazione borghese e simili sono cose di cui io non godo affatto, è chiaro come il sole. Di fronte a uno come me si può dire che nessuno si sente obbligato a nulla. Scarsissime sono le manifestazioni di vivo interesse per la letteratura. Notevole pregiudizio arrecano inoltre le critiche implacabili che chiunque si sente in dovere di esercitare sulle nostre opere, e un tale ostacolo blocca la realizzazione di qualsiasi pur modesto benessere.


«Senza dubbio c’è qualche benevolo donatore o qualche gentile donatrice che di quando in quando fornisce allo scrittore un signorile appoggio. Ma i doni sono cosa ben diversa da un reddito, i sussidi tutt’altro che un patrimonio.


«Per questi validi motivi vorrei pregarla, onoratissimo signore, di astenersi cortesemente da qualsiasi aumento delle tasse, misura che lei ebbe ad annunciarmi, e di voler in nome di Dio valutare la mia solvibilità al più basso livello possibile».


Il sovrintendente o tassatore disse: «Ma lei, la si vede sempre andare a spasso!».


«A spasso» risposi «ci devo assolutamente andare, per ravvivarmi e per mantenere il contatto col mondo; se mi mancasse il sentimento del mondo, non potrei più scrivere nemmeno mezza lettera dell’alfabeto, né comporre alcunché in versi o in prosa. Senza passeggiate sarei morto e da tempo avrei dovuto rinunciare alla mia professione, che amo appassionatamente. Senza passeggiate, senza andare a caccia di notizie, non sarei in grado di stendere il minimo rapporto, e tanto meno un articolo, non parliamo poi di scrivere un racconto. Senza passeggiate non potrei collezionare appunti né osservazioni. Uno spirito giudizioso e aperto come il suo se ne capaciterà subito.


«Le prolisse passeggiate mi ispirano mille pensieri fruttuosi, mentre rinchiuso in casa avvizzirei e inaridirei miseramente. L’andare a spasso non è per me solo salutare, ma anche profittevole, non è solo bello ma anche utile. Una passeggiata mi stimola professionalmente, ma al contempo mi procura anche uno svago personale; mi consola, allieta e ristora, mi dà godimento, ma ha anche il vantaggio di spronarmi a nuove creazioni, perché mi offre numerose occasioni concrete, più o meno significative, che, tornato a casa, posso elaborare con impegno. Ogni passeggiata è piena di incontri, di cose che meritano d’esser viste, sentite. Di figure, di poesie viventi, di oggetti attraenti, di bellezze naturali brulica letteralmente, per solito, ogni piacevole passeggiata, sia pur breve. La conoscenza della natura e del paese si schiude piena di deliziose lusinghe ai sensi e agli sguardi dell’attento passeggiatore, che beninteso deve andare in giro ad occhi non già abbassati, ma al contrario ben aperti e limpidi, se desidera che sorga in lui il bel sentimento, l’idea alta e nobile del passeggiare.


«Consideri a quale impoverimento, a quale fallimento doloroso andrebbe incontro il poeta, se la materna, paterna, filiale natura non gli consentisse di abbeverarsi di continuo alla fonte del bello e del buono. Consideri l’importanza grandissima e sempre nuova che per il poeta ha l’insegnamento, la santa, aurea dottrina che gli proviene dal vivere all’aperto. Senza passeggiate e la relativa contemplazione della natura, senza questa raccolta di notizie, che allieta e istruisce insieme, che è ristoro e incessante monito, io mi sento come perduto, e realmente lo sono. Con grande attenzione e amore colui che passeggia deve studiare e osservare ogni minima cosa vivente: sia un bambino, un cane, una zanzara, una farfalla, un passero, un verme, un fiore, un uomo, una casa, un albero, una coccola, una chiocciola, un topo, una nuvola, un monte, una foglia, come pure un misero pezzettuccio di carta gettato via, sul quale forse un bravo scolaretto ha tracciato i suoi primi malfermi caratteri.


«Le cose più sublimi e le più umili, le più serie come le più allegre, sono per lui in ugual misura care, belle e preziose. Neppure una traccia di ombroso amor proprio deve albergare nel suo animo, ma bensì egli deve lasciare che il suo sguardo sollecito erri e si posi dappertutto con spirito fraterno, deve saper aprirsi solo alla vista e all’osservazione, e viceversa essere capace di tenere a distanza i suoi propri lamenti, bisogni, mancanze, rinunce, come un valoroso e provetto soldato, pieno di zelo e di abnegazione.


«Diversamente egli passeggia solo con metà del suo spirito, il che invero vale assai poco.


«In ogni momento deve esser disposto a impietosirsi, a simpatizzare, ad entusiasmarsi, ed è sperabile che lo sia. Deve esser capace di esaltarsi nell’entusiasmo, ma altrettanto facilmente deve sapersi chinare verso le più minute esperienze quotidiane; ed è presumibile che sappia farlo. Ma il pieno, fiducioso abbandonarsi e ritrovarsi nelle cose, l’amore sollecito per ogni nuovo avvenimento sono però anche, per lui, fonte di felicità, come ogni dovere adempiuto arricchisce e rende intimamente felice chi di tale dovere è consapevole. Intelligenza e dedizione gli procurano letizia, lo innalzano molto al di sopra del suo personaggio di passeggiatore, tenuto sovente in sospetto d’inutile e scioperata vagabondaggine. Studi molteplici lo fanno ricco, lieto, sereno, nobile, e ciò a cui egli attende solerte può a volte sfiorare da vicino una scienza esatta, di cui nessuno stimerebbe capace un essere in apparenza così futile e ozioso.


«Sa lei che la mia testa lavora con tenacia e ostinazione, che spesso sono operoso nel vero senso della parola, proprio quando mi si prenderebbe invece per un arcifannullone, per un irresponsabile e sventato perdigiorno che si smarrisce nell’azzurro o nel verde e che desta cattiva impressione con la sua trasognata, neghittosa indolenza?


«Segretamente ogni sorta di pensieri e d’idee seguono di soppiatto colui che passeggia, così da obbligarlo, mentre cammina compassato e attento, a fermarsi e a restare in ascolto, poiché, completamente stordito da strane impressioni, dalla potenza degli spiriti, si sente a un tratto come magicamente sprofondare nel suolo, mentre davanti agli occhi abbagliati e smarriti del pensatore-poeta si spalanca un abisso. La testa sembra volerglisi staccare dal busto, le braccia e le gambe, solitamente così vivaci, sono come paralizzate. Paese e gente, suoni e colori, volti e figure, nuvole e luce solare gli girano tutt’intorno come larve, ed egli si chiede: “Dove sono?”.


«Terra e cielo fluiscono e precipitano insieme in una visione nebulosa, tutta onde e lampi, in un barbaglìo dai contorni indefiniti. Il caos incomincia, ogni ordine svanisce. L’uomo sconvolto cerca a fatica di serbarsi lucido; vi riesce. Poi continua fiducioso a camminare.


«Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore di incontrare professori, visiti di passata librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e con attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi azzuffi fieramente con sarti perfidi e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto.


«A chi passeggia si accompagna sempre alcunché di singolare, di fantastico, e sarebbe insensato ch’egli volesse ignorare questa presenza spirituale: ma non l’ignora per nulla, invece, e saluta con un cordiale benvenuto tutti gli incontri inattesi, si familiarizza, fraternizza con essi, li tramuta in corporeità tangibili, sostanziose, dà loro anima e forma, così come essi, dal loro canto, lo animano e lo formano.


«Insomma: pensando, scrutando, scavando, almanaccando, riflettendo, scrivendo, ricercando, indagando e passeggiando io mi guadagno il pane quotidiano altrettanto duramente quanto chiunque altro. Proprio mentre il mio viso assume l’aria più ilare può darsi ch’io sia serissimo e pieno di scrupoli, e quando all’aspetto mi si direbbe null’altro che un molle sognatore, sono un solido professionista. Posso sperare, con la minuziosa dichiarazione che le ho fornito, di averla totalmente convinta della manifesta sincerità dei miei propositi?».


Il funzionario disse: «Bene!» e aggiunse: «La sua richiesta che le venga applicata la minima aliquota possibile sarà sottoposta ad esame. Quanto prima le faremo avere una comunicazione di rifiuto o di accoglimento al riguardo. Per la relazione che ella ci ha cortesemente rilasciato, come pure per le diligenti e sincere dichiarazioni fornite, la ringraziamo vivamente. Per il momento può andare tranquillo a riprendere la sua passeggiata».


Congedato con buona grazia, me la svignai tutto allegro e fui subito di nuovo all’aperto, dove mi sentii afferrato e travolto dall’ebbrezza esaltante della libertà.


Dopo non poche avventure affrontate con coraggio e vari ostacoli più o meno vittoriosamente superati, eccomi finalmente al passaggio a livello preannunciato da tempo. Qui dovetti soffermarmi alquanto e aspettare da bravo che il treno si degnasse di transitare secondo le regole. Uomini e donne d’ogni genere, d’ogni età e carattere aspettavano come me, fermi presso la sbarra, mentre la simpatica e corpulenta moglie del casellante squadrava da capo a piedi noi indugianti in attesa lì intorno. Il treno avanzò sbuffando, carico di militari che guardavano dai finestrini; e tra tutti quei soldati che prestavano servizio all’amata patria e il disutile pubblico dei borghesi vennero scambiati, da una parte e dall’altra, patriottici e allegri saluti; e questo movimento creò tutt’intorno una piacevole atmosfera.


Sollevata che fu la sbarra, io e gli altri proseguimmo tranquilli, e ora, di colpo, ogni particolare del paesaggio mi parve mille volte più bello di prima. La mia passeggiata si faceva sempre più bella, più grande. Qui, al passaggio a livello – pensai fra me – forse si trova in certo modo il culmine, il punto centrale, dal quale in poi tutto andrà declinando. Già percepivo qualcosa di simile al tenero inizio del calar della sera. Un che di voluttuoso e insieme di malinconico alitava intorno, come un dio taciturno ed eccelso. «Qui, in questo momento, è divinamente bello» pensai di nuovo.


Il dolce paese, con la gentile modestia dei suoi prati, case, giardini, mi appariva come un soave canto d’addio. Da ogni parte echeggiavano a ondate lamenti antichissimi di misera gente sofferente. Spiriti emergevano in mirabili panneggi, grandi, morbidi, plastici. La bella, dolce strada maestra splendeva d’azzurro, di bianco, d’oro. Sopra le case dei poveri, dipinte di giallo e soffuse di color rosa, abbracciate con infantile tenerezza dal sole, commozione e incanto volavano simili a immagini d’angeli cadenti dal cielo; tenendosi per mano, amore e povertà si libravano nell’aria profumata. Mi sembrava quasi che qualcuno mi chiamasse per nome, che qualcuno mi baciasse o mi desse pace, che Dio Onnipotente in persona, nostro benigno Signore e padrone, procedesse sulla strada per renderla indicibilmente bella. Fantasie d’ogni specie m’inducevano a credere che Gesù Cristo fosse venuto lì e che ora si aggirasse insieme con tutta la buona, cara gente per l’incantevole contrada. Tutto ciò che era umano e concreto pareva essersi trasformato in un’anima colma di dolcezze. Veli argentei, nebbie immateriali fluttuavano per ogni dove, avviluppavano ogni cosa. Ecco, l’anima del mondo si è aperta, e ogni e qualsiasi cattiveria, sofferenza, dolore è in procinto di scomparire: così fantasticavo. Vecchie passeggiate mi tornavano davanti agli occhi. Ma il quadro meraviglioso del presente assurse subito a sensazione dominante. I giorni del futuro impallidivano, il passato dileguava. Nell’incendio di quell’attimo arsi anch’io. Da ogni direzione avanzò luminoso, con splendido gesto beatificante, tutto ciò che è grande e buono. In mezzo alla bella contrada, io pensavo solo ad essa; qualunque altro pensiero veniva meno. Guardavo attento a quanto v’era di più piccolo, di più modesto, mentre il cielo pareva inarcarsi alto e scendere profondo. La terra si faceva sogno; io stesso ero divenuto interiorità e procedevo come dentro di essa. Ogni forma esteriore si dissolse, il finora compreso divenne incomprensibile. Rimanendo alla superficie precipitai nel profondo, che immediatamente riconobbi come il bene. Quello che noi comprendiamo e amiamo comprende e ama noi pure. Io non ero più io, ero un altro, ma appunto perciò più che mai me stesso. Nella soave luce d’amore credetti di poter capire, o di dover sentire, che colui che veramente esiste è solo l’uomo interiore. Mi afferrò questo pensiero: «Dove finiremmo noi uomini se non ci fosse la buona, fida terra? Che cosa avremmo, se questo ci mancasse? Dove potrei essere, se non fossi qui? Qui ho tutto e altrove non avrei nulla».


Ciò che vedevo era insieme povero e grande, piccolo e colmo di significato, leggiadro quanto modesto, buono quanto caldo e amabile. Particolare gioia mi dettero due case, che nella chiara luce solare se ne stavano l’una accanto all’altra come due figure a riscontro, vive e cordiali. Attraverso la lieve affabilità dell’aria, delizia si avvicendava a delizia, passava un tenue tremito di piacere. Una delle due case era l’osteria «dell’Orso». Buffo e ben fatto mi sembrò l’orso dell’insegna. Castagni ombreggiavano la casetta, che di certo albergava gente buona e simpatica; non aveva affatto, quella casa, l’aria orgogliosa di certi edifici, bensì appariva come la familiarità e la fedeltà stessa. Da ogni parte dove giungeva lo sguardo si scorgeva un fitto splendore di orti, cadeva una verde farragine di foglie gentili.


L’altra casa, nella sua nitida e graziosa piccolezza, era simile alla vignetta di un libro per bambini, tanto si presentava strana e seducente. Tutt’intorno ad essa il mondo sembrava essere perfettamente bello e buono. All’istante m’innamorai, oso dire, alla follia di quella deliziosa miniatura di casa, e non avrei chiesto di meglio che entrarvi subito per farvi il mio nido e starvi a pigione, così da sentirmi stabilmente domiciliato e tutto a mio agio nella casetta fatata; ma ahimè, proprio le abitazioni più belle sono quasi sempre occupate, e se uno va in cerca di una casa confacente ai suoi difficili gusti gli va certo male, perché quello che trova vuoto e disponibile è per lo più orrendo e tale da far davvero paura.


Certamente la bella casuccia era abitata da qualche donnicciola o nonnina che viveva sola: tale era l’aspetto e il profumo che ne emanava. Se me lo si vuol concedere, riferirò che il piccolo edificio rigurgitava di pitture murali o affreschi, raffiguranti con molta gradevolezza un paesaggio alpino svizzero, entro il quale, naturalmente dipinta, stava una casa dell’Oberland Bernese. La pittura in sé non era affatto buona, e volerne parlare come di un’opera d’arte sarebbe alquanto azzardato. Ma io, nondimeno, la trovavo deliziosa. Ingenua e semplice com’era, riusciva perfino ad entusiasmarmi. Bisogna sapere che ogni pittura, per goffa che sia, mi entusiasma, perché ogni pezzetto dipinto mi fa pensare anzitutto alla diligenza e alla solerzia, e poi all’Olanda. Ogni musica, anche la più meschina, non è forse bella per colui che della musica ama l’essenza e l’esistenza? Qualsiasi essere umano, anche il più cattivo e sgradevole, non è degno d’amore per chi è amico all’uomo? Che un paesaggio dipinto nel bel mezzo di un paesaggio vero sia qualcosa di capriccioso, di piccante, nessuno vorrà negarmelo. Quanto alla circostanza che nella casetta abitasse una vecchierella, non l’ho data affatto per certa. Strano, però, che possano venirmi alle labbra parole come «circostanza» quando intorno a me non ha da esserci che morbidezza e pienezza di natura, quasi fossero sensazioni e presagi di un cuore materno! Per il resto, la casetta era tinteggiata di grigioazzurro e aveva imposte color verde chiaro che sembravano sorridere; e nel giardino olezzavano i più bei fiori. Sopra un chioschetto o bersò pendeva e si torceva con squisita grazia un rosaio tutto fiorito.


Continuando tranquillo il mio cammino – nel caso che non sia malato, ma vispo e in buona salute, ciò che spero di cuore e non metto minimamente in dubbio –, m’imbattei in un negozio di parrucchiere paesano, del cui contenuto e proprietario non ho però particolare motivo d’occuparmi, giacché sono d’avviso che non vi sia grande urgenza di farmi tagliare i capelli, anche se questa potrebbe essere una buona e piacevole cosa.


Più in là, passai accanto a un laboratorio di calzature che mi richiamò alla mente l’infelice poeta Lenz, che in uno stato di tenebra mentale e di animo sconvolto imparò a fare scarpe e le fece.


Passandovi davanti, gettai lo sguardo dentro una simpatica aula di scuola, dove la severa maestra stava interrogando e impartendo ordini ad alta voce; al qual proposito va notato quanto fortemente, da un momento all’altro, il passeggiatore desiderasse di tornar bambino e scolaretto indisciplinato, di andare ancora a scuola e di potersi meritare, a castigo delle proprie monellerie, una buona dose di busse.


Dato che si parla di busse, per associazione d’idee diremo che a nostro avviso un campagnolo che non si periti di abbattere l’ornamento del paesaggio, la bellezza della sua stessa dimora, vale a dire il suo grande vecchio noce, per procacciarsi la vile e assurda moneta, non meriterebbe di meglio che una coscienziosa bastonatura.


Davanti a una bella casa contadina dal magnifico, possente albero di noce, esclamai infatti ben chiaro: «Quest’albero grande e maestoso, che protegge e adorna così meravigliosamente la casa, che l’avviluppa e la veste di così grave, lieto, fiducioso sentimento del luogo e del borgo natìo, un albero come questo, dico, è come una divinità, e mille frustate tocchino al gretto proprietario che osi far scomparire tanto verde e fresco splendore di foglie al solo scopo di soddisfare la sua avarizia, che è quanto di più volgare vi sia al mondo. Imbecilli di tal fatta andrebbero espulsi dalla comunità. In Siberia, nella Terra del Fuoco dovrebbero finire simili deturpatori e demolitori del bello. Ma grazie al cielo vi sono ancora dei contadini che non hanno perduto ogni sentimento e affetto per le cose dolci e buone».


Forse, parlando dell’albero, dell’avidità, del contadino, della deportazione in Siberia e delle botte che, a quanto sembra, meriterebbe il contadino abbattendo l’albero, mi sono spinto un po’ troppo oltre e devo ammettere di essermi lasciato trascinare ad arrabbiarmi. Non pertanto gli amici dei begli alberi capiranno il mio sdegno e converranno col disappunto da me vivacemente espresso. Quanto alle mille frustate, di buon grado le ritratto. E senz’altro nego il mio consenso alla sgarbata parola «imbecille». Non posso che disapprovarla e chiederne scusa al lettore. Poiché ho già dovuto scusarmi più volte, ho ormai sufficiente pratica di tale buona usanza. «Gretto proprietario» non avrei avuto alcun bisogno di dirlo. Sono tutte sovreccitazioni mentali che, a mio avviso, vanno assolutamente evitate. È chiaro tuttavia che il mio dolore per la caduta di un bell’albero rimane immutato, e se al riguardo faccio il viso dell’armi nessuno può impedirmelo. «Espulso dalla comunità» è un’espressione avventata, e quanto all’avarizia, che ho bollato come volgare, suppongo anch’io di avere una volta o l’altra mancato, peccato e trasgredito su questo punto e di non essere per nulla immune da certi comportamenti volgari e miserabili.


Quella che sto facendo è politica al ribasso della più bell’acqua: una politica, però, che ritengo necessaria. La decenza c’impone di stare attenti a usare verso di noi la stessa severità che usiamo verso gli altri, a giudicare gli altri con la stessa mitezza che usiamo verso di noi, cosa quest’ultima che, com’è noto, noi facciamo per istinto ad ogni momento.


Non è addirittura affascinante questo correggere gli errori, questo appianare gli urti? Con le mie ammissioni mi dimostro uomo pacifico, col mio smussare spigoli, levigare scabrosità, ammorbidire durezze, sono un mitigatore discreto, manifesto sensibilità per il tono giusto e finezza diplomatica a tutta prova. Comunque, ho fatto brutta figura; ma spero che almeno mi si voglia dar atto della mia buona volontà.


Se poi qualcuno volesse ancora tacciarmi di tiranno brutale e di prepotente, capace solo di menar colpi alla cieca, affermo che chi dice così sbaglia di grosso. È ben probabile che mai un autore abbia costantemente pensato al suo lettore con più teneri riguardi di me.


Bene, ora posso anche esibire con zelo palazzi e magioni nobiliari, e precisamente:


Ho in mano un’autentica briscola, perché con una dimora patrizia semidiroccata, con un superbo, cavalleresco castello medioevale, grigio di vecchiaia e cinto da un parco, com’è quello che appare adesso, si può fare gran sfoggio, suscitare scalpore, destare invidia, provocare ammirazione e acquistare onore.


Più di un povero e valente letterato abiterebbe con somma gioia in un castello o fortilizio provvisto di cortile e d’ingresso per blasonate carrozze di aristocratici. Più di un misero pittore desideroso di godimenti sogna di poter sostare per qualche tempo in una sontuosa, arcaica dimora di campagna. Più di una ragazza di città, istruita ma evidentemente povera in canna, pensa con malinconico e struggente rapimento a stagni, grotte, stanze eccelse, portantine, e a se stessa attorniata da servitori premurosi e da eletti cavalieri.


Sopra la casa patrizia che mi vedevo dinanzi, o meglio, non sopra ma su di essa, si poteva scorgere e leggere la data 1709, cosa che naturalmente acuì di molto il mio interesse. Con curiosità quasi sconfinante nell’entusiasmo penetrai con lo sguardo, da buon naturalista e studioso d’antichità, nel vecchio, strano, trasognato giardino dove, in una vasca dallo zampillo che chioccolava dolce, scoprii senza fatica il curioso, lunghissimo pesce – un solitario pesce-siluro – che vi abitava. Vidi pure e constatai, accertandone l’esistenza con romantica gioia, un padiglione in stile moresco o arabo, riccamente dipinto di turchino, di stelle misteriose, di bruno e di nero severo e nobile. Con competenza finissima intuii subito che quel padiglione doveva risalire pressappoco all’anno 1858: una capacità di scoprire, d’indovinare, una sensibilità di fiuto che potrebbe darmi il diritto di tenere una dotta conferenza sull’argomento nella sala del municipio, davanti a un folto e plaudente pubblico, col viso atteggiato a discreta fierezza e con piglio autorevole. Della conferenza, poi, si occuperebbe assai probabilmente la stampa, il che, è ovvio, non potrebbe che farmi piacere, dato che a volte essa non dedica nemmeno mezza parola a una quantità di cose, come è avvenuto in realtà.


Mentre esaminavo attentamente il padiglione persiano, mi venne da pensare: «Come dovrebbe esser bello qui di notte, quando, sotto il velo impenetrabile dell’oscurità, tutto tacesse all’intorno e non vi fosse che nero e silenzio; dal buio spuntano tenui gli abeti, il brivido della mezzanotte arresta il viandante, ed ecco, una lampada dalla dolce luce giallognola viene recata nel padiglione da una dama fascinosa, che, spinta da fantasia singolare e da uno strano impulso dell’anima, si siede al piano (di cui, beninteso, il nostro padiglione dovrebbe in tal caso essere provvisto) e comincia a suonare canzoni e – nella misura in cui sia consentito il sogno – vi unisce la sua voce incantevole, così che si debba ascoltare e sognare e godere con felicità quella musica notturna».


Ma non era mezzanotte e non si vedeva ombra né di Medioevo cavalleresco, né di Cinquecento o di Settecento, bensì era giorno chiaro e per di più giorno lavorativo, e una turba di gente insieme a una delle più maleducate, anticavalleresche, sgarbate e impudenti automobili che mai avessi incontrato vennero a turbare gravemente la piena delle mie dotte meditazioni e in un batter d’occhio mi sbalestrarono fuori a forza da ogni castellana poesia e anticheggiante chimera, a tal punto che impetuosamente esclamai:


«È davvero incredibile la villania con la quale mi s’impedisce di dedicarmi a studi raffinati e d’immergermi nelle più nobili profondità. Sebbene abbia motivo d’essere indignato, voglio invece comportarmi con mansuetudine e tollerare con garbo; per quanto dolce possa essere il pensiero di ciò che di bello e di eletto ci è passato dinanzi, e il pallido quadro di una gentilezza remota, certamente non v’è ragione, per questo, di voltare le spalle al nostro mondo e al nostro prossimo. Non è sostenibile che si abbia il diritto di serbar rancore a genti e a modi di vita perché non rispettano la disposizione d’animo di chi desidera perdersi nel regno della storia e del pensiero».


«Un temporalone» pensai continuando a camminare «qui sarebbe certamente stupendo. Speriamo di poterne fare l’esperienza».


Un onesto cane dal manto nero corvino era accucciato sulla strada, e io lo onorai con questo scherzoso discorsetto:


«Giovinotto ignorante e incivile che evidentemente non sei altro, non ti passa neanche per la testa di alzarti e di salutarmi, mentre sia dal passo che da ogni altro atteggiamento puoi vedere subito che sono un uomo, un uomo che ha passato ben sette anni della sua vita in grandi città e metropoli, e che in tutto quel tempo neppure per un minuto, non parliamo poi di ore e tanto meno di mesi o di settimane, si è privato dello straordinario piacere di tenere esclusivi rapporti con persone istruite e importanti? Si può sapere a che scuola sei andato, mio ispido amico? Che? Non mi dài nessuna risposta? Te ne resti lì sdraiato, mi guardi sfrontatamente, non fai una piega, rimani immobile come una statua? Che villanzone!».


Eppure in realtà quel cane, con la sua ingenua e comica tranquillità, mi piaceva oltremodo; e poiché, mentre mi guardava ammiccando allegro, certamente non capiva quello che gli andavo dicendo, io potevo prendermi il gusto di sgridarlo, pur al di fuori – come sarà risultato a sufficienza dal mio burlesco modo di esprimermi – di qualsiasi cattiva intenzione.


Nel vedere un signore distintissimo che mi veniva incontro al trotto, elegante e impettito nel suo vanesio ballonzolìo, riflettei malinconicamente: «È mai possibile che un uomo così riccamente abbigliato, sfarzosamente agghindato, azzimato e assettato, carico di anelli e di gioielli, infronzolito e tirato a pomice, non pensi neppure per un istante a giovani creature neglette, piccole, povere e mal vestite, che pur tanto spesso girano cenciose, rivelando una triste mancanza di pulizia e un deplorevole abbandono? Non si vergogna neanche un po’, quel pavone? Non si sente, l’attempato signore, minimamente scosso alla vista di certi ragazzi trasandati, dagli abiti pieni di macchie? Come possono degli adulti mostrarsi vogliosi di girare tutti luccicanti, finché ci sono bambini vestiti in modo così disadorno?».


È vero che forse si potrebbe dire, ugualmente a buon diritto, che nessuno dovrebbe recarsi a un concerto o a teatro, né concedersi altri e consimili svaghi, fino a quando ci saranno al mondo stabilimenti di pena con infelici prigionieri. Tale pretesa è invero eccessiva, poiché, se realmente qualcuno volesse rimandare ogni godimento a quando non gli capitasse più di vedere miseria e sventura, avrebbe da aspettare fino all’impensabile fine di tutti i tempi, fino alla grigia, gelida e deserta fine del mondo; e di qui allora potrebbe anche essergli radicalmente passata ogni gioia di vivere.


Un’operaia scarmigliata e vacillante, logora, stremata, che in quel momento veniva avanti con passo visibilmente stanco e svigorito e tuttavia frettoloso, avendo evidentemente una quantità di faccende ancora da sbrigare, mi richiamò alla mente tante signorinette o piccole studentesse viziate, che spesso hanno l’aria di non sapere con quali eleganti occupazioni o raffinate distrazioni passar la giornata; e forse non sanno che sia un’onorata stanchezza, e pensano per giorni e per settimane come fare per accrescere lo splendore della loro immagine, e hanno tutto il tempo che vogliono per abbandonarsi a complicate meditazioni su ciò che potrebbero escogitare per avvolgere le loro persone, le loro figurette dolci e inzuccherate, in sempre più esagerate e morbose squisitezze.


Eppure io stesso sono per solito un amatore e ammiratore di cotali virginei virgulti, adoro l’estrema cura che hanno di sé, la loro leggiadria lunare. Una ragazzetta carina potrebbe quasi comandarmi a bacchetta e io le ubbidirei ciecamente. Com’è bella la bellezza, come può affascinare il fascino!


Eccomi ora, di nuovo, a parlare di architettura e di arte architettonica; ma sarà opportuno riservare un posticino o cantuccio anche alla letteratura.


Un’osservazione, anzitutto: ornare nobili e vecchie case, edifici dignitosi, dimore storiche con decorazioni di poco prezzo, floreali o altre, denota un gusto quanto mai cattivo. Chi lo fa o lo lascia fare commette peccato contro lo spirito del bello e del degno e offende il ricordo dei nostri avi, valorosi non meno che nobili.


In secondo luogo, non si guarniscano mai né s’inghirlandino di fiori fontane monumentali: i fiori sono certo belli, ma la loro funzione non è quella di banalizzare e cancellare la grave, austera bellezza di un’opera di scultura. L’amore per i fiori può anzi degenerare in una manìa assolutamente sciocca. Sotto questo come sotto altri aspetti si cerchi di moderarsi. Personalità come i civici consiglieri e simili possono in ogni momento, se vogliono avere la cortesia di farlo, informarsi gentilmente presso la competente sede e comportarsi poi da brave persone.


Per citare ora due interessanti costruzioni che attirarono in maniera insolita la mia curiosità, si sappia che, proseguendo nel mio cammino giunsi davanti a una curiosa cappella, alla quale diedi subito il nome di ‘cappella Brentano’ poiché vidi che era opera dell’epoca romantica, di quel tempo intessuto di fantasia, circonfuso di bagliori, mezzo luminoso e mezzo tenebroso. Essa mi fece pensare al grande romanzo Godwi di Brentano, impetuoso e selvaggio. Le alte, snelle finestre ad arco conferivano all’originale edificio un aspetto singolare, grazioso e delicato, vi imprimevano il carattere dell’interiorità, un fascino di vita contemplativa. Il mio ricordo corse alle infocate, intense pitture di paesaggi di quello scrittore, segnatamente alle descrizioni dei boschi di querce della Germania.


Poco oltre mi soffermai davanti alla villa chiamata «Terrasse», che mi ricordò il pittore Karl Stauffer-Bern, qui vissuto per un certo tempo, e contemporaneamente certe eleganti costruzioni che sorgono sulla Tiergartenstrasse di Berlino, piacevoli e degne d’esser viste per lo stile elevato e sobriamente classico che vi si esprime.


La villa di Stauffer e la ‘cappella Brentano’ si presentavano ai miei occhi come testimonianze di due mondi nettamente distinti, ma entrambi, a loro modo, gradevoli, affabili e ricchi di significato: da una parte la fredda, misurata eleganza, dall’altra la soverchiante malinconia del sogno; da una parte e dall’altra raffinatezza e bellezza, però totalmente diverse quanto a carattere e a cultura, benché vicinissime tra loro nel tempo.


Ma sulla mia passeggiata, mi sembra, sta ormai a poco a poco scendendo la sera. Credo che il silenzioso termine non sia più molto lontano.


Un certo numero di incontri consueti e di quotidiani aspetti della strada vengono qui, forse, del tutto a proposito, e cioè, uno dopo l’altro: una ragguardevole fabbrica di pianoforti accanto ad alcune altre fabbriche e stabilimenti, un viale di pioppi costeggiante un corso d’acqua nerastro, uomini, donne, bambini, tranvai elettrici col loro sferragliare e il relativo condottiero o conduttore responsabile che guarda fuori, un branco di mucche elegantemente pezzate e screziate di tinte pallide, contadine su carri agresti con l’immancabile strepito di ruote e schioccar di fruste, qualche autocarro dal carico pesante e torreggiante, carri di birra con botti di birra, fiumane di operai che si precipitano fuori dalla fabbrica, il senso opprimente di codeste visioni di massa e mercanzie di massa e i singolari pensieri che esse suscitano; carri merci pieni di merci provenienti dallo scalo merci, un intero circo viaggiante e itinerante con elefanti, cavalli, cani, zebre, giraffe, truci leoni rinchiusi in gabbie, con cingalesi, indiani, tigri, scimmie e coccodrilli striscianti con gravità, danzatrici sulla corda e orsi bianchi e tutta la necessaria scorta di seguito, guittume, personale e servitorame; e ancora: ragazzini armati di fucili di legno che rifanno a modo loro la guerra europea scatenando i loro guerreschi furori, un piccolo avanzo di galera che canta la canzone Centomila rane e ne è orgogliosissimo; e ancora: legna e boscaioli con carri carichi di legna, due o tre magnifici porcelli, alla cui vista la pur sempre vivida fantasia dello spettatore si dipinge con estrema golosità la squisitezza e gradevolezza di un arrosto di maiale appena cotto e divinamente profumato, cosa del resto ben comprensibile; una casa colonica con la massima scritta sopra l’ingresso, due donne boeme, galiziane, slave, tzigane o addirittura zingare, con stivaletti rossi, occhi neri come la pece e capelli idem, un’apparizione esotica che fa involontariamente pensare al romanzetto rosa La principessa degli zingari, che in realtà è ambientato in Ungheria, oppure a Preciosa, che beninteso è di origine spagnola, ma su questo non c’è proprio bisogno di andar tanto per il sottile.


E poi negozi: negozi di cartolaio, di macellaio, di orologiaio, di scarpe, di ferramenta, di stoffe, di coloniali, di spezie, di chincaglierie, di mercerie, di fornaio e di pasticcere. E dappertutto, al disopra di tutto questo, il bel sole della sera. Inoltre molto chiasso e rumore, scolari e maestri di scuola, quest’ultimi dall’espressione grave e dignitosa, paesaggio, aria e abbondanza di pitture.


Altre cose da non tralasciare o dimenticare: scritte e annunci come «Persil» o «Dadi Maggi per minestra, qualità insuperata» o «Tacchi di gomma Continental, resistenza prodigiosa» o «Il miglior cioccolato al latte» o ancora non so davvero più cosa d’altro. Se si volesse contare tutto fino all’ultimo non si arriverebbe mai alla fine. Le persone intelligenti lo sentono e lo capiscono.


Un manifesto o affisso mi fece particolare impressione. Ecco ciò che vi era scritto:


TRATTORIA CON ALLOGGIO


«o elegante pensione per uomini, si raccomanda a signori raffinati, o quantomeno distinti, per la sua ottima cucina. Possiamo tranquillamente affermare che essa è di tal qualità da soddisfare non solo i palati più esigenti, ma perfino mandare in visibilio il più gagliardo appetito. Preferiamo invece rinunziare a occuparci di stomaci troppo affamati.


«L’arte culinaria di cui offriamo i prodotti risponde a un’elevata educazione. Con ciò intendiamo significare che ci sarà gradito vedere seduti alle nostre mense soltanto signori veramente ammodo. Con gente usa a bersi la paga o lo stipendio all’osteria e che pertanto non è in grado di pagare prontamente, non desideriamo avere il minimo rapporto; anzi, per quanto concerne la nostra onoratissima clientela, contiamo sulla più delicata correttezza, come pure sulle maniere più garbate.


«Vezzose e gentili ragazze serviranno le nostre appetitose tavole, riccamente apparecchiate e adorne di fiori d’ogni specie. Sottolineiamo questo particolare perché i signori interessati si rendano conto della necessità di condursi bene e di tenere un contegno veramente ricercato e impeccabile, fin dal momento che l’eventuale signor pensionante porrà piede nel nostro stimato e rispettato locale.


«Con tipi scapestrati, attaccabrighe, fanfaroni e millantatori non vogliamo decisamente aver nulla da fare. Coloro che credessero, per questo o quel motivo, di riconoscersi appartenenti a simili categorie, abbiano la bontà di tenersi il più possibile a distanza da una casa di prim’ordine come la nostra e di volerci cortesemente risparmiare la loro sgradita presenza.


«Per contro, verrà incondizionatamente ben accolto ogni signore simpatico, affabile, compìto, educato, premuroso, amabile, allegro ma non esageratamente gioviale, bensì piuttosto riservato, distinto, discreto e soprattutto solvibile; egli sarà servito di tutto punto e trattato con la massima cortesia e simpatia; a quanto sopra ci impegniamo in tutta sincerità, e a tale impegno ci manterremo fedeli che sarà una meraviglia.


«Un attraente e simpatico signore di tal fatta troverà alla nostra tavola leccornie prelibate, quali ben difficilmente potrebbe rinvenire altrove. In effetti, dalla nostra squisita cucina escono veri capolavori dell’arte culinaria, ciò che avrà modo di confermare chiunque ne vorrà fare esperimento presso di noi, esperimento al quale lo sollecitiamo caldamente, con il più vivo e pressante invito.


«Il cibo che poniamo sulle mense è superiore, così in abbondanza come in bontà, a qualsivoglia normale aspettativa. Nessuna immaginazione, per fertile che sia, riuscirebbe a figurarsi anche a un dipresso i piatti delicati e stuzzicanti che siamo soliti ammannire e deporre innanzi ai volti lietamente sorpresi dei nostri signori commensali.


«Come già rilevato, tuttavia, possono essere presi da noi in considerazione solo signori distinti, e allo scopo di evitare errori e dissipare dubbi ci si voglia consentire di precisare brevemente le nostre idee in proposito.


«Ai nostri occhi è veramente un signore distinto soltanto colui che, per così dire, trasuda finezza e distinzione, vale a dire uno che sotto ogni rispetto è semplicemente assai più distinto di tutta la rimanente gente comune. Le persone che sono soltanto comuni non fanno assolutamente per noi.


«Un signore distinto è, a nostro avviso, solo quello che ha la testa piena delle più vane e sciocche presunzioni e che è deciso a sostenere che il suo naso è di gran lunga più fino e migliore del naso di qualunque altro brav’uomo provvisto d’intelletto.


«Il contegno di un signore distinto esprime con chiarezza la particolare condizione or ora enunciata, e su ciò facciamo assegnamento. Pertanto, chi è solo buono, retto e sincero, ma non dimostra alcun’altra prerogativa importante, si tenga gentilmente alla larga.


«Per un’accurata ed esclusiva scelta dei signori distinti più eleganti e ineccepibili possediamo una competenza a tutta prova. Dall’incedere, dal tono di voce, dal modo tutto speciale di avviare una conversazione, dall’aspetto e dai movimenti, segnatamente dall’abito, dal cappello, dal bastone, dal fiore all’occhiello – il quale esiste o non esiste – constatiamo se un signore appartenga o no al novero dei distinti. L’acutezza del nostro occhio su questo punto sfiora la stregoneria, ragion per cui osiamo affermare che a tale proposito ci attribuiamo qualcosa di assai vicino alla genialità.


«Così sarà chiaro, ora, su quale genere di persone contiamo; e se ci si dovesse presentare un uomo del quale vedessimo da lontano che non fa per noi e per la nostra casa, gli diremmo: “Ci rincresce molto, siamo dolentissimi”».


Potrà darsi che due o tre lettori non siano del tutto esenti da dubbi circa la verosimiglianza di questo manifesto e che credano di non dovervi prestare intera fede.


È possibile che qua e là sia riscontrabile qualche ripetizione, ma sono pronto a riconoscere che la natura e la vita umana mi appaiono come tutta una fuga non meno seria che affascinante di accostamenti, fenomeno che ritengo sia da giudicare bello e fecondo.


Che non sia raro imbattersi in cacciatori di novità logorati da una perpetua eccitazione, smaniosi di sensazioni, pronti a sentirsi infelici se non assaporano quasi ad ogni minuto voluttà mai provate, è un fatto che mi è ben noto.


L’incessante esigenza di godere e gustare sempre qualcosa di affatto nuovo mi sembra, tutto sommato, denotare meschinità, carenza di vita interiore, alienazione dalla natura e mediocre o scarsa capacità d’intelligenza. È ai bambini che bisogna mostrare di continuo qualcosa di nuovo e di diverso, se si vuol farli contenti. Lo scrittore serio non può sentirsi in alcun modo sollecitato a mettere nuova carne al fuoco, a soddisfare prontamente ansiosi appetiti; di conseguenza, egli non ha alcun timore di cadere in qualche ripetizione, beninteso purché si preoccupi sempre d’evitare il frequente ricorrere di somiglianze.


Era ormai sera, e seguendo una bella strada, una stradina silenziosa sotto gli alberi, giunsi al lago, dove la mia passeggiata aveva termine.


In un boschetto d’ontani vicino all’acqua era adunata una scolaresca di ragazzi e ragazze; il parroco, o maestro che fosse, impartiva nel bel mezzo della natura vespertina una lezione sulla natura e sul modo di osservarla. Mentre procedevo lento, due figure mi sorsero nella memoria.


Forse perché preso da stanchezza, o peraltro motivo, pensai a una bella fanciulla, e a come io ero solo nel vasto mondo: e che era impossibile che fosse giusto così.


Da dietro le spalle mi lambirono rimorsi e mi vennero incontro sul cammino. Mi sentii invaso da certi tristi ricordi. Accuse d’ogni sorta, appuntandosi contro di me, mi gravavano sul cuore. Dovetti lottare duramente.


Mentre lì attorno, un po’ nel boschetto, un po’ nel campo, cercavo e coglievo fiori, incominciò pian piano a piovere e il paese si fece ancora più soave e silenzioso. Ascoltavo la pioggia gocciolare lieve sulle foglie, e mi sembrava un pianto. Com’è dolce la minuta, tiepida pioggia d’estate!


Antichi errori, ormai remoti nel tempo, mi tornarono alla memoria: infedeltà, dispetto, falsità, perfidia, odio, una quantità di brutte, violente scenate, sfrenati desideri, incontrollata passione. Vidi chiaro quanto male e quale torto avevo fatto a tante persone. Nel sottile sussurrìo che mi circondava, l’onda dei miei pensieri salì fino a riempirmi di tristezza.


Come una ribalta gremita da scene intensamente drammatiche mi si schiuse dinanzi la vita d’un tempo; un involontario stupore mi colse nel riconoscere tutte le mie debolezze, le infinite cattiverie, la mancanza d’amore.


E in quel momento balenò ai miei occhi l’altra figura, rividi a un tratto il povero vecchio derelitto che pochi giorni prima avevo veduto tristemente disteso al suolo: così miserevole, pallido, sofferente, affranto, triste da morire, che a quella vista mi ero sentito l’animo profondamente sconvolto. Rivedevo ora mentalmente quell’uomo sfinito e quasi mi sentivo male.


Alla ricerca di un posto dove sdraiarmi, scorgendo per caso un angolo tranquillo sulla riva lì accanto, spossato come mi sentivo, mi accomodai il meglio possibile sul terreno soffice, al riparo dei fidi rami di un albero amico.


Nel contemplare terra, aria e cielo fui preso da un pensiero conturbante e irreprimibile: ero costretto a dirmi che ero un povero prigioniero fra cielo e terra, che tutti qui siamo ugualmente dei poveri reclusi e che per noi tutti non v’è alcuna via verso un altro mondo, se non quell’unica che ci conduce nella fossa buia, nel grembo della terra, giù nella tomba.


«E così la florida vita, tutti i bei colori allegri, ogni gioia di vivere e umano significato, l’amicizia, la famiglia e la donna amata, l’aria dolce e piena di lieti, felici pensieri, le case paterne e materne, le care strade note, la luna e il sole alto e gli occhi e i cuori degli uomini, tutto un giorno dovrà scomparire e morire».


Mentre, giacendo assorto, chiedevo in silenzio perdono agli uomini, mi tornò ancora alla mente quella fanciulla tutta fresca di giovinezza, dalla bocca così graziosamente infantile e dalle gote deliziose. Rivissi acutamente il rapimento che mi dava la sua presenza fisica, così tenera e melodiosa, e come tuttavia, avendole chiesto poco tempo addietro se credeva che le fossi realmente affezionato, in segno di dubbio e d’incredulità avesse abbassato i begli occhi e mi avesse risposto «no». Le circostanze l’avevano indotta a partire, e così la perdei. E tuttavia avrei potuto probabilmente convincerla delle mie buone intenzioni. Al momento giusto avrei dovuto dirle che la mia inclinazione era del tutto sincera. Sarebbe stato semplicissimo, e nient’altro che giusto, confessarle apertamente: «Io l’amo. Tutto ciò che la riguarda mi sta a cuore come ciò che riguarda me. Per molte belle e buone ragioni desidero renderla felice». Ma poiché non me n’ero più dato cura, lei se ne era andata.

«Ho raccolto fiori solo per deporli sulla mia infelicità?» mi domandai, e il mazzolino mi cadde di mano. M’ero alzato per ritornare a casa: era già tardi, e tutto si era fatto buio.