martedì 24 giugno 2025

PRIGIONIERA DI TEHERAN Prisoner of Tehran, 2007 Marina Nemat


PRIGIONIERA DI TEHERAN

Prisoner of Tehran, 2007

Marina Nemat

 Recensione

Per decenni, nella famigerata prigione di Evin, che ricorda per tipologia le prigioni di Assad, sono state commesse orribili atrocità e violazioni dei diritti.umani e di persone innocenti. Uno dei casi più famosi è quello di Marina Nemat, che ha raccontato la sua storia di vita nel libro diventato un best-seller internazionale, "Il prigioniero di Teheran".

A 16 anni, lei e le sue amiche scrissero una critica al regime sul giornale della scuola. Furono arrestate e trasferite al carcere di Evin, dove le sue amiche furono giustiziate, non prima di essere state violentate dalle guardie, affinché non andassero in paradiso. Ma poco prima che Marina si unisse a loro, una delle guardie si innamorò di lei e cambiò il suo destino. Il libro è difficile da leggere, ma offre uno sguardo diretto sulle atrocità che il regime iraniano infligge al suo stesso popolo.


PRIGIONIERA DI TEHERAN


Questa storia di violenza, annientamento e rinascita comincia in Iran, una fredda sera di gennaio del 1982, quando i guardiani della Rivoluzione arrivano a casa di Marina Nemat per arrestarla.

In quel momento nella vita di una spensierata sedicenne si apre uno squarcio, un abisso in cui solo vent'anni dopo quella ragazza diventata donna riuscirà a gettare lo sguardo.

L'infanzia di Marina è stata simile a quella di tante altre ragazze. I giochi nei parchi di Teheran, le vacanze sulle rive del Caspio, i momenti di preghiera nella chiesa cristiana ortodossa del quartiere, una famiglia poco affettuosa, addolcita dalla presenza della nonna di origine russa. Poi l'adolescenza e i primi turbamenti del cuore, fino al sentimento profondo per Andre, l'amore di una vita. Finché i segnali inquietanti di un cambiamento imminente si addensano minacciosi nel suo cielo: le prime proteste dei movimenti islamici contro lo scià, amici e conoscenti coinvolti nella Rivoluzione che approda alla grigia realtà quotidiana del regime dell'ayatollah.

Senza quasi un perché, Marina da un giorno all'altro si ritrova in una cella di Evin, la famigerata prigione di Teheran che evoca solo sofferenza e disperazione.

Viene torturata, condannata a morte.

Ma davanti al plotone di esecuzione, la sua pena viene commutata in ergastolo e il suo carceriere salvatore la costringe a convertirsi all'Islam e a sposarlo.

Per Marina inizia un lungo viaggio interiore per scendere a patti con la nuova realtà. Sostenuta dalla sua fede e dalla profonda comunanza con le sorelle di prigionia, deve fare i conti con il progressivo distacco dal suo Andre e da tutte le persone amate, con la scoperta inattesa dell'umanità del suo nemico. Un percorso di dolore che la porterà alla conquista di una libertà insperata, a una forma di perdono e a un senso di responsabilità che, oggi, la spinge a scrivere per dare voce alle vittime di tutte le tirannie. Una voce che non può rimanere inascoltata.

Marina Nemat, cristiana ortodossa di origine russa, è nata e cresciuta a Teheran negli anni della Rivoluzione islamica. Nel 1991 è emigrata in Canada, a Toronto, dove vive tuttora con il marito e i due figli. I diritti di traduzione di Prigioniera di Teheran sono stati venduti in sedici paesi, quelli cinematografici sono stati acquisiti da una casa di produzione britannica. 


Se io prego, la sola preghiera

che muove le mie labbra inerti

è «Lasciate il cuore che ora è in me,

e datemi la libertà1.»

Corrono veloci i miei giorni alla meta,

e questo è tutto quel che imploro;

in vita e in morte, un'anima senza catene

che abbia la forza di sopportare.

Emily Bronte, Il vecchio stoico

1.

«Ovunque tu vada, il cielo ha sempre lo stesso colore» dice un antico proverbio persiano. Eppure, il cielo del Canada era diverso da quello dell'Iran, così come me lo ricordavo; era una tonalità d'azzurro più intensa e sembrava non avere fine, come se rivaleggiasse con l'orizzonte.

Atterrammo all'aeroporto Pearson di Toronto il 28 agosto 1991, in una bella giornata di sole. Mio fratello ci stava aspettando: mi sarei fermata a casa sua assieme a mio marito e a nostro figlio di due anni e mezzo finché non avessimo trovato un appartamento per noi. Quand'era partito per il Canada io avevo quattordici anni e, sebbene non lo vedessi da dodici, lo riconobbi subito.

I suoi capelli s'erano fatti un po’ radi e grigi, ma era alto più di un metro e novanta e la sua testa svettava sopra il caos allegro della gente in attesa.

Mentre la nostra auto s'allontanava dall'aeroporto guardai fuori dal finestrino e mi stupii davanti alla vastità di quel paesaggio.

Il passato era lontano; me lo ero lasciato alle spalle, per il bene di tutti. Dovevamo crearci una vita nuova in questo strano paese che ci aveva offerto un rifugio quando non avevamo un posto dove andare. Dovevo riversare ogni energia nella mia sopravvivenza.

Dovevo farlo, per mio marito e per mio figlio.

E fu così che ci creammo una vita nuova. Mio marito trovò un buon impiego, nacque un altro figlio e imparai a guidare. Nel luglio del 2000, a nove anni dal nostro arrivo, finalmente comprammo una casa con quattro camere da letto in un sobborgo di Toronto ed entrammo orgogliosamente a far parte della middleclass canadese; curavamo il giardino, accompagnavamo i ragazzi a nuoto, calcio e pianoforte, invitavamo gli amici ai barbecue.

Fu allora che iniziai a non dormire più.

Tutto cominciò dalle immagini che sfrecciavano nella mia mente non appena andavo a letto. Nonostante tentassi di scacciarli, i ricordi mi aggredivano, impregnando le ore del giorno e quelle della notte. Il mio passato stava per raggiungermi e io non sapevo tenerlo a bada; dovevo affrontarlo, o il mio equilibrio sarebbe andato distrutto per sempre. Non riuscendo a dimenticare, pensai che forse la soluzione era ricordare, e perciò cominciai a scrivere dei miei giorni a Evin, il famigerato carcere politico di Teheran; raccontai la tortura, il dolore, la morte, e tutta la sofferenza di cui non ero mai riuscita a parlare. I miei ricordi si trasformarono in parole ed eruppero da un'ibernazione forzata, ma per quanto avessi creduto che gettarli sulla carta mi avrebbe fatto sentire meglio, non fu così. Avevo bisogno di qualcos'altro.

Non potevo lasciare il mio manoscritto sepolto in un cassetto della mia camera da letto. Io avevo visto, e dovevo raccontare la mia storia.

Mio marito fu il primo a leggerlo. Nemmeno lui conosceva i particolari dei miei giorni di prigionia. Quando gli diedi il manoscritto, lui lo ripose sotto il letto, dalla sua parte, e ce lo lasciò per tre giorni senza toccarlo. Ero agitata: chissà quando lo avrebbe preso in mano, chissà se avrebbe capito. E poi, mi avrebbe perdonata per avere celato quei segreti?

«Perché non mi hai mai detto queste cose?» mi domandò quando lo ebbe letto tutto.

Eravamo sposati da diciassette anni.

«Volevo, ma non ci riuscivo... Mi perdoni?»

«Non ho nulla da perdonarti. Tu, invece, potrai perdonare me?»

«Per che cosa?»

«Per non averti domandato nulla.»

I dubbi che mi impedivano di far sentire la mia voce furono spazzati via nell'estate del 2005, quando a una festa conobbi una coppia di iraniani. Fu bello stare insieme e parlare delle cose di tutti i giorni come il lavoro, il prezzo degli immobili, l'educazione dei figli. Quando l'aria della sera diventò troppo fresca per rimanere seduti all'aperto, rientrammo a prendere il dolce. Fu così che, mentre serviva il caffè, la padrona di casa mi chiese come procedeva il mio libro e Parisa, la signora iraniana, volle sapere di che cosa si trattasse.

«Racconto di quando a sedici anni fui arrestata e incarcerata per due anni a Evin come detenuta politica.»

Parisa sbiancò.

«Si sente bene?»

Tacque per un momento e poi disse che anche lei aveva trascorso qualche mese a Evin.

Tutti i presenti ci fissarono in silenzio.

Io e Parisa scoprimmo di essere state recluse nello stesso periodo, in due diverse parti dello stesso edificio. Le feci il nome di certe mie compagne detenute, ma non le conosceva, e a sua volta lei mi parlò delle sue amiche, ma non le conoscevo. Entrambe, tuttavia, ricordavamo certi fatti ben noti alla gran parte dei reclusi di Evin. Era la prima volta che Parisa parlava della sua esperienza carceraria.

«Di solito la gente non apre bocca su queste cose» osservò.

Era la consegna del silenzio che mi aveva imprigionata per più di vent'anni. Quando ero stata rilasciata, i miei famigliari avevano finto che tutto fosse a posto e nessuno aveva più menzionato la prigione.

Nessuno mi aveva chiesto: «Che cosa ti è successo?» e io, che pur desideravo ardentemente raccontare di Evin, non sapevo da dove iniziare. Aspettavo che mi domandassero qualcosa, un qualcosa che mi offrisse un punto di partenza, e invece la vita andava avanti come se non fosse accaduto nulla di eccezionale. La mia famiglia, immaginavo, voleva che tornassi a essere la ragazza innocente che ero stata prima del carcere. Terrorizzati dal dolore, dall'orrore del mio passato, avevano deciso di ignorarlo.

Incoraggiai Parisa a telefonarmi, e così qualche volta chiacchierammo.

Quando ricordavamo le nostre compagne e le amicizie che ci avevano aiutato a sopravvivere, nella sua voce c'era sempre un tremito.

Alcune settimane più tardi mi fece sapere che non voleva più parlarmi; non voleva ricordare.

«Non ci riesco. È troppo difficile. È troppo doloroso» disse, con la voce strozzata dal pianto.


Capii, e non insistetti. Lei aveva fatto la sua scelta, e io la mia.2.

Fui arrestata il 15 gennaio 1982, verso le nove di sera. Avevo sedici anni.

Quel giorno mi svegliai prima dell'alba, senza più riuscire a riaddormentarmi. La mia stanza sembrava più buia e più gelida del solito e quindi rimasi sotto la trapunta di lana di cammello, ad aspettare che sorgesse il sole; eppure, era come se l'oscurità fosse decisa a restare. Nei periodi freddi come quello avrei voluto che il nostro appartamento fosse riscaldato meglio: due stufe a cherosene non bastavano, anche se mio padre e mia madre mi ripetevano che ero solo io a pensare che in inverno la casa fosse gelida.

La stanza da letto dei miei genitori era accanto alla mia, mentre la cucina si trovava dall'altra parte dello stretto corridoio che attraversava il nostro appartamento di tre camere. Sentii mio padre che si preparava per andare al lavoro. Sebbene si muovesse leggero e silenzioso, certi rumori lievi mi aiutavano a riconoscere i suoi spostamenti, prima in bagno e poi in cucina. Il bollitore sibilò. La porta del frigorifero si aprì e si richiuse. Probabilmente si stava preparando del pane con burro e marmellata.


Alla fine, una luce tenue filtrò attraverso la finestra. Mio padre era già uscito e mia madre, che di solito non lasciava il letto prima delle nove, dormiva ancora. Mi riscossi; mi rigirai; attesi. Dov'era finito il sole? Cercai di pianificare la mia giornata, ma non ci riuscii.


Mi sembrava di essere uscita dal normale flusso del tempo.


Scesi dal letto. Il linoleum era persino più freddo dell'aria e la cucina più buia di camera mia. Credevo che non mi sarei più riscaldata. Forse il sole non sarebbe più sorto. Dopo una tazza di tè, riuscii soltanto a pensare a recarmi in chiesa. Indossai il lungo cappotto di lana marrone che mi aveva fatto mia madre, mi coprii la testa con un ampio scialle beige e discesi i ventiquattro gradini di pietra grigia verso la porta d'ingresso che collegavano casa nostra a una trafficata via del centro. I negozi erano ancora chiusi, poche le automobili. Procedetti verso la chiesa a testa china. Non c'era nulla da vedere; i muri erano in gran parte coperti dai ritratti dell'ayatollah Khomeini e da slogan carichi d'odio: «Morte all'America», «Morte a Israele», «Morte ai comunisti e a tutti i nemici dell'Islam», «Morte agli antirivoluzionari».


Per arrivare in chiesa mi ci volevano cinque minuti. Quando spinsi il pesante portone di legno, un fiocco di neve mi si posò sul naso. Teheran acquistava sempre una sua grazia innocente sotto le ingannevoli rotondità create dalla neve, e anche se il regime islamico aveva messo al bando la maggior parte delle cose belle, non poteva impedire alla neve di cadere. Il governo aveva imposto alle donne di coprirsi la testa ed emanato editti contro la musica, i cosmetici, i dipinti che ritraessero donne senza velo e i libri occidentali, tutti dichiarati satanici e quindi illeciti. Entrai in chiesa, mi richiusi il portone alle spalle e mi sedetti in un angolo a osservare la figura di Gesù crocifisso. Non c'era nessuno. Tentai di pregare, ma le parole mi fluttuavano nella mente prive di significato. Dopo circa mezz'ora andai in sacrestia per salutare i sacerdoti e mi ritrovai faccia a faccia con Andre, un bellissimo ragazzo che suonava l'organo. Ci eravamo conosciuti qualche mese prima, e spesso ci incontravamo in chiesa. Tutti sapevano che ci piacevamo, ma eravamo troppo timidi per dichiararci, forse perché Andre aveva sette anni più di me. Arrossendo, gli chiesi come mai fosse venuto così presto e lui spiegò che doveva riparare un aspirapolvere guasto.


«Sono giorni che non ti vedo» disse. «Dov'eri finita? Ti ho telefonato, qualche volta, e tua madre mi ha detto che non stavi bene. Pensavo di venire da te, oggi.»


«Infatti non stavo bene. In realtà, era solo un raffreddore.»


Secondo Andre ero troppo pallida, e avrei dovuto rimanere a letto un altro paio di giorni, e aveva ragione. Si offrì d'accompagnarmi in macchina, ma avevo bisogno di aria fresca e rincasai a piedi. Se non fossi stata così angosciata e triste mi sarebbe tanto piaciuto passare un po’ di tempo con lui, ma non riuscivo più a ragionare da quando le mie compagne di scuola Sarah e Gita e il fratello di Sarah, Sirus, erano stati arrestati e portati a Evin. Sarah era la mia migliore amica fin dalla prima elementare e Gita la frequentavo da più di tre anni. Gita era stata arrestata a metà novembre; Sarah e Sirus il 2 gennaio. Ce l'avevo davanti agli occhi, Gita, coi suoi capelli scuri lunghi, setosi, e il sorriso da Gioconda, seduta su una panca del campo di basket. Chissà che ne era stato di Ramin, il ragazzo che le piaceva. Non aveva più saputo nulla di lui dall'estate del 1978, l'ultima prima della rivoluzione, prima del nuovo ordine del mondo.


Adesso lei si trovava a Evin da più di due mesi, e ai suoi genitori non era concesso vederla. Li chiamavo una volta alla settimana: al telefono sua madre piangeva sempre e ogni giorno rimaneva per ore sulla soglia di casa, scrutando i passanti, aspettando Gita. Lei e suo marito si erano recati molte volte al carcere per chiedere di vedere i figli, ma il permesso gli era stato negato.


Evin era un carcere politico fin dall'epoca dello scià e il suo nome suscitava paura in ogni cuore: Evin significava tortura e morte. I suoi numerosi edifici erano sparsi su un'ampia zona a nord di Teheran, ai piedi dei monti Elburz. La gente non ne parlava mai; Evin era avvolto in un silenzio di terrore.


La sera in cui Sarah e Sirus furono arrestati, ero distesa a letto e leggevo una raccolta di poesie di Forugh Farrokhzad, quando la porta di camera mia si spalancò all'improvviso e s'affacciò mia madre.


«Ha appena chiamato la mamma di Sarah...»


Ebbi l'impressione di respirare frammenti di ghiaccio.


«Un'ora fa i guardiani della rivoluzione hanno arrestato Sarah e Sirus, e li hanno portati a Evin.»


Non sentivo più il mio corpo.


«Che cos'hanno fatto?» domandò mia madre.


Poveri Sarah e Sirus. Dovevano essere terrorizzati, ma sarebbe finita bene. Doveva finire bene.


«Marina, rispondimi. Che cos'hanno fatto?»


Mia madre chiuse la porta e vi si appoggiò.


«Niente. Bè, Sarah non ha fatto niente, mentre Sirus è del Mujaheddin.» La mia voce sembrava debole, come se arrivasse da lontano. Il Mujaheddin- e Khalq era un gruppo di combattenti musulmani che avevano lottato contro lo scià fin dagli anni Sessanta e che, dopo il successo della rivoluzione islamica, si erano opposti al potere assoluto dell'ayatollah Khomeini, guida suprema dell'Iran, accusandolo di esercitare una dittatura. Così il governo islamico aveva dichiarato fuorilegge la loro organizzazione.


«Ho capito. Quindi forse hanno preso Sarah per via di Sirus.»


«Forse.»


«Poveretta, la loro mamma. Era fuori di sé.»


«I guardiani hanno detto qualcosa?»


«Hanno detto ai genitori di non preoccuparsi, vogliono solo fare qualche domanda ai ragazzi.»


«Quindi potrebbero rilasciarli presto?»


«Bè, da quello che mi dici sono sicura che Sarah la lasceranno andare presto. Sirus invece... ecco, doveva aspettarselo. Ma non c'è motivo di preoccuparsi.»


Quando mia madre se ne andò cercai di pensare, ma non ci riuscii.


Con un senso di prostrazione, chiusi gli occhi e sprofondai in un sonno senza sogni.


Per dodici giorni passai la gran parte del tempo a dormire. Il solo pensiero di fare qualcosa mi sembrava gravoso, impossibile.


Non avevo sete, non avevo fame. Non avevo voglia di leggere, né di andare in giro, e nemmeno di parlare. Ogni sera mia madre mi diceva che non c'erano notizie di Sarah e Sirus. Dopo il loro arresto ero sicura che sarei stata io la prossima. Il mio nome figurava in un elenco che khanum Bahman, la mia professoressa di chimica, aveva notato nell'ufficio della preside, e la nostra preside, khanum Mahmudi, era una guardiana della rivoluzione. Khanum Bahman era una brava persona e mi aveva avvertita che quella lista era destinata ai tribunali rivoluzionari islamici. In ogni caso, non potevo che aspettare. Non ero in grado di nascondermi. Dove potevo andare? I guardiani della rivoluzione erano implacabili: se andavano ad arrestare qualcuno e non lo trovavano in casa, prendevano chiunque altro si trovasse lì, e io non potevo mettere in pericolo la vita dei miei genitori per salvare me stessa. Nei mesi passati erano già state catturate centinaia di persone, accusate di essersi opposte al governo in un modo o nell'altro.


 


Alle nove di sera mi preparai a fare il bagno. Appena aprii il rubinetto e l'acqua fumante iniziò a scorrere, il suono del campanello echeggiò in tutta la casa. Ebbi un tuffo al cuore: non veniva mai nessuno a quell'ora.


Chiusi l'acqua e mi sedetti sul bordo della vasca. Sentii i miei genitori che andavano ad aprire e, pochi secondi dopo, mia madre che mi chiamava. Girai la chiave nella serratura e aprii la porta del bagno. Nel corridoio c'erano due guardiani della rivoluzione: due uomini barbuti, armati, con la divisa militare verde scuro. Uno mi puntava contro la pistola. Mi sentivo come se fossi uscita dal mio corpo e stessi guardando un film, come se non stesse succedendo a me, ma a qualcun altro, a qualcuno che non conoscevo.


«Stai qui con loro mentre perquisisco la casa» disse un guardiano all'altro, dopodiché si voltò a chiedermi: «Dov'è la tua stanza?».


Il suo alito, che puzzava di cipolle, mi diede il voltastomaco.


«Lungo il corridoio, la prima porta a destra.»


Mia madre tremava come una foglia e s'era sbiancata in viso. Si copriva la bocca con una mano, quasi a voler soffocare un grido interminabile. Mio padre invece mi fissava come se stessi morendo di una malattia improvvisa, incurabile, e non potesse fare nulla per salvarmi. Il suo volto era solcato dalle lacrime. Non lo vedevo piangere da quando era morta mia nonna.


Poco dopo, il secondo guardiano tornò portando con sé alcuni miei libri, tutti romanzi occidentali.


«Sono tuoi, questi?»


«Sì.»


«Ne prendiamo qualcuno come prova.»


«Prova di che cosa?»


«Delle tue attività sovversive contro il governo islamico.»


«Non sono d'accordo con il governo, ma non ho fatto niente di sovversivo.»


«Io non sono qui per stabilire se sei colpevole o no, ma per arrestarti. Mettiti il chador.»


«Sono cristiana, non ho il chador.»


Sembravano sorpresi. «Va bene» disse uno. «Mettiti una sciarpa e andiamo.»


«Dove la portate?» chiese mia madre.


«A Evin.»


Seguita da uno dei due uomini, andai in camera mia, presi il mio scialle di cashmere beige e me lo misi sulla testa. Pensai che quella sera faceva un gran freddo e che lo scialle mi avrebbe protetta. Già sulla porta, lo sguardo mi cadde sul rosario poggiato sopra la scrivania e lo presi.


«Ehi! Quello che cos'è?» chiese l'uomo.


«Sono i miei grani di preghiera. Posso portarli?»


«Fà vedere.»


Gli diedi il rosario e lui lo esaminò, osservando da vicino ogni singolo grano celeste e la croce d'argento.


«Portali. Pregare è la cosa giusta da fare a Evin.»


M'infilai in tasca il rosario.


Le guardie mi scortarono fino a una Mercedes nera parcheggiata davanti alla porta di casa, poi aprirono la portiera posteriore e mi fecero entrare. L'auto si mise in moto. Guardandomi alle spalle, vidi per un istante le finestre di casa nostra illuminate nel buio e le sagome di mio padre e mia madre in corridoio. Mi rendevo conto che avrei dovuto essere terrorizzata, eppure non lo ero. Ero avvolta da un freddo vuoto.


«Ti do un consiglio» disse un guardiano. «Per il tuo bene, è meglio che tu risponda la verità a ogni domanda, o sarà peggio per te. Avrai sentito che a Evin sanno come far parlare la gente. Dire la verità ti eviterà certe sofferenze.»


L'automobile si diresse a nord, verso i monti Elburz. A quell'ora le strade erano quasi deserte; non c'erano pedoni, e il traffico era rado. Da lontano si scorgevano i semafori: rosso, verde, ancora rosso. Dopo circa mezz'ora vidi nel pallido chiarore lunare le mura serpeggianti di Evin stendersi sulle colline. Un uomo raccontava all'altro che sua sorella stava per sposarsi ed era molto soddisfatto che lo sposo fosse un eminente guardiano della rivoluzione che proveniva da un'agiata famiglia molto tradizionalista.


Allora pensai ad Andre e il mio stomaco fu pervaso da un dolore sordo che da lì si diffuse nelle ossa; ma era come se qualcosa di terribile fosse accaduto a lui, e non a me.


Percorremmo una via angusta e tortuosa finché alla nostra destra si stagliarono le grandi mura di mattoni rossi del carcere.


Ogni manciata di metri, i riflettori delle torrette di guardia gettavano un intenso bagliore nella notte. Ci avvicinammo a un grande cancello di ferro davanti al quale ci fermammo. Ovunque c'erano guardie barbute e armate. Dalla cima del muro, il filo spinato proiettava sul selciato un'ombra intricata. L'uomo alla guida uscì mentre l'altro, seduto al posto del passeggero, mi allungò una striscia di tessuto pesante e mi ordinò di bendarmi. «Vedi di mettertela bene o sono guai!» latrò. L'auto varcò l'ingresso e procedette per due o tre minuti prima di fermarsi nuovamente. Allora aprirono le portiere e mi dissero di scendere, poi qualcuno mi legò i polsi con una corda e mi tirò appresso a sé, ma io inciampai e caddi.


«Sei cieca?» domandò una voce, seguita da uno scoppio di risa.


Poco dopo sentii che faceva più caldo e capii che eravamo entrati in una palazzina. Sotto il bordo inferiore della benda mi apparve una sottile striscia luminosa: stavamo camminando lungo un corridoio. C'era tanfo di sudore, e di vomito. Mi ordinarono di sedermi per terra e aspettare. Sentivo che c'erano altre persone sedute vicino a me, anche se non potevo vederle. Tutti stavano in silenzio, ma da dietro le porte chiuse provenivano voci indistinte e furiose. Di quando in quando coglievo qualche parola: Bugiardo!


Dimmelo! I nomi! Scrivi! Poi sentivo grida di dolore. Il mio cuore prese a battere all'impazzata, a spingere con violenza contro il mio petto, dove premetti le mani. Dopo un po', una voce brutale disse a qualcuno di sedersi accanto a me. Era una ragazza, e piangeva.


«Perché piangi?» sussurrai.


«Ho paura!» disse lei. «Voglio andare a casa.»


«Lo so; anch'io. Ma non piangere, non serve a niente. Sicuramente ci manderanno a casa presto» mentii.


«No, non ci lasceranno andare. Ci morirò, qui dentro!


Moriremo tutti!»


«Devi essere coraggiosa» ribattei, ma subito me ne pentii.


Magari era stata torturata. Chi ero io per dirle di essere coraggiosa?


«Molto interessante» intervenne una voce maschile. «Marina, tu vieni con me. Alzati e fà dieci passi, dritto in avanti. Poi gira a destra.»


Adesso la ragazza piangeva forte. Feci come mi era stato detto, poi mi fu ordinato di fare altri quattro passi in avanti. Dietro di me una porta si chiuse, e dovetti sedermi su una sedia.


«Sei stata molto coraggiosa. Il coraggio è una dote che s'incontra raramente a Evin. Ho visto molti uomini forti andare in pezzi, qui. Dunque, sei armena?»


«No.»


«Ma alle guardie hai detto di essere cristiana.»


«Sono cristiana.»


«Allora sei assira?»


«No.»


«I cristiani sono tutti armeni o assiri.»


«La gran parte, ma non tutti. Le mie nonne emigrarono in Iran dalla Russia dopo la rivoluzione.»


Le mie nonne avevano sposato e seguito in patria due iraniani che lavoravano in Russia prima della rivoluzione del 1917, e che in seguito dovettero lasciare l'Unione Sovietica perché non erano cittadini russi.


«Quindi sono comuniste.»


«Se fossero state comuniste, perché avrebbero lasciato il loro paese? Se ne andarono perché lo odiavano, il comunismo. Erano tutte e due cristiane devote.»


L'uomo mi disse che nel Santo Corano si parlava anche di Maria, la madre di Gesù, e aggiunse che i musulmani credevano che Gesù fosse un grande profeta e nutrivano grande rispetto per sua madre. Poi si offrì di leggermi il brano in arabo, e io lo ascoltai.


La sua voce era profonda e dolce.


«Dunque, cosa ne pensi?» mi domandò alla fine. Avrei voluto che continuasse, finché leggeva non mi sarebbe accaduto nulla, ma ero ugualmente sicura di non potermi fidare di lui perché doveva essere un guardiano della rivoluzione, un uomo violento e senza pietà che torturava e uccideva persone innocenti.


«Era molto bello. Io ho studiato il Corano e questo passaggio l'avevo già letto» risposi. Le parole mi uscirono di bocca leggermente spezzate.


«Hai studiato il Santo Corano? Bè, questo è ancora più interessante!


Una coraggiosa ragazza cristiana che ha studiato il nostro libro! E sei rimasta cristiana, pur conoscendo il nostro profeta e i suoi insegnamenti?»


«Sì.»


Mia madre mi diceva sempre che non pensavo, prima di parlare, e lo diceva quando rispondevo a una domanda con schiettezza, quando facevo del mio meglio per non essere fraintesa.


«Interessante!» ridacchiò il lettore del Corano. «Vorrei continuare questa conversazione in un momento più adeguato, ma adesso fratello Hamehd vorrebbe farti qualche domanda.»


Sembrava divertito. Forse ero la prima cristiana che avesse mai visto a Evin e probabilmente s'aspettava che fossi come la gran parte delle ragazze musulmane di famiglia tradizionalista: silenziosa, timida, sottomessa. Ma non avevo nessuna di quelle qualità.


Sentii che s'alzava e usciva. Provai un senso di stordimento.


Forse ero in un luogo al di là della paura, dove tutte le normali emozioni umane morivano soffocate senza avere nemmeno la possibilità di lottare.


Attesi, pensando che non avevano alcun motivo di torturarmi.


La tortura viene usata per carpire informazioni ma io, che non appartenevo ad alcuna organizzazione politica, non sapevo niente di utile.


La porta si aprì, si richiuse e mi fece trasalire. Il lettore del Corano era tornato. Disse di chiamarsi Ali e mi spiegò che Hamehd stava già interrogando qualcun altro. Ali lavorava per la sesta divisione dei tribunali rivoluzionari islamici e si occupava del mio caso. Sembrava calmo e paziente, ma mi avvertì che dovevo dire la verità. Era molto strano parlare con qualcuno senza poterlo vedere. Non avevo idea del suo aspetto, di quanti anni avesse, o di come fosse la stanza in cui ci trovavamo.


Mi disse di sapere che a scuola avevo espresso idee antirivoluzionarie e che avevo scritto certi articoli contro il governo per il giornale scolastico. Non negai: non era un segreto, e nemmeno un crimine. Mi domandò se collaborassi con qualche organizzazione comunista, e io risposi di no. Sapeva che a scuola avevo indetto uno sciopero studentesco e credeva che ciò fosse impossibile per un individuo privo di legami con i partiti illegali, ma io chiarii che non avevo organizzato niente, ed era la verità. Avevo solo chiesto alla professoressa di calcolo di insegnare calcolo anziché politica; lei mi aveva detto di uscire dalla classe, io avevo obbedito, e le mie compagne mi avevano seguita. In un attimo, quasi tutte le altre ragazze della scuola erano venute a conoscenza dell'accaduto e si erano rifiutate di rientrare per le lezioni. Eppure Ali non voleva credere che tutto fosse stato così semplice, mi disse che le informazioni in suo possesso suggerivano che avessi importanti legami con organizzazioni comuniste.


«Non so da dove arrivino queste informazioni» replicai «ma sono completamente sbagliate. Ho studiato il comunismo proprio come ho studiato l'Islam e non sono diventata comunista, così come non sono diventata musulmana.»


«Molto divertente!» ridacchiò Ali. «Ti crederò se mi darai i nomi di tutte le comuniste o delle altre antirivoluzionarie della tua scuola.»


Perché mi chiedeva i nomi delle mie compagne? Sapeva dello sciopero e del giornale, quindi khanum Mahmudi doveva avergli parlato e consegnato la sua lista, ma non potevo arrischiarmi a dire nulla, perché non sapevo quali altri nomi ci fossero oltre al mio in quell'elenco.


«Non farò nessun nome.»


«Sapevo che eri dalla loro parte.»


«Io non sono dalla parte di nessuno. Se farò dei nomi, voi andrete ad arrestare quelle persone, e non voglio che questo accada.»


«Esatto: noi le arresteremo per accertarci che non stiano operando contro il governo, e se è così le rilasceremo. Ma se invece stanno facendo qualcosa, dovremo trattenerle. Potranno solo prendersela con loro stesse.»


«Non farò nessun nome.»


«Shahrzad? Non mi dirai che non la conosci!»


Per un istante non capii di chi stesse parlando. Chi era Shahrzad? Poi mi tornò in mente. Era un'amica di Gita e faceva parte di un'organizzazione comunista chiamata Fedayin- e Khalq.


Un paio di settimane prima delle vacanze estive Gita aveva voluto presentarmela, nella speranza che riuscisse a convincermi a unirmi al loro gruppo. L'avevo vista solo una volta e le avevo spiegato che ero una cristiana praticante, perciò non mi interessava far parte di un'organizzazione come la sua.


Ali mi raccontò che stavano sorvegliando Shahrzad, ma lei se ne era accorta, e quindi era sparita. La stavano cercando da un po' e ritenevano che potessimo esserci incontrate di nuovo. A suo dire, se Shahrzad voleva vedermi non poteva essere solo per convincermi a far parte del Fedayin, perché lei era una figura troppo importante per perder tempo così. Ma per quanto cercassi di fargli capire che non avevo nulla a che fare con questa Shahrzad, Ali non mi voleva credere.


«Noi dobbiamo scoprire dove si trova» diceva.


«Non posso aiutarvi, perché non lo so.»


Durante l'interrogatorio aveva mantenuto la calma, senza mai alzare la voce. «Marina, ascolta bene. Vedo che sei una ragazza coraggiosa e ti rispetto per questo, ma devo sapere. Se non vuoi dirmi nulla, fratello Hamehd si arrabbierà molto, e lui non è un uomo paziente come me. Non voglio vederti soffrire.»


«Mi dispiace, ma non ho niente da dire.»


«Dispiace anche a me.»


Mi condusse fuori dalla stanza, facendomi attraversare tre o quattro corridoi. Un uomo urlava. Ali mi fece sedere per terra, e poi disse che l'uomo che urlava non voleva collaborare, proprio come me, ma presto avrebbe cambiato idea.


Tutt'attorno non c'erano che grida di dolore. Opprimenti, profonde, disperate, mi penetravano sotto la pelle, diffondendosi in ogni cellula del mio corpo. Lo stavano massacrando, quel poveraccio.


Il mondo divenne una lastra di piombo posata sul mio petto.


L'impatto della frusta, sonoro, aspro. Il grido. Un breve istante di silenzio. Poi di nuovo.


Dopo alcuni minuti qualcuno chiese all'uomo se era disposto a parlare, ma la sua risposta fu «no». La tortura riprese. Sebbene avessi i polsi legati, cercai di coprirmi le orecchie con le braccia per non udire, ma fu inutile. Tutto continuò, colpo su colpo, urlo su urlo.


«Basta... per favore... voglio parlare» esclamò infine il disgraziato.


Basta.


L'unica cosa che importava era la mia decisione di non fare alcun nome. Non ero indifesa. Avrei tenuto duro.


«Marina, come va?» La voce dell'interrogatorio. «Ali mi ha raccontato tutto di te. È rimasto colpito. Non vuole che tu soffra, ma il lavoro è lavoro. L'hai sentito, quell'uomo? All'inizio non voleva dirmi nulla, però alla fine ha parlato. Sarebbe stato molto più furbo da parte sua dirmi subito quello che volevo sapere. Allora, vuoi parlare?»


Trassi un respiro profondo. «No.»


«Peggio per te. Alzati.»


Afferrò la corda legata attorno ai miei polsi, mi trascinò per qualche passo e poi mi spinse a terra. Mi fu tolta la benda. In piedi sopra di me c'era un uomo piccolo, magro, coi capelli castani e corti, i baffi, la benda in mano. Doveva avere poco più di quarant'anni e indossava un paio di pantaloni sportivi marrone, con una camicia bianca. Nella stanza non c'era null'altro a parte una branda di legno senza materasso, con la testiera di ferro.


L'uomo mi slegò i polsi. «La corda non va bene» osservò. «Ci vuole qualcosa di più duro e robusto.» Si tolse di tasca un paio di manette e me le mise.


Entrò un altro uomo. Era alto più di un metro e ottanta e doveva pesare sui novanta chili; aveva i capelli neri a spazzola e la barba nera, corta. Poteva avere poco meno di trent'anni.


«Hamehd, ha parlato?» domandò.


«No, è piuttosto cocciuta. Ma stà tranquillo, ci vorrà poco.»


«Marina, questa è la tua ultima possibilità» riprese quello che era appena arrivato. Riconobbi la voce: Ali. Aveva il naso un po' troppo grosso, occhi bruni e ciglia lunghe, fitte. «Finirà che parlerai, quindi tanto vale che tu lo faccia subito. Vuoi darci i nomi?»


«No.»


«Mi interessa solo che tu mi dica dov'è Shahrzad.»


«Non so dove sia.»


«Ali, guarda che polsi sottili! Scivoleranno fuori dalle manette» fece Hamehd, e me li chiuse entrambi dentro una manetta sola, trascinandomi sulla branda. Il ferro mi scavava le ossa. Dalla gola mi sfuggì un gemito ma non mi ribellai, perché capivo che non avevo speranze e che lottando avrei soltanto peggiorato la situazione.


Hamehd attaccò la manetta vuota alla testiera di ferro e, dopo avermi tolto le scarpe, mi legò le caviglie al letto.


«Ti frusterò le piante dei piedi con questo tubo» disse dondolandomi davanti alla faccia un pezzo di tubo nero, di più di due centimetri di diametro. «Ali, secondo te quanti colpi ci vorranno per farla parlare?»


«Non molti.»


«Io dico dieci.»


Il tubo fendette l'aria con un sibilo secco e minaccioso, atterrando sulle piante dei miei piedi.


Dolore. Non avevo mai provato niente di simile. Non avrei nemmeno potuto immaginarlo. Mi esplose dentro come la scarica di un fulmine.


Secondo colpo: il respiro mi si fermò in gola. Com'era possibile soffrire a quel modo? Cercai di pensare a qualcosa che mi aiutasse a resistere. Non potevo gridare perché non mi era rimasta abbastanza aria nei polmoni.


Terzo colpo: l'urlo del tubo nero e la sofferenza cieca. Un'Ave Maria mi pervase la mente.


Una dopo l'altra, le sferzate si susseguirono e io pregai, combattendo contro il dolore. Avrei voluto perdere i sensi, ma non accadde. Ogni colpo mi teneva perfettamente sveglia in attesa del successivo.


Decima frustata: supplicai Dio di aiutarmi.


Undicesima: fece più male di tutte le precedenti.


Dio, ti prego, non mi lasciare. Non ce la faccio.


Ancora. Un supplizio infinito.


Smetteranno, se gli faccio qualche nome... No, non smetteranno.


Vogliono sapere di Shahrzad, e io non ho nulla da dire su di lei. Non può durare per sempre. Cercherò di stare calma.


Dopo la sedicesima frustata persi il conto.


Dolore.


«Dov'è Shahrzad?»


Glielo avrei detto, se l'avessi saputo. Avrei fatto qualsiasi cosa purché smettessero.


Un colpo.


Prima d'allora avevo provato diversi tipi di dolore. Una volta mi ero rotta un braccio, ma questo era peggio, molto peggio.


«Dov'è Shahrzad?»


«Davvero, non lo so!»


Supplizio.


Voci.


Quando Hamehd si fermò, riuscii solo a trovare l'energia necessaria a girare la testa e vederlo uscire. Ali mi tolse le manette e mi slegò le caviglie. I piedi mi facevano male ma il dolore atroce era scomparso, sostituito da un benefico nulla che mi si diffondeva nelle vene. Poco dopo riuscii a percepire appena il mio corpo e iniziai ad avere le palpebre pesanti. Sentii qualcosa di freddo in faccia. Acqua. Scossi la testa.


«Stavi per svenire, Marina. Forza, tirati su» disse Ali.


Mi prese per le braccia e mi fece alzare. Adesso i piedi mi bruciavano come se fossero stati punti da cento api. Li guardai: erano rossi, blu, e molto gonfi. Mi meravigliai che la pelle non si fosse spaccata.


«Hai qualcosa da dirmi, adesso?» domandò Ali.


«No.»


«Così non si arriva da nessuna parte!» ribatté con un'occhiata truce. «Vuoi ancora botte? Vedrai come saranno conciati i tuoi piedi, se non parli.»


«Non so niente.»


«Questo non è più coraggio, è stupidità! È facile che ti condannino a morte, se non collabori. Non fare questo a te stessa.»


«Siete voi che me lo fate.»


Per la prima volta mi guardò diritto negli occhi e mi disse che i nomi li avevano già avuti dalla mia scuola. L'elenco glielo aveva dato khanum Mahmudi. Disse che se collaboravo non sarebbe cambiato nulla per le mie amiche, però mi sarei risparmiata la tortura, e che le mie amiche sarebbero state arrestate che io cooperassi o no, ma se avessi scritto come si chiamavano non avrei più dovuto soffrire.


«Credo che tu dica la verità su Shahrzad. Non provare a fare l'eroina, perché potresti rimetterci la vita. Hamehd è sicuro che sei una fedayin, ma io penso di no. Una fedayin sotto tortura non pregherebbe Maria.»


Non mi ero resa conto di aver pregato ad alta voce.


Domandai se potevo andare in bagno e lui mi aiutò ad alzarmi prendendomi il braccio. Mi girava la testa. Mise un paio di ciabatte di gomma per terra, davanti al letto. Erano almeno quattro numeri in più del mio ma a causa del gonfiore ai piedi fu un tormento calzarle. Ali mi aiutò ad attraversare la stanza, ma non fu facile mantenere l'equilibrio. Alla porta mi lasciò andare, mi diede la benda e mi disse di mettermela. Obbedii. Mi fece tenere un pezzo di corda e con quello mi guidò alla porta del bagno. Entrai, aprii il rubinetto e mi lavai la faccia con l'acqua fredda, ma a un tratto fui colta da un attacco di nausea; il mio stomaco si contrasse e vomitai. Mi sentivo come se un coltello mi avesse aperta in due. Poi udii un forte tintinnio, finché il buio mi inghiottì.


Quando riaprii gli occhi, non capii subito dove mi trovavo. Poi, mentre la mia mente pian piano si schiariva, mi resi conto di non essere più nel bagno, ma sulla branda di legno dov'ero stata torturata.


Ali invece era seduto su una sedia, a guardarmi. La testa mi faceva molto male e quando la tastai sentii un grosso bernoccolo sulla fronte, a destra. Allora chiesi ad Ali che cos'era successo e lui mi rispose che ero caduta in bagno battendo la testa, e che il dottore mi aveva visitata. Non ero grave. Poi mi fece sedere su una sedia a rotelle, mi bendò e mi portò fuori dalla stanza. Quando mi tolse la benda vidi che ci trovavamo in una stanza molto piccola e priva di finestre, con un gabinetto e un lavandino in un angolo. Per terra c'erano due coperte militari grigie. Mi fece distendere e me ne mise una addosso; era dura, ruvida e odorava di muffa ma non mi importava, avevo troppo freddo. Mi domandò se stessi male e io annuii, chiedendomi perché fosse gentile con me. Poi se ne andò, ma dopo qualche minuto tornò assieme a un uomo di mezza età in divisa che mi fu presentato come il dottor Sheikh.


Il dottore mi fece un'iniezione nel braccio e poi uscì insieme ad Ali. Chiusi gli occhi e pensai a casa. Avrei voluto arrampicarmi nel letto di mia nonna, come facevo da bambina, per sentirmi dire che non c'era motivo di aver paura, che era stato soltanto un brutto sogno.

3.

 


 


Da bambina amavo il silenzio sonnolento e le tinte languide del mattino presto a Teheran: mi facevano sentire libera e leggera, quasi invisibile. Era l'unico momento del giorno in cui mi potevo aggirare per il salone di mia madre, passeggiare fra i caschi e le sedie da parrucchiere senza farla arrabbiare. Nell'agosto del 1972, quando avevo sette anni, una mattina presi in mano il suo posacenere di cristallo preferito, grande quasi quanto un piatto da tavola.


Mi aveva detto un milione di volte di non toccarlo, ma era un bell'oggetto e ne volevo accarezzare i rilievi delicati. Capivo perché le piaceva così tanto; sembrava un enorme fiocco di neve che non si scioglieva mai. Dacché ricordassi, era sempre stato al centro del tavolo di vetro e le clienti di mia madre, donne dalle lunghe unghie laccate di rosso, sedevano sulle poltroncine rivestite di un tessuto bianco lanuginoso e ci posavano sopra la sigaretta, dandole un colpo leggero. A volte si sbagliavano e la cenere cadeva sul tavolo.


Mia madre non sopportava di vedere il tavolo sporco. Quando combinavo qualche pasticcio mi sgridava e mi faceva pulire, ma che senso aveva? Tanto le cose si sporcavano comunque.


Sollevai il posacenere. Una luce dorata e morbida si riversava dall'unica finestra del salone, che occupava più di metà della pare te a sud. Riflesso dal soffitto bianco, il bagliore si diffuse dentro la massa limpida e brillante. Inclinai il posacenere per osservarlo da un'altra angolazione, ma mi scivolò dalle mani. Cercai di afferrarlo, ma era troppo tardi; finì per terra e si ruppe.


«Marina!» gridò mia madre dalla camera da letto dei miei genitori, che era adiacente al salone.


Corsi a sinistra, varcai la porta che dava sul corridoio di casa, buio e stretto, filai nella mia stanza e mi rannicchiai sotto il letto.


L'aria sapeva di polvere e mi faceva prudere il naso, così trattenni il respiro per non starnutire. Sebbene non potessi vedere mia madre, sentii lo scalpiccio delle sue ciabatte di gomma sul linoleum e, incalzata da quel ritmo furibondo, mi acquattai contro la parete. Mi chiamò più volte, ma rimasi immobile più che potei.


Quando entrò in camera mia e si fermò accanto al letto, sentii che mia nonna le chiedeva che cos'era accaduto. Allora mia madre le disse che avevo rotto il posacenere, ma nonna ribatté che non ero stata io: l'aveva fatto cadere lei mentre puliva. Non credevo alle mie orecchie. Nonna diceva sempre che i bugiardi andavano all'inferno.


«Sei stata tu?» domandò mia madre.


«Sì. Mentre spolveravo il tavolo, è stato un incidente. Pulisco tra un minuto» rispose nonna.


Dopo un po’ il mio letto cigolò sotto il peso di qualcuno. Alzai il vecchio copriletto beige a qualche centimetro da terra e vidi le ciabatte marroni di nonna, le sue caviglie magre. Allora strisciai fuori e le sedetti accanto. Come di consueto, si era raccolta i capelli grigi in una crocchia stretta sulla nuca. Portava una gonna nera e una camicetta bianca stirata alla perfezione, e teneva lo sguardo fisso davanti a sé. Non sembrava arrabbiata.


«Babu, hai detto una bugia» dissi.


«Eh sì.»


«Ma Dio non ti sgriderà.»


Alzò un sopracciglio. «Perché?»


«Perché mi hai salvata.»


Sorrise. Mia nonna sorrideva di rado. Era una donna seria, che sapeva sempre tutto. Aveva immancabilmente la risposta alle domande più difficili ed era capace di far passare qualsiasi mal di pancia.


Nonna era la madre di mio padre e viveva con noi. Tutte le mattine alle otto andava a fare la spesa, e di solito la accompagnavo.


Quel giorno, come tanti altri, prese la borsa e io la seguii per le scale. Appena aprì la porta di legno dipinta di rosa, il frastuono delle auto, dei passanti, dei venditori ambulanti si riversò all'interno.


La prima cosa che vidi fu il sorriso sdentato di Akbar Agha, che aveva più di ottant'anni e vendeva banane su un carretto mezzo sfasciato.


«Banane, oggi?» domandò l'uomo.


Nonna ispezionò i frutti: erano di un giallo sano e perfetto.


Annuì, alzò otto dita e Akbar Agha ci diede otto banane.


Girammo a destra su Rahzi Avenue, una stretta via a senso unico bordata da marciapiedi polverosi. Verso nord vedevo la sagoma grigioazzura dei monti Elburz stagliarsi contro il cielo.


L'estate era alla fine e i cappucci di neve sulle vette erano spariti da un pezzo. Solo il Damavand, il vulcano spento, aveva un tocco di bianco in cima. Attraversammo la strada ed entrammo nella nuvola di vapore che usciva dalla porta aperta di una tintoria, carica del profumo di biancheria lavata e stirata.


«Sabu, perché non hai detto "otto" in persiano? Lo sai come si dice.»


«Sai benissimo che non mi piace parlare persiano. Il russo è molto meglio.»


«A me piace, il persiano.»


«Noi parliamo solo il russo.»


«Quest'autunno, quando andrò a scuola, imparerò a leggere e scrivere in persiano, e poi ti insegnerò.»


Nonna sospirò.


Saltellai davanti a lei. La strada era tranquilla; praticamente non c'era traffico. Passarono due donne dondolando le borse della spesa vuote. Quando entrai nel piccolo emporio il proprietario, agha-yeh Rostami, un uomo dai baffoni neri che stonavano sul suo volto affilato e gentile, stava parlando con una signora ricoperta dalla testa ai piedi da un chador nero che lasciava scoperto soltanto il viso. Un'altra donna in minigonna e maglietta attillata aspettava il proprio turno. Era l'epoca dello scià e le donne non erano obbligate a vestire secondo la regola islamica.


Sebbene l'emporio fosse piccolo, sugli scaffali c'era una grande varietà di cose: riso a grana lunga, spezie, erbe, burro, latte, formaggio Tabriz, dolciumi, corde per saltare, palloni in plastica. Agha-yeh Rostami mi allungò un cartone di latte al cacao sorridendomi da dietro il banco, e intanto porse alla donna col chador una busta di carta marrone. Mentre bevevo il latte a grandi sorsate e ne apprezzavo la freschezza vellutata, nonna entrò e indicò tutto ciò che le serviva. Sulla via del ritorno incontrammo agha Taghi, il vecchio che ogni anno in questo periodo girava per le strade annunciando a gran voce: «Si carda cotone e lana di cammello!».


Al suo passaggio le donne aprivano la finestra e gli dicevano di entrare a preparare le trapunte per l'inverno pettinandone l'imbottitura di lana o di fibre di cotone.


Di ritorno a casa, seguii nonna in cucina. A sinistra c'erano i due fornelli a nafta, a destra il frigorifero bianco e, contro la parete di fronte alla porta, la credenza con i piatti. Con me e nonna lì dentro, rimaneva poco spazio per muoversi. La finestra era vicina al soffitto, oltre la mia portata, e dava sul cortile di una scuola maschile. Nonna mise sul fuoco il vecchio bollitore d'acciaio per fare il tè e aprì la credenza.


«Tua madre ci ha di nuovo messo le mani e non trovo più nulla!


Dov'è la padella?»


Casseruole e tegami scivolarono per terra. Accorsi in aiuto di nonna per rimetterli a posto. La cucina era il suo regno, ed era lei che si occupava di me e faceva tutti i lavori di casa. Mia madre passava una decina di ore al giorno nel suo salone e odiava cucinare.


«Non ti preoccupare, Babu. Ti aiuto io.»


«Quante volte le ho detto di star fuori di qui?»


«Tante.»


Presto tutto tornò al suo posto.


«Kolja!» Nonna chiamò mio padre, che doveva essere nella scuola di ballo, ma non ebbe risposta.


«Marina, và a chiedere a tuo padre se vuole un po’ di tè» disse, riponendo la verdura nel frigorifero.


Attraversai il corridoio buio fino alla palestra di mio padre, di fronte al salone di bellezza di mia madre. Era uno stanzone a forma di L, coi pavimenti di linoleum marrone e, ai muri, fotografie di coppie danzanti elegantemente vestite. Il tratto più corto della L era una saletta d'attesa con un tavolino da tè rotondo coperto di riviste e circondato da quattro poltroncine di pelle nera. Mio padre era seduto lì, a leggere il giornale. Era un uomo snello, alto più di un metro e settanta, coi capelli grigi, il viso sempre ben sbarbato e occhi color ambra.


«Buongiorno, papà. Babu vuole sapere se ti va una tazza di tè.»


«No» disse secco senza alzare gli occhi, cosicché feci dietrofront e ritornai sui miei passi.


Qualche volta, la mattina quando mi svegliavo per prima, andavo nella scuola di ballo. Immaginavo la musica, di solito un valzer perché era il genere che preferivo, e piroettavo e danzavo tutt'attorno, fantasticando che mio padre stesse in un angolo ad applaudire dicendo: «Brava, Marina! Balli veramente bene!».


In cucina, nonna stava tritando le cipolle e le lacrime le scorrevano lungo il viso. Iniziarono a bruciare gli occhi anche a me.


«Odio le cipolle crude» dissi.


«Quando sarai più grande le apprezzerai. Se avrai bisogno di piangere senza che nessuno se ne accorga, ti basterà affettare le cipolle.»


«Ma tu non stai piangendo sul serio, vero?»


«No, certo che no.»


 


Durante la Seconda guerra mondiale, dopo il matrimonio i miei genitori affittarono un modesto appartamento all'angolo nordoccidentale dell'incrocio tra Shah e Rahzi Avenue, nel centro di Teheran, capitale e maggiore città dell'Iran. Qui, sopra un negozietto di mobili e un piccolo ristorante, mio padre aprì la sua scuola di ballo. Poiché durante la guerra dall'Iran passavano molti soldati americani e inglesi, tra le classi abbienti si diffuse la cultura occidentale, e mio padre trovò molti allievi assidui che volevano imparare a danzare come gli occidentali.


Nel 1951 mia madre diede alla luce mio fratello e dopo un paio d'anni andò in Germania, anche se non parlava il tedesco, per seguire un corso di parrucchiera. Sei mesi dopo, al suo ritorno, aveva bisogno di un posto dove aprire il suo salone. Accanto al nostro appartamento ce n'era un altro identico, così i miei lo affittarono e lo unirono al primo.


Io nacqui il 22 aprile 1965. Dal 1941 il re dell'Iran era Muhammad Reza Pahlavi, autocrate filoccidentale. Quattro mesi prima che nascessi, il premier Hassan Ali Mansur fu assassinato da presunti seguaci del capo dei fondamentalisti sciiti, l'ayatollah Khomeini, che voleva una teocrazia in Iran. Nel 1971 Amir Abbas Hoveyda, capo del governo, organizzò una sontuosa celebrazione presso le antiche rovine di Persepoli per commemorare i duemilacinquecento anni dalla fondazione dell'impero persiano. Venticinquemila ospiti provenienti da tutto il mondo - re e regine, capi di stato, primi ministri, diplomatici - parteciparono ai festeggiamenti, che costarono trecento milioni di dollari. Lo scià annunciò che quelle iniziative avevano lo scopo di mostrare al mondo intero i progressi fatti dall'Iran negli ultimi anni.


Quando compii quattro anni mio fratello se ne andò di casa per frequentare l'Università Pahlavi di Shiraz, nel centro del paese.


Andavo molto fiera di lui, che era così alto e bello, ma veniva a casa raramente, e non si fermava mai a lungo. Nelle preziose occasioni in cui ci faceva visita s'affacciava sulla soglia di camera mia, mi sorrideva e chiedeva: «Come sta la mia sorellina?». Adoravo sentire la sua acqua di colonia che diffondeva un fantastico profumo nell'aria. Lui e la nonna erano gli unici a farmi i regali di Natale. I miei genitori, invece, pensavano che il Natale fosse solo uno spreco di tempo e denaro.


Tutte le domeniche nonna mi portava nell'unica chiesa russa ortodossa di Teheran, che si trovava a due ore di cammino da casa nostra. Attraversavamo le strade del centro, bordate di negozi, venditori ambulanti e aceri secolari. Sentivo il delizioso odore dei semi di girasole e di zucca tostati. Nahderi Avenue, coi suoi fornai e i negozi di giocattoli, era il tratto di strada che preferivo. Il profumo delle paste appena sfornate, di vaniglia, cannella, cioccolato, era inebriante, e in sottofondo si udiva un'onnipresente mescolanza di suoni: clacson, venditori ambulanti che magnificavano la loro mercanzia e contrattavano coi clienti, musica tradizionale a tutto volume. Nonna non amava comprarmi giocattoli, però mi prendeva sempre un dolce.


Una domenica uscimmo abbastanza presto per andare a trovare una sua amica, che viveva in un piccolo appartamento. Era una signora russa anziana e bisbetica, dai capelli corti e riccioluti, che aveva le labbra sempre dipinte di rosso, l'ombretto azzurro sulle palpebre e odorava di fiori. Casa sua era piena di vecchi mobili e ninnoli, e c'era anche una bellissima collezione di statuine di porcellana.


Se ne trovavano ovunque: sui tavolini, sugli scaffali, sui davanzali, e persino sui ripiani della cucina. A me piacevano particolarmente gli angeli, con le loro ali delicate.


L'amica di nonna serviva il tè nelle più belle tazze di porcellana che avessi mai visto. Erano bianche, splendenti, decorate con rose delicate. Accanto alla tazza metteva un minuscolo cucchiaino dorato. Mi piaceva lasciar cadere le zollette di zucchero nel tè e osservare le bollicine affiorare mentre lo mescolavo.


Quel giorno chiesi alla signora come mai aveva così tanti angeli e lei rispose che le tenevano compagnia. Mi domandò se sapevo che tutti avevamo un angelo custode e io dissi che me lo aveva detto la nonna. Allora mi guardò con quei suoi occhi azzurro chiaro, che sembravano stranamente grandi dietro le lenti spesse, e mi spiegò che tutti avevamo visto il nostro angelo custode, ma che poi ci eravamo dimenticati del suo aspetto.


«Su, dimmi» continuò. «Quando stai per fare qualcosa di sbagliato, ti è mai capitato di sentire nel tuo cuore un sussurro che ti dice di non farlo?»


«Sì... credo di sì.» Pensai al posacenere. «Bè, era il tuo angelo. E più ti metti in ascolto, più lo senti.» Mi sarebbe tanto piaciuto ricordare com'era fatto il mio angelo.


L'amica di nonna mi propose di passare in rassegna le sue statuine, assicurandomi che doveva somigliare a quella che mi piaceva di più. Allora le esaminai per un po’ e alla fine trovai la mia preferita: un bel giovane con una lunga veste bianca. La mostrai a nonna e lei disse che non sembrava proprio un angelo perché non aveva le ali, ma io replicai che le sue ali erano invisibili.


«Te la regalo, cara» disse l'amica di nonna, rendendomi felice.


 


Nonna mi portava ai giardini tutti i giorni. A circa venti minuti da casa c'era il grande parco Valiahd. Lo esploravamo per ore, ammirando gli alberi secolari e i fiori odorosi. D'estate, quando faceva caldo, per rinfrescarci ci sedevamo su una panchina a mangiare un cono gelato. Al centro del parco c'era una vasca bassa con in mezzo una fontana che lanciava il suo lungo zampillo verticale, e tante fontanelle gorgoglianti tutt'attorno. Mi ci avvicinavo sempre, e lasciavo che il vento mi spruzzasse l'acqua addosso. Nelle vicinanze c'erano delle statue di bronzo che raffiguravano bambini, tutti diversi l'uno dall'altro. Uno stava in piedi e osservava il cielo, un altro era inginocchiato vicino all'acqua e ci guardava dentro come se avesse smarrito qualcosa di prezioso, un terzo allungava una bacchetta d'ottone verso la vasca e un altro sollevava una gamba, come se stesse per tuffarsi. Quelle statue avevano un che di terribilmente triste; sembravano vere ma erano congelate per sempre in un oscuro stato solido, incapaci di liberarsi.


Andare sull'altalena era la cosa più divertente. Nonna sapeva che amavo volare molto in alto e mi spingeva sempre più forte che poteva. Mi piaceva sentire il vento che mi accarezzava i capelli, e quando arrivavo lassù il resto del mondo scompariva. A sette anni credevo che la vita sarebbe stata così per sempre.


Un pomeriggio eravamo ai giardini. Io stavo correndo e la nonna mi chiamò da lontano per dirmi che era ora di andare a casa, ma si sbagliò: mi chiamò Tamara. Confusa, tornai subito da lei e le chiesi chi era Tamara; lei si scusò e disse che era meglio avviarsi verso casa perché faceva troppo caldo, e così ci incamminammo.


Sembrava stanca ed era strano, perché prima d'allora non l'avevo mai vista annoiata o stanca di qualcosa.


«Chi è Tamara?» ripetei.


«Tamara è la mia bambina.»


«Ma tu non hai una bambina, Babu. Hai solo me, la tua nipotina.»


Nonna mi spiegò che aveva avuto una figlia, Tamara, quattro anni prima di mio padre, e che io le somigliavo moltissimo, come una gemella. A sedici anni Tamara aveva sposato un russo ed era tornata in Unione Sovietica con lui. Domandai perché non fosse mai venuta a trovarci e nonna disse che a Tamara era vietato lasciare la Russia: il governo sovietico non permetteva facilmente ai suoi cittadini di spostarsi in altri paesi. In passato la nonna le aveva spedito bei vestiti, saponette e dentifricio perché là quelle cose erano difficilmente reperibili, finché ricevette una lettera dalla SAVAK, la polizia segreta dello scià, dove si diceva che era proibito comunicare con chi si trovava in Unione Sovietica.


«Perché?» m'informai.


«Qui la polizia pensa che la Russia sia un paese cattivo, così ci hanno proibito di scrivere a Tamara o di mandarle pacchi.»


Mentre cercavo di inquadrare queste novità circa una zia che non avevo mai conosciuto, nonna proseguiva nel suo racconto come se parlasse da sola. Non riuscivo a capire bene che cosa diceva.


Citava persone e luoghi che non avevo mai sentito e usava parole strane e sconosciute, quindi potei afferrare solo alcuni frammenti del suo discorso. Disse che a diciott'anni si era innamorata di un ragazzo che più tardi era rimasto ucciso durante la Rivoluzione russa. Mi parlò di una casa dalla porta dipinta di verde che si affacciava su una stradina, di un grande fiume e di un lungo ponte, e di soldati a cavallo che sparavano sulla folla.


«... Mi voltai e lo vidi a terra» disse. «Gli avevano sparato. C'era sangue dappertutto. Morì tra le mie braccia...»


Non volevo più starla a sentire, ma lei non si fermava. Non potevo turarmi le orecchie; era da maleducati, l'avrei fatta arrabbiare.


Forse potevo camminare più in fretta, aumentando la distanza fra di noi, ma c'era qualcosa che non andava; nonna non stava bene, e io dovevo prendermi cura di lei. Alla fine mi misi a canticchiare tra me e me, e la mia voce tenne lontane dalla mia mente le sue parole. Quando andavo a dormire mi raccontava sempre delle storie, ma erano tutte a lieto fine, e nessuno veniva ucciso. Io sapevo che quando le persone buone morivano andavano in paradiso e quindi la morte non poteva essere un male, ma mi terrorizzava ugualmente. Era come entrare in un luogo totalmente buio dove potevano accaderti le cose più terribili, e a me il buio non piaceva per nulla.


Stavamo camminando verso casa. Finalmente nonna tacque e si guardò attorno con espressione smarrita, confusa. Sebbene fossimo quasi arrivate, dovetti prenderle la mano e guidarla. La donna forte che avevo sempre conosciuto, il mio punto di riferimento, divenne tutt'a un tratto vulnerabile. Era come una bambina: come me. Lei che ascoltava sempre e che di rado infilava più di qualche parola, mi aveva narrato la storia della sua vita, disorientandomi con il suo racconto di sangue, violenza e morte. Con lei il mio mondo era sempre stato protetto, ma ora mi aveva detto che niente durava per sempre. Per qualche ragione, sentii che nonna stava morendo. Glielo avevo letto negli occhi, come se me l'avesse sussurrato in segreto.


A casa, l'aiutai a coricarsi. Non venne a cenare con noi, né si alzò la mattina dopo. Quel giorno i miei genitori la portarono dal medico e quando tornarono nonna si rimise subito a letto. Mio padre e mia madre non risposero alle mie domande sulla sua malattia.


Andai in camera sua. Poiché dormiva, mi sedetti su una sedia accanto a lei e attesi a lungo, finché si mosse. Soltanto allora mi resi conto di quanto fosse divenuta sottile e fragile.


«Che cos'hai, Babu?»


«Sto morendo, Marina» rispose, come se fosse una cosa semplice, normale.


Le chiesi che cosa ci succedeva quando morivamo e lei mi disse di osservare attentamente un dipinto appeso da sempre a una parete della sua stanza. Volle che le riferissi tutto ciò che vedevo, e io dissi che era il ritratto di una vecchia signora con i capelli grigi e il bastone. Camminava lungo un sentiero in una foresta buia, ma alla fine del sentiero c'era una luce splendente.


Nonna spiegò che lei era come quella vecchia signora. Dopo aver camminato attraverso la vita per tanti anni, adesso si sentiva stanca. Disse che la sua vita era stata buia e difficile, e che aveva affrontato numerosi ostacoli senza mai darsi per vinta.


«Ora» proseguì «tocca a me andare a guardare Dio in faccia.»


«Ma Babu» protestai «perché non puoi guardare in faccia Dio stando qui con me? Ti prometto che ti lascerò riposare, non dovrai andare da nessuna parte.»


Sorrise. «Bambina, noi non possiamo guardare in faccia Dio con questi occhi» disse, sfiorandomi le ciglia con le dita tremule «ma solo con la nostra anima. Devi sapere che la morte è soltanto un passo che dobbiamo fare per arrivare nell'aldilà e vivere in una maniera diversa.»


«Io non voglio niente di diverso; mi piace tutto così com'è.»


«Devi essere coraggiosa, Marina.»


Non volevo essere coraggiosa. Avevo paura ed ero triste. Essere coraggiosa era come mentire, fingere che tutto andava bene. E invece non andava bene niente.


Nonna trasse con fatica un respiro e mi chiese di aprire il cassetto in alto a sinistra del comò. Dentro c'era un cofanetto dorato.


Glielo porsi. Poi mi disse di infilarmi sotto il letto e tirare fuori un paio di scarpe nere. All'interno della scarpa sinistra c'era una piccola chiave dorata.


Mentre le lacrime le rigavano il viso, mi diede il cofanetto e la chiave.


«Marina, io ho scritto la storia della mia vita e l'ho messa qui dentro. Adesso è tua. Tienila, e ricordati di me. Ne avrai cura per Babu?»


Annuii.


«Mettila al sicuro da qualche parte. Ora và, e non ti preoccupare.


Ho bisogno di riposare un pochino.»


Me ne andai e mi rifugiai nella mia stanza, dove mi sentii più sola che mai. Nascosi il cofanetto sotto il letto, aprii la porta del balcone e uscii. L'aria era calda, pesante, e la strada trafficata era la stessa di sempre. Nulla era cambiato, ma tutto sembrava diverso.


Nonna non si svegliò più. Un cancro al fegato la stava uccidendo.


Mia madre mi disse che era in coma. Rimase così per quasi due settimane, mentre mio padre in lacrime andava avanti e indietro nel corridoio. Per farle compagnia e sentirmi meno sola le sedevo accanto almeno due ore al giorno. Il suo viso era calmo, sereno, anche se pallido e scavato. Giorno dopo giorno, lottavo contro le mie lacrime come se il mio pianto potesse confermare la sua morte, affrettarla.


Una mattina mi svegliai molto presto e, non riuscendo a riaddormentarmi, andai in camera di nonna. Accesi la luce e la guardai: il suo volto aveva perduto ogni colore. Le toccai la mano: era fredda. Rimasi in silenzio; avevo capito che era morta, ma non sapevo cosa fare. Avevo bisogno di dirle qualcosa ma non ero certa che potesse sentirmi, che la barriera innalzata fra di noi dalla morte fosse superabile.


«Ciao, Babu. Spero che adesso tu viva bene con Dio, ovunque sia.»


Ebbi la strana sensazione che ci fosse qualcun altro nella stanza, insieme a noi. Corsi in camera mia, saltai nel letto e recitai tutte le preghiere che riuscii a ricordare.


L'indomani portarono via il suo corpo. Per tutto il giorno sentii mio padre che piangeva. Mi coprii le orecchie con le mani e mi guardai attorno in camera mia; non sapevo dove andare. Quando succedeva qualcosa di brutto il mio rifugio era la nonna, e adesso lei non c'era più. Alla fine presi dal comò la statuina del mio angelo, mi nascosi sotto il letto e iniziai a pregare: «Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Tu sei benedetta tra le donne, e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori adesso e nell'ora della nostra morte».


Qualcuno sollevò le coperte che pendevano di fianco al letto e una scia di luce si riversò nel buio del mio nascondiglio. Un volto sconosciuto mi stava guardando. Era un giovane con i ricci e gli occhi neri, gli occhi più neri che avessi mai visto. Per contrasto, aveva la pelle straordinariamente bianca, e un sorriso dolce e amichevole.


Avrei voluto chiedergli chi era, ma non ci riuscivo.


«Ciao» disse.


La sua voce gentile e delicata mi diede quel coraggio che mi mancava.


Strisciai fuori. Il giovane indossava una lunga tunica bianca ed era scalzo. Gli toccai le dita dei piedi: erano calde. Si chinò, mi sollevò, si sedette sul mio letto e mi tenne in grembo. Una tenue fragranza mi riempì le narici; somigliava al profumo dei narcisi nei giorni di pioggia.


«Mi hai chiamato e io sono venuto» disse, e mi accarezzò la testa.


Chiusi gli occhi. Il movimento delle dita lungo i miei capelli mi faceva pensare alla brezza di primavera che intreccia il tepore del sole fra i rami degli alberi appena risvegliati. Mi appoggiai contro il suo petto e mi parve di conoscerlo, come se ci fossimo già incontrati, anche se non sapevo dove o quando. Alzai lo sguardo e lui fece un sorriso profondo, caldo.


«Perché non hai le ciabatte?» chiesi.


«Nel posto da cui vengo non servono.»


«Sei il mio angelo custode?»


«Tu chi credi che io sia?»


Lo osservai brevemente. Solo un angelo poteva avere occhi come i suoi. «Sei il mio angelo custode.»


«Proprio così.»


«Come ti chiami?»


«Io sono l'Angelo della Morte.»


Per poco il cuore non mi si fermò.


«Qualche volta la morte è difficile, ma non è una cosa cattiva o spaventosa. È come un viaggio verso Dio, e siccome le persone muoiono una volta sola e non conoscono la strada, io le guido e le aiuto.»


«Sei venuto per portarmi via con te?»


«No, adesso no.»


«Hai aiutato Babu?


«Lei è felice, adesso?»


«È molto felice.»


«Vuoi stare un po’ qui con me?»


«Certo.»


Mi appoggiai ancora al suo petto e chiusi gli occhi. Mi ero sempre domandata cosa provassero gli uccelli quando planavano nel vento, immersi nel sole, una cosa sola con il cielo. In quel momento lo capii.


La mattina dopo, quando mi svegliai, mi ritrovai nel mio letto, e non c'erano angeli.4.

 


 


Mi risvegliai da un sonno senza sogni, provando un dolore acuto alla spalla destra. Qualcuno mi stava chiamando. La mia vista era offuscata ma capii che Hamehd, chino su di me, mi stava calciando una spalla. Mi ricordai che Ali mi aveva lasciata in una cella, ma non avevo idea di quanto ci fossi rimasta.


«Sì, sì» dissi.


«Alzati!»


Mi tremavano le ginocchia; mi bruciavano i piedi.


«Verrai con noi mentre arrestiamo le tue amiche» fece Hamehd. «Quelle che cercavi di proteggere. I nomi e gli indirizzi li avevamo già. Volevamo soltanto conoscerti un po’ meglio, e tu hai dimostrato di essere una nemica della rivoluzione. Sei un pericolo per la società islamica.»


Fui nuovamente bendata. Hamehd mi legò i polsi con una corda e mi trascinò con sé. Fui spinta dentro un'automobile, e qualche minuto dopo qualcuno mi tolse la benda. Avevamo lasciato il carcere. Non sapevo con certezza che giorno o che ore fossero, ma poteva essere l'imbrunire perché il cielo era nuvoloso e scuro, seppure non completamente buio. Ci dirigemmo a sud lungo una strada stretta e sinuosa con pochissime automobili e rari passanti. Ai due lati della strada s'innalzavano vecchie mura di argilla e mattoni che circondavano grandi ville e conferivano al luogo l'aspetto di un letto di fiume in secca. Gli alberi spogli tendevano le braccia al cielo, tremando al vento. Presto imboccammo l'autostrada Jordan, proseguendo verso sud e ritrovandoci in un quartiere abbiente di nuova realizzazione. Su una collina c'era un palazzo alto circondato da palazzine di due piani e villini. L'uomo alla guida aveva una folta barba nera e indossava la divisa verde dei guardiani della rivoluzione; al suo fianco c'era Hamehd.


Entrambi tacevano e guardavano la strada. A un semaforo, una bambina di tre o quattro anni mi sorrise dal sedile posteriore di un'auto bianca che si era accostata alla nostra. Davanti c'erano un uomo e una donna che parlavano tra loro. Mi chiesi allora che cosa stessero facendo i miei genitori: chissà se stavano cercando di aiutarmi, o se avevano perduto ogni speranza. Sapevo perfettamente che non potevano fare nulla. E chissà se Andre stava pensando a me.


Entrammo nell'abitato. Qui il traffico era piuttosto sostenuto, e marciapiedi e negozi erano affollati. Su ogni muro campeggiavano gli slogan del governo islamico e le frasi di Khomeini, tra cui una attirò la mia attenzione: «Se si permette a un infedele di perseverare nel suo ruolo di corruttore della terra, la sua sofferenza morale sarà terribile. Ma se lo si uccide, impedendogli così di commettere le sue malefatte, la morte sarà una benedizione per lui». Sì, nel mondo di Khomeini l'omicidio poteva essere considerato una buona azione, una «benedizione». Perciò Hamehd poteva puntarmi una pistola alla testa, premere il grilletto, credere di avermi fatto un favore e al contempo di essersi meritato il paradiso.


Per attraversare la strada i passanti zigzagavano fra le automobili.


A un incrocio un ragazzo guardò dentro la nostra auto e, notando che al volante c'era un guardiano della rivoluzione, fece un passo indietro e mi osservò. Aveva cominciato a nevicare.


Ci fermammo. Eravamo arrivati a casa di Minu, una mia compagna di scuola. Un'altra Mercedes nera parcheggiò di fianco alla nostra: ne scesero due guardiani che andarono alla porta e suonarono il campanello. Qualcuno aprì: era la madre di Minu. I guardiani entrarono. Hamehd si voltò e mi passò un foglio. C'erano scritti una trentina di nomi e io li conoscevo tutti; erano mie compagne di classe. In calce riconobbi la firma della preside. Il foglio che avevo tra le mani era l'elenco delle ricercate della mia scuola. «Non riusciremo ad arrestarle tutte stanotte, ma in tre giorni dovremmo farcela» sorrise Hamehd.


Dopo circa mezz'ora i guardiani uscirono assieme a Minu.


Hamehd scese dall'auto, aprì la portiera posteriore e le disse di sedersi vicino a me. Vidi sua madre piangere e parlare con uno dei guardiani. Hamehd disse a Minu che ero stata arrestata un paio di giorni prima e mi ordinò di convincerla a collaborare, se non volevo vederla soffrire.


Minu mi fissò, gli occhi sgranati per il terrore.


Indicai i miei piedi. «Digli tutto quello che vogliono sapere.


Hanno...»


«Basta così» m'interruppe Hamehd.


Minu mi guardò i piedi, si nascose il viso tra le mani e scoppiò a piangere.


«Perché piangi?» le domandò Hamehd, ma non ottenne risposta.


L'uscita durò ore e ore. Andammo di casa in casa. Quella sera furono arrestate quattro mie compagne di scuola. Cercai di sussurrare a Minu di dare alle guardie qualche nome durante l'interrogatorio, tentai di dirle che avevano già un elenco e che sapevano tutto, ma alla fine non fui sicura che avesse capito.


Appena giunte ai cancelli del carcere, fummo bendate. Quando l'auto si fermò, qualcuno aprì la portiera dalla mia parte e Hamehd mi ordinò di uscire. Gli arrancai dietro fin dentro un edificio, e lui mi ordinò di sedermi a terra nell'ingresso. Rimasi lì a lungo, ascoltando i pianti e le urla dei prigionieri. La testa mi martellava; avevo lo stomaco sottosopra.


«Marina? Alzati.» La voce di Hamehd mi fece trasalire. Mi ero appisolata.


Riuscii a trovare l'equilibrio appoggiandomi alla parete. Hamehd mi disse di attaccarmi al chador della ragazza che mi precedeva; obbedii, lei avanzava e io le zoppicavo appresso. I piedi mi bruciavano come se camminassi su frammenti di vetro. Poco dopo uscimmo all'aperto e proseguimmo sotto la sferza del vento gelido.


La ragazza davanti a me si mise a tossire. La neve mi scivolava nelle ciabatte di gomma facendomi intorpidire i piedi e attenuando il dolore, ma pian piano stavo perdendo sensibilità nelle gambe e perciò ogni passo era più difficoltoso del precedente. Quando inciampai su una pietra e caddi, posai la testa sulla terra gelata e leccai la neve nel tentativo disperato di alleviare l'arsura amara della mia bocca. Non avevo mai provato così tanto freddo, così tanta sete. Ero scossa da un tremito incontrollabile e il battere dei denti mi riempiva la testa. Fui sollevata brutalmente e rimessa in piedi a forza.


Dove mi stanno portando?


«Cammina come si deve o ti sparo subito!» gridò Hamehd.


Mi trascinai. Finalmente ci dissero di fermarci e qualcuno mi tolse la benda. Mi sentii in faccia una luce intensa e accecante che mi provocò una fitta violenta, esplosiva. Qualche secondo dopo, mi guardai intorno. Come un abbagliante fiume bianco, un riflettore fendeva la notte. Come un muro di ombre spettrali, le colline nere erano attorno a noi. Eravamo nel bel mezzo del nulla, senza edifici nelle vicinanze. Il cielo notturno era macchiato di nubi e radi fiocchi di neve oscillavano nell'aria con leggerezza, come volessero prolungare quel volo cristallino prima di affrontare la morte sulla terra. Con me c'erano altri quattro prigionieri. Quattro guardiani della rivoluzione ci puntavano contro le pistole, i volti inespressivi, come scolpiti nella tenebra. «Andate ai pali!» gridò Hamehd, e le colline restituirono l'eco della sua voce. A circa cinque metri da noi spuntavano dal terreno alcuni pali di legno, alti più o meno come me. Stavano per giustiziarci. Un senso di gelo nel petto mi paralizzò.


Questa è la mia morte. Nessuno merita di finire così.


Uno dei due prigionieri maschi si mise a recitare in arabo una parte del Corano dove si chiedeva perdono a Dio. La sua voce era profonda, decisa. L'altro ragazzo guardava fisso i pali. Aveva un occhio gonfio, chiuso, e macchie di sangue sulla camicia bianca.


«Ai pali, subito!» ripeté Hamehd, e noi obbedimmo in silenzio.


Lo sconforto mi riempì cuore e polmoni come un liquido denso e soffocante.


Gesù mio, aiutami. Fà che la mia anima non si perda nel buio. «Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me.»


Una ragazza si mise a correre e qualcuno gridò «Ferma!», ma lei non si fermò. Uno sparo squarciò la notte e la ragazza cadde a terra. Feci un passo avanti, ma le gambe mi cedettero. La ragazza rotolò su un fianco, la schiena inarcata per il dolore. «Vi prego... non uccidetemi, vi prego» gemette. La neve che le ricopriva il chador scintillava sotto la luce limpida e bianca. Hamehd si avvicinò e le punto la pistola alla nuca. Lei si coprì la testa con le braccia.


L'altra ragazza, vicino a me, si mise a piangere. Le sue grida acute sembravano squarciarle il petto. Cadde in ginocchio.


«Legate gli altri ai pali!» urlò Hamehd.


Un guardiano mi alzò da terra e un altro mi legò a un palo. La corda mi tagliava la carne.


Ero stremata.


Chissà se morire farà male come essere frustati.


Hamehd teneva la pistola puntata contro la ragazza ferita.


 


«Puntate!»


La morte è solo un posto dove non sono mai stata, e l'angelo mi aiuterà a trovare la strada. C'è luce, oltre questa terribile oscurità. Da qualche parte, al di là delle stelle, il sole sta sorgendo.


Puntarono le armi contro di noi. Chiusi gli occhi.


Spero che Andre sappia che lo amo. Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te...


Sentii che un'automobile si avvicinava a noi accelerando e aprii gli occhi. Per un momento credetti che ci avrebbero investiti. Con un forte stridore di gomme, una Mercedes nera si fermò proprio davanti alle guardie. Era Ali. Andò da Hamehd e gli diede un foglio. Parlarono un momento. Hamehd annuì. Ali si avvicinò a me, puntando gli occhi nei miei. Avrei voluto scappare. Avrei voluto che Hamehd mi sparasse, che mettesse fine alla mia vita. Ali mi slegò dal palo. Mi accasciai. Lui mi prese, mi sollevò e mi condusse all'auto. Sentivo il battito del suo cuore contro il mio corpo.


Cercai inutilmente di divincolarmi.


«Dove mi stai portando?»


«Stà tranquilla, non ti farò del male» sussurrò.


Il mio sguardo incontrò quello della ragazza legata al palo accanto al mio. «Dio...» gridò, e chiuse gli occhi.


Ali mi depositò sul sedile davanti e sbatté la portiera. Cercai di aprirla, ma senza riuscirvi. Saltò al posto di guida. Raccogliendo tutte le forze, cominciai a colpirlo, ma lui mi tratteneva con una mano.


Quando ci allontanammo a gran velocità, gli uomini spararono.


 


Aprii gli occhi e vidi una lampadina accesa sopra di me. Il soffitto era grigio. Cercai di muovermi, ma non sentivo più il mio corpo.


Ali era seduto in un angolo e mi fissava. Ci trovavamo in una piccola cella, e io ero distesa sul pavimento.


Chiusi gli occhi, sperando che lui se ne andasse, ma dopo un paio di minuti, quando li riaprii, era ancora lì seduto. Scosse la testa e disse che me l'ero andata a cercare, che era tutta colpa della mia cocciutaggine. Si era recato dall'ayatollah Khomeini, che era un caro amico di suo padre, per chiedergli di ridurre la mia sentenza dalla condanna a morte all'ergastolo, e l'ayatollah aveva dato ordine di risparmiarmi la vita.


Ma io non volevo essere salvata dall'ayatollah. Non volevo essere salvata da nessuno. Volevo morire.


«Adesso ti porto qualcosa da mangiare. È da parecchio che non mangi» continuò Ali senza mai togliermi gli occhi di dosso, eppure non si mosse e, sentendo sulla mia pelle il peso del suo sguardo, strinsi la coperta così forte che le dita mi fecero male. Alla fine si alzò. Mi irrigidii in tutto il corpo.


«Hai paura di me?»


«No.»


«Non devi averne.»


Dentro i suoi occhi percepivo un desiderio profondo, tangibile.


Mi faceva male lo stomaco. Sentii che un grido mi si formava in gola, ma lui si voltò e uscì. Ogni lacrima che mi rigava il viso mi faceva tremare in tutto il corpo. Lo odiavo, Ali.


Perché mi aveva sottratta al plotone d'esecuzione? Che cosa ne sarebbe stato di me?


Il mio ultimo pensiero prima di addormentarmi andò a Sarah.


Speravo che stesse bene. Potevo solo pregare, per lei e per me, e per Sirus e Gita, e per tutte le mie compagne che erano state arrestate.


Non erano lontani i giorni della scuola, quando nell'intervallo giocavamo a rincorrerci e a nasconderci. Adesso, invece, eravamo detenute politiche.


 


Mi portò una scodella di minestra e si sedette accanto a me.


«Per favore, non piangere.»


Non riuscivo a smettere.


«Vuoi che me ne vada?»


Annuii.


«Me ne andrò solo se prometti di finire la minestra. Lo prometti?»


Annuii ancora.


Giunto sulla porta, sostò un momento e si voltò. «Tornerò più tardi» disse, e la sua voce era stanca, appesantita.5.

 


 


Era l'epoca dello scià. La mia scuola elementare aveva muri di mattoni rossi ricoperti d'edera e distava dieci minuti a piedi da casa mia, quindi andavo e tornavo da sola. In origine il vecchio edificio era stato una villa a due piani e, come mi avevano detto i miei amici, la direttrice khanum Mortazavi, che aveva fatto l'università all'estero, una volta tornata in Iran l'aveva trasformata in una scuola. In ogni classe c'erano grandi finestre, ma, per via degli aceri secolari che crescevano in cortile, l'interno era sempre in penombra, cosicché per leggere alla lavagna di solito ci toccava accendere le luci. Ogni giorno, dopo la campanella, io e Sarah uscivamo e attraversavamo la strada insieme, ma poi lei girava a sinistra e io a destra. Proseguendo verso sud su Rahzi Avenue, passavo davanti alle alte mura che circondavano l'ambasciata vaticana; poi c'era il ristorante Ashna, che spandeva nell'aria il profumo del riso aromatico e del manzo alla griglia, e poi ancora un piccolo negozio di biancheria che in vetrina aveva camicie da notte di pizzo delicato. Senza mia madre a trascinarmi e a dirmi di stare composta, talvolta fingevo di essere una nuvoletta bianca che vagava nel cielo azzurro, una ballerina che danzava davanti a tanta gente, una barca che solcava un fiume magico.


Se non ero in ritardo potevo prendermela comoda, però dovevo stare sempre attenta a non far arrabbiare mia madre. Quando c'erano clienti dovevo girare alla larga dal salone, se non ce n'erano dovevo comunque fare silenzio, perché aveva sempre mal di testa. Se mi preparavo un panino dovevo stare attenta a non rompere niente e a non fare pasticci, maldestra com'ero, e quando mi versavo un bicchiere di tè freddo o di Pepsi non dovevo rovesciare nulla. Mia madre era bella e irascibile. Aveva occhi scuri, naso perfetto, labbra carnose e gambe lunghe, e amava indossare vestiti scollati per mettere in mostra la sua pelle bianca e liscia. I suoi capelli corti e neri erano sempre in ordine. Se la facevo arrabbiare, mi chiudeva sul balcone della mia camera da letto, che era cintato da un canniccio montato su alcuni pali verticali e due orizzontali.


Di lì osservavo le automobili e i passanti, gli ambulanti che cercavano di piazzare i loro articoli, i mendicanti che chiedevano la carità. Nelle ore di punta, il viale a quattro corsie era affollato e l'aria sapeva di fumi di scarico. Davanti a casa, Hassan Agha, l'ambulante che aveva perduto un braccio, vendeva prugne verdi e asprigne in primavera, pesche e albicocche in estate, barbabietole cotte in autunno e dolci in inverno. Mi piacevano, le barbabietole; sobbollivano piano in una grande padella bassa sulla fiamma di un fornello portatile e il loro succo appiccicoso gorgogliava e fumava, spandendo nell'aria un profumo dolce. All'altro angolo dell'incrocio, un anziano cieco in abiti sporchi e laceri tendeva la mano ossuta ai passanti e gridava da mattina a sera: «Aiutatemi, che Dio vi benedica». Dirimpetto c'era un palazzo di uffici di quindici piani con grandi finestre a specchio che brillavano al sole e riflettevano le nuvole in movimento. La sera, i neon luminosi dei negozi s'accendevano e coloravano l'oscurità.


Un giorno stabilii che qualsiasi altro castigo sarebbe stato meglio che rimanere chiusa sul balcone. Guardai giù: saltare era impossibile. Avrei potuto mettermi a gridare, ma non volevo dare spettacolo e far sapere a tutto il vicinato che mia madre mi puniva così. Poi mi guardai attorno, e la mia attenzione cadde sul sacchetto di plastica pieno di mollette di legno per stendere i panni.


Guardai di nuovo giù, verso il marciapiede trafficato. Se avessi lasciato cadere le mollette sui passanti non si sarebbero fatti male, però si sarebbero chiesti che cosa gli era piovuto in testa. Allora gli avrei spiegato delle mollette e li avrei pregati di suonare il campanello e dire a mia madre di farmi entrare. Certo, lei si sarebbe arrabbiata, ma non mi importava, perché non ce la facevo più a rimanere chiusa fuori, tutta sola. Era inverno, e s'era alzato un vento gelido. Presto il sole sparì dietro le nubi e la neve iniziò a posarsi sul mio viso. Facendo appello a tutto il mio coraggio, presi una molletta e, appoggiandomi al canniccio, mi sporsi, respirai a fondo e la lasciai andare. Non centrò alcun passante, cadde solo sul marciapiede. Allora riprovai, e questa volta funzionò: una donna di mezza età con lunghi capelli scuri si fermò, si toccò la testa e si guardò attorno. Poi si chinò, raccolse la molletta e la esaminò.


Alla fine alzò gli occhi, e incontrò i miei.


«Bambina, che cosa combini?» domandò, tutta rossa in volto.


«Mi scusi. Non volevo farle male, ma mia madre mi ha chiuso sul balcone, e io voglio rientrare. Fa freddo. Potrebbe suonare il campanello e chiederle se mi fa rientrare, per piacere?»


«Certo che no! Come tua madre decide di punirti non sono fatti miei. Anzi, a quanto pare una punizione te la meriti» disse, e se ne andò. Ma non mi diedi per vinta.


La terza molletta cadde sulla testa di una donna con il chador nero, che subito guardò in alto.


«Cosa fai?» chiese, e io le raccontai la storia.


La donna suonò il campanello e mia madre uscì sull'altro balcone, che distava solo poco più di un metro dal mio. «Chi è?» domandò, guardando giù.


Mentre la donna raccontava che cosa avevo fatto e perché, vidi che gli occhi di mia madre s'incupivano per la rabbia. Un minuto dopo, la porta del mio balcone si aprì. Esitai.


«Fila subito dentro» disse mia madre a denti stretti.


Rientrai in camera mia.


«Sei una bambina insopportabile!»


Rabbrividii. Credevo che mi avrebbe mollato uno schiaffo, e invece girò sui tacchi e si allontanò. «Io me ne vado. Sono stufa.


Non ne posso più di questa vita. Non voglio vederti mai più!»


Mi faceva male lo stomaco. Non poteva andarsene in quel modo, no? Ma sembrava parlasse sul serio. Come avrei fatto senza di lei? La rincorsi e le afferrai la gonna, ma lei non si fermò.


«Ti prego, non te ne andare! Scusami!» supplicai. «Voglio tornare sul balcone, non farò più niente. Promesso.»


Mi ignorò, andò in cucina, prese la borsetta e uscì sulle scale.


Sgomenta, scoppiai in lacrime, ma lei non si fermò. Le afferrai una gamba, ma continuò a scendere i gradini trascinandomi con sé. Le scale erano fredde e dure. La pregai di rimanere. Alla fine si fermò davanti alla porta.


«Se vuoi che io rimanga, và in camera tua e restaci senza fiatare.»


La guardai fissa.


«Subito!» strillò, e io corsi in camera mia.


Dopo quell'episodio, per qualche tempo ogni volta che mia madre usciva di casa per andare a fare spese o per altre commissioni mi sedevo dietro la finestra e tremavo di paura. E se non fosse mai più tornata?


 


Decisi di tenermi alla larga da lei, e il sistema migliore era rimanere in camera mia il più a lungo possibile. Tutti i giorni, di ritorno da scuola, andavo in cucina in punta di piedi per vedere se mia madre era lì. Se non c'era mi preparavo un panino con la morta della, ma se c'era dicevo un rapido «ciao» e andavo in camera mia, ad aspettare che uscisse dalla cucina. Dopo mangiato rimanevo in camera, facevo i compiti e leggevo i libri che mi ero fatta prestare dalla biblioteca scolastica. In gran parte erano traduzioni: Peter Pan, Alice nel paese delle meraviglie, La sirenetta, La regina delle nevi, Il soldatino di latta, Cenerentola, La bella addormentata nel bosco, Hansel e Gretel, Raperonzolo. Ma la biblioteca della mia scuola era piccola e presto ebbi letto tutti i libri non una sola volta, ma tre o quattro. La sera mia madre apriva la porta per vedere cosa stavo facendo e, quando scopriva che leggevo, sorrideva. In un certo senso, i libri ci hanno salvato.


Un giorno chiamai a raccolta tutto il mio coraggio per domandarle se poteva comperarmi dei libri, e lei rispose che me ne poteva prendere uno al mese perché costavano molto e non potevamo buttar via i soldi. Ma uno al mese non mi bastava. Qualche giorno dopo, mentre rientravo a casa da una visita a mio nonno, notai una piccola libreria. L'insegna diceva: «Libri usati» e io sapevo che «usati» voleva dire economici, ma non osai chiedere a mia madre di entrare a dare un'occhiata.


Una settimana più tardi, quando mia madre mi disse che dovevamo recarci dal nonno replicai che non mi sentivo bene, così mi permise di stare a casa. Mio padre era al lavoro. Dopo la morte di nonna aveva chiuso la scuola di ballo e adesso era impiegato presso il ministero delle Arti e della cultura, dove si occupava di gruppi di danza folcloristica. La sua nuova occupazione gli piaceva; qualche volta accompagnava all'estero i danzatori, ragazzi e ragazze che rappresentavano l'Iran nelle manifestazioni internazionali. Appena mia madre uscì, corsi in camera dei miei e presi dal cassetto del comò le chiavi di casa di riserva.


Avevo conservato tutti i soldi per il latte al cacao di una settimana, e speravo che bastassero.


Corsi al negozio di libri usati. Era primavera inoltrata e il sole aveva brillato per tutto il giorno sull'asfalto nero creando tremule onde di calore che s'alzavano nell'aria e si opponevano al mio cammino.


Arrivai al negozio con il sudore che mi colava sulla fronte e mi bruciava negli occhi. Mi asciugai la faccia con la maglietta, spinsi la porta a vetri della libreria ed entrai. Quando mi abituai alla poca luce, non potei credere a ciò che vidi. Tutt'intorno a me c'erano scaffali alti fino al soffitto pieni di libri, divisi da angusti corridoi che si perdevano nel buio. Ero circondata da migliaia di volumi.


Nell'aria c'era il profumo della carta, delle storie, dei sogni che vivevano fra le parole scritte.


«Buongiorno...» esordii.


Nessuna risposta.


«Buongiorno...» ripetei, questa volta un po’ più forte.


Dai meandri della libreria arrivò una voce maschile con un marcato accento armeno: «Cosa posso fare per te?».


Feci un passo indietro e chiesi: «Scusi, dov'è?».


Un'ombra grigia mi apparve davanti. Trasalii.


L'ombra scoppiò a ridere. «Scusa, piccola, non volevo spaventarti.


Che cosa vuoi?»


Dovetti ricordarmi di respirare. «Voglio... voglio comperare un libro.»


«Quale libro?»


Tirai fuori di tasca le mie monete e le mostrai a quel signore magro e anziano. «Ho tutti questi soldi. Voglio un libro qualsiasi, basta che sia bello.»


Il libraio sorrise e si passò le dita fra i capelli grigi. «Ma perché non ti compri qualche ciambella dal panettiere qui accanto?»


«No, io voglio un libro. Non bastano, questi soldi?»


«Il problema, signorina, è che qui i libri sono scritti in inglese.


Lo sai l'inglese tu?»


«Sono bravissima in inglese. A scuola ne facciamo un'ora tutti i giorni. Vado in terza elementare.»


«Va bene. Vediamo che cosa ti posso dare» sospirò l'uomo, e scomparve dietro le montagne di volumi.


Nell'attesa, mi chiesi come potesse trovare qualcosa in quella baraonda, e invece riemerse miracolosamente con un volume in mano e me lo porse.


«Ecco qui. Il leone, la strega e l'armadio. È un libro bellissimo, ed è il primo di una serie.»


Lo esaminai. Al centro della copertina grigioazzurra c'era il disegno di un leone che balzava nell'aria, con un bambino e una bambina in groppa. Il volume sembrava vecchio ma ben tenuto.


«Quanto costa?»


«Cinque tornan.»


«Ma io ne ho soltanto quattro!» replicai, sul punto di scoppiare in lacrime.


«Vada per quattro.»


Estasiata, ringraziai e corsi a casa.


 


Tre giorni dopo avevo letto Il leone, la strega e l'armadio due volte e me ne ero innamorata. Volevo anche gli altri libri della serie, ma avevo messo da parte soltanto due tornan e non sapevo se il libraio sarebbe stato ancora così generoso; e poi avevo paura di chiedere i soldi a mia madre, così decisi di vendere il mio astuccio di scuola alla mia amica Sarah. All'inizio dell'anno scolastico Sarah mi aveva chiesto dove l'avevo comperato e io le avevo detto che mia madre l'aveva preso ai grandi magazzini all'incrocio tra Shah Avenue e Pahlavi Avenue, ma quando la madre di Sarah era andata a cercarne uno uguale aveva scoperto che li avevano finiti, e Sarah ci era rimasta molto male. Era un astuccio di plastica azzurro con la chiusura magnetica che scattava quando si abbassava il coperchio.


Il giorno dopo, mentre andavo a scuola correndo raggiunsi Sarah. Aveva grandi occhi castano scuro, una cascata di riccioli neri sulle spalle e un orologio speciale: sul quadrante c'era Cenerentola con il Principe Azzurro che le calzava la scarpina di vetro.


Cenerentola sedeva su uno sgabello e la gamba accavallata dondolava avanti e indietro a ogni secondo. Glielo aveva comperato sua madre durante una vacanza in Gran Bretagna. Quando le chiesi se voleva ancora il mio astuccio, lei disse di sì e così le spiegai che ero disposta a venderglielo, ma lei, piuttosto insospettita, volle sapere perché. Allora le raccontai della libreria. Ci accordammo per cinque tornan, a patto che le dessi anche la mia gomma profumata.


Dopo la scuola io e Sarah impiegammo meno di cinque minuti per correre a casa sua, che si trovava lungo una stretta salita dove tutte le residenze avevano un piccolo giardino privato ed erano circondate da alte mura di mattoni per proteggerne la privacy.


Quella via mi piaceva perché era tranquilla, senza automobili, negozi, venditori ambulanti o mendicanti. Nell'aria si sentiva il profumo appetitoso di un soffritto di cipolle e aglio: qualcuno stava preparando da mangiare. Sarah aveva le chiavi perché entrambi i genitori lavoravano e tornavano a casa più tardi. Aprì la porta, ed entrammo in giardino. A destra vidi una piccola aiuola di gerani e viole inondata di rosso, verde e violetto.


Mi sarebbe tanto piaciuto vivere in una casa come quella. La madre di Sarah, una donna piccola e rotondetta, dai capelli corti e neri, lavorava in banca e indossava sempre tailleur eleganti e scarpe dai tacchi altissimi. Tutte le volte che andavo da loro mi abbracciava e mi diceva com'era contenta di vedermi. Il padre era un ingegnere, un uomo imponente che raccontava sempre barzellette, rideva forte e recitava vecchie poesie molto belle. Il fratello, Sirus, aveva dodici anni, tre più di noi, e a differenza di tutti i suoi famigliari era molto timido. Quella casa risuonava sempre di chiasso e risa.


Consegnai l'astuccio a Sarah e presi il denaro, poi telefonai a mia madre spiegandole che mi sarei fermata a casa della mia amica per aiutarla a fare i compiti. Non ebbe nulla da ridire. Allora ringraziai Sarah e corsi alla libreria, che trovai buia, polverosa e misteriosa come la prima volta. Di nuovo, il vecchio emerse dall'oscurità.


«Fammi indovinare: non ci hai capito niente e vuoi indietro i tuoi soldi» disse, socchiudendo gli occhi.


«No. L'ho letto due volte e mi è piaciuto tanto! Qualche parola non l'ho capita, ma l'ho cercata sul vocabolario di mio padre.


Sono venuta a comprare il secondo libro della serie. Ce l'ha? Ho venduto il mio astuccio e la mia gomma profumata alla mia amica Sarah, quindi stavolta di soldi ne ho abbastanza.»


Il vecchio mi fissò e non si mosse. Ebbi un tuffo al cuore. Forse non ce l'aveva, il secondo libro.


«Allora, ce l'ha?»


«Sì, certo. Ma... non c'è bisogno che me lo paghi. Lo puoi prendere in prestito, se prometti di trattarlo bene e di restituirlo quando l'avrai letto... due volte.»


Pensai al mio angelo. Forse si era travestito da signore anziano.


Guardai il libraio negli occhi, che mi sembrarono neri, profondi e gentili quasi come quelli dell'angelo. Poi osservai il libro; si intitolava Il principe Caspian.


«Come ti chiami?»


«Marina. E lei come si chiama?»


«Albert.»


Hmm. Un angelo di nome Albert.


Da quel giorno, almeno una volta alla settimana andai a trovare Albert e a prendere un libro in prestito.


 


A undici anni andai alle scuole medie. A quell'epoca il governo finanziava tutte le scuole e le università dell'Iran, ma alcune si erano dimostrate migliori di altre e Anushiravan Dadgar, un istituto femminile zoroastriano con scuole medie e liceo, era fra queste. I miei genitori, comunque, non l'avevano scelta perché fosse fra le più quotate, ma semplicemente perché era vicina a casa.


Gli zoroastriani seguono la dottrina del profeta Zoroastro che, nato in Persia circa tremila anni fa, invitò a credere in un solo e unico Dio, Ahura Mazda. Nel periodo in cui frequentai quella scuola, la maggior parte degli allievi era zoroastriana o musulmana, ma c'erano anche bahà'i, ebrei e solo tre o quattro cristiani.


I soffitti alti e le numerose finestre dell'edificio principale, eretto quarant'anni prima, davano un'impressione di vastità. I lunghi corridoi sembravano non finire mai e il primo e il secondo piano erano collegati da due grandi scalinate. Ai lati dell'ingresso principale c'erano due colonne alte due piani, e sopra si leggeva: «Buoni pensieri, buone parole, buone azioni», il motto più importante della fede zoroastriana. Un secondo edificio ospitava la palestra con il campo da basket e da pallavolo, e il cortile della scuola era circondato da alte mura di mattoni.


Per tre anni le visite alla libreria di Albert furono il fulcro della mia vita. Albert aveva letto tutte le centinaia di volumi ammassati nel suo negozio, conosceva l'esatta ubicazione di ciascuno e amava parlarne. Aveva una moglie e un figlio, e mi disse che quest'ultimo, sposato con due bambini, si era trasferito negli Stati Uniti due anni prima. Il primo Natale dopo il nostro incontro mi diede un pacchetto avvolto in carta rossa. Quando lo aprii, vi trovai il ciclo intero delle Cronache di Narnia e un bell'astuccio azzurro, con matite colorate e gomme che profumavano di bubblegum.


Lo vidi per l'ultima volta poco dopo il mio dodicesimo compleanno, in un bel giorno di primavera allietato dal canto degli uccelli e dal tepore del sole. Col sorriso sulle labbra, spinsi la pesante porta a vetri della libreria, tenendomi vicino al cuore Piccole donne.


«Ciao, Al...»


Dentro il fascio di luce che cadeva sul pavimento di linoleum fluttuavano granelli di polvere. Dinanzi a me si apriva il negozio, vuoto. Era come stare ai margini di un deserto. Mi parve di essere investita da una violentissima folata di vento; trasalii e cercai di prendere fiato. Albert era seduto su uno scatolone nel mezzo di quel vuoto spaventoso, e mi guardava sorridendo tristemente.


«Dove sono i libri?»


Mi disse che in gran parte li aveva venduti a un'altra libreria, ma i miei preferiti li aveva tutti conservati e riposti dentro lo scatolone sul quale sedeva, e promise di portarmeli a casa più tardi.


Avrebbe voluto dirmelo prima, ma non c'era riuscito: presto lui e sua moglie avrebbero lasciato l'Iran per raggiungere il figlio negli Stati Uniti. Albert non voleva partire, ma sua moglie non stava bene e voleva passare il tempo che le rimaneva con il figlio e i nipoti.


Lui non poteva negarglielo: erano sposati da cinquantun anni e quello era il suo ultimo desiderio.


Tirò fuori di tasca un fazzoletto bianco e si soffiò il naso. Sentii che mi cedevano le gambe, le braccia. Si alzò, si avvicinò a me e mi posò le mani sulle spalle.


«Ti ho vista crescere. Hai portato gioia e felicità nella mia vita.


Mi mancherai. Sei come una figlia per me.»


Lo abbracciai, lo strinsi forte. Partire per l'America mi parve qualcosa di risolutivo ed eterno, come la morte.6.

 


 


Quando mi svegliai sentii in bocca il sapore del brodo di pollo. Mi misi a sedere. Il mondo sembrava girarmi intorno, celato da una fitta nebbia. Non c'erano linee e forme definite, ma solo vaghe macchie di colore. Qualcuno mi stava chiamando. Ancora brodo di pollo. Tossii.


«Bevi. Ti fa bene.»


Il brodo caldo mi scivolò in gola. Era buono. Bevvi di nuovo.


Dinanzi a me vedevo un quadrato luminoso e bianco, che cercavo di mettere a fuoco. Era una finestrella con le sbarre. Sentivo male dappertutto e avevo la febbre.


«Brava» disse la voce, che proveniva da dietro le mie spalle.


Cercai di spostarmi.


«Non ti muovere, bevi.»


Ogni movimento era doloroso. Bevvi, e un po’ di brodo mi colò sul mento.


Pian piano riuscii a distinguere i particolari della cella.


«Ti lascio riposare, adesso» udii. Era Ali.


Si sedette per terra a poca distanza da me e disse che mi avrebbe mandata in un reparto femminile di Evin, il 246, dove avrei incontrato alcune mie amiche e mi sarei sentita meglio. Conosceva una delle guardie del 246 e le avrebbe raccomandato di badare a me. La guardia si chiamava sorella Maryam.


«Starò via per un po'...» aggiunse, e mi fissò senza dire una parola, come in attesa che parlassi. Non avevo idea di che tipo di posto fosse il 246. Ali mi aveva veramente detto che ero stata condannata all'ergastolo o l'avevo sognato?


«È vero che mi hanno dato l'ergastolo?» domandai.


Annuì; l'ombra di un sorriso triste gli attraversò il volto.


Mi sforzai di trattenere le lacrime, ma non ci riuscii. Avrei voluto chiedergli perché mi avesse salvata. Avrei voluto dirgli che morire era meglio di una condanna a vita. Avrei voluto fargli sapere che non aveva il diritto di fare ciò che aveva fatto, ma non ci riuscii.


Si alzò. «Che Dio ti protegga» disse, e se ne andò.


Mi addormentai.


Tornò da me dopo alcune ore e mi condusse sulla soglia di una stanza dove una ventina di ragazze dormivano per terra, una accanto all'altra.


«Aspetta qui finché verranno a prenderti per portarti al 246.


Abbi cura di te. Andrà tutto bene. Siediti e mettiti la benda.»


Notai un posticino vuoto nell'angolo più lontano della stanza e, poiché mi girava ancora la testa e i piedi mi facevano male, faticai molto a raggiungerlo senza calpestare qualche ragazza. Nessuno si accorse del mio arrivo. Non c'era abbastanza spazio per distendermi, perciò mi sedetti, mi strinsi le ginocchia al petto, appoggiai la schiena al muro e piansi.


Dopo un po’ un uomo gridò una decina di nomi, fra cui il mio.


«Tutte quelle che ho chiamato si alzino la benda quel tanto che basta per vedere dove vanno e si mettano in fila qui, davanti alla porta. Ognuna deve attaccarsi al chador di quella che la precede.


Dovete alzare la benda soltanto di poco. Se vedo qualcuna che si guarda troppo in giro sarà peggio per lei. Dopo che vi sarete messe in fila rimettete la benda a posto e stringetela bene.»


Afferrai il chador della ragazza davanti a me, mentre quella dietro di me strinse il mio scialle. Dopo aver attraversato un paio di corridoi, uscimmo all'aperto. Faceva freddo. Pregai che arrivassimo presto a destinazione, perché ero sull'orlo dello svenimento.


Riuscivo a vedere solo il pavimento grigio, il chador e i piedi della ragazza davanti, che non erano gonfi ma calzavano ciabatte di gomma simili alle mie, almeno di due numeri più grandi del necessario.


Mi chiesi dove fossero finite le mie scarpe. Entrammo in un edificio, percorremmo un corridoio e salimmo due rampe di scale, poi la guardia ci fece fermare, mi chiamò per nome e mi disse di uscire dalla fila.


«Prendi questa corda e seguimi.»


Presi la corda e lo seguii attraverso una porta.


«Salaam aleikum, sorella. Buongiorno. Ho una nuova detenuta per te: Marina Moradi-Bakht. Qui ci sono i documenti.»


«Buongiorno anche a te, fratello. Grazie» disse una donna.


La porta si chiuse con un piccolo scatto. Nella stanza si sentiva il profumo del tè appena preparato. Mi resi conto che stavo morendo di fame.


«Marina? Togliti la benda» disse la donna in tono imperioso, e io obbedii. Doveva avere venticinque anni ed era più alta di me di almeno venti centimetri, con grandi occhi neri, il naso grosso e le labbra sottili, a creare nell'insieme una faccia molto seria. Indossava un chador nero. Mi chiesi se in vita sua le fosse mai capitato di sorridere.


Ci trovavamo in una specie di segreteria, un ufficio di circa tre metri e mezzo per quattro, con una scrivania, quattro sedie e un tavolo di metallo pieno di scartoffie. Il sole giallo del mattino entrava dalla finestra a sbarre e la sua luce attraversava il pavimento.


«Io sono sorella Maryam» continuò la donna. «Fratello Ali mi ha parlato di te.» Spiegò che la palazzina in cui ci trovavamo, la nume ro 246, aveva due piani, il primo di sei stanze e il secondo di sette, e che io ero destinata al secondo piano, stanza numero 7. Poi chiamò qualcuno all'altoparlante, e qualche minuto più tardi arrivò una ragazza che doveva avere all'incirca la mia età. Sorella Maryam disse che si chiamava Soheila. Era una detenuta, la rappresentante della stanza 7. Soheila aveva i capelli corti e scuri, indossava un maglione blu e pantaloni neri, e aveva la testa scoperta. Immaginai che, dal momento che nel 246 vivevano solo donne, non dovevamo portare l'hijab tutto il tempo. La porta della segreteria si aprì su un atrio vuoto, lungo più di sette metri e largo tre, e attraversandolo notai le scale che portavano al piano di sotto. Cercavo di stare vicina a Soheila, ma rimasi indietro. Lei si fermò, si voltò e mi osservò i piedi.


«Mi dispiace» disse. «Non ci avevo pensato... Vieni, mettimi il braccio intorno alle spalle. Ti aiuto io a salire.»


Arrivammo a una porta di ferro con le sbarre. Soheila l'aprì e ci trovammo in un corridoio stretto. C'erano ragazze dappertutto.


Oltrepassammo tre porte e svoltammo. Altre tre porte, ed entrammo nella stanza in fondo, la numero 7. Mi guardai attorno. Il locale misurava circa cinque metri per otto, a terra c'era una moquette marrone consumata. Poco al di sopra del mio sguardo, lungo la parete correva una mensola di metallo su cui c'erano sacchi di plastica pieni di vestiti e sotto appesi a ganci sacchetti più piccoli. La pittura beige dei muri e delle porte metalliche non era che un velo leggero e sudicio. In un angolo c'era un letto a castello con il primo piano coperto da barattoli e contenitori di varie forme e dimensioni, e il secondo ingombro di altri sacchi di plastica pieni di vestiti.


In un altro angolo, vicino a una finestra a sbarre, una pila di coperte militari grigie arrivava quasi al soffitto. La stanza era sorprendentemente pulita e ordinata. C'erano una cinquantina di ragazze sedute per terra, che parlavano a gruppetti di tre o quattro.


Avevano più o meno la mia età, e quando entrai mi osservarono incuriosite. Ma non potei più reggermi, e caddi a terra.


«Ragazze, preparatele un posto per riposare!» gridò Soheila mentre si inginocchiava vicino a me. «So quanto ti fanno male i piedi, ma andrà meglio. Stà tranquilla.»


Annuii, gli occhi pieni di lacrime.


«Marina!» esclamò una voce familiare.


Alzai lo sguardo e per un momento non riconobbi la ragazza che stava in piedi accanto a me.


«... Sarah! Grazie a Dio! Sono stata così in pensiero per te!»


Sarah era deperita. La sua pelle, un tempo luminosa, era terrea, e i suoi occhi erano cerchiati di nero. Ci abbracciammo fino a non poterne più.


«Stai bene?» domandò, guardandomi i piedi.


«Sì. Poteva andare peggio.»


Mi tolsi lo scialle dalla testa e con le dita mi ravviai i capelli, tutti appiccicaticci. Non ero mai stata così sporca.


«Perché hai il nome scritto sulla fronte?»


«Cosa?»


«Hai il tuo nome scritto sulla fronte con un pennarello nero.»


Mi toccai la fronte e le chiesi se potevo avere uno specchio, ma mi rispose che lì non ce n'erano. Sarah disse che da quando era a Evin non aveva mai visto nessuno con il nome scritto addosso, ma io non riuscivo a ricordare come fosse accaduto. Poi mi chiese del livido sulla fronte, e le spiegai che ero svenuta nel bagno.


«Marina, come stanno i miei? Quand'è stata l'ultima volta che li hai visti?» Sarah mi puntò gli occhi addosso con un'intensità che non le avevo mai visto prima, come se avesse vagato nel deserto per giorni senz'acqua e io fossi una fontana zampillante.


Le raccontai di quanto erano preoccupati e di tutto quello che avevano fatto per vedere lei e suo fratello. Le chiesi dove fosse Sirus e se stesse bene, ma non sapeva nulla di lui. Poi le chiesi se era stata frustata.


La sera del suo arresto, le guardie l'avevano obbligata a guardare mentre frustavano Sirus. Volevano che facesse i nomi dei suoi amici, ma Sirus aveva rifiutato. Sarah aveva chiuso gli occhi per non vedere quel che stavano facendo a suo fratello, ma loro l'avevano presa a pugni e calci, costringendola a guardare. Poi avevano slegato Sirus e legato lei al letto. Avevano detto a Sirus che se avesse fatto i nomi non avrebbero frustato sua sorella, ma lui non aveva fiatato e così anche Sarah era stata torturata. Le avevano chiesto se conosceva qualcuno degli amici di suo fratello, ma non ne conosceva nessuno. Poi avevano voluto sapere delle sue amiche.


«Gli ho dato il tuo nome, Marina... Mi dispiace... ma non ce la facevo più» disse, e non potei fargliene una colpa. Se Hamehd mi avesse dato anche solo un'altra frustata, avrei fatto tutti i nomi che voleva.


Spiegai a Sarah della lista e le fu difficile credere che le guardie ci avessero torturate per ottenere informazioni di cui erano già in possesso. Volle sapere come mai non le avessi parlato prima di quella lista, e io risposi che, non sapendo chi vi fosse elencato oltre a me, non volevo far preoccupare nessuno.


«Hai visto Gita?» le chiesi.


«Prima di torturarmi fratello Hamehd ha detto che Gita gli aveva dato il mio nome e il mio indirizzo. Io gli ho creduto e me la sono presa con lei: ho pensato che se mi avevano arrestata era colpa sua. Poi Hamehd mi ha frustata e ho finito per dirgli tutto quello che sapevo. Mi sono odiata, per avere odiato Gita.»


Sarah si portò le mani alla bocca per tacitare il dolore che voleva esplodere. Allora la abbracciai, e soffocò un grido contro il mio petto.


Alla fine alzò la testa. «Appena prima di mandarmi qui, Hamehd mi ha detto che Gita era stata giustiziata, e che se Sirus non collaborava gli sarebbe accaduta la stessa cosa. Così ho capito che Hamehd mi aveva mentito dicendomi che Gita gli aveva dato il mio nome e il mio indirizzo. Se Gita avesse parlato non l'avrebbero uccisa, ma non l'ha fatto, ed è morta. Non sono stata arrestata per colpa sua.»


«Gita è morta?»


Sarah annuì.


Non poteva essere vero. «Sei viva e non te lo meriti» diceva una voce dentro di me.


Ricordavo benissimo il giorno in cui io e Gita avevamo fatto amicizia tre anni e mezzo prima, durante l'estate del 1978, nella casa di vacanza della mia famiglia, al Nord del paese; era l'estate in cui avevo conosciuto Arash.

7.

 


 


L'anno in cui nacqui, i miei genitori comperarono una casa di vacanza nella cittadina di Qazian, dove la vita trascorreva placida e allegra. Qazian si trova sul mar Caspio ed è collegata da un ponte a Bandar- e Palliavi. Sebbene all'epoca possedere una casa sul Caspio fosse segno di agiatezza, la mia non era una famiglia ricca.


Mio padre amava a tal punto la pace e la bellezza dell'Iran settentrionale che invece di prendere un appartamento a Teheran volle quella villetta ma, non disponendo di denaro a sufficienza, la acquistò assieme al suo amico Partef. Zio Partef - così lo chiamavo - era un uomo gioviale e scherzoso, un russo- armeno proprietario di una fabbrica d'acciaio a Teheran. Scapolo, e di solito molto indaffarato, si recava di rado a Qazian, e la casa era quasi sempre a nostra disposizione.


Era circondata da un ampio giardino alberato situato dietro il porto, su una strada tranquilla che conduceva alla spiaggia. Il suo primo proprietario era stato un medico russo, grande amico dei miei genitori, che l'aveva costruita con solido legname della sua terra d'origine. C'erano quattro camere da letto, un salotto che faceva anche da sala da pranzo, un cucinino e un bagno. I muri esterni erano dipinti di verde chiaro e dodici gradini di pietra conducevano alla porta d'ingresso.


Per recarci da Teheran a Qazian ci volevano più o meno cinque ore d'auto. Da Teheran andavamo verso ovest e proseguivamo in pianura fino alla città di Qazvin. Qui la strada procedeva a nord verso i monti Elburz, simili a un imponente muro perpendicolare che separava i deserti dell'Iran centrale dal mar Caspio. Attraverso gallerie, ripide salite e discese, e audaci svolte e curve, la strada varcava con caparbietà la catena montuosa e seguiva la valle del Sefid, il fiume bianco, fino a dove le colline erano ammantate di fitte foreste e il vento portava con sé il profumo delle risaie.


La nostra proprietà era circondata da un'inferriata dipinta di celeste, più alta persino di mio fratello. Quando arrivavamo, mio padre si fermava con la nostra Oldsmobile blu davanti al cancello e io scendevo ad aprirlo. Il lungo vialetto sterrato si inoltrava fino a casa tra aceri, pini, pioppi, gelsi. Tra i miei piedi, sassolini di ogni colore facevano capolino dalla sabbia e brillavano sotto i raggi di sole che riuscivano a insinuarsi nella volta compatta del fogliame.


Il vialetto si apriva in uno spiazzo, finché a un tratto appariva la pietra bianca dei gradini di casa.


Eravamo sempre accolti dal sentore familiare dell'umidità che durante i mesi della nostra assenza aveva permeato lo spazio chiuso.


Per terra c'era una moquette verde scuro. Prima di entrare in casa, mia madre ci faceva togliere le scarpe e pulire i piedi perché non portassimo sabbia all'interno. I miei genitori avevano arredato il salotto con un tavolo con il ripiano di vetro e alcuni mobili da giardino in ferro battuto acquistati da qualcuno che doveva traslocare; erano dipinti di bianco, con cuscini di velluto bordeaux. Le camere da letto erano molto sobrie, con letti semplici e vecchi cassettoni di legno, e tendine con un vivace disegno di fiori alle finestre.


La sera, quando andavo a dormire, lasciavo aperte le tre finestre della mia camera per poter udire il canto dei galli al mattino.


Quando pioveva, le anatre schiamazzavano e giocavano nelle pozzanghere, e le grosse foglie dei limoni selvatici emanavano il loro profumo.


Nel nostro giardino c'era un posto speciale dove ogni mattina andavo a dire il Padre Nostro, come nonna mi aveva insegnato. Da lontano sembrava una roccia ricoperta di muschio, ma quando ci si avvicinava si capiva che era fatta di tante piccole pietre. Risaliva a un'epoca lontanissima, quando la gran parte della terra era occupata dal mare. Era alta un po’ più di un metro e larga due; da un angolo spuntava una grossa sbarra di ferro arrugginita, che in passato era usata come punto d'attracco per le barche dei pescatori.


Quando la scoprii, in un angolo dimenticato della nostra proprietà, mi sembrò un oggetto bizzarro, fuori posto. Amavo salirci sopra, aprire le braccia alla brezza delicata, chiudere gli occhi e immaginare che il mare mi circondasse, e che con la sua superficie cristallina, mobile e viva, trasformasse la luce del sole in un'acqua dorata che scorreva fin dove le dune di sabbia erano come bolle sulla pelle calda della terra. Chiamai questo insolito monumento «Roccia della Preghiera».


Di solito mi alzavo al levar del sole e uscivo a passeggiare. Tra gli alberi s'alzava una nebbiolina serpeggiante che sostava sopra l'erba alta e mi avvolgeva le gambe, nascondendole. Quando arrivavo alla Roccia della Preghiera sembrava che il sole le alitasse dentro, tingendola di rosa con la sua luce, e la parte superiore della roccia era come un'isola che affiorava da un mare splendente.


Allora mi distendevo lì sopra e mi lasciavo coprire dal sole, sentendomi priva di peso, quasi fossi fatta di nebbia e luce.


Tutte le estati io e mia madre trascorrevamo un paio di mesi a Qazian mentre mio padre, che non poteva lasciare il lavoro così a lungo, si fermava con noi solo per un paio di settimane, all'infuori delle quali veniva un fine settimana sì e uno no. Per anni trascorsi le mie giornate al mare passeggiando in bicicletta, costruendo castelli di sabbia, nuotando, rincorrendo le anatre e giocando coi bambini del posto. Libera di fare sempre ciò che volevo, rincasavo solo per mangiare e andare a dormire. Con il passare degli anni diventai più grande ma le mie giornate estive non cambiarono; solo, le mie avventure iniziarono a portarmi più lontano da casa. A dodici anni, in mezza giornata con la bicicletta potevo esplorare tutta la cittadina. Percorrendo le antiche stradine fiancheggiate da casette bianche, andavo al mercato. Tutti i giorni in cui saltavo il pranzo tiravo avanti coi biscotti di riso e i kolucheh biscotti di noci e zucchero - che comperavo dal fornaio. Al mercato del pesce si sentivano le voci possenti dei venditori, l'odore forte del pesce e la fragranza delle erbe aromatiche fresche.


Uno dei miei luoghi preferiti era il ponte che collegava i due lati del porto, da dove guardavo passare le barche e le navi. Le acque azzurre si estendevano fino all'orizzonte; le grandi navi solcavano la superficie del mare lasciando una scia bianca e l'aria salmastra mi riempiva i polmoni. Amavo specialmente la nebbia, che dava al porto l'aspetto di un luogo fatato, irreale. Allora, senza riuscire a scorgere granché, potevo sentire un rumore di remi che fendevano l'acqua e poi un'imbarcazione emergeva, come se apparisse da un altro mondo.


Quando avevo dieci anni la sorella maggiore di mia madre, Zenia, comperò una casa a circa cinque chilometri da Qazian, in un nuovo complesso con campi da tennis e basket, ristoranti e piscine. Lì c'erano case di lusso circondate da prati ben curati e splendenti inferriate bianche dipinte di fresco, e bambini che correvano in bicicletta lungo strade pulite.


Zia Zenia era diversa dal resto della famiglia. Era bionda con gli occhi azzurri, e tutto ciò che la riguardava era grande. Aveva una casa enorme a Teheran, e persino il suo autista era corpulento. Suo marito, rimasto ucciso in un incidente stradale due anni dopo la morte di nonna, era stato il proprietario di un impianto di lavora zione delle carni situato nella città di Rasht, a circa trentacinque chilometri dalla nostra casa di vacanza. Dopo la sua morte, mia zia aveva assunto la direzione dell'azienda, con eccellenti risultati. Sua figlia, che di nome faceva Marina come me ma che tutti chiamavano Marie, era la beniamina di mia madre. Aveva vent'anni più di me ed era una donna minuta, sempre nervosa quando sua madre era nei paraggi. Erano tutte e due caparbie e ostinate, e litigavano in continuazione per qualsiasi cosa.


Nel 1978, quando avevo tredici anni, Marie e suo marito trascorsero tutta l'estate a casa di mia zia, cosicché io e mia madre andavamo a trovarli quasi tutti i giorni. Zia Zenia invece veniva raramente e passava la gran parte del tempo nella sua azienda, dove aveva un appartamentino piccolo ma confortevole, oppure nella sua casa di Teheran.


Durante le mie gite quotidiane in bicicletta notavo che i miei coetanei si ritrovavano in uno dei campi da basket. Arrivavano tutti i giorni verso le cinque del pomeriggio. I maschi facevano una partita mentre le ragazze sedevano all'ombra, chiacchierando e facendo il tifo. Finalmente un giorno mi decisi. Le ragazze erano circa una quindicina, sedute sull'erba a gruppetti di due o tre: lasciai la bicicletta contro un albero e mi avvicinai, ma nessuna sembrò far caso a me. Allora adocchiai una ragazza seduta da sola sopra un tavolo da picnic e mi sedetti accanto a lei. Mi guardò e sorrise. Aveva capelli lisci color castano chiaro, lunghi fino alla vita, e indossava maglietta e pantaloncini bianchi. Mi sembrava di averla già vista da qualche parte. Mi presentai, e anche lei sembrò avermi riconosciuta da come spalancò gli occhi, finché ci rendemmo conto che frequentavamo la stessa scuola. Lei però aveva due anni più di me, e non ci eravamo mai parlate. Anche sua zia aveva una casa di vacanza nei dintorni, e lei e la sua famiglia sarebbero stati suoi ospiti per un po'. Si chiamava Gita.


Quando uno dei ragazzi fece canestro, le ragazze applaudirono e gridarono. Il ragazzo si voltò e chiamò una ragazza seduta vicino a noi. «Neda, mi vai a prendere una Coca? Sto morendo di sete.»


Era alto all'incirca un metro e ottanta e aveva grandi occhi scuri e zigomi pronunciati. Quando correva, i suoi capelli lisci e neri ondeggiavano. Neda si alzò di malavoglia e si pulì l'erba dai pantaloncini bianchi. Aveva capelli castano chiaro che le arrivavano alle spalle, tirati dietro le orecchie.


«Chi viene con me?» disse alle altre ragazze, e alcune si unirono a lei. Andarono dall'altra parte della strada, in un bar chiamato Moby Dick.


Sussurrando Gita richiamò la mia attenzione su un ragazzo dall'altra parte del campo da gioco. Doveva avere almeno vent'anni ed era alto circa un metro e novanta. La biondina che gli stava accanto non gli arrivava nemmeno alla spalla. Gita disse che si chiamava Ramin e che era il più bell'uomo che avesse mai visto.


«Lo avrò, prima o poi; è mio» disse.


Avevo sempre avuto amiche della mia età, e la mia esperienza con i ragazzi era alquanto limitata. Non avevo mai preso in considerazione l'idea di «averne» uno.


«Oh, ciao» disse qualcuno alle nostre spalle. «Gita, mi presenti la tua amica?»


Era Neda. Gita ci presentò. Scoprii che una sua cugina frequentava la nostra scuola e che la conoscevo piuttosto bene. Alla fine della chiacchierata, Neda mi invitò alla sua festa di compleanno, prevista per l'indomani.


 


Avevo il vestito perfetto per l'occasione. Qualche mese prima mia madre aveva ordinato alcuni abiti da un catalogo tedesco e mi aveva chiesto se volevo prendermi qualcosa anch'io. Avevo scelto un vestito bianco, non caro ma bello. Era scollato a V, di pizzo leggero.


Per la festa di Neda, l'idea era di andare prima a fare una nuotata e dopo a casa sua per cenare e ballare. Gita mi aveva detto di mettere il costume sotto gli abiti di tutti i giorni e di portarmi dietro il vestito buono.


Il giorno dopo mi svegliai ancor prima del solito e passai ore in bagno. Provai tutti i costumi da bagno che avevo, ma ogni volta che mi guardavo allo specchio finivo per deprimermi per tutti i difetti che mi trovavo: avevo le braccia troppo sottili, i fianchi troppo larghi, il petto troppo piatto. Alla fine decisi di indossare il bikini bianco regalatomi da Marie, che di recente era stata in Europa dove si era comperata dei costumi nuovi, passando a me quelli vecchi. Misi i miei sandali bianchi in un sacchetto di plastica, piegai il vestito e infilai il tutto in una borsa da spiaggia di tela.


Erano le dieci del mattino. Di solito andavamo da Marie attorno alle dieci e mezzo e, visto che mia madre non guidava, quando mio padre non c'era prendevamo sempre il taxi. Sentivo mia madre che trafficava in cucina ed era strano, perché a quell'ora non lo faceva mai.


«Maman, sono pronta» dissi affacciandomi sulla soglia, con la borsa da spiaggia in mano.


C'era odore di pesce. Mia madre, che stava lavando un grosso tagliere, mi guardò con la coda dell'occhio.


«Pronta per cosa? Non andiamo da nessuna parte, oggi.»


Dappertutto c'erano scodelle grandi e piccole, pentole e tegami.


«Ma...»


«Niente ma! Tuo zio Ismael e sua moglie sono venuti da Teheran a trovare Marie, e c'è anche tua zia Zenia. Vengono tutti qui a pranzo e a cena, e poi giocheremo a carte. Probabilmente stanotte si fermeranno a dormire da noi.»


«Ma stasera sono invitata a una festa di compleanno!»


«Bè, non ci puoi andare.»


«Ma...»


Si girò per guardarmi in faccia. Sentii la sua collera invadere la cucina.


«Lo capisci il significato della parola no?»


Mi voltai, tornai in camera mia e mi buttai sul letto. Il taxi avrei potuto prenderlo da me perché di soldi ne avevo abbastanza, ma mia madre non me lo avrebbe permesso. Forse avrei potuto svignarmela senza farmi notare, ma poi sarei dovuta ritornare a casa prima che facesse buio perché di solito quella era l'ora del coprifuoco, a meno che non dicessi a mia madre dove andavo. Sentii un'auto che frenava sul vialetto di casa, lo scricchiolio delle gomme sulla sabbia umida, e dalla finestra vidi l'autista di zia Zenia, Mortezah, un uomo beneducato vicino alla trentina, che apriva la portiera posteriore della Chevrolet nuova fiammante.


Mia madre si precipitò giù per i gradini di casa ad abbracciare la sorella. Mortezah aprì il bagagliaio e prese una piccola valigia, poi tutti entrarono in casa. Io rimasi alla finestra, col cuore che mi batteva forte per la delusione cocente.


Udii zia Zenia chiamare mia madre con quella sua voce secca, imperiosa. «Ruhi, portami un bicchiere d'acqua fresca!» gridò. «Marie ha portato Ismael e Kahmi in città. Arriveranno presto. Ho una cosa per Marina, dov'è?»


«Qui in giro. Sarà in camera sua, col muso lungo.»


La porta si spalancò.


«Che succede, Marina? Non vieni nemmeno a salutare tua zia?»


Mi feci avanti, la abbracciai e la baciai sulle guance. La sua pelle, benché umida e sudaticcia, sapeva di Chanel numero 5. Mi strinse a sé facendomi affondare nel suo ampio petto, finché poi mi lasciò andare, prese dalla borsetta un delicato braccialetto e me lo allacciò al polso. Era davvero grazioso. Mi regalava sempre cose bellissime, zia Zenia. Mi asciugai gli occhi con il dorso della mano.


«Piangevi? Perché?»


«Stasera sono invitata a una festa, ma non ci posso andare.»


Sorrise. «E come mai?»


«Ecco...»


«Perché sono venuta a trovarvi?»


«Sì.» Chinai lo sguardo.


«Bè, adesso sarò pure vecchia, ma sono stata giovane anch'io, sai? Giovane e bella. E mi ricordo com'era, che tu ci creda o no.»


Trattenni il fiato.


«Dirò a Mortezah di portarti alla festa e poi di venirti a prendere.»


«Davvero?»


«Sì, Cenerentola. Puoi andare. Ma torna prima di mezzanotte.»


 


Quando Mortezah mi lasciò davanti a casa di Neda lo ringraziai, gli dissi che l'avrei aspettato lì a mezzanotte e lo salutai con la mano mentre si allontanava. Seguii le pietre grigie che formavano un piccolo sentiero tra l'erba del giardino. Neda era sulla veranda, che correva tutt'attorno alla casa, e chiacchierava con altre due ragazze. La parte posteriore dell'edificio s'affacciava sul mare e da lì si udiva lo sciabordio delle onde lungo la riva sabbiosa. Presto arrivarono tutti gli altri: le ragazze lasciarono le borse in camera di Neda e i ragazzi in quella di suo fratello, poi corremmo in spiaggia.


Giocammo a rincorrerci e a pallanuoto finché non ci venne una gran fame e rincasammo. In camera di Neda, quando aprii la borsa per prendere il mio vestito, mi accorsi di aver dimenticato di portare reggiseno e mutandine, perciò dovetti tenere sotto il costume da bagno, ma non era un problema; anche se era un po’ umido, era bianco e sotto il vestito non si vedeva.


Dopo una cena a base di carni fredde affettate, pane fresco e vari tipi di insalata, spostammo da parte i mobili del salotto e la musica dei Bee Gees riempì l'aria. Neda ballava con Aram, il bel giocatore di basket che le aveva chiesto di andargli a prendere una Coca. Stava bene, Neda, con un vestito bianco sul corpo perfettamente abbronzato; notai che Aram le bisbigliava qualcosa nell'orecchio facendola ridere. Presto si formarono le coppie e io mi ritrovai in un angolo, da sola, con una bottiglietta di Coca.


Quando l'ebbi finita, mi tenni occupata aprendone un'altra e riempiendomi un piatto di patatine. Le canzoni si susseguivano e continuai a mangiare patatine fino a farmi venire il mal di stomaco, ma nessuno mi invitò a ballare. Gita ballò con Ramin, il ragazzo alto, che le accarezzò la schiena facendola arrossire. Guardai l'orologio: le dieci. Mi sentivo fuori posto, imbarazzata, goffa e infelice; volevo solo uscire da quella stanza.


Poiché la porta che dava sulla veranda dietro casa era soltanto a un passo da me, la aprii e gettai un'altra occhiata in giro: nessuno badava a me. Uscii: fuori la luna aveva disteso un velo d'argento sul mare, e l'aria era immobile. Dovevo fare qualcosa. Una nuotata, magari. Mi sentivo sempre meglio dopo aver nuotato, e l'avevo già fatto molte volte anche al buio. Nel chiarore lunare, il mare si fondeva con il cielo in una tiepida, argentea massa tenebrosa.


Discesi i pochi gradini che dalla veranda portavano in giardino e iniziai ad aprirmi la cerniera del vestito, ma quando lo lasciai cadere a terra trasalii al suono di una voce: «Che fai?».


In un angolo del giardino, accanto a una sedia, un ragazzo si copriva gli occhi con le mani.


«Mi hai fatta spaventare!» esclamai, mentre il mio cuore tentava di riprendere il suo ritmo regolare. «Cosa fai lì nascosto?»


«Non mi stavo nascondendo! Mi ero seduto su questa sedia a prendere un po’ d'aria fresca, e a un certo punto arriva una ragazza che mi si spoglia davanti!»


Sembrava più spaventato di me, il che era divertente. A giudicare dal suo aspetto non doveva avere più di sedici anni, e continuava a coprirsi gli occhi.


«Te lo sei rimesso, il vestito?»


«Ma che ti prende? Non sono nuda, ho il costume. Sto andando a nuotare.»


«Sei matta?» fece lui, togliendosi le mani dal volto. «Vai a nuotare di sera, al buio completo?»


«Non è troppo buio; c'è la luna.»


«No, no! Va a finire che anneghi, e io non me lo perdonerò mai!»


«Non annegherò.»


«Non ti lascerò andare.»


Mi si era avvicinato, e adesso era a meno di un metro.


«Va bene, va bene, rinuncio. Non ci vado» dissi, rivestendomi.


Mi guardò con quei suoi grandi occhi neri sopra gli zigomi leggermente sporgenti. La sua bocca piccola, con un qualcosa di infantile, contrastava con i suoi lineamenti forti. Era alto circa cinque centimetri più di me e aveva capelli castani tagliati molto corti.


Ma ciò che mi colse di sorpresa fu il suo sguardo, che mi fece sentire unica, speciale, bella. Si chiamava Arash.


Avendo rinunciato alla nuotata, decisi di sedermi fuori e sprofondai comodamente in una sdraio. Ma sentivo la presenza di Arash, ascoltavo il suo respiro. Dopo una decina di minuti si mosse, e io trasalii ancora.


«Ti piace farmi spaventare?»


«Scusa, non volevo. Devo andare. Lascia perdere la nuotata, okay?»


«Okay.»


Lo guardai allontanarsi e rientrare in casa. Dopo un minuto Neda uscì a chiamarmi: stava per tagliare la torta.


 


Qualche giorno dopo la festa stavo andando in spiaggia da Gita in bicicletta. Sulla strada c'era un po’ di sabbia per via di un cantiere e quando presi una curva troppo veloce, la bici slittò di lato e caddi. Mi rialzai, ma sanguinavo da un gomito e un ginocchio.


Saranno state le due del pomeriggio, faceva davvero caldo e la strada era deserta. Mi consolai pensando che almeno nessuno mi aveva vista ruzzolare in quel modo e invece, mentre cercavo di sollevare la bicicletta, sentii che c'era qualcuno alle mie spalle e mi voltai. Era Arash, e sembrava sorpreso quanto me.


«È normale che tu compaia sempre dal nulla?»


«È normale che tenti di fracassarti l'osso del collo?» ridacchiò Arash, ed esaminò i miei graffi. «Devi ripulirti, vieni, lì abita mia zia» disse, indicando la casa all'angolo.


Mi portò la bicicletta e io lo seguii. Il gomito e il ginocchio mi bruciavano. Avevo gli occhi pieni di lacrime ma feci un bel respiro e non mi lamentai. Non volevo che mi considerasse una bambina piagnucolosa.


«Me ne stavo seduto in veranda a guardare la strada quando tu arrivi a tutta birra e sbaami Meno male che non ti sei rotta niente.»


Le ortensie azzurre e le rose rosa coprivano quasi del tutto i muri bianchi della casa e i rami verde- argento di un enorme salice piangente sfioravano le tegole rosse del tetto.


Arash mi tenne aperta la porta ed entrai. Nell'aria c'era un profumo di biscotti appena sfornati.


«Nonna, ho un'ospite!»


Dalla cucina uscì una bella signora dai capelli bianchi, che indossava un vestito blu e si asciugava le mani bagnate su un grembiule bianco. Somigliava moltissimo a mia nonna.


«Cos'è successo?» domandò in russo dopo avermi guardata e aver notato il sangue. Non potevo crederci: parlava come mia nonna. Mi prese sottobraccio e mi accompagnò in cucina, mentre Arash le spiegava che cos'era accaduto. La signora era anche efficiente come mia nonna, e così in un batter d'occhio fui ripulita, disinfettata e bendata. Presto, sul tavolo davanti a me apparvero una tazza di tè e un dolce fatto in casa.


«Prego, serviti» disse in persiano, ma con un forte accento russo.


«Grazie» risposi in russo.


Le brillarono gli occhi per la sorpresa. «Una ragazza russa!» esclamò, con un gran sorriso. «Splendido! Hai una ragazza! E non una qualsiasi, ma una bella ragazza russa!»


Arash diventò tutto rosso.


«Nonna, basta! Non è la mia ragazza!»


Risi.


«Dì quello che vuoi, ma va benissimo. Buon per te. Vi lascio soli, voi giovani» disse la nonna, e uscì dalla cucina ripetendo in continuazione «Che meraviglia».


«Devi scusarla» fece Arash. «È molto anziana e a volte non sa quel che dice.»


«Le hai fatto vedere il flauto?» gridò la nonna da un'altra stanza.


Arash arrossì di nuovo.


«Quale flauto?» chiesi.


«Non è niente di che. Suono il flauto, per hobby. Non è una cosa importante.»


«Non ho mai conosciuto nessuno che sapesse suonare il flauto.


Mi fai sentire qualcosa?»


«Certo» rispose lui, ma non sembrava entusiasta.


Lo seguii in camera sua, dove prese un flauto d'argento da un lungo astuccio nero e ne sfiorò i tasti lucenti. Cominciò a suonare una melodia malinconica. Seduta sul suo letto, mi appoggiai alla parete; lui rimase in piedi dinanzi a me, e si muoveva come se quella musica facesse parte di lui, come se esistesse solo perché lui l'aveva pensata. I suoi occhi fissavano il vuoto, sognanti, e vedevano ciò che nessun altro poteva vedere. Una tendina bianca di cotone danzava davanti alla finestra aperta, catturando ghirigori d'ombra e di sole. Non avevo mai pensato che la musica potesse essere tanto bella. Quando terminò il brano, i suoi occhi cercarono i miei, ma ero rimasta senza parole. Scoprii che quel brano era suo, ma ne parlava con grande modestia. Mi domandò se suonassi qualche strumento e io gli dissi di no, poi mi chiese quanti anni avevo e si stupì quando gli dissi che ne avevo tredici: me ne aveva dati almeno sedici. Dal canto mio, fui sorpresa di scoprire che lui ne aveva diciotto.


Mi piaceva come mi guardava quando gli parlavo. Si metteva comodo sulla sedia, poggiava un gomito sul bracciolo, il mento sulla mano e sorrideva, osservandomi con la massima attenzione.


Il fatto che riflettesse per qualche secondo prima di rispondere alle mie domande mi faceva pensare che trovava interessante la nostra conversazione. Gli chiesi se voleva venire a fare una passeggiata con me la mattina dopo, e disse di sì.


 


Il mattino seguente, sua nonna ci salutò con la mano dalla veranda di casa.


«Mi sta facendo impazzire. È convinta che tu sia la mia ragazza e vuole che tu venga a pranzo da noi, oggi.»


«Mi piacerebbe, se per te va bene.»


Mi osservò con un'aria dubbiosa.


«Cioè, se è solo un'idea di tua nonna e tu invece non vuoi, me lo puoi dire.»


«Ma io voglio che tu venga.»


«Bene; così potrò sentirti suonare ancora.»


Passeggiammo verso una parte di spiaggia tranquilla e poco affollata. In lontananza vedevo alcuni bagnanti distesi sulla sabbia e qualcun altro che nuotava. Le onde bianche e spumose s'incurvavano, si ripiegavano su se stesse e s'infrangevano a riva. Mi tolsi i sandali e lasciai che il mare mi lambisse le dita dei piedi con la sua acqua delicata e fresca. Chiesi ad Arash di raccontarmi qualcosa della sua famiglia e lui mi disse che suo padre era un uomo d'affari e sua madre una casalinga. I suoi genitori andavano in Europa tutte le estati, mentre lui, suo fratello e la nonna venivano dalla zia.


Suo fratello si chiamava Aram e aveva due anni meno di lui.


«Dici sul serio, Aram è tuo fratello?» dissi, sorpresa.


«Eh già. Lo conosci?»


«Bè, l'ho incontrato. Sembra un tipo molto simpatico. Lui è sempre in giro con gli altri ragazzi, invece non ho mai visto te prima della festa di Neda. Dove ti eri nascosto?»


Mi disse che lui non era così estroverso come suo fratello e che preferiva leggere, oppure suonare il flauto. Era venuto alla festa di Neda solo perché lei era una sua vicina di casa a Teheran, oltre che la ragazza di suo fratello.


Al liceo Arash era stato uno degli studenti più bravi, e adesso aveva appena terminato il primo anno di medicina all'università di Teheran. Gli dissi che anch'io ero brava a scuola e che volevo studiare medicina, come lui. Gli chiesi se voleva fare una nuotata con me, ma rispose che preferiva sedersi sulla spiaggia a leggere.


Per pranzo sua nonna Irena aveva preparato un vero banchetto e, visto che era una bella giornata, aveva apparecchiato in giardino, sotto il salice piangente. Sulla tavola aveva steso una tovaglia bianca perfettamente stirata. La osservai mentre mi versava della limonata nel bicchiere; alcune ciocche di capelli argentei danzavano al soffio della brezza marina. Mi riempì il piatto di riso a grana lunga, pesce alla griglia e insalata, ignorando le mie proteste.


«Devi mangiare di più, Marina; sei troppo magra. Tua madre non ti nutre come si deve.»


Da quando Irena aveva scoperto che parlavo il russo non mi aveva più rivolto una parola in persiano. Era una donna orgogliosa, come mia nonna, e sebbene conoscesse il persiano si rifiutava di usarlo, a meno che non fosse strettamente necessario. Quanto a me, il mio russo era arrugginito. I miei genitori a casa lo parlavano, ma da quando nonna era morta io non avevo più voluto perché lo consideravo una cosa speciale tra me e lei e non volevo condividerla con nessun altro. Arash non lo parlava meglio di me, quindi non mi vergognavo troppo. Ma era bello riprendere il russo con Irena; lei mi ricordava i giorni della mia infanzia.


Dopo pranzo Irena andò a fare un sonnellino, mentre io e Arash sparecchiammo. Misi i piatti sporchi nel lavello, e lui sistemò gli avanzi nel frigo. Sapeva come muoversi in cucina.


Quando ebbe terminato venne da me con uno strofinaccio in mano; quando gli passai il primo piatto lavato i nostri sguardi si incontrarono, e dovetti resistere al desiderio travolgente di allungare una mano e sfiorargli il viso.


 


«Devo dire le preghiere prima del tramonto» mi disse Arash quel pomeriggio, mentre eravamo seduti in giardino.


«Posso guardare?»


«Ogni tanto salti fuori con delle idee strane» replicò, ma acconsentì, e così rimasi a osservarlo senza dire una parola. Si rivolse alla Mecca e fece tutto il suo natnaz. Chiuse gli occhi, recitò piano le preghiere in arabo, s'inginocchiò, si alzò, toccò con la fronte la sua pietra della preghiera.


«Perché sei musulmano?» gli domandai alla fine.


«Tu sei la persona più strana che abbia mai conosciuto» ridacchiò, ma poi mi spiegò che era musulmano perché credeva che l'Islam poteva salvare il mondo.


«Anche la tua anima?» dissi.


La domanda lo sorprese. «Salverà anche la mia anima, ne sono sicuro. Tu sei cristiana?»


«Sì.»


«Perché? Perché lo sono i tuoi genitori?»


Gli spiegai che mio padre e mia madre non erano praticanti.


«Ma allora perché lo sei?» insistette, e io mi resi conto che non sapevo dargli una risposta precisa. Gli dissi che avevo studiato l'Islam ma che non faceva per me, e non sapevo come mai la pensavo così. Probabilmente conoscevo meglio Maometto di Gesù e avevo letto il Corano più della Bibbia, tuttavia per qualche ragione Gesù era molto più vicino al mio cuore; era come se lo conoscessi.


Arash mi sorrideva. Immaginai che si fosse aspettato un discorso più profondo, ma per me era una questione di cuore.


Gli domandai se i suoi genitori fossero religiosi e lui disse che suo padre era di famiglia musulmana e credeva in Dio, ma non in Maometto, Gesù o altri profeti. Sua nonna Irena, invece, veniva da una famiglia cristiana ma non era religiosa e il marito di Irena, il padre di sua madre, che era morto da alcuni anni, non aveva mai creduto in Dio. La madre di Arash era cristiana e non andava mai in chiesa, ma pregava sempre a casa. Gli chiesi come erano giudicate in famiglia le sue convinzioni religiose e Arash rispose che, anche se lui non aveva mai saltato una sola delle sue preghiere quotidiane, loro continuavano a pensare che si trattasse soltanto di una fase di passaggio.


La sera dopo, a casa, mi sedetti sui gradini di pietra dell'ingresso a guardare il tramonto. All'orizzonte le nubi si tingevano di rosso fuoco quando il sole, al suo passaggio, le sfiorava. Poi, con l'avvicinarsi del buio il rosso virò in un viola irreale. Non riuscivo a smettere di pensare ad Arash. Con lui ero semplicemente felice: una felicità intensa, esaltante, che sovrastava tutto, e davanti alla quale il resto del mondo appariva piccolo e insignificante. Chiusi gli occhi ad ascoltare la notte. Udii il battito d'ali dei pipistrelli che andavano alla ricerca di cibo e la sirena di una nave nel porto.


Arash mi aveva letto alcune poesie. Grazie alla sua voce profonda e gentile, le opere di Hafez, Sadi e Rumi erano ancora più magiche di quando le leggevo per conto mio. Lui le leggeva con autorevolezza, come se fossero sue, come se ne avesse forgiato ogni parola creando una melodia perfetta. Forse quello era amore; forse lo amavo.


Ci tenevo che Arash vedesse la mia Roccia della Preghiera, così una mattina lo invitai da noi.


«Perché la chiami Roccia della Preghiera?» domandò mentre varcavamo il cancello.


«Una volta, da piccola andai a pregare lì e mi sembrò una cosa molto speciale e ho continuato a tornarci. È diventato il mio posto.»


Presto giungemmo a destinazione. Non ne avevo mai parlato con nessuno e, per un momento, mi chiesi se stessi facendo la cosa giusta. In fondo, non era che uno strano ammasso di rocce rivestite di muschio.


«Pensi che sia matta?» domandai.


«No. Penso che tu voglia disperatamente trovare un modo di avvicinarti di più a Dio, come me. Io lo faccio suonando il flauto e tu pregando su questa roccia.»


«Preghiamo insieme» gli proposi «e magari lo sentirai anche tu. È come aprire una finestra sul paradiso.»


Salimmo entrambi sulla roccia, alzammo le mani verso il cielo e io recitai un brano del Salmo 23: «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza».


«Bello!» disse quando ebbi finito. «Che cos'era?»


Gli spiegai che i Salmi di Davide facevano parte della Bibbia.


Non li aveva mai sentiti. Gli dissi che me li leggeva mia nonna, e quello era il mio preferito.


Ci sedemmo sulla roccia. Arash fissava un punto lontano.


«Ti sei mai chiesta che cosa ci accade dopo la morte?» mi domandò.


Dissi di sì, e lui osservò che la morte era un mistero insolubile; era il luogo di cui non si poteva raccontare nulla, quando lo si visitava.


E nessuno poteva evitarla.


«Odio quando muore una persona cui vuoi bene. Non smetti mai di soffrire.»


«Non ho mai perso nessuno, veramente. Mio nonno morì quand'ero piccolo, ma non mi ricordo nulla.»


«Io mi ricordo la morte di mia nonna.»


Aveva le lacrime agli occhi. Mi venne ancora voglia di toccargli il viso, di accarezzare con le dita il suo profilo. Lo volevo baciare.


Sopraffatta, mi alzai. Lui scattò in piedi davanti a me, e per un breve istante le sue labbra toccarono le mie. Ci staccammo l'uno dall'altra come se fossimo stati colpiti da un fulmine.


«Mi dispiace» disse.


«Perché?»


«È contro la legge di Dio che un uomo tocchi così una donna che non sia sua moglie.»


«Non preoccuparti.»


«No. Voglio che tu sappia che io tengo a te, e ti rispetto. Non avrei dovuto. E poi sei molto più giovane di me. Dobbiamo aspettare.»


«Mi stai dicendo che mi ami?»


«Sì, ti amo.»


Non riuscivo a capire di preciso perché il nostro bacio lo facesse sentire in colpa, però immaginavo che tutto ciò avesse a che vedere con le sue convinzioni religiose. Quell'estate mi era capitato di vedere ragazzi e ragazze che si baciavano in qualche angolo tranquillo, e mi ero sempre domandata che effetto faceva. Fosse stato per me, l'avrei baciato ancora, ma non volevo fare qualcosa di sbagliato o dargli una preoccupazione. Arash era più grande di me e aveva giudizio; e poi, di lui mi fidavo.


 


Quella sera io e mia madre ci fermammo a dormire a casa di zia Zerda. Alle sei del mattino mi svegliai e andai in cucina in punta di piedi a prepararmi un tè. Dopo passai in salotto, con la tazzina in mano, ma trasalii vedendo zia Zenia seduta al tavolo, quasi completamente nascosta da pile di carte. Mi avvicinai un po'. Indossava una camicia da notte di pizzo rosa, più adatta a una ragazza che a una corpulenta signora ultrasessantenne, ed era tutta impegnata a prendere appunti in un quadernetto. Rimasi in silenzio, incerta se darle il buongiorno, perché sembrava davvero assorbita dalle sue occupazioni.


«Marina, come mai in piedi così presto? Cos'è, sei innamorata?»


Me lo chiese a voce tanto alta che per poco non rovesciai il tè.


«Buongiorno, zia Zenia» borbottai.


«Forse sembrerà un buon giorno a te.»


Non smetteva di scrivere.


«Esci?» chiese.


«Sì.»


«Dove vai?»


Mia madre non mi chiedeva quasi mai dove andavo.


«In giro.»


«Tua madre lo sa che esci così presto?»


«Non saprei.»


Mi osservò con quei suoi occhi azzurro chiaro.


«È dura, ma tu lo sei ancora di più.»


Non capivo.


«Su, non guardarmi a quel modo. Non sei mica stupida, lo sai cosa voglio dire. Tua madre e mia figlia sono della stessa pasta. Dio era un po’ distratto, quando le ha fatte. Dai, preparami una tazza di tè.»


Feci dietrofront e obbedii. Con mani leggermente tremolanti le misi davanti il suo tè, sul tavolo.


«Siediti» mi ordinò, esaminandomi da capo a piedi con un'occhiata. «Quanti anni hai adesso?»


«Tredici.»


«Non hai perso la verginità, vero?»


«Cosa?» sussurrai.


«Bene» sorrise. «Io ti conosco meglio di tua madre. Io guardo e capisco, mentre lei guarda e non vuole capire. Questa dev'essere la primissima volta che ti vedo senza un libro in mano. Te lo dico io quali sono?»


«Come, quali sono?»


«I libri che hai letto.»


Sudavo.


«Amleto, Romeo e Giulietta, Via col vento, Piccole donne, Grandi speranze, Il dottor Zivago, Guerra e pace e molti altri.


Quindi, che cos'hai imparato da tutte queste letture?»


«Molte cose.»


«Non fare sciocchezze. Non sei in mezzo a questa rivoluzione, vero?»


«Zia Zenia, che cosa stai dicendo? Quale rivoluzione?»


«Mi prendi in giro?»


Scossi la testa. Non avevo la più vaga idea di che cosa stesse parlando.


«Sono contenta che tu lo venga a sapere da me, che le rivoluzioni le conosco a menadito. Stammi bene a sentire. In questo paese sta succedendo qualcosa di terribile; lo sento nell'aria, sento odore di sangue, di rovina. Ci sono state proteste e manifestazioni contro lo scià. Sono anni che questo ayatollah come- si- chiama si oppone al governo, e io ti dico che non porterà niente di buono.


Quando un dittatore se ne va ne arriva uno peggiore; è successo anche in Russia, solo il nome è diverso e il pericolo è maggiore, perché questa rivoluzione la fanno in nome di Dio. Adesso ci sono anche persone istruite che seguono questo ayatollah. Piace persino a Marie e a suo marito. Piace alla mia famiglia. Lui è in esilio, ma mica si fermano per questo. Stanne lontano. Dice che lo scià è troppo ricco. Lo scià è lo scià: non è mica perfetto, ma del resto nessuno lo è. Dice che ci sono troppi poveri in Iran, ma i poveri ci sono dappertutto. Ricordati quello che è successo in Russia: hanno ammazzato lo zar, e ti pare che ora stiano meglio? Ti pare che in Russia tutti siano liberi, ricchi e felici? Il comunismo non è la risposta ai problemi sociali, e neanche la religione. Hai capito?»


Confusa, turbata, annuii, e zia Zenia si rimise a scrivere sul suo quaderno.


 


Più tardi, mentre io e Arash uscivamo per la nostra passeggiata, Aram ci chiamò dalla veranda per chiederci dove avevamo intenzione di andare.


«Perché?» ribatté Arash.


Aram rispose che si annoiava e che voleva venire con noi. Arash gli disse di tornarsene a letto ma lui insistette, e alla fine ci arrendemmo.


In cammino verso la spiaggia, Aram domandò che cosa facevamo io e Arash tutto il giorno, tutti i giorni, e così irritò suo fratello e ne nacque un battibecco che suscitò le mie risate.


In spiaggia, Aram venne a nuotare con me, mentre Arash non amava fare il bagno e, come sempre, leggeva. Osservandolo dall'acqua, vidi che non prestava molta attenzione al libro. Guardava Aram e me.


Fu taciturno per tutto il resto della giornata. A sera andammo in camera sua, dove lo ascoltai suonare il flauto. Chiusi gli occhi.


A un tratto si fermò a metà del suo brano preferito. Aprii gli occhi e lo guardai, stupita.


«Che succede?»


«Niente.»


Se ne stava a testa china, evitando il mio sguardo.


«Arash, dimmi cosa c'è.»


Venne a sedersi accanto a me, sul letto. «Tu mi ami davvero?»


«Sì, ti amo. Dimmi, cosa c'è che non va?»


«Oggi avevi un'aria così felice, con mio fratello. Vi stavate divertendo, e io ho pensato che magari... non so...»


«Pensavi che provassi qualcosa per lui.»


«Ed è così?»


«Ormai dovresti conoscermi un po'. Aram è divertente, ma non è il mio tipo.»


«E com'è il tuo tipo?»


«Tu sei il mio tipo, e lui no. Fine. Io non amo tuo fratello.


Amo te.»


«Mi dispiace, non so che cosa mi abbia preso. Aram è sempre simpatico a tutti. Piace, alle ragazze. E io non voglio perderti.»


«Non mi perderai.»


Ma sembrava ancora insoddisfatto. «Non mi credi?» gli domandai.


«Certo che ti credo.»


Si alzò e andò alla finestra. Era una giornata piuttosto ventosa e dalle onde del mare s'alzava un fragore che sopraffaceva ogni altro suono. A un tratto mi disse che doveva parlarmi di una cosa molto importante. Non avevo idea di cosa si trattasse. Mi spiegò che c'era un grande movimento contro lo scià, che si stava compiendo una rivoluzione e che c'erano state molte manifestazioni e molti arresti. Così gli dissi che zia Zenia me ne aveva parlato proprio quella mattina.


Quando gli chiesi perché era in atto una rivoluzione contro lo scià, Arash rispose che lo scià, la sua famiglia e il governo erano tutti corrotti e che giorno dopo giorno accumulavano ricchezze mentre la gran parte del popolo iraniano lottava contro la povertà.


Allora osservai che secondo zia Zenia in Iran sarebbe accaduta la stessa cosa che era accaduta in Russia.


«La Rivoluzione russa non aveva il giusto fondamento; il comunismo era la risposta sbagliata a quei problemi. I capi non credevano in Dio e presto diventarono essi stessi corrotti.»


«Ma come puoi essere sicuro che chi sostituirà lo scià sarà meglio di lui?»


Mi domandò se avevo mai sentito parlare dell'ayatollah Khomeini.


«Mia zia mi ha parlato di un ayatollah, ma non si ricordava il nome. Chi è Khomeini?»


Mi spiegò che Khomeini era un uomo di Dio che era stato mandato in esilio dallo scià. Voleva che il popolo iraniano vivesse secondo le leggi islamiche e che le ricchezze della nazione fossero di tutti, non solo di un gruppo di pochi. Erano tanti anni che guidava il movimento contro lo scià.


Gli dissi che avevo un brutto presentimento su quella rivoluzione.


Per quanto ne sapessi, né la mia famiglia né la sua erano ricche.


I nostri genitori non avevano importanti posizioni di governo, però vivevamo bene. Ricevevamo gratuitamente una buona istruzione, e lui studiava medicina all'università. Che cosa potevamo farcene di una rivoluzione?


«Non si tratta solo di noi, Marina» replicò Arash, infervorato. «Stiamo parlando di chi vive in povertà. Il governo fa soldi a palate vendendo il petrolio che appartiene al popolo iraniano, e il grosso di quel denaro finisce nelle casse dello scià e dei suoi ministri.


E lo sapevi che da anni le persone che criticano lo scià e il suo governo vengono arrestate dalla SAVAK, la polizia segreta, e sono torturate, e persino uccise?»


«No.»


«Bè, è la verità.»


«Come fai a sapere tutte queste cose?»


«Ho conosciuto alcuni detenuti politici. Gli fanno cose terribili in prigione, che solo a sentirle ti danno il voltastomaco.»


«È terribile. Non lo sapevo.»


«Bè, adesso lo sai.»


Gli chiesi se i suoi genitori sapevano che simpatizzava con la rivoluzione e lui rispose che non poteva dirglielo, perché non avrebbero capito.


«Nelle rivoluzioni muore molta gente» dissi.


«Non mi accadrà nulla. Devi essere coraggiosa, Marina.»


Ero preoccupata; non volevo che gli succedesse niente di male.


Mi prese un brivido. Lui mi tenne le mani.


«Marina, ti prego, stà tranquilla. Non mi accadrà nulla, te lo garantisco.»


Cercai di credergli. Cercai di essere coraggiosa. In fondo, avevo solo tredici anni.


 


Per tutta l'estate non parlai più di politica con Arash. Volevo dimenticare la rivoluzione; forse, sarebbe svanita nel nulla. Arash suonava per me ogni giorno, e poi facevamo lunghe passeggiate a piedi e in bicicletta sulla spiaggia, oppure leggevamo poesie seduti sul dondolo nel suo giardino.


Dovette partire per Teheran due settimane prima di me. Di solito io e mia madre tornavamo dalle vacanze la prima settimana di settembre per darmi il tempo di prepararmi alla scuola, che iniziava il 21, il primo giorno d'autunno. Lo guardai allontanarsi dalla casa di sua zia a bordo della Paykan bianca di suo padre, con la nonna seduta davanti e lui e suo fratello sul sedile posteriore.


Tutti mi salutarono con la mano, e io ricambiai il saluto finché non li persi di vista.


Giovedì 7 settembre, non appena giunsi a Teheran gli telefonai e stabilimmo di incontrarci in una libreria il giorno 9, alle dieci del mattino.


Il 9 mi svegliai prima dell'alba e, con un senso d'angoscia, uscii sul balcone. A quell'ora la strada solitamente trafficata era deserta; una brezza lieve faceva stormire le foglie impolverate degli aceri. Avrei voluto chiamare Arash e dirgli di incontrarci prima, ma era una pazzia. Dovevo aspettare. Poi udii uno strano rumore, una specie di sibilo. Sgranai gli occhi nell'oscurità. Dall'altra parte della strada qualcosa si mosse. Guardai con più attenzione. Una sagoma scura si profilò alla luce di un lampione e si mise a scrivere qualcosa sul muro di un negozio con una bomboletta di vernice spray. Qualcuno gridò: «Fermo!» ma non capii da dove provenisse la voce, perché rimbalzò tra gli edifici. La sagoma si mise a correre. Poi udii un rumore forte, una specie di tuono. La sagoma scomparve dietro un angolo, e apparvero le ombre di due militari armati. Corsi dentro casa.


Dopo il sorgere del sole tornai sul balcone. Sul muro grigio di fronte a casa c'era una grande scritta rossa: Abbasso lo scià.


Giunta alla libreria con qualche minuto di anticipo, mi misi a sfogliare i volumi sugli scaffali. Alle dieci e un quarto mi guardai intorno; Arash era sempre puntuale. Non facevo che controllare l'orologio. Tutte le volte che la porta si apriva e qualcuno entrava, un raggio di speranza mi illuminava il cuore. Ma Arash non arrivò.


Aspettai fino alle undici ripetendomi che era tutto a posto, che non c'erano problemi e che probabilmente era rimasto bloccato nel traffico, o magari aveva avuto un guasto all'automobile.


Ritornai a piedi, presi subito il telefono e chiamai casa sua.


Rispose Aram, e da come disse «pronto» capii subito che c'era qualcosa che non andava. Gli spiegai che avevo appuntamento con Arash alla libreria, e che non si era fatto vedere.


«Dov'è?» chiesi, con tutta la calma di cui ero capace.


Aram rispose che non lo sapeva. La mattina del giorno prima Arash era uscito e avrebbe dovuto tornare per cena, ma era scomparso.


I suoi genitori avevano chiamato dappertutto, ma nessuno sapeva dove fosse. Quel giorno in piazza Jaleh si era tenuta una grande manifestazione contro lo scià, organizzata dai sostenitori di Khomeini, ma l'esercito aveva aperto il fuoco sulla folla e c'erano state molte vittime. Un amico di Arash aveva appena detto a suo padre che lui e Arash erano andati alla manifestazione assieme, ma poi si erano persi di vista. Avevano chiamato tutti gli ospedali di Teheran e suo padre era persino andato a Evin, ma non erano riusciti a trovarlo.


Gli fanno cose terribili in prigione, che solo a sentirle ti danno il voltastomaco. Scacciai quell'idea e mi feci promettere da Aram che mi avrebbe chiamata appena avesse saputo qualcosa.


Provai un senso di vuoto, di gelida distanza dalle cose che mi circondavano, come se la vita stessa mi avesse respinta. Il rumore confuso delle automobili per strada diventò qualcosa di strano, di sconosciuto. Conoscevo quel dolore. Avevo perso qualcuno.


 


Il mattino dopo suonai a casa di Arash e attesi finché Aram venne ad aprire. Ci abbracciammo, senza poterci staccare l'uno dall'altra.


Quando riaprii gli occhi vidi che Irena ci fissava. Dovevo essere forte. Lasciai Aram e abbracciai Irena, poi la accompagnai in salotto e l'aiutai a sedersi sul divano. Entrò il padre di Arash, e Aram ci presentò. Arash somigliava molto a suo padre.


«Grazie per essere venuta» disse. «Arash mi ha raccontato tutto di te. Avrei voluto conoscerti in circostanze diverse.»


Mi sedetti accanto a Irena e le presi una mano. Piangeva.


Arrivò anche la madre di Arash, mi alzai e la baciai sulle guance.


Il suo volto era freddo, gli occhi gonfi. C'erano ritratti di famiglia dappertutto. Io non avevo fotografie di me e Arash insieme.


Chiesi ad Aram di farmi vedere la stanza di suo fratello. Era molto semplice. Alle pareti non c'erano fotografie né poster. Sulla scrivania c'era l'astuccio nero del flauto, e lì vicino la scatolina bianca di una gioielleria. Aram la prese e me la diede.


«Te l'ha comprata qualche giorno fa» disse.


La scatolina conteneva una bellissima catenina d'oro. La richiusi e la misi sulla scrivania.


«Ho trovato una lettera in uno dei suoi cassetti. Non volevo curiosare nelle sue cose personali, ma cercavo solo qualche indizio su dove poteva essere» disse Aram dandomi un foglio su cui riconobbi la grafia di Arash. La lettera era indirizzata ai suoi genitori, alla nonna, al fratello, a me, e Arash spiegava che considerava suo dovere lottare per ciò che riteneva giusto. Doveva fare qualcosa contro il male. Sosteneva con tutto se stesso il movimento islamico contro lo scià ed era perfettamente cosciente di essere coinvolto in qualcosa di rischioso. Non era mai stato molto coraggioso, ma adesso credeva di dover mettere da parte la paura: si rendeva conto che le sue convinzioni potevano costargli la vita. Alla fine diceva che se stavamo leggendo quella lettera significava che probabilmente era morto, e ci chiedeva perdono, scusandosi per averci dato tanta pena.


Lanciai un'occhiata ad Aram.


«Mio padre e mia madre non sapevano fino a che punto fosse coinvolto in questa stupida rivoluzione, ma io sì» disse. «Ho cercato di fermarlo, ma tu sai com'è: non mi da mai retta. Io sono il fratello piccolo che non capisce mai niente.»


Mi sedetti sul letto di Arash e restituii la lettera ad Aram. Presi la maglietta blu che era appoggiata sul cuscino: era una delle sue preferite e l'aveva indossata spesso, quell'estate. La annusai; aveva ancora il suo odore. Fu come se da un momento all'altro lui stesse per entrare, rivolgendomi quel suo caldo sorriso e pronunciando il mio nome con la sua voce dolce e gentile.


La sera prima avevo guardato il telegiornale, ma non avevano detto una sola parola sulla manifestazione di piazza Jaleh. Del resto, tutti i canali televisivi erano sotto il controllo dello stato e avevano perlopiù ignorato i recenti fatti di sangue. Tuttavia, non riuscivo a comprendere perché lo scià avesse ordinato all'esercito di sparare sulla folla. Perché non stava a sentire che cosa volevano i manifestanti, e perché non parlava con loro?


Andai alla finestra, guardai fuori e mi domandai se Arash avesse mai pensato a me, mentre si affacciava a osservare la strada silenziosa. Aram mi venne accanto, rimase anche lui a guardare fuori, e mi ispirò una gran pena. Lui e suo fratello erano molto diversi, eppure così vicini.

In salotto notai una fotografia che li ritraeva insieme: due bambini, di sette e nove anni forse, si cingevano le spalle e ridevano.8.

 


 


«Stasera l'acqua calda tocca alla nostra palazzina» mi annunciò Sarah. Era la mia prima notte al 246. Sarah mi spiegò che l'acqua calda arrivava una volta ogni due o tre settimane, solo per due o tre ore, e che il turno della nostra stanza sarebbe stato verso le due del mattino. «Abbiamo dieci minuti ciascuna. Ti sveglio io» disse.


Era ora di andare a dormire. Le luci venivano spente alle undici, ma quelle del corridoio rimanevano sempre accese. Mi presentò la ragazza che si occupava dei «letti»: ognuna di noi riceveva tre coperte e tutte dormivamo per terra, fianco a fianco, in un posto prestabilito che ogni tanto ci scambiavamo. Le ragazze erano così tante che si dormiva anche nei corridoi. Ebbi un posto accanto a Sarah, dentro la stanza. Ripiegai tre volte una coperta e la usai come materasso, mentre la seconda divenne un cuscino e con la terza mi coprii.


Quando ci fummo tutte sistemate non rimase più un solo spazio vuoto, e andare al bagno nel cuore della notte era un vero problema; era quasi impossibile arrivarci senza calpestare qualcuno. All'epoca dello scià il 246 ospitava una cinquantina di detenute, distribuite sui due piani dell'edificio. Adesso ce n'erano circa seicentocinquanta.


Come promesso, Sarah mi svegliò. All'inizio, confusa, non capivo dove mi trovavo, ma poi mi resi conto che non ero a casa, nel mio letto. Ero a Evin. Lo scroscio delle docce si mescolava alle voci delle ragazze. Sarah mi aiutò ad alzarmi e la seguii arrancando. Il locale delle docce, con i pavimenti e le pareti di cemento dipinto di verde scuro, era diviso in sei cubicoli da alcuni fogli di plastica spessa.


Ogni doccia toccava a due ragazze, per dieci minuti. L'aria era satura di vapore e odorava di sapone scadente. Mi lavai, e piansi.


Dal momento in cui mi ero tolta la benda, nella notte delle esecuzioni, la mia vita era completamente cambiata. Avevo avuto qualche esperienza sconvolgente prima di quella notte, però l'essenza della mia vita era rimasta intatta. Avevo perso alcune persone care, ed ero stata arrestata e torturata; quella notte, però, ero andata oltre. Il mio tempo di permanenza nel mondo era giunto al termine, eppure ero ancora viva. Forse questa era la linea di confine tra la vita e la morte, e io non ero più né da una parte, né dall'altra.


Dopo la doccia tornammo a dormire. Lo spazio era così angusto che distendermi sulla schiena significava disturbare le mie vicine, così mi girai su un fianco verso Sarah, tenendo le ginocchia il più possibile diritte. Sarah aprì gli occhi e sorrise.


«Marina, non volermene, lo so che può sembrare stupido, ma sono contenta che tu sia qui con me. Mi sentivo così sola, prima che tu arrivassi.»


«Anch'io sono contenta che non siamo sole.»


Chiuse gli occhi, e li chiusi anch'io. Avrei voluto raccontarle della notte delle esecuzioni, ma non ci riuscii. Non c'erano parole che la potessero descrivere, e non volevo dirle che mi avevano dato l'ergastolo perché l'avrei solo addolorata. Ma mi avrebbero davvero tenuta rinchiusa a Evin per sempre? Ciò significava che non avrei mai più riabbracciato mia madre, né incontrato Andre; non sarei più andata in chiesa, né avrei rivisto il mar Caspio. No: volevano solo spaventarmi, indurmi alla disperazione. Dovevo pregare, tanto. Supplicare Dio di salvarmi. Salvare non solo me, ma anche Sarah. Presto saremmo tornate a casa.


Ci sembrò di aver riposato solo pochi minuti quando la voce del muezzin si diffuse dagli altoparlanti: «Allahu akbar. Allahu akbar...». Era l'ora del namaz mattutino, che andava compiuto prima dell'alba. Sarah e quasi tutte le altre ragazze si alzarono e andarono in bagno per le abluzioni rituali, perché prima di ogni namaz bisognava lavarsi le mani, le braccia e i piedi. Finalmente potei distendermi sulla schiena, ma qualcuno mi toccò una spalla e perciò riaprii gli occhi. Era Soheila.


«Non ti alzi per il namaz?»


Sorrisi. «Sono cristiana.»


«Sei la prima cristiana che vedo qui! I nostri vicini di casa erano... sono cristiani. È la porta accanto alla nostra. Si chiamano Jalalian e io sono amica della figlia, Nancy. Una volta ci hanno invitati a casa loro a bere il caffè turco. Li conosci?»


Risposi di no.


Si scusò per avermi svegliata e mi domandò se anche i cristiani pregassero. Allora spiegai che pregavamo, ma che, a differenza dei musulmani, non avevamo l'obbligo di farlo in particolari momenti della giornata.


 


Alle sette del mattino dovevamo riordinare la stanza. Mi stupì la rapidità dell'operazione e la velocità con cui, in un angolo, crebbe la torre di coperte. Le due ragazze incaricate dei pasti posarono per terra dei fogli di plastica sottile chiamati sofreh, lunghi circa mezzo metro, e distribuirono cucchiai di metallo, mentre i piatti e i bicchieri erano di plastica. Non avevamo coltelli né forchette. Poi le due andarono nell'atrio a prendere un grande calderone cilindrico pieno di tè; era molto pesante e ciascuna lo teneva per una maniglia, sbuffando. Ci diedero anche la razione di pane e formaggio feta. Ci mettemmo in fila, prendemmo il cibo, sedemmo davanti ai sofreh e mangiammo. Io morivo di fame, e finii tutto in pochi secondi. Il pane era fresco perché il carcere aveva un suo forno, e il tè era bollente, ma aveva un odore molto strano. Sarah mi spiegò che le guardie vi aggiungevano regolarmente della canfora. Aveva sentito dire che la canfora bloccava il ciclo mestruale e in effetti la maggioranza delle detenute non aveva più le mestruazioni. Le chiesi allora come mai volessero bloccarci il ciclo e mi rispose che gli assorbenti costavano. Dopo la colazione, le due ragazze incaricate di lavare i piatti misero le stoviglie sporche dentro alcuni bidoni di plastica e andarono nel locale delle docce, dove li sciacquarono con l'acqua fredda.


Presto imparai le regole del luogo. Era vietato oltrepassare le porte con le sbarre in fondo al corridoio, a meno che le sorelle non ci chiamassero all'altoparlante. Di solito accadeva soltanto se dovevamo essere interrogate, oppure quando c'erano visite. Le visite erano solo un giorno al mese: mancavano due settimane alla prima. Sarah non ne aveva mai ricevute, ma sperava che presto i suoi genitori avrebbero avuto il permesso di andare a trovarla.


Seppi anche che potevamo incontrare soltanto i parenti stretti, e che potevano portarci dei vestiti. In ogni stanza c'era un televisore, ma era sintonizzato su un canale di carattere strettamente religioso.


Avevamo anche dei libri, ma parlavano tutti dell'Islam.


Di solito il pranzo consisteva in un po’ di riso o minestra, e a cena mangiavamo pane e datteri. Dicevano che nel riso e nella minestra doveva esserci anche del pollo, ma era considerata una gran fortuna trovare nel piatto un microscopico pezzetto di carne che veniva mostrato a tutte. Le rappresentanti delle stanze, che talvolta venivano scelte dalle detenute e in altri casi nominate dalle guardie, organizzavano la distribuzione del cibo e i turni di pulizia, oltre a riferire alla segreteria di qualsiasi problema o malattia grave.


Una volta, dieci giorni dopo il mio arresto, mi trovavo seduta in un angolo della stanza e osservavo le ragazze che dicevano la preghiera di mezzogiorno. Erano ordinate in file, in piedi, rivolte alla Mecca. La prima volta che avevo visto da vicino un musulmano in preghiera era stata quando Arash aveva recitato il namaz nella casa di vacanze di sua zia. Mi piaceva molto guardarlo mentre si chinava, s'inginocchiava e sussurrava le parole in cui credeva con tanta passione. Chissà se gli sarebbe piaciuto questo nuovo governo, e tutte le cose terribili che stava facendo nel nome di Dio. No. Arash era buono e gentile; non avrebbe mai accettato tanta ingiustizia.


Forse ci saremmo finiti entrambi, a Evin.


Quando una delle mie compagne di stanza mi parlò, trasalii.


Era Taraneh, una ventenne magra e fragile, con capelli corti e occhi grandi color ambra. Di solito se ne stava seduta in un angolo a leggere il Corano e tutte le volte che si alzava per la preghiera si copriva il volto con il chador. Poi, quando se lo toglieva aveva gli occhi rossi e gonfi, ma sorrideva sempre.


«Sei rimasta immobile come una statua per un sacco di tempo.


Non sbattevi nemmeno le palpebre» disse.


«Stavo pensando.»


«A che cosa?»


«A un amico.»


Le domandai perché l'avessero arrestata e la sua risposta fu: «È una lunga storia».


«Bè, di tempo ne abbiamo» replicai.


«Io no.»


Fui presa da un senso di orrore. Sarah mi aveva detto che due ragazze della nostra stanza erano state condannate a morte, ma non mi aveva parlato di Taraneh.


«Ma Sarah mi ha detto...»


«Non lo sa nessuno» bisbigliò Taraneh.


«Perché non l'hai detto a nessuno?»


«A che serve? Poi la gente ti fa un sacco di moine e si dispiace per te. Non lo sopporto. Ti prego, non dirlo a nessuno.»


«Perché a me l'hai detto?»


«Tu dovevi essere giustiziata, vero?»


Ebbi un tuffo al cuore. Non potevo mentirle. Chiamai a raccolta tutte le mie forze e le raccontai della notte delle esecuzioni, e di come Ali mi avesse portata via all'ultimo momento. Mi domandò come mai Ali mi avesse salvata e io dissi che non lo sapevo.


Poi arrivò al punto.


«Lui ti ha mai toccata?»


«No, ma in che senso?»


«Lo sai, in che senso. Un uomo non può toccare una donna, a meno che non sia sua moglie.»


«No!»


«Strano.»


«Come, strano?»


«Ho sentito dire delle cose.»


«Quali cose?»


«Due ragazze mi hanno detto di essere state stuprate e minacciate di morte se lo avessero detto a qualcuno.»


Avevo soltanto una vaga idea di che cosa volesse dire essere stuprate.


Una cosa terribile, una cosa che un uomo poteva fare a una donna, una cosa di cui nessuno doveva mai parlare. Ma, per quanto volessi sapere di più, non osai chiedere.


«Cosa ti è successo prima che ti portassero sul luogo dell'esecuzione?


Non ti hanno toccata?» domandò Taraneh.


«No!»


Si scusò per avermi messa in agitazione. Cercai di non piangere e le dissi quanto fosse doloroso essere sopravvissuta mentre gli altri erano morti, tuttavia lei replicò che se fossi morta anch'io per gli altri non sarebbe cambiato niente.


«Come facevi a sapere della mia condanna?»


«Quando sei arrivata avevi il tuo nome scritto sulla fronte.»


Non capivo.


«Dopo che mi hanno arrestata, per due giorni mi hanno picchiata, ma io non ho collaborato» continuò. «Poi, una notte, l'uomo che mi interrogava mi ha trascinata all'aperto e mi ha tolto la benda... C'erano tanti cadaveri... coperti di sangue. Erano corpi di giustiziati... dieci, dodici persone. Ho vomitato. Lui mi ha detto che sarei finita così anch'io, se non parlavo. Ha puntato una torcia sulla faccia di un morto. Un ragazzo. Aveva il nome scritto sulla fronte: Mehran Kabiri.»


Sapevo che ciò che era accaduto la notte delle esecuzioni era più che reale, eppure fino a quel momento avevo trattato i miei ricordi come si trattano i brutti sogni, allontanandoli. Adesso però erano tornati. Respiravo a fatica. Ciò a cui avevo assistito quella notte poteva accadere a Taraneh. E non potevo farci nulla.


Taraneh mi disse di aver udito che prima di giustiziare le ragazze i guardiani le stupravano perché credevano che le vergini andassero in paradiso.


«Mi possono anche ammazzare, Marina» disse «ma non voglio essere stuprata.»


 


Nella nostra stanza c'era una donna incinta che si chiamava Sheida. Doveva avere sui vent'anni ed era stata condannata a morte, ma la sua esecuzione era stata rimandata perché le leggi islamiche proibivano di giustiziare le donne che aspettavano un bambino o che allattavano. Sheida aveva lunghi capelli color castano chiaro e occhi castani. Anche suo marito doveva essere giustiziato.


Perché non cadesse in preda allo sconforto, non la lasciavamo mai sola: c'erano sempre almeno due ragazze a tenerle compagnia, ma sebbene in genere fosse tranquilla, ogni tanto sul suo volto scorrevano le lacrime, in silenzio. Potevo soltanto immaginare quanto fosse difficile per lei temere non soltanto per sé, ma anche per il marito e il bambino che doveva nascere.


Una notte, ci svegliarono degli spari. Tutte le ragazze si tirarono su dal letto e guardarono verso la finestra. Ogni colpo era una vita spazzata via, un ultimo respiro, una persona cara strappata a una famiglia in attesa di vederla tornare. I morti venivano sepolti in tombe anonime; il loro nome non sarebbe mai stato scolpito su nessuna pietra.


«Sirus...» disse piano Sarah.


«Sirus sta bene, ne sono sicura» mentii.


Gli occhi scuri di Sarah erano come un'apparizione nel buio.


Cominciò a singhiozzare, sempre più forte. La abbracciai, la tenni stretta, ma lei mi respinse e si mise a gridare.


«Sst... Sarah! Respira...» dissero alcune ragazze avvicinandosi e cercando di calmarla.


Sarah iniziò a colpirsi la testa con i pugni. Cercai di tenerle i polsi, ma era sorprendentemente forte. Dovemmo metterci in quattro per fermarla, e ancora continuava a lottare. Le luci si accesero e, dopo un minuto, sorella Maryam e sorella Masumeh, un'altra guardia, entrarono nella nostra stanza.


«Che succede?» chiese sorella Maryam.


«È Sarah» rispose Soheila. «Piangeva, e gridava, e poi ha iniziato a picchiarsi forte.»


«Chiama l'infermiera!» ordinò sorella Maryam a sorella Masumeh, che corse fuori.


Meno di dieci minuti più tardi arrivò l'infermiera, che fece a Sarah un'iniezione nel braccio. Presto smise di divincolarsi e s'addormentò.


Sorella Maryam disse che doveva essere trasportata nell'infermeria del carcere per evitare che si facesse del male, e perciò la distesero sopra una coperta e la portarono via. La sua mano esile pendeva da un lato. Pregai Dio di non lasciarla morire. La sua famiglia aspettava che tornasse a casa, proprio come la famiglia di Arash aveva atteso il suo ritorno.9.

 


 


Tutti aspettavamo che Arash tornasse, pur sapendo che non sarebbe accaduto.


Nel tentativo di riprendere il controllo del paese, lo scià sostituì il suo primo ministro e tenne discorsi in cui disse al popolo di avere udito il suo grido di giustizia, annunciando di voler disporre alcuni cambiamenti. Ma fu tutto inutile: le dimostrazioni e le proteste aumentarono di giorno in giorno e, mentre si apriva l'anno scolastico 1978-79, tutti iniziarono a temere un futuro incerto.


Il mondo in cui ero cresciuta, le regole secondo cui avevo vissuto e che avevo creduto scolpite nella pietra stavano crollando.


Odiavo la rivoluzione: aveva causato violenze e spargimenti di sangue, ed ero certa che fosse soltanto l'inizio. Presto fu imposto il coprifuoco e a ogni angolo apparvero soldati e camionette militari.


Provavo un senso d'alienazione.


Un giorno il nostro appartamento iniziò a vibrare a causa di un rombo sempre più forte, che mi entrò fin nelle ossa. Quando guardai fuori dalla finestra e vidi che un carro armato stava passando per strada, provai un gran terrore; non sapevo che i carri armati fossero tanto fragorosi, tanto mostruosi. Dopo il suo passaggio notai che i cingoli avevano lasciato per terra solchi profondi.


Col passare delle settimane, la paura crebbe. Molti importanti esponenti politici e militari abbandonarono il paese e prima dell'inverno 1978 le scuole furono chiuse. Fu un inverno freddo ma, a causa degli scioperi nelle raffinerie e della situazione politica ed economica incerta, ci fu carenza di combustibili per le automobili e il riscaldamento, quindi a casa potemmo riscaldare soltanto una stanza. Alle pompe di benzina si formavano code di chilometri e la gente era costretta a passare la notte in auto nell'attesa di potersi rifornire. Fui lasciata a casa da scuola senza nulla da fare per tutto il giorno se non tremare, guardare dalla finestra e angosciarmi. La nostra strada, Shah Avenue, di solito intasata dal traffico, era deserta. I marciapiedi, un tempo affollati di gente che passeggiava, guardava le vetrine o mercanteggiava coi venditori ambulanti, erano vuoti. Persino i mendicanti erano scomparsi. Di tanto in tanto arrivava un gruppo di dieci, venti uomini; davano fuoco a qualche copertone e scrivevano sui muri «Morte allo scià» e «Lunga vita a Khomeini», impestando l'aria di fumo e puzzo di gomma bruciata. Qualche volta la strada si popolava di manifestanti inferociti, gli uomini davanti e le donne al seguito, con i loro chador. Alzavano i pugni e mostravano cartelli con il ritratto dell'ayatollah Khomeini, scandendo slogan contro lo scià e gli Stati Uniti.


Una volta alla settimana andavo a trovare Aram e la sua famiglia.


In strada, per sicurezza camminavo vicina agli edifici, perché molti erano stati feriti o uccisi da proiettili vaganti, e andavo il più in fretta possibile, cercando di evitare dimostranti e soldati.


Sull'autobus, cercavo di sedermi in un angolo sicuro. Aram era atterrito dalle mie uscite; lui non si muoveva praticamente mai e mi pregava di rimanere in casa, ma io gli avevo spiegato che il tedio delle quattro mura mi avrebbe probabilmente uccisa prima di qualunque altra cosa. Così una volta mi pregò almeno di avvisarlo per telefono prima di uscire.


«A che serve chiamarti prima di uscire?» gli domandai.


 


«Se non ti vedo arrivare per tempo, posso fare qualcosa.»


«E cioè?»


Mi fissò, perplesso.


«Posso venire a cercarti.»


«Dove?»


Quando i suoi occhi si riempirono di dolore, mi resi conto della mia crudeltà. Aram temeva per me e non voleva che la storia si ripetesse.


Gli presi una mano. «Aram, mi dispiace, perdonami! Non so che cosa mi sta succedendo. Sono proprio stupida! Chissà cosa mi è venuto in mente. Ti chiamerò, te lo prometto.»


Fece un sorriso incerto.


Per tenere impegnata Irena, le chiesi di insegnarmi a lavorare a maglia. Quando andavo a trovare la famiglia di Arash ci sedevamo tutti in salotto, prendevamo il tè e, dal momento che i canali radiotelevisivi nazionali erano sottoposti alla censura, per scoprire che cosa stesse accadendo nel nostro paese ascoltavamo la radio della BBC. Qualche volta ci capitava di udire degli spari lontani, e a ogni colpo tendevamo l'orecchio. Irena era molto fragile e la madre di Aram sembrava assottigliarsi sempre di più col passare delle settimane. Il padre, che aveva quarantasei anni, pareva molto più anziano, ingrigito com'era, e con quelle rughe profonde sulla fronte.


Quasi tutti i giorni parlavo al telefono con Sarah e qualche volta andavo a casa sua, oppure lei veniva da me. A differenza dei miei, i suoi genitori erano favorevoli alla rivoluzione e avevano partecipato a qualche adunata, ma senza mai portare con sé i figli. Sarah disse che sua madre si metteva il chador nero quando scendeva in piazza, ma stentavo a immaginarla col velo, era una delle donne più eleganti che avessi mai conosciuto. Poi Sarah mi rivelò che Sirus progettava di sgattaiolare fuori di casa per andare a una dimostrazione e che lei gli aveva chiesto di poterlo accompagnare, ma lui aveva rifiutato dicendo che era troppo piccola e che era pericoloso.


Allora pregai Sarah di non andarci, ricordandole com'era scomparso Arash, ma lei ribatté che la gente doveva smettere di avere paura e che si doveva lottare contro lo scià, che aveva usato il denaro nazionale ricavato dal petrolio per accrescere le proprie ricchezze, costruire palazzi, tenere feste sontuose e versare enormi somme sui suoi conti personali aperti presso banche straniere. E poi, aveva fatto imprigionare e torturare chi osava criticarlo.


«Devi venire anche tu» mi disse Sarah. «Fallo per Arash. Lo scià è un ladro e un assassino: dobbiamo sbarazzarcene.»


Un giorno, al grido di «Abbasso lo scià» un gruppo di persone irruppe nel piccolo ristorante sotto casa nostra. Sfondarono le vetrine, presero tutte le lattine di birra e le altre bevande alcoliche che trovarono, le gettarono in mezzo all'incrocio e vi appiccarono il fuoco. Le lattine esplosero, facendo tremare i vetri delle nostre finestre. Conoscevo benissimo i proprietari del ristorante; era una famiglia di armeni, nostri vicini di casa da anni. Ne uscirono illesi, ma lo spavento fu grande.


 


La presenza militare nelle strade diminuì progressivamente, e si diceva che fosse perché lo scià aveva finalmente compreso che l'uso estremo della forza non faceva che alimentare la rivoluzione. Si vociferava anche che molti soldati avessero iniziato a rifiutarsi di aprire il fuoco sui dimostranti. Infatti, sebbene qualche volta passassero le camionette militari, non vidi più i fucili puntati.


Mia madre e mio padre non sembravano eccessivamente preoccupati da ciò che stava succedendo nel paese. Non avevano preso troppo sul serio il movimento islamico, anzi ritenevano che si trattasse soltanto di un periodo turbolento, non di una rivoluzione, e che lo scià fosse troppo potente per essere rovesciato da un manipolo di mullah e di religiosi. Così, nonostante mia madre mi raccomandasse sempre di stare attenta quando uscivo di casa, diceva che presto sarebbe tornato il sereno.


 


Lo scià fu costretto all'esilio e il 16 gennaio 1979 lasciò l'Iran. I detenuti politici furono liberati. Vi furono festeggiamenti in tutte le strade. Dalla mia finestra guardavo la gente che ballava e udivo strombazzare i clacson. Poi, dopo il lungo esilio in Turchia, Iraq e Francia, il primo febbraio Khomeini rientrò nel paese. Mentre il suo aereo s'avvicinava a Teheran un giornalista gli chiese che cosa provasse, ma Khomeini rispose che non provava nulla. Le sue parole mi urtarono; in tanti avevano perso la vita per spianare la strada al suo ritorno, nella speranza di fare dell'Iran un luogo migliore, e lui non provava niente? Sembrava che al posto del sangue nelle vene gli scorresse acqua fresca.


Poco dopo il ritorno di Khomeini, sentii dire che l'esercito era ancora fedele allo scià. Per le strade c'erano ancora carri armati e camionette. Per circa un mese il futuro del paese fu totalmente incerto. La maggior parte delle città era guidata da governi militari di emergenza e i coprifuoco erano ancora in vigore. L'ayatollah disse al popolo di salire sui tetti delle case tutte le sere alle nove e gridare continuamente Allahu akbar per mezz'ora, allo scopo di manifestare il proprio sostegno alla rivoluzione. Io e i miei genitori non prendemmo mai parte a queste dimostrazioni, ma la maggior parte della gente sì, anche quelli che non erano stati fino in fondo favorevoli alla rivoluzione. Un generale consenso imperversava nel paese. La gente sperava in un futuro migliore e nella democrazia.


 


Il 10 febbraio 1979 l'esercito si arrese alla volontà del popolo iraniano e l'11 febbraio l'ayatollah Khomeini nominò un governo provvisorio con a capo Mehdi Bazargan.


Presto ci furono guardiani della rivoluzione e membri dei comitati islamici a ogni angolo di strada, a guardare chiunque con sospetto; centinaia di persone furono arrestate con l'accusa di aver fatto parte della SAVAK, il servizio segreto dello scià. Furono tutti incarcerati e spogliati dei loro beni; alcuni furono giustiziati, a cominciare dai più importanti funzionari del vecchio regime che non avevano abbandonato il paese. I giornali pubblicarono le terribili foto dei loro corpi martoriati. In quei giorni presi l'abitudine di puntare gli occhi a terra, quando passavo vicino a un'edicola.


Non molto tempo dopo la rivoluzione, il ballo fu bollato come «male» e dichiarato fuorilegge. Mio padre perse il suo lavoro presso il ministero delle Arti e della cultura e in seguito fu assunto come impiegato e traduttore nella fabbrica d'acciaio di zio Partef.


Lavorava tutto il giorno, poi tornava a casa stanco e infelice. Lo vedevo poco, anche meno del solito; quando era a casa leggeva il giornale o guardava la televisione, e sulla faccia seria gli si leggeva: «non disturbare». Scambiavamo a malapena qualche parola.


Le scuole riaprirono. La nostra preside, una donna in gamba che all'epoca dello scià era molto vicina al ministro dell'Istruzione, era sparita. Si disse che era stata giustiziata. Aveva abilmente diretto la nostra scuola per molti anni, e la sua assenza si sentiva in tanti modi. Correva voce che la maggior parte dei nostri professori sarebbe stata presto sostituita da simpatizzanti del governo e, come non bastasse, la nuova preside, khanum Mahmudi, era una guardiana della rivoluzione di diciannove anni, una giovane fanatica che indossava lo hijab islamico completo. Lo hijab non era ancora obbligatorio, sebbene un cambiamento delle regole fosse nell'aria. Hijab è un termine arabo che indica l'abbigliamento più appropriato per coprire il corpo femminile e può assumere diverse forme, una delle quali è il chador. Dopo che fu reso obbligatorio, nelle grandi città e specialmente a Teheran, al posto del chador spesso le donne portavano vesti lunghe e ampie chiamate manteaux islamici e si coprivano i capelli con grandi foulard; se indossati correttamente, erano una forma accettabile di hijab.


Dopo la rivoluzione, per alcuni mesi, ci fu ancora una certa libertà di parola. A scuola, varie organizzazioni vendevano i loro giornali liberamente e in cortile, durante la ricreazione, si poteva sentir discutere di politica. Prima di allora non avevo mai conosciuto nessun marxista, ma adesso ce n'erano ovunque. C'era anche il gruppo Mujaheddin- e Khalq, i Combattenti di Dio per il popolo, fuorilegge anche all'epoca dello scià ma operante in clandestinità da molti anni. Io non sapevo nulla del Mujaheddin, ma a quanto pareva aveva una storia complessa. Una mia amica marxista mi disse che erano marxisti eterodossi che credevano in Dio e nell'Islam, socialisti musulmani secondo i quali l'Islam poteva portare la giustizia sociale in Iran e affrancarlo dall'occidentalizzazione.


Negli anni Sessanta si erano organizzati e armati per rovesciare lo scià, ma non erano seguaci di Khomeini; anni prima che l'ayatollah salisse alla ribalta avevano già guidato molte proteste contro lo scià e alcuni, principalmente studenti universitari, erano stati torturati e uccisi a Evin. Tuttavia, il fatto che si trattasse di un gruppo islamico mi bastava per decidere che non potevo farne parte.


Aram frequentava un istituto superiore maschile chiamato Elburz, che sorgeva accanto alla mia scuola. Un pomeriggio, circa una settimana dopo la riapertura delle scuole, stavo andando a casa quando mi sentii chiamare. Il cuore mi balzò in petto; credevo che avesse notizie di suo fratello, invece disse che voleva soltanto parlare con me e si offrì di accompagnarmi. Sospirai di sollievo.


Per quanto fossi certa che Arash fosse morto, avevo il terrore di sentirmelo dire.


Aram mi chiese com'era la mia scuola e io gli risposi che la nuova preside era una guardiana della rivoluzione e che non mi avrebbe sorpreso scoprire che in tasca portava la pistola.


«Non ti stai lasciando coinvolgere in qualche gruppo politico, vero?» domandò. Da quando suo fratello era scomparso, Aram era diventato un adulto infelice, sconsolato. Prima della rivoluzione pensava solo al basket e alle feste, mentre adesso qualsiasi cosa lo inquietava, e non faceva che darmi consigli. «Mio padre dice che questo è un momento pericoloso» osservò. «Secondo lui, il nuovo governo permette a tutti i gruppi politici di fare e dire qualunque cosa in modo che i guardiani della rivoluzione possano distinguere gli amici dai nemici. Prima o poi inizieranno ad arrestare chiunque abbia fatto la minima cosa contro il governo.»


Qualche giorno prima, zia Zenia mi aveva chiamata per dirmi esattamente le stesse cose, avvertendomi di stare attenta, eppure ero molto incuriosita dalle varie ideologie e tutti i giorni, durante l'intervallo, andavo ai gruppi di studio e ai dibattiti organizzati dagli studenti più anziani che lavoravano con le varie organizzazioni.


Al di là del fatto che Marx e Lenin non credevano in Dio, le loro idee erano molto interessanti. Volevano giustizia per tutti e una società dove le ricchezze fossero equamente distribuite, ma alla prova della realtà queste tesi erano fallite. Sapevo benissimo che cosa era accaduto in Unione Sovietica e negli altri paesi comunisti.


Il comunismo non funzionava. D'altra parte, adesso vedevo com'era una società islamica e pensavo che mescolare religione e politica fosse pericoloso. Chiunque criticasse il governo veniva accusato di criticare l'Islam, ovvero di mettersi contro Dio e, da quanto avevo capito, per l'Islam la gente di questo tipo non meritava di vivere se non cambiava idea.


Almeno secondo la mia esperienza, prima della rivoluzione le convinzioni e le fedi delle persone non erano mai state un problema.


Nella nostra scuola c'erano ragazze di varie confessioni religiose, ma ci chiedevano solo di concentrarci sulla nostra istruzione, di essere educate e rispettose fra di noi e con i professori e di comportarci da signorine perbene. Adesso invece il mondo sembrava diviso in quattro correnti estreme: il fondamentalismo islamico, il comunismo, l'Islam di sinistra e il monarchismo, e a me non ne piaceva nessuna. Quasi tutte le mie compagne appartenevano a un gruppo; io no, cosa che mi faceva sentire sperduta e sola.


Adesso Gita faceva la terza liceo ed era entrata in un partito di matrice comunista noto come Fedayin- e Khalq. Il fratello di Sarah, Sirus, era del Mujaheddin, e anche Sarah simpatizzava con le sue idee.


 


Nel maggio 1979, circa tre mesi dopo la vittoria della rivoluzione islamica, una sera mi trovavo a casa da sola. I miei genitori erano andati da amici, e io ero rimasta a finire i compiti. Dovevano essere le otto, quando accesi la televisione. C'erano solo due canali. Da quando c'era stata la rivoluzione era raro vedere qualcosa di bello in tv, ma quella sera un documentario attirò la mia attenzione.


Parlava della manifestazione contro lo scià che si era tenuta in piazza Jaleh l'8 settembre. Nonostante sapessi benissimo che Arash era stato ucciso, ancora non riuscivo a pensare a quel giorno come al giorno della sua morte; era, piuttosto, il giorno della sua scomparsa.


Con gli occhi pieni di lacrime, mi avvicinai allo schermo. Era un filmato di pessima qualità: chi lo aveva girato per lo più correva o si muoveva a scatti, quindi era difficile seguire le scene. I soldati puntavano i fucili sulla folla e sparavano. La gente fuggiva, alcuni stramazzavano al suolo. I soldati gettavano i cadaveri su una camionetta, e fu allora che, per un istante, lo vidi. Uno dei cadaveri era Arash. Mi alzai, sgomenta, inorridita. Non riuscivo a parlare, non riuscivo a piangere. Andai in camera mia, mi sedetti sul letto e cercai di riflettere. Mi ripetevo che forse era solo il frutto della mia immaginazione. Che cosa potevo fare? Dovevo conoscere la verità.


Andai subito al telefono e chiamai Aram, che colse nella mia voce un senso di panico. Non sapevo come dirglielo.


«Marina, cosa c'è?»


Silenzio.


«Parla... vuoi che venga da te?»


«No» mi sentii dire.


«Ti prego, dimmi cosa c'è che non va.»


«In tv hanno dato un documentario sulla manifestazione dell'8 settembre. Mostrava dei soldati che gettavano i cadaveri su un camioncino. Credo di aver visto Arash.» Ecco: l'avevo detto.


Silenzio, un silenzio agghiacciante.


«Sei sicura?»


«Come posso esserne sicura? È stata una frazione di secondo.


Come possiamo fare?»


Aram suggerì di andare alla sede della televisione l'indomani, dopo la scuola. Io avrei voluto andarci la mattina, ma lui obiettò che se avessimo saltato le lezioni i nostri genitori si sarebbero preoccupati, e ai suoi non voleva dir nulla finché non fossimo stati sicuri che avevo visto bene.


Il giorno dopo prendemmo l'autobus e ci recammo alla sede della televisione; per strada non scambiammo neanche una parola.


All'inizio andammo alla reception e spiegammo la nostra situazione a una signora di mezza età che si dimostrò assai partecipe e ci disse di aver perso un cugino nella stessa manifestazione. Dopo qualche telefonata ci accompagnò in un piccolo ufficio da un giovane con la barba e un paio di lenti spesse che, senza mai guardarmi negli occhi, non fece che annuire. Il giovane ci portò in una grande stanza piena di apparecchiature, e lì raccontammo la nostra storia a un uomo che poteva avere poco meno di cinquant’anni e si chiamava aghayeh Rezaii. Ci disse che avrebbe trovato il nastro, e lo trovò.


Io e Aram rimanemmo a fissare il monitor. Eccolo. Chiedemmo ad agha- yeh Rezaii di fermare l'immagine. Era Arash, non c'era ombra di dubbio, con gli occhi chiusi e la bocca leggermente aperta.


La sua maglietta bianca era piena di sangue.


Mi sentii come se un masso mi avesse sfondato il petto. Avrei tanto voluto essergli vicina nel momento della morte, quand'era solo e impaurito.


Per un lungo momento non potemmo staccare gli occhi dal video, ma alla fine guardai Aram. I suoi occhi erano vuoti, assenti; come me, anche lui si sforzava di comprendere l'abisso desolato e devastante che la morte aveva lasciato dietro di sé, la terribile caduta nell'ignoto, la spaventosa attesa prima di toccare il fondo e schiantarsi in tanti pezzi privi di senso. Gli sfiorai la mano, e lui si girò verso di me. Lo abbracciai. Agha- yeh Rezaii piangeva insieme a noi.


«Devo chiamare i miei. Hanno il diritto di saperlo, subito» disse Aram.


Ci raggiunsero nel giro di un'ora, annientati, spezzati. Dopo aver sofferto per otto mesi, la morte del figlio era divenuta una realtà e dovevano affrontarla. Mi ringraziarono per averlo ritrovato.


Sì, mi ringraziarono. Ma io non ragionavo più. Non riuscivo più a pensare. Volevano accompagnarmi a casa, ma declinai l'offerta.


Desideravo rimanere sola.


Presi l'autobus, trovai un posto tranquillo in un angolo e pregai.


Che cos'altro potevo fare? Volevo recitare l'Ave Maria mille volte. Volevo recitarla fino a non poterne più, fino ad aver pagato per il modo in cui era morto, per non essergli stata vicina in quel momento. Ma ne avrei mai dette a sufficienza? Il dolore che mi aveva riempito l'anima cresceva in fretta, e non era accompagnato da un senso di perdono. Dovevo accettarlo e permettergli di gonfiarsi, straripare, sfociare ovunque potesse, altrimenti mi avrebbe annientato.


Giunta alla porta di casa, con le mani tremanti cercai di infilare la chiave nella serratura, ma non ci riuscii. Suonai, ma non rispose nessuno. L'aria densa e calda, unita al rumore del traffico, mi opprimeva. Feci un respiro profondo e riprovai. La porta si aprì. La richiusi e mi ci appoggiai. L'atrio era buio, fresco, silenzioso.


Stremata, iniziai a salire i gradini a passi pesanti, ma dopo la prima rampa svenni. Per qualche momento percepii soltanto il freddo della pietra sulla pelle. Poi sentii una voce che mi chiamava, e qualcosa di caldo sul viso. Alzai gli occhi. Mia madre mi fissava, mi scuoteva.


«Marina, tirati su!»


Mi tirò per le braccia e finalmente, appoggiandomi a lei, riuscii a mettermi in piedi. Mi accompagnò in camera. Mi parlava, ma non riuscivo a capirla. Le sue parole erano come nebbia, come fumo che si dipanava nell'aria e spariva nel sole che entrava dalla finestra della mia stanza. Mi aiutò a sedermi sul letto. Dovevo capire che cos'era accaduto. Dovevo comprendere perché Arash era morto. Guardai il cielo azzurro, fuori.


Quando infine mi ripresi, vidi mia madre in piedi con il mio piatto preferito, stufato di manzo e sedano con riso. Fuori era calato il buio e in camera c'era la luce accesa. Guardai l'orologio: le nove passate. Erano trascorse due ore, ed ero ancora seduta sul mio letto. Ero scivolata attraverso quel tempo, quasi che il mio dolore mi avesse esclusa dal mondo, come forbici che ritagliano una sagoma da un pezzo di carta.


«È morto» dissi, nella speranza che pronunciare queste parole mi avrebbe aiutata a capire il perché.


«Chi?»


Mia madre si sedette sul bordo del letto.


«Arash.»


Non mi guardò.


«È stato ucciso durante la manifestazione dell'8 settembre. Gli hanno sparato. È morto.»


«È terribile» sospirò mia madre, scuotendo la testa. «Lo so che ti piaceva. È difficile, durissimo, ma lo supererai. Domani ti sentirai meglio. Ti faccio una camomilla.»


Se ne andò. Di tanto in tanto, mia madre mi regalava qualche breve momento d'affetto. Ma non durava mai: era come la scia luminosa di una stella cadente che subito svaniva nel buio.


Dopo la tazza di camomilla mi addormentai, ma mi risvegliai nel cuore della notte con un bruciore al petto. Avevo sognato Arash. Mi precipitai davanti al cassettone, presi la statuetta del mio angelo e mi rintanai sotto il letto. Dalla gola mi sfuggivano gemiti profondi, e più cercavo di reprimerli più erano forti. Tirai giù il cuscino dal letto e vi affondai il viso. Avrei voluto che l'angelo venisse a dirmi perché le persone morivano. Avevo bisogno che venisse a dirmi perché Dio si prendeva quelli che amavo. Ma per quanto lo chiamassi, non venne.


 


Il 6 settembre 1979 Irena fu stroncata da un infarto. Prima di lei avevo già perso due persone care ma non ero mai andata a un funerale: il suo fu il primo. Il 9 settembre mi misi una gonna e una camicetta nere e mi guardai allo specchio. Stavo malissimo, vestita così: ero macilenta, pallida, angosciata. Tentai di stare ben diritta.


Alla fine mi tolsi gli abiti neri e indossai i miei preferiti, una gonna marrone e una camicia color panna. A Irena sarei piaciuta molto di più così.


Prima di raggiungere la fermata dell'autobus passai dal fiorista e comperai un mazzo di rose rosa. Sull'autobus mi sedetti accanto al finestrino e guardai le strade. La città era stata spogliata dei colori, della vitalità. Tutti portavano abiti scuri e camminavano con gli occhi bassi, come se volessero evitare di vedere gli altri e ciò che avevano attorno. Su quasi tutti i muri campeggiavano slogan violenti che incitavano all'odio.


Poiché la chiesa russa ortodossa di Teheran non aveva sacerdoti, il funerale si tenne alla chiesa ortodossa greca e la sepoltura al cimitero russo. Partecipare al funerale di Irena mi ispirò un senso di gratitudine, perché avevo imparato ad apprezzare la fortuna di poter dire addio.


Dopo la cerimonia chiesi ad Aram di aiutarmi a cercare la tomba di mia nonna. Non sapevo dove si trovasse esattamente. I miei genitori non mi avevano portata al suo funerale e nemmeno a visitarla al cimitero, ma desideravo trovarla e dire una preghiera. Il cimitero non era vastissimo ed era circondato da un muro di mattoni d'argilla. Le tombe erano strette l'una accanto all'altra, invase dalle erbacce, e trovare la lapide di mia nonna in mezzo a tante altre sarebbe stata un'impresa. Ci spostammo in punta di piedi tra l'una e l'altra, e la quinta o la sesta su cui cadde il nostro sguardo era la sua. Era come se lei avesse trovato me. Le avevo conservato una rosa.


Mi guardai in giro. Ogni lapide era come la copertina di un libro chiuso per sempre. Passai da una tomba all'altra, cercando di leggere i nomi e le date di nascita e di morte. Qualcuno era morto da vecchio e qualcun altro da giovane. Avrei voluto conoscerli tutti. C'erano molte storie che non sarebbero mai state raccontate.


Chissà se il mio angelo conosceva tutte queste persone, se era riuscito ad aiutarle, ad ascoltare il loro cuore. Chissà quali erano stati i loro ultimi pensieri prima di morire, e i loro più grandi rimpianti.


E chissà se era possibile non avere alcun rimpianto, e cosa avrei rimpianto io, se fossi morta in quel preciso istante.


Gli amici e i parenti di Aram iniziavano ad andarsene quando notai che i suoi genitori ci stavano osservando e intuii che stavano pensando ad Arash. Avevano il diritto di sapere dove era sepolto, e lui aveva diritto a una tomba come si deve. Avrei voluto piantare delle rose attorno al pezzetto di terra che custodiva il suo corpo.


Rose di ogni colore. E non avrei mai permesso alle erbacce di crescere attorno alla sua lapide. Era morto da un anno. Quattro stagioni di pena e di assenza.


Il primo novembre 1979 l'ayatollah Khomeini disse che il popolo iraniano doveva manifestare contro gli Stati Uniti, il «grande Satana», responsabile di ogni corruzione e peggior nemico dell'Islam assieme a Israele. Migliaia di persone scesero in piazza e circondarono l'ambasciata americana. Guardai le manifestazioni al telegiornale e mi chiesi da dove fosse arrivata tutta quella gente infuriata. Non c'era nessuno che conoscessi. Un mare di persone bloccava le strade attorno al muro che circondava l'edificio dell'ambasciata.


Il 4 novembre 1979 un gruppo di studenti universitari che si erano dati il nome di «Seguaci della linea dell'Imam» fece irruzione nell'ambasciata americana e prese in ostaggio cinquantadue americani. Volevano che lo scià, in quel momento negli Stati Uniti per sottoporsi a una cura contro il cancro, fosse rimandato in Iran per essere processato. Ma a me, e a tutti quelli con cui avevo parlato, questa sembrava una follia assoluta. Tutti sapevano che lo scià era gravemente malato. Trattenere gli ostaggi era fuori da ogni logica ma, del resto, da quando c'era stata la rivoluzione, della logica non si trovava più traccia.10.

 


 


Il giorno di visita c'era grande eccitazione nell'aria e, per la prima volta da quando ero stata arrestata, udii le ragazze ridere di gusto.


Le sorelle chiamavano le detenute in ordine alfabetico all'altoparlante, di solito quindici per volta. Quelle che erano state chiamate si mettevano il chador e andavano in segreteria. Io e Taraneh, non sapendo se i nostri genitori fossero stati autorizzati a farci visita, camminavamo su e giù per il corridoio. Taraneh era stata arrestata da più di due mesi, ma non aveva ancora ricevuto visite. Il suo cognome iniziava per B, quindi avrebbero chiamato prima lei.


«... Taraneh Behzadi...»


Saltammo e gridammo entrambe. Era così agitata che dovetti correrle dietro e portarle chador e benda, finché scomparve dietro le porte a sbarre e ripresi a camminare avanti e indietro. Dopo la visita, quasi tutte le ragazze erano in lacrime, ma Taraneh, che fece ritorno dopo circa mezz'ora, era tranquilla, composta.


«Hai visto i tuoi genitori?» le domandai.


«Sì.»


«Com'è andata?»


«Bene, penso. Nella stanza delle visite c'è una barriera di vetro spesso, senza telefoni. Non si riesce a parlare, ma abbiamo usato una sorta di linguaggio dei segni.»


A un certo punto fui chiamata anch'io. In segreteria ci ordinarono di metterci la benda, poi in fila scendemmo giù per le scale e uscimmo all'esterno. Raggiungemmo la palazzina con la stanza delle visite e, prima di entrare, ci fecero togliere la benda. C'erano guardie armate a ogni angolo, e una parete di vetro spesso che divideva la stanza a metà. Dall'altra parte c'erano uomini e donne, e qualcuno di loro piangeva, le mani sul vetro, scrutando ogni volto alla ricerca della persona cara. Presto vidi i miei genitori, che corsero verso di me e scoppiarono in lacrime. Mia madre indossava un manteau nero lungo fino alle caviglie e un velo nero molto grande, che le copriva la testa e le spalle. Doveva averli comperati apposta per venire a Evin. Tutti i manteaux che portava prima del mio arresto erano più corti, più o meno due centimetri sotto il ginocchio, e i veli più piccoli.


«Stai bene?» riuscii a leggere sulle sue labbra.


Trattenendo il pianto, annuii.


Serrò le mani, come se pregasse, e disse qualcosa.


«Come?» Cercavo disperatamente di capire ogni sua parola.


«Tutti stanno pregando per te» ripeté più piano, esagerando il movimento delle labbra.


«Grazie.» Mi inchinai leggermente.


«Quando ti faranno tornare a casa?» chiese poi, ma finsi di non capire. Non avrei mai potuto dire ai miei genitori che mi avevano dato l'ergastolo. Li avrei uccisi. Erano atterriti e devastati, ma almeno nutrivano la speranza che un giorno sarei tornata a casa.


Non sapevo cosa dire; avrei solo voluto abbracciare mia madre e non lasciarla più.


«Sarah sta bene» dissi alla fine, dopo essere rimasta a fissarli per un minuto.


«Cosa?»


Tracciai la parola «Sarah» sul vetro con un dito, e mia madre seguì il mio dito con il suo.


«Sarah?» chiese.


«Sì.»


«Sta bene?»


«Sì.»


«Tempo scaduto!» gridò una guardia.


«Marina, fatti coraggio!» disse mia madre.


Dopo le visite, in carcere regnava sempre un gran silenzio.


Sedute da sole nei nostri angoli, cercavamo di non pensare a com'era la nostra vita prima di Evin, ma era inutile, perché i ricordi erano la sola cosa che avevamo. Ci mancavano le nostre famiglie, le nostre vite, il nostro modo di essere. Non avevamo più un futuro, ma solo un passato.


Il giorno dopo la visita ricevemmo da casa dei piccoli pacchi di vestiti. Aprii il mio: camicie, pantaloni, biancheria nuova e un maglione. Tutto odorava di casa, di speranza. Taraneh accarezzava un maglione di lana rosso, sbiadito; mi spiegò che quello era il suo indumento portafortuna. «Mi porterà bene» disse, e raccontò che l'aveva fatto sua madre molti anni prima, quando aveva appena imparato a lavorare a maglia. Taraneh e le sue sorelle lo volevano tutte, però la madre decise di darlo a lei. Le sorelle si erano arrabbiate, e allora la madre aveva spiegato che, poiché non poteva che darlo a una sola di loro, era giusto che fosse la più giovane. Aveva promesso di fare un maglione esattamente uguale per ciascuna delle altre tre, ma poi non l'aveva fatto. Taraneh diceva che ogni volta che aveva indossato quel maglione le erano successe cose belle, e si chiedeva se avesse conservato la sua magia.


«Taraneh, un giorno andremo a casa» dissi.


«Lo so.»


«Faremo tutte le cose che ci piacciono.»


«Andremo a fare delle lunghe passeggiate, giusto?»


«Certo. E andremo nella mia casa al mare.»


«Andremo in giro per negozi.»


«Faremo da mangiare, prepareremo una torta e ci mangeremo tutto!»


Scoppiammo a ridere.


Quella notte non riuscii a dormire. Pensai a come Ali fosse riuscito a ottenere una riduzione della mia pena; forse poteva fare lo stesso per Taraneh, e forse poteva aiutare anche Sarah, ma mi aveva detto che sarebbe partito e, se dovevo essere sincera, avrei preferito non vederlo mai più. Mi terrorizzava. In un certo senso per me era più facile avere a che fare con Hamehd, perché sapevo cosa aspettarmi. Con Ali, invece, era diverso. Nonostante non mi avesse mai fatto del male, provavo un terrore istintivo e profondo quando mi si avvicinava. Ripensai alla notte delle esecuzioni; fino a quel momento l'avevo evitato perché il mio cervello non voleva ricordare quelle immagini terribili, ma lo sapevo che erano lì, intatte e limpide. E mi ricordavo dello sguardo di Ali, quando mi aveva portata in cella. Del suo desiderio. Mi ero sentita come intrappolata sul fondo di un oceano congelato. Ma per il bene di Taraneh, dovevo parlargli.


La mattina dopo, andai in segreteria e bussai. Sorella Maryam sedeva alla scrivania e leggeva. Mi guardò con espressione interrogativa.


«È possibile parlare con fratello Ali?» domandai.


Sorella Maryam puntò gli occhi nei miei. «Perché gli vuoi parlare?»


Spiegai che mi aveva salvato la vita e che volevo chiedergli di salvare anche una mia amica.


«Chi?» domandò sorella Maryam.


Esitai.


«Taraneh?»


«Sì.»


«Fratello Ali non c'è. È al fronte, a combattere contro gli iracheni.»


Dal settembre 1980 l'Iran era in guerra contro l'Iraq.


«Quando torna?»


«Dio solo lo sa, ma anche se fosse qui non potrebbe fare nulla.


Tu sei stata molto fortunata. Quando un tribunale islamico emette una sentenza di morte, l'unica cosa che può salvare il condannato è la grazia dell'Imam, ma l'Imam preferisce non interferire con il lavoro delle corti e con il loro giudizio, di cui si fida. L'unico che avrebbe potuto fare qualcosa per Taraneh era chi l'ha interrogata.»


«E noi, che cosa possiamo fare per lei?»


«Pregare.»


 


Cercavo di non pensare alla felicità, a come si stava prima della rivoluzione, prima che accadessero cose terribili, quasi temessi che continuando a ricordare le cose belle le avrei fatte sbiadire, come vecchie fotografie troppo maneggiate. Talvolta, però, nel cuore della notte percepivo la fragranza dei Emoni selvatici, udivo il fruscio delle loro foglie nella frizzante brezza marina. Sentivo le onde tiepide del Caspio lambirmi i piedi e la sabbia umida e appiccicosa tra le dita. In sogno, mi distendevo sul letto della nostra casa di vacanza e guardavo sorgere la luna piena. Poi mettevo giù i piedi, ma il pavimento non cigolava; camminavo un po', ma non trovavo nessuno, e volevo chiamare Arash, ma dalla mia gola non usciva alcun suono.


Non facevo che pensare ad Andre. Prima del mio arresto, il mio amore per lui era stato giovane, fragile. Avevo avuto paura di abbandonarmi ai miei sentimenti per il timore di perderlo, e perché non volevo tradire Arash. Adesso, messa davanti alla mia provvisorietà, capivo di essere innamorata e non desideravo nulla di più che stare con lui. Ma Andre mi amava? Io credevo di sì. Lui era la mia speranza. Dovevo sopravvivere per lui. Era da lui che volevo tornare.


A metà marzo, una sera Sheida entrò in travaglio e fu portata all'infermeria del carcere. Il giorno dopo ritornò con un bel bambino che aveva chiamato Kaveh, come suo marito. Ci riunimmo tutte attorno a lei e a suo figlio e, orgogliose di avere una madre nella nostra stanza, da allora la chiamammo mamma Sheida. Il bambino fu subito riempito di attenzioni; aveva molte zie desiderose di occuparsene, e l'ombra di inquietudine sul viso di Sheida si diradò un poco, anche se non sparì mai del tutto. Il piccolo diede speranza non solo a lei, ma anche a tutte coloro che gli erano attorno.


Quando Kaveh aveva due o tre settimane, una settantina di detenute del 246 furono trasferite a Ghezel Hessar, un carcere della città di Karaj, a venticinque chilometri da Teheran. Molte ragazze dicevano che là le condizioni di vita erano leggermente migliori, quindi quelle destinate al trasferimento erano piuttosto soddisfatte. Quanto a me, fui contenta che nessuna delle mie amiche più vere fosse stata trasferita. Successivamente, le stanze furono un po’ meno affollate, ma non durò a lungo. Ogni giorno arrivava qualche ragazza nuova, e poco dopo lo spazio per dormire fu ancora più stretto di prima.


Una volta alla settimana gli altoparlanti diffondevano marce militari, poi annunciavano che le nostre truppe avevano vinto importanti battaglie e che stavano per concludere in gloria la guerra contro l'Iraq. A noi le vicende belliche non interessavano, non solo perché la guerra non aveva toccato direttamente Teheran, ma perché Evin era come un altro pianeta, un mondo strano retto da regole incomprensibili, dove chiunque di noi poteva finire sotto tortura o essere messa a morte senz'alcuna ragione.


 


Una sera, mentre stavamo consumando la nostra cena di pane e datteri, Sarah rientrò nella stanza e, senza togliersi il chador né par lare o guardare nessuno, andò a sedersi in un angolo. Preoccupata, mi avvicinai e le posai una mano sulla spalla.


«Sarah?»


Se ne stava a testa bassa.


«Sarah, dove sei stata? Eravamo così in pensiero.»


«Sirus è morto» disse con calma.


Cercai le parole giuste, ma non ce n'erano.


«Ho due penne» sussurrò.


«Cosa?»


«Gliele ho rubate. Non si sono accorti di niente.»


Tirò fuori di tasca una penna nera, si sollevò la manica sinistra e iniziò a scrivere sul proprio polso: Sirus è morto. Un'estate andammo sul Caspio e giocammo sulla spiaggia con un pallone gonfiabile tutto colorato. Le onde s'infrangevano... Notai che sul braccio aveva altre scritte, tracciate in una grafia minuta ma leggibile. Erano ricordi. I suoi ricordi di Sirus, della sua famiglia, della sua vita.


«Hai della carta?»


«Ti troverò della carta, Sarah, ma dove sei stata?»


«Fra un po’ non avrò più spazio. Ti prego, trovami della carta.»


Le procurai un foglio, ma non le bastò. Iniziò a scrivere sui muri. Scriveva e riscriveva le stesse cose continuamente: di quando andavamo a scuola, i giochi che facevamo, i libri che leggevamo, i nostri insegnanti preferiti, le feste di fine anno, le vacanze estive, la sua casa, il nostro quartiere, i suoi genitori, e tutte le cose che piacevano a Sirus.


Una sera, quando finalmente arrivò l'acqua calda, non volle fare la doccia.


«Sarah, devi lavarti. Le parole spariranno comunque. E se ti lavi potrai scrivere di nuovo. Se non ti lavi avrai un pessimo odore.»


«Sta finendo l'inchiostro delle penne.»


«Ti troverò delle penne nuove, se ti farai la doccia.»


«Davvero?»


Poiché non volevo promettere nulla che non potessi mantenere, andai in segreteria e spiegai la situazione a sorella Maryam. Le dissi che Sarah non scriveva nulla di politico, ma soltanto i ricordi della sua famiglia.


Sorella Maryam mi diede due penne e corsi da Sarah come se avessi trovato un tesoro straordinario.


Nella stanza delle docce, quando si tolse i vestiti non credevo ai miei occhi. Aveva le gambe, le braccia, l'addome ricoperti di minuscole parole.


«Non sono riuscita ad arrivare alla schiena. Mi faccio la doccia solo se mi prometti di scrivermi sulla schiena» disse.


«Te lo prometto.»


E si lavò via le parole dalla pelle. Il Libro di Sarah. Che viveva, respirava, sentiva, soffriva, ricordava.


 


A circa tre mesi dal mio arrivo, mi chiamarono all'altoparlante. Le mie amiche mi guardarono con trepidazione. Con mani tremanti, mi misi in testa lo scialle.


«Saranno buone notizie, vedrai» disse Taraneh, gli occhi pieni di speranza.


Trassi un respiro profondo e aprii la porta che conduceva all'atrio.


Sorella Maryam mi stava aspettando in segreteria. Avvertii il suo leggero nervosismo.


«Dove devo andare?»


«Fratello Hamehd ti vuole.»


«Sai perché?»


«No, ma non ti preoccupare. Vedrai che vorrà semplicemente vedere come stai.»


Mi bendai gli occhi e seguii un'altra sorella in un altro edificio, dove aspettai nell'ingresso finché Hamehd mi chiamò. Mi portò dentro una stanza, chiuse la porta e mi disse di togliermi la benda.


Non era per niente cambiato. I suoi occhi erano caverne buie e gelide. C'erano un letto da tortura, una scrivania e due sedie. Alla testiera del letto era appesa una frusta, un tubo nero. Il mio respiro si fece rapido e affannoso.


«Marina, che bello vederti» sorrise Hamehd. «Accomodati e dimmi: come ti va la vita?»


Le sue parole erano come punture d'ape.


«Va tutto bene» risposi, ricambiando il sorriso.


«Così mi sei scappata via quella notte, eh? Ti sei mai chiesta che cos'è successo agli altri?»


Il mio cuore batteva così forte che la testa mi parve sul punto di scoppiare. «Non sono scappata. Ali mi ha portata via, e so benissimo che cos'è successo agli altri. Li avete uccisi.»


Il letto era sporco di sangue, e non riuscivo a staccare gli occhi da quelle macchie.


«Devo proprio dirtelo: non mi sei simpatica, però mi fai ridere.


Hai mai rimpianto di non essere morta insieme a loro, quella notte?»


«Sì.»


Continuava a sorridere.


«Lo sai che ti hanno dato l'ergastolo, vero?»


«Sì, lo so.»


Se inizierà a frustarmi, si fermerà solo quando sarò morta.


«Questo non ti preoccupa? Voglio dire, non ti sei divertita in questi ultimi due mesi, no? Immagina che vada avanti così per sempre.»


«Dio mi aiuterà» dissi.


Hamehd si alzò, fece un giro della stanza, poi mi si avvicinò e con il dorso della mano mi schiaffeggiò la guancia destra, con tanta forza che pensai mi avesse rotto il collo. L'orecchio destro mi fischiava.


 


«Adesso non c'è Ali a proteggerti.»


Mi coprii la faccia con le mani.


«Non nominare mai più Dio! Sei impura, sei indegna del Suo nome. Devo andare a lavarmi le mani, dopo averti toccata.


Comincio a credere che l'ergastolo in fondo sia la cosa migliore per te. Patirai a lungo, e senza alcuna speranza.»


Qualcuno bussò alla porta. Hamehd aprì e uscì. Non riuscivo a pensare lucidamente. Che cosa poteva volere da me?


Entrò un uomo che non avevo mai visto prima.


«Ciao, Marina. Sono Mohammed. Ti devo riportare al 246.»


Lo guardai, perplessa. Non potevo credere che Hamehd mi lasciasse andare così facilmente.


«Stai bene?» mi chiese Mohammed.


«Sì, sto bene.»


«Mettiti la benda e andiamo.»


Mi lasciò alla segreteria del 246, dove sorella Maryam mi fece subito togliere la benda. Dietro la scrivania c'era sorella Masumeh, che leggeva.


«Come mai hai la faccia così rossa?» s'informò sorella Maryam.


Sorella Masumeh alzò gli occhi.


Raccontai loro che cos'era accaduto.


«Grazie a Dio sono riuscita a trovare fratello Mohammed! Lui e fratello Ali sono grandi amici. Lavoravano nella stessa palazzina.


L'ho chiamato e gli ho detto che Hamehd ti aveva fatta portare via.


Mi ha detto che ti avrebbe trovata e riportata indietro» fece sorella Maryam.


«Sei stata fortunata, Marina. Hamehd non ci pensa due volte a massacrare qualcuno, se ne ha voglia» bisbigliò sorella Masumeh.


«Come vedi» riprese sorella Maryam «sorella Masumeh non è una grande amica di Hamehd, ma ha imparato a tenere a freno la lingua. Anche se è stata una "seguace della linea dell'Imam", una di quelli che hanno assaltato l'ambasciata americana e conosce personalmente l'Imam, ha avuto qualche problema con Hamehd.


Qui, le uniche persone di mia conoscenza che possono davvero tenergli testa sono fratello Ali e fratello Mohammed.»


«Stà tranquilla, Marina. Adesso che Hamehd sa che fratello Mohammed veglia su di te, non ti darà più fastidio» disse sorella Masumeh.


Tutte le ragazze della stanza 7 furono liete di rivedermi e vollero sapere dov'ero stata, ma quando s'accorsero del gonfiore sulla guancia, capirono che non portavo buone notizie. Non avevo nessuna speranza di essere rilasciata, ma non mi sarei piegata come Hamehd avrebbe voluto. Aveva cercato di avvilirmi, e ci era quasi riuscito. Quasi.


Riflettei sulle parole di sorella Maryam a proposito di sorella Masumeh. Era difficile credere che fosse tra i sequestratori dell'ambasciata americana di Teheran. All'epoca dei fatti avevo guardato il telegiornale e pensato con preoccupazione agli ostaggi, che a casa avevano una famiglia, persone che li amavano, che avevano bisogno di loro e li rivolevano indietro. Erano stati liberati il 20 gennaio 1981, dopo una prigionia di 444 giorni. Ma io ero in una situazione assai peggiore. Loro erano cittadini americani, e quindi contavano qualcosa: quanto meno il loro governo aveva cercato di salvarli e il mondo conosceva la loro terribile vicenda. Ma il mondo sapeva di noi? Qualcuno stava cercando di salvarci? Nel profondo del mio cuore ero certa che la risposta a queste domande fosse «no».


 


Pensavo sempre alla mia chiesa. Sentivo l'odore delle candele che bruciavano davanti all'immagine della Vergine, le fiammelle che guizzavano e parlavano della speranza di vedere ascoltate le proprie preghiere. Chissà se Lei mi aveva dimenticata. Pensavo alle parole di Gesù: il più piccolo granello di fede smuove le montagne, e io non volevo fare nulla di tanto grandioso, ma soltanto tornare a casa.


Il giorno del mio compleanno mi alzai molto presto. Non era nemmeno l'ora del namaz mattutino. Compivo diciassette anni. Da piccola, a dieci o undici anni, sognavo di arrivare a diciassette nella convinzione che a quell'età si potesse fare qualsiasi cosa. Invece ero diventata una detenuta politica condannata all'ergastolo. Taraneh, che dormiva nel posto accanto al mio, mi toccò una spalla.


«Buon compleanno» sussurrò.


«Grazie. Come hai fatto a capire che ero sveglia?»


«Me ne sono accorta da come respiravi. Quando si dorme vicino a qualcuno da tanto tempo si capisce se dorme per davvero o se fa solo finta.»


Taraneh volle sapere se a casa mia si festeggiassero i compleanni e io le dissi che di solito i miei genitori mi compravano una torta e un piccolo regalo. Allora lei raccontò che la sua famiglia teneva moltissimo ai compleanni e li celebrava con grandi festeggiamenti e un mucchio di regali. Con le sue sorelle faceva una gara: si cucivano dei vestiti a vicenda, e ogni anno questi abiti erano sempre più straordinari.


«Marina, mi mancano» disse infine.


La abbracciai. «Tornerai a casa, e tutto sarà come prima.»


Dopo pranzo Taraneh, Sarah e alcune altre amiche mi vennero vicino, e Sarah mi diede un pezzo di stoffa ripiegato. Era una federa fatta di tanti pezzetti di stoffe diverse. Rimasi senza fiato: era bellissima. Ciascuna delle mie amiche aveva donato un pezzetto di un proprio indumento o di un foulard per realizzarla, e riconobbi ogni quadratino. Di solito cucivamo delle borsette da appendere ai ganci sotto la mensola della nostra stanza per riporvi i nostri piccoli oggetti personali. Io fui la prima a ricevere una federa.


Dopo la cena festeggiammo con una torta di compleanno fatta di pane e datteri, e io finsi di spegnere le candeline.


«Non hai espresso il desiderio!» disse Taraneh.


«Lo faccio ora: desidero che tutte noi passiamo il nostro prossimo compleanno a casa.»


Tutte applaudirono e acclamarono.


Due o tre giorni dopo, gli altoparlanti annunciarono che tutte le detenute del secondo piano dovevano mettersi lo hijab e radunarsi in cortile. In certi momenti della giornata potevamo uscire, ma non era mai obbligatorio, e perciò eravamo tutte preoccupate.


In cortile ci dissero di non oltrepassare una zona segnata nel mezzo. Quattro guardiani della rivoluzione armati uscirono dall'edificio scortando due ragazze. Una era una mia amica, una ragazza di diciannove anni che stava nella mia stanza, e l'altra era della numero 5. Portavano il chador. Le fecero distendere per terra, in mezzo al cortile, poi uno dei guardiani legò loro i polsi e le caviglie con della corda. Fu annunciato che le due ragazze avevano avuto una relazione omosessuale e quindi sarebbero state punite secondo la legge islamica. Eravamo tutte sconvolte e fummo costrette a guardare mentre i due guardiani le frustavano. Molte distolsero lo sguardo o nascosero il viso tra le mani e pregarono, ma io non riuscii a chiudere gli occhi. Vedevo le fruste sollevarsi, perdere i propri contorni, fendere l'aria con un sibilo acuto, penetrante.


Poi, un istante di silenzio in cui il cuore sembrava fermarsi, i polmoni smettere di respirare. Le due ragazze non gridavano, ma avrei voluto che lo facessero. I loro corpi gracili si scuotevano a ogni colpo. Ripensai al dolore terribile che avevo provato quando ero stata torturata io. Dopo trenta frustate furono slegate, fatte rialzare e condotte via, mentre noi fummo lasciate a riflettere su ciò che era accaduto alle nostre compagne. Si dice che il dolore fortifichi, ma prima bisogna pagarne il prezzo.


Un giorno toccava a me aiutare Sheida con il bucato. Lavare i pannolini di stoffa nell'acqua fredda non era impresa da poco. Li avevamo lavati la mattina e li avevamo appesi ad asciugare in cortile. Sebbene tutte dovessero aspettare un intero giorno per tornare fuori a ritirare i panni stesi, a Sheida era consentito uscire di sera.


Camminava pochi passi davanti a me. Era primavera, e lontano si sentivano cinguettare gli uccelli. Il sole era appena tramontato e il cielo era di un rosa brillante. I cinque fili per il bucato erano in fondo al cortile fissati alle sbarre delle finestre del primo piano che si fronteggiavano, con tanti indumenti colorati appesi. Sheida sparì dietro i panni stesi e io la seguii, scostando con le mani vestiti, pantaloni, gonne, camicie e chador. Poi la udii gridare.


«Marina! Corri! Prendi un paio di forbici! Presto!»


Feci in tempo a vedere che Sheida sorreggeva una persona appesa alle sbarre di una finestra. Corsi in segreteria e picchiai sulla porta. Sorella Maryam aprì.


«Forbici, presto! In cortile!»


Sorella Maryam agguantò un paio di forbici sulla scrivania e insieme corremmo da Sheida, che era rimasta ferma nella stessa posizione. Alla fine vidi che stava sorreggendo Sarah. Si era impiccata con una corta corda fatta di veli, legata alla sbarra orizzontale più alta di una finestra del primo piano. Se Sarah, che era piccola e magra, fosse stata solo un pochino più alta, non ci sarebbe riuscita. Sorella Maryam tagliò la corda. Sarah respirava, ma era cianotica e tremava in tutto il corpo. Rimanemmo con lei mentre sorella Maryam andava a chiamare l'infermiera. Sarah non era cosciente. Le parlammo e le accarezzammo il viso, ma non reagì.


Fu di nuovo portata via.


 


A ogni istante che passava perdevo un po’ di speranza. Era primavera e l'aria dolce portava la fragranza dei fiori appena sbocciati.


Oltre le mura di Evin, la vita continuava. Chissà se per Andre ero solo un ricordo lontano. Forse mi aveva dimenticata. Nella stanza delle visite avevano installato i telefoni, e così avevo chiesto di lui ai miei genitori. Mia madre mi aveva detto che andava sempre da loro e che mi pensava sempre, ma chissà, forse me l'aveva detto solo per non rattristarmi.


Ogni giorno era praticamente uguale al precedente, il che rendeva ancor più difficile sopportare la solitudine e la disperazione.


Si iniziava sempre con la preghiera del mattino, prima dell'alba. La colazione arrivava alle otto, e poi dovevamo seguire i programmi di educazione religiosa alla tv. Dopo potevamo leggere i libri messi a nostra disposizione, tutti sull'Islam, oppure passeggiare avanti e indietro per gli stretti corridoi. Non parlavamo quasi mai di politica, né delle nostre attività e simpatie politiche di quando eravamo libere, perché si diceva che alcune ragazze fossero informatrici.


Non ce n'erano molte, magari un paio per ogni stanza, ma non ci arrischiavamo a dire cose che non volevamo far sapere alle guardie.


Per un'ora circa ogni giorno potevamo andare nel piccolo cortile interno dell'edificio, e in quelle occasioni dovevamo indossare lo hijab perché c'erano sempre dei guardiani che andavano avanti e indietro sul tetto e ci sorvegliavano. Ma il chador non era obbligatorio; ci era consentito indossare il manteau e il velo. In cortile ci era consentito soltanto camminare in circolo o sederci vicino al muro a guardare la fetta di cielo sopra di noi. Quella piccola chiazza di azzurro era l'unica parte del mondo esterno che riuscivamo a vedere. Ci ricordava l'altro luogo dove avevamo vissuto, dov'erano le nostre case, il nostro luogo. Di solito mi sedevo vicino al muro con Taraneh. Appoggiate contro quella superficie scabra, guardavamo le nubi sparire dalla nostra vista, verso quell'altro luogo. Immaginavamo di essere sedute su una nuvola e di poterla guidare in tutte le direzioni, e ci raccontavamo a vicenda di tutti i luoghi familiari che potevamo vedere da lassù: le strade dei nostri quartieri, le nostre scuole e le case dove le nostre madri guardavano dalla finestra, domandandosi cosa accadeva alle figlie che erano state portate via.


«Come sei finita qui?» mi chiese un giorno Taraneh mentre ci crogiolavamo al tepore del sole primaverile, sognando casa. Non avevamo mai parlato dei fatti che avevano condotto al nostro arresto.


Il cortile era pieno di ragazze, che in gran parte camminavano tutt'attorno con passo piuttosto rapido, come se avessero una meta. I manteaux neri, blu scuro, marrone e grigi frusciavano e le ciabatte di gomma si spostavano rapide sul terreno lastricato. Mi resi conto che quello che vedevo dalla mia posizione era simile a ciò che vedeva un mendicante seduto al margine di una strada affollata, sebbene la mia prospettiva fosse assai più limitata e modesta. In quel momento il mio mondo era un edificio quadrato a cielo aperto, con due piani di finestre a sbarre che davano su stanze buie; un mondo di ragazze che camminavano in circolo, una sorta di racconto di fantascienza piuttosto strampalato: Il pianeta delle ragazze in prigione. Mi venne da sorridere.


«Cosa c'è?» chiese Taraneh.


«Quasi quasi sembriamo mendicanti sedute sul marciapiede di un altro pianeta.»


Anche Taraneh sorrise. «In confronto a noi un mendicante è un re.»


«Tutto è cominciato il giorno in cui ho abbandonato la lezione di calcolo...11.

 


 


All'inizio del 1980, Abol-hassan Bani Sadr divenne il primo presidente eletto dell'Iran. Prima della rivoluzione aveva militato per anni nel movimento di opposizione allo scià, era stato incarcerato due volte e poi era riuscito a fuggire in Francia e a unirsi all'ayatollah Khomeini. Si sperava che conducesse l'Iran alla democrazia.


Eppure, col lento procedere dell'anno scolastico 1979-80, mi sembrava di sprofondare sempre più nelle tenebre. Tutto gradualmente cambiò in peggio. Giovani donne fanatiche e prive d'esperienza sostituirono una dopo l'altra la gran parte delle nostre insegnanti.


Lo hijab divenne obbligatorio e le donne dovettero indossare lunghe vesti di colore scuro e coprirsi la testa con il velo, oppure portare il chador. Le organizzazioni politiche che si erano opposte al governo islamico o lo avevano anche solo criticato furono dichiarate fuorilegge. Indossare cravatte, profumi, cosmetici o smalto per le unghie fu dichiarato «satanico» e quindi passibile di una punizione severa. Tutti i giorni, prima delle lezioni, gli studenti dovevano mettersi in fila e gridare slogan pieni d'odio come «Morte all'America» o «Morte a Israele».


Tutte le mattine la nostra preside, khanum Mahmudi, e la vicepreside, khanum Kheirkah, si appostavano all'ingresso della scuola con una pezza e un secchio d'acqua e ispezionavano le studentesse.


Se vedevano una ragazza truccata, le sfregavano il viso fino a farle male. Una volta, durante questo controllo, khanum Mahmudi prese da parte una mia cara amica, Nasim, e le disse che le sue sopracciglia erano troppo perfette e che doveva essersele sistemate.


Nasim si mise a piangere e replicò che non le aveva mai toccate, ma la preside la chiamò sgualdrina. Nasim era bella di natura, e molte di noi la difesero e testimoniarono che le sue sopracciglia erano sempre state così. Nessuno le chiese scusa.


Giorno dopo giorno, dentro di me crescevano la collera e la frustrazione.


Quasi tutte le lezioni mi erano indigeste, e quelle di calcolo in particolare. La nuova professoressa era una giovane guardiana della rivoluzione, che però non era qualificata per insegnare quella materia. Dedicava gran parte delle sue lezioni a fare propaganda al governo islamico, parlando dell'Islam e della società islamica perfetta che resisteva all'influenza dell'Occidente e alla corruzione morale. Un giorno che non la finiva più di spiegare quali grandi cose Khomeini aveva fatto per il paese, alzai la mano.


«Sì?»


«Non vorrei essere maleducata, signorina, ma non potremmo tornare all'argomento principale?»


L'insegnante alzò un sopracciglio e disse, in tono di sfida: «Se non ti piace la lezione, puoi uscire».


Tutte mi guardavano. Presi i miei libri e me ne andai. Mentre camminavo lungo il corridoio, udii lo scalpiccio di altri passi dietro di me, così mi voltai e mi accorsi che quasi tutte le mie compagne mi avevano seguita. Eravamo una trentina.


All'intervallo del pranzo, ormai la scuola era piombata nel caos.


Si diceva che avevo dato il via a uno sciopero. Nel pomeriggio quasi tutte le lezioni furono cancellate perché circa il novanta percento delle studentesse era in cortile e si rifiutava di tornare in classe. Khanum Mahmudi uscì con un megafono e ci intimò di rientrare, ma nessuno le diede retta. Disse che avrebbe chiamato i nostri genitori, ma non ci muovemmo. Poi minacciò di espellerci tutte, ma replicammo di fare pure. Alla fine le studentesse scelsero me e altre due compagne per andare a parlare con la preside.


La informammo che saremmo tornate in classe solo se le nostre professoresse ci avessero garantito di attenersi all'insegnamento delle rispettive materie, lasciando stare la politica.


Quel giorno, quando andai a casa mia madre mi chiamò. Era strano; di solito, non mi parlava fino all'ora di cena. Era in cucina, a tritare prezzemolo.


Mi affacciai sulla soglia. «Sì, maman?»


«Ha telefonato la tua preside.» Non mi rivolse nemmeno un'occhiata e continuò a guardare il tagliere. Lavorava con sveltezza e precisione. Aveva le mani tutte verdi, cosparse di prezzemolo tritato.


«Cosa credi di fare?» domandò, lanciandomi una rapida occhiata, tagliente come il coltello che stava usando.


Le raccontai quello che era accaduto.


«Ti conviene sistemarla, questa storia» riprese. «Fà in modo che non mi chiamino di nuovo. Adattati. Questo governo non durerà a lungo. E adesso và a fare i compiti.»


Andai in camera mia e chiusi la porta, sorpresa di essermela cavata così a buon mercato. Probabilmente il nuovo governo non piaceva nemmeno a lei, e questo era il motivo per cui la sua reazione era stata meno violenta del previsto.


Lo sciopero studentesco si protrasse per due giorni. Andavamo a scuola, ma senza entrare in classe. Trascorrevamo le ore passeggiando per il cortile oppure stavamo sedute a gruppetti, chiacchierando fra di noi. Le nostre conversazioni riguardavano principalmente ciò a cui avevamo assistito negli ultimi mesi. Era difficile per noi credere che la vita fosse cambiata così drammaticamente: solo un anno prima non avremmo mai creduto che il nostro modo di vestire potesse metterci in pericolo di vita, o che avremmo fatto sciopero per imparare la matematica.


Al terzo giorno di sciopero, khanum Mahmudi chiamò le rappresentanti delle studentesse nel suo ufficio e, rossa in viso per la rabbia, disse che quello era l'ultimo avvertimento: se non fossimo tornate in classe, non avrebbe avuto altra scelta se non quella di chiamare i guardiani della rivoluzione e mettere la faccenda nelle loro mani. Senza dubbio i guardiani non sarebbero stati molto indulgenti di fronte a un fatto così grave e qualcuno poteva finire male. Ci avvertì che stavamo agendo contro il governo islamico e che la pena prevista era la morte. Saremmo dovute ritornare in classe entro un'ora.


Aveva trovato l'argomento giusto. I guardiani della rivoluzione avevano una cattiva reputazione: da alcuni mesi a quella parte avevano arrestato centinaia di persone, incriminate perché antirivoluzionarie, antislamiche, antikhomeiniste, e di molte non si era più saputo nulla.


Lo sciopero finì.


I guardiani della rivoluzione non erano gli unici da cui bisognava guardarsi; c'erano anche gli hezbollah, gruppi di civili fanatici armati di coltelli e bastoni, che prendevano di mira ogni tipo di protesta pubblica. Erano ovunque e potevano attivarsi in pochi minuti. Se la prendevano specialmente con le donne che non indossavano correttamente lo hijab. Molte erano state aggredite e picchiate perché portavano il rossetto o perché qualche ciocca di capelli era sfuggita al velo.


Un paio di mesi dopo lo sciopero khanum Bahman, la mia professoressa di chimica, mi chiese di fermarmi dopo la lezione: fu allora che mi rivelò di aver visto l'elenco di nomi sulla scrivania di khanum Mahmudi. Khanum Bahman era una delle poche professoresse che avevano insegnato nella nostra scuola anche prima della rivoluzione, e mi conosceva molto bene. Mentre parlava, teneva d'occhio la porta per controllare che non entrasse nessuno e la sua voce era quasi un sussurro, tanto che dovetti chinarmi verso di lei per poterla udire.


Per qualche motivo, la cosa non mi sorprese. Sapevo di essermi messa nei guai per tutto quello che avevo detto e fatto. La mia avversione verso le nuove leggi islamiche non era un segreto, e a quei tempi parlare liberamente aveva un prezzo, ma, per quanto fossi cosciente di tutto ciò, i pericoli mi sembravano vaghi, lontani.


In qualche modo credevo che le cose brutte accadessero soltanto agli altri.


Ringraziai khanum Bahman per avermi rivelato l'esistenza di quell'elenco. Mi consigliò di lasciare il paese. Mi chiese se avessi parenti all'estero e io le spiegai che i miei non erano abbastanza ricchi da permettersi di mandarmi via. Allora mi interruppe, alzando la voce.


«Marina, forse non capisci. È una questione di vita o di morte.


Se io fossi nei panni di tua madre ti tirerei fuori da qui, anche a costo di patire la fame» esclamò con gli occhi pieni di lacrime.


Khanum Bahman mi piaceva e non volevo darle altre preoccupazioni, così le risposi che avrei parlato con i miei genitori. Ma in realtà non intendevo farlo veramente; come potevo dire loro che presto mi avrebbero arrestata?


Mio fratello e sua moglie poco dopo la rivoluzione avevano lasciato il paese per il Canada. Avevano capito che per loro non c'era futuro nella Repubblica islamica. Poco dopo la loro partenza il governo aveva negato agli iraniani il diritto di emigrare all'estero.


Mi piaceva il nome «Canada»; faceva pensare a una terra remota e fredda, ma pacifica. Mio fratello e sua moglie erano fortunati: potevano condurre una vita normale, preoccuparsi di cose normali.


I miei genitori avevano pensato di mandarmi da loro, ma non erano riusciti a organizzare la cosa. Dovevo rimanere e accettare il destino.


A casa, quel pomeriggio, guardavo la strada dal mio balcone. Il nuovo regime non aveva portato che distruzione e violenza. La scuola, che un tempo era il momento migliore delle mie giornate, si era trasformata in una specie di inferno, e avevo sentito che il governo voleva chiudere tutte le università per riformarle secondo i dettami della «Rivoluzione culturale islamica». E Arash era morto. Non mi rimaneva più nulla.


 


Quella del 1980 fu un'estate per lo più tranquilla; la lontananza da scuola e il mare mi rasserenarono. In luglio Aram e i suoi genitori vennero per due settimane a casa della zia. Dato che mi sentivo molto sola, non vedevo l'ora di rivederli, ma quando arrivarono mi ritrovai a pensare ad Arash avvertendo ancora di più la sua mancanza.


Io e Aram di solito stavamo in casa a giocare a carte o al suo gioco preferito, Master Mind. Qualche volta andavamo a passeggiare sulla spiaggia ma non potevamo nuotare insieme perché adesso alle donne non era consentito indossare il costume da bagno in pubblico. Molti dei nostri amici che avevano una casa nella zona, fra cui Neda, avevano lasciato il paese. Incontrammo alcuni di quelli rimasti, ma avevamo tutti paura dei guardiani della rivoluzione e degli attivisti dei comitati islamici, che erano ovunque e non gradivano vedere ragazzi e ragazze insieme; secondo le nuove leggi del paese, era una cosa immorale.


 


Nel settembre 1980 scoppiò la guerra Iran- Iraq. Ero già tornata in città e mi trovavo a casa di un'amica. Sedute in cucina, prendevamo il tè coi biscotti di riso e lei mi stava mostrando le scarpe da ginnastica Puma che si era appena comperata, bianche con una striscia rossa ai lati. A un tratto, due boati interruppero la nostra conversazione. Sembravano esplosioni. Eravamo sole in casa.


Altri boati.


Guardammo dalla finestra, ma non si vedeva nulla. La mia amica abitava al quinto e ultimo piano di un palazzo vicino a piazza Jaleh. Decidemmo di andare subito sul tetto e sul pianerottolo ci imbattemmo in alcuni vicini che avevano avuto la stessa idea.


Dal tetto si vedeva bene la città: era una giornata di sole senza nuvole e Teheran era avvolta da una leggerissima foschia. Sentimmo il rombo di alcuni aeroplani.


«Laggiù!» esclamò qualcuno.


Alcuni chilometri più a sud vedemmo due caccia sfrecciare verso est. A ovest, dall'orizzonte si levavano colonne di fumo. Uno dei vicini aveva portato una radio: presto un giornalista annunciò in tono concitato che dei MIG iracheni avevano bombardato l'aeroporto di Teheran. Alcune divisioni dell'esercito iracheno avevano attraversato il confine e invaso l'Iran. Eravamo in guerra.


Avevo letto la storia delle due Guerre mondiali e della Guerra di secessione americana e sapevo che le bombe avevano raso al suolo intere città, lasciando solo macerie e cadaveri. Ma erano guerre che stavano nei libri e, anche se si trattava di storie vere, tutto era accaduto molti anni prima. Adesso il mondo era diverso.


Nessuno poteva distruggere intere città e uccidere migliaia di persone.


«Gliela faremo vedere!» L'uomo con la radio agitò il pugno. «Conquisteremo Baghdad e lapideremo Saddam! Bastardi!»


Tutti annuirono.


A casa trovai mia madre che attaccava del nastro adesivo di carta sulle finestre formando delle grandi X per evitare che, in caso di bombardamento, i vetri andassero in mille pezzi. Mi spiegò che alla radio avevano consigliato di prendere delle precauzioni, assicurando nel contempo che la guerra sarebbe durata solo pochi giorni o qualche settimana al massimo, e che il nostro esercito avrebbe sconfitto gli iracheni in un baleno. Aveva anche comperato del cartone nero per oscurare le finestre la sera, in modo che i MIG non vedessero le luci e le usassero come bersaglio. Io non ero troppo preoccupata. Non poteva essere così grave.


Passarono i giorni. Le sirene dell'allarme antiaereo suonavano un paio di volte al giorno, ma udimmo pochissime esplosioni. I canali radiotelevisivi trasmettevano marce militari e annunciavano che l'aviazione iraniana aveva attaccato Baghdad e altre città dell'Iraq, e che avevamo ricacciato indietro gli iracheni. Tutti gli uomini, giovani, anziani e persino adolescenti, venivano incitati ad arruolarsi e a diventare martiri; in fondo, ricordò il governo, il martirio era il sistema rapido e garantito per andare in paradiso. Quella era la guerra del bene contro il male. La città di Khorramshahr, che si trovava vicino al confine con l'Iraq, era stata quasi completamente distrutta e poi invasa.


Presto tutte le frontiere furono chiuse e fu proibito l'espatrio, a meno che non si disponesse di un permesso speciale. Eppure tutti i giorni c'era gente che, dopo aver versato ingenti somme di denaro ai trafficanti di uomini, lasciava l'Iran per evitare il servizio nell'esercito o l'arresto da parte dei guardiani della rivoluzione.


Passavano in Turchia o in Pakistan, a rischio della vita.


Sul finire dell'autunno seppi dalle mie amiche di scuola che ci sarebbe stata una manifestazione di protesta e, pur cosciente del pericolo, decisi ugualmente di andarci perché mi sembrava fosse giusto. Il concentramento era previsto alle quattro del pomeriggio in piazza Ferdosi, a dieci minuti a piedi da scuola.


Il giorno stabilito, dopo il suono della campanella, Gita, Sarah e io uscimmo e vedemmo centinaia di persone per strada, soprattutto ragazzi e ragazze. Ci unimmo alla folla in cammino verso piazza Ferdosi. Tutti erano sul chi vive e si guardavano intorno nella certezza che prima o poi i guardiani della rivoluzione, gli hezbollah o entrambi avrebbero attaccato. Il mio cuore iniziò a galoppare.


La strada era un fiume brulicante, pulsante. Notai che i negozianti chiudevano bottega e se ne andavano. In piazza Ferdosi, una ragazza col megafono raccontò alla folla dei violenti attacchi degli hezbollah contro le donne: «Per quanto tempo ancora lasceremo che criminali e assassini che si nascondono dietro il nome di Dio aggrediscano le nostre madri, le nostre sorelle, le nostre amiche, e la facciano franca?». Vicino a noi c'era un'anziana donna che portava un foglio di cartoncino bianco. Si era legata alla vita il chador bianco, lasciando scoperti i capelli radi e grigi. Al centro del foglio c'era la fotografia di una ragazza dall'ampio sorriso e sotto c'era scritto: «Uccisa a Evin».


A un tratto udimmo una scarica di colpi forti come tuoni. La gente si mise a correre.


«I tetti!» gridò qualcuno.


Guardai in alto e vidi che c'erano guardiani della rivoluzione dappertutto. Un ragazzo vicino a noi cadde al suolo, gemendo e premendosi le mani sull'addome. Una sottile linea rossa gli spuntò tra le dita, gli colò lungo la mano gocciolando per terra. Rimasi a fissarlo, senza riuscire a muovermi. La gente urlava e correva in ogni direzione. L'aria era piena di fumo che mi faceva bruciare gli occhi. Mi guardai in giro: avevo perso le mie amiche, ma non potevo abbandonare il ferito. Mi inginocchiai accanto a lui, lo guardai negli occhi e vidi la rigidità della morte. Anche Arash era morto così, da solo. Da qualche parte c'era qualcuno che voleva bene a quel ragazzo e che aspettava il suo ritorno a casa.


Mi sentii chiamare da una voce familiare. «Marina!»


Era Gita, che mi prese per mano e mi trascinò via. L'aria era densa per via dei gas lacrimogeni. Uomini barbuti in abiti civili menavano fendenti con bastoni di legno, aggredendo la folla che scappava. La gente urlava. Fuggimmo attraverso quel mare di follia.


Quando arrivai a casa, mi chiusi in bagno. Avrei preferito restare uccisa. Non volevo più vivere. Che senso aveva tutta quella sofferenza?


Andai in camera dei miei genitori e aprii il cassetto delle medicine di mia madre, pieno di flaconi e scatole di ogni genere: sciroppi contro l'influenza, antiacidi, aspirina, analgesici. Frugai finché trovai un flacone quasi pieno di sonniferi e tornai in bagno.


La morte in una boccetta. Mi bastava aprire il coperchio e ingoiare le pillole. L'angelo sarebbe venuto a prendermi, e io gli avrei detto che avevo visto morire troppa gente. Riempii un bicchiere d'acqua e aprii il contenitore, ma dentro di me sapevo che prendere quelle pillole era sbagliato. Che cosa sarebbe accaduto se tutti quelli che credevano nella bontà avessero scelto il suicidio perché nel mondo c'era troppa sofferenza? Chiusi gli occhi e vidi l'angelo.


Volevo che nonna, Arash e Irena fossero fieri di me, volevo fare qualcosa della mia vita, qualcosa di buono, di valido. Avevo visto come la vita di un ragazzo poteva scorrere via in una pozza di sangue che s'allargava per terra. Non potevo nascondermi; la morte non era un rifugio. Chiusi la boccetta e la rimisi nel cassetto di mia madre. Forse potevo fare qualcosa. Corsi a comperare un cartoncino bianco e vi scrissi la storia di come i guardiani della rivoluzione avevano assalito dei dimostranti pacifici.


Il giorno dopo arrivai a scuola in anticipo. I corridoi erano vuoti. Affissi il mio manifesto a una parete e mi misi lì davanti, fingendo di leggerlo. Nel giro di mezz'ora arrivarono le altre ragazze e presto si formò una folla che cercava di leggere la storia. Khanum Mahmudi non ci impiegò molto a raggiungerci. Percorse il corridoio a passi rapidi e furenti, tutta rossa per la rabbia.


«Spostatevi!» sbraitò.


Ci spostammo. Lesse qualche riga e pretese di sapere chi ne fosse l'autrice. Quando non ottenne risposta, strappò il manifesto dalla parete esclamando: «Sono tutte bugie!».


«Non è vero!» protestai. «Io c'ero!»


«Allora l'hai scritto tu...»


Le dissi che i guardiani della rivoluzione avevano aperto il fuoco su persone innocenti.


«Quali innocenti? Solo gli antirivoluzionari e i nemici di Dio e dell'Islam vanno a adunate come quella. Sei nei guai, e grossi!» disse, puntandomi un dito contro. Poi si voltò e se ne andò. Ero furiosa. Come osava darmi della bugiarda?


Pochi giorni più tardi io e le mie amiche fondammo un giornale scolastico. Ogni settimana scrivevamo qualche breve articolo su questioni di politica quotidiana che ci toccavano direttamente, lo copiavamo a mano e lo facevamo circolare a scuola.


Il governo aveva chiuso alcuni quotidiani indipendenti, accusando i giornalisti di essere nemici della rivoluzione islamica.


Sembrava che il paese stesse lentamente sprofondando sottacqua: ogni giorno che passava, respirare diventava sempre più difficile.


Ma eravamo ancora ottimisti, convinti che la rivoluzione non potesse annegare tutti.


Da quando era scoppiata la guerra contro l'Iraq, il regime islamico la usava per giustificare tutto ciò che non andava. I prezzi erano saliti alle stelle. La carne, i latticini, il latte in polvere per i neonati e l'olio erano razionati. Di solito mia madre andava all'emporio alle cinque del mattino, faceva la fila per prendere la nostra razione e tornava verso mezzogiorno. Sul mercato nero si trovava quasi tutto, ma a prezzi così cari che le famiglie a basso e medio reddito non potevano permettersi nulla, e le razioni erano molto scarse.


A Teheran la guerra sembrava lontana; adesso le sirene non suonavano quasi mai, e quando suonavano poi non accadeva nulla.


Invece, le città vicine al confine con l'Iraq pagavano un prezzo elevatissimo, e il numero delle vittime cresceva di giorno in giorno. I giornali pubblicavano quotidianamente decine di fotografie di soldati uccisi al fronte e il governo faceva del suo meglio per sfruttare l'emotività della gente e indurla a cercar vendetta. Dagli altoparlanti delle moschee i mullah urlavano che la guerra non rappresentava solo la difesa dell'Iran ma quella dell'Islam stesso, e che Saddam non era un vero musulmano, ma un seguace di Satana. Una dopo l'altra, tutte le cose che amavo venivano proibite. I romanzi occidentali, mia unica distrazione e consolazione, furono dichiarati «satanici», e trovarli diventò un'impresa. Poi, all'inizio della primavera del 1981, khanum Mahmudi mi disse che dovevo frequentare le lezioni di religione. In passato le minoranze religiose erano sempre state esonerate dall'ora di islamismo o zoroastrismo, invece adesso avrei dovuto seguire le lezioni di religione islamica, oppure andare al catechismo nella mia chiesa e riferire a scuola i voti che avrei conseguito. Sebbene avessi già partecipato volontariamente alle lezioni di islamismo a scuola, non volli farlo di nuovo: l'istruzione islamica che avevo ricevuto era sufficiente.


Quanto alla mia chiesa, studiare lì sarebbe stato pratico e corretto, ma nel mio caso era un problema perché la chiesa russa ortodossa di Teheran da tempo non aveva più un sacerdote. Mia madre chiamò allora una sua amica, cristiana praticante, che mi indirizzò a una chiesa cattolica romana. Sebbene si trovasse soltanto a un paio di isolati da casa nostra non l'avevo mai notata prima, perché era un edificio grigio e anonimo come gli uffici governativi e le ambasciate straniere della zona, senza vetrate istoriate visibili dalla strada. I sacerdoti accettarono di aiutarmi nello studio e di darmi una pagella.


Così, una volta alla settimana andavo al catechismo. Dovevo suonare il citofono accanto alla porta che, dal cortile della chiesa, dava sulla strada, poi mi facevano entrare, chiudevo la porta e percorrevo uno stretto passaggio asfaltato, incuneato fra la chiesa e i muri di mattoni che cintavano il cortile. La sacrestia e la residenza dei sacerdoti si trovavano in un edificio a parte, adiacente alla chiesa. Il sacerdote mi accoglieva con cordialità; leggevamo la Bibbia e ne discutevamo. Dopo la lezione aprivo il portone di legno che dal cortile dava accesso alla chiesa. Cigolava sempre, e quel suono attraversava il silenzio profondo, rimbalzando lungo le mura alte e curve. Amavo sedermi su una panca e osservare l'immagine incorniciata di Maria: la sua tunica lunga, rosa, il mantello azzurro che le copriva i capelli, il sorriso sereno sul volto. Le fiammelle delle candele guizzavano davanti a lei. Lei sapeva cosa voleva dire aver perso qualcuno. Aveva provato quel dolore. Lì, non so perché, mi sentivo a casa.

12.

 


 


Il primo maggio 1982, nelle prime ore del pomeriggio dall'altoparlante chiamarono in segreteria Taraneh e altre cinque ragazze.


Nel carcere calò il silenzio. Tutte sapevano che le altre cinque erano condannate a morte, ma solo io sapevo di Taraneh, che come sempre era seduta in un angolo a leggere il Corano. Nella nostra stanza era l'unica a essere stata chiamata. Tutte si girarono a guardarla. Lei si alzò come se intendesse fare due passi per sgranchirsi le gambe. Feci per avvicinarmi a lei, ma scosse la testa. Prese dal gancio la sua borsetta, e dalla mensola la sua borsa più grande e me le mise tra le braccia.


«Lo sai, non ho molto. È tutto qui. Trova il modo di farlo avere ai miei genitori.»


Feci cenno di sì. Indossò il chador e uscì. Andava incontro alla morte, lo sapevo. Anche se avessi urlato fino a scorticarmi la gola, se avessi battuto la testa contro il muro fino a spaccarmi il cranio, non avrei potuto salvarla. Con le borse di Taraneh fra le braccia, rimasi a lungo immobile in mezzo alla stanza, finché le gambe non mi ressero più. Non dicemmo più una parola per tutto il giorno: restammo in silenzio come se così facendo potessimo salvarle la vita, compiere un miracolo. Aspettammo, pregammo e piangemmo, muovendo le labbra senza emettere un suono. In quel silenzio il giorno giunse al termine, l'orizzonte divenne tutto rosso e viola e la notte s'insinuò nell'aria. Ci aspettavamo di udire gli spari, e presto li sentimmo, e furono come nuvole di vetro che precipitavano giù dal cielo.

13.

 


 


Circa quattro mesi e mezzo dopo il mio arresto, fui chiamata all'altoparlante.


«Marina Moradi-Bakht, mettiti lo hijab e vieni in segreteria.»


Non sapevo perché mi cercassero. Forse Hamehd aveva sentito di nuovo la mia mancanza. Mi misi in testa lo scialle e andai.


Sorella Maryam mi accolse con un sorriso. «Fratello Ali è tornato» disse. «Vuole vederti.»


Mi bendai e la seguii in un altro edificio, dove attesi all'ingresso.


Respirare era come sentirmi delle pietre in gola.


«Vieni con me, Marina» disse la voce di Ali, e io gli obbedii.


Chiuse la porta, mi disse di sedermi e di togliermi la benda. Mi sembrò più alto di come me lo ricordavo, ma forse dipendeva dal fatto che era un po’ dimagrito.


Mi guardai attorno. Ci trovavamo in una stanza senza finestre, e non c'erano letti da tortura. A una parete era appeso il ritratto dell'ayatollah Khomeini che, a detta di Ali, aveva ordinato di risparmiarmi la vita. Le sopracciglia nere dell'ayatollah si toccavano in un'espressione vivamente corrucciata, e i suoi occhi mi fissavano incolleriti. Aveva l'aria di un vecchio molto cattivo. Accanto alla sua fotografia c'era quella del presidente, l'ayatollah Khamenei che, al confronto, aveva un'espressione dolce.


Zoppicando Ali andò a prendere una sedia dalla scrivania di metallo e mi scrutò. Mi ero quasi dimenticata la sua faccia. Aveva una nuova cicatrice sulla guancia destra.


«Stai molto meglio dall'ultima volta che ti ho vista» sorrise. «Come ti è andata?»


«Abbastanza bene. E a te?»


«Ti interessa davvero o è solo una questione di cortesia?»


«Mi interessa» replicai, anche se in realtà mi interessava soltanto uscire da lì. Volevo tornare di corsa al 246.


Ali mi raccontò di essere stato quattro mesi al fronte, a combattere contro gli iracheni, e di aver dovuto ritornare a Teheran a causa di una ferita alla gamba. Gli dissi che mi dispiaceva, ed era vero. Non gli avevo mai augurato niente di male, né a lui né a nessun altro.


Mentre mi osservava con attenzione il suo sorriso lasciò il posto a un'espressione seria.


«Marina, devo parlarti di una cosa importante, e desidero che mi ascolti senza interrompermi finché non avrò finito.»


Perplessa, assentii. Mi disse che il principale motivo per cui si era arruolato era che voleva allontanarsi da me. Aveva pensato che, se non mi avesse più vista, i suoi sentimenti sarebbero mutati, ma non era andata così. Perché aveva provato dei sentimenti per me fin dal primo momento in cui mi aveva incontrata e, nonostante avesse tentato di ignorarli, non avevano fatto che rafforzarsi. La sera in cui mi aveva accompagnata al bagno aveva pensato che doveva salvarmi a qualsiasi costo, e quel pensiero l'aveva spaventato.


Vedendo che non uscivo più, mi aveva chiamata e, dato che non rispondevo, era entrato per vedere che cos'era successo trovandomi riversa a terra. Per un attimo aveva creduto che fossi morta, ma dopo avermi tastato il polso aveva capito che ero svenuta. Sapeva che ero sulla lista dei condannati a morte e che a Hamehd non piacevo. Aveva cercato di farlo ragionare, ma Hamehd non l'aveva voluto ascoltare. Perciò gli restava solo un modo per salvarmi la vita: doveva rivolgersi all'ayatollah Khomeini.


Il padre di Ali era un caro amico dell'ayatollah da molti anni. Così Ali era andato dall'Imam e lo aveva pregato di salvarmi la vita, spiegandogli che ero troppo giovane e bisognava darmi una possibilità di cambiare. Secondo l'ayatollah le accuse a mio carico erano abbastanza gravi da farmi meritare la morte, ma Ali aveva insistito e alla fine l'ayatollah aveva acconsentito a ridurre la mia pena all'ergastolo.


Ali era corso a Evin e aveva chiesto alle guardie dove fossi, e loro gli avevano detto che Hamehd mi aveva portata via per giustiziarmi.


Mi disse che aveva pregato mentre si precipitava verso il luogo dell'esecuzione.


Mi sentii invadere da un panico crescente.


Dopo aver parlato con l'ayatollah, Ali aveva deciso di mandarmi al 246 e di allontanarsi da Teheran. Dato che ero stata perdonata dall'Imam, Hamehd non avrebbe più potuto farmi del male.


Ali aveva cercato di dimenticarmi, ma si era ritrovato a pensare a me continuamente, ed era contento di essere stato ferito perché ciò gli aveva dato un motivo per tornare. Suo padre gli aveva sempre detto che, prima di prendere una decisione importante, bisognava dormirci sopra e riflettere molto bene. Perciò aveva dormito sopra l'idea di sposarmi, ci aveva riflettuto per più di quattro mesi e aveva deciso.


«Voglio sposarti, Marina, e ti prometto che sarò un buon marito e che mi prenderò cura di te. Non mi dare una risposta adesso.


Voglio che tu ci pensi.»


Cercai di comprendere il senso delle sue parole, ma non ci riuscii.


Era del tutto inconcepibile. Come faceva anche solo a pensare di sposarmi? Io non volevo. Non volevo nemmeno stare nella stessa stanza con lui.


«Ali, devi capire che io non posso sposarti» dissi con un tremito nella voce.


«Perché?»


«Per molte ragioni!»


«Sono pronto ad ascoltarle. Non dimenticare che sono mesi che ci rifletto, ma non si sa mai: magari ho dimenticato qualcosa.


Dimmi pure le tue ragioni.»


«Io non ti amo, e non sono destinata a te.»


«Non mi aspetto che tu mi ami, adesso. L'amore potrà arrivare con il tempo, dopo che mi avrai dato una possibilità. E poi hai detto che non sei destinata a me. Quindi, a chi sei destinata? Ad Andre?»


Trasalii. Come faceva a sapere di Andre?


Mi raccontò che una volta mi era rimasto seduto accanto mentre dormivo, e nel sonno avevo pronunciato il nome di Andre.


Aveva fatto qualche ricerca, e quindi sapeva perfettamente chi era e dove abitava. Sebbene Andre non fosse schedato, Ali disse che in caso di necessità poteva far preparare un dossier su di lui.


Sapevo che qualche volta parlavo nel sonno, e tuttavia mi era difficile credergli. Forse prima del mio arresto ero stata pedinata, e così avevano saputo di Andre. L'avevo trascinato dentro questa storia. Che cosa potevo fare?


«Vuoi che anche lui finisca qui dentro?» continuò Ali. «Su un letto di tortura, magari? Lasciagli vivere la sua vita e accetta il fatto che la tua è cambiata completamente da quando sei stata arrestata.


E non dimenticare i tuoi genitori: sono certo che non vuoi metterli in pericolo. Perché dovrebbero pagare per causa tua? Ti giuro che ti renderò felice. Imparerai ad amarmi.»


Replicai che non aveva alcun diritto di farmi questo, ma lui disse che ce l'aveva. Avevo dimenticato che mi aveva salvata da una morte certa? In quanto nemica dell'Islam, io di diritti non ne avevo. Era convinto di farmi un favore. Disse che non sapevo che cosa fosse meglio per me.


Cercai disperatamente una via di fuga. La mia morte avrebbe risolto molti problemi.


«Ti conosco troppo bene» riprese, e la sua voce si frappose tra me e i miei pensieri. «So benissimo cosa stai pensando in questo momento. Stai pensando al suicidio. Te lo leggo negli occhi, ma so anche che non lo farai. Tu non sei il tipo da arrendersi: non è nella tua natura. Sei una combattente, proprio come me. Lasciati il passato alle spalle, e potremo avere una vita meravigliosa insieme. E, giusto per essere sicuri, sappi che se ti fai del male di proposito, farò mettere a morte il tuo Andre. Pagherà lui per te.»


Come potevo mai avere una vita «meravigliosa» con lui? Stava minacciando di uccidere Andre e arrestare mio padre e mia madre.


«Ti do tre giorni di tempo per rifletterci, ma ricordati di non fare sciocchezze. Tutto quello che ho detto, lo penso veramente.»

Avevo messo in pericolo Andre e i miei genitori, e dovevo fare qualsiasi cosa per proteggerli. Dovevo ricordare che mi avevano dato l'ergastolo: per me non c'era via d'uscita. Per poco non rimpiansi di aver conosciuto Andre.

14.

 


 


Avevo conosciuto Andre la prima volta che ero andata a messa nella mia nuova chiesa. Quel giorno ero entrata in sacrestia per scambiare due chiacchiere con i sacerdoti e, mentre li aspettavo, era arrivato Andre, l'organista. Già durante la funzione, sebbene fossi seduta in fondo alla chiesa, avevo notato che era davvero bello, ma solo in quel momento mi resi conto di trovarmi davanti al David di Michelangelo con i vestiti addosso. Aveva un volto ovale, con un lungo naso aristocratico, i riccioli dorati che gli ricadevano sulla fronte ampia, e occhi del colore del Caspio in un giorno di calma. Era un ragazzo splendido. Arrossendo, abbassai lo sguardo sperando che non mi si leggesse in faccia quel che pensavo.


Ci presentammo.


La chiesa serviva una congregazione piccolissima, e quindi ogni nuovo arrivato suscitava grande curiosità. Mi chiese se andavo all'università, e quando gli dissi che ero in seconda liceo diventò tutto rosso. Gli dissi che ero di origine russa, e lui mi raccontò che studiava ingegneria elettronica all'università di Teheran, ma dal momento che tutte le università erano state chiuse a causa della Rivoluzione culturale islamica, al momento insegnava inglese, fisica e matematica in una scuola armena.


Con il procedere della conversazione mi sentii attraversare da un'ondata di euforia. Lui era pacato, sicuro di sé. Gli dissi che suonava bene, e replicò che era solo un principiante. Dopo la rivoluzione, quando il governo era subentrato alla Chiesa nella gestione del collegio maschile, molti tra i sacerdoti che vi avevano insegnato erano stati accusati di spionaggio ed espulsi dal paese. Andre aveva frequentato l'istituto per dodici anni e non aveva mai suonato nessuno strumento musicale ma, prima di andarsene, il sacerdote che da lungo tempo suonava l'organo gli aveva dato qualche lezione di musica. Così, alla fine Andre l'aveva sostituito.


«Dovresti venire a cantare nel nostro coro» mi disse. «Stiamo cercando persone nuove.»


Ribattei che non sapevo cantare.


«Perché non provi? È divertente. Ci troviamo questo mercoledì alle sei. Se non hai impegni particolari...»


«Non ne ho.»


«Va bene, allora ci vediamo mercoledì.»


Si alzò e mi strinse la mano.


Quando rimasi di nuovo sola, mi ricordai di riprendere fiato.


 


Aram mi accompagnava ancora a casa almeno una volta alla settimana.


Era all'ultimo anno delle superiori.


«Ci stiamo organizzando per lasciare l'Iran entro qualche mese; speriamo di andare negli Stati Uniti» mi disse in un caldo, assolato pomeriggio di primavera. Prima o poi quel giorno doveva arrivare, lo sapevo. Eravamo amici da più di due anni e non volevo perderlo, ma sapevo che per lui era meglio andarsene e iniziare una nuova vita lontano da tutti i ricordi dolorosi che condividevamo.


Gli dissi che ero felice per lui. Si fermò a guardarmi; aveva le lacrime agli occhi. Disse che mi avrebbe voluto portare con sé, che era preoccupato per la mia sicurezza. Molti ragazzi della sua scuola erano stati arrestati e incarcerati a Evin, e aveva sentito che nessuno usciva vivo da lì. Replicai che secondo me stava diventando paranoico, ma lui ribatté che la paranoia non c'entrava.


«Aram, non c'è ragione di preoccuparsi» insistetti.


«Anche Arash diceva sempre così... Ehi, aspetta un momento; mi è appena venuto in mente che... no, non è possibile... però...»


Si bloccò nel mezzo dello stretto marciapiede, davanti alla bottega di un ortolano. Casse di frutta e verdura ostruivano il passaggio.


«Non è che vuoi ucciderti, vero?» chiese di punto in bianco, sull'orlo del pianto.


Gli dissi che non avevo alcuna intenzione di farlo.


Stanca di attendere che finissimo di chiacchierare, una corpulenta signora che stava cercando di oltrepassarci per entrare nel negozio disse spazientita: «Permesso!» e quasi ci spinse dentro una grossa cassa di cipolle. Aram recuperò l'equilibrio e con lo sguardo cercò me che nel frattempo mi ero tolta di mezzo spostandomi sul lato della strada. Lo rassicurai di nuovo che sarebbe andato tutto bene. Camminando, gli presi la mano, ma lui mi respinse.


«Cosa fai? Vuoi che ci arrestino?» esclamò guardandosi attorno, tutto rosso in faccia.


«Io... Mi dispiace, sono un'idiota! Non ci ho pensato.» Mi rimangiai le lacrime.


«Scusami, Marina, non volevo essere sgarbato. Ma non me lo perdonerei mai se tu venissi frustata perché mi tieni per mano.»


«Mi dispiace.»


«Vedi, questa è un'altra ragione per cui te ne dovresti andare.


Tenersi per mano non è un reato. Raccontalo a chi vive in un paese normale e crederà che sia una barzelletta di pessimo gusto.»


Qualche minuto dopo mi ricordai che volevo chiedergli se conosceva qualcuno che sapesse tradurre dal russo al persiano. Gli spiegai che mia nonna aveva scritto la storia della sua vita e me l'aveva consegnata prima di morire e avevo bisogno di qualcuno che la traducesse in persiano. Mi domandò come mai non l'avessi chiesto ai miei genitori e io gli risposi che mia nonna aveva affidato il suo scritto a me; forse non desiderava che loro lo leggessero.


Volevo che ad aiutarmi fosse una persona che non mi conosceva.


Mi disse allora che Irena aveva un'amica, un tipo un po’ strano che parlava molte lingue, tra cui il persiano e il russo molto bene, e mi promise che l'avrebbe chiamata.


A metà strada verso casa notai che si stava avvicinando un temporale. Il cielo era coperto da nuvole nere. Era una bella giornata di sole, era strano che il tempo cambiasse così repentinamente.


Sentimmo il primo tuono e iniziò a piovere. Eravamo ancora lontani da casa, e non c'era riparo. Iniziò lentamente, con poche gocce. Forse potevamo ancora farcela prima che si scatenasse la tempesta, ma no: era troppo tardi. I tuoni rombarono e le gocce si fusero tra loro. Un vento forte piegò gli alberi, trasformando la pioggia in un muro d'acqua. Fummo costretti a fermarci. La strada era irriconoscibile, i suoi colori caldi scomparsi.


Incapaci di proseguire, sapevamo che non potevamo sfuggire al temporale. Potevamo solo chiudere gli occhi e pensare che sarebbe passato.


Il giorno dopo, Aram mi telefonò dicendomi che aveva parlato con l'amica di Irena, Anna, la quale era disposta a incontrarmi. Un paio di giorni dopo Aram mi accompagnò da lei. Viveva in una strada tranquilla all'incrocio con Takht- eh Tavus Avenue. Suonammo il campanello e sentimmo un cane abbaiare. «Chi è?» disse una donna in persiano. Rispondemmo, e Anna ci aprì. Doveva avere più di settant’anni, era alta e snella, con bei capelli neri che le ricadevano sulle spalle. Aveva grandi occhi grigi, indossava una camicia di seta bianca e un paio di jeans, e ci salutò in russo. Dietro di lei c'era un cane lupo. La sua casetta di due piani era piena di piante tropicali. Dovemmo scostare le foglie per seguirla in salotto, dove un pappagallo variopinto stava sul suo trespolo, una coppia di canarini cantava in una gabbia e una gatta nera si strofinò contro le mie gambe. Nell'aria c'era un odore di terra umida, e ogni parete ospitava librerie stracariche di volumi.


«Dov'è il testo?» mi chiese Anna mentre ci sedevamo. Glielo diedi, e lei lo sfogliò.


«Mi ci vorrà qualche ora per tradurlo.»


Si alzò e con un gesto ci diresse verso la porta. «Irena ti voleva molto bene, Marina. Vieni domani pomeriggio alle quattro e mezzo.»


Il giorno dopo, appena suonammo il campanello Anna aprì subito e mi diede l'originale di mia nonna con la traduzione.


«Ecco qui, cara. Tua nonna era una donna infelice ma forte» disse, e ci chiuse la porta in faccia.


Aram scoppiò a ridere. «Te l'avevo detto che era un po’ strana.»


Non appena arrivai a casa lessi la traduzione. Erano circa quaranta pagine vergate a mano in bella grafia, grammaticalmente impeccabili. Se non l'avessi saputo, non avrei mai capito che il persiano non era la lingua madre dell'autrice.


 


A diciott'anni mia nonna, Xena Muratova, si era innamorata di un bellissimo ragazzo di ventitré anni di nome Andrei. Andrei aveva capelli biondo oro, grandi occhi azzurri, ed era comunista. Xena lo pregò di non andare alle dimostrazioni e alle proteste contro lo zar, ma lui non le diede retta. Voleva che la Russia diventasse una nazione ancora più grande e che la povertà scomparisse. Xena scriveva che le sue idee erano belle ma impossibili, e che era molto ingenuo. Iniziò così a partecipare ai raduni di piazza insieme a lui, per proteggerlo e, durante una manifestazione, i soldati dopo aver inutilmente intimato alla folla di disperdersi aprirono il fuoco.


«Tutti si misero a correre» scriveva Xena. «Mi voltai. Lui era a terra, sanguinante. Lo tenni fra le braccia finché morì. I soldati ebbero pietà di me e mi permisero di portarlo da sua madre.


Trascinai il suo corpo per le strade di Mosca. Alcuni giovani mi vennero in aiuto: lo trasportarono e io li seguii, guardando il suo sangue che colava per terra. Non ho mai più dormito in pace, da quel giorno. Ancora oggi mi sveglio e vedo il sangue sul mio letto.»


Alcuni mesi dopo, Xena conobbe il suo futuro marito, mio nonno Esah. Era un orafo, un ragazzo dai modi gentili. Xena non era certa di come o quando si fosse innamorata di lui, ma presto Esah le chiese di sposarlo, e lei accettò. Si sposarono, ebbero una figlia e la chiamarono Tamara, ma presto furono obbligati a lasciare la Russia e a trasferirsi in Iran. Fu un viaggio particolarmente difficile per Xena perché aspettava il secondo figlio, mio padre.


Giunti in Iran, prima andarono nella città di Mashad, dove nacque mio padre, e poi a Rasht, dove vivevano alcuni parenti di Esah.


Non molto tempo dopo, si trasferirono a Teheran. Era molto diversa da Mosca, e Xena aveva nostalgia di casa. Le mancavano gli amici e i famigliari, ma non le importava perché era molto felice con Esah. Ma la felicità non durò a lungo perché una mattina Esah uscì e non tornò più; fu ucciso dai ladri che s'impadronirono dei gioielli che lui voleva vendere per comperare una casa.


La vita di Xena divenne solitaria e difficile. Desiderava tornare in Russia, ma aveva perso tutto; la sua casa e il suo modo di vivere erano stati distrutti da una rivoluzione sanguinosa. Non aveva un posto dove andare, e pensava che sarebbe stata per sempre una straniera.


Aprì una pensione e lavorò duramente. Passarono gli anni, i figli diventarono grandi e Tamara sposò un russo e tornò in Russia con lui. Poi Xena conobbe Peter, un ungherese che soggiornava nella sua pensione. L'aiutava e le teneva compagnia. Dopo l'inizio della Seconda guerra mondiale le chiese di sposarlo e lei accettò, ma non poterono mai celebrare le nozze perché le nazioni si divisero e l'Ungheria si schierò con Hitler. Tutti gli ungheresi che vivevano in Iran divennero prigionieri di guerra e furono mandati nei campi di prigionia in India, dove Peter morì per una malattia infettiva.


Finii di leggere fra le lacrime. Capivo quanto mia nonna dovesse essersi sentita triste, indifesa e sola. Le rivoluzioni avevano devastato lei e me. La Rivoluzione comunista e la Rivoluzione islamica avevano dato vita a terribili dittature e la mia vita sembrava una copia approssimativa della sua. Potevo soltanto sperare che il futuro mi riservasse qualcosa di meglio. Dovevo tenere a mente che lei era sopravvissuta, e sarei sopravvissuta anch'io.


 


Il mercoledì sera andai alle prove del coro e mi misi accanto a una signora dalla voce meravigliosa. Andre mi raggiunse dopo le prove.


Avevo un paio di jeans e una maglietta qualunque, e rimpiansi di non essermi vestita meglio. Sebbene lo hijab fosse obbligatorio e non indossarlo significasse rischiare la fustigazione e l'arresto, sotto le donne potevano mettersi quello che volevano e, quando ero in chiesa, in visita da amici o parenti, me lo toglievo sempre.


«Hai una bella voce» mi disse Andre.


«No, è che stavo vicino alla signora Masudi. È lei che ha una bella voce» dissi ridendo.


Gli chiesi di dov'era originario e lui mi rispose che entrambi i suoi genitori erano ungheresi, ma lui e sua sorella erano nati a Teheran. Sua sorella aveva ventun anni e si era trasferita da poco a Budapest per andare all'università. Lui ne aveva ventidue.


Era proprio una strana coincidenza che fosse di origini ungheresi ma, riflettendoci un momento, mi dissi che non era poi così strano. In Iran i cristiani erano una minoranza talmente piccola che tutti, in qualche modo, eravamo legati.


«Ti piacerebbe imparare a suonare l'organo?» mi chiese Andre.


«È difficile?»


«Per niente. Ti insegno io.»


«Va bene. Quando cominciamo?»


«Perché non adesso?»


 


Malgrado gli spaventosi eventi di piazza Ferdosi, partecipai a molte altre dimostrazioni di protesta indette da varie organizzazioni, dai comunisti al Mujaheddin. Era il minimo che potessi fare per esprimere il mio dissenso contro il governo e la sua politica. Ma non ne parlai mai con i miei genitori, né con Aram, né con Andre. Tutte le manifestazioni più o meno si somigliavano: i giovani si riunivano in una strada principale, si innalzavano cartelli con scritte contro il governo, la folla iniziava a muoversi, si scandivano slogan e, nel giro di pochi istanti, i gas lacrimogeni addensavano l'aria, facendo bruciare gli occhi e la gola. Poi si udivano gli spari e arrivavano i guardiani della rivoluzione. Tutti correvano a perdifiato, con la testa bassa. Tutto diventava più chiaro, più limpido. I colori erano più vivi. Evita il verde militare. Stà lontana dagli uomini con la barba. Cercare di fuggire nelle stradine era un errore perché c'erano molte più probabilità di essere arrestati o picchiati. Più la strada era grande, tanto maggiori erano le possibilità di scamparla. Qualche volta per sfuggire ai guardiani dovetti nascondermi dietro cassonetti puzzolenti o casse di verdure marce. A parte quella volta a piazza Ferdosi, non vidi mai persone colpite dagli spari, ma c'era sempre qualcuno che raccontava di aver visto persone ferite o sangue per terra. Tutte le volte che arrivavo a casa sana e salva, il mio cuore batteva forte per l'eccitazione. Ce l'avevo fatta un'altra volta. Forse ero immune ai proiettili e ai bastoni dei picchiatori.


Un paio di settimane prima delle vacanze estive, Gita, che si era diplomata un anno prima e stava aspettando la riapertura delle università dopo la Rivoluzione culturale islamica, una sera venne a trovarmi e mi disse che una sua amica di nome Shahrzad voleva conoscermi. Shahrzad studiava all'università ed era stata per tre anni detenuta politica all'epoca dello scià. Sapeva dello sciopero che avevo indetto a scuola, e che avevo letto alcuni libri della sua organizzazione. Aveva persino visto un paio di articoli che avevo scritto per il giornale della scuola. Chiesi a Gita come mai Shahrzad volesse conoscermi e lei mi spiegò che voleva invitarmi a unirmi al Fedayin, ma io le dissi che non mi interessava perché credevo in Dio e andavo in chiesa, e quindi non avevo granché in comune con quella organizzazione. «Ma tu simpatizzi col governo?» mi chiese Gita. «No.»


«O sei con loro, o sei contro di loro.»


«Essere contro di loro non fa di me una comunista. Io rispetto te e le tue convinzioni, ma non voglio invischiarmi nella politica.»


«Io penso che tu sia già coinvolta, anche se ancora non lo sai.


Accontentala, vuole solo parlarti per pochi minuti. Ci possiamo vedere domani, quando torni a casa da scuola.»


Poiché non volevo discutere con Gita, acconsentii a conoscere Shahrzad.


L'indomani, Shahrzad e Gita apparvero al mio fianco non appena misi piede fuori da scuola. Gita ci presentò e si allontanò subito dopo dicendo che doveva andare da qualche parte. Shahrzad era diversa da qualsiasi altra ragazza che avessi mai conosciuto. I suoi occhi erano molto tristi, e non faceva che guardarsi ansiosamente in giro.


«Da quello che mi hanno detto, hai le doti di una leadeo» mi disse mentre camminavamo verso casa mia. «È una qualità rara.


Gli altri ti ascoltano. Ho anche letto i tuoi articoli sul giornale scolastico: sono buoni. Tu puoi fare qualcosa. Il governo islamico sta distruggendo questo paese, e tu puoi fare qualcosa.»


«Shahrzad, rispetto le tue idee, ma noi non abbiamo niente in comune.»


«Io credo di sì. Abbiamo lo stesso nemico, quindi siamo dalla stessa parte.»


Le dissi che non la vedevo così. Avevo semplicemente l'abitudine di dire quello che pensavo, e se al posto del governo islamico avessimo avuto un governo comunista, probabilmente avrei criticato quello.


Mi chiese se volevo fare qualcosa, e io le dissi che quello che volevo fare non era ciò che voleva fare lei. A un certo punto si fermò fissando un ragazzo che ci era appena passato accanto; mi salutò frettolosamente e sparì dietro un angolo. Non la vidi mai più.


 


Volevo dei vestiti nuovi. Ero stanca di jeans scoloriti, maglioni lisi e scarpe da ginnastica... ma c'era un problema: dopo la rivoluzione l'inflazione era salita alle stelle e io sapevo che i miei genitori non avevano soldi da buttare. Poiché di solito le adolescenti non lavoravano, dovevo essere creativa e trovare una maniera per guadagnare. Le scarpe di buona fattura erano particolarmente costose.


I miei genitori, mia zia Zenia, mio zio Ismael e sua moglie si vedevano ogni due settimane per giocare a ramino. Giocavano a soldi e prendevano le partite molto sul serio. Li avevo guardati molte volte e avevo imparato le regole del gioco. Una sera, la moglie di mio zio era malata e non poteva venire, così mi offrii di prendere il suo posto. Zia Zenia pensò che fosse una bellissima idea e disse a tutti di darmi qualcosa in modo che potessi partecipare.


Era fatta: alla fine della serata i miei cento tornan erano diventati duemila. Mi diedi alle spese pazze e mi comperai tailleur, camicie e tre paia di scarpe con i tacchi, e il giorno dopo andai in chiesa indossando gli abiti che avevo comperato col denaro vinto sul tavolo da gioco: pantaloni e giacca neri, camicia di seta bianca e un paio di scarpe nere a punta.


Quando nonna era viva e i miei genitori giocavano a carte con amici e famigliari a casa nostra, lei scuoteva sempre la testa e mi diceva che il gioco d'azzardo era una cosa sbagliata, che poteva rovinare famiglie e amicizie, e per questo non era gradito a Dio.


Era peccato. Pensando a quelle parole mi sentivo in colpa, ma ero certa che Dio capisse la situazione e poi, per sicurezza, mi sarei confessata.


Amavo il soave ticchettio delle mie eleganti scarpe nuove mentre camminavo lungo la navata per arrivare alle panche del coro, sul davanti, e mi piaceva sentire i commenti di apprezzamento sussurrati su quanto stavo bene. Quando Andre mi vide, il suo sguardo si soffermò su di me e, durante la messa, notai che mi osservava in tralice.


Andre mi dava regolarmente lezioni d'organo, ma più si impegnava, più mi rendevo conto che non avevo il dono della musica.


Passava quasi tutto il suo tempo libero in chiesa, aggiustando tutto quel che si rompeva, dall'organo a canne ai vari apparecchi elettrici e al mobilio, e di solito mi chiedeva di tenergli compagnia. Mi piaceva stare con lui. Mi raccontava della sua vita, della sua famiglia, degli amici. Suo padre Mihaly, che faceva il falegname, era venuto in Iran prima della Seconda guerra mondiale, da giovane, per lavorare alla costruzione di un nuovo palazzo per lo scià.


Mihaly aveva lasciato la sua fidanzata Juliana a Budapest sperando di tornare a casa a lavoro finito, ma la guerra glielo impedì. Mentre la guerra infuriava in Europa e l'Ungheria si schierava con la Germania, gli Alleati entrarono in Iran per rifornire la Russia da sud e, come Peter, il fidanzato di mia nonna, Mihaly fu deportato in un campo di prigionia indiano. Tuttavia, a differenza di Peter lui sopravvisse e, dopo la guerra, tornò in Iran anziché in patria, perché l'Ungheria era divenuta comunista. A quell'epoca la popolazione ungherese non aveva il permesso di lasciare il paese, e così Juliana non poté raggiungerlo. Fu costretta a rimanere in patria fino alla rivoluzione anticomunista del 1956, che riaprì le frontiere ungheresi permettendole di entrare in Austria da rifugiata e, più tardi, di raggiungere l'uomo che amava in Iran, dopo diciotto anni di lontananza. Si sposarono subito ed ebbero due figli: Andre e, quindici mesi dopo, sua sorella. Juliana morì quando Andre aveva solo quattro anni e sua sorella due e mezzo. Dopo la sua morte, una sorella di Mihaly, che non era sposata e aveva circa sessant'anni, venne in Iran per aiutare il fratello a crescere i figli e nel tempo si dimostrò una straordinaria seconda madre.


Un giorno, mentre eravamo seduti all'organo nella chiesa vuota, raccontai ad Andre dei miei problemi a scuola: lo sciopero, la lista che khanum Bahman aveva visto nell'ufficio della preside, il giornale, l'odio che khanum Mahmudi mi riservava. Andre sgranò i grandi occhi azzurri per lo sgomento.


«Tu hai fatto tutte queste cose?» Scosse la testa, incredulo.


«Sì. Il mio problema è che non so tenere la bocca chiusa.»


«Mi sorprende che tu non sia stata ancora arrestata.»


«Lo so. Sorprende anche me.»


Quando mise la sua mano sulla mia, ebbi un tuffo al cuore. La sua era fredda come il ghiaccio.


«Devi lasciare questo paese» disse.


«Andre, sii realista. Con tutti i problemi che ho, non mi concederanno mai il passaporto, e passare la frontiera clandestinamente non solo è pericoloso, ma anche estremamente costoso. I miei genitori non se lo possono permettere.»


«I tuoi sanno quello che mi hai raccontato?»


«Qualcosa sanno, ma non tutto.»


«Quindi mi stai dicendo che aspetti l'arresto?»


«Posso forse scegliere?»


«Nasconditi.»


«Mi troveranno. E poi, dove dovrei nascondermi? Non sarebbe giusto mettere in pericolo altre persone.»


Mi resi conto di avere alzato la voce, perché il soffitto me ne restituì l'eco. Rimanemmo in silenzio per un momento, poi Andre mi mise un braccio attorno alla spalla e io mi appoggiai a lui, sentendo l'accogliente calore del suo corpo. Accanto a lui mi sentivo a mio agio, sentivo di essere a casa, di essere arrivata a destinazione dopo un viaggio difficile. Mi stavo innamorando di nuovo e me ne facevo una colpa, perché non volevo tradire Arash. Ma l'amore andava per la sua strada; era come la primavera che si insinua sotto la pelle della terra, alla fine dell'inverno. Ogni giorno la temperatura saliva un poco, sui rami degli alberi spuntavano nuovi germogli, il sole rimaneva in cielo qualche attimo più del giorno prima, e da un momento all'altro il mondo era pieno di colori e di tepore.


 


Sul finire di giugno del 1981, un paio di giorni dopo che mia madre e io arrivammo alla nostra casa al mare per passarvi l'estate, Aram mi chiamò e mi chiese se avevo sentito che sotto l'influenza dell'ayatollah Khomeini il parlamento aveva accusato di spionaggio il presidente Banisadr, che si era opposto all'esecuzione dei detenuti politici e aveva scritto al presidente Khomeini deprecando la dittatura. Ma io non ne sapevo nulla, perché in vacanza avevamo soltanto una vecchia radio che non riusciva a prendere il notiziario della BBC, e di solito non guardavamo i canali televisivi locali. Qualche giorno più tardi, Aram mi disse che Banisadr era riuscito a fuggire in Francia, anche se molti dei suoi amici erano stati arrestati e giustiziati.


Il 28 giugno appena prima di cena mia madre accese la televisione e scoprimmo che quel giorno durante un congresso presso la sede del Partito repubblicano islamico era esplosa una bomba.


Erano rimasti uccisi più di settanta membri del partito, tra i quali molti funzionari di governo come l'ayatollah Mohammede Beheshti, ministro della Giustizia e segretario generale del partito.


Il governo annunciò che la bomba era stata messa dal Mujaheddin.


All'inizio di agosto iniziò il suo mandato il nuovo presidente Mohammed Ali Rajai, noto come uno dei leader della Rivoluzione culturale islamica. La sua presidenza fu assai breve: il 30 agosto una bomba esplose presso l'ufficio del primo ministro e uccise il presidente, il primo ministro e il capo della polizia di Teheran.


Anche questo attentato fu attribuito al Mujaheddin, ma si diceva che in entrambi i casi si era trattato di una guerra intestina fra le varie fazioni del governo.


Il paese sembrava entrato in un periodo di lutto nazionale perpetuo: a ogni angolo di strada c'erano altoparlanti che diffondevano canti e musiche religiose e per le strade sfilavano gruppi di uomini che si percuotevano il petto o la schiena con catene di ferro, secondo la tradizione sciita, mentre le donne li seguivano, fra gemiti e pianti. Sbigottita da quegli eventi, sprofondai ulteriormente nei miei libri, che di solito presentavano un mondo più ragionevole, compassionevole e prevedibile.


Prima della fine dell'estate decisi di non tornare a scuola. Che senso aveva andarci? Non riuscivo a adeguarmi alle nuove regole e mi sarei soltanto messa di nuovo nei guai con khanum Mahmudi e le insegnanti.


Di ritorno a Teheran spiai l'umore di mia madre, cercando il momento migliore per dirglielo. Ero sicura che non avrebbe ceduto facilmente. Andava molto fiera della laurea di mio fratello e parlava sempre con grande riguardo di quelli che avevano ricevuto una buona istruzione. Ma non poteva obbligarmi ad andare a scuola. Ero certa che la mia situazione non potesse che peggiorare, se vi avessi trascorso anche solo un altro giorno.


Avevamo comprato alcuni mobili per arredare la sala che un tempo ospitava la palestra di ballo di mio padre: quattro grosse poltrone rivestite di velluto verde oliva, due tavolini neri, un tavolo da pranzo con otto sedie e una credenza. La saletta d'attesa, invece, era rimasta sempre uguale, con il tavolo rotondo al centro e le quattro poltroncine di pelle nera attorno. Tra due poltrone c'era una stufa a cherosene che riscaldava il locale d'inverno. Mia madre aveva sempre amato lavorare a maglia, e specialmente dopo la rivoluzione passava molto tempo seduta nella poltrona a sinistra della stufa a farci dei maglioni. Faceva anche tovaglie e copriletti all'uncinetto.


Quando quel giorno entrai nella stanza stava sferruzzando, accomodata nella sua poltrona preferita, con gli occhiali abbassati sul naso.


Mi sedetti nella poltrona davanti alla sua e rimasi in silenzio per qualche minuto, cercando un modo per iniziare il discorso.


«Maman?»


«Sì?»


Non mi guardò.


«Non posso tornare a scuola. Almeno non quest'anno.»


Mia madre si lasciò cadere il lavoro in grembo e mi fissò da sopra gli occhiali. Sebbene avesse quasi cinquantasei anni e qualche ruga attorno agli occhi e sulla fronte, era ancora molto bella.


«Cosa?»


«Non posso tornare a scuola.»


«Ti ha dato di volta il cervello?»


Le dissi che non ci insegnavano niente di utile e che restando a casa avrei evitato le guardiane della rivoluzione che ci facevano da insegnanti. Le promisi che avrei studiato tutto il programma da sola e avrei dato gli esami alla fine.


«Lo sai che sono in grado di farlo» conclusi. «Probabilmente ne so più io delle nuove professoresse.»


Sospirò e abbassò lo sguardo.


«Maman, non farmi tornare a scuola.» Stavo singhiozzando.


«Ci penserò» disse.


Corsi in camera mia.


Il mattino dopo, quando mia madre venne da me mi trovò con gli occhi tanto gonfi che quasi non riuscivo ad aprirli per aver pianto tutta la notte. Era come se avessi dato sfogo a tutto il dolore e a tutta la mia frustrazione. Mia madre si mise accanto alla porta del balcone, a osservare la strada.


«Puoi rimanere a casa» disse. «Ma solo per quest'anno.» Ne aveva discusso con mio padre.


 


Aram mi chiamò una sera ai primi di settembre per dirmi addio, perché sarebbe partito l'indomani. Ebbi l'impressione che piangesse.


«Mi mancherai. Abbi cura di te» dissi, tenendo sotto controllo la mia voce. Non gli avevo mai raccontato di Andre ma decisi che era ora che lo sapesse, e così gli spiegai che in chiesa avevo conosciuto un ragazzo che mi piaceva molto.


Aram rimase sorpreso. Volle sapere quando l'avessi conosciuto e io risposi che era successo in primavera.


«Perché non me l'hai mai detto? Credevo che parlassimo di tutto.»


«Non ero sicura. Non volevo mai più affezionarmi troppo a qualcuno.»


Mi capì.


Dopo le scuole superiori tutti i ragazzi dovevano assolvere agli obblighi di leva, a meno che riuscissero a entrare all'università o a ottenere un congedo ufficiale per ragioni di salute o altri motivi. Il padre di Aram aveva ottenuto per lui il congedo perché suo fratello era considerato un martire, e Aram era l'unico figlio rimasto.


Non doveva andare in guerra perché la sua famiglia aveva già dato un figlio. Trovava ironico che il fratello morto gli stesse salvando la vita. Il governo gli aveva anche dato il passaporto, quindi era ufficialmente autorizzato a lasciare il paese.


Sarah mi chiamò un giorno di novembre del 1981 per dirmi che doveva vedermi subito. Le tremava la voce, ma al telefono non volle dirmi di più. Corsi a casa sua e la trovai sulla porta in attesa, con gli occhi rossi e gonfi per il pianto. I suoi genitori e suo fratello non c'erano. Andammo in camera sua e lì si lasciò cadere sul letto.


Mi disse che due giorni prima i guardiani della rivoluzione erano andati a casa di Gita per arrestarla ma, non avendola trovata, avevano preso sua madre e le sue due sorelle, dicendo al padre che se Gita non si fosse costituita entro una settimana una delle sorelle sarebbe stata giustiziata. Così Gita era andata a Evin, si era consegnata e la madre e le sorelle erano state rilasciate. «Marina... lo sai quant'è cocciuta. La ammazzeranno. Non sa tenere a freno la lingua. E probabilmente dopo di lei toccherà a noi. Bè, sicuramente il prossimo è Sirus, ma secondo lui chiunque abbia detto apertamente qualcosa contro il governo rischia l'arresto.»


Sirus aveva ragione. Me lo sentivo che prima o poi sarebbero venuti a cercarci, e poi sapevano chi cercare, sapevano dove abitavamo.


Non avevo mai detto a nessuno di quella lista perché non avevo idea di quali altri nomi vi fossero oltre al mio e non volevo spaventare nessuno o mettere in pericolo khanum Bahman.


«Sì, probabilmente dopo toccherà a noi. È solo questione di tempo, non possiamo farci niente. Non possiamo scappare, altrimenti faranno del male ai nostri genitori» dissi.


«Possiamo soltanto star qui sedute ad aspettare.»


«Tu che cosa pensi di fare?»


«Potrei almeno dirlo ai miei» disse Sarah.


«Andranno in panico. Non c'è niente da fare, a meno che non scappiate tutti insieme. Se lo dicessi ai miei non mi prenderebbero sul serio. Ma non stare troppo in pensiero: non può essere così tremendo. La gente esagera e poi noi non abbiamo fatto nulla.


Gita era molto attiva nel suo gruppo, ma perché dovrebbero occuparsi di noi?»

«Penso che tu abbia ragione. Non dobbiamo farci prendere dal panico. Non ablbiamo fatto niente.»