LA MESSA PALESTINESE: SINCRETISMO E SOSTITUZIONE DEL SACRO
Alex West
L’altro giorno, durante la celebrazione del Corpus Domini, Don Rito Maresca ha officiato avvolto in una casula con i colori della bandiera palestinese. Non fa il parroco a Ramallah, ma in una frazione di Sorrento. Il messaggio era chiaro: la sofferenza palestinese non è solo una causa politica o umanitaria, ma qualcosa di più profondo e universale. È diventata un nuovo sacro.
Casi analoghi si moltiplicano: nel 2023, in un presepe allestito per Papa Francesco, il Bambin Gesù era avvolto in una keffiyeh, e anche nel resto d’Europa e negli U.S.A. sempre più spesso simboli cattolici e lotta palestinese si fondono in un interessante sincretismo.
La causa palestinese ha assunto essa stessa tratti liturgici, quasi escatologici. “Palestina libera” infatti non è più solo uno slogan: è una promessa di redenzione collettiva, il punto di convergenza di tutte le ingiustizie del mondo.
Ne è prova un’infografica molto diffusa online: al centro c’è la parola Palestine, collegata visivamente a razzismo, patriarcato, capitalismo, omofobia, crisi climatica. Se tutti i mali del mondo derivano dall’oppressione dei palestinesi, viceversa, liberando la Palestina, essi magicamente dovrebbero svanire. Un’idea totalizzante e profondamente religiosa.
La dinamica non è nuova. René Girard ha spiegato come le società si fondino sull’individuazione rituale di un capro espiatorio: un corpo su cui scaricare il conflitto, una vittima la cui eliminazione ristabilisce l’ordine. In questa cosmologia post-secolare, il Palestinese diventa la Vittima Sacra, mentre l’Ebreo è il nuovo Male Cosmico, la figura demoniaca che ne impedisce la salvezza. Entrambi, così rappresentati, smettono di essere esseri umani. I palestinesi vengono reificati come corpi infantili o istintivi, incapaci di autocontrollo o autonomia; gli israeliani come mostri senz’anima. Nessuno dei due ha più voce, né complessità: sono ridotti a segni. Più che esseri umani, diventano figure liturgiche.
Nel culto Woke, le figure sacre non sono scelte a caso. Il queer e il palestinese occupano due ruoli complementari: il primo è il mistico, il fluido, il taumaturgo dell’identità; il secondo è il martire, il corpo sofferente che redime il mondo. Intorno a entrambe le figure si è costruita una liturgia laica basata su simboli, formule e gesti rituali: pronomi innalzati a sacramenti, bandiere come reliquie, slogan come preghiere e mantra.
Lo aveva già intuito Rene’ Guénon: in tempi di crisi spirituale, la religione non sparisce, ma si trasforma. Mircea Eliade ha messo in luce come ogni ideologia totalizzante riproduca strutture religiose arcaiche: il mito fondativo, la liturgia, il nemico assoluto. Una struttura che, in chiave postmoderna, si intreccia con il primato dell’identità percepita e con una visione manichea dell’Occidente colpevole contrapposto all’Oriente vittima, secondo una traiettoria che va da Foucault a Butler, da Derrida a Said. In filigrana, riemergono elementi di una spiritualità gnostica: un mondo diviso in puri e impuri, la salvezza affidata alla conoscenza interiore, e il rifiuto della realtà come spazio di ambiguità e complessità.
Ancora oggi, la fede non scaturisce da prove scientifiche, ma da immagini condivise e da un’autorità simbolica riconosciuta. Come un tempo si credeva nei miracoli dei santi non perché li si testimoniasse di persona , ma perché li attestavano il clero e gli affreschi delle chiese, così oggi si aderisce ai dogmi culturali ribaditi da media, accademie, celebrità e leader morali.
Rimane identico il terrore dell’eresia, che spezzando l’unanimità rischia di incrinare la stabilità del credo — come accade in ogni sistema di pensiero magico.
Quantomeno, chi oggi pecca d’eresia non finisce al rogo. Si risolve tutto con la cancellazione e un’esecuzione mediatica ben orchestrata.