mercoledì 27 marzo 2019


Blumfeld, un vecchio scapolo

Estratto da "Kafka tutti i             racconti" Franz Kafka

Blumfeld, un vecchio scapolo, saliva una sera al suo appartamento, era una penosa fatica dal momento che abitava al sesto piano. Mentre saliva, rifletteva, come negli ultimi tempi soleva fare più spesso, sul fatto che quella vita del tutto solitaria era noiosa, che ora doveva salire quei sei piani come in segreto, per arrivare su nella sua stanza vuota, lì, ancora come in segreto, mettere la vestaglia, accendere la pipa, leggere un po' la rivista francese alla quale era abbonato già da anni, sorseggiare un'acquavite di ciliege che aveva preparato lui stesso e, alla fine, dopo mezz'ora, andare a letto, non senza prima dover riordinare completamente le lenzuola e le coperte, che la cameriera, inaccessibile ad ogni insegnamento, gettava sempre lì a casaccio. Una qualsiasi compagnia, un qualsiasi spettatore di quelle attività sarebbe stato sicuramente il benvenuto. Blumfeld aveva da tempo pensato se non dovesse procurarsi un cagnolino. Un tale animale è allegro e soprattutto riconoscente e fedele; un collega di Blumfeld ha un cane così, esso non si affeziona a nessuno all'infuori del suo padrone e quando non lo vede, anche solo da qualche momento, lo accoglie subito abbaiando forte; con questo chiaramente vuole manifestare la sua contentezza di aver ritrovato il suo padrone in quello straordinario benefattore. Ad ogni modo, un cane presenta anche degli inconvenienti. Per quanto lo si mantenga pulito, sporca la stanza. Non lo si può evitare; non si può lavare il cane con acqua calda ogni volta che lo si fa entrare nella stanza, anche la sua salute non lo tollererebbe. Ma Blumfeld non sopporta lo sporco nella sua stanza, la pulizia della sua stanza è per lui qualcosa di indispensabile, più volte nella settimana ha una controversia con la cameriera purtroppo non molto scrupolosa su questo punto. Poiché è sorda, di solito la trascina prendendola sotto il braccio in quegli angoli della stanza dove ha egli qualcosa da ridire sulla pulizia. Con questa precisione, ha ottenuto che l'ordine nella stanza risponda all'incirca ai suoi desideri. Con l'introduzione di un cane, avrebbe volontariamente portato nella sua stanza la sporcizia, evitata con cura fino a quel momento. Sarebbero comparse le pulci, le accompagnatrici fisse del cane. Se ci fossero state le pulci, non avrebbe tardato il momento in cui Blumfeld avrebbe ceduto al cane la sua stanza accogliente e cercato un'altra stanza. Ma la mancanza di pulizia era solo uno degli inconvenienti dei cani. I cani si ammalano anche, e delle malattie dei cani proprio nessuno capisce niente. Quella bestiola sta accovacciata in un angolo o si aggira zoppicando, guaisce, tossisce, si strozza per un qualche dolore, la si avvolge in una coperta, le si fischietta qualcosa, le si somministra il latte, in breve la si assiste nella speranza che, come è anche possibile, si tratti di un malanno passeggero; invece può essere una malattia seria, ripugnante e contagiosa. E se anche il cane non si ammala, arriva più tardi il momento in cui diventa vecchio, non abbiamo saputo deciderci a dar via a tempo debito la fedele bestiola, e allora arriva il tempo in cui la nostra stessa vecchiaia ci guarda dagli occhi lacrimosi del cane. Allora dobbiamo vivere nel tormento con quella bestiola mezza cieca, debole di polmoni, quasi immobile per la grassezza, e così si pagano care le gioie che il cane prima ci ha dato. Benché ora Blumfeld desideri un cane, preferisce salire le scale da solo ancora per trent'anni, anziché essere poi rattristato da un simile cane vecchio che, affannando ancora più di lui, si trascini accanto a lui di gradino in gradino.
Dunque Blumfeld rimarrà ancora solo, non ha le voglie di una vecchia zitella che desidera avere vicino un qualsiasi essere vivente sottomesso, da proteggere, col quale poter essere affettuosa, da accudire continuamente, così che un gatto, un canarino o i pesciolini rossi vanno bene a questo scopo. E, se ciò non è possibile, si accontenta persino dei fiori davanti alla finestra. Blumfeld al contrario vuole solo una compagnia, un animale di cui non debba preoccuparsi molto, al quale una pedata ogni tanto non faccia male, che in caso di necessità possa anche passare la notte sulla strada, che, quando Blumfeld lo desideri, si metta subito a disposizione abbaiando, saltando, leccandogli le mani. Blumfeld vorrebbe qualcosa del genere, ma, visto che, come si rende ben conto, non può averlo senza troppi inconvenienti, vi rinuncia, ma conformemente alla sua natura scrupolosa, di tanto in tanto, come per esempio quella sera, ritorna sulla stessa idea.
Mentre, dinanzi alla porta della sua stanza, estrae le chiavi dalla tasca, lo colpisce un rumore che viene dalla stanza. Uno strano rumore, molto intenso, molto regolare, di qualcosa che batte. Dal momento che proprio allora Blumfeld stava pensando ai cani, esso gli ricorda il rumore che producono le zampe quando l'una dopo l'altra battono sul pavimento. Ma le zampe non battono; non sono zampe. Apre in fretta la porta ed accende la luce elettrica. Non era preparato a quella vista. Questa è una magia, due piccole palle di celluloide, bianche a righe blu, saltano su e giù, l'una dietro l'altra, sul parquet; l'una batte sul pavimento, l'altra è in alto, e compiono instancabilmente il loro gioco. Una volta, al ginnasio, in un noto esperimento sull'elettricità, Blumfeld aveva visto saltellare in modo simile piccole palline, ma queste sono palle relativamente grosse, saltano liberamente nella stanza e non viene eseguito alcun esperimento elettrico. Blumfeld si china su di esse per guardarle più attentamente. Senza dubbio sono comuni palle, verosimilmente contengono al loro interno alcune palle ancora più piccole e queste generano quel rumore di qualcosa che batte. Blumfeld muove la mano nell'aria per accertarsi che non pendano da qualche filo, no, si muovono del tutto autonomamente. Peccato che Blumfeld non sia un ragazzino, due palle siffatte sarebbero state per lui una lieta sorpresa, mentre ora il tutto gli procura un'impressione alquanto spiacevole. Non è del tutto senza valore come viva in segreto uno scapolo che nessuno guarda, ora qualcuno, non importa chi, ha mandato all'aria il segreto e gli ha inviato queste due divertenti palle.
Vorrebbe acchiapparne una, ma esse rifuggono da lui, e poi lo attirano dietro di loro nella stanza. È stupido, pensa, correre dietro alle palle, si ferma, le osserva, mentre, visto che sembra concluso l'inseguimento, anch'esse si arrestano in uno stesso posto. Tuttavia tenterò di prenderle, pensa di nuovo e si lancia su di loro. Quelle subito scappano, ma Blumfeld, mettendo le gambe una da una parte una dall'altra, le costringe in un angolo della stanza e davanti ad una valigia che sta lì, riesce a prendere una palla. È una pallina fredda che ruota nella mano, chiaramente desiderosa di scivolare via. Anche l'altra palla, come se vedesse il pericolo corso dalla sua compagna, salta più in alto di prima, e allunga i salti fino a toccare la mano di Blumfeld. Batte contro la mano, batte con salti sempre più veloci, cambia il punto di partenza dell'attacco; poi, dal momento che non ottiene nulla contro la mano che racchiude completamente la compagna, salta ancora più in alto, e cerca forse di arrivare al viso di Blumfeld. Blumfeld potrebbe acchiappare anche questa palla e rinchiuderle tutte e due in qualche posto, ma per il momento gli sembra troppo umiliante prendere tali misure contro due palline. Inoltre è anche un divertimento possedere due palle simili, abbastanza presto si stancheranno, rotoleranno sotto un armadio e troveranno pace. Nonostante questa riflessione, Blumfeld, in un accesso di collera, scaglia la palla sul pavimento: è un miracolo che non si rompa il fragile involucro di celluloide, quasi trasparente. Senza tregua, le due palle ricominciano i loro precedenti salti bassi, armonizzati.
Blumfeld si spoglia con calma, mette a posto i vestiti nell'armadio, come al solito osserva se la cameriera ha lasciato tutto in ordine. Una o due volte guarda indietro le palle che, non inseguite, ora sembrano loro inseguire lui, gli vanno dietro e ora saltano proprio dietro di lui. Blumfeld si mette la veste da camera e vuole andare a prendere alla parete di fronte una delle pipe che stanno appese lì, su uno scaffale. Prima di girarsi, involontariamente dà un calcio all'indietro, ma le palle riescono a schivarlo e non si lasciano colpire. Quando va a prendere la pipa, le palle subito lo accompagnano, strascica i piedi con le pantofole, fa passi irregolari, eppure, senza tregua, ogni volta che poggia il piede a terra, segue un colpo delle palle che tengono il suo passo. Blumfeld si volta all'improvviso per vedere che cosa combinano le palle. Ma, appena si volta, le palle tracciano un semicerchio e sono già dietro di lui e questo si ripete, ogni volta che si gira. Come accompagnatrici sottomesse, esse cercano di evitare di trovarsi davanti a Blumfeld. Fino a quel momento hanno osato farlo, così sembra, solo per presentarsi, ma ora sono già entrate in servizio. Fino ad ora, in tutti i rari casi in cui la sua forza bastava a dominare la situazione, Blumfeld ha sempre scelto il sistema di fare come se non notasse nulla. Spesso questo lo ha aiutato e, nella maggior parte dei casi, almeno migliora la situazione. Anche allora quindi si comporta in tal modo, si ferma davanti al ripiano delle pipe, con le labbra rivolte all'insù sceglie una pipa, la riempie in modo particolarmente accurato attingendo dall'apposita borsa del tabacco e incurante lascia che le palle dietro di lui facciano i loro salti. Solo, indugia nell'andare verso il tavolo, e soffre quasi nell'udire il sincronismo dei salti e dei suoi propri passi. Così rimane fermo, riempie la pipa più di quanto non sia necessario e verifica la distanza che lo divide dal tavolo. Alla fine vince la sua esitazione e copre la distanza pestando a tal punto i piedi da non udire più le palle. Quando si siede, esse stanno di nuovo saltando dietro la sua sedia, percepibili come prima.
Sopra il tavolo, a portata di mano, è fissata alla parete una mensola sulla quale sta l'acquavite di ciliege circondata da piccoli bicchierini. Vicino c'è un pacco di riviste francesi. (Proprio oggi è arrivato un nuovo numero e Blumfeld lo prende. Si dimentica del tutto dell'acquavite, e ha la sensazione che oggi, solo per consolazione, non si lascia intralciare nelle sue abituali occupazioni, non ha neppure una vera voglia di leggere. In contrasto con la sua solita abitudine di sfogliare pagina per pagina, apre il fascicolo in un punto qualsiasi e lì trova una grande immagine. Si costringe a guardarla attentamente. Vi è raffigurato l'incontro tra l'imperatore della Russia e il presidente della Francia. Esso si tiene su una nave. Tutt'intorno, fino a perdersi in lontananza, ci sono ancora molte altre navi, il fumo dei loro fumaioli si volatilizza nel cielo chiaro. Entrambi, l'imperatore e il presidente, si sono corsi incontro a lunghi passi e si stringono le mani. Dietro all'imperatore, come dietro al presidente, stanno due signori. Rispetto all'espressione gioiosa dell'imperatore e del presidente, le espressioni degli accompagnatori sono molto serie, gli sguardi di ogni gruppo di accompagnatori sono congiunti sul loro sovrano. Più in giù, l'avvenimento chiaramente si svolge sul ponte di coperta più alto della nave, stanno, tagliate dall'orlo delle figure, lunghe schiere di marinai che salutano. Blumfeld a poco a poco studia quell'immagine con più partecipazione, poi la tiene un poco lontano e la guarda con gli occhi ammiccanti. Ha sempre avuto molto interesse per tali scene imponenti. Trova molto veritiero il fatto che i protagonisti si stringano le mani reciprocamente in modo così naturale, cordiale e spensierato. Come pure è giusto che gli accompagnatori — del resto personaggi molto in vista, i cui nomi sono segnati in basso - custodiscano nel loro atteggiamento la gravità dello storico evento).
Invece di prendere tutto ciò che gli serve, Blumfeld resta seduto in silenzio e osserva il fornello della pipa, sempre non ancora acceso. Egli sta in agguato; improvvisamente il suo stare irrigidito, in modo del tutto inatteso, cede e, con uno strattone, egli si volta con la sedia. Ma anche le palle sono ugualmente attente, seguono senza pensarci la legge che le governa; nello stesso momento in cui Blumfeld si gira, cambiano anch'esse il loro posto e si nascondono dietro le sue spalle. Ora Blumfeld sta seduto con le spalle rivolte verso il tavolo, la pipa fredda nella mano. Le palle ora saltano sotto il tavolo e, poiché lì c'è un tappeto, si sentono solo un poco. È un grande sollievo, si sentono rumori cupi molto flebili, si deve fare molta attenzione per percepirli con l'orecchio. Blumfeld in ogni modo è molto attento e li sente perfettamente. Ma solo per adesso, tra un momento forse non le sentirà più. Che sui tappeti esse si possano far sentire così poco, sembra a Blumfeld essere un grande limite delle palle. Bisogna solo mettere uno, o, ancor meglio, due tappeti ed esse sono subito impotenti. Comunque solo per un tempo determinato, tanto più che il loro esserci già significa una certa potenza.
Ora a Blumfeld servirebbe un cane; una bestia giovane, selvaggia la spunterebbe presto con le palle; egli si figura come il cane cerca di acchiapparle con le zampe, come le manda via dal loro posto, come dà loro la caccia in lungo e in largo attraverso la stanza e infine le prende fra i denti. È senz'altro possibile che Blumfeld prenda presto un cane.
Per adesso però le palle devono aver paura solo di Blumfeld e lui non ha nessuna voglia di distruggerle, forse gli manca solo la forza di decidere. Di sera arriva stanco dal lavoro e ora che ha bisogno di pace gli si prepara questa sorpresa. Solo adesso sente quanto sia effettivamente stanco. Distruggerà certo quelle palle e molto presto, ma non per adesso e forse solo domani. D'altronde le palle si comportano abbastanza discretamente, se si valuta il tutto senza pregiudizi. Per esempio, esse potrebbero di tanto in tanto saltare in avanti, mostrarsi e ritornare al loro posto, o potrebbero saltare più in alto, per battere sulla superficie del tavolo e rifarsi dello smorzamento del rumore causato dal tappeto. Ma non lo fanno, non vogliono provocare inutilmente Blumfeld, si limitano in modo evidente solo allo stretto necessario. Comunque anche quello stretto necessario è sufficiente a rovinare a Blumfeld il suo indugiare al tavolo. Siede lì solo da un paio di minuti e già pensa di andare a dormire. Una delle ragioni di ciò è anche il fatto che lì non può fumare, perché ha lasciato i fiammiferi sul comodino. Dovrebbe prendere i fiammiferi, ma una volta presso il comodino sarebbe meglio restare lì e mettersi a letto. Ha anche un'altra perplessità, infatti crede che le palle, nella loro cieca brama di stargli sempre alle spalle, salteranno sul letto e che lì, quando si coricherà, le schiaccerà, volente o nolente. Rifiuta la obiezione che anche quello che resterebbe delle palle potrebbe saltare. Anche ciò che è strano deve avere dei limiti. Palle intere saltano anche normalmente, anche se non ininterrottamente, al contrario frammenti di palle non saltano mai, e quindi, anche in quel caso, non saltano.
«Su!», esclama, reso quasi spavaldo da questa riflessione e va con passo pesante verso il letto, sempre con le palle dietro di lui. La sua speranza sembra attuarsi; come egli si mette di proposito accanto al letto, subito una delle palle salta sul letto. Diversamente da ciò che egli si aspettava, l'altra palla va sotto il letto. Alla possibilità che le palle potessero saltare anche sotto il letto, Blumfeld non aveva proprio pensato. È sdegnato nei confronti di quest'ultima palla, benché senta come sia ingiusto, dal momento che la palla, col saltare sotto il letto, assolve al suo compito forse meglio della palla sul letto. Ora tutto dipende da ciò, per quale posto le palle si decidano, dal momento che Blumfeld non crede che esse possano lavorare a lungo divise. Ed effettivamente, un attimo dopo anche la palla di sotto salta sul letto. Ora le ho in pugno, pensa Blumfeld, rosso di gioia, e si toglie di dosso la veste da camera per gettarsi nel letto. Ma proprio allora la stessa palla salta di nuovo sotto il letto. Deluso oltremodo, Blumfeld crolla, stramazza letteralmente. Verosimilmente la palla si è soltanto guardata intorno e quello che ha visto non le è piaciuto. E ora anche l'altra la segue e naturalmente rimane sotto, perché sotto è meglio. 'Ora avrò questo tamburino tutta la notte', pensa Blumfeld, annuendo e mordendosi le labbra.
Egli è triste, senza sapere in fondo in che modo le palle gli potrebbero nuocere durante la notte. Il suo sonno è ottimo, sopporterà facilmente quel piccolo rumore. Per essere certissimo di ciò, mette sotto di loro due tappeti, secondo l'esperienza acquisita. È come se avesse un cagnolino che vuole far dormire sul morbido. E, come se anche le palle fossero stanche e avessero sonno, anche i loro salti sono più bassi e lenti di prima. Quando Blumfeld si inginocchia davanti al letto e fa luce con la lampada da notte, crede che le palle giaceranno tutto il tempo sui tappeti, tanto debolmente cadono, tanto lentamente si rotolano per un pezzettino. In ogni modo poi si risollevano a dovere. È però facilmente possibile che Blumfeld, quando di buon ora guardi sotto il letto, vi trovi due palle per bambini tranquille e inoffensive.
Ma esse sembrano non riuscire a sopportare i salti neppure fino al mattino, perché Blumfeld appena si mette a letto, non le sente più. Si applica per sentire, ascolta attentamente, si sporge in avanti sul letto — nessun rumore. Poiché i tappeti non possono avere questo effetto, l'unica spiegazione è che le palle non saltano più, o non possono rimbalzare a sufficienza sui soffici tappeti e perciò hanno rinunciato per il momento a saltare, o, il che è più probabile, non salteranno mai più. Blumfeld potrebbe alzarsi e verificare come stanno veramente le cose, ma nella contentezza che finalmente vi sia pace, rimane volentieri a letto, non vuole avere a che fare neppure con lo sguardo con le palle che stanno quiete. Rinuncia volentieri persino al fumo, si gira da un lato e subito prende sonno.
Ma non era tranquillo; come sempre anche questa volta il suo sonno è senza sogni, ma molto agitato. Numerose volte di notte sobbalza perché gli sembra che qualcuno bussi alla porta. Sa per certo che nessuno bussa; chi dovrebbe bussare di notte e alla sua porta, alla porta di uno scapolo solo! Ma, sebbene lo sappia per certo, ogni volta sobbalza e guarda ansiosamente verso la porta, la bocca aperta, gli occhi sbarrati e le ciocche di capelli scompigliate sulla fronte bagnata. Fa il tentativo di contare quante volte si sveglia; ma, tramortito dallo straordinario numero di volte che ne risulta, ricade nel sonno. Cerca di rendersi conto da dove provenga quel bussare, non proviene dalla porta, ma da tutt'altra parte, però nella confusione del sonno non riesce a ricordare su cosa si basino le sue supposizioni. Egli sa solo che si riuniscono molti debolissimi odiosi colpi, prima di produrre il grosso bussare forte.
Al mattino lo sveglia il bussare della cameriera, egli accoglie con un sospiro quel bussare piano, di cui si era sempre lamentato perché non lo si sentiva, e sta per gridare «Avanti!», quando sente un altro intenso bussare, certo debole, ma per così dire guerresco. Sono le palle sotto il letto. Si sono svegliate; al contrario di lui hanno raccolto nuove forze durante la notte? «Subito!», grida Blumfeld alla cameriera, salta dal letto, ma con accortezza così da tenere dietro di sé le palle, si lancia a terra, sempre con le spalle rivolte ad esse, guarda verso le palle con la testa girata e - potrebbe quasi imprecare. Come bambini che di notte scostano le coperte fastidiose, le palle, forse con piccoli spasmi proseguiti durante l'intera notte, si sono portate fuori dai tappeti sotto il letto così da avere sotto di loro il parquet nudo e da poter far rumore. «Indietro, sui tappeti!», dice Blumfeld con la faccia cattiva e, solo quando le palle grazie ai tappeti ritornano silenziose, chiama dentro la cameriera. Mentre questa, una donna grassa, stupida, che cammina sempre diritta, poggia sul tavolo la prima colazione e fa un paio di faccende che sono necessarie, Blumfeld se ne sta immobile nella veste da camera presso il suo letto per tenere a bada le palle lì sotto. Egli segue con lo sguardo la cameriera per accertarsi se ella noti qualcosa. Ciò è molto improbabile a causa della sua sordità e Blumfeld ascrive al suo sovreccitamento causato dal sonno agitato, il credere di vedere che la cameriera ogni tanto si ferma qua e là, si appoggia a un mobile e origlia con le sopracciglia alzate. Sarebbe contento se potesse costringere la cameriera a fare più in fretta il suo lavoro, ma lei è quasi più lenta del normale. In modo meticoloso si incarica del vestito e degli stivali di Blumfeld e se ne va nel corridoio dove resta a lungo, monotoni e isolati risuonano i colpi con i quali fuori sbatte i vestiti. E, durante tutto quel tempo, Blumfeld deve resistere presso il letto, non deve muoversi se non vuole portarsi dietro le palle, deve lasciar raffreddare il caffè che beve volentieri possibilmente caldo e non può fare nient'altro che guardare fisso la tendina della finestra abbassata, dietro alla quale spunta il giorno nuvoloso. Finalmente la cameriera ha finito, augura il buon giorno e sta per andarsene. Ma prima di allontanarsi definitivamente resta ancora sulla porta, muove un poco le labbra e osserva a lungo Blumfeld. Blumfeld sta per rivolgerle la parola, ma ella se ne va definitivamente. Blumfeld più di tutto vorrebbe spalancare la porta e gridarle che è una donna ottusa, vecchia, stupida. Ma poi pensa a cosa in effetti abbia da ridire nei suoi confronti, trova solo che è insensato che lei senza dubbio non si era accorta di nulla e voleva darsi le arie come se si fosse accorta di qualcosa. Come sono ingarbugliati i suoi pensieri! E solo per una notte trascorsa così male! Trova una piccola spiegazione per aver dormito così male nel fatto che ieri sera ha deviato dalle sue abitudini, non ha fumato, né ha bevuto acquavite. Quando non fumo e non bevo acquavite - questa è la conclusione delle sue considerazioni - dormo male.
D'ora in poi, baderà di più al suo benessere e inizierà con questo, prenderà dalla cassetta delle medicine, che è appesa sopra il comodino, l'ovatta e si metterà due batuffoli di ovatta nelle orecchie. Allora si alza e fa un passo di prova. Le palle lo seguono, ma quasi non le sente, un altro rifornimento ancora di ovatta le rende del tutto impercepibili. Blumfeld fa ancora qualche passo, procede senza particolare fastidio. Ognuno per sé, Blumfeld e le palle, sono certo reciprocamente incalzati, ma non si importunano a vicenda. Solo quando a un certo momento Blumfeld si gira più velocemente e una palla non riesce a fare abbastanza in fretta il movimento contrario, Blumfeld la colpisce col ginocchio. È l'unica volta, per il resto Blumfeld beve tranquillamente il caffè, ha fame, come se quella notte non avesse dormito, ma avesse percorso una lunga strada, si lava con l'acqua fredda molto rinfrescante, e si veste. Fino a quel momento non ha tirato su le tende, ma per prudenza ha preferito rimanere nella penombra, per le palle non ha bisogno di occhi estranei. Ma ora che è pronto per andar via, deve in qualche modo occuparsi delle palle per l'eventualità che dovessero osare - non lo crede - seguirlo anche sulla strada. Ha una buona idea, apre il grosso armadio dei vestiti e vi si mette davanti dando ad esso le spalle. Come se avessero un presentimento di ciò che stava succedendo, le palle si tengono lontane dalla cavità dell'armadio, adoperando quello spazietto che rimane tra Blumfeld e l'armadio e, se non c'è altro da fare, saltano per un attimo dentro l'armadio, ma subito a causa del buio fuggono di nuovo fuori, non si fanno condurre oltre il margine dell'armadio, preferiscono venir meno al loro dovere e tenersi quasi al fianco di Blumfeld. Ma i loro piccoli stratagemmi non le potranno più aiutare, perché ora Blumfeld stesso sale all'indietro nell'armadio ed esse devono in ogni modo seguirlo. Ma con questo si è deciso di esse, perché sul fondo dell'armadio giacciono diversi piccoli oggetti, come stivali, scatole, una piccola valigia, certo tutte le cose sono molto in ordine — adesso Blumfeld se ne dispiace -, ma pure sono d'impedimento alle palle. E quando Blumfeld, che nel frattempo ha quasi tirato la porta dell'armadio, con un gran salto come non ne faceva da anni, lascia l'armadio, spinge la porta e gira la chiave, le palle sono imprigionate. «Ci sono riuscito», pensa Blumfeld e si asciuga il sudore dalla faccia. Che rumore fanno le palle nell'armadio! Si ha l'impressione che siano disperate. Blumfeld al contrario è molto contento. Abbandona la stanza e già il corridoio gli fa un benefico effetto. Si libera le orecchie dal cotone e i molti rumori della casa al risveglio lo incantano. Si vedono ancora poche persone, è ancora molto presto. Giù nell'ingresso davanti alla porta bassa, dalla quale si va nell'interrato della cameriera, c'è un ragazzino di dieci anni. Il ritratto di sua madre, nessuna bruttezza della vecchia è stata dimenticata in quel volto di bambino. Se ne sta lì con le gambe storte, le mani nelle tasche dei pantaloni e sbuffa perché già ora ha il gozzo e respira a fatica. Ma mentre di solito Blumfeld, quando si trova sulla via quel ragazzo, affretta il passo per evitarsi il più possibile quello spettacolo, oggi potrebbe voler quasi fermarsi con lui. Anche se quel ragazzo è stato messo al mondo da quella donna e porta tutti i segni della sua origine, per il momento è pur sempre un bambino, in quella testa deforme ci sono pur sempre pensieri di bambino, quando gli si rivolgesse la parola in modo comprensibile e gli si chiedesse qualcosa, pure risponderebbe con voce squillante innocente e rispettosa, e con un certo sforzo di volontà lo si potrebbe anche accarezzare sulle guance. Così pensa Blumfeld, ma cammina oltre. Per la strada si accorge che il tempo è più benevolo di quanto abbia immaginato nella sua stanza. Le nebbie del mattino si diradano e compaiono pezzi azzurri di cielo spazzato da un forte vento. Blumfeld deve alle palle se è uscito dalla stanza molto più presto del solito, ha persino dimenticato sul tavolo il giornale senza leggerlo, comunque in tal modo ha guadagnato tempo e ora può andare piano piano. È strano quanto poco si preoccupi delle palle ora che se ne è separato. Fino a quando stavano dietro di lui si potevano considerare come qualcosa che gli appartenesse, come qualcosa che bisognasse comunque tirare in ballo nella valutazione della sua persona, ora al contrario esse sono soltanto un giocattolo nell'armadio a casa. E allora Blumfeld pensa di rendere le palle definitivamente innocue riconsegnandole proprio alla loro funzione. Lì nell'ingresso c'è ancora il ragazzo, Blumfeld regalerà a lui le palle, e certo non gliele darà in prestito, ma gliele regalerà proprio, il che equivale a dire con l'ordine di distruggerle. E anche se dovessero restare intatte, nelle mani del ragazzo significheranno ancor meno che nell'armadio, l'intero palazzo vedrà come il ragazzo gioca con esse, si uniranno al gioco altri bambini, l'opinione generale che si tratti di palle da gioco e non di accompagnatrici della vita di Blumfeld sarà inconfutabile e ferma. Blumfeld torna a casa di corsa. Proprio in quell'istante il ragazzo ha disceso le scale dell'interrato e sta per aprire la porta. Blumfeld deve chiamare il ragazzo e pronunciarne il nome che è ridicolo come tutto ciò che ha a che fare con quel ragazzo. «Alfred, Alfred», grida. Il ragazzo indugia a lungo. «Su, vieni», dice Blumfeld, «ti dò una cosa». Le due ragazzine del portinaio sono uscite dalla porta che sta di fronte e si vanno a mettere incuriosite a destra e a sinistra di Blumfeld. Sono molto più perspicaci del ragazzo e non capiscono perché questi non venga subito. Gli fanno dei cenni senza perdere di vista Blumfeld, ma non riescono a indovinare quale regalo tocchi ad Alfred. La curiosità le tormenta e saltellano da un piede all'altro. Blumfeld ride di loro come del ragazzo. Questi finalmente sembra aver capito e risale le scale, rigido e lento. Non smentisce neppure nell'andatura la madre, che adesso compare laggiù alla porta dell'interrato. Blumfeld grida forte perché possa sentire anche la cameriera e sorvegliare, se dovesse essere necessario, l'esecuzione del suo ordine. «Su in camera, ho due belle palle, le vuoi tu?». Il ragazzo storce la bocca, non sa come comportarsi, si gira e guarda la madre in modo interrogativo. Le ragazzine cominciano subito a saltare intorno a Blumfeld chiedendo le palle. «Anche voi potrete giocarci», dice Blumfeld, aspettando però la risposta del ragazzo. Potrebbe regalare le palle anche alle ragazzine, ma gli sembrano troppo sventate e perciò ha più fiducia nel ragazzo. Questi nel frattempo, senza scambiare una parola, ha chiesto consiglio alla madre e, alla nuova domanda di Blumfeld, fa un cenno di sì con la testa. «Allora fa attenzione», dice Blumfeld, dimenticando volentieri che non sarà ringraziato per il suo regalo, «la chiave della mia stanza ce l'ha tua madre, te la fai prestare da lei, ecco qui la chiave dell'armadio e nell'armadio ci sono le palle. Dopo, richiudi con cura l'armadio e la stanza. Puoi fare quello che vuoi con le palle e non devi restituirmele. Mi hai capito?». Ma il ragazzo purtroppo non ha capito. Blumfeld ha tentato di rendere tutto chiaro a quell'essere illimitatamente ottuso, ma proprio a causa di questo suo intento, ha ripetuto ogni cosa troppe volte, ha parlato troppe volte di chiavi, ora di camera e di armadio così che il ragazzo lo fissa non più come suo benefattore, ma come un tentatore. Le ragazzine invece hanno subito capito tutto, fanno ressa intorno a Blumfeld tendendo le mani per la chiave. «Aspettate», dice Blumfeld che comincia ad arrabbiarsi per tutto. Il tempo trascorre, non può trattenersi più a lungo. Che almeno la cameriera dicesse infine che ha capito e che si occuperà di tutto lei per il ragazzo! Ma, al contrario, se ne sta sempre sulla porta, sorride in modo affettato, come timidamente fanno i sordi, e forse crede che lassù Blumfeld sia andato improvvisamente in visibilio per il suo ragazzo e gli faccia ripetere la tavola pitagorica. Blumfeld non può scendere le scale dell'interrato e gridare all'orecchio della cameriera la sua richiesta, che il ragazzo, per carità di Dio, lo liberi da quelle palle. Ha tentato per un giorno intero in tutti i modi di consegnare a quella famiglia la chiave dell'armadio. Non per risparmiarsi vuole dare la chiave al ragazzo, invece di accompagnarlo lui stesso e lì dargli le palle. Ma lì non può regalargliele, infatti, come certamente accadrebbe, subito le riprenderebbe al ragazzo, visto che le attirerebbe dietro di sé come séguito. «Non mi hai ancora capito?», chiede ormai quasi malinconicamente, dopo aver cominciato una nuova spiegazione, ma si interrompe subito davanti allo sguardo vuoto del ragazzo. Un simile sguardo vuoto rende inermi. Potrebbe far dire più di quanto non si voglia, solo per colmare di senno quel vuoto.
«Prendiamo noi le palle», gridano le ragazzine. Sono scaltre, si sono rese conto di poter avere le palle solo attraverso la mediazione del ragazzo e che però devono anche mettere in atto questa mediazione. Dalla stanza del portiere suona l'orologio ricordando a Blumfeld che deve affrettarsi. «Allora prendete la chiave», dice Blumfeld e mentre la sta per dare gli viene strappata dalle mani. La sicurezza con la quale avrebbe dato la chiave al ragazzo sarebbe stata incomparabilmente maggiore. «La chiave della stanza prendetela laggiù dalla signora», dice ancora Blumfeld «e quando ritornate con le palle dovete dare tutte e due le chiavi alla signora». «Sì, sì», esclamano le ragazzine e corrono giù per le scale. Sanno tutto, proprio tutto e Blumfeld, come contagiato dall'ottusità del ragazzo, non capisce lui stesso come abbiano potuto apprendere tutto così in fretta dalle sue spiegazioni.
Ora laggiù stanno già tirando la cameriera per la gonna, ma Blumfeld non può restare a guardare più a lungo, per quanto la cosa possa essere allettante, come porteranno a termine il loro compito, e certo non solo perché è già tardi, ma anche perché non vuole essere presente quando le palle verranno all'aperto. Anzi vuole essere già lontano di alcune strade quando le ragazzine lassù apriranno la porta della sua stanza. Non sa infatti cosa debba aspettarsi ancora dalle palle. Così esce all'aperto per la seconda volta in quella mattina. Ha visto ancora la cameriera resistere alle ragazzine e il ragazzo muovere le gambe storte per andare in aiuto della madre. Blumfeld non capisce proprio perché al mondo nascano e si riproducano persone come la cameriera.
Sulla via della fabbrica di biancheria nella quale Blumfeld è impiegato, i pensieri del lavoro a poco a poco prendono il sopravvento su tutto il resto. La sua andatura diventa più veloce e, nonostante il ritardo, di cui è responsabile il ragazzo, egli è il primo in ufficio. L'ufficio è una stanza chiusa con vetri, contiene una scrivania per Blumfeld e due scrittoi per scrivere in piedi per i praticanti sottoposti a Blumfeld. Sebbene questi scrittoi siano piccoli e stretti, come fossero destinati a scolari, pure in quell'ufficio non c'è spazio e i praticanti non possono sedersi perché non ci sarebbe più posto per la sedia di Blumfeld. Così essi stanno tutto il giorno in piedi, chini sui loro scrittoi. Questo di sicuro è molto scomodo per loro e rende anche a Blumfeld più gravoso l'osservarli. Per lo più sono chini sullo scrittoio, zelanti, non per lavorare ma per bisticciare fra loro o magari per appisolarsi. Blumfeld si irrita molto con loro, essi non lo sostengono abbastanza nel lavoro gravoso che gli è inflitto. Questo lavoro consiste in ciò, che egli si occupi di tutto il traffico di merci e di denaro con le lavoratrici a domicilio che sono ingaggiate dalla fabbrica per la produzione di certi capi più raffinati. Per poter valutare la mole di questo lavoro bisogna avere una visione precisa dell'intero apparato. Ma nessuno ha più questa visione da alcuni anni, da quando è morto l'immediato superiore di Blumfeld, perciò Blumfeld non può riconoscere a nessuno la legittimità di giudizio sul suo lavoro. Per esempio, il fabbricante, signor Ottomar, sottovaluta chiaramente il lavoro di Blumfeld, riconosce certo i meriti che Blumfeld si è guadagnati nella fabbrica nel corso di vent'anni, e li riconosce non solo perché deve, ma anche perché stima Blumfeld come uomo fedele e degno di fiducia, — ma sottovaluta il suo lavoro, ritiene infatti che potrebbe essere organizzato in maniera più semplice e quindi in ogni senso più vantaggiosa di come Io gestisce Blumfeld. Si dice, ed è credibile, che Ottomar si presenti tanto raramente nel reparto di Blumfeld solo per risparmiarsi l'irritazione che gli causa la vista dei metodi di lavoro di Blumfeld. Certo è triste per Blumfeld essere così misconosciuto, ma non c'è niente da fare, non può certo convincere Ottomar a rimanere, per esempio, per un mese, nel reparto di Blumfeld a studiare le varie procedure per smaltire il lavoro, ad applicare i suoi metodi, secondo quello che si dice, migliori, e a lasciarsi persuadere della ragione di Blumfeld, davanti allo sfacelo del reparto che ne sarebbe per forza seguito. Perciò Blumfeld svolge il suo lavoro irremovibile come sempre, si spaventa un poco quando, all'improvviso, dopo molto tempo, fa la sua comparsa Ottomar, fa un debole tentativo, per quel senso del dovere del subordinato, di chiarire a Ottomar questa o quella procedura, alla quale questi annuisce in silenzio e passa oltre con gli occhi bassi, e si addolora non tanto per questo misconoscimento quanto al pensiero che, quando verrà il momento in cui dovrà lasciare il suo posto, la immediata conseguenza di tutto questo sarà un grande caos che nessuno riuscirà a risolvere, perché egli non conosce nessuno nella fabbrica che possa sostituirlo e prendere il suo posto in modo da evitare all'azienda almeno per qualche mese i più gravi ristagni. Se il principale sottovaluta qualcuno, gli impiegati cercano per quanto è possibile di superarlo in questo. Perciò tutti sottovalutano il lavoro di Blumfeld, nessuno ritiene necessario per la propria formazione lavorare per un certo periodo nel reparto di Blumfeld, e, quando vengono assunti nuovi impiegati, nessuno chiede spontaneamente di essere assegnato al reparto di Blumfeld. Di conseguenza nel reparto di Blumfeld mancano le nuove leve. Ci furono settimane di aspra lotta, quando Blumfeld, che fino a quel momento si era occupato di tutto da solo nel reparto, coadiuvato soltanto da un inserviente, richiese l'assunzione di un praticante. Quasi ogni giorno Blumfeld compariva nell'ufficio di Ottomar e gli illustrava dettagliatamente e pacatamente perché nel suo reparto fosse necessario un praticante. Era indispensabile non già perché Blumfeld volesse risparmiarsi, egli non voleva affatto risparmiarsi, già si accollava una parte del lavoro sovrabbondante e non aveva intenzione di smettere, ma il signor Ottomar doveva considerare quanto gli affari si fossero sviluppati nel corso del tempo, come si fossero parallelamente ingranditi i reparti, solo il reparto di Blumfeld era stato sempre dimenticato. E come proprio lì il lavoro si fosse accresciuto! Quando Blumfeld era stato assunto, il signor Ottomar non poteva certo ricordarsi di quei tempi, si aveva a che fare con circa dieci cucitrici, oggi il loro numero oscilla tra cinquanta e sessanta. Un tale lavoro esige energie, Blumfeld può assicurare di consumarsi totalmente per il lavoro, ma d'ora in poi non può più garantire di compierlo totalmente. Ora, il signor Ottomar non aveva mai respinto la richiesta di Blumfeld, non poteva farlo di fronte a un vecchio impiegato, ma quel modo di ascoltarlo appena, di parlare con altra gente oltre che con Blumfeld che faceva la sua richiesta, di fare mezze promesse, di dimenticare tutto in pochi giorni, - quel modo era proprio offensivo. Non tanto per Blumfeld, Blumfeld non è un fantasticone, e per quanto siano belli onori e riconoscimenti, Blumfeld può rinunciarvi, nonostante tutto rimarrà al suo posto fino a quando è possibile, comunque è nel giusto, e la ragione deve alla fine ottenere un riconoscimento, anche se a volte tardivamente. Infatti anche Blumfeld alla fine ha ottenuto addirittura due praticanti, e che praticanti! Si sarebbe potuto credere che Ottomar si fosse proposto di mostrare il suo disprezzo per il reparto più chiaramente con la concessione di siffatti praticanti che con il rifiuto della richiesta. Ed era persino possibile che Ottomar avesse tenuto a bada Blumfeld così a lungo per cercare due praticanti siffatti, senza riuscire a trovarli, il che è comprensibile. Ora Blumfeld non poteva lamentarsi; la risposta era da prevedere, aveva ottenuto due praticanti, mentre ne aveva chiesto uno solo; si era così compiuto tutto quello che Ottomar si era proposto. Naturalmente Blumfeld si lamentava, ma solo perché ve lo costringeva il suo stato di necessità, non perché sperasse ancora in qualche rimedio. Inoltre non si lamentava direttamente, ma in via secondaria, quando si dava l'occasione adatta. Ciò nonostante, tra i colleghi malevoli si sparse la voce che qualcuno avesse chiesto a Ottomar come mai Blumfeld, che ora aveva ottenuto un così straordinario ausilio, continuasse a lamentarsi. A ciò Ottomar avrebbe risposto che era vero, Blumfeld si lamentava ancora, ma a ragione. Egli, Ottomar, alla fine aveva capito ed aveva deciso di assegnare a Blumfeld via via, per ogni cucitrice, un praticante, quindi in tutto una sessantina. Ma se anche questi non fossero bastati, ne avrebbe mandati di più, e non avrebbe smesso finché non fosse stato al completo quel manicomio che già da anni era diventato il reparto di Blumfeld. Ora, in questa osservazione era ben imitato il modo di parlare di Ottomar, ma lui, di questo Blumfeld non dubitava, era ben lontano dal pronunciarsi così su Blumfeld, anche solo in modo simile. Il tutto era un'invenzione dei fannulloni del primo piano dell'ufficio, Blumfeld ci passava sopra, — aveva potuto tranquillamente passare sopra anche alla presenza dei praticanti! Questi invece erano lì, e non si potevano più mandar via. Ragazzi smorti, deboli. Secondo i loro documenti, dovevano aver già superato l'età dell'obbligo scolastico, in realtà si poteva non crederlo. Anzi, non li si sarebbe neppure potuti affidare ad un maestro, tanto chiaramente avevano ancora bisogno della mamma. Non erano neanche capaci di muoversi giudiziosamente, lo stare in piedi a lungo li affaticava moltissimo, soprattutto nei primi tempi. Se non venivano osservati, per la loro fiacchezza si piegavano, se ne stavano sbilenchi e ricurvi in un angolo. Blumfeld cercava di far capire loro che sarebbero diventati storpi per tutta la vita, se si fossero sempre lasciati andare all'indolenza. Era pericoloso incaricare i praticanti di un piccolo movimento, una volta uno di loro doveva portare qualcosa solo un paio di passi più in là, si era affrettato con troppa sollecitudine e si era ferito un ginocchio contro lo scrittoio. La stanza era piena di lavoratrici, gli scrittoi pieni di merce, ma Blumfeld aveva dovuto lasciare tutto, accompagnare il praticante piangente in ufficio, e lì fargli una piccola fasciatura. Ma lo zelo dei praticanti era solo esteriore, proprio come i bambini qualche volta volevano mettersi in mostra, ma, ancora più spesso, o meglio quasi sempre, volevano eludere l'attenzione del superiore o ingannarlo. Durante un periodo di grosso lavoro, una volta Blumfeld tutto accaldato si era precipitato da loro e aveva visto come in mezzo alle balle delle merci si scambiavano di nascosto francobolli. Avrebbe voluto prenderli a pugni in testa, per tale comportamento sarebbe stata l'unica punizione possibile, ma erano ragazzi, Blumfeld non poteva certo ammazzare dei ragazzi. Così continuava a tormentarsi con loro. All'inizio aveva immaginato che i praticanti lo avrebbero aiutato in quelle operazioni immediate che al momento della distribuzione delle merci richiedevano molta fatica e attenzione. Aveva pensato che si sarebbe messo nel mezzo, dietro allo scrittoio, che avrebbe tenuto tutto sotto controllo e si sarebbe occupato delle registrazioni, mentre i praticanti sarebbero corsi di qua e di là secondo il suo ordine e avrebbero distribuito ogni cosa. Aveva immaginato che il suo controllo, che per quanto severo non poteva essere sufficiente per una tale ressa, sarebbe stato integrato dall'attenzione dei praticanti e che i praticanti a poco a poco avrebbero raccolto esperienze, non sarebbero ricorsi ai suoi ordini per ogni dettaglio, e infine avrebbero imparato a distinguere le cucitrici l'una dall'altra, relativamente a fabbisogno di merce e affidabilità. Con quei praticanti le sue speranze erano diventate vane e Blumfeld si era subito accorto che non doveva lasciarli parlare con le cucitrici. Infatti, fin dall'inizio, da alcune cucitrici non erano mai andati, perché provavano davanti ad esse antipatia o paura, al contrario ad altre, per le quali avevano predilezione, correvano incontro, spesso fino alla porta. A loro portavano quello che desideravano, consegnandolo loro nelle mani, in una sorta di segretezza, anche quando le cucitrici erano autorizzate a ritirarlo. Per queste predilette raccoglievano in uno scaffale vuoto vari ritagli di stoffa, scampoli senza valore, ma anche cosette ancora utilizzabili, con le quali le salutavano allegramente dietro le spalle di Blumfeld, fin da lontano, e in cambio ricevevano in bocca dei bonbons. Blumfeld comunque mise subito fine a questo disordine e, quando arrivavano le cucitrici, li spingeva nel tramezzo. Essi però la considerarono per molto tempo una grande ingiustizia, mettevano il broncio, spezzavano di proposito le penne, e, qualche volta, senza comunque osare di alzare la testa, bussavano forte al pannello di vetro per richiamare l'attenzione delle cucitrici su quel trattamento malvagio che, secondo loro, subivano da parte di Blumfeld.
Essi non sono in grado di comprendere il torto che fanno. Per esempio, quasi sempre arrivano tardi in ufficio. Blumfeld, il loro superiore che, fin dalla prima giovinezza, ha ritenuto naturale presentarsi almeno una mezz'ora prima dell'inizio del lavoro - non lo spinge ad agire così il voler far carriera, né un esagerato senso del dovere, ma solo un chiaro senso del decoro, — Blumfeld deve aspettare i suoi praticanti anche più di mezz'ora. Egli, masticando il panino della colazione, di solito sta dietro allo scrittoio nella sala e fa la chiusura dei conti nel libretto delle cucitrici. Subito sprofonda nel lavoro e non pensa a nient'altro. Improvvisamente si spaventa tanto che per un momento la penna gli trema nella mano. Un praticante è entrato come una furia e, come se stesse per cadere, si sostiene da qualche parte con una mano, mentre con l'altra si preme il petto penosamente ansimante - ma il tutto non significa niente di più del fatto che sta formulando una scusa per essere arrivato tardi, che è cosi ridicola che Blumfeld fa finta di non sentire, perché se non lo facesse dovrebbe meritatamente prendere a bastonate il ragazzo. Lo guarda solo un momento, gli indica con la mano tesa il tramezzo e si dedica di nuovo al suo lavoro. Ora ci si aspetterebbe che il praticante comprenda la bontà del superiore e che si precipiti al suo posto. No, egli non si affretta, ma ballonzola, va sulla punta dei piedi piano piano. Vuole forse prendere in giro il suo superiore? Nemmeno questo. È soltanto quel miscuglio di paura e di autosufficienza contro il quale si è disarmati. Come spiegare altrimenti che Blumfeld, oggi che è arrivato anche lui insolitamente in ritardo in ufficio, dopo una lunga attesa - non ha alcuna voglia di controllare i libretti — vede, attraverso le nuvole di polvere che lo stupido inserviente solleva con la scopa davanti a lui, vede come i due praticanti sulla strada se ne vengano tranquillamente. Si tengono stretti e sembra che si raccontino l'un l'altro cose importanti, che al più avranno a che fare con l'azienda in modo non lecito. Quanto più si avvicinano alla porta a vetri, tanto più rallentano l'andatura. Infine, uno afferra la maniglia, ma non la abbassa, continuano a parlare tra di loro, ad ascoltarsi e a ridere. «Apra ai nostri signori!» grida con le mani alzate Blumfeld all'inserviente, ma quando i praticanti entrano Blumfeld non ha più voglia di rimproverarli, risponde al loro saluto e va alla sua scrivania. Comincia a fare i conti, ma ogni tanto alza lo sguardo per vedere che cosa fanno i praticanti. Uno sembra molto stanco e si stropiccia gli occhi; dopo aver appeso al chiodo il soprabito, approfitta dell'occasione per restare un po' appoggiato alla parete; sulla strada era arzillo, ma la vicinanza del lavoro Io rende stanco. L'altro praticante, al contrario, ha voglia di mettersi al lavoro, ma solo ad alcuni lavori. Così, da sempre, il suo desiderio è di poter spazzare. Questo, però, è un lavoro che non gli compete, spazzare spetta all'inserviente; in sé e per sé Blumfeld non avrebbe niente in contrario a che il praticante spazzasse, spazzi pure il praticante, non potrà fare peggio dell'inserviente, ma se il praticante vuole spazzare, allora deve venire più presto, prima che l'inserviente cominci a pulire, e non deve utilizzare il tempo durante il quale è obbligato esclusivamente al lavoro di ufficio. Ma se il ragazzo è inaccessibile a qualunque riflessione ragionevole, potrebbe almeno l'inserviente, questo vecchio mezzo cieco che il principale non sopporterebbe in nessun altro reparto se non in quello di Blumfeld, e che vive solo per grazia di Dio e del principale, potrebbe almeno questo inserviente cedere e lasciare per un momento la scopa al ragazzo che, essendo un inetto, perderebbe subito la voglia di spazzare, e correrebbe dietro all'inserviente con la scopa per invitarlo di nuovo a spazzare. Ora, pero, l'inserviente sembra sentirsi particolarmente responsabile della pulizia; si vede come cerca di stringere più forte la scopa con le mani tremanti, non appena gli si avvicina il ragazzo; preferisce restare in silenzio e smettere di spazzare, per indirizzare l'attenzione di tutti sul possesso della scopa. Il praticante non reclama la scopa a parole, perché ha timore di Blumfeld il quale apparentemente fa i conti, inoltre sarebbe inutile parlare normalmente perché dall'inserviente ci si può far capire solo gridando fortissimo. Quindi sulle prime il praticante tira l'inserviente per la manica. Naturalmente l'inserviente sa di che cosa si tratta, guarda torvo il praticante, scuote la testa, e tira a sé la scopa fino al petto. Ora il praticante giunge le mani e prega. Egli comunque non ha nessuna speranza di ottenere qualcosa con le preghiere, il pregare lo diverte soltanto e perciò prega. L'altro praticante accompagna l'avvenimento con una risata contenuta, di certo credendo, anche se inspiegabilmente, che Blumfeld non lo senta. Le preghiere non fanno alcuna impressione all'inserviente; egli si gira e crede di poter usare la scopa in tutta sicurezza. Ma il praticante lo ha seguito saltellando sulla punta dei piedi e, sfregandosi le mani supplichevolmente, ora prega da quell'altra parte. Le giravolte dell'inserviente e il saltellargli dietro del praticante si ripetono più volte. Alla fine l'inserviente si vede bloccato da ogni parte e si accorge, cosa che avrebbe potuto notare fin dall'inizio se solo fosse stato un po' meno semplicione, che si stancherà prima del praticante. Allora cerca aiuto negli altri, minaccia il praticante col dito e indica Blumfeld, dal quale andrà a lamentarsi se il praticante non la smette. Il praticante sa che ora, se vuole prendersi la scopa, deve affrettarsi, impertinente allunga le mani sulla scopa. Un improvviso grido dell'altro praticante preannuncia l'imminente risoluzione. Ancora una volta l'inserviente salva la scopa facendo un passo all'indietro e serrandola, ma il praticante non demorde, lo incalza, con la bocca aperta e gli occhi brillanti salta in avanti, l'inserviente vorrebbe scappare, ma le sue vecchie gambe invece di correre tremano, il praticante comincia a tirare la scopa e, anche se non la prende, riesce a farla cadere, così che per l'inserviente è perduta. Ma, in ogni caso, come sembra, anche per il praticante, perché, alla caduta della scopa, tutti e tre rimangono di stucco, i praticanti e l'inserviente, perché ora Blumfeld si accorgerà di tutto. In effetti Blumfeld alza gli occhi al finestrino del tramezzo come se si accorgesse soltanto adesso di tutto, severo e inquisitore prende in considerazione ognuno, non gli sfugge neppure la scopa per terra. Sia che il silenzio duri troppo a lungo, sia che il praticante colpevole non riesca a reprimere il desiderio di spazzare, in ogni caso egli si piega, comunque con molta accortezza, come se dovesse prendere un animale anziché una scopa, prende la scopa, la passa sul pavimento, ma la getta via subito spaventato, quando Blumfeld salta in piedi ed esce dal tramezzo. «Tutti e due al lavoro, e non fiatate più!», grida Blumfeld e indica con la mano tesa ai due praticanti il percorso verso i loro scrittoi. Essi subito ubbidiscono, ma non già vergognandosi e a testa bassa, piuttosto passano dritti davanti a Blumfeld, e lo guardano fisso negli occhi, come se volessero trattenerlo dal colpirli. Eppure avrebbero dovuto imparare a sufficienza dall'esperienza che per principio Blumfeld non picchia mai. Ma essi sono molto paurosi e senza alcuna delicatezza cercano sempre di far valere i loro diritti reali o apparenti.